ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8).
di Andreina Scognamiglio
Sommario. 1. I principi di diritto enunciati dalla Adunanza Plenaria n. 8 del 2021 e l’iter motivazionale della pronuncia. - 2. Attività dell’amministrazione e attività del commissario ad acta nella fase dell’ottemperanza: gli acquis della giurisprudenza teorica e pratica anteriori al c.p.a. – 3. Conferme e riserve nel c.p.a. e orientamenti giurisprudenziali successivi al codice – 4. La posizione della Plenaria n. 8 del 2021: presupposti espliciti ed impliciti per l’attrazione nella sfera della giurisdizione dell’attività del commissario. -5. Conclusioni.
1. I principi di diritto enunciati dalla Adunanza Plenaria n. 8 del 2021 e iter motivazionale della pronuncia.
In risposta ai quesiti sollevati dalla ordinanza n. 6925 del 2020 della Sezione IV, la Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è pronunciata sulla questione se l’amministrazione soccombente in giudizio conservi, o meno, il potere di provvedere dopo la nomina del commissario ad acta o dopo il suo insediamento e su vari problemi connessi e/o conseguenziali.
Con la sentenza n. 8 del 25 maggio 2021, l’organo della nomofilachia della giurisprudenza amministrativa ha statuito dunque che:
La Plenaria sottolinea pure che le soluzioni sopra sintetizzate valgono in tutte le ipotesi in cui il processo amministrativo contempla la nomina di un commissario ad acta la quale può essere disposta con la sentenza che definisce il giudizio di merito; in sede di ottemperanza al giudicato; in sede di esecuzione di una pronuncia esecutiva o di una ordinanza cautelare; all’esito del ricorso contro il silenzio.
La motivazione della sentenza fa leva in primo luogo sulla formulazione dell’art. 21 c.p.a., il quale, sciogliendo la risalente disputa sulla natura soggettiva del commissario (se ausiliario del giudice, organo straordinario dell’amministrazione o organo misto), espressamente lo qualifica quale ausiliario del giudice. Ma, accanto al dato formale della qualificazione soggettiva del commissario, la Plenaria argomenta le proprie conclusioni dalla chiara enunciazione, pure dovuta al legislatore del codice, dei presupposti per la sua nomina del commissario ad acta che è ammessa quando il giudice debba sostituirsi all’amministrazione e laddove tale circostanza si verifichi nell’ambito della giurisdizione di cui il giudice è investito dalla norma attributiva della medesima. Ciò implica che il perimetro dell’azione del commissario coincide con i confini della giurisdizione del giudice che lo ha nominato. E’ dunque nell’ambito della giurisdizione che il commissario agisce.
Così argomentando la Plenaria sposta l’angolo di visuale ed il punto nodale che non è più, tanto, quello della qualificazione soggettiva del commissario quale ausiliario del giudice quanto quello oggettivo della qualificazione della attività da lui svolta.
L’attività del commissario è attratta nella “giurisdizione” poiché trova il suo fondamento nella decisione del giudice e perché è funzionale alla effettività della tutela giurisdizionale. L’investitura e la finalità escludono che attività posta in essere dal commissario ad acta possa essere ricondotta ad esercizio di amministrazione. “Il potere esercitato dal commissario ad acta – prosegue la sentenza – ancorché concretizzantesi in atti non dissimili da quelli che avrebbe dovuto adottare l’amministrazione, è un potere distinto, sul piano genetico e funzionale, da quello di cui l’amministrazione è titolare”. Diversamente, anche nella fase della esecuzione della sentenza, il potere che l’amministrazione esercita trova il suo fondamento nella norma attributiva del potere ed è funzionalizzato alla cura dell’interesse pubblico. Ne consegue che solo impropriamente si può parlare di “sostituzione” del giudice (e per esso del commissario) alla amministrazione perché “detta sostituzione non avviene nell’esercizio del medesimo potere, ma solo con riferimento a ciò che l’amministrazione avrebbe dovuto compiere per dare attuazione al giudicato e rispetto al quale è invece rimasta inottemperante”.
La diversa natura dei poteri esercitati dal commissario ad acta e dalla amministrazione nella fase della ottemperanza alla sentenza ne postula la netta distinzione e ne rende possibile un esercizio “concorrente”. Ciò comporta che fino al momento in cui l’amministrazione o il commissario non abbiano dato esecuzione alla sentenza, l’un soggetto o l’altro possono indifferentemente provvedere.
Nel commentare l’ordinanza di rimessione della IV Sezione[1], si era accordata preferenza alla tesi della decadenza dell’amministrazione dal potere di provvedere in esecuzione della pronuncia giurisdizionale in base alla considerazione che l’ordinamento, e comunque ragioni di razionalità del sistema, non tollerano che lo stesso potere sia esercitato contemporaneamente a due soggetti diversi.
Con una soluzione originale, la Plenaria muta radicalmente la prospettiva: per le ragioni sopra sintetizzate, l’attività posta in essere dal commissario e dalla amministrazione in ottemperanza alla sentenza presentano caratteri diversi quanto alla fonte dell’investitura ed alla funzione. Tale circostanza consente l’esercizio parallelo e concorrente di entrambe che è possibile fino al momento in cui il commissario o l’amministrazione non provvedano.
2. Attività dell’amministrazione e attività del commissario ad acta nella fase della ottemperanza: gli acquis della giurisprudenza teorica e pratica anteriori al c.p.a.
La fase dell’ottemperanza/esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo è da sempre al centro di vivaci contrasti interpretativi ed applicativi da parte della giurisprudenza teorica e pratica.
Si tratta di un dibattito che sembrava aver raggiunto alcuni punti fermi alla data della entrata in vigore del codice del processo amministrativo.
Per concentrare l’attenzione sugli aspetti che più interessano in questa sede, in particolare si era raggiunta una certa unanimità di vedute su due questioni: quella della natura propriamente esecutiva del giudizio di ottemperanza (con l’esclusione dal perimetro di questo di aspetti non scrutinati dalla sentenza da eseguire) e quella della estraneità rispetto ad esso di quelle attività di riedizione/edizione del potere espletate dopo la sentenza dall’amministrazione o dal commissario ad acta che non siano di mero adeguamento della realtà di fatto rispetto a quanto il processo di cognizione ha riconosciuto, esplicitamente o implicitamente, spettare alla parte ricorrente vittoriosa in giudizio. La premessa da cui muovono le considerazioni sopra sintetizzate sta nell’individuazione di due diverse situazioni che si possono avere nella fase dell’esecuzione di una pronuncia emessa in sede di giurisdizione amministrativa. La prima si verifica quando l’attività che segue alla sentenza è di mera attuazione delle statuizioni in questa contenute e di quanto il processo di cognizione ha riconosciuto spettare alla parte ricorrente e vittoriosa in giudizio; la seconda quando l’esecuzione della pronuncia comporta esercizio di discrezionalità in ordine al contenuto dell’atto da adottare. Tipicamente ciò avviene nel caso di sentenza di condanna a provvedere che non accerti altresì la “fondatezza della pretesa” e che non contenga dunque indicazioni circa il contenuto del provvedimento omesso.
3. Conferme e riserve nel c.p.a. e orientamenti giurisprudenziali successivi al codice.
Per alcuni aspetti dette conclusioni sono fatte proprie dal legislatore del codice del processo amministrativo. La conferma è data dalla Plenaria 15 gennaio 2013, n. 2 per la quale la contestazione degli atti di esercizio del potere amministrativo successivi alla pronuncia è da proporsi nei modi e nella forme del giudizio di legittimità, o nei modi dell’ottemperanza a seconda che le censure riguardino o non la violazione del giudicato. La sentenza muove appunto da quello che sopra si è definito come un punto fermo del dibattito anteriore al codice e cioè dalla considerazione del diverso regime, sostanziale e processuale, della attività di riedizione del potere posta in essere dalla amministrazione: detta attività è esecutiva della sentenza nei limiti in cui si muove nel perimetro di quanto accertato in sede di cognizione ed è invece attività discrezionale in senso proprio quando definisce aspetti non coperti da quanto accertato in sede giurisdizionale.
La chiarezza della posizione condivisa dalla Plenaria del 2013 viene meno quando l’attività successiva alla pronuncia giurisdizionale è posta in essere dal commissario ad acta qualificato, a seconda dei punti di vista, come sostituto del giudice o organo straordinario dell’amministrazione[2].
E’ vero la questione della qualificazione soggettiva del commissario era stata affrontata e apparentemente definita già dalla Plenaria n. 23 del 1978 la quale l’aveva risolta nel secondo senso chiarendo pure che, di conseguenza, gli atti posti in essere dal commissario avrebbero dovuto essere impugnati nelle forme e nei modi disciplinati dall’art. 27, n. 4 del t.u. del consiglio di stato e degli artt. 90 e 91 del regolamento di procedura. Ma già la pronuncia del ‘78, lungi dal porre fine ai dissensi, aveva alimentato ulteriormente il dibattito[3]. Ad essa seguirono infatti numerose sentenze[4] per le quali il commissario è altresì da considerare alla stregua di “organo straordinario della amministrazione” nella misura in cui, rispetto all’attività da questo posta in essere, “la nomina giudiziale rileva solo nel momento genetico dell’istituzione dell’ufficio e non nel momento operativo”.
Il punto è che figura del commissario ad acta presenta profili di ambiguità innegabili per la ragione che “nell’effettività del sistema, il commissario non si limita a compiere attività di esecuzione-ottemperanza al giudicato, ma sostituisce interamente gli organi (ordinari) dell’amministrazione nell’esercizio del potere il cui ciclo viene riaperto dalla caducazione del provvedimento illegittimo”[5] (o dalla sentenza di mera condanna a provvedere). L’esempio tipico di azione del commissario non meramente esecutiva perché tale da travalicare i limiti segnati dalla sentenza è proprio quello del provvedimento adottato in luogo dell’amministrazione dopo che il giudice ne abbia accertato l’inerzia. Si tratta evidentemente di vicende difficilmente conciliabili con la qualificazione del commissario quale mero ausiliare del giudice e rispetto alle quali la coerenza del sistema imporrebbe di riproporre la distinzione tra attività meramente esecutiva di quanto accertato dal giudice in sede di cognizione e attività che non trova alcun riferimento nella sentenza[6]. La prima da contestarsi mediante ricorso per l’ottemperanza, la seconda mediante ricorso di legittimità.
Non a caso, l’intervenuta disciplina positiva del rito avverso il silenzio, con la previsione della nomina del commissario in caso di perdurante inerzia dell’amministrazione, ha rinvigorito il dibattito intorno alla figura del commissario. Così la sezione VI del Consiglio di stato, nella sentenza 25 giugno 2007, n. 3602 osserva che la qualificazione del commissario quale organo ausiliario male si adatta alle ipotesi in cui questi venga nominato dal giudice del rito speciale di cui (allora) all’art. 21 bis della l. n. 1034 del 1071. Infatti, in questo caso, l’attività posta in essere dal commissario “può atteggiarsi come attività di pura sostituzione, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisione se non per quanto attiene al presupposto dell’accertamento della prolungata inerzia dell’amministrazione”. A meno di non ritenere che con la sentenza di cui all’art. 21 bis il giudice non possa limitarsi a nominare il commissario in caso di inerzia, ma debba altresì dettare le “direttive per l’operato dell’amministrazione”.
Nel codice del processo amministrativo il tentativo di attrarre nella giurisdizione l’attività del commissario ad acta è evidente. In tal senso depone la qualificazione soggettiva di questo quale “ausiliario del giudice” dovuta all’art. 21 e l’attribuzione alla competenza del giudice dell’ottemperanza di tutte le questioni relative all’esecuzione, dovuta agli artt. 114, comma 6, e 117, comma 4. Entrambe le disposizioni rimettono al giudice che lo ha nominato, e dunque al giudice dell’esecuzione, i ricorsi avverso gli atti del commissario ad acta[7], fatta salva la impugnabilità dei medesimi in sede di giurisdizione di legittimità da parte dei terzi non parti in causa.
L’opzione evidentemente fatta propria dal legislatore non ha però sopito il dibattito intorno alla figura e al ruolo del commissario. In particolare, e in specie con riferimento all’ipotesi della nomina del commissario in sede di ricorso avverso il silenzio, è restata in campo la tesi secondo la quale si tratta di un organo straordinario dell’amministrazione in quanto egli esercita attività discrezionale in senso proprio[8]; ovvero di un organo misto in quanto assume di volta in volta l’uno o l’altro ruolo a seconda che la sentenza abbia altresì accertato la “fondatezza della pretesa” o abbia un contenuto di mera condanna a provvedere[9]; o ancora di un organo ausiliario del giudice, il quale però pone in essere atti soggetti a reclamo dinanzi al giudice che lo ha nominato ovvero con ricorso ordinario di legittimità a seconda che essi siano si muovano o meno entro il perimetro dell’accertamento svolto in sede di giudizio di cognizione[10].
La tesi dell’organo misto è riproposta anche nella giurisprudenza successiva al codice[11] e fino alla recente Adunanza Plenaria del 9 maggio 2019, n. 7 dove l’affermazione della duplice veste del commissario ad acta e quella dell’esautoramento dell’amministrazione inadempiente da parte di questo rappresentano due passaggi essenziali della motivazione: essendo l’amministrazione inadempiente e surrogata a seguito dell’insediamento del commissario oramai priva della potestà di provvedere, essa versa in una situazione di impossibilità soggettiva sopravvenuta rispetto all’obbligo della penalità di mora e non è più tenuta al pagamento.
4. La posizione della Plenaria n. 8 del 2021: presupposti espliciti ed impliciti per l’attrazione nella sfera della giurisdizione dell’attività del commissario.
La posizione della Plenaria n. 8 del 2021 è, in questo contesto, originale. L’esercizio concorrente del potere commissariale e del potere amministrativo è ritenuto possibile in ragione della diversa natura dell’attività conseguente alla pronuncia giurisdizionale amministrativa la quale varia a seconda che ad agire sia il commissario o l’amministrazione. Nel primo caso, saremmo in presenza di una attività riconducibile alla giurisdizione in forza dell’investitura e in considerazione della finalità che è quella di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale[12]. Nel secondo di un potere propriamente amministrativo in quanto conferito dalla legge in funzione del perseguimento dell’interesse pubblico.
La linea di discrimine tra attività riconducibile alla giurisdizione (e alla esigenza della sua effettività) e attività propriamente amministrativa (in quanto orientata ai criteri del buon andamento e dell’imparzialità) è tracciata in termini diversi da quelli risultanti dalla tradizione e in modo da prescindere dalla corrispondenza tra l’attività che si colloca oltre la sentenza ed il perimetro del giudicato e comunque dell’accertamento operato in sede di giudizio di cognizione.
In contrario, sul versante dell’amministrazione, si può osservare che questa non è chiamata a compiere alcuna valutazione discrezionale orientata all’interesse pubblico quando la sentenza della cui esecuzione si tratta fissa essa stessa l’assetto degli interessi conforme a legalità. La prova che l’amministrazione è obbligata alla esecuzione proprio in forza del principio di effettività della tutela giurisdizionale viene dal fatto che l’esecuzione dell’ordinanza cautelare o della sentenza esecutiva, ma non ancora passata in giudicato non comporta acquiescenza. In definitiva, per impiegare l’ordine concettuale della Plenaria, l’amministrazione è tenuta alla esecuzione perché la tutela sia effettiva e a prescindere dalle proprie valutazioni in merito all’interesse pubblico.
Per quanto riguarda il commissario ad acta, il criterio della “effettività della tutela” non sembra invece idoneo ad orientarne l’azione ogni qualvolta questa va oltre l’effetto conformativo della sentenza che è limitato. In questi casi inevitabilmente il commissario dovrà compiere valutazioni improntate all’interesse pubblico o, se vogliamo, conformate ai principi di buona amministrazione. Dunque valutazioni discrezionali in senso proprio.
L’affermazione della sufficienza del criterio della effettività (per il quale il processo deve assicurare a colui che ha agito in giudizio “tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire”) presuppone un accertamento già svolto in sede di processo di cognizione e che l’attività del commissario si collochi entro i limiti della sentenza da eseguire. Sicché, per la coerenza del sistema, si dovrebbe concludere che l’azione commissariale si può innestare esclusivamente sulla sentenza che abbia altresì accertato la fondatezza della pretesa del ricorrente e non, semplicemente, l’illegittimità del provvedimento negativo o l’inadempimento dell’obbligo di provvedere. Altrimenti, e specie nel rito speciale avverso il silenzio, si configurerebbe il paradosso di un sostituto del giudice che gode rispetto a questo di poteri più ampi.
Il paradosso è evitato da parte di chi limita il potere del commissario di adottare un atto satisfattivo dell’interesse sostanziale del ricorrente alle sole ipotesi nelle quali la sentenza che lo nomina abbia altresì accertato la fondatezza della pretesa. La tesi è stata in effetti proposta [13], ma va contro l’evidenza dei fatti. Nell’esercizio del potere il cui ciclo viene riaperto dalla caducazione del provvedimento illegittimo o dalla sentenza di mera condanna a provvedere) il commissario si trova a definire in concreto l’assetto degli interessi tra le parti e dunque a compiere valutazioni discrezionali in luogo degli organi (ordinari) dell’amministrazione ogni qualvolta il giudice si sia limitato ad accertare l’inadempimento dell’obbligo di provvedere e ad emettere sentenza di mera condanna. Così nel caso di cui alla pronuncia della Plenaria che aveva rimesso al commissario ad acta la valutazione della ammissibilità, o meno, di un intervento di recupero di un insediamento edilizio abusivo o anche nel caso, pacificamente ammesso[14], nel quale al Commissario è rimessa la valutazione se le concrete circostanze consentano di adottare il provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis del testo unico sugli espropri.
La corrispondenza tra poteri del giudice e del commissario è recuperata, in altra prospettiva, riconoscendo al primo una giurisdizione estesa al merito nel momento in cui, a fronte di una perdurante inerzia dell’amministrazione, investe il commissario dell’esercizio di poteri sostitutivi [15].
