ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Tra (dis)proporzionalità e (in)efficienza, un nuovo giudizio immediato (art. 72-bis c.p.a.) per la giustizia amministrativa
di Rosanna De Nictolis
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Presupposti e ambito. Le cause suscettibili di “immediata definizione”: solo in rito o anche in merito? solo per questioni di rito che non consentono già l’utilizzo del decreto monocratico? - 3. Rilevazione delle cause di immediata definizione. - 4. I termini del rito: rito cautelare ex art. 55 c.p.a.; applicabilità del rito camerale ex art. 87 c.p.a.? Necessità o meno dell’istanza di fissazione dell’udienza. - 5. I termini per gli atti di parte, assenza di repliche, discussione orale, rinvio della causa e termini a difesa. - 6. Il rilievo d’ufficio delle questioni di rito. - 7. La fissazione dell’udienza pubblica per le cause non definibili in rito. - 8. La decisione in forma semplificata. - 9. Conclusioni.
1. Introduzione
L’art. 72-bis c.p.a., introdotto dalla l. 6.8.2021 n. 113 in sede di conversione del d.l. 9.6.2021 n. 80, ha frettolosamente creato un nuovo rito immediato privo di adeguata ponderazione, che costituisce una sorta di obbrobrio giuridico destinato a restare, come altre norme processuali, un istituto meramente astratto, per la sua scarsissima utilità e praticabilità, oltre che sovrapposizione e contraddizione con altri istituti vigenti e collaudati.
Si prevede, in estrema sintesi, un processo in camera di consiglio, che si svolge con gli stessi termini dell’incidente cautelare, per definire con sentenza in forma semplificata le cause suscettibili di “immediata definizione”, ma solo “in rito”.
2. Presupposti e ambito. Le cause suscettibili di “immediata definizione”: solo in rito o anche in merito? solo per questioni di rito che non consentono già l’utilizzo del decreto monocratico?
Il presupposto operativo del nuovo rito è che vi siano ricorsi suscettibili di “immediata definizione”: un concetto giuridico del tutto indeterminato, di cui non si chiarisce la differenza o la identità con le “situazioni manifeste” descritte dall’art. 74 quali presupposto per la decisione con sentenza in forma semplificata.
Sicché il primo dubbio giuridico è se la “immediata definizione” costituisca o meno una categoria autonoma rispetto alle fattispecie dell’art. 74 c.p.a.
La risposta è che non vi è perfetta coincidenza tra le situazioni di immediata definizione ai sensi dell’art. 72-bis e le situazioni manifeste dell’art. 74 c.p.a.
Infatti l’art. 74 c.p.a. fa riferimento a situazioni manifeste sia in rito che in merito.
Invece, l’art. 72-bis, pur sembrando nel suo incipit ipotizzare che la definizione immediata possa afferire sia al rito che al merito, in realtà nella sua successiva narrazione cambia strada e fa riferimento solo alla definizione in rito. Infatti, a fronte di cause suscettibili di immediata definizione, viene fissata una udienza in camera di consiglio in cui, se si verifica che la causa “non è definibile in rito”, va fissata una ulteriore udienza pubblica. Quindi, una eventuale situazione manifesta nel merito, non può costituire il presupposto per tale tipo di giudizio immediato.
Sarebbe perciò logico attendersi che a fronte di una causa suscettibile di “immediata definizione nel merito”, essa non venga affatto fissata per un giudizio immediato camerale: perché sarebbe attività superflua, posto che la norma ordina che se la causa non è definibile in rito, occorre fissare una udienza pubblica. Sicché fissare una udienza camerale, al solo fine di fissare una successiva udienza pubblica, sarebbe un inutile dispendio di tempo e attività processuali di segreterie, giudici e difensori. Né si può pensare di dare una interpretazione diversa alla norma, nel senso che anche cause suscettibili di immediata definizione in merito potrebbero essere decise con il rito camerale: la norma letteralmente non lo consente, laddove perentoriamente afferma che “se la causa non è definibile in rito, il collegio con ordinanza fissa la data dell’udienza pubblica”, e le deroghe alle forme e ai termini dell’udienza pubblica devono essere ritenute di stretta interpretazione.
Tra le ragioni di merito di pronta definizione, e che tuttavia non ricadono nell’ambito dell’art. 72-bis c.p.a. che si riferisce solo alle definizioni in rito, rientra la cessazione della materia del contendere, che per volere dei compilatori del c.p.a., rientra tra le sentenze di merito (art. 34 c. 5 c.p.a.), e pertanto non può essere pronunciata con decreto monocratico (art. 85 c.p.a. che si riferisce solo a pronunce di rito dell’art. 35 c.p.a.).
Tra le ragioni di rito che consentono la immediata definizione in una udienza camerale, poi, vanno escluse, per evidenti ragioni di economia processuale, quelle ragioni di rito che già consentono la definizione con decreto monocratico fuori udienza.
Avuto riguardo alle pronunce di rito di cui all’art. 35 c.p.a., le ragioni di improcedibilità di cui all’art. 35, c. 1, lett. c), c.p.a., e le ragioni di estinzione di cui all’art. 35, c. 2, c.p.a., già consentono la definizione con decreto monocratico (art. 85 c.p.a.).
Per cui sarebbe del tutto dispendioso fissare una udienza collegiale.
Ancora, la stessa l. n. 113/2021, mediante novella dell’art. 79 c.p.a., ha consentito, anzi imposto, che l’interruzione del processo sia dichiarata con decreto presidenziale, quindi fuori udienza. Quindi anche l’interruzione del processo è una questione di rito che esula dall’ambito dell’art. 72-bis c.p.a., non necessitando di trattazione in udienza.
Residuano, quindi, i casi di irricevibilità e inammissibilità di cui all’art. 35, c. 1, lett. a) e b) c.p.a.
L’irricevibilità comprende i casi di tardiva notifica e di tardivo deposito del ricorso.
L’inammissibilità comprende, a titolo esemplificativo, i casi di difetto di legittimazione ad agire, difetto originario di interesse o di contraddittorio, difetto di giurisdizione, difetto di competenza,
Peraltro, non sembra esservi perfetta equivalenza tra questione di rito e immediata definizione.
Il fatto che un ricorso possa apparire irricevibile o inammissibile non significa necessariamente che la questione sia di “immediata definizione”.
Invero, il concetto di “immediata definizione” che, come si è detto, è un concetto giuridico indeterminato, rievoca casi di causa “liquida”, di “pronta definizione” perché vi sia una situazione “manifesta”, come afferma già l’art. 74 c.p.a.
Ci sono cause in cui la affermazione della irricevibilità o inammissibilità del ricorso esige la soluzione di questioni controverse, e la causa di rito è tutt’altro che manifesta.
E’ evidente che un conto è il caso, quasi del tutto di scuola, in cui il ricorso sia tardivo perché manifestamente fuori termine, un conto è il caso in cui per affermarsi la irricevibilità occorre affrontare complesse questioni in fatto e in diritto su quale sia l’atto lesivo e la sua data di conoscenza, al fine del decorso del termine di ricorso.
O si pensi alla questione di rito, rimessa alla Plenaria, se in materia edilizia la c.d. vicinitas sia titolo sia di legittimazione e interesse ad agire, o di sola legittimazione ad agire. Non pare che una ragione di rito di questo tipo possa integrare un caso di “immediata definizione”.
E tuttavia, tale esegesi, che parrebbe logica, di ritenere che il giudizio immediato si giustifica solo a fronte di situazioni di rito “manifeste”, appare contraddetta dallo stesso art. 72-bis c.p.a.: esso infatti prevede che all’udienza camerale, la questione di rito che non sia eccepita da una parte, viene rilevata d’ufficio e sottoposta al contraddittorio delle parti. Nel caso in cui la questione di rito sia di “particolare complessità” va concesso alle parti un termine a difesa per memorie.
Ma una questione di rito “di particolare complessità” sembra contraddire al presupposto della suscettibilità della causa di una “definizione immediata”.
Dunque la norma parrebbe dire che il giudizio immediato si deve celebrare ogni volta che vi sia una questione di rito, anche se di “particolare complessità”. Ma con tale esegesi, si pongono seri dubbi di costituzionalità dell’intero impianto dell’art. 72-bis: perché la strozzatura dei termini ordinari di fissazione dell’udienza, dei termini ordinari per il deposito di documenti, memorie e repliche, può giustificarsi, senza sacrificio del diritto di difesa, solo a fronte di situazioni manifeste, non a fronte di situazioni di “particolare complessità”.
E dunque una esegesi costituzionalmente orientata impone di ritenere che il presupposto applicativo della disposizione è che vi sia una questione di rito di pronta e agevole soluzione.
Il riferimento a questioni di “particolare complessità” va allora spiegato nel senso che una questione che all’ufficio del processo e al presidente pareva “semplice”, a seguito delle deduzioni di parte si è rivelata “complessa”.
A conclusione di tale disamina, dunque, si può affermare, quanto ai presupposti applicativi dell’art. 72-bis c.p.a., che esso ha un ambito ben più ridotto di quello cui potrebbe far pensare la sua rubrica; i casi di “immediata definizione”:
a) riguardano solo questioni di immediata definizione in rito, e non nel merito, con esclusione persino del caso di cessazione della materia del contendere (che dà luogo a una sentenza di merito e non di rito);
b) nell’ambito delle questioni di rito, riguardano solo i casi di irricevibilità e inammissibilità, e non anche gli altri motivi di rito elencati nell’art. 35 c.p.a. che consentono la definizione con decreto monocratico, e nemmeno il caso in cui occorre dichiarare l’interruzione del processo, posto che in virtù del novellato art. 79 c.p.a. la interruzione si dichiara con decreto presidenziale;
c) nell’ambito dei casi di irricevibilità e inammissibilità, si deve trattare di casi “manifesti” e non di casi in cui la irricevibilità o inammissibilità consegua a un complesso ragionamento in fatto e/o in diritto.
3. Rilevazione delle cause di immediata definizione
L’art. 72-bis introduce nel c.p.a. inediti aspetti organizzativi. Precisa infatti che l’iniziativa di fissare le cause suscettibili di immediata definizione spetta al Presidente.
Ma aggiunge, “anche a seguito della segnalazione dell’ufficio del processo”.
In tal modo, si introduce in una norma processuale un aspetto organizzativo interno, per di più facendo riferimento a una entità organizzativa, “l’ufficio del processo” di cui il codice presuppone l’esistenza senza definirlo.