In contrario, vale però ricordare il carattere “chiuso” delle ipotesi di giurisdizione di merito[16] tra le quali non rientra il ricorso avverso il silenzio e anche la considerazione del contenuto della sentenza che nomina il commissario ad acta e che può non prevedere alcuna direttiva per il suo operato (salvo – ancora una volta – i casi in cui essa si pronunci sulla fondatezza della pretesa sostanziale).
In ogni caso le diverse letture sopra ricordate evidenziano un punto che può considerarsi acquisito: l’affermazione per la quale il commissario agisce nell’ambito della giurisdizione di cui il giudice è investito presuppone uguale estensione ed uguale qualità dei poteri che ad entrambi fanno capo.
A questo proposito una diversa soluzione è prospettabile e passa per la valorizzazione dell’art. 117, comma 4: la corrispondenza tra poteri del commissario e poteri del giudice che non è assicurata ex ante in tutti i casi in cui la sentenza che chiude il ricorso avverso il silenzio è di mera condanna a provvedere è recuperata in sede di reclamo avverso gli atti del commissario ad acta.
In sede di reclamo, nel contraddittorio tra le parti[17], il giudice è investito dall’art. 117, comma 4, di “tutte le questioni” inerenti agli atti del commissario ad acta. Il sindacato disegnato dalla norma è ampio perché esteso a tutte le questioni e dunque ad ogni profilo di rispondenza dell’atto ai canoni del buon andamento oltre che della legalità e della imparzialità. D’altro canto il reclamo si colloca in una fase del processo che è propriamente esecutiva o di ottemperanza e perciò pacificamente ascritta alla sfera della giurisdizione di merito. La peculiarità del rito avverso il silenzio si condenserebbe allora nella circostanza per la quale qui il giudice non esercita poteri sostitutivi (della amministrazione) e direttivi (sul commissario) ex ante ma piuttosto ex post nell’ambito di un sindacato che è esteso ad ogni profilo, di legittimità e di merito, dell’attività del suo ausiliario.
5. Conclusioni.
L’attrazione nella sfera della giurisdizione (di merito) dell’attività del commissario nominato all’esito del ricorso avverso il silenzio offre validissimo supporto al principio di diritto per il quale gli atti adottati dal commissario ad acta non sono annullabili dall’amministrazione nell’esercizio del potere di autotutela[18], né sono da questa impugnabili davanti al giudice della cognizione, ma sono esclusivamente reclamabili dinanzi al giudice che lo ha nominato[19].
Non altrettanto convincente la motivazione offerta al principio per il quale l’amministrazione conserverebbe il potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta e pure dopo il suo insediamento.
Per il destinatario della sentenza favorevole e specie nei casi in cui questa non definisca già di per sé l’assetto dei rapporti conforme a legalità, ma contempli margini di discrezionalità in sede di esecuzione, non è affatto indifferente che a provvedere sia l’amministrazione o il commissario ad acta. Se ad agire è l’amministrazione, ogni eventuale contestazione degli atti da questa adottati al di là dei limiti segnati dal contenuto di accertamento (del mero inadempimento dell’obbligo di provvedere) e di condanna (a provvedere) della sentenza da eseguire, dovrà essere proposta nei tempi e nelle forme di un ordinario giudizio di legittimità. Gli atti commissariali saranno invece reclamabili nell’ambito e con l’utilizzo di un rito che segue tempi ben più rapidi e nel quale il giudice esercita un ampio sindacato, esteso al merito.
In definita, è condivisibile la scelta della Plenaria di abbandonare definitivamente la locuzione di “organo straordinario” dell’amministrazione spesso utilizzata con riferimento al commissario ad acta nominato nell’ambito del processo e di ascrivere decisamente alla sfera della giurisdizione la sua attività. Per le ragioni sopra chiarite, merita forse un ripensamento l’opzione favorevole a conservare alla amministrazione il potere di provvedere oltre ogni limite fissato dalla sentenza e anche dopo la nomina o l’insediamento del commissario ad acta.
Resta fermo che in tutti i casi in cui il carattere ampiamente discrezionale della attività da svolgere consiglia di riservare la decisione alla competenza e alla responsabilità dell’amministrazione, le parti potranno chiedere, ed il giudice accordare, misure di coercizione indiretta dell’obbligo di provvedere, quali la penalità di mora.
[1] Sia consentito rinviare a A. Scognamiglio, Silenzio della PA e regime giuridico del provvedimento sopravvenuto alla nomina del commissario ad acta, in questa Rivista, 19 gennaio 2021.
[2] Secondo R. Villata, Esecuzione delle ordinanze di sospensione e giudizio di ottemperanza (addendum),in Scritti di giustizia amministrativa, Milano, 2015, 1074, il diverso regime sostanziale e processuale a seconda che l’atto sia affetto da nullità, per contrasto con il giudicato, o da annullabilità si giustifica anche con riferimento agli atti adottati dal commissario.
[3] Nota R. Villata, Esecuzione delle ordinanze di sospensione e giudizio di ottemperanza , in Dir. proc. amm., 1989, 370, che “di solito le pronunce della Adunanza Plenaria pongono fine, almeno temporaneamente, ai dissensi che si son manifestati nelle singole sezioni. Quasi di segno opposto è stato l’esito della decisione n. 23 del 1978, nella parte concernente la natura giuridica del commissario ad acta e il regime dell’impugnazione dei suoi atti”.
[4] In particolare il dibattito sulla natura del commissario straordinario e sul regime dei suoi atti è stato ancora alimentato da una serie di sentenze del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia pure riportate da Villata nello scritto citato alla nota precedente.
[5] R. Villata, Esecuzione delle ordinanze di sospensione, cit.
[6] L’indirizzo favorevole a scomporre l’attività del commissario in due parti (quella meramente esecutiva della sentenza e quella discrezionale) è riconducibile a C.G.A. Sicilia, 21 dicembre 1982, n. 92; Id. 31 maggio 1984, n. 61; Id., 22 marzo 1993, n. 114; cfr. anche T.A.R. Lazio, sez. II, 12 maggio 1988, n. 681; In dottrina, S. Giacchetti, Un abito nuovo per il giudizio di ottemperanza, in Foro Amm., 1979, I, 2618; ID, Il commissario «ad acta» nel giudizio di ottemperanza: si apre un dibattito, in Foro Amm.,1986, 1967.
[7] Nella Relazione governativa al codice 7 luglio 2010, §124 emerge la chiara consapevolezza che le due disposizioni citate hanno inteso risolvere “un contrasto di giurisprudenza in ordine all’impugnabilità degli atti del medesimo commissario oramai contestabili innanzi al giudice dell’ottemperanza”.
[8] In particolare, vedi: M. Ramajoli, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, cit., 741-742. L’Autrice rileva che “se l’effetto conformativo della sentenza avverso il silenzio è pressoché nullo, limitandosi alla mera necessità di provvedere, l’attività richiesta al commissario risulta di tipo sostitutivo pieno, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisine giudiziale se non per quanto attiene all’accertamento dell’obbligo di provvedere. Ne consegue che il commissario andrebbe assimilato non già all’ausiliario del giudice nominato per dare esecuzione a una sentenza, come avviene in sede di ottemperanza, quanto semmai a un organo straordinario dell’amministrazione rimasta inerte”. In tal senso anche E. Quadri, in Codice del processo amministrativo, a cura di R. Garofoli e G. Ferrari, Roma, 2010, 1617; A. Cioffi, Il dovere di provvedere nella legge sull’azione amministrativa, in A. Romano (a cura di) L’Azione amministrativa, Torino, 2016, 162; V. Lopilato, Il giudizio di ottemperanza, in G.P. Cirillo, (a cura di) Il nuovo diritto processuale amministrativo, Padova, 2014, 1094.
[9] G. Mari, L’azione avverso il silenzio, in M.A. Sandulli (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Milano, 2013, Vol. I, 250 e ss.. quando la sentenza è di mera condanna a provvedere, difatti, “il merito della questione viene valutato per la prima volta dal commissario, il quale, non potendo desumere dalla sentenza alcuna indicazione su come avrebbe dovuto svolgersi l’attività amministrativa, opererà in via autonoma, non nella veste di longa manus del giudice, quanto piuttosto di sostituto dell’amministrazione, i cui atti costituiscono autonomi provvedimenti amministrativi, impugnabili con ricorso giurisdizionale ordinario”
[10] L. Bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, B. Sassani e R. Villata (a cura di), Il codice del processo amministrativo, 986 e ss..
[11] Vedi ad esempio Tar Lazio, sez. II, 8 luglio 2014, n. 7229 che assimila il commissario nominato dal giudice del silenzio “ad un organo dell’amministrazione” piuttosto che “ad un ausiliario del giudice”.
[12] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2335 per la quale il commissario, in quanto figura che promana dal giudice svolge “attività soggettivamente giurisdizionale”.
[13] In tal senso vedi F. Scalia, Profili problematici del rito sul silenzio dell’amministrazione nella prospettiva dell’effettività e pienezza della tutela, in www.federalismi.it 2016, 16 ss. La tesi troverebbe conferma nella lettera dell’art. 117, comma 4 che rimette al giudice del silenzio tutte le questioni relative allo “esatto adempimento”. L’impiego dell’aggettivo “esatto” starebbe a testimoniare il carattere necessariamente vincolato dell’attività propria dell’amministrazione (o del commissario che alla stessa si sostituisca) nella fase esecutiva del giudizio sul silenzio. “Solo un’attività vincolata, infatti, può essere definita con esattezza nelle modalità di esecuzione (quomodo) e nei contenuti del provvedimento in cui si esplichi, grazie al raffronto con una norma giuridica che riconosca la pretesa e ne indichi, con precisione, i presupposti oggettivi e soggettivi”. L’intenzione del Legislatore di circoscrivere ai casi di attività vincolata la nomina del commissario ad acta emergerebbe ancor più chiaramente dal raffronto tra l’art. 117, comma 4 e l’art. 114, comma 6 il quale rimette invece al giudice dell’ottemperanza: “tutte le questioni relative all’ottemperanza” L’eliminazione di ogni aggettivazione del termine “ottemperanza” –operata dal primo correttivo al codice – è letta come chiaro indice della volontà del legislatore di concentrare dinnanzi al giudice dell’ottemperanza ogni questione sollevata dalle parti concernente gli atti commissariali, ancorché i vizi che vengano dedotti non si identifichino con i profili di contrasto rispetto alle pregressa statuizione giurisdizionale, ma siano relativi all’ambito di discrezionalità dell’azione del commissario ad acta. Nel rito speciale avverso il silenzio, l’accertamento nel merito della fondatezza della pretesa sarebbe rimesso al giudice dell’ottemperanza da adirsi con un nuovo ricorso nel caso in cui persista l’inerzia dell’amministrazione.
[14] Cons. Stato, Ad. plen, 2 febbraio 2016, n. 2.
[15] In tal senso: V. Lopilato, Articolo 117 – Ricorsi avverso il silenzio, in F. Caringella - M. Protto (a cura di), Codice del nuovo processo amministrativo, Milano 2012, 1143 e, già nel vigore dell’art. 21 bis della legge Tar, G. Montedoro,Ottemperanza speciale “contra silentium” ed ottemperanza anomala nel processo amministrativo”, in Urbanistica ed appalti, 2001, 892-893
[16] Come desumibile dal confronto tra la formulazione dell’art. 133 e dell’art. 134 c.p.a.. La prima norma, nel dettare l’elenco dei casi di giurisdizione esclusiva, fa espressamente salve “ulteriori disposizioni di legge”. Un inciso analogo non è invece contenuto nell’art. 134 c.p.a.
[17] Significative dell’incerta natura dell’attività del commissario le perplessità della giurisprudenza riguardo alla soggezione o meno di questa alle regole del giusto procedimento. Così per Cons. stato, sez. III, 27 novembre 2017, n. 5500 “Per quanto sia auspicabile che il commissario coinvolga le parti, al fine del raggiungimento di un eventuale accordo, comunque non esiste alcuna disposizione che obblighi il Commissario ad acta a compiere la sua attivitàgarantendo la partecipazione delle parti. L’esigenza di tutela delle ragioni di quest’ultime è assicurata nell’ambito del giudizio di ottemperanza dinanzi al Giudice, al quale può essere presentato eventualmente reclamo nel caso in cui le determinazioni del Commissario ad acta siano ritenute in contrasto con la statuizione giudiziale da eseguire (artt. 112 ss. D.Lgs. n. 104/2010, CPA). Mentre il Tar del Lazio, 17 gennaio 2010, n. 775 si è pronunciato nel senso dell’illegittimità “per la mancata comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza e per la conseguente adozione del provvedimento negativo senza il previo contraddittorio procedimentale, il provvedimento con cui il commissario ad acta all'uopo nominato ha rigettato l'istanza con cui l'Associazione italiana di diritto comparato aveva chiesto al ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca di dichiarare la reciproca ed esclusiva affinità tra i settori scientifico-disciplinari Ius 02 (diritto privato comparato) e Ius 21 (diritto pubblico comparato)”.
[18] In tal senso, cfr. Cons. stato, sez. IV, 18 agosto, 2021, n. 2335 e il bel commento di R. Fusco, Autotutela sugli atti del commissario ad acta nel giudizio avverso il silenzio, in questa Rivista, 3 maggio 2021.
[19] Vedi supra al §1, n. 3.
La disciplina “civilizzata” della rinnovazione della notificazione nulla del ricorso nel processo amministrativo (nota a Corte cost. 9 luglio 2021, n. 148)
di Alessandro Squazzoni
Sommario: 1. L’eccentrica disciplina dell’art. 44 c.p.a. e la prima correzione con la sentenza n. 132/2018 – 2. L’infelice sentenza n. 18/2014 - 3. La Corte corregge oggi la rotta con la sentenza n. 148/2021 – 4. Breve divagazione sulla razionalità di un sistema che estromette l’indagine sulla scusabilità dell’errore dalla rinnovazione sanante la nullità della notificazione - 5. Dalla Corte un altro monito per un modo diverso di guardare al processo amministrativo.
1. L’eccentrica disciplina dell’art. 44 c.p.a. e la prima correzione con la sentenza n. 132/2018
Prima che gli interventi della Corte costituzionale, e quest’ultimo finalmente, ne facessero tabula rasa, le disciplina che il codice del processo amministrativo dettava per l’ipotesi di nullità della notificazione del ricorso si può ben dire fosse, quantomeno, eccentrica[1].
La costituzione dell’intimato – recitava il comma 3 dell’art. 44 c.p.a. - «sana la nullità della notificazione del ricorso, salvi i diritti acquisiti anteriormente alla comparizione». Poiché la formula riecheggiava l’antica salvezza del diritto all’inammissibilità del ricorso per intervenuta decadenza – o altrimenti detto diritto all’irrevocabilità del provvedimento – il precetto si risolveva in una regola ai limiti del canzonatorio. Nel processo amministrativo di legittimità la decadenza impera su ogni azione. Immaginare che la PA si costituisca prima che ad esempio scada il termine di 60 giorni che governa la notifica dell’azione d’annullamento è pura astrazione. D’altro canto se la costituzione successiva a quel termine viene premiata assicurando una tombale declaratoria di inammissibilità in rito, un avvocato minimamente avveduto, nel caso di notifica nulla del ricorso, avrebbe il più delle volte consigliato all’Amministrazione patrocinata di attendere a costituirsi il giorno dopo la scadenza di quel termine anche quando fosse stata in grado di costituirsi prima, lucrando così sull’errore del ricorrente.
Insomma, si trattava di una pretesa sanatoria ex nunc, che in tale materia - come ricordava Satta[2] - non è però affatto una sanatoria.
Sulla sciagurata disposizione che faceva salvezza dei diritti quesiti prima della comparizione è scesa la scure della Corte costituzionale con la sentenza n. 132/2018[3].
Quel verdetto era prevedibile. Nel processo amministrativo ante codice la convalida con effetto ex tunc per l’ipotesi di costituzione della PA intimata, ancorché con notifica nulla, era stata stabilmente affermata quantomeno a partire dalla Plenaria del 16 dicembre 1980, n. 52. D’altro canto, già con la sentenza n. 97 del 1967 la Corte costituzionale, nel giudicare dell’art. 11, comma 3, r.d. n. 1611/1933 aveva affermato che la sanatoria della nullità della notifica per effetto di costituzione (c.d. convalidazione) è un principio generale del sistema degli atti processuali, aggiungendo pure che non sarebbe stata assistita da alcun logico fondamento un’eccezione al principio motivata dal fatto che intimata è una pubblica amministrazione.
La via per dichiarare la violazione dell’art. 76 Cost. in ragione del contrasto con l’art. 156, comma 3, c.p.c. e con la giurisprudenza delle superiori giurisdizioni era lì dunque già spianata.
2. L’infelice sentenza n. 18/2014
Più faticoso ed accidentato è stato invece il percorso che ha condotto alla decisione che qui si segnala.
La sentenza n. 148/2021 si occupa infatti del diverso precetto contenuto nel comma 4° dell’art. 44 c.p.a. che disciplina l’ipotesi in cui alla nullità della notifica non faccia seguito la costituzione del destinatario.
Qui l’eccentricità della norma risiedeva nel fatto che il dovere del giudice di disporre la rinnovazione della notifica, con conseguente effetto impediente la decadenza, era subordinato alla non imputabilità al notificante del cattivo esito della prima notifica. Una condizione, fortemente limitativa dell’operatività della sanatoria, che invece non è presente nella disciplina del processo civile contenuta nell’art. 291 c.p.c.
Nel 2014 la questione di costituzionalità fu sottoposta alla Corte dal Tar Lecce nell’ottica, forse un po' limitata, del contrasto con l’obbligo di coordinamento con precetti del codice di procedura civile espressione di principi generali, obbligo stabilito dalla legge delega per il riordino del processo amministrativo.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 18/2014, liquidò la questione come infondata[4].