Ma ciò che appare distonico è aver inserito in una norma processuale la definizione dei compiti di un ufficio interno. Nella pratica giudiziaria le cause da fissare in udienza vengono selezionate dai presidenti con l’apporto collaborativo delle segreterie, ma nessuna disposizione del c.p.a. ha mai specificato in una norma che il presidente procede anche su segnalazione delle segreterie. Si tratta di profili organizzativi interni che non hanno nessuna necessità di essere introdotti in una norma processuale.
Tanto più che l’averlo ora fatto per l’ufficio del processo, posto che le norme devono avere un significato utile, fa interrogare sulle possibili conseguenze, processuali e non, della mancata fissazione in udienza, da parte del Presidente, di cause che siano state “segnalate” dall’ufficio del processo, come suscettibili di immediata definizione.
Il che apre un tema di grandissima serietà, che è quello della idoneità professionale ed esperenziale di un ufficio del processo a individuare cause di immediata definizione, assolvendo a un compito tipicamente magistratuale di studio delle cause, che semmai andrebbe assegnato ad una sezione “filtro”, composta di giudici, come esistente in Corte di cassazione. Laddove l’ufficio del processo si compone di non magistrati, e peraltro è destinato ad essere “potenziato” (ammesso che di potenziamento possa parlarsi) con la partecipazione di neolaureati assunti a tempo determinato per non oltre 30 mesi (d.l. n. 80/2021).
E’ da ritenere che la “segnalazione dell’ufficio del processo” non escluda il vaglio critico del presidente, che ben potrà ritenere che cause segnalate non siano di immediata definizione, e dunque non fissarle in udienza.
4. I termini del rito: rito cautelare ex art. 55 c.p.a.; applicabilità del rito camerale ex art. 87 c.p.a.? Necessità o meno dell’istanza di fissazione dell’udienza
I termini del rito sono di fatto coincidenti con quelli dell’incidente cautelare, anche se l’art. 55 c.p.a. non è richiamato. I ricorsi suscettibili di immediata definizione sono fissati alla prima camera di consiglio utile, che è quella successiva al ventesimo giorno dal perfezionamento, anche per il destinatario, dell’ultima notificazione, e altresì, al decimo giorno dal deposito del ricorso. Come nel rito cautelare, le parti possono depositare memorie e documenti fino a due giorni liberi prima della camera di consiglio.
Sono dunque introdotti, per un giudizio di merito, i termini dell’incidente cautelare.
Inoltre, si deroga all’udienza pubblica e si prevede una udienza in camera di consiglio.
Il che fa interrogare sul se debbano o meno essere rispettati tutti gli altri termini previsti dall’art. 87 c.p.a. per i riti camerali.
La risposta sembra essere negativa.
Anzitutto, l’art. 87 c.p.a., pur menzionando, tra i riti camerali, anche quello cautelare, disciplina i termini solo dei riti camerali diversi da quello cautelare.
E, come si è detto, l’art. 72-bis segue il modello del rito cautelare.
In secondo luogo, l’art. 87 c.p.a. fa riferimento a riti camerali che sono tali ab initio (silenzio, accesso, ottemperanza, questioni di giurisdizione), perché ci sono norme specifiche che per determinate materie prevedono i riti camerali.
Non è questo il caso dell’art. 72-bis, che ipotizza un rito camerale ex post per qualunque materia, ove risulti che la causa sia suscettibile di immediata definizione. Sicché le parti, al momento della notifica e deposito del ricorso, non possono stabilire se si tratti di materia soggetta a rito camerale o meno.
Ciò detto, non si può escludere che i presupposti dell’art. 72-bis si verifichino in relazione a ricorsi che già ex ante seguono il rito camerale (silenzi, accessi, ottemperanze, etc.), e in tal caso ci si chiede se sia necessario fissare la causa con i tempi dell’art. 72-bis piuttosto che con quelli dell’art. 87 c.p.a.
Così come, ci si deve chiedere se l’art. 72-bis debba essere applicato se il presupposto della immediata definizione riguardi una causa in cui ci sia anche domanda cautelare, e che dunque va fissata alla prima udienza utile ex art. 55 c.p.a. coincidente esattamente con quella ex art. 72-bis. E’ da ritenere che in tale ipotesi prevalga l’art. 55 c.p.a. sull’art. 72-bis, e che quindi la causa vada fissata per la fase cautelare, e in sede cautelare ben si potrà addivenire a una sentenza immediata, nel ricorrere dei presupposti dell’art. 60 c.p.a.
Ulteriore questione che l’art. 72-bis c.p.a. fa sorgere è se i termini di cui all’art. 72-bis c.p.a. si applichino a qualsiasi causa, comprese quelle che per legge sono sottoposte a termini dimezzati (riti camerali ex art. 87 c.p.a., contenzioso elettorale, artt. 119 e 120 c.p.a.), ovvero se in tali ulteriori cause i termini dell’art. 72-bis c.p.a. debbano subire un ulteriore dimezzamento.
Sembra da ritenere, ma solo per ragioni di buon senso, e non strettamente giuridiche, che i termini dell’art. 72-bis si applichino in qualunque rito, senza ulteriori dimezzamenti. Non è tuttavia una soluzione giuridica agevole, perché l’art. 87 c.p.a., l’art. 119, l’art. 120 c.p.a. prevedono il dimezzamento di “tutti i termini processuali” e, quindi, potrebbe opinarsi, anche quelli di cui all’art. 72-bis c.p.a.
Posto che viene previsto un rito camerale, sembra applicabile anche la deroga, prevista per i riti camerali, alla necessità di una istanza di fissazione di udienza.
Quindi, sembrerebbe che la causa di immediata definizione possa essere portata in udienza anche se non c’è una istanza di fissazione di udienza. Il che pone un ulteriore problema quando il collegio ritenga che la causa non sia definibile in rito, e fissa l’udienza pubblica.
Fin qui, i dubbi di tipo giuridico che la tempistica del nuovo rito pone.
Ma si pongono ben più consistenti dubbi di agibilità pratica della previsione: essa ipotizza che le cause “nuove” man mano che sopraggiungono, possono essere fissate alla prima udienza utile, il che significa nell’arco di un mese circa dal deposito del ricorso.
Ma tale prescrizione si scontra con la realtà organizzativa concreta dai ruoli di udienza, come imposta dalle regole processuali: infatti, secondo il c.p.a., nel rito ordinario l’avviso di udienza va dato alle parti almeno sessanta giorni prima dell’udienza stessa, e nei riti speciali almeno trenta giorni prima. Il che implica che le cause vengono calendarizzate con un anticipo ben maggiore di quello ipotizzato dall’art. 72-bis c.p.a., sicché quando si verifica il presupposto applicativo dell’art. 72-bis c.p.a., i ruoli delle udienze di merito sono già pieni, e diventa non praticabile calendarizzare ulteriori cause. Tanto, avuto riguardo ai “vincoli interni” imposti dall’Organo di autogoverno, sul numero massimo di affari assegnabili ad udienza per ciascun magistrato.
Va poi considerato che in media almeno il 60% delle cause sono corredate di domanda cautelare, quindi vengono già fissate in una udienza camerale con i tempi dell’art. 55 c.p.a. coincidente con i tempi dell’art. 72-bis c.p.a.
Nel residuo 40% di affari di merito privi di domanda cautelare, il numero di cause suscettibili di immediata definizione in rito, rispetto al totale, è una percentuale del tutto esigua, che per la sua esiguità non giustifica la elaborazione di un rito specifico. Sarebbe bastato prevedere una nuova causa di priorità nella trattazione dei ricorsi, per quelli suscettibili di immediata definizione in rito. O bastava ampliare l’ambito applicativo del già vigente, e ampiamente disapplicato, art. 72 c.p.a. che prevede la fissazione prioritaria dei ricorsi “su questione unica”.
5. I termini per gli atti di parte, assenza di repliche, discussione orale, rinvio della causa e termini a difesa
Come nel rito cautelare, le parti possono depositare memorie e documenti fino a due giorni liberi prima della camera di consiglio.
Nonostante si tratti di un giudizio di merito, sembra soppressa la possibilità di depositare repliche, posto che c’è un termine unico e uguale per tutte le parti, per il deposito di memorie e documenti. E se tale deposito avviene a ridosso dell’ultimo momento utile, le controparti non hanno la pratica possibilità di depositare in tempo una replica.
Il contraddittorio scritto è pertanto molto strozzato, e potrà essere compensato solo dalla discussione orale o dalla possibilità di chiedere il rinvio della causa.
Quanto alla discussione orale, trattandosi di rito camerale, deve trovare applicazione l’art. 87, c. 3, c.p.a., secondo cui nella camera di consiglio sono sentiti i difensori che ne fanno richiesta.
Quanto al rinvio, viene stabilito che può essere chiesto e concesso solo per “eccezionali motivi”.
La previsione dà adito a serie perplessità sotto il profilo della tutela del contraddittorio, perché mal si concilia con la previsione dell’art. 60 c.p.a. relativo alla sentenza immediata in esito alla udienza cautelare, che incontra un limite nella esplicita richiesta di parte di termine a difesa per la proposizione di motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza, regolamento di giurisdizione.
Ci si chiede se tra gli “eccezionali motivi” i redattori dell’art. 72-bis c.p.a. abbiano o meno inteso includere il caso di richiesta di rinvio per termini a difesa per attività processuali che rientrano tra i diritti processuali delle parti.
E, invero, considerati i tempi di fissazione dell’udienza camerale di cui all’art. 72-bis c.p.a., alla data della udienza verosimilmente sono ancora in corso, nella normalità dei casi, i termini per ricorso incidentale, motivi aggiunti, regolamento di competenza e giurisdizione. Sicché, a ben vedere, la richiesta di rinvio per termini a difesa rischia di essere la regola, e non l’eccezione.
Posto che delle norme va data una interpretazione costituzionalmente orientata, si deve ritenere che tra gli eccezionali motivi che giustificano il rinvio rientrano a pieno titolo i casi di richiesta di termini a difesa, senza che il giudice possa compiere alcun vaglio prognostico sulla ammissibilità e utilità in relazione a motivi aggiunti, ricorso incidentale, etc. E’ da ritenere che basti l’istanza di parte di rinvio per tali esigenze, a rendere doveroso il rinvio.
La previsione sul rinvio per eccezionali motivi dà adito a perplessità anche di ordine formale e sistematico. I compilatori dell’art. 72-bis hanno evidentemente obliterato che essi stessi hanno contemporaneamente novellato l’art. 73 c.p.a., con l’introduzione del c. 1-bis che in termini generali ora afferma che “il rinvio della trattazione della causa è disposto solo per casi eccezionali” (che sono riportati nel verbale di udienza ovvero, se il rinvio è disposto fuori udienza, nel decreto presidenziale che dispone il rinvio).
Ci si chiede se ci sia una differenza tra gli “eccezionali motivi” dell’art. 72-bis e i “casi eccezionali” dell’art. 73, c. 1-bis. A lume di buon senso, non c’è nessuna differenza, ma ci si chiede perché due norme coeve, collocate in un medesimo articolo di legge, per disciplinare il medesimo istituto, non solo lo duplichino, ma usino termini diversi, peraltro affidandosi a concetti giuridici indeterminati.
Dunque l’art. 72-bis, ponendosi autoreferenzialmente come microsistema, non fa che clonare una previsione già introdotta in termini generali nell’art. 73 c.p.a.
Trattandosi poi di una clonazione solo parziale, resta il dubbio esegetico se anche nel caso di rinvio accordato ai sensi dell’art. 72-bis, occorra applicare la regola ulteriore, indicata nell’art. 73, c. 1-bis, che le ragioni del rinvio vanno riportare nel verbale di udienza o nel decreto presidenziale che dispone il rinvio fuori udienza. E la risposta dovrebbe essere senz’altro affermativa.
Se il rinvio è concesso, la causa va fissata secondo l’art. 72-bis c.p.a., “alla prima camera di consiglio utile successiva”. In tal caso, la prima camera di consiglio “utile” va intesa non in termini di “calendario delle udienze” come prima udienza di calendario immediatamente successiva, ma come prima udienza “utile” dopo il termine necessario per garantire le esigenze della difesa. In caso di rinvio per motivi aggiunti o ricorso incidentale, ad es., occorrerà rispettare i termini pieni del codice per notifica e deposito di motivi aggiunti o ricorso incidentale, e per il deposito delle conseguenti memorie e repliche, e la prima udienza utile sarà solo quella successiva all’espletamento pieno delle attività difensive.
Va infatti ribadito che per tali attività non vi è alcun dimezzamento di termini, se si tratta di cause che seguono il rito ordinario, perché il procedimento dell’art. 72-bis c.p.a., al di fuori dei termini stringati per la fissazione della udienza camerale, non prevede né consente in via esegetica alcun altro dimezzamento dei termini processuali assegnati alle parti.
Sulle modalità del rinvio, deve segnalarsi una ulteriore differenza foriera di dubbi esegetici tra l’art. 72-bis e l’art. 73, c. 1-bis. L’art. 72-bis si preoccupa di indicare a quando si fa il rinvio (la prima camera di consiglio utile). L’art. 73, c. 1-bis, pur ammettendo la possibilità di rinvio in casi eccezionali, nulla dice sulla data del rinvio, lasciando adito al dubbio che il rinvio possa farsi sia a data fissa che a data da destinarsi. Ma un rinvio a data da destinarsi sarebbe un aggiramento del neointrodotto divieto di cancellazione della causa dal ruolo, contenuto nel medesimo art. 73, c. 1-bis, unitamente alla regola sulla eccezionalità del rinvio. Peraltro, lo stesso divieto di cancellazione dal ruolo, è stato introdotto dimenticando che di cancellazione della causa dal ruolo continua a esistere nell’art. 71 c.p.a. Una abrogazione espressa dell’inciso contenuto nell’art. 71 c.p.a. sarebbe stato un serio contributo al dovere di chiarezza delle norme processuali.
6. Il rilievo d’ufficio delle questioni di rito
Il presupposto della “immediata definizione” della causa è, come si è detto, l’esistenza di una questione di rito, circoscritta ai casi di irricevibilità o inammissibilità del ricorso, che siano manifesti.
Nella normalità dei casi, vi sarà già una eccezione di parte.
E questo è il caso più semplice in cui la causa può essere effettivamente definita nella camera di consiglio fissata allo scopo.
Diverso è il caso in cui il presidente abbia fissato la causa alla camera di consiglio ritenendo d’ufficio che vi sia una possibilità di definizione in rito.
In questo caso, infatti, occorre assicurare il contraddittorio delle parti sulla questione di rito, in ossequio al divieto delle sentenze “a sorpresa”, divieto sotteso al già vigente art. 73 c. 3 c.p.a.
L’art. 73 c. 3 c.p.a. già prevede un meccanismo per sottoporre a contraddittorio delle parti una questione rilevata d’ufficio. Esso ipotizza la sottoposizione della questione alle parti in udienza, dando ad esse solo il contraddittorio orale, anche se nella prassi talora si consentono, nei casi più complessi, termini a difesa, dopo aver rilevato la questione in udienza. Sempre l’art. 73 c. 3 c.p.a. impone il contraddittorio scritto solo se la questione d’ufficio emerge solo dopo il passaggio della causa in decisione. In tal caso la decisione viene riservata e alle parti è assegnato un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie.
Da tale meccanismo si discosta l’art. 72-bis c.p.a., prevedendo, oltre che il rilievo d’ufficio della questione in udienza, il contraddittorio scritto come obbligatorio nei casi di particolare complessità, sempre su questione rilevata in udienza. Ma con un termine inferiore a quello dell’art. 73 c. 3 c.p.a., non più trenta giorni, ma solo venti giorni. E con la precisazione che in tal caso la sola camera di consiglio decisoria (ossia la riunione dei soli giudici) è differita alla scadenza del termine assegnato, ma non occorre una nuova udienza camerale con la partecipazione delle parti.
Il meccanismo ipotizzato dall’art. 72-bis c.p.a. appare processualmente preferibile a quello ipotizzato dall’art. 73 c. 3 c.p.a.
Come si è detto, l’art. 73 c. 3 c.p.a. non prevede la possibilità di contraddittorio scritto se la questione di rito è rilevata d’ufficio in udienza: le parti sono tenute a “improvvisare” la discussione. Solo in via di prassi non scritta, nei casi più complessi il collegio assegna un termine a difesa, rinviando non solo la decisione, ma anche l’udienza. Il meccanismo di cui all’art. 73 c. 3 c.p.a. si discosta dal modello processuale contenuto nel c.p.c. all’art. 101 c. 2, c.p.c., che al contrario prevede sempre l’assegnazione di un termine a difesa anche quando la questione è rilevata d’ufficio in udienza alla presenza delle parti.
La soluzione recata dall’art. 72-bis c.p.a. appare una “via di mezzo” tra il modello dell’art. 101 c. 2 c.p.c. (contraddittorio scritto sempre), e quello dell’art. 73 c. 3 c.p.a. (contraddittorio scritto mai, se la questione è rilevata in udienza), consentendo, in una logica di bilanciamento, un solo contraddittorio orale nei casi semplici, e l’ammissione del contraddittorio scritto nei casi “di particolare complessità” della questione sollevata.
Tuttavia, non ha alcun senso far coesistere nel c.p.a. due meccanismi differenti di contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio, uno nell’art. 72-bis c.p.a. e uno nell’art. 73, c. 3 c.p.a. Bisognava semplicemente sostituire, mediante novella, la norma recata nell’art. 73 c. 3 c.p.a., anziché duplicarla.
7. La fissazione dell’udienza pubblica per le cause non definibili in rito
Dispone l’art. 72-bis c. 2 che “se la causa non è definibile in rito, il collegio con ordinanza fissa la data dell’udienza pubblica”.
Si è già osservato che da tale norma si desume che il presupposto della possibilità di “immediata definizione” della causa va circoscritto alle questioni di rito. Invece le questioni di merito, quand’anche la causa appaia nel merito “manifestamente” fondata o infondata, non giustificano la fissazione di una udienza camerale. Sarebbe un inutile dispendio di tempi e attività processuali, fissare una udienza camerale in cui il collegio dovrebbe limitarsi a rilevare che la causa va decisa nel merito, e fissare una udienza pubblica.
Ma la norma in commento ha anche un ulteriore significato, anche avuto riguardo alla sua collocazione subito dopo la previsione secondo cui la questione di rito viene sottoposta al contraddittorio delle parti.
Può accadere che il Collegio, sia autonomamente, sia dopo aver sottoposto la questione di rito al contraddittorio delle parti, si convinca che la questione di rito non sia fondata, e che la causa vada decisa nel merito.
In tal caso, il rito va convertito e la causa va trattata in udienza pubblica.
La disposizione prevede che in tale evenienza il Collegio “con ordinanza fissa la data dell’udienza pubblica”.
La prima questione che si pone, già accennata, è se l’udienza pubblica possa essere fissata anche se non c’è istanza di parte di fissazione dell’udienza.
Si è detto che nella prima fase del rito, camerale, sembra non necessaria l’istanza di fissazione dell’udienza. Ma se si converte il rito da camerale a udienza pubblica, non vi sono ragioni per derogare alla regola che occorre istanza di parte di fissazione di udienza.
Quindi, presupposto implicito della possibilità per il Collegio di fissare la data dell’udienza pubblica, è che vi sia una istanza di parte di fissazione dell’udienza.
In mancanza, l’ordinanza si dovrà limitare a ritenere la causa non definibile in rito e a rimetterla sul ruolo delle cause in attesa di fissazione.
Occorre poi interrogarsi sul contenuto di tale ordinanza: la stessa non può infatti limitarsi a fissare la data dell’udienza pubblica, dovendo invece anche dare conto del presupposto della conversione del rito da camerale a pubblico e del rinvio della trattazione. Il presupposto è che “la causa non è definibile in rito”.
Occorre chiedersi quale sia la natura e l’effetto di una ordinanza che affermi che “la causa non è definibile in rito”.
Potrebbe infatti trattarsi di una decisione “parziale” sul rito, che quindi affronta la questione di rito con attitudine al giudicato. E in tal caso, al di là del nomen iuris, si tratta di una sentenza parziale, suscettibile, se resa in primo grado, di appello immediato o di riserva di appello.
Ovvero, l’ordinanza collegiale potrebbe più genericamente limitarsi ad affermare che non ricorre una situazione manifesta per definire la causa in rito, senza pronunciarsi sulla questione di rito in modo definitivo, e rinviando ad un approfondimento nell’udienza pubblica, oltre che del merito, anche del rito.
In questo caso, l’ordinanza non decide la questione di rito, e non preclude che nella successiva udienza pubblica la causa possa avere, a seguito di maggiore approfondimento, un esito in rito invece che in merito.