La regola prevista dall’art. 291, comma 1, c.p.c., - si disse nell’occasione - non solo non sarebbe l’espressione di un principio generale, ma addirittura sarebbe incompatibile con la struttura del processo amministrativo. Incompatibilità che dipenderebbe dall’essere tale giudizio caratterizzato dalla perentorietà del breve termine per la sua introduzione, oltre che dall’assenza dell’istituto della contumacia. In detto giudizio, pertanto, vigerebbe un opposto principio per cui, ai fini della regolare instaurazione del rapporto processuale, il ricorso dovrebbe entro il prescritto termine di decadenza essere notificato ritualmente.
Una motivazione davvero infelice.
Basti pensare che nell’ordinamento processuale civile italiano sin dall’origine (e vale a dire nel combinato tra gli art. 145 e 190 del c.p.c. del 1865) la disciplina della rinnovazione che tragga causa dalla nullità della notificazione dell’atto introduttivo fu prevista prevalentemente proprio allo scopo di assicurare il c.d. effetto conservativo sul piano della decadenza e del termine perentorio ed oggi (con l’art. 291 c.p.c.) ha pressoché esclusivamente questo scopo. Aggiungasi che la disciplina della rinnovazione che tragga causa dalla nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, sin dalla sua origine come pure oggi, non è affatto in funzione del procedimento contumaciale.
Per avere una prova plastica di tali affermazioni sarebbe stato sufficiente ricordare che l’art. 291 c.p.c. si rende applicabile anche al procedimento per cassazione, che è impugnazione soggetta termine perentorio e che non conosce l’istituto della contumacia[5]. E analoghe considerazioni potrebbero farsi osservando che il precetto del processo civile è stato ritenuto applicabile anche al giudizio tributario[6].
Tutt’al più nel 2014 la Corte – se proprio si voleva arrivare a tutti i costi a quella soluzione – avrebbe semmai dovuto ricordare che l’elemento dell’imputabilità del vizio alla parte era nella mente di Pisanelli a motivo dell’introduzione della disciplina della rinnovazione della notifica nulla, onde evitare che sulla parte ricadessero le conseguenze fatali di errori imputabili all’usciere. E sebbene tale elemento sia stato bandito dall’interpretazione e applicazione delle norme processualcivilistiche di riferimento già nella pratica del codice del 1865 persino Chiovenda vi rimaneva affezionato[7].
Questo per dire che la natura di “principio generale” del processo della regola che vuole la rinnovazione della notifica nulla insensibile all’imputabilità del vizio (ovvero all’autoresponsabilità) – sebbene a torto - poteva forse anche essere indubbiata con una qualche raffinatezza di argomenti.
Ma non certo accampando presunte incompatibilità strutturali tra il processo amministrativo e l’art. 291 c.p.c. e meno che meno facendo leva sul termine decadenziale che domina nel primo.
Piuttosto occorre con onestà ammettere che le forti resistenze opposte dalla giurisprudenza amministrativa alla regola della rinnovazione processualcivilistica avevano ben altre radici.
Si trattava, infatti, di un altro di quei casi in cui la teorica dell’errore scusabile non è stata affatto utilizzata per lenire il rigore dei termini perentori, quanto per disconoscere l’operatività di meccanismi, originati dal processo civile, basati sull’efficacia impediente di un atto viziato ma tempestivo. Il tutto nel riflesso di una concezione graziosa (o principesca) della giurisdizione amministrativa, che fa tutt’uno con la consapevolezza, nemmeno tanto latente, che la declaratoria in rito di un ricorso è il miglior modo per assicurare l’inoppugnabilità del provvedimento, di modo che la sanatoria automatica degli errori processuali (che non sia cioè somministrata o meno a piacimento del giudice) andrebbe quanto più possibile bandita.
3. La Corte corregge oggi la rotta con la sentenza n. 148/2021
Fortunatamente la Corte è tornata sui suoi passi con la sentenza che in questa sede di segnala[8]. E ciò, va detto, soprattutto grazie al coraggio non scontato di un’ordinanza di rimessione della V Sezione del Consiglio di Stato che a pochi anni dalla pronuncia lapidaria del 2014 ha riproposto la questione di costituzionalità con un variegato ventaglio di argomentazioni.
Argomenti che in buona sostanza fanno capo a due gruppi. Dapprima, riprendendo anche le critiche prospettate dalla dottrina a carico della sentenza n. 18/2014, la V Sezione ha cercato di indurre la Corte ad un ripensamento e quindi a dichiarare la violazione dell’art. 76 Cost. sulla base della natura di principio generale del processo riconosciuta – in tesi – alla disciplina dell’art. 291 c.p.c. In via ulteriore la V Sezione ha prospettato la violazione degli artt. 3, 24 e 113 Cost. sotto il profilo della compressione ingiustificata e sproporzionata del diritto di azione, insita nella condizione apposta dal 4° comma dell’art. 44 c.p.a., e cioè nel far dipendere la rinnovazione dalla non imputabilità del vizio. In particolare secondo il Consiglio di Stato, la garanzia del diritto di azione di cui agli artt. 24 e 113 Cost. “implica la necessità di favorire la pronuncia di merito, scopo ultimo del processo, senza assecondare decisioni di rito che non siano in un rapporto ragionevole di proporzionalità con lo scopo perseguito”.
Ebbene per ragioni del tutto intuibili nella motivazione la Corte costituzionale ha respinto la prima prospettiva, affermando che non vi erano ragioni per discostarsi dalla decisione del 2014[9], ma ha invece fatto propria la seconda.
Pertanto l’inciso che subordina la rinnovazione della notifica nulla ad una valutazione dell’imputabilità del vizio al notificante è stato rimosso dal comma 4 dell’art. 44 c.p.a. che così, di fatto, si è allineato all’art. 291 c.p.c.
Ora qui in effetti non conta tanto chiedersi se sia davvero possibile addivenire ad una dichiarazione di incostituzionalità della previsione in questione basata sulla sua irragionevolezza senza al contempo implicitamente ammettere che l’art. 291 c.p.c. è a sua volta espressione di un principio generale del processo[10].
E’ molto più interessante segnalare che incanalandosi per quella via alternativa, la Corte ha finito necessariamente con l’esprimere alcune affermazioni assai più ricche di risvolti sistematici, ma al contempo tangendo questioni molto più delicate.
Secondo la Corte, infatti, l’esigenza di certezza presidiata dalla norma sulla decadenza[11] risulterebbe travalicata dal precetto che “fa discendere da un vizio esterno all’atto di esercizio dell’azione stessa la definitiva impossibilità di far valere nel giudizio la situazione sostanziale sottostante. L’effetto di impedimento della decadenza va, in definitiva, ricollegato all’esercizio dell’azione entro il termine perentorio, ma non può essere escluso dalla nullità della notificazione, non integrando quest’ultima un elemento costitutivo dell’atto che ne forma oggetto, bensì assolvendo ad una funzione, strumentale e servente, di conoscenza legale e di instaurazione del contraddittorio”. Sulla base di questo argomento la Corte conclude quindi nel senso che “la limitazione, posta dall’art. 44, comma 4, cod. proc. amm., della rinnovazione della notificazione del ricorso alle sole ipotesi in cui la nullità non sia imputabile al notificante non risulta proporzionata agli effetti che ne derivano, tanto più che essa non è posta a presidio di alcuno specifico interesse che non sia già tutelato dalla previsione del termine di decadenza”.
In verità in questo motivare la Corte riecheggia una tesi, assai diffusa anche in dottrina, e propensa a spiegare il peculiare trattamento della nullità ex art. 291 c.p.c. facendo leva sulla natura meramente strumentale del procedimento notificatorio, i cui vizi non debbono pregiudicare la piena validità dell’atto introduttivo[12]. In parole povere – si pensa – il vero atto impediente di esercizio dell’azione è la domanda al giudice e non anche la notificazione, preordinata solo a darne notizia[13].
Si tratta tuttavia di una tesi, certo condivisibile, ma che evoca un profilo molto (o troppo) scivoloso che – tra l’altro - indurrebbe ad affrontare il tema del ruolo della ricettizietà dell’atto differenziandolo tra decadenza e prescrizione[14].
In verità la conclusione della Corte può forse essere corroborata anche da argomenti di più facile accesso.
4. Breve divagazione sulla razionalità di un sistema che estromette l’indagine sulla scusabilità dell’errore dalla rinnovazione sanante la nullità della notificazione
Il primo di questi argomenti è il più semplice e al tempo stesso forse il più convincente.
Come la storia del processo civile ci insegna, un sistema che nel campo della nullità della notificazione riconosca un differente spettro di applicazione dell’effetto sanante, rispettivamente, alla convalidazione per costituzione ed alla dinamica della rinnovazione è irrazionale perché si presta ad indesiderabili distorsioni. In altre parole il costante parallelismo nella capacità sanante della convalidazione e della rinnovazione, tipico della disciplina del processo civile, ha una sua intima razionalità di fondo che risiede anche nell’esigenza di sottrarre i meccanismi di recupero del vizio ad un uso claudicante a seconda delle strategie del convenuto, per affidarli piuttosto a dati oggettivi.
Il legislatore del c.p.a. era addirittura riuscito nell’inaudito esito di consentire alla rinnovazione (nel caso di errore scusabile) un effetto sanante più ampio di quello riservato alla costituzione (che non avrebbe vinto i diritti anteriormente quesiti).
Risolta la cosa dalla sentenza n. 132/2018, da lì in avanti il disallineamento giocava nel senso di uno spettro di sanatoria più ampio riservato alla convalidazione per costituzione (ove la sanatoria opera anche se il vizio è imputabile al notificante) rispetto alla disciplina della rinnovazione.
Anche una disciplina siffatta – sebbene parzialmente corretta - rendeva però il convenuto arbitro delle sorti del processo consentendogli un calcolo opportunistico dei vantaggi che possono derivare dalla nullità. Pur nei casi in cui non vi è affatto ignoranza del processo da parte dell’intimato - e nelle più comuni nullità della notificazione di pratica ricorrenza nel rito amministrativo tale ignoranza non c’è -[15], di fronte ad un vizio di notifica evidente la PA sarebbe stata indotta ad evitare di costituirsi potendo tranquillamente confidare nella chiusura in rito del processo, a fortiori se le ragioni di merito siano tutte a vantaggio del ricorrente.
In effetti sarebbe forse sufficiente denunciare tale profilo per concludere nel senso dell’irrazionalità ingiustificabile di siffatta regolamentazione processuale, irrazionalità alla quale la Corte ha posto finalmente rimedio.
Volendosi poi addentrare su un terreno un poco più denso, è noto che le spiegazioni sulle ragioni di esonero della rinnovazione della notificazione nulla civile da valutazione legate all’imputabilità del vizio non sono mancate.
E a giudizio di chi scrive la più convincente prende ancora le mosse da uno spunto a suo tempo offerto da Ludovico Mortara che non si appagò di osservare – come pure avrebbe potuto - che nella disciplina positiva del codice del 1865 la distinzione basata sulla responsabilità della parte piuttosto che dell’usciere “era inventata di sana pianta”[16].
Volendo andare alla ricerca della ragione del peculiare trattamento salvifico riservato ai vizi della sola notificazione rispetto alla più severa sanzione dei vizi recati dalla citazione (id est compilazione del libello) Mortara in verità osservava che, se riguardato dal punto di vista processuale e dell’instaurazione del contraddittorio il vizio di notificazione (e non quello di citazione) avrebbe dovuto ricevere il trattamento più severo. Ma la prospettiva poteva razionalmente capovolgersi se il punto di vista eletto fosse invece stato quello di taluni altri effetti collegati alla proposizione della domanda, com’è appunto per l’impedimento della decadenza, il che accadeva proprio in grazia dell’allora art. 145 c.p.c. (ora 291 c.p.c.).
Le regole previste per la notificazione erano (e tuttora sono) infatti preordinate a fornire una presunzione che l’intimato venga a conoscenza dell’atto. Il vizio, risolvendosi in niente altro che in una diminuzione dell’idoneità della notificazione a fornire detta presunzione (e molto spesso contro la realtà stessa) poteva con buona ragione meritare un trattamento tale che dalla nullità non sortisca la perdita del diritto.
In altre parole la ragione che induce a far sì che il diritto minacciato dall’estinzione non sia irreparabilmente perso se la notificazione è nulla risiede in una sorta di retropensiero del legislatore. Ben vero che la conoscenza legale si ha solo rispettando la fattispecie astratta. Ma non è meno vero che la realtà molto spesso è contraria alla logica di questa presunzione nel preciso senso che la notifica effettuata difformemente può avere non minori probabilità di far giungere l’atto a conoscenza del destinatario.
Così inquadrati i tratti della questione, ben si comprende perché non abbia ragioni di spazio una distinzione fondata sull’imputabilità del vizio.
Del resto, volendo ricorrere a più moderne teorizzazioni è da notare che la notificazione affetta da nullità si differenzia all’inesistenza proprio perchè è comunque una manifestazione obiettiva di volontà dell’agente orientata allo scopo tipico della notificazione, dovendosi peraltro concepire la nullità – sul piano generale - non tanto come una sanzione che frustra l’aspirazione di chi agisce impropriamente, bensì come meccanismo di recupero oggettivo, nel senso della rilevanza processuale, dell’attività compita con mezzi inadeguati[17]. E anche da questo punto di vista ben si comprende che l’imputabilità o meno della nullità non dovrebbe avere alcun ruolo[18].
5. Dalla Corte un altro monito per un modo diverso di guardare al processo amministrativo
L’importanza della sentenza n 148/2021 va però ben al di là della pur rilevantissima questione della rinnovazione della notificazione viziata.
Chi legga questa sentenza con la mente rivolta alla famosissima sentenza n. 77/2007 sulla c.d. translatio iudicii non tarderà a scorgervi un evidente filo conduttore.
Un filo che in realtà si richiama al principio di conservazione dell’effetto impediente ed al “terribile” problema dei nessi tra c.d. impedimento della decadenza e azione esitante in rito.
Ovviamente non è questa la sede per tornare su un tema non ancora esplorato quanto meriterebbe[19].
Ci si può tuttavia almeno lasciare con una conclusione indotta da un approccio istintivo.
I giudici amministrativi – ma in verità non solo loro - sono abituati a pensare che vi sia un legame diretto tra azione dominata dalla decadenza e “regolamentazione” dell’inammissibilità (in senso ampio) del ricorso. Quasi che l’irreparabilità della violazione della regola processuale sia la connaturata e più logica conseguenza del fatto che il legislatore ha voluto assoggettare il potere di azione all’imperio della decadenza. Detto in parole più rozze molto spesso si è indotti a ritenere che le stesse esigenze di certezza presidiate dalla decadenza non decampino nel corso del processo tempestivamente instaurato e siano le medesime che impongono un trattamento severo degli errori processuali tendenzialmente immune da meccanismi sananti.
Ebbene la Corte costituzionale ci dice che le cose non stanno affatto così.
L’aspetto più interessante della sentenza n. 148/2021 risiede infatti nel dirci che la decadenza (e le esigenze che la fondano) è preordinata a fornire esclusivamente la risposta del sistema a colui che rimanendo inerte non abbia esercitato l’azione nel termine, mentre è vanamente interrogata quando si è esercitata per tempo un’azione ancorché poi non già idonea ad esitare in una sentenza di merito. A fronte di questa seconda e ben diversa situazione, stando alle parole della Corte, quelle esigenze sembrano debbano sparire dalla scena, che è destinata ad essere occupata ed orientata allora da altri valori di rango costituzionale cui la disciplina del processo deve necessariamente adattarsi.
E questi valori – sempre stando alle parole della Corte – rimontano in buona sostanza a due ordini di considerazioni.
Il processo deve tendere per quanto più possibile ad una sentenza che affronti il merito.
L’esigenza di preservare gli effetti sostanziali della domanda non può essere sacrificata in modo irragionevole e sproporzionato.
Ora per rendersi conto della portata potenzialmente rivoluzionaria dell’impatto di questa sentenza sul processo amministrativo, basterebbe attenersi ad una constatazione.
La Corte – di fatto - ci dice che in presenza di un’azione minacciata da decadenza una disciplina che non consenta la sanatoria della nullità della notifica determina un sacrificio irragionevole e sproporzionato della situazione soggettiva azionata.
Ebbene, il fatto che storicamente le più importanti manifestazioni dell’effetto conservativo della domanda si siano materializzate proprio nei due campi dell’errore nell’imploratio iudicis e della notifica viziata, non può certo indurci solo ad un senso di beatitudine pensando che prima con la sentenza n. 77/2007, e oggi con la sentenza n. 148/2021, la Corte costituzionale ha finalmente chiuso il cerchio, restituendo al processo amministrativo un’eleganza troppo a lungo negata.
Una volta tirato in ballo il giudice delle leggi queste sue affermazioni cessano infatti di essere così anodine perché obbligano l’interprete che le voglia prendere sul serio ad andare oltre. Ad ispezionare, cioè, la gran messe di figure di inammissibilità/improcedibilità e comunque declaratorie in rito presenti nel processo amministrativo, molte delle quali, per giunta, di matrice squisitamente giurisprudenziale, per chiedersi appunto se superino quel test di ragionevolezza e proporzionalità.
Ora il fatto che questo test non sia stato superato da una norma che limitava la possibilità di rinnovare la notifica argomentando dal fatto che “L’effetto di impedimento della decadenza va, in definitiva, ricollegato all’esercizio dell’azione entro il termine perentorio” rende il senso, per chi lo voglia cogliere, di una possibile rivoluzione alle porte.
[1] Per un commento ragionato all’originaria disciplina dei commi 3 e 4 dell’art. 44 c.p.a., cfr. R. Villata – L. Bertonazzi, Commento sub art. 44, in A. Quaranta – V. Lopilato (a cura di), Il processo amministrativo. Commentario al D.lgs. 104/2010, Milano 2011, 445 ss.
[2] S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1959-1962, II, 1, 34: “una sanatoria ex nunc non è affatto una sanatoria, ma anzi presuppone la nullità”.