La previsione dell’art. 72-bis sulla ordinanza che fissa l’udienza pubblica se il collegio ritiene che la causa non è definibile in rito, è troppo vaga e generica per consentire all’interprete di optare per una delle due soluzioni sopra viste. E siccome la realtà concreta è più complessa e variegata di quanto la norma possa immaginare e contenere, e siccome l’art. 72-bis non pregiudica in alcun modo i poteri valutativi che altre norme processuali attribuiscono al collegio, è da ritenere che entrambe le soluzioni siano praticabili. Sia quella di una sentenza parziale che respinge la questione di rito con attitudine al giudicato, e conseguente appellabilità, sia quella di una ordinanza che rinvia all’udienza pubblica la decisione sia in rito che in merito, limitandosi ad affermare che la causa non è definibile in rito con immediatezza, senza alcun pregiudizio per una decisione in rito all’esito di un esame più approfondito in udienza pubblica.
Nel primo caso, la decisione è appellabile, perché definisce la questione di rito con attitudine al giudicato.
Nel secondo caso, la decisione non è appellabile, perché non definisce la questione di rito, ma si limita ad affermare che la stessa non è di agevole definizione in udienza camerale.
8. La decisione in forma semplificata
L’art. 72-bis c.p.a. si conclude con la perentoria affermazione che “in ogni caso la decisione è adottata con sentenza in forma semplificata”.
Dato che la previsione non indica il contenuto della decisione in forma semplificata, si deve ritenere che faccia implicito rinvio all’art. 74 c.p.a. che indica la “tecnica di redazione” della sentenza in forma semplificata.
Meno chiaro è l’ambito applicativo della sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 72-bis c.p.a. Occorre attribuire significato all’inciso “in ogni caso”.
Ci si chiede se la previsione si riferisca solo ai casi in cui la causa è decisa in udienza camerale. Perché solo per una decisione “immediata” di una causa di “pronta definizione” si giustifica la sentenza in forma semplificata.
O se invece la previsione si riferisca pure ai casi in cui il Collegio ritiene che la causa non è definibile in rito, e quindi dispone il rinvio della causa per trattazione in pubblica udienza.
Il dubbio esegetico si pone a causa della collocazione sistematica della previsione. Infatti, l’art. 72-bis prima stabilisce che se la causa non è definibile in rito, il collegio fissa la data dell’udienza pubblica. E subito dopo aggiunge “in ogni caso” la decisione è adottata con sentenza in forma semplificata.
Il che potrebbe far pensare che la decisione in forma semplificata si adotta anche nel caso in cui viene fissata l’udienza pubblica.
Ma si tratta di un risultato esegetico illogico e sproporzionato, sicché il criterio della esegesi letterale deve essere superato dal criterio della interpretazione logica e sistematica.
Quindi la decisione in forma semplificata si adotta solo se la causa viene decisa in rito in esito all’udienza camerale, e non se la causa viene rinviata alla pubblica udienza.
9. Conclusioni
Il nuovo rito processuale introdotto dall’art. 72-bis c.p.a. appare, se non addirittura del tutto superfluo, sproporzionato rispetto agli obiettivi.
Le situazioni che intende regolare erano già agevolmente fronteggiabili con gli strumenti processuali vigenti, quali:
1) il decreto monocratico per le questioni di rito consistenti in improcedibilità o estinzione;
2) la sentenza immediata in esito all’udienza cautelare;
3) la fissazione prioritaria dei ricorsi con questione unica;
4) la generalizzata sentenza in forma semplificata nei casi di situazioni manifeste;
5) i numerosissimi riti con termini dimezzati o ulteriormente ridotti, già previsti dal c.p.a.
Sicché si può anche dubitare della sussistenza del duplice presupposto della necessità e urgenza per l’inserimento di tale disposizione in sede di conversione di un decreto legge.
L’art. 72-bis inoltre si pone come una monade nel tessuto del c.p.a., senza un adeguato coordinamento con le altre previsioni, utilizzando concetti giuridici indeterminati e inediti che si sovrappongono ad altre analoghe espressioni del c.p.a., come il concetto di “immediata definizione”, di “eccezionali motivi”, “particolare complessità”.
Ancora, l’art. 72-bis crea un regime differenziato sul contraddittorio sulle questioni rilevabili d’ufficio, rispetto all’art. 73 c. 3 c.p.a., di difficile giustificazione costituzionale, oltre che un regime differenziato sulle modalità del rinvio delle cause, rispetto al neointrodotto art. 73, c. 1-bis.
L’art. 72-bis c.p.a. strozza il contraddittorio su cause di merito, senza una effettiva ragione ed esigenza.
Ancora una volta è stato commesso il comune e ricorrente errore di regolare un ambito dell’ordinamento come se fosse una tabula rasa, senza alcuna memoria storica di ciò che già esiste e con una povera consapevolezza di come ciò che già esiste funziona o non funziona in concreto.
Ancora una volta, è stato commesso il comune e ricorrente errore di affidare a norme processuali pseudo-salvifiche la soluzione del problema dell’arretrato degli uffici giudiziari, che ha invece bisogno di scelte organizzative e non processuali.
Il tutto, poi, senza una adeguata ponderazione e analisi di impatto nella fase di elaborazione della norma, senza alcuna partecipazione e alcuna audizione preventiva degli attori del processo, giudici e avvocati.
Finché si perdura in norme processuali illusorie in una sorta di autoinganno collettivo, non si rende alcun buon servizio né alla macchina processuale né ai cittadini che attendono fiduciosamente una decisione che sia giusta e tempestiva.
La causa. Romanzo di Bruno Capponi
Recensione di Alfredo Storto
“Gli studiosi di problemi giudiziari sanno che per comprendere come funzionano le leggi di procedura bisogna conoscere da vicino la psicologia dei giudici e degli avvocati: solo così ci si accorge che in realtà i pregi o i difetti delle leggi non sono che le virtù o i vizi di coloro che le fanno vivere nella realtà dei processi”.
Così ammoniva Piero Calamandrei nei suoi Appunti sul professionismo parlamentare, pubblicati in Critica sociale del 5 ottobre 1956.
In effetti questa sembra essere l’anima del romanzo di Bruno Capponi, La causa, uscito nel 2019 per i tipi di Novecento editore e dedicato a quell’umanità varia e inesplicabile che popola a vario titolo gli uffici giudiziari civili.
L’esca del racconto è semplice.
Una persona qualunque un bel giorno apprende dall’avvocato del proprio defunto padre che è stata riassunta, cioè riportata in vita nei suoi confronti, una causa intentata nel 1950 contro il genitore e altre centinaia di persone. Apprende inoltre, dal testamento paterno, che questa causa va in qualche modo preservata, che bisogna impedirne l’estinzione, cioè la fine.
Benché consulti l’avvocato e uno zio il quale, pur essendo libero docente dal 1973, non è né avvocato né professore, non riesce a capire chi ha intentato la causa e perché, chi sono le altre parti e per quale ragione il padre teneva tanto alla lite.
Anzi, finisce per spingere involontariamente il povero zio, un’esile creatura rifiutata sia dal foro sia dall’accademia, a frequentare pericolosamente proprio i luoghi dai quali la vita l’aveva tenuto lontano: gli studi d’avvocato (l’uno che esce direttamente da un doloroso passato del docente, l’altro che incarna il topos del professionista senza scrupoli), il tribunale (di Roma in questo caso: il più grande d’Europa), i magistrati e, in particolare, il Presidente.
Per scoprire, infine, che i codici consentono di tenere in vita una causa della quale non si sa nulla e nulla si può sapere perché le carte processuali sono finite al macero e che nei sotterranei del palazzo di giustizia uomini delle istituzioni, che di queste assumono un’amara veste parodistica, cercano ancora un’idea di giustizia e sembrano disposti a farlo anche a costo di sacrificarla.
L’intreccio narrativo a questo punto sembra restituire un dramma.
Ma così non è.
Vale la pena di riannodare qualche filo.
Bruno Capponi qualche anno fa (2015) ha scritto un libro significativamente intitolato Salviamo la giustizia civile. Cosa dobbiamo dare, cosa possiamo chiedere ai nostri giudici. All’esame, accurato e mai noioso, dei mali del processo civile seguiva la petizione ultimativa di un cambiamento copernicano di prassi e mentalità di giudici, di avvocati e di politici, senza il quale presto sarebbe scomparsa l’idea stessa della tutela civile dei diritti. Dalle ultime pagine del volume emergeva tuttavia la disillusione dello studioso e dell’appassionato per un vero mutamento delle cose: troppe poche le risorse umane, intellettuali, materiali; troppa ormai la distanza culturale tra la complessità del processo civile e coloro che se ne occupano.
Da questo epilogo, tratto sul piano scientifico e documentario, nasce la palingenesi letteraria che abbiamo sotto gli occhi. Dal dolore che pervade le pur scorrevoli pagine del saggio, lo scrittore che sgòmita con lo studioso estrae il romanzo, abbandonando nell’impalpabile cosmo dell’invenzione letteraria tutta la zavorra delle regole, del galateo del diritto, del rigore scientifico.
La stessa materia, che lo scultore giuridico aveva faticato a modellare nella sua intollerabile fisicità quotidiana, l’acquerellista letterario recupera con apparente levità, utilizzando gli strumenti a lui consueti del paradosso, dell’ironia e del grottesco. Le figure professionali e umane, che da una parte appaiono inani e grigie, dall’altra si dilatano e si deformano secondo i canoni di una nuovissima persistenza della memoria e, inevitabilmente, si trasformano in altrettanti bozzetti letterari che si muovono senza più tempo né regole sulla concretissima scena del Tribunale di Roma.
Un vero suq il Tribunale di Roma, un labirinto per uomini e donne inghiottiti da una porticina (vera) che qui separa idealmente il mondo di fuori dal vorace stomaco della giustizia civile. Un labirinto nelle cui pieghe più nascoste l’invenzione letteraria immagina siano ospitati i suoi veri generali (presidente, procuratore, militari, perfino un professore) impegnati a dotare di soluzioni accettabili, ancorché spesso fuorilegge, processi che codici e prassi della vita reale hanno trasformato in enigmi e in ingiustizie permanenti, assegnandoli al limbo della non decisione, come altrettanti tragici urobori.
La progressione tra reale e immaginario segna inevitabilmente la scrittura secondo un percorso che costituisce una delle parti più originali del libro.