[3] Su questa sentenza, cfr. F. G. Scoca, Processo amministrativo e principio del raggiungimento dello scopo, in Giur. cost., 2018, 1395; M. A. Sandulli – F. Aperio Bella, Nullità della notifica e costituzione sanante, in Libro dell’anno del diritto 2019, Treccani, pp. 652-659; I. Rossetti, L’inizio di una reductio ad unitatem? cadono i diritti acquisiti prima della comparizione dell’intimato nell’ipotesi di nullità della notificazione, in Dir. proc. amm., 2019, 930.
[4] Per un commento alla sentenza n. 18/2014 ci si permette di rinviare a A. Squazzoni, Sulla supposta incompatibilità tra struttura del processo amministrativo e obbligo di disporre la rinnovazione della notificazione del ricorso affetta da nullità, in Dir. proc. amm., 2014, 1301 ss., ove si è cercato di ricostruire il tema anche in dimensione storica.
[5] Cass, Sez. I, ord. 5 aprile 2019, n. 9693; Cass., sez. V, 27 settembre 2011, n. 19702; Cass., sez. III, 27 aprile 2011, n. 9411; Cass., sez. un., ord. 29 aprile 2008, n. 10817; Cass., sez un., 29 ottobre 2007, n. 22642.
[6] Cass., sez. VI, ord. 6 giugno 2014, n. 12855; Cass., sez. V, 28 luglio 2011, n. 16572; Cass., sez. V, 2 agosto 2000, n. 10136. In dottrina, A. Finocchiaro – M. Finocchiaro, Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, 481 ss. in part. 483; A. M. Socci – P. Sandulli, Manuale del nuovo processo tributario, Bologna, 1997, 134; M. Bruzzone, Notificazioni e comunicazioni degli atti tributari, Padova, 2006, 225 ss.
[7] G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1923, 648.
[8] Per un approfondito commento della sentenza n. 148/2021, cfr. già C. Delle Donne, L’incostituzionalità dell’art 44, c. 4 cpa nella parte in cui subordina la rinnovazione della notifica nulla, in assenza di costituzione del destinatario, all’errore scusabile: arretra la rimessione in termini e avanza la rinnovazione ex art. 291, c. 1 cpc, in Judicium.it.
[9] Parla di sbrigativa conferma di un “precedente imbarazzante” di cui però nella sostanza non rimarrebbe più nulla, C. Delle Donne, op. cit.
[10] Questo profilo è trattato in C. Delle Donne, op.cit., che giustamente rileva come la tecnica dell’art. 291 c.p.c. alla fine si sia imposta perché risponde ad un principio generale.
[11] Sulla funzione della decadenza nel processo amministrativo, non vi è che da rinviare a A. Marra, Il termine di decadenza nel processo amministrativo, Milano, 2012.
[12] In arg. B. Ciaccia Cavallari, La rinnovazione nel processo di cognizione, Milano, 1981, 342 ss.; A. Frassinetti, La notificazione nel processo civile, Milano, 2012, 189-190.
[13] Secondo cioè una logica di fondo già propria di F. Carnelutti, Notificazione della citazione di appello da parte di ufficiale giudiziario incompetente, in Riv. dir. proc., 1934, II, 114-115, ove la ratio dell’art. 145 cpv. c.p.c. del 1865 veniva fondata sul fatto che la parte ha manifestato la volontà di proporre una domanda al giudice, e poiché la decadenza (come pure la prescrizione) vuol colpire l’inerzia della parte la legge dà modo di evitarla quando una vera inerzia non vi è stata.
[14] Per non parlare poi del fatto che la questione si intreccia con la risalente tematica delle note di struttura del processo amministrativo “da ricorso”, con tutta la connessa problematica del ruolo rivestito in siffatto modello dalla vocatio iudicis. Su tale tradizionale tematica, cfr. le recenti riflessioni di M. Ramajoli, L’atto introduttivo del giudizio amministrativo tra forma e contenuto, in Dir. proc. amm., 2019, 1051 ss.
[15] Basti pensare al frequente caso della notifica diretta alla sede reale delle amministrazioni statali anziché all’avvocatura, per non parlare delle più recenti vicende legate al domicilio pec delle PPAA.
[16] L. Mortara, (già in) Appello civile (voce), Digesto italiano, Torino, 1890, III, 2, nn. 1190 e ss., pp. 854 ss. Il tema è poi ripreso dallo stesso Mortara in Commentario del Codice e delle leggi di procedura Civile, Milano, s.d., vol. II, 817 ss. e vol. III, 267 ss.
[17] In arg. F. Auletta, Nullità e «inesistenza» degli atti processuali civili, Padova, 1999, 129 ss.
[18] Diligenza della parte che invece torna ovviamente a reclamare il suo giusto ruolo nei casi in cui il rimedio alla condotta erronea non possa che essere riscontrato dalla tecnica dell’errore scusabile, come avviene nel caso di notifica oggettivamente e materialmente tardiva o addirittura inesistente.
[19] Per un tentativo di avviarlo ad indagine, A. Squazzoni, Declinatoria di giurisdizione ed effetto conservativo del termine, Milano, 2013.
Giustizia insieme, in linea con la sua linea editoriale, ospita due approfondimenti di diverso orientamento sul tema dell'obbligo vaccinale e del Green pass a firma del Prof. Antonio Ruggeri, emerito di diritto costituzionale dell'Università di Messina e del dott. Aldo Rocco Vitale, culture della materia in biogiuridica. La redazione 15.9.2021
Del green pass, delle reazioni avverse ai vaccini e di altre cianfrusaglie pandemiche come problemi biogiuridici: elementi per una riflessione
di Aldo Rocco Vitale*
«I molti non colgono la vera natura delle cose in cui si imbattono, né
le conoscono dopo averle apprese, ma se ne costruiscono un’opinione»
Eraclito, Dell'origine, Feltrinelli, Milano, 2007, pag. 148, Fr. 86.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Status artis - 3. Il green pass - 4. La tutela delle reazioni avverse - 5. Altre cianfrusaglie pandemiche - 6. Conclusioni.
1. Introduzione
«Talvolta accade che l’errore sia così simile alla verità che a nessuno può passare per la mente l’idea che si tratti di errore»:[1] così Lev Sestov ha sintetizzato il sottile confine tra la comprensione della realtà o il suo fraintendimento.
In questa direzione di assottigliamento dei confini si è mossa la crisi sanitaria del covid-19 in cui si sono sempre più sbiaditi i perimetri della conoscenza reale rispetto a quella presunta, si sono sempre confusi i limiti delle cosiddette “scienze dure” rispetto a quelle cosiddette “umane”, si sono smorzati i margini tra ciò che è scienza e ciò che non lo è, come tra ciò che è giuridico e ciò che è anti-giuridico.
In questo annebbiarsi delle destinazioni del pensiero sembrano essersi offuscate anche le dimensioni identitarie distintive tra scienza e fede e tra scienza e diritto.
In primo luogo, è emersa la singolare pretesa da parte della comunità scientifica, molto meno occasionale di ciò che può apparire trovando una compiuta – sebbene inefficace – sistematizzazione teoretico-accademica,[2] di essere destinataria della fede e della fiducia indiscussa da parte dell’opinione pubblica.[3]
Una simile pretesa disvela un sostanziale travisamento della natura della scienza che invece vive del dubbio, avanza con le ipotesi, e si sugella con la falsificazione.
Una predetta visione non soltanto tradisce la reale concezione della conoscenza scientifica, ma per di più esibisce una anti-storica prospettiva epistemologica con un ritorno al dogmatismo scientifico verificazionista che fino ad oggi era da considerarsi superato.
Soprattutto la medicina, nel vuoto lasciato dalla secolarizzazione a tappe forzate della civiltà occidentale, sembra essere maggiormente assurta a nuova categoria escatologica in grado di dar conto di tutto il senso della vita, della sofferenza e della morte umana, essa, come è stato argutamente notato proprio dalla critica di una personalità medica, «ha finito per sostituirsi alla religione come oppio de popoli».[4]
Il tramonto del dogmatismo scientifico del verificazionismo ha segnato, infatti, il passaggio dal pan-razionalismo critico, per cui tutto ciò che non può essere oggetto di osservazione e verificazione scientifico-sperimentale non esiste, al razionalismo pan-critico, per il quale, nulla può essere giustificato e ogni cosa può essere criticata in quanto, come ha osservato William Warren Bartley III, soltanto così viene preservata la razionalità della scienza poiché «il razionalista è colui che intende lasciare ogni asserzione e senz’altro ogni sua asserzione, compresi i suoi più fondamentali criteri, obiettivi e decisioni nonché la sua stessa posizione filosofica di base, aperti alla critica».[5]
Si rivela, insomma, una visione meno confacente alla scienza e più tipica dello scientismo, cioè di quella forma di sublimazione ideologica della scienza che rinnega la scienza medesima e la sua natura che, invece, è strutturalmente aperta al dialogo, al confronto, alla critica, come, in fondo, ha insegnato tra i tanti Richard Feynman per il quale, infatti, «un'altra caratteristica della scienza è che insegna il valore del pensiero razionale e l'importanza della libertà di pensiero, come pure la necessità di dubitare, di non dare per scontata alcuna verità[…]. Gli esperti che vi guidano possono sbagliare».[6]
In secondo luogo, si sono rimodulati durante il periodo pandemico i rapporti tra scienza e diritto con il secondo ridotto ad una funzione di subalternità rispetto alla prima come se fosse privo di una propria autonomia e dignità epistemica e come se la scienza, ancora una volta nelle vesti dello scientismo secondo l’accezione evidenziata da Augusto Del Noce,[7] fosse l’unica chiave interpretativa del fenomeno pandemico.
Sebbene le due dimensioni abbiano tratti comuni strutturali e funzionali, entrambe si fondono con la realtà, entrambe sono strumenti di comprensione della realtà, entrambe si avvalgono di principi generali e leggi specifiche, è anche pur vero che le differenze metodologiche, epistemologiche e teleologiche le distinguono in maniera netta e inderogabile.
Mentre la scienza, infatti, si avvale del dubbio, è analitica e tende alla quantità del dato di realtà sottoposto alla sua conoscenza, il diritto, invece, esige certezza, è sintetico e tende alla qualità del dato di realtà poiché nella sua vocazione essenziale è sempre riferito direttamente o indirettamente alla persona.
In questa prospettiva sebbene sia ovvio che il diritto debba tener conto delle risultanze della scienza, è anche necessario che non si appiattisca acriticamente sacrificando se stesso e la dimensione assiologica che lo vivifica dall’interno.
Se il diritto, infatti, non tutelasse la propria autonomia rischierebbe di essere annullato oltre che nella dimensione puramente teoretica anche in quella prassistica, perché se si lasciasse plasmare inesorabilmente e placidamente dalle risultanze scientifiche sarebbe inutile, per esempio, la figura del iudex peritus peritorum:[8] si potrebbe semplicemente di volta in volta sostituire il giudice con un comitato di scienziati (biologi, medici, ingegneri, chimici, fisici, statistici ecc) a cui sarebbe semplicemente demandato il compito di applicare meccanicamente la legge alla luce delle risultanze delle proprie discipline particolari.
La pandemia, insomma, ha aperto una finestra sulla crisi dei rapporti reciproci tra scienza e diritto, così che essendosi il diritto ridotto a mero ratificatore formale delle impellenze scientifiche dirette a fronteggiare l’epidemia – trascurando la propria autonomia valoriale – occorre adesso sottrarlo a quella forma di “imperialismo scientistico” a cui l’emergenza l’ha subordinato, poiché come ha precisato già da tempo John Dupré «esistono materie che richiedono una visione più sinottica e integrata di quella offerta dai metodi analitici propri della scienza».[9]
2. Status artis
Prima di entrare nel cuore dei problemi è inevitabile porre attenzione alle risultanze scientifiche fino ad oggi registrate e dar conto, seppur brevemente, dello status artis della campagna vaccinale che evidentemente è correlata alla principale questione del green pass e alle successive problematiche di cui in questa sede s’intende discutere.
Allo stato dell’arte, pur essendo certa l’alta efficacia dei vaccini di recente creazione e le risibili reazioni di breve periodo, è altrettanto senza dubbio impossibile conoscere se e quali possano essere gli eventuali effetti collaterali di lungo periodo, così come del resto non si conoscono molti altri aspetti del quadro generale, come affermato dalla stessa AIFA, secondo la quale non c’è attuale certezza sulla effettiva durata della protezione per i vaccinati (oscillando da 9 a 12 mesi), non si sa se i vaccinati possono comunque infettare a loro volta in modo asintomatico le altre persone, se vi possono essere particolari effetti collaterali per le persone con patologie autoimmuni, se vi sono possibili interferenze con altre vaccinazioni, se il vaccino impedisce soltanto la manifestazione della malattia o se invece impedisce anche la trasmissione dell’infezione.[10]
Senza dubbio la campagna vaccinale ha drasticamente diminuito le ospedalizzazioni, le complicazioni in caso di infezione e la mortalità in caso di complicazioni come risulta dal rapporto dell’ISS secondo cui la vaccinazione completa – per ora consistente in una doppia dose – garantisce una copertura dal ricovero in ospedale nel 94,6% dei casi, dal ricovero in terapia intensiva nel 97,3% dei casi e dal decesso nel 95,8% dei casi.[11]
Ciò nonostante, la diffusione della cosiddetta variante delta pare sia in grado di rendere contagiosi anche i vaccinati, come dimostrano il caso di Israele da cui risulta che il vaccino garantisce soltanto una bassa protezione dal contagio pari al 39%,[12] e soprattutto i dati forniti dal CDC statunitense relativi ad una ricognizione nello stato del Massachussetts in cui nel solo mese di luglio 2021 si sono registrati 469 casi nonostante la copertura vaccinale sia pari al 69% tra la popolazione e che di questi ben il 74%, cioè 346, riguardano persone completamente vaccinate.[13]
In questa direzione si muove il report stilato sempre dal CDC statunitense, pubblicato il 24 agosto 2021, secondo il quale con la diffusione della variante delta del coronavirus l’efficacia dei vaccini scende dal 90% al 66%, diminuendo anche l’efficacia degli stessi nella protezione dal contagio.[14]
A riprova di ciò, al netto del cosiddetto “paradosso di Simpson”[15] con cui alcuni hanno tentato di spiegare il fenomeno, si consideri il rapporto del Public Health England pubblicato il 20 agosto da cui risulta che la maggior parte dei nuovi contagi siano registrati proprio tra coloro che hanno completato il doppio ciclo vaccinale, a differenza di chi non è vaccinato, con, rispettivamente, ben 32.828 casi di contagio nel primo caso e soltanto 4.891 nel secondo.[16]
Al fine di un più esaustivo scenario occorre peraltro aggiungere che recentissimi studi hanno comprovato la riduzione graduale della protezione del vaccino nell’arco di un semestre, come risultante dai dati sintetizzati in uno studio pubblicato dal BMJ e condotto su ben 42.000 persone secondo il quale – fatta salva la validità nella protezione contro le forme gravi del covid – l'efficacia del vaccino Pfizer nel prevenire il contagio diminuisce progressivamente nell'arco di sei mesi.[17]
A completamento del quadro, inoltre, proprio mentre si raccolgono le presenti riflessioni, occorre dar atto del dibattito apertosi nella comunità scientifica sui rapporti tra vaccinazione di massa e insorgenza delle varianti, come, tra i molteplici esempi possibili, attesta lo studio pubblicato sulla nota e prestigiosa rivista Nature il 30 luglio 2021 in cui gli autori asseriscono che «counterintuitively, when a relaxation of non-pharmaceutical interventions happened at a time when most individuals of the population have already been vaccinated the probability of emergence of a resistant strain was greatly increased. Consequently, we show that a period of transmission reduction close to the end of the vaccination campaign can substantially reduce the probability of resistant strain establishment. Our results suggest that policymakers and individuals should consider maintaining non-pharmaceutical interventions and transmission-reducing behaviours throughout the entire vaccination period».[18]
Ciò considerato, il quadro è chiaramente parziale e in evoluzione su tutti i fronti.
3. Il green pass
Avendo chi scrive già ampiamente trattato il tema,[19] soprattutto in riferimento anche alla indubbia legittimità dell’eventuale obbligo vaccinale,[20] con ampio anticipo rispetto alla maturazione dei tempi, in questa sede si tenterà di approfondire le problematiche biogiuridiche più specifiche relative a ciò che è stato inaugurato come “green pass”.
La pandemia, come oramai è stato accertato con ammissione esplicita anche da parte dei più reticenti, ha causato lo stress del sistema immunitario individuale e collettivo, ma anche e soprattutto del sistema pubblico costituzionale,[21] nonché la sovversione del sistema delle fonti,[22] la contorsione del principio della separazione dei poteri,[23] oltre che del principio di legalità,[24] la compressione della garanzia di intangibili diritti costituzionali,[25] e perfino dei diritti umani in quanto tali considerati.[26]
Si è sostanzialmente quasi istituzionalizzato il cosiddetto “stato d’eccezione”,[27] fino ad ora mera ipotesi storica o accademica,[28] che, infatti, nell’esperienza politica e giuridica del secondo dopoguerra in Italia non aveva mai vissuto una concreta effettività neanche nei momenti più difficili della storia repubblicana legati alla legislazione emergenziale varata per far fronte al fenomeno brigatistico, mafioso o terroristico, tanto da far ribadire a costituzionalisti autorevoli come Sabino Cassese che la pandemia non è uno “stato di guerra” ex articolo 78 della Costituzione e che pertanto i poteri “illimitati” che il Governo si è arrogato nella gestione della cosiddetta “prima ondata” dell’inverno-primavera 2020 sono del tutto illegittimi e contrari alla Costituzione,[29] rappresentando una «inedita sospensione nell’esercizio dei diritti»,[30] fino ad avvertire la giusta esigenza che «la Costituzione torni ad essere la bussola dell’emergenza».[31]
In questo scenario occorre comprendere che dispositivi come il green pass possono comportare seri pregiudizi di carattere sistematico sull’intera struttura dei fondamenti ordinamentali e sulla concezione dello stesso Stato di diritto.
Come è stato evidenziato, infatti, mezzi di controllo di tal natura comportano il reale rischio «che misure temporanee di sorveglianza accettate inizialmente per limitati periodi emergenziali diventino progressivamente prassi e consuetudini delle nostre società, modificando i rapporti interpersonali e, soprattutto, il rapporto bio-politico dei cittadini con l’autorità e lo Stato».[32]
Tenendo presente questi scenari, occorre chiarire che il green pass appare come un dispositivo giuridicamente problematico almeno sotto tre profili: a) logico-fattuale; b) sistematico-normativo; c) onto-assiologico.
a) Sotto il profilo strettamente logico-fattuale il green pass appare difficilmente giustificabile per due ragioni che pur tra loro opposte conducono alla medesima evidenza: se il vaccino evita in modo totale il contagio, il green pass appare inutile poiché la garanzia è offerta dalla somministrazione del ritrovato vaccinale e non certo dalla sua certificazione; se, invece, il vaccino non evita il contagio – come appunto pare – il green pass è ugualmente inutile in considerazione del fatto che anche il titolare del green pass medesimo potrebbe essere veicolo di infezione come colui che ne fosse sprovvisto avendo entrambi la medesima carica virale (almeno secondo le ultime recentissime e autorevoli risultanze).[33]
In applicazione del semplice buon senso e della ordinaria prudentia iuris, oltre che del principio di non contraddizione,[34] e del principio di precauzione anche come comunitariamente recepito,[35] dunque, ritenere il green pass strettamente legato alla diminuzione del contagio e quindi talmente necessario da potersi giustificare o addirittura pretendere una restrizione dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti è del tutto illogico e controfattuale.
b) Sotto il profilo sistematico-normativo occorre effettuare alcune considerazioni oltre quelle puntualissime già emerse.[36]
In primo luogo: posta la mancanza di una obbligatorietà generalizzata del vaccino anti-Covid sorge spontaneo chiedersi se l’utilizzo del green pass costituisca una forma di obbligo vaccinale de facto.[37]
Sul punto occorre chiarezza, poiché se al quesito si risponde negativamente, non si comprende su quale assunto poter imporre un simile dispositivo; se invece si risponde positivamente, sembrano sorgere più problemi (soprattutto giuridici) di quanti si vorrebbe risolvere.
Sebbene, infatti, agli occhi dei non giuristi o dei giuristi più inesperti possa apparire soltanto come una questione teorica, la differenza tra obbligo di fatto e obbligo di diritto, così astratta non è, in quanto il fatto in sé non è detto che sia legittimo proprio in virtù della sua stessa autoreferenziale fenomenicità, mentre il diritto – anche in virtù dei controlli anteriori e posteriori che l’ordinamento assicura ai fini dell’emanazione di una legge – lo è sempre e comunque.
L’eventuale obbligo di fatto introdotto tramite il green pass è un modo istituzionalmente e giuridicamente scorretto per indurre la popolazione a vaccinarsi senza le cautele giuridiche opportune che sono necessarie in uno Stato di diritto in genere, specialmente alla luce del principio personalistico che informa l’intera Carta costituzionale.
L’articolo 32 della nostra Carta fondamentale, infatti, sancisce che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, chiarendo in modo inequivoco, anche come più volte ha ribadito nel corso del tempo la Corte costituzionale, che soltanto per legge, per legge dello Stato, si può imporre un trattamento sanitario obbligatorio alla popolazione.[38]
Non a caso il Tar del Lazio ha recentemente annullato l’ordinanza del Presidente della Regione Lazio che aveva introdotto la vaccinazione anti-influenzale obbligatoria.[39]
L’obbligo di un trattamento sanitario, dunque, se non può essere introdotto da provvedimenti di carattere regionale, non può neanche essere introdotto da provvedimenti di rango primario che però lo disciplinano in maniera obliqua e non diretta, tramite introduzione surrettizia e non reale.
In secondo luogo: l’obbligo vaccinale di fatto, a differenza di quello di diritto, non appare in grado di tutelare compiutamente e in modo giuridicamente congruo la popolazione poiché si aggira il problema degli eventuali indennizzi per coloro che dovessero subire gli effetti collaterali della vaccinazione.[40]
La stessa Corte Costituzionale, infatti, nella celebre sentenza 5/2018 ha chiarito quanto segue:«Il singolo, sottoponendosi al trattamento obbligatorio, adempie a uno dei doveri inderogabili di solidarietà sociale, che hanno fondamento nell’art. 2 Cost. L’intervento pubblico non è unidirezionale, ma bidirezionale e reciproco: si esprime non solo nel senso della solidarietà della collettività verso il singolo, ma anche in quello del singolo verso la collettività; è per questa stessa ragione che, quando il singolo subisce un pregiudizio a causa di un trattamento previsto nell’interesse della collettività, quest’ultima si fa carico dell’onere indennitario».
L’indennizzo, dunque, rappresenta – proprio alla luce della costante e consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale –[41] l’espressione del dovere di solidarietà della collettività e delle istituzioni nei confronti del cittadino che si sottopone ai trattamenti sanitari, divenendo mezzo imprescindibile di integrazione della tutela effettiva del diritto alla salute individuale e collettiva, e non soltanto in ossequio al tenore letterale dell’articolo 1 della legge 210/1992, ma anche e soprattutto in osservanza dei principi di diritto enunciati recentemente dalla Corte Costituzionale sul punto, la quale, chiarendo la reciprocità del dovere di solidarietà, ha perfino esteso la tutela offerta dall’indennizzo ben oltre le vaccinazioni obbligatorie, cioè anche alle vaccinazioni soltanto raccomandate poiché «in presenza di una effettiva campagna a favore di un determinato trattamento vaccinale, è naturale che si sviluppi negli individui un affidamento nei confronti di quanto consigliato dalle autorità sanitarie: e ciò di per sé rende la scelta individuale di aderire alla raccomandazione obiettivamente votata alla salvaguardia anche dell’interesse collettivo, al di là delle particolari motivazioni che muovono i singoli. Questa Corte ha conseguentemente riconosciuto che, in virtù degli artt. 2, 3 e 32 Cost., è necessaria la traslazione in capo alla collettività, favorita dalle scelte individuali, degli effetti dannosi che da queste eventualmente conseguano. La ragione che fonda il diritto all’indennizzo del singolo non risiede quindi nel fatto che questi si sia sottoposto a un trattamento obbligatorio: riposa, piuttosto, sul necessario adempimento, che si impone alla collettività, di un dovere di solidarietà, laddove le conseguenze negative per l’integrità psico-fisica derivino da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato che sia) effettuato nell’interesse della collettività stessa, oltre che in quello individuale. Per questo, la mancata previsione del diritto all’indennizzo in caso di patologie irreversibili derivanti da determinate vaccinazioni raccomandate si risolve in una lesione degli artt. 2, 3 e 32 Cost.: perché sono le esigenze di solidarietà costituzionalmente previste, oltre che la tutela del diritto alla salute del singolo, a richiedere che sia la collettività ad accollarsi l’onere del pregiudizio da questi subìto, mentre sarebbe ingiusto consentire che l’individuo danneggiato sopporti il costo del beneficio anche collettivo».[42]
L’incidenza del green pass sui diritti fondamentali, del resto, è non soltanto sufficientemente evidente, ma anche potenzialmente discriminatoria.
In tale direzione si consideri, infatti, che l’attuale scenario disciplinato dal D.L. 105/2021 che introduce il green pass è gravemente ipotecato da quella forma di discriminazione economica, già denunciata dal CNB nel suo pur favorevole parere per il green pass, cristallizzata dalla mancanza di gratuità dei tamponi per chi non ha potuto o voluto vaccinarsi.
In tal senso, inoltre, viene in rilievo anche il parere del Garante per la Protezione dei Dati Personali che ha ricordato come ai fini della legittimità del green pass «si ritiene utile evidenziare l’opportunità che sia normativamente previsto che la presentazione della certificazione verde, come misura di sanità pubblica, non operi per quelle attività che comportano l’accesso a luoghi in cui si svolgono attività quotidiane (es. ristoranti, luoghi di lavoro, negozi, ecc.) o a quelli legati all’esercizio di diritti e libertà fondamentali (es. diritto di riunione, libertà di culto, ecc.)».[43]
Il green pass, in sostanza, rischia di creare storture giuridiche e violazioni dei diritti fondamentali, così che appare fin troppo evidente come l’obbligo vaccinale possa essere introdotto non surrettiziamente, ma soltanto ex lege, poiché, del resto, occorre tener massimamente presente che il diritto è sempre superiore al fatto, essendo infatti questo secondo disciplinato dal primo e non il contrario secondo la più genuina prudenza giuridica e l’antica sapienza classica per la quale, infatti, vige il principio da mihi factum dabo tibi ius.
In terzo luogo: emergono ulteriori profili di carattere sistematico.
Ritenere, come da parte di taluni s’è ritenuto,[44] che il green pass sia inequivocabilmente misura di garanzia della libertà tanto da poter essere paragonato alla patente di guida, al porto d’armi o al divieto di fumo nei luoghi pubblici, significa trascurare indebitamente le differenti realtà giuridiche chiamate in causa, e ciò per diverse ragioni.
1) La patente di guida e il porto d’armi, infatti, sono tipologie di “certificazione” che comportano la verifica di determinate abilità tecniche che devono essere possedute dal loro titolare non incidendo strettamente sulla persona fisica del titolare medesimo. 2) Non esiste un diritto costituzionalmente sancito alla patente o al porto d’armi. 3) Anche in caso di detenzione illecita di armi da fuoco o di guida senza patente, al netto di tutte le eventuali sanzioni civili, penali e amministrative, i diritti fondamentali costituzionalmente garantiti (lavoro, associazione, culto, insegnamento, istruzione, circolazione ecc.) del trasgressore non vengono meno. Tutt’al più sono temporaneamente compressi, ma sicuramente non soppressi come invece si rischia tramite l’introduzione del green pass per coloro che non sono vaccinati.[45]
Per ciò che riguarda l’analogia con il divieto di fumo nei luoghi pubblici occorre constatare che anche in questo caso non esiste un diritto costituzionale al fumo che potrebbe essere rivendicato dall’eventuale fumatore a cui fosse impedito di fumare in un luogo pubblico come un ristorante o un cinema. Il fumatore può – come di fatto accade – fumare al di fuori dei locali per poi farvi ritorno in totale libertà senza che i suoi diritti fondamentali siano pregiudicati. Inoltre, occorre considerare che, mentre è oramai scientificamente comprovato che il fumo, anche quello passivo, è altamente tossico per chi fuma e per chi vi sta intorno, non è altrettanto scientificamente garantito – come più sopra acclarato – che il vaccino (sulla cui base si fonda il green pass) escluda il contagio.
Insomma, mentre la patente, il porto d’armi e le leggi anti-fumo non impediscono l’esercizio di libertà e diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, il green pass, invece, si muove esattamente in questa direzione rischiando di impedire al lavoratore di lavorare, al cittadino di riunirsi liberamente, al fedele di professare il proprio culto.
Si assiste, dunque, con l’approvazione del green pass ad un bizzarro capovolgimento dell’ordine delle fonti e degli atti che fino ad ora ha contraddistinto il sistema giuridico italiano, per cui dalla sua entrata in vigore non sono più valutate la legittimità, l’effettività e l’efficacia di un certificato come il green pass alla luce dei diritti fondamentali, ma sono l’efficacia, l’effettività e la legittimità dei diritti fondamentali valutate alla luce di un certificato come il green pass con evidente stravolgimento di ogni gerarchia dei principi giuridici, venendo alla mente proprio le parole di un fine osservatore dell’assurdo come Eugène Ionesco per il quale «non c’è più niente di normale da quando l’anormale è diventato la norma».[46]
c) Sotto il profilo onto-assiologico, dinnanzi a provvedimenti come quelli che istituiscono dispositivi come il green pass, occorre chiedersi se si possono privare dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti (circolazione, lavoro, associazione, culto ecc) alcuni soggetti per tutelare quelli di altri consociati.
Non si tratta, con tutta evidenza, né di un problema politico, sebbene sia stato gravemente ideologizzato, né strettamente medico; non si tratta nemmeno di un confronto orizzontale pro-vax e no-vax, ma verticale poiché la questione è prettamente giuridica in quanto si consuma tra un potere - l'Esecutivo - che presumendosi assoluto (cioè svincolato da norme e principi ad esso anteriori e superiori), in maniera del tutto inedita, obbliga di fatto (e non di diritto) ad un trattamento sanitario senza assumersi le correlate responsabilità e i cittadini obbligati di fatto (e non di diritto) senza le garanzie minime essenziali a tutela dei loro diritti costituzionali.
Delle due l’una: o i diritti fondamentali sono tali, e lo sono sempre e per tutti, cioè sostanzialmente pre-ordinamentali (tanto che la Carta costituzionale utilizza il verbo “riconoscere” e non “costituire”), pre-costituzionali, ultra-statali, sovra-politici, meta-normativi, poiché ancorati e ancorabili alla struttura ultima dell’essere umano, ovvero alla sua umanità, essendo cioè il riflesso giuridico della sua dimensione ontologica, oppure non lo sono e quindi diventano manipolabili o eliminabili in base alle circostanze anche se emergenzialmente giustificate.
Proprio uno dei maestri della scienza giuridica italiana come Francesco Santoro-Passarelli, evidenziando peraltro il ruolo centrale del principio personalistico che illumina la Costituzione, ha avuto modo di chiarire, infatti, che «la persona è il valore centrale, quello a cui si riconducono gli altri valori[…]. La nostra Costituzione contiene un lungo elenco di libertà, che non possono essere tolte alla persona e sono inviolabili da parte dello stesso Stato[…]. Le altre libertà, libertà personale, libertà di opinione, libertà di associazione, libertà religiosa, sono tutte libertà essenziali, riconosciute ugualmente a tutti e a tutti egualmente spettanti[…]. La garanzia contro i pericoli e gli abusi dell’azione dello Stato è costituita dalla libertà e dalla struttura pluralistica di questa forma di Stato[…]. Di qui il riconoscimento nella Costituzione, e non la concessione, delle ricordate libertà inviolabili; di qui il limite essenziale dell’azione dello Stato».[47]
Per quanto sia certamente vero che la stessa Costituzione consenta delle limitazioni, per esempio per la tutela della pubblica incolumità, è anche altrettanto vero che ammettere le compressioni non significa ammettere anche le eventuali soppressioni, come parrebbe fare l’introduzione del Green pass che esclude senza limiti dalle attività lavorative o ricreative chi fosse sprovvisto di copertura vaccinale, peraltro in un contesto normativo quale è quello attuale che non prevede l’obbligo vaccinale anti-Covid come misura generalizzata di salvaguardia della pubblica incolumità.
Le misure anti-pandemiche, per quanto emergenziali o eccezionali, devono, volenti o nolenti, sempre essere incorniciate all’interno della struttura dello Stato di diritto,[48] per evitare di essere essenzialmente anti-giuridiche.
Ancora sotto il profilo sistematico, è altresì necessario ribadire che, a parte il diritto alla vita che “silenziosamente” – mancando una espressa norma che formalmente lo riconosca – fonda l’intera struttura della Costituzione, occorre anche riconoscere con onestà intellettuale e umiltà che non esiste una gerarchia tra i diritti fondamentali in base alla quale si possa ritenere che alcuno di essi sia sovraordinato rispetto ad altri, per cui il diritto alla salute è tanto fondamentale quanto quello al lavoro, quello di circolazione lo è tanto quanto quello di professare liberamente il proprio culto, quello di espressione del pensiero lo è tanto quanto quello di insegnamento o istruzione.
Se così non fosse, chi si incaricasse di dichiarare il contrario dovrebbe principalmente dimostrare tale presunta gerarchia e i criteri logico-giuridici utilizzati per la sua ordinazione. Mettere in scontro i diritti fondamentali, come avviene sostanzialmente con l’istituzione del green pass, come fossero cavalieri in giostra l’un contro l’altro armati, significa disconoscere la natura degli stessi e della stessa dimensione assiologica del diritto in quanto tale.
La differenza tra lo Stato di diritto e lo Stato totalitario consiste, infatti, in quella sottile linea rossa per cui nel primo per raggiungere il giusto fine si deve adoperare necessariamente anche il giusto mezzo, mentre nel secondo, prescindendo dalla giustizia del fine, si può prescindere anche dalla giustizia del mezzo utilizzato per raggiungerlo.
Negare una simile verità non significa tanto distaccarsi da certe astratte dimensioni teoretiche, ma negare lo Stato di diritto nella sua concretezza e fondabilità, poiché, come ha correttamente osservato Norberto Bobbio, «chi non crede alla verità, sarà tentato di rimettere ogni decisione, ogni scelta, alla forza, secondo il principio che, siccome non si può comandare ciò che è giusto, è giusto ciò che è comandato»,[49] significa cioè sottomettere la comunità, l’ordinamento e il diritto al principio volontaristico sottraendolo a quello di ragione e di giustizia.
Lo stesso Bobbio, del resto, ha precisato come sia tipico del pensiero giuridico-politico autocratico trattare i cittadini non secondo i loro propri diritti fondamentali, ma come bambini o malati da educare e dirigere.[50]
Sebbene molti, anche nella convulsa e caotica comunità dei giuristi, abbiano avuto modo di convincersi durante il lungo tempo della pandemia che lo Stato di diritto possa essere sospeso per far fronte all’emergenza sanitaria, così non è, poiché senza seguire la via del diritto non si può seguire la via della giustizia, come del resto conferma – a contrario – la storia del XX secolo in cui tutti i regimi totalitari si sono dimostrati sistemi radicalmente antigiuridici poiché votati alla negazione dei diritti fondamentali riflesso policromatico di quell’unica fonte di luce emanata dal diritto naturale che illumina i passi della storia nella direzione dello Stato di diritto.[51]
Ecco, dunque, che la voce del diritto naturale riemerge chiara e tonda nella contorta vicenda giuridico-normativa del green pass, poiché, come da taluni attenti osservatori come Massimo Cacciari è stato giustamente osservato «quando subiremo qualsiasi provvedimento o norma senza chiederne la ragione e senza considerarne le possibili conseguenze, la democrazia si ridurrà alla più vuota delle forme, a un fantasma ideale».[52]
Il green pass, dunque, pur essendo pienamente legale, è e rimane intrinsecamente anti-giuridico, poiché, come ha ricordato Aleksandr Zinov’ev, sintetizzando la tragica esperienza storica del XX secolo, «non è detto che una normativa (o legalità) qualsiasi sia indice di una società basata sul diritto».[53]
4. La tutela delle reazioni avverse ai vaccini
La vaccinazione di massa ha comportato due effetti, di cui uno benefico e l’altro nocivo: alla benefica riduzione dei casi di covid si è misteriosamente affiancata anche la riduzione dello spirito critico di una parte del mondo giuridico, così da apparire che alla immunizzazione dal virus corrisponda anche l’effetto collaterale della immunizzazione alla ratio iuris e ai principi generali che fondano lo Stato di diritto.