Innanzitutto, gli istituti giuridici e pratici: la riassunzione, l’estinzione, il convenuto, il primo smistamento, la ricostruzione del fascicolo, lo sfalcio d’archivio, solo per citarne alcuni. Tutto il serissimo campionario lessicale del processo civile perde, pagina dopo pagina, la sua consistenza reale e lievita, attraverso l’artificio della parola letteraria, verso una dimensione ulteriore. Così la causa che, uno degli avvocati del romanzo ammonisce essere cosa con la quale non si scherza, subito dopo si anima secondo le regole dell’incantesimo romanzesco e diventa «lenta, difficile, sinuosa, iterativa, carsica, indolente, infingarda, bugiarda, inattendibile, traditrice, manipolatrice, ulissiaca», come una vera eroina romantica, se non come una divinità pagana dal vindice imprevedibile braccio. E, infatti, secondo una felice progressione antropomorfa, «le cause, il giudice le conosce appena prima di deciderle e quasi sempre le decide senza neppure conoscerle troppo bene», anche perché «le cause civili si muovono da sole, si spostano da udienza a udienza, si accomodano docili nei faldoni, dai faldoni si trasferiscono negli armadietti dei giudici, dagli armadietti scivolano negli archivi delle sezioni, dagli archivi raggiungono i sotterranei e il giudice non si accorge di nulla (…); vangando per il tribunale nel tanto libero che hanno, le cause prendono consistenza, accumulano carte, si scambiano documenti come fossero figurine, si aggiungono parti, figliano, si riuniscono, si accoppiano (…)».
Allo stesso modo, come si è già detto, i protagonisti del processo civile abbandonano i propri panni mondani e vengono consegnati, nella trasfigurazione letteraria, a dimensioni oscillanti tra l’onirico e il grottesco.
È il caso dell’avvocato che ha curato la riassunzione della vecchia causa. Da incerte origini geografiche («calabresi o lucane o molisane – nel tempo le aveva rivendicate tutte, anche parlando con le stesse persone») sortisce un professionista, solitario come un lupo del quale ha lo sguardo e che si dice sia «l’ultima evoluzione della delinquenza forense», il quale non possiede un vero e proprio studio, spesso non compare in mandato, ma può essere utile che assista nei fatti la parte contro la quale ha agito.
Dello zio, creatura giuridica ermafrodita e irrisolta abbiamo già detto, mentre il Presidente del tribunale di Roma, diventatolo per uno sbaglio del Consiglio Superiore della Magistratura, è un vecchio magistrato che ha fatto la gavetta e girato mezza Italia, vivendo «in conventi, alberghi, locande, pensionati, motel, ostelli, affittacamere, campeggi, a casa di amici» e che governa «l’unità di crisi» della giustizia civile che si riunisce, carbonara, nei sotterranei dell’ex caserma di viale Giulio Cesare ai cui piani superiori è ospitato l’Ufficio giudiziario.
Come si è accennato, ciascuno di questi personaggi, al pari degli altri che affollano il romanzo, rinuncia, parola dopo parola, alla propria dimensione reale per diventare il genius loci di una connotazione della giustizia civile che ne delimita a sua volta un vizio: il difensore inadeguato e quello delinquente, il giurista non giurista, il professore di diritto processuale che abita quel non luogo collocato a metà tra filosofia e diritto, il magistrato animato da un sano ed efficiente pragmatismo che forse è solo l’esito di una lucida follia, perfino il colonnello dell’esercito (siamo o no in un’ex caserma?) che, con una geniale pennellata alla Buñuel, impersona il colonnello dell’esercito.
Tra le pieghe di questo campionario, tratteggiato con leggerezza divertita e grondante una saggezza ai confini con la pazzia, forse è la parte più riposta del romanzo. Qui il succo del racconto che evoca le parole di Calamandrei: i vizi e le virtù della legge e, in definitiva, della giustizia, sono nient’altro che il riflesso di quelli degli uomini che la chiedono e la somministrano e che, nel loro vivere curtense tra gli alti muri del diritto, spesso perdono il senso dell’orientamento.
Rimane, alla fine, un interrogativo.
La consapevolezza e la virtù negate alla giustizia amministrata alla luce del sole, possono essere recuperate di notte, nei sotterranei del tribunale dagli stessi protagonisti? In altre parole, il pessimismo dell’Autore, che traspare dalle conclusioni del saggio sulla giustizia civile, potrà essere riscattato col filtro visionario del romanzo?
Se una buona recensione è solo un modo per suscitare interesse, allora al recensore non è consentito altro che lasciar intravedere, com’è in certe vecchie gallerie, fitte di luce nel tunnel dell’ombra.
Cosa ci sia in fondo spetta al lettore scoprirlo. In fin dei conti, è il suo piacevole mestiere.
Sull’inutile, anzi dannosa modifica dell’articolo 9 della Costituzione
di Giuseppe Severini e Paolo Carpentieri
1. La normazione iconica, fatta di solenni enunciazioni di valori impropriamente vestiti con i panni della legge, è per i giuristi una delle afflizioni dei nostri tempi. Rispecchia la pratica semplificatoria dei social media, di cui replica l’impronta riduttiva e ricerca la formula disintermediata. Le motivazioni non sono dissimili. È in realtà una sovra-legificazione proclamatoria di simboli ben più che produttiva di norme. Corrisponde assai poco a un bisogno di diritto: lo denuncia il fatto che si presenta molto assiologica e per nulla tassonomica; non evidenzia infatti la norma agendi per portare a effetti la proclamazione. Corrisponde a una concezione primaria e regressiva della legge, la espunge dalla realtà articolata dell’edificio del diritto per elevarla a prevaricatorio totem comunicazionale. Insomma, è un paludamento autocelebrativo per il legislatore, ma distante da razionalismo e tecnicismo giuridici. Nel generale crollo culturale della classe politica - ormai più usa al post di foto e battute sui social che al ragionamento e alla dialettica -, la normazione iconica esprime come si possa piegare a un uso politico lo strumento più tipico del diritto, deprivandolo del ragionamento giuridico che vi è coessenziale: e al prezzo di intaccare i postulati della sicurezza giuridica su cui invece si basa lo Stato di diritto.
La normazione iconica è dunque per lo più inutile proprio perché non è corredata da autentiche norme e procedure per dar seguito a quella celebrazione di simboli; ma non raramente è anche dannosa, perché genera confusione alterando la preesistente realtà dell’ordinamento.
In questo quadro va considerato quanto sta avvenendo nelle aule parlamentari a proposito dell’art. 9 della Costituzione: articolo di preminente importanza tra i principi fondamentali della Carta – fino ad oggi mai toccati dalla penna del legislatore costituzionale - che ora si vorrebbe alterare, apparentemente arricchendolo di un comma, collegato a una contestuale modifica dell’art. 41, ma in realtà per buona parte stravolgere.
2. Il 9 giugno 2021 il Senato ha approvato, in prima deliberazione, la proposta di legge costituzionale (in un testo unificato: AC 3156) recante "Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente".
La proposta aggiunge un terzo comma all'articolo 9 della Costituzione ([La Repubblica] «Tutela l'ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali») e ne modifica l’articolo 41 (aggiungendo, al secondo comma, che l'iniziativa economica privata non può recare danno «alla salute» e «all’ambiente»; e al terzo comma, che l'attività economica pubblica e privata può essere indirizzata e coordinata a fini anche «ambientali»).
A una prima e superficiale lettura, la proposta, a muovere da queste modifiche all’art. 41, dovrebbe suscitare serie perplessità anzitutto in chi si riferisce ai postulati neoliberisti, nei sostenitori del libero mercato come chiave per risolvere ogni questione, nei convinti del primato del Growth and Development: anche perché nemmeno reca più il riferimento testuale al concetto-valvola dello «sviluppo sostenibile», che pure era previsto in una delle proposte riunite in questo testo unificato; e, circa il danno del secondo comma, non reca l’aggettivo «significativo», che pure il recente Regolamento (UE) 2020/852 del 18 giugno 2020 relativo all’istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili si preoccupa di prevedere, in applicazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, ad evitare che qualsivoglia alterazione ambientale, pur minima, possa rilevare negativamente. Ma non dovrebbe dispiacere a chi ha a cuore e vuol difendere il paesaggio e il patrimonio culturale. In fondo, si potrebbe sostenere, questa modifica opera per addizioni, rafforzando la tutela dell’ambiente: la quale, nel suo amplissimo e onnicomprensivo campo di denotazione, include anche il paesaggio; sicché non vi sarebbero ragioni di dubbio dal lato della tutela dei beni culturali, dei beni paesaggistici e del paesaggio. Ma anche in questo caso, come si è più volte osservato in precedenti contributi, “paesaggio” e “ambiente” divergono, si differenziano ed entrano in conflitto. Conflitto oggi acuito, come diremo, dall’irrompere sulla scena giuridica (e politica) della grande notion di “transizione ecologica”, certo positiva ma in realtà a latitudine indeterminata e specie su questo assai delicato fronte. Di tale generale indeterminatezza è ultima riprova la divergenza di contenuto tra l’indirizzo ricavabile dal recente diritto derivato dell’Unione europea e quello ricavabile dalla più recente posizione italiana attuativa del PNRR (il primo puntando ad ogni intervento a finalità green, cioè ambientale; il secondo, almeno nell’ultima stesura, essenzialmente al contenimento del mutamento climatico).
Di conseguenza, a ben vedere - in disparte l’ingenuità giuridica di diversi patrocinatori - questa proposta, se rapportata all’attuale momento storico e letta alla luce delle pressanti contingenze politiche ed economiche, si manifesta in realtà discutibile e assai pericolosa per la tenuta della tutela del paesaggio italiano. Va infatti a incidere, apparentemente per ridondanza ma in realtà per alterazione, su un sistema che ha una sintesi esemplare nel testo dell’articolo 9, secondo comma: snodo dinamico fondamentale, che ha conferito dignità di principio fondamentaleall’esemplare legislazione generalizzata in Italia a muovere dalla legge Croce del 1922, e la ha proiettata con straordinaria attualità verso sviluppi ulteriori, fecondi di risultati, plasticamente aderenti all’unica e irripetibile specificità dei paesaggi italiani, noti al mondo per bellezza e attrattività ed elemento della stessa identità italiana.
È sì un dato oggettivo che l’art. 9 non usa la parola “ambiente” perché questa, nel senso di equilibrio ecologico, è stata tematizzata solo un quarto di secolo dopo: ma questo non vuol dire affatto che non si tratti di un bene che già ha trovato inequivoca protezione nella stessa Costituzione. I giuristi, dai tempi dei Romani, sanno e insegnano che le norme non risiedono nella sola lettera delle disposizioni ma si ricavano dal loro insieme, e che senza mutare nella lettera si attualizzano con la trasformazione sociale: il diritto non è il mero testo della legge, come una concezione primordiale e arcaica del nómos farebbe intendere. Così, da quando mezzo secolo fa è sorta la questione ambientale, dottrina e giurisprudenza ben presto concordarono che la tutela dell’ambiente possiede già una chiara base costituzionale nella combinazione dell’art. 9 e dell’art. 32 sul diritto alla salute. Il che è dato non meno oggettivo del precedente, proprio perché il diritto non è composto dalla mera littera legis.