Nel contesto pandemico si è posta una attenzione mai prima d’ora storicamente determinata a favore di concetti come il dovere di solidarietà, il diritto alla salute e alla vita, il bene comune; a fronte di una risonanza mediatico-politica di tali concetti, tuttavia, non sembra aver corrisposto una equivalente tutela giuridica che sarebbe dovuta essere naturalmente correlata specialmente da quando sono stati comprovati i collegamenti tra eventi trombotici e vaccini anti-covid,[54] oltre che tra questi ultimi e le miocarditi,[55] come del resto denunciato dallo stesso CDC statunitense nel suo rapporto del 9 luglio 2021.
Anche in questo caso, tuttavia, occorre partire dai dati così che si possa più agevolmente transitare da quella dimensione che è definibile come mera “etica dei numeri” a quella che si sarebbe dovuta imporre come “numeri dell’etica”.
Secondo le stime del settimo rapporto dell’AIFA datato 26 luglio 2021 su 65.926.591 dosi vaccinali somministrate sono state registrate 84.322 reazioni avverse, di cui 87,1% non gravi e 12,8% gravi. Tra le reazioni gravi il 58% ha avuto come esito la “risoluzione completa” o il “miglioramento dell’evento”, mentre il 25% è risultato non ancora guarito al momento della segnalazione.
Tra le reazioni gravi 498 segnalazioni riportano l’esito “decesso” con un tasso di segnalazione di 0,75/100.000 dosi somministrate; tra i suddetti decessi, 343 sono stati registrati dopo la prima dose e 145 dopo la seconda. Il 59% delle segnalazioni a esito fatale presenta una valutazione di causalità con l’algoritmo utilizzato nell’ambito della vaccinovigilanza (algoritmo OMS), in base al quale il 59,9% dei casi è non correlabile, il 33,2% indeterminato e il 4,5% inclassificabile per mancanza di informazioni necessarie all’applicazione dell’algoritmo. In 7 casi (2.4 % del totale), la causalità è risultata correlabile.
Posto ovviamente che nessun ritrovato farmaceutico garantisce una sicurezza totale al 100%, e questo è ovvio – sebbene nessuno lo ribadisca con la dovuta accortezza – è doveroso chiedersi come mai nessuno abbia ancora sollevato la questione della tutela giuridica del diritto alla salute dei soggetti che hanno subito reazioni avverse gravi.
Se davvero si intende ragionare giuridicamente – ammesso che lo si possa ancora pretendere in tempi di pandemia – occorre riconoscere i diritti di tutti costoro (e per ovvi motivi di giustizia perfino degli indeterminati e degli inclassificabili) che sono deceduti per cui si possono effettuare in tale direzione alcune considerazioni.
In primo luogo: che l’intera procedura di controllo e verifica delle reazioni avverse debba dipendere da un algoritmo può essere una circostanza tecnicamente corretta e scientificamente evoluta, ma non giuridicamente sufficiente poiché l’algoritmo dispiega la sua funzione nella dimensione quantitativa e non in quella qualitativa come è quella tipica del diritto alla vita degli esseri umani.
Come è stato giustamente osservato, infatti, questa predominanza algoritmica preclude la valutazione dei profili morali e giuridici incentrati sulla libertà e quindi sulla responsabilità, poiché «gli algoritmi non fanno che estendere le funzioni rituali di controllo e di ripartizione dei numeri in modi che possono diventare inaccessibili, autoritari e categorici: uno strumento utile alla società, ma anche un rischio di sbilanciamento nel delicato rapporto fra categoricità e spontaneità, fra l’estrema imperiosità del meccanismo e la libertà di coscienza».[56]
In secondo luogo: l’irrilevanza statistica dei pochi decessi a causa delle vaccinazioni non si può tradurre automaticamente né in una loro insignificanza etica, né soprattutto in una loro corrispettiva irrilevanza giuridica, specialmente se si intende tutelare realmente il diritto alla salute, in applicazione del dovere di solidarietà, in vista del bene comune.
L’idea di poter tanto macchinosamente quanto ingenuamente trasformare le incerte risultanze scientifiche in certe discipline giuridiche è aberrante sia sotto l’aspetto scientifico, quanto soprattutto sotto l’aspetto giuridico.
Sarebbe quanto mai opportuno, quindi, che oltre le asettiche statistiche e i rassicuranti protocolli sanitari, si cominciasse a rispolverare quella tradizione di pensiero che problematizzando i numeri indica la via etica e giuridica che sta oltre gli stessi.
In questa direzione, tra i molteplici esempi possibili, maggiormente adeguato appare il celebre brano del dialogo tra Alëša e Ivan, in cui Dostoevskij chiarisce che il bene dei molti non si può costruire sul sacrificio dei pochi, neanche se si trattasse di uno solo:«Ti sfido, rispondimi: immagina che tocchi a te innalzare l'edificio del destino umano allo scopo finale di rendere gli uomini felici e di dare loro pace e tranquillità, ma immagina pure che per far questo sia necessario e inevitabile torturare almeno un piccolo esserino, ecco, proprio quella bambina che si batteva il petto con il pugno, immagina che l'edificio debba fondarsi sulle lacrime invendicate di quella bambina -
accetteresti di essere l'architetto a queste condizioni?».[57]
Come ha precisato Nikolaj Berdjaev, infatti, «l’eudemonismo sociale si oppone alla libertà. Nulla rimane all’infuori di un’organizzazione forzata della felicità sociale, se non c’è la Verità»,[58] e, in questo caso, la verità consiste nella consapevolezza che la più o meno bassa statistica dei decessi non può mai comportare un venir meno della tutela giuridica di quei diritti fondamentali di coloro che per massima sventura in tale statistica si vengono a trovare, poiché come ha evidenziato Vladimir Soloviev «le verità matematiche hanno un significato universale, ma riescono indifferenti dal punto di vista morale».[59]
Se così non fosse, se cioè in nome dell’emergenza, anzi dello Stato di eccezione in cui da mesi si versa, si decidesse di abdicare ai principi fondanti della civiltà giuridica – honeste vivere, neminem laedere, unicuique suum tribuere – sottomettendo la tutela dei diritti dei pochi al dominio del numero, si transiterebbe dalla dimensione dello Stato di diritto a quella della tirannia, dovendosi constatare con Arthur Koestler che «sembra che noi si sia dinanzi a un movimento pendolare della Storia, che oscilla dall’assolutismo alla democrazia e dalla democrazia di nuovo alla dittatura assoluta».[60]
5. Altre cianfrusaglie pandemiche
A margine dei problemi principali più sopra considerati occorre, prima delle conclusioni, soffermarsi seppur brevemente su due proposte che, sebbene per ora confinate a livello ipotetico, dovrebbero comunque destare l’allarme di chiunque abbia sviluppato un minimo di sensus iuris e ratio humanitatis per il loro contenuto radicalmente anti-giuridico.
La prima proposta, sostenuta peraltro anche dall’ex Presidente dell’Inps, che è stata veicolata dai mezzi di informazione di massa,[61] si sostanzia nell’idea di far pagare gli eventuali costi del ricovero a chi ha deciso di non vaccinarsi infettandosi subito e venendo ospedalizzato.
In questa logica non soltanto si dimentica che già con l’ordinario assolvimento degli oneri fiscali di legge – come per esempio l’Irap – tutti i cittadini contribuiscono al finanziamento del Sistema sanitario nazionale, prescindendo dal proprio stato di salute, per cui sarebbe ben paradossale che dopo decenni di pagamenti di tasse non si possa usufruire del Servizio sanitario nazionale soltanto come ripicca per la propria opzione etica (giusta o ingiusta che sia), ma anche qui emerge una sinistra attitudine antigiuridica di carattere sostanziale che si palesa soltanto a chi ha potuto sviluppare una acuta visione giuridica del mondo.
L’idea di poter subordinare un diritto fondamentale e costituzionalmente garantito (come quello alla salute) all’approvazione delle scelte di vita del paziente – specialmente in assenza di obblighi legali che ne coartino la volontà in un senso piuttosto che in un altro – è tanto contraria alla vocazione etica della professione medica quanto al buon senso e ai principi generali dell’ordinamento giuridico di uno Stato di diritto che in virtù del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) formale e sostanziale non può abbandonarsi a simili spericolatezze giuridiche.[62]
La seconda proposta ha aspetti ancor più concreti poiché ha innescato un vero e proprio dibattito negli USA e consiste nell’idea di non curare coloro che non si sono vaccinati e che, una volta infettatisi, necessitano delle cure e delle terapie intensive.
Si ribalta la situazione: se fino ad ora, in epoca pandemica, gli altri diritti fondamentali sono stati subordinati al diritto alla salute – come comprova il green pass –, adesso invece si intende subordinare il diritto alla salute ad una logica premiale, per cui si intenderebbe garantire le cure in base alle opzioni etiche del singolo individuo.
Seguendo la medesima logica allora si potrebbe estendere il ragionamento anche ai fumatori, agli obesi, agli atleti di discipline pericolose. E allora, perché no, anche a coloro che soffrono di patologie genetiche o ereditarie o croniche e non guaribili.
Perché, allora, garantire le cure anche per il detenuto condannato per mafia, o per stupro, o per pedofilia o per terrorismo? Dove porre il limite? Chi lo dovrebbe porre tale limite? Secondo quali criteri?
E perché allora non escludere dal diritto di assistenza sanitaria anche tutti coloro che dovrebbero essere esclusi in virtù di ragioni meramente economico-contabili?[63]
In men che non si dica, tuttavia, ci si ritroverebbe dinnanzi ad una situazione problematica sotto un triplice profilo: etico, logico e giuridico.
Dal punto di vista etico si verrebbe ad instaurare un sistema sostanzialmente e inequivocabilmente eugenetico,[64] anche se socialmente determinato, difficilmente giustificabile dopo gli orrori del XX secolo,[65] e, soprattutto, dopo il consolidamento di alcuni principi come quello di non discriminazione sulla base delle condizioni personali, sociali o di salute ufficialmente sancito da diverse carte internazionali,[66] oltre che ovviamente dall’articolo 3 della Costituzione italiana.
Dal punto di vista logico, invece, un sistema come quello predetto finirebbe per garantire paradossalmente l’assistenza sanitaria soltanto ai sani, escludendo i malati: ma, a questo punto, ci si dovrebbe chiedere a cosa servirebbe l’assistenza sanitaria per coloro che sono sani. E chi potrebbe garantire il diritto alla salute dei malati?
Dal punto di vista giuridico, infine, non soltanto si equivocherebbe la natura giuridica del diritto alla salute, ma anche quella del diritto alla vita che verrebbe ridimensionato, attraverso una vera e propria forma di riduzionismo, al suo ambito meramente biologistico, dimenticando invece che la vita è biologicamente strutturata, ma non soltanto biologicamente determinata.
Lo scivolamento dallo Stato di diritto allo Stato d’eccezione sarebbe così del tutto compiuto e la stessa funzione del diritto sarebbe stravolta, poiché non più tesa alla giustizia, ma sottomessa alla pura necessità politica.[67]
Si ripresenterebbero, insomma, le più oscure nubi di un passato che è stato quanto mai catastrofico per il diritto e per l’intera umanità, dovendosi, quindi, ricordare le parole di chi, come Giuseppe Capograssi, ebbe a vivere e riflettere su quell’esperienza tramandandola affinché le persone, e soprattutto i giuristi, delle generazioni future non commettessero gli stessi micidiali errori:«La catastrofe, immergendo l'umanità in un mondo caratterizzato dalla morte e dall'incubo, ha messo in condizioni l'uomo di capire, che cosa è che difende e assicura la vita dalla morte e dall'incubo. Sarebbe preferibile che non ci fosse bisogno delle catastrofi per capire; ma l'uomo è fatto in modo che ha bisogno della terribile pedagogia della storia. Il guaio è che, per capire, questa è condizione necessaria, ma non sufficiente[...]. Si può dire, che in questa epoca si è manifestato e si è svolto il vero e consapevole ateismo, perché sono nati uomini i quali hanno avuto, e hanno dimostrato con la loro azione, la certezza - che se non fosse diabolica si potrebbe dire eroica - che Dio non esiste, e che quindi, secondo la centrale parola di Dostojewski, -se Dio non esiste, tutto è permesso-. Di questi uomini il tipo grandioso, anche per la grandiosità demoniaca delle visioni di demenza a cui ha ispirato la sua azione storica, è stato Hitler. Nelle mani di questi uomini la storia è diventata veramente creazione, cioè arbitrio: in un vero processo di immanenza essa ha dimostrato di non essere legata a nessuna verità, di essere veramente libera (negativamente, da ogni legame o legge), di essere gratuita; la scienza, dandole i mezzi di distruggere la vita, le dà il modo di attuare veramente la libertà come assoluta liberazione da ogni legge e da ogni verità, nel senso più pieno, perché quale maggiore libertà che avere il potere di distruggere, di far essere o non essere, a proprio arbitrio la vita? Il guaio è che questa libertà coincide con la morte e non con la vita[...]. Il fondamento di un ordine giuridico e la fonte di tutti i suoi valori deve essere là dove è, nel valore centrale della libera esistenza dell'individuo e del suo connaturale destino di svolgere la propria libera natura[...]. Perciò l'unico possibile fondamento a un ordine, che voglia essere un ordinamento di vita e non di morte, è niente altro che questa intima costituzione della vita; rispettare la vita come è, con le leggi le esigenze i fini le condizioni che sono sue, lasciare che la vita viva e svolga secondo le profonde leggi che fanno sua la verità. Ma rispettare la vita significa appunto, per dirla in termini semplici, fare in modo che la vita sia vita per tutti. Rispettare la vita dovunque e cioè, dove la vita è in potenza in ogni individuo, fare che sia in atto in ogni individuo; dove la vita è ma non si può sviluppare come vita umana per le condizioni che sono in contrasto a questo svolgersi, fare che si possa sviluppare. Questo significa rispettare la vita[...]. Qui diventa precisa la connessione tra diritto e libertà[...]. Non la persona ha il diritto, ma la persona è il diritto».[68]
6. Conclusioni
In conclusione, non possono che presentarsi degli inevitabili interrogativi: si possono davvero limitare, comprimere e fin’anche sopprimere i diritti fondamentali di alcuni per la tutela di quelli dei molti? Si possono davvero limitare i diritti fondamentali in ragione delle condizioni di salute del singolo? Si può subordinare la tutela del diritto alla salute a interessi ed esigenze di politica economica? Non si rischia di ritrovarsi, ben oltre ogni discriminazione, sul pendio scivoloso di una forma di selezione eugenetica socialmente determinata di cui nessuno potrebbe garantire né la controllabilità né, soprattutto, la legittimità giuridica?
Il green pass e tutti i problemi ad esso connessi dimostrano la necessità oramai improcrastinabile di ricondurre l’intera gestione pandemica entro i margini dello Stato di diritto, entro i limiti fissati dalla Costituzione, entro l’alveo della prudenza legale e della iuris sapientia, l’unica in grado di illuminare il senso autentico della libertà giuridicamente intesa, come ha precisato Enrico Opocher allorquando ha chiarito che «ad ogni singola libertà corrisponde puntualmente un dovere, il che chiaramente fonda l’aspetto eteronomo del diritto, il cui fenomeno è perciò ad un tempo di libertà e coercizione. E ciò necessariamente determina una indissolubile sovrapposizione, nell’idea del diritto, dell’eguaglianza alla libertà: la libertà giuridica è, in questo senso, indivisibile; o tutti sono liberi o nessuno lo è».[69]
Soltanto recuperando una prospettiva onto-assiologica del diritto – e ad essa subordinando la gestione pandemica – si può evitare di cadere in equivoci grossolani o, peggio, in nefaste conseguenze che potrebbero indurre a ritenere, un domani, il visitatore occasionale della storia che si ritrovasse a leggere le narrazioni dei fatti odierni, che quella attuale sia stata un’epoca sostanzialmente barbarica di radicale disconoscimento del diritto.
In questo senso valgono ancora oggi, come nel futuro prossimo, le illuminanti riflessioni di Salvatore Satta che sul punto ha così insegnato:«Il diritto appare oggi veramente come un'entità inafferrabile, un'ombra vana fuor che nell'aspetto, e talora anche nell'aspetto, una parola e un mito[…]. Giuristi e non giuristi, noi ci chiediamo che cosa è il diritto con lo stesso stato d'animo di Pilato che si chiedeva — e nella domanda era già la triste risposta — che cosa è la verità. Ma questa domanda per il giurista diventa un'angoscia profonda, perchè essa comporta il crollare intorno a lui e in lui dell'oggetto stesso della sua conoscenza[…]. Che cosa è dunque avvenuto, per cui noi oggi[…], guardiamo al diritto come a uno sconosciuto e stentiamo a ravvisarne le fattezze nell'incomposto svolgersi della vita?[…]. Il problema del diritto – attraverso il chiarimento che la grande crisi porta con sè – si riduce a nient'altro che questo: a stabilire se il diritto sia o non sia un valore[…]. Il valore, se c'è, è intrinseco al diritto, è proprio il suo essere diritto, e non può come tale risolversi nella mera validità formale di una norma estrinsecamente posta[…]. L'onnipotenza del legislatore è stata tempre universalmente condannata, e le dottrine moderne, quando pongono come unico limite della norma la validità formale, continuano a conclamarla. Ma se il diritto è un valore, se il rapporto umano ha nel diritto un essere, è chiaro che il legislatore tutto può fare, operando sul contenuto di quel rapporto, descrivendolo — come è stato detto — nelle sue norme imperative, meno che negare il rapporto stesso. Se ciò facesse negherebbe il diritto, cioè negherebbe se stesso come creatore di diritto. Ora, i nostri padri, per i quali il diritto non era uno sconosciuto, avevano concettualizzato il rapporto umano, la intrinseca normatività del rapporto umano, da un lato nel diritto soggettivo, espressione giuridica della libertà, dall'altro nello Stato, espressione giuridica della giustizia. È, come abbiamo visto, l'erosione e la deformazione di questi concetti che ha reso sconosciuto il diritto; è nella riscoperta di essi che noi riacquistiamo la sua conoscenza».[70]
* Dottore di ricerca in Storia e Teoria Generale del Diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma “Tor Vergata” e docente a contratto di biogiuridica presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum
[1] Lev Sestov, Potestas clavium, Bompiani, Milano, 2009, pag. 369.
[2] Naomi Oreskes, Perché fidarsi della scienza?, Bollati Boringhieri, Torino, 2021.
[3] Ex plurimis cfr.: https://www.liberoquotidiano.it/news/personaggi/26585830/astrazeneca-matteo-bassetti-tagada-chi-non-crede-scienza-si-tenga-coronavirus-riferimento-angela-merkel.html
[4] Iona Heath, Contro il mercato della salute, Bollati Boringhieri, Torino, 2016, pag. 12.
[5] William Warren Bartley III, Ecologia della razionalità, Armando Editore, Roma, 1990, pag. 166.
[6] Richard Feynman, Che cos'è la scienza?, in Il piacere di scoprire, Adelphi, Milano, 2002, pag. 170-171
[7] «Concezione totalitaria della scienza per cui essa si presenta come l’unica conoscenza vera»: Augusto Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano, 1978, pag. 327.
[8] Cfr. Cassazione n. 43786/2010.
[9] John Dupré, Natura umana. Perché la scienza non basta, Laterza, Bari, 2001, pag. 203.
[10] https://www.aifa.gov.it/domande-e-risposte-su-vaccino-covid-19-comirnaty; cfr. inoltre Ewen Callaway, What Pfizer’s landmark COVID vaccine results mean for the pandemic, in “Nature”, 9 nov 2020.
[11] http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=6820167.pdf
[12] https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/08/10/covid-i-dati-del-ministero-della-salute-israeliano-vaccino-protegge-da-malattia-grave-all81-dal-contagio-al-39/6285428/
[13] https://www.cdc.gov/mmwr/volumes/70/wr/mm7031e2.htm
[14] https://www.cdc.gov/mmwr/volumes/70/wr/mm7034e4.htm?s_cid=mm7034e4_w
[15] Si tratta del paradosso in base al quale una situazione in cui una relazione tra due fenomeni appare modificata, o perfino invertita, in virtù del parziale scenario dei dati in possesso o di ulteriori elementi variabili che concorrono a determinarla.
[16] https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&ved=2ahUKEwiS-b34zdPyAhWaG-wKHTgmCsUQFnoECAUQAQ&url=https%3A%2F%2Fassets.publishing.service.gov.uk%2Fgovernment%2Fuploads%2Fsystem%2Fuploads%2Fattachment_data%2Ffile%2F1012644%2FTechnical_Briefing_21.pdf&usg=AOvVaw3Y00TH1zXPmtRr-Lxho2wM
[17] https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2021.07.28.21261159v1
[18] https://www.nature.com/articles/s41598-021-95025-3
[19] Aldo Rocco Vitale, Obbligo vaccinale, passaporto e patente immuno-sanitari e tutela del diritto alla salute nell’emergenza Covid-19 come problemi biogiuridici, in “Diritto Mercato Tecnologia”, 15 gennaio 2021,
[20] Sul punto è il caso di ricordare come la recente sentenza del 25 agosto 2021 della CEDU nel caso Abgrall and 671 Others v. France non si è occupata della legittimità dell’eventuale obbligo vaccinale nell’ordinamento francese, ma si è limitata a rigettare il ricorso proposto per l’adozione di misure cautelari di natura sospensiva avanzato dai 670 vigili del fuoco ricorrenti, poiché non sussistevano i requisiti richiesti dall’art. 39 del Regolamento della CEDU medesima.
[21] Vicenzo Baldini, Lo Stato costituzionale di diritto all’epoca del coronavirus, in “Dirittifondametali.it”, 1/2020; Lavinia Del Corona, Le decisioni pubbliche ai tempi del Coronavirus: la tutela dei diritti tra fondatezza scientifica, trasparenza e principio di precauzione, in “Rivista di biodiritto”, 1/2020; Roberto Ravì Pinto, Brevi considerazioni su stato d’emergenza e stato costituzionale, in “Rivista di biodiritto”, 1/2020; Antonio Ruggeri, Il coronavirus contagia anche le categorie costituzionali e ne mette a dura prova la capacità di tenuta, in “Diritti regionali”, 1/2020; Francesco Torre, La costituzione sotto stress ai tempi del coronavirus, in “Rivista di biodiritto”, 2/2020; Michele Tresca, Le fonti dell’emergenza L’immunità dell’ordinamento al Covid-19, in “Osservatorio costituzionale”, 3/2020.
[22] Michele Belletti, La “confusione” nel sistema delle fonti ai tempi della gestione dell’emergenza da Covid-19 mette a dura prova gerarchia e legalità, in “Osservatorio costituzionale”, 3/2020; Antonio Ruggeri, Il coronavirus, la sofferta tenuta dell’assetto istituzionale e la crisi palese, ormai endemica, del sistema delle fonti, in “ConsultaOnline”, 3/2020.
[23] Alessandro Candido, Poteri normativi del Governo e libertà di circolazione al tempo del Covid-19, in “Forum di quaderni costituzionali”, 1/2020; Salvatore Curreri, Il Parlamento nell’emergenza, in “Osservatorio costituzionale”; 3/2020; Marina Calamo Specchia, Ri-bilanciare i poteri tra Governo e Parlamento quando il virus sparirà, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 21 marzo 2020; Chiara Tripodina, La Costituzione al tempo del Coronavirus, in “Costituzionalismo.it”, 1/2020.
[24] Marina Calamo Specchia, Principio di legalità e stato di necessità al tempo del “COVID-19, in “Osservatorio costituzionale”, 3/2020; Alessandro Lauro, Urgenza e legalità ai tempi del covid-19: fra limiti imprescindibili e necessaria flessibilità, in “Rivista di biodiritto”, 1/2020.
[25] Marilisa D’Amico, I diritti fondamentali alla prova dell’emergenza sanitaria da Coronavirus: profili costituzionali, in “Rivista di biodiritto”, 3/2020; Eugenio De Marco, Situazioni di emergenza sanitaria e sospensioni di diritti costituzionali, in “ConsultaOnline”, 2/2020.
[26] Amnesty International, “Abbandonati”: il rapporto sulle violazioni dei diritti umani nelle case di riposo italiane durante il Covid-19, 17 dicembre 2020.
[27] La locuzione, come risaputo, risale a Carl Schmitt il quale però se da un lato ha scritto che «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione», dall’altro lato ha anche precisato che c’è una differenza tra lo stato di emergenza o di assedio, come tali transeunti, episodici, occasionali, e il vero e proprio stato di eccezione che, invece, è una situazione perdurante e stabile in quanto traduce, con le parole esatte dello stesso Schmitt, «un concetto generale della dottrina dello Stato»: Carl Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna, 2017, pag. 33; cfr. inoltre: Giorgio Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
[28] Si pensi al dibattitto intercorso a fine luglio 2020 tra Gustavo Zagrebelsky e Giorgio Agamben, in cui il primo ha ritenuto lo stato pandemico è uno stato di emergenza e non già di eccezione, poiché teso a ripristinare la situazione quo ante, mentre il secondo ritiene, invece, che proprio la situazione pandemica è una tipica situazione di stato d’eccezione poiché sono stati sospesi e violati diritti e garanzie costituzionali che non erano mai stati messi in questione, neppure durante le due guerre mondiali e il fascismo. Cfr. Gustavo Zagrebelsky, Non è l’emergenza che mina la democrazia. Il pericolo è l’eccezione, in “La Repubblica”, 28 luglio 2020; Giorgio Agamben, Stato di eccezione e stato di emergenza, in “Quodlibet”, 30 luglio 2020; contra cfr. Enrico Scoditti, Il diritto iperbolico dello stato di emergenza, in “Questione giustizia”, 2/2020.
[29] Paolo Armaroli, Cassese: “La pandemia non è una guerra. I pieni poteri al governo non sono legittimi”, in “Il Dubbio”, 14 aprile 2020.
[30] Alessandra Algostino, Covid-19: primo tracciato per una riflessione nel nome della Costituzione, in “Osservatorio costituzionale”, 3/2020, pag. 3.
[31] Francesca Rescigno, La gestione del coronavirus e l’impianto costituzionale. Il fine non giustifica ogni mezzo, in “Osservatorio costituzionale”, 3/2020, pag. 270.
[32] Carlo Blengino, Tecnologie di sorveglianza e contenimento della pandemia, in “Questionegiustizia”, 2/2020, pag. 2.
[33] https://www.ansa.it/sito/videogallery/mondo/2021/07/29/usa-fauci-se-si-contrae-la-delta-si-puo-essere-contagiosi-anche-se-si-e-vaccinati_915539b7-c74a-42e8-a4c7-1e3e86ff4eb3.html
[34] «Esiste negli esseri un principio rispetto al quale non è possibile che ci si inganni, ma rispetto al quale, al contrario, è necessario che si sia sempre nel vero: è questo il principio che afferma che non è possibile che la medesima cosa in un unico e medesimo tempo sia e non sia»: Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano, 1994, pag. 499, 1061b.
[35] «Il fatto di invocare o no il principio di precauzione è una decisione esercitata in condizioni in cui le informazioni scientifiche sono insufficienti, non conclusive o incerte e vi sono indicazioni che i possibili effetti sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possono essere potenzialmente pericolosi e incompatibili con il livello di protezione prescelto»: http://www.reteambiente.it/repository/normativa/1798_comce1_00_comp.pdf.
[36] Giuliano Scarselli, Note sul decreto legge 105/2021 che estende il green pass a attività e servizi della vita quotidiana, in “GiustiziaInsieme”, 30 luglio 2021.
[37] Bisogna altresì ammettere che in assenza di un espresso obbligo di legge appare del tutto giuridicamente non fondata la suddivisione su cui da mesi si compartimentalizzano la popolazione e il pubblico dibattito, cioè la manicheistica dicotomia provax-novax; alla luce della mancanza di una norma espressa che coattivamente costringa tutti i cittadini ad un trattamento sanitario, infatti, da un lato esistono soltanto coloro che legittimamente e liberamente hanno deciso di accettare la somministrazione di un vaccino meramente raccomandato e, dall'altro lato, coloro che altrettanto legittimamente e liberamente invece hanno deciso di rifiutare la suddetta raccomandata somministrazione, agendo entrambe le categorie sotto la protezione legale del tenore letterale dell’articolo 32 della Costituzione.
[38] Ci si trova in un’epoca di tali e tante incertezze giuridiche che a malincuore si è costretti a ribadire perfino i profili che dovrebbero essere più ovvi ed evidenti.
[39] «È illegittima in quanto viziata da incompetenza l’ordinanza del Presidente della Regione Lazio che impone la vaccinazione antinfluenzale obbligatoria: a) per i cittadini di età superiore ai sessantacinque anni pena il divieto di frequentare i luoghi dove si possono formare assembramenti come centri sociali per anziani e case di riposo; b) per il personale sanitario e socio sanitario operante nel territorio della regione pena il divieto di accedere ai luoghi di lavoro. Infatti, la normativa emergenziale per fronteggiare il COVID 19 non contempla i predetti interventi a livello regionale al pari della legislazione in tema di sanità pubblica e di protezione civile in quanto il fenomeno in atto ha assunto oggettive dimensioni di livello nazionale»: Tar Lazio, 2/10/2020, n. 10047; in una simile direzione si è mossa anche la pronuncia del Tar Campania n. 4127/2021 che ha annullato l’ordinanza del PdR con cui si imponeva al personale docente e non docente di sottoporsi a test sierologico o al tampone.
[40] Cfr. Cassazione n. 19365/2015; Cassazione n. 7354/2021.
[41] C. Cost., 307/1990; C. Cost., 107/2012; C. Cost., 268/2017; C. Cost., 137/2019.
[42] C. Cost., 118/2020.
[43] https://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9668064
[44] https://www.ilmessaggero.it/politica/green_pass_dove_serve_patente_cassese_cosa_ha_detto_news-6137651.html; https://www.micromega.net/green-pass-e-liberta-lettera-aperta-a-massimo-cacciari/;
[45] Si pensi, a titolo esemplificativo, al lavoratore non vaccinato di cui si ipotizza la legittimità del licenziamento; la giurisprudenza di merito, almeno per ora, non si è spinta fin qui, ricordandosi delle modulazioni conosciute dalla dimensione gius-lavoristica per eventualità simili. Sul punto cfr. Sebastiano Flaminio, Vaccinazione nel luogo di lavoro: obbligo generale o decisione caso per caso?, in Centro Studi Livatino, 6 agosto 2021.
[46] Eugène Ionesco, Il Re muore, Einaudi, Torino, 1963, pag. 23.
[47] Francesco Santoro-Passarelli, Libertà e Stato, in Iustitia, 3/1957, pag. 209 e ss.
[48] In questo senso è stata di recente chiarissima la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia che ha dichiarato il non luogo a procedere, perché il fatto non costituisce reato, per la dichiarazione falsa contenuta in autocertificazione in quanto la norma che la prevedeva era costituzionalmente illegittima e contraria all’ordinamento di uno Stato di diritto, dovendo quindi essere disapplicata. Così ha giustamente osservato la toga emiliana:«Non può neppure condividersi l’estremo tentativo dei sostenitori, ad ogni costo, della conformità a Costituzione dell’obbligo di permanenza domiciliare sulla base della considerazione che il DPCM sarebbe conforme a Costituzione, in quanto prevederebbe delle legittime limitazioni della libertà di circolazione ex art. 16 Cost. e non della libertà personale. Infatti, come ha chiarito la Corte Costituzionale la libertà di circolazione riguarda i limiti di accesso a determinati luoghi, come ad esempio, l’affermato divieto di accedere ad alcune zone, circoscritte che sarebbero infette, ma giammai può comportare un obbligo di permanenza domiciliare (Corte Cost., n. 68 del 1964). In sostanza la libertà di circolazione non può essere confusa con la libertà personale: i limiti della libertà di circolazione attengono a luoghi specifici il cui accesso può essere precluso, perché ad esempio pericolosi; quando invece il divieto di spostamento non riguarda i luoghi, ma le persone allora la limitazione si configura come vera e propria limitazione della libertà personale. Certamente quando il divieto di spostamento è assoluto, come nella specie, in cui si prevede che il cittadino non può recarsi in nessun luogo al di fuori della propria abitazione è indiscutibile che si versi in chiara e illegittima limitazione della libertà personale. In conclusione, deve affermarsi la illegittimità del DPCM indicato per violazione dell’art. 13 Cost., con conseguente dovere del Giudice ordinario di disapplicare tale DPCM ai sensi dell’art. 5 della legge n. 2248 del 1865 All. E. Poiché, proprio in forza di tale decreto, ciascun imputato è stato “costretto” a sottoscrivere un’autocertificazione incompatibile con lo Stato di diritto del nostro Paese e dunque illegittima, deriva dalla disapplicazione di tale norma che la condotta di falso, materialmente comprovata come in atti, non sia tuttavia punibile giacché nella specie le esposte circostanze escludono l’antigiuridicità in concreto della condotta e, comunque, perché la condotta concreta, previa la doverosa disapplicazione della norma che imponeva illegittimamente l’autocertificazione, integra un falso inutile, configurabile quando la falsità incide su un documento irrilevante o non influente ai fini della decisione da emettere in relazione alla situazione giuridica che viene in questione[…]. Siccome, nella specie, è costituzionalmente illegittima, e va dunque disapplicata, la norma giuridica contenuta nel DPCM che imponeva la compilazione e sottoscrizione della autocertificazione, il falso ideologico contenuto in tale atto è, necessariamente, innocuo; dunque, la richiesta di decreto penale non può trovare accoglimento»: Tribunale di Reggio Emilia, 27/01/2021.
[49] Norberto Bobbio, Verità e libertà, in Elogio della mitezza e altri scritti morali, Il Saggiatore, Milano, 2010, pag. 71.
[50] «Alla strategia del potere autocratico appartiene non soltanto il non dire, ma anche il dire il falso: oltre il silenzio, la menzogna. Quando è costretto a parlare, l’autocrate può servirsi della parola non per manifestare in pubblico le proprie reali intenzioni ma per nasconderle. Può farlo tanto più impunemente quanto più i sudditi non hanno a disposizione i mezzi necessari per controllare la veridicità di ciò che gli è stato detto. Fa parte della precettistica dei teorici della ragion di stato la massima che al sovrano è lecito mentire. Che al sovrano fosse lecita la menzogna utile non lo aveva detto soltanto il diabolico Machiavelli. Ma anche Platone, ma anche Aristotele, anche Senofonte. Una delle virtù del sovrano è sempre stata considerata quella di saper simulare, cioè di far apparire quello che non è, e di saper dissimulare, cioè di non far apparire quello che è. Jean Bodin, che pure si professa ardentemente antimachiavellico, riconosce che Platone e Senofonte permettevano ai magistrati di mentire come si fa coi bambini e coi malati. Il paragone dei sudditi coi bambini e coi malati si commenta da sé. Le due immagini più frequenti in cui si riconosce il governante autocratico è quella del padre o del medico: i sudditi non sono cittadini liberi e sani. Sono o dei minorenni da educare o dei malati da curare. Ancora una volta l’occultamento del potere trova la propria giustificazione nella insufficienza se non addirittura nella indegnità del popolo. Il popolo, o non deve sapere, perché non è in grado di capire, o deve essere ingannato, perché non sopporta la luce della verità»: Norberto Bobbio, Teoria generale della politica, Einaudi, Torino, 2009, pag. 430.