È dunque indubbio, per il giurista appena consapevole della realtà dell’ordinamento e che guardi all’effettività costituzionale, un dato giuridico inoppugnabile: la Costituzione, nel testo vigente, già tutela l’ambiente. Lo ribadisce testualmente, del resto, da vent’anni l’art. 117, secondo comma, lett. s), che assegna alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la «tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali». La previsione fu introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, la c.d. riforma del Titolo V: il che non sarebbe stato possibile se non vi fosse stata già una copiosa giurisprudenza costituzionale che, appunto, affermava che la tutela dell’ambiente era già implicitamente presente nella Costituzione (es. Corte cost., n. 238/1982; 210/1987; 641/1987; ecc.).
Sicché oggi l’aggiunta anche testuale, nell’art. 9, della tutela de «l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi» appare anzitutto inutile, perché ripetitiva di un precetto presente e incontestato e dunque produttiva di nessuna autentica utilità: il che già dovrebbe consigliare un legislatore costituzionale minimamente accorto a non turbare, per un nessun valore aggiunto, il valore superiore della sicurezza costituzionale, e massimamente in tema di principi fondamentali. Ma poco sarebbe, se non si dovesse ahimè rilevare che è soprattutto dannosa. E forse non involontariamente dannosa, almeno per certi punti di vista.
Infatti, la dizione proposta, dalla confusa connotazione e dalla vaga denotazione, reca con sé un effetto pratico dirompente, in particolare per un Paese qual è l’Italia: di banalizzare il principio fondamentale della tutela del paesaggio, che pure è così radicato ed essenziale per la percezione generale di quello che già Dante e Petrarca chiamarono il Bel Paese e che ha trovato nell’art. 9 – come icasticamente scrisse Sabino Cassese - la costituzionalizzazione delle teste di capitolo del corpo legislativo precedente il quale – è da sottolineare - corrispondeva alla tradizione culturale e alla coscienza nazionale. La dannosità, insomma, si profila e si concretizza contro il mirabile paesaggio italiano e contro il delicato, prezioso sistema di sua tutela approntato e affinato con accurata sapienza giuridica lungo tutto un secolo: e questo affonda nell’identità e nella cultura dell’Italia al punto che il collegamento tra cultura e paesaggio – la culturalità del paesaggio – modella la sua protezione giuridica e offre la base al riconoscimento della massima dignità costituzionale.
Nella realtà, infatti, non può sfuggire anche al più distratto tra i giuristi che affiancare la tutela dell’ambiente alla tutela del paesaggio della Nazione, significa porre sullo stesso piano, dunque equiordinare nella forma e nella sostanza, l’una nozione e funzione all’altra. L’effetto reale è di dequotare senz’altro, in pratica vanificare, il rilievo del paesaggio e della sua protezione di fronte a nuove opere che si assumono di difesa dell’ambiente-quantità: in pratica, espungendolo dalla primaria e icastica collocazione tra i principi fondamentali della Costituzione ogniqualvolta la sua difesa si ponga in concreto contrasto con la sua alterazione provocata da interventi mitigatori dell’inquinamento e dunque di contrasto al cambiamento climatico: tali o solo asseriti tali che siano. Come dire che – contro ogni ragionevolezza - il vulnus al paesaggio va non più valutato in concreto ma ora, e per categorie generali, presunto in questi casi come senz’altro inesistente.
La consapevolezza di quanto sopra conduce dunque ad un’estrema cautela davanti a una proposta di modifica costituzionale come quella di cui parliamo. In disparte che per diversi Autori la modifica costituzionale non può giungere a toccare il testo dei principi fondamentali della Costituzione (questo sarebbe il primo caso), la domanda di fondo è se la configurazione materiale e visibile dell’Italia, con quanto vi corrisponde in termini di valore identitario, sedimentazione culturale, attrattività turistica e riferimento, meriti di essere nel volgere di brevissimo tempo sacrificato di fronte a cento e cento foreste di torri eoliche che muterebbero irrimediabilmente l’idea e il “volto amato della Patria”, secondo la celebre espressione di John Ruskin che cento anni fa veniva da tutti evocata a sintesi dell’idea stessa di tutela del paesaggio.
3. Occorre dunque guardarsi dall’inganno per cui, a un esame disattento delle implicazioni, sembrerebbero non esservi ricadute nocive per la primazia della tutela del paesaggio.
Così, in verità, non è: anche indipendentemente dal rapporto con la tutela del paesaggio, va anzitutto rilevato che, in questa formalizzata tutela de «l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni», si può implicare finanche il più ingannevole greenwashing industriale, solo che si vesta appunto di quel comodo e generoso abito. Del resto, oggi finanche il carbone, per taluni, è “verde”, come è verde l’operazione industriale della sostituzione con l’auto elettrica del parco auto circolante, come “verdi” sono le distese di centinaia di ettari di pannelli fotovoltaici messi nei campi agricoli, o i “parchi eolici” che, in nome di quella religione dell’eolico che in Francia sta facendo insorgere molti per le devastazioni che reca, stanno cambiando il volto dei paesaggi appenninici, finora sopravvissuti alla cementificazione. E così si viene direttamente al conflitto tra questa tutela del «l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi» e la tutela del paesaggio consacrata dall’art. 9, secondo comma, della Costituzione. Il punto, reale, è che davvero troppo è in sé acriticamente qualificabile come “verde”, anche operazioni pianificate essenzialmente per lucrare i generosi incentivi pubblici.
È piuttosto un dato oggettivo e realistico che la tutela del paesaggio non sempre va d’accordo con la tutela dell’ambiente se questa è acquisita nella sua declinazione industrialista. Una tale declinazione oggi insidia non infrequentemente il concetto, certo positivo ma non sufficientemente specificato su questo lato, della “transizione ecologica”. In effetti, alcuni suoi sostenitori assumono che qualsiasi opera vi trovi giustificazione in nome del contrasto del riscaldamento globale e che perciò prevale sempre e comunque sulla tutela paesaggistica: perciò polemizzano con le soprintendenze, a loro dire ree di rallentarla; e propugnano la diffusione senza contrasti, dovunque e comunque, dei “parchi” fotovoltaici ed eolici. Il “nemico” della transizione ecologica parrebbe dunque, a dire di costoro, essere costituito dall’effettività della tutela del paesaggio e dagli organi statali che vi danno concretezza ...
In termini concettuali, il rischio, prima ancora che nell’indefinitezza del concetto di “transizione ecologica”, si annida già nel corto circuito logico del “pensare globale – agire locale” e nell’intrinseca ambiguità dello “sviluppo sostenibile”, pur se – come detto – non menzionato da questa proposta. “Pensare globale e agire locale”, nella decezione insita nel quasi ossimoro dello “sviluppo sostenibile” (sarebbe stato meglio a suo tempo tradurre “sustainable development” in “sviluppo durevole”, come si è fatto in francese con “développement durable”, a rimarcare la durevolezza nel tempo del risultato e ad attenuare il peso del pilastro economico rispetto a quelli ecologico e sociale), ha un significato pratico di enorme impatto: significa la disponibilità del valore del paesaggio a fronte di qualsivoglia intervento asserito di “transizione ecologica”; un effetto materialmente e culturalmente devastante per l’Italia e costituito dal sacrificio, di forme e proporzioni inedite, dei paesaggi italiani; e quale che ne sia il pregio e il valore identitario. Tutto questo in nome di un’asserita e futuribile “decarbonizzazione” e del contrasto del mutamento climatico: come se coprire i terreni agricoli di pannelli fotovoltaici e le dorsali appenniniche di torri eoliche possa davvero comportare un’effettiva incidenza sul riscaldamento globale, visto che l’Europa intera contribuisce al riscaldamento con meno di un decimo delle emissioni globali mentre l’Amazzonia continua a essere bruciata, il PIL della Cina continuerà a crescere con ritmi a due cifre all’anno con effetti evidentemente globali da emissioni di carbonio che dovranno raggiungere il picco tra il 2025 e il 2030, e l’India semplicemente sembra ignorare il problema. Esiste, è il caso di davvero domandarsi, una reale e ragionevole proporzione di prezzo tra il danno elevatissimo che va a subire la configurazione dell’Italia e l’effettivo contributo alla mitigazione del riscaldamento globale che può offrire il sacrificio del suo paesaggio? La risposta negativa è in re ipsa e dovrebbe condurre il Parlamento ad accentuare la prudenza e alzare la guardia di fronte ad una tale temeraria innovazione costituzionale: ad evitare che, per il paesaggio italiano, la “transizione ecologica” si traduca in un costo elevatissimo e insensato, dall’effetto per di più pressoché irrilevante.
Insomma, si profila con ogni serietà il rischio che la modifica costituzionale possa provocare, quale suo immediato effetto tangibile, quello di subordinare la tutela paesaggistica alla straripante diffusione degli impianti industriali di produzione di energia da fonti rinnovabili: La devoluzione, a quel punto, alle mere logiche di mercato (tolti di mezzo gli orpelli amministrativi della tutela paesistica) li dice destinati a essere realizzati lì dove la proprietà privata è più debole e più facilmente aggredibile, ossia nei terreni agricoli e nelle aree interne. La modifica degli articoli 9 e 41 Cost., senza poter in realtà innovare al bilanciamento e agli equilibri tra i valori costituzionali di tutela dell’ambiente salubre e di iniziativa economica privata, finirebbe così per veicolare senza remore la trasformazione industriale dei paesaggi agrari e appenninici del Paese: un nuovo “interesse tiranno”, capace di facilmente travolgere la tutela paesaggistica che ancora lo conteneva. Sono segnali inequivoci e ben visibili di questa dinamica aggressiva il conflitto, di dimensioni ormai fuori da ogni proporzione, intorno a elefantiaci progetti di parchi fotovoltaici nelle campagne della Tuscia, dove la Regione Lazio ricusa di considerare (come invece richiede la Soprintendenza) l’effetto paesaggistico della sommatoria dei numerosi progetti (ciascuno per decine e decine di ettari di suolo agricolo) presentati in sequenza o in parallelo da più operatori economici; o la recente disciplina semplificatoria inserita nel decreto-legge di semplificazione n. 77 del 2021 (Capo VI, Accelerazione delle procedure per le fonti rinnovabili, artt. 30-32) per limitare i controlli paesaggistici in relazione ai progetti – dichiaratamente attuativi della “transizione ecologica” – per la realizzazione delle suddette tipologie di impianti.
Si dice: «ma è l’Europa che ce lo chiede». Ma non è così. L’Europa fissa obiettivi strumentali solo percentuali: il regolamento (UE) 2021/1119 del 30 giugno 2021 “che istituisce il quadro per il conseguimento della neutralità climatica” (detto - in accentuazione comunicazionale - “European Climate Law” o “Loi européenne sur le climat”) e il pacchetto “Fit for 55” del 14 luglio 2021 finalizzato a ridurre entro il 2030 le emissioni di gas serra del 55% rispetto al 1990 (in vista della “carbon neutrality” da raggiungere entro il 2050). Però lascia alla responsabilità degli Stati membri di scegliere il mix qualitativo di misure da loro stimate più congrue e opportune a seconda delle caratteristiche del Paese. Siamo noi (per il mezzo dei rappresentanti governativi inviati a negoziare a Bruxelles) che ci siamo accollati impegni e ancor più “ambiziosi obiettivi” che rischiano di sancire l’ulteriore devastazione dei paesaggi italiani e stavolta su vasta scala (“ambizioso”, “ambitious” è un aggettivo che ormai ricorre con la frequenza di un intercalare nei vari documenti, europei e nazionali, nella materia: un aggettivo che la logica giuridica imporrebbe di trattenere quando si formulano testi che vogliano essere davvero normativi, com’è buona regola per le aggettivazioni ridondanti).
In questi termini, occorre prima di tutto precisare cosa davvero, sul versante del paesaggio italiano, deve significare l’ancora troppo impreciso concetto di “transizione ecologica”: la produzione di “energie pulite” non deve infatti comportare lo stravolgimento del volto dei nostri territori (agire locale, ma pensare globale …). Occorre non generare gravi danni collaterali locali, certi e immediati, in una guerra globale dagli esiti futuri e assai complessi (e con gravi difficoltà di partenza, come indica l’indirizzo del contenimento del climate change insito in mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici: i primi due dei sei obiettivi ambientali del fondamentale regolamento (UE) 2020/852 del 18 giugno 2020 sulla tassonomia della finanza sostenibile).
Questa è in realtà l’urgenza, non già la prospettata modifica costituzionale. Ma ahimè nessuna norma viene immaginata per instradare gli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili solo verso il brown field, le tante migliaia di capannoni abbandonati o meno che da tempo hanno devastato la gran parte delle aree e delle conurbazioni di tutta l’Italia. Continua insomma a prevalere la solita, usurata logica degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, per la quale l’agricoltura è di suo un disvalore da cancellare, sicché sono aggrediti in primo luogo e soprattutto i terreni agricoli, dove la proprietà è povera e debole, ma non le coperture dei manufatti delle imprese industriali e commerciali, pur se fallite e in liquidazione.
Se non si impongono questi previi limiti definitori all’attuale latitudine indeterminata della “transizione ecologica”, che ha assorbito la tutela dell’ambiente polarizzandola in senso industriale, è al massimo livello pericolosa l’inedita modifica dei principi fondamentali della Costituzione. Senza un tale previo chiarimento, dopo la modifica costituzionale risulterebbe addirittura coperto costituzionalmente un piano o un programma che decretasse la libera realizzazione di parchi eolici e fotovoltaici, oggi invece esposto a seri e fondati dubbi per contrasto con l’art. 9, secondo comma. Questo, e solo questo, sarebbe il risultato pratico di una così inutile, e soprattutto dannosa, modifica di un principio fondamentale della Costituzione.
Per questi motivi chi ha a cuore il volto amato della Patria, dunque la tutela del paesaggio, non può non essere preoccupato per quest’incauta proposta di modifica del principio fondamentalecostituzionale, utile solo a rafforzare il tentativo (in atto sotto l’usbergo degli “ambiziosi” obiettivi di ripresa e resilienza) di spazzar via ogni plausibile e giustificata resistenza al dilagare incontrollato di invasivi impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili.
Il Referendum per l’eutanasia legale. Forum di Giustizia insieme
Intervista di Roberto Conti a Valerio Onida
Giustizia insieme apre oggi un focus di riflessione sulla proposta referendaria in tema di eutanasia, coinvolgendo alcuni autorevoli studiosi della materia.
Si comincia con Valerio Onida, Presidente emerito della Corte costituzionale, al quale seguiranno nei giorni successivi gli interventi di Andrea Pugiotto e Paolo Veronesi, entrambi professori ordinari di diritto costituzionale presso l'Università di Ferrara, Ida Nicotra, costituzionalista catanese, Giuseppe Cricenti, consigliere di Cassazione ed esperto bieticista ed infine di Antonio D'aiola, ordinario di diritto costituzionale a Parma.
Le domande
1. La via referendaria in tema di eutanasia dopo le decisioni della Corte costituzionale sul caso Antoniani-Cappato- sentenza n.242/2019 e ord. n.207/2018-. Indebita interferenza rispetto al possibile intervento legislativo ovvero uso legittimo dello strumento referendario per dare attuazione alle pronunzie della Consulta?
2. La circostanza che, rispetto alle decisioni della Corte costituzionale ricordate nel primo quesito, il quesito referendario intenda incidere sull’art.579 c.p. e non sull’art.580 c.p., direttamente interessato dalla pronunzia di parziale incostituzionalità, assume qualche rilievo ai fini dell’ammissibilità della proposta?
3. A suo avviso il quesito tende ad integrare il quadro normativo vigente piuttosto che ad abrogare una disposizione già colpito dalla pronunzia di parziale incostituzionalità, ovvero esso si pone nell’ambito della piena ortodossia degli interventi referendari ammessi dalla Costituzione ?
4. Esiste, a Suo avviso, il pericolo che il quesito referendario formulato dai proponenti, se accolto, consenta la depenalizzazione del reato di aiuto al suicidio anche al di fuori dei limiti fissati dalla Corte all’incostituzionalità dell’art.580 c.p., al punto da escludere l’antigiuridicità dell’uccisione per effetto del mero consenso della persona che chiede di interrompere la propria esistenza? Ove Lei ritenesse sussistente tale pericolo, lo stesso potrebbe essere eventualmente considerato in sede di ammissibilità del quesito da parte della Corte costituzionale?
5. Vi sono, a Suo giudizio, carenze del quesito referendario rispetto alle questioni poste dalla sentenza n.242/2019?
6. Quali effetti potrà determinare la decisione in punto di ammissibilità del quesito referendario sull’iter parlamentare che riguarda la proposta di legge sul suicidio assistito?
7. In conclusione, quali sono le Sue previsioni sulle sorti del quesito referendario proposto dall’Associazione Luca Coscioni e dalle altre associazioni proponenti?
Le risposte di Valerio Onida
1. Va subito detto che la proposta referendaria non si propone di intervenire nello spazio creato dalla Corte con la sentenza sul caso Antoniani-Cappato attraverso la parziale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 580 del codice penale (illiceità penale dell’aiuto al suicidio), precisando legislativamente i criteri indicati dalla sentenza per rendere lecito l’aiuto; ma tende a disciplinare la diversa ipotesi di chi “cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui”, rendendola penalmente lecita nei limiti descritti nella proposta. Cioè si depenalizzerebbe la condotta di chi - fuori dalle ipotesi oggi descritte nel terzo comma dell’art. 579 (minorenne, infermo di mente o in condizioni di deficienza psichica, consenso estorto con violenza o inganno), in cui già si applicano, e continuerebbero ad applicarsi, le norme penali sull’omicidio – compia un atto idoneo a sopprimere la vita di un altro con il consenso di questi.
Qualcosa cioè di ben diverso dall’“aiuto al suicidio” che è stato oggetto della sentenza della Corte, cioè di condotte tali da agevolare e assistere chi, trovandosi nelle condizioni estreme indicate dalla Corte (malattia irreversibile in fase terminale, sofferenze ritenute intollerabili, controllo di una struttura sanitaria pubblica), ed è in grado di esprimere un consenso libero e consapevole, chiede ed ottiene di essere aiutato a porre fine egli stesso alla propria vita. Si noti che non solo la depenalizzazione dell’omicidio del consenziente nei limiti del nuovo art. 579, quale risulterebbe dalla approvazione del referendum, autorizzerebbe pratiche diverse da quelle suicidarie, in cui cioè (come avviene per esempio nella nota clinica svizzera cui si fa frequente riferimento, e a cui ha fatto ricorso anche Fabiano Antoniani nel caso portato all’esame della Corte) è l’aspirante suicida a compiere, sotto controllo medico, l’atto finale di soppressione della propria vita.
Qui si vorrebbe che fosse legalizzato non l’aiuto al suicidio, ma l’atto di soppressione della vita di chi consapevolmente vi consenta, trovandosi nelle condizioni previste. E soprattutto ciò avverrebbe senza il necessario ricorso delle condizioni che in base alla sentenza della Corte possono legittimare l’aiuto al suicidio: situazione di terminalità, malato che dipende da supporti vitali per la sopravvivenza. Basterebbe il consenso libero e informato del paziente.
Si tratta dunque di una ipotesi sostanzialmente diversa da quella di cui si è occupata la Corte, e che andrebbe a rendere lecita un’attività omicidiaria alla sola condizione del consenso consapevole e libero della vittima. Non si tratterebbe più di consentire, rinunciando ai supporti vitali, di essere aiutati a suicidarsi, ma di consentire a chiunque di sopprimere un altro essere umano purchè liberamente consenziente. A mio avviso così si valicherebbero i confini della Costituzione, che protegge la vita umana in ogni suo stadio, e dà prevalenza all’autodeterminazione dell’interessato solo quando si tratta di rifiutare consapevolmente interventi curativi o conservativi. Infatti, a termini dell’art. 32, nessuno può essere obbligato a ricevere trattamenti sanitari: e la legge n. 219 del 2017 ha precisato che ciò si estende ai cosiddetti trattamenti di sostegno vitale di persone in condizioni di malattia incurabile e terminale, che possono essere sostituiti, a richiesta dell’interessato, da interventi di sedazione profonda continua che sopprimono la coscienza e quindi la sofferenza, e preludono a più o meno breve termine alla morte dell’interessato.
2. La risposta alla domanda sull’ammissibilità del referendum dovrebbe dunque a mio avviso avere risposta negativa, trattandosi di eliminare in certe ipotesi la tutela legale della vita altrui, che è principio costituzionale (è come se all’accusato di un grave reato si consentisse di chiedere che gli venisse inflitta la pena di morte in luogo di qualsiasi altra pena, nonostante il divieto costituzionale).
In ciò che ho detto si trova la risposta ai quesiti di cui al n. 3: verrebbero ampiamente valicati i limiti (malattia inguaribile in fase terminale, dipendenza da supporti vitali, sofferenze intollerabili, consenso libero e consapevole) entro cui la Corte ha stabilito che la richiesta da parte dell’interessato di un aiuto al suicidio possa prevalere sulla tutela costituzionale della vita altrui; e dalla limitata depenalizzazione dell’aiuto al suicidio si passerebbe alla ben diversa ipotesi della depenalizzazione di ipotesi di omicidio del consenziente. Pertanto a mio avviso ciò dovrebbe precludere l’ammissibilità del quesito, essendo la risposta positiva ad esso tale da violare la Costituzione. Ciò che invece potrebbe e dovrebbe essere oggetto di un intervento legislativo che si innesti sull’art. 580 del codice è la diversa ipotesi dell’aiuto al suicidio di chi si trovi nelle condizioni indicate dalla Corte.
3. Le domande di cui ai numeri 5 e 6 trovano già risposta nei precedenti paragrafi. A mio avviso il quesito referendario formulato è inammissibile perché la normativa di risulta violerebbe i limiti entro i quali il rispetto della vita altrui è compatibile con forme (non di omicidio del consenziente, ma) di aiuto al suicidio in casi estremi, richiesto consapevolmente e liberamente dall’interessato: legittimando così condotte attive di omicidio del consenziente diverse da quelle contemplate dal terzo comma dell’art. 579 del codice vigente.
In ogni caso l’operazione legislativa proposta per via referendaria è sostanzialmente diversa da quella di riempimento del “vuoto” creato dalla sentenza n. 242 del 2019 in tema di aiuto al suicidio, legittimando vere e proprie forme di omicidio del consenziente, che diverrebbero lecite, purchè diverse da quelle contemplate dal terzo comma dell’art. 579.
“Vaccinazione e prodotto farmaceutico nel sistema della responsabilità civile da attività lecita”
Recensione di Paolo Maddalena al volume di Maria Rosaria Scotti
Il tema della responsabilità civile da attività lecita è, oggi, di grande attualità. La pandemia da coronavirus, i dubbi da molti sollevati sulla opportunità di sottoporsi alla trasfusione di un vaccino non ancora pienamente sperimentato, la pratica “obbligatorietà di fatto” di sottoporsi a questo trattamento sanitario, non imposto, ma fortemente sollecitato dalle Autorità, pongono il problema giuridico, non della libertà di scelta, che è stata assicurata, ma quello ben più concreto, del “rischio” che è intrinseco in questa specie di trattamento sanitario e della “risarcibilità” dei danni alla persona subiti da quei soggetti che si siano sottoposti alla vaccinazione.
Il tema che più sta a cuore all’Autrice è quello di dimostrare che nel caso in esame non è giuridicamente possibile parlare soltanto di “indennizzo” (cioè di un parziale “ristoro” economico), ma di vero e proprio “risarcimento “ di tutti i danni subiti.
La semplice proposizione del problema fa capire quanto ardua sia l’indagine da compiere, poiché in questo caso si tratta, si badi bene, di superare una giurisprudenza tuttora ancorata all’idea che il risarcimento del danno presupponga (diversamente dall’indennizzo) un “fatto illecito”, cioè una condotta riprovevole, in quanto posta in essere con dolo o colpa, in base al principio, molto risalente nel tempo, secondo il quale “nessun risarcimento senza colpa”, ovvero “qui suo iure utitur neminem laedit”. Una concezione, quindi, penalistica e sanzionatoria, peraltro di carattere soltanto “patrimonialistico”, e quindi conforme alla concezione “borghese”, e oggi “neoliberista”, del diritto.
Il lavoro, di una complessità e completezza scientifica più unica che rara, attraversa tutto ciò che dottrina e giurisprudenza hanno affermato, non solo sul piano specifico della responsabilità per atti leciti, ma anche e soprattutto a proposito degli innumerevoli problemi esistenti nella immensa area della responsabilità civile.
Nel trattare una materia di così eccezionale ampiezza, l’Autrice indica subito il file rouge che Ella intende seguire, in modo che il lettore non resti disorientato dalla complessità della trattazione: questo filo rosso è costituito dal convincimento secondo il quale “la norma integra un giudizio di valore, non una regola logica, poiché la realtà della vita ha la meglio sulla costruzione formale”.
Ciò premesso, la trattazione comincia con il mettere in evidenza come la giurisprudenza, sia quella costituzionale, sia quella di legittimità, siano fortemente ancorate al principio della “indennizzabilità” dei danni, anziché del loro “risarcimento”, non ostante l’articolo 35 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, prescriva l’intero risarcimento e non ostante il primo comma l’art. 117 della Costituzione sancisca il “rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. E tutto questo avviene, è bene sottolinearlo, con la citazione precisa e analitica delle varie tesi sostenute dalla dottrina e dalle numerose affermazioni giurisprudenziali.
Il primo argomento che l’Autrice pone in evidenza, a dimostrazione della sua tesi, è il grande rilievo che ha in dottrina il “diritto alla salute”, di cui all’art. 32 della Costituzione, in collegamento diretto con “i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, imposti dall’articolo 2 Cost.
Il “valore primario” e indiscutibile sancito per la salute della persona umana, e cioè per la sua integrità fisica e psichica, costituisce, insomma, un punto essenziale di ancoraggio per una nuova prospettiva della responsabilità civile, la quale comincia a essere considerata, non più soltanto dal punto di vista “patrimonialistico”, ma anche e soprattutto dal punto di vista “personalistico”. Si staglia così all’orizzonte l’importanza della “persona umana”, la quale richiede, ovviamente, un “giudizio di valore” (quello assunto come criterio direttivo dell’indagine), che non può non concretarsi in una valutazione di “priorità” della tutela dell’interesse alla salute e alla vita dell’uomo.
Arriva così, sulla base di detto criterio interpretativo, il primo colpo decisivo contro la teoria che vede la fonte della responsabilità civile aquiliana, di cui all’art. 2043 del codice civile, una “sanzione” contro il comportamento illecito dell’autore del danno. E viene conseguentemente spiegato il motivo di fondo del perché la migliorie dottrina ha spostato la sua attenzione dal “fatto illecito” al “danno”, con la conseguenza di dover ritenere che la “illiceità” segue e non precede il “danno”.
A questo punto appare evidente che la ricerca relativa al criterio di imputazione del danno, cioè del trasferimento degli effetti dannosi da un soggetto a un altro, debba necessariamente approdare ai principi etici contenuti nella nostra Costituzione, e cioè, fondamentalmente, al “principio di eguaglianza” di cui all’art. 3 Cost.
L’indagine, e questo è molto importante, si sposta così dall’astratto al concreto, comportando la necessità di una revisione dei fondamenti della responsabilità civile alla luce della mutata situazione economica e sociale ben diversa da quella esistente all’epoca dell’entrata in vigore del codice civile.
Viene pertanto in evidenza il problema del “rischio” che è insito nell’utilizzo degli strumenti offerti dallo sviluppo tecnologico. Si pensi ai rischi del trasporto aereo o dei treni a alta velocità, ai rischi conseguenti agli inquinamenti industriali e di altro tipo, e, perché no? ai rischi che comportano le vaccinazioni e i prodotti farmaceutici.
Allora lo sguardo si allarga. Non c’è più soltanto un problema di rapporto tra due soggetti uno dei quali ha arrecato danni patrimoniali all’altro, ma un problema di “ripartizione” del “rischio”, secondo la “valutazione” e il “bilanciamento” dei valori costituzionali in gioco, tenendo presente che i danni possono colpire, e di solito colpiscono, soggetti terzi, che nulla hanno a che vedere con le cause del danno subito.
Ne consegue che la dottrina comincia a distinguere tra “responsabilità per colpa” e “responsabilità per rischio”, addossando quest’ultima, in modo oggettivo, all’impresa, come si è affermato per i danni da inquinamento atmosferico.
In questo ambito una teoria molto valutata è quella dell’analisi economica del diritto, la quale individua la valutazione del rischio come elemento della individuazione del “costo” di impresa. In questo senso l’imprenditore è tenuto a valutare a priori quale sia la soluzione più conveniente, considerando il “rischio” di dover risarcire i danni, come un “costo” dell’impresa.
Ma il problema, come agevolmente si desume dal discorso fin qui condotto, non può risolversi nella sola prospettiva di addossare i danni al soggetto che in qualche maniera ne è stato causa, ma deve essere risolto in una prospettiva assai più ampia, che contempli non solo il produttore, ma anche il consumatore.
In questa più ampia prospettiva, assume una piena valenza il “principio di “eguaglianza”, che implica, a ben vedere, un giudizio “etico sociale”, in base al quale si ridefinisce anche il significato della “ingiustizia” del danno, visto non più nel comportamento del danneggiante, ma come effetto della “ripartizione del rischio”.
Restringendo a questo punto l’esame ai danni alla persona prodotti da vaccinazioni, trasfusioni o farmaci difettosi, riemerge il dato fondamentale del “valore assoluto” della “persona” e l’assioma inconfutabile secondo cui tale valore, essendo “assoluto” e “primario”, non sopporta alcun bilanciamento e merita l’integrale risarcimento del danno subito, che viene a avere il suo fondamento nell’art. 2 Cost., secondo il quale il nostro Stato comunità, la Repubblica, impone “doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale”. Ne consegue che, una volta che la collettività ha accettato il “rischio” che alcuni trattamenti possano ledere la “salute” di singoli cittadini, essa deve assumersi anche l’onere di “risarcire integralmente” i danni alla salute subiti da singole persone a causa del’accettazione collettiva del rischio di cui si parla.
Si tratta di una conclusione alla quale l’Autrice perviene, come si è ripetuto, attraverso un esame approfonditissimo delle tematiche attinenti all’oggetto di trattazione. E ne è venuto fuori un libro che è una miniera inesauribile di informazioni e che dovrebbe circolare nelle Università e tra coloro che davvero vogliono approfondire il complicatissimo, ma affascinante, tema della responsabilità civile, nel quadro dell’attuale progresso tecnologico.
Potremmo aggiungere che, a nostro avviso, un altro terribile argomento si sta profilando all’attenzione degli studiosi: quello della cosiddetta “sostenibilità” del rischio prodotto dall’avanzare inarrestabile della tecnologia. giacché, molto probabilmente, si è già superato il limite naturale di questa sostenibilità.
Ma questo è un altro discorso.
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