[51] «La grande svolta ebbe inizio in Occidente dalla concezione cristiana della vita, secondo cui tutti gli uomini sono fratelli in quanto figli di Dio. Ma in realtà la fratellanza non ha di per sé un valore morale. Tanto la storia sacra quanto quella profana più vicina a noi nascono entrambe, per una ragione su cui si sono sbizzarriti gli interpreti, da un fratricidio. La dottrina filosofica che ha fatto dell’individuo e non più della società il punto di partenza per la costruzione di una dottrina della morale e del diritto è il giusnaturalismo, che può essere considerato, sotto molti aspetti, e fu certamente nelle intenzioni dei suoi creatori, la secolarizzazione dell’etica cristiana[…]. L’individualismo è la base filosofica della democrazia: una testa, un voto. Come tale si è sempre contrapposto, e sempre si contrapporrà, alle concezioni olistiche della società e della storia, da qualsiasi parte provengano, che hanno in comune il disprezzo della democrazia intesa come quella forma di governo in cui tutti sono liberi di prendere le decisioni che li riguardano e hanno il potere di farlo. Libertà e potere che derivano dal riconoscimento di alcuni diritti fondamentali, inalienabili e inviolabili quali sono i diritti dell’uomo. Non mi nascondo che mi si può fare l’obiezione che il riconoscimento dell’individuo come soggetto di diritti non ha aspettato la rivoluzione copernicana dei giusnaturalisti. Il primato del diritto (ius) sull’obbligo è un tratto caratteristico del diritto romano qual è stato elaborato dai giuristi dell’età classica. Ma si tratta, come ognuno può vedere da sé, di diritti che competono all’individuo come soggetto economico, come titolare di diritti sulle cose e come avente la capacità di scambiare beni con altri soggetti economici dotati della stessa capacità. La svolta di cui ho parlato e che sta a fondamento del riconoscimento dei diritti dell’uomo avviene quando questo si allarga dalla sfera dei rapporti economici interpersonali ai rapporti di potere fra principe e sudditi, e nascono i cosiddetti diritti pubblici soggettivi, che caratterizzano lo stato di diritto. È con la nascita dello stato di diritto che avviene il passaggio finale dal punto di vista del principe a quello dei cittadini. Nello stato dispotico i singoli individui hanno solo doveri e non diritti. Nello stato assoluto gli individui vantano nei riguardi del sovrano diritti privati. Nello stato di diritto l’individuo ha verso lo stato non solo diritti privati ma anche diritti pubblici. Lo stato di diritto è lo stato dei cittadini»: Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1997, pag. 57-61.
[52] Massimo Cacciari, Ecco perché dico no al Green Pass e alla logica del sorvegliare e punire, in La Stampa, 28 luglio 2021.
[53] Alexandr Zinov’ev, La struttura della società sovietica, Jaca Book, Milano, 1981, pag. 260.
[54] AA.VV., Thrombosis and thrombocytopenia after chadox1 ncov-19 vaccination, in New England Journal of Medicine, 9 april 2021; AA.VV., Thrombotic thrombocytopenia after chadox1 ncov-19 vaccination, in New England Journal of Medicine, 9 april 2021; AA.VV., Clinical features of vaccine-induced immune thrombocytopenia and thrombosis, in New England Journal of Medicine, 11 august 2021; AA.VV., Cerebral venous thrombosis after vaccination against COVID-19 in the UK: a multicentre cohort study, in The Lancet, 6 august, 2021.
[55] AA.VV., Myocarditis and pericarditis after vaccination for covid-19, in Journal of the American Medical Association, 4 august 2021.
[56] Paolo Zellini, La dittatura del calcolo, Adelphi, Milano 2018, pag. 16.
[57] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Club degli Editori, Milano, 1964, Vol. 1, pag. 314.
[58] Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino, 2002, pag. 63
[59] Vladimir Soloviev, I tre dialoghi e il racconto dell’anticristo, Marietti, Genova, 1996, pag. 250.
[60] Arthur Koestler, Buio a mezzogiorno, Mondadori, Milano, 1948, pag. 117-193.
[61] https://www.corriere.it/cronache/21_luglio_21/ilaria-capua-no-vax-1d5e16fa-e997-11eb-94c9-3e2e13e36d00.shtml
[62] https://www.huffingtonpost.it/entry/la-sanzione-per-chi-non-si-vaccina_it_6128f391e4b06e5d80cca7d7
[63] Per una critica della prospettiva utilitaristica che si cela dietro una tale prospettiva cfr. Aldo Rocco Vitale, Elementi per un rapporto tra allocazione delle risorse sanitarie e diritto alla salute come problema biogiuridico nell’emergenza del COVID-19, in GiustiziaInsieme, 21 dicembre 2020.
[64] Aldo Rocco Vitale, Il diritto alla salute tra selezione eugenetica e dignità della persona, in “Medicina e Morale”, 2017/3; Aldo Rocco Vitale, Introduzione alla bioetica. Temi e problemi attuali, Il Cerchio, Fano, 2019, pag. 45-49.
[65] «La pratica dell’eliminazione terapeutico-sociale non fu un prodotto casuale e accessorio della politica del Terzo Reich, ma uno dei suoi più importanti campi di applicazione. La forza di penetrazione di quella politica si fondava sull’intreccio stretto di modernità scientifica, razionalità tecnico sociale e finalità utopistiche reazionarie»: Norbert Frei, Lo Stato nazista, Laterza, Bari, 2002, pag. 167.
[66] «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura»: Art. 21, Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea; «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione»: Art. 14, Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo.
[67] Sorprende che una cultura quale è quella attuale sostanzialmente anti-autoritaria, irretita dal demone libertario, finisca inconsapevolmente nella trappola di quelle che sono le linee portanti dell’autoritarismo decisionista schmittiano; sul punto cfr. Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, Il Mulino, Bologna, 1970, Vol. 3, pag. 381.
[68] Giuseppe Capograssi, Il diritto dopo la catastrofe (1950), in Opere, Giuffrè, Milano, 1959, Vol. V, pag. 153-185.
[69] Enrico Opocher, Libertà, in AA.VV., Lessico della politica, a cura di Giuseppe Zaccaria, Edizioni Lavoro, Roma, 1987, pag. 327-328.
[70] Salvatore Satta, Il diritto, questo sconosciuto, in Il Foro Italiano, 78/1955, pag. 1-8.
Giustizia insieme, in linea con la sua linea editoriale, ospita due approfondimenti di diverso orientamento sul tema dell'obbligo vaccinale e del Green pass a firma del Prof. Antonio Ruggeri, emerito di diritto costituzionale dell'Università di Messina e del dott. Aldo Rocco Vitale, culture della materia in biogiuridica. La redazione 15.9.2021
Perché la Costituzione impone, nella presente congiuntura, di introdurre l’obbligo della vaccinazione a tappeto contro il Covid-19
di Antonio Ruggeri*
La questione – come si sa – è animatamente discussa sia tra gli operatori politico-istituzionali che tra gli studiosi, e non solo: nella stessa società le divisioni sono marcate, alcuni difendendo a spada tratta la campagna vaccinale ed altri (i c.d. “no-vax”) ad essa opponendo una resistenza anche in forme abnormi ed illecite. Francamente stupisce che a questa seconda schiera appartengano anche esponenti del mondo sanitario che dovrebbero essere ben consapevoli del fatto che il vaccino è, e a tutt’oggi rimane, la migliore risorsa di cui disponiamo per difenderci dal virus e – questo è il punto – l’unica che possa alimentare la speranza di poterlo debellare una volta per tutte o, per il caso che – come temo – dovesse divenire endemico, di preservare la salute e la stessa vita di coloro che periodicamente se ne avvarranno, così come si fa con altri vaccini, per fortuna loro (e di tutti noi) non gravati da polemiche gravemente pregiudizievoli.
Ora, la tesi evocata dal titolo dato alla succinta riflessione che mi accingo a rappresentare, riprendendo ed ulteriormente sviluppando alcuni argomenti altrove esposti[1], potrà apparire radicale e temeraria; e mi corre l’obbligo qui di confessare che sono pervenuto a certe conclusioni dopo non poco travaglio interiore, persuaso del fatto che – fin dove possibile – l’autodeterminazione della persona sia un bene prezioso, come tale bisognoso di essere preservato ed anzi incoraggiato ad esprimersi magis ut valeat[2]. Ne va infatti non soltanto la salvaguardia della libertà di ciascun individuo di poter definire i propri progetti di vita e portarli ad effetto – la condizione prima per l’ottimale sviluppo della personalità – ma, per ciò stesso, anche quella dell’intera collettività e, dunque, la salvaguardia della essenza e dell’identità stessa della Repubblica quale ordinamento liberal-democratico (nella sua più densa e significativa accezione). E, tuttavia, come ci è stato più volte e ancora di recente rammentato dalla più alta carica dello Stato, la libertà di ciascuno di noi finisce laddove comincia quella degli altri; e lo stesso vale – è bene mettere subito in chiaro – anche per la salute. Posso, infatti, scegliere di non curarmi – si tratti di un semplice raffreddore come di un male devastante[3] – ma di certo non godo più della facoltà di scelta se, a causa del mio non vigilato o, diciamo pure, colpevole comportamento, metto a rischio la salute e la vita stessa degli altri.
È bene al riguardo sgombrare subito il campo da un equivoco.
È vero che l’art. 32 della Costituzione, ad una sua prima (ma affrettata e sostanzialmente inesatta) lettura, parrebbe lasciar intendere che la decisione di sottoporre un individuo a trattamenti sanitari obbligatori sia il frutto di opzioni rimesse all’apprezzamento politico-discrezionale degli organi della direzione politica, tradottesi quindi in previsioni di legge (statale, non essendo dato al riguardo alle Regioni di poter far luogo a discipline peculiari idonee ad incidere sulla libertà personale dei destinatari)[4]. Accreditati studiosi hanno poi fatto notare che alla eventuale introduzione dell’obbligo vaccinale a tappeto si dovrebbe pervenire con gradualità, ponendosi quale extrema ratio, una volta acquisita la conferma della vanità degli sforzi prodotti con misure meno invasive della libertà della persona. E in quest’ordine di idee mi pare che si riconosca lo stesso Governo, come risulta da ripetute dichiarazioni in tal senso del Ministro della salute R. Speranza[5].
Mi chiedo: ma questa conferma non l’abbiamo già? I dati che quotidianamente ci vengono trasmessi dai grandi mezzi d’informazione non sono forse sufficientemente eloquenti nella loro inquietante evidenza?
Non è inopportuna al riguardo una duplice avvertenza.
Per un verso, non pochi sono i casi in cui il parametro costituzionale evocato in campo in occasione di vicende processuali particolarmente complesse e spinose risulta non esclusivamente da materiali di fattura normativa bensì anche (e talora persino soprattutto) da altri fattuali che si immettono nel “contenitore” costituzionale variamente e sensibilmente impressionandolo. D’altro canto, il sindacato di ragionevolezza sulle leggi, in una delle sue più salienti espressioni, rimanda proprio ad una verifica di congruità della norma al fatto, quale prende forma nel contesto complessivo in cui si manifesta[6].
Per un altro verso, poi, non poche sono le questioni aperte di rilievo costituzionale la cui soluzione non può essere apprestata unicamente dai chierici di turno. Il giurista (e, specificamente, il costituzionalista) non dispone, infatti, molte volte degli strumenti tecnico-scientifici di cui necessita per dare la risposta giusta a domande che implicano la conoscenza di nozioni attinte ab extra. La qual cosa si rende particolarmente visibile proprio con riguardo ai diritti il cui godimento è condizionato dallo sviluppo scientifico e tecnologico[7].
Venendo al caso nostro, la statistica è – come si sa – una scienza e dice chiaro e tondo che la stragande maggioranza delle persone contagiate non si era vaccinata o aveva fatto solo la prima dose e che la stragande maggioranza di coloro che abbisognano di ricovero ospedaliero e, tra questi, di coloro che perdono la vita a causa del virus rientra nella categoria in parola. È questo un dato oggettivo o è il frutto di una fantasiosa opinione?
La scienza medica, che pure si presenta al proprio interno non di rado divisa, conviene sul fatto che ad oggi non v’è risorsa più efficace del vaccino per contrastare la dilagante diffusione del virus, ovviamente accompagnata dalle altre misure di salvaguardia (in ispecie, il distanziamento interpersonale, la mascherina, l’igiene soprattutto delle mani e del volto)[8].
Stando così le cose non possono aversi, a mia opinione, dubbi o tentennamenti di sorta.
Il “può” presente nell’enunciato costituzionale a riguardo dei trattamenti sanitari obbligatori non significa affatto che questi ultimi possono aversi come non aversi, a discrezione appunto del decisore di turno. La lettura corretta è invece un’altra: senza la legge non è consentito mettere in atto il trattamento in parola. Il punto è, però, che al ricorrere di certe condizioni l’adozione della legge stessa è obbligatoria, non già meramente facoltativa, essendo in gioco beni costituzionalmente protetti di cruciale, vitale rilievo.
Certo, nessuno può costringere manu militari una maggioranza politica riluttante a vararla ed a dotarla dei contenuti giusti, congrui rispetto al fine da raggiungere (nel caso di specie, alla previsione dell’obbligo dovrebbe, a mio modo di vedere, accompagnarsi una severa sanzione penale per la sua eventuale inosservanza)[9].
È bene, ad ogni buon conto, rammentare che in diritto costituzionale non sono pochi i casi in cui si può (e deve) riconoscere la sussistenza di un obbligo di facere a carico del legislatore, così come è ormai provato che la mancata previsione di sanzioni per la sua violazione nulla toglie alla doverosità del comportamento, in ultima istanza passibile di andare soggetto al meccanismo usuale della responsabilità politica (che da noi, purtroppo, funziona male, per ragioni la cui illustrazione ci porterebbe tuttavia troppo oltre l’hortus conclusus entro il quale questa succinta riflessione è tenuta a stare e richiederebbe un lungo discorso, già peraltro molte volte fatto, in merito ai guasti ed alle complessive carenze del sistema politico-istituzionale del nostro Paese).
Ebbene, se si danno, in via di principio, casi di produzione legislativa doverosa, come non ammettere che quello di cui qui si discorre sia uno di essi? Come negare che l’ostacolo frapposto dall’autodeterminazione soggettiva alla messa in atto della misura più efficace di lotta al virus porti diritto al sacrificio di vite umane che, grazie alla misura stessa, sarebbero fatte salve? Che, insomma, ogni giorno che passa molte vite vanno perdute e che, quando pure quest’esito tragico non si abbia, possono ugualmente aversi danni incalcolabili e a volte permanenti per la salute individuale e collettiva? Che, diffondendosi ad ondate ricorrenti il virus, si è quindi costretti a varare misure gravemente pregiudizievoli per l’economia, molti operatori essendosi trovati sul lastrico e molti altri vi si troveranno per effetto della decisione di… non decidere?
L’obiezione ricorrente nella bocca di alcuni (e che poi è anche causa della indecisione di altri o nell’atteggiamento pilatesco e, diciamo pure, egoista di attendere che si formi la c.d. immunità di gregge per ottenere il beneficio senza alcun rischio[10]) è che sottoporsi al vaccino comporta dei pericoli anche seri per la salute e la stessa vita di chi vi si assoggetta. Un calcolo, questo, però, sbagliato, secondo quanto è ancora una volta dimostrato dai dati elaborati da tecnici e scienziati. Soppesando o – come suol dirsi – “bilanciando” i benefici, acclarati in modo certo, che vengono dal vaccino con i rischi ai quali per effetto dello stesso ci si potrebbe trovare esposti si ha sicura riprova che i primi sono di gran lunga maggiori dei secondi. È chiaro che alcune persone, per ragioni di salute e ad oggi di età (ma sono persuaso che presto quest’ultima sarà via via abbassata), non possono sottoporsi al vaccino; al di fuori di esse, però, per ogni altra la via è una sola, obbligata.
Non regge, poi, l’obiezione[11], apparentemente inoppugnabile ma in realtà fuori centro, avanzata da chi, non rinvenendo buoni argomenti in grado di superare i rilievi appena fatti, obietta che nessuno è in grado di prevedere gli eventuali effetti nocivi di lungo termine conseguenti alla vaccinazione. Un rilievo che si confuta da sé, sol che si ammetta – come devesi ammettere – che, senza il vaccino, purtroppo è da temere che non ci sarà un futuro per l’umanità nel quale poter avere la risposta al quesito lasciato in sospeso…
Sbaglia, dunque, i conti e rischia grosso chi, potendosi vaccinare, adotta una tattica attendista o, peggio, di rifiuto: per sé e per coloro che gli sono cari. E, comunque, non è consentito di fare quest’errore madornale ai responsabili della cosa pubblica che – come si è venuti dicendo – devono al più presto rompere gli indugi e varare la legge di cui si è qui discorso, non limitandosi dunque a far luogo a soluzioni compromissorie dalla dubbia utilità[12] ovvero alla mezza misura, comunque opportuna[13], della graduale estensione dell’obbligo di green pass[14], del quale al momento in cui licenzio per la stampa questo scritto si prefigura l’utilizzo in tutti gli ambienti di lavoro[15]. E, poiché è ormai provato che nel tempo della “globalizzazione” – come suole essere chiamata (sia pure con una certa improprietà) – l’obiettivo non può essere centrato se non a mezzo di sforzi congiunti e poderosi posti in essere in ambito internazionale e sovranazionale, se ne ha che coloro che da noi hanno responsabilità di governo devono altresì sollecitare con vigore l’Unione europea e la Comunità internazionale a far luogo a decisioni in linea con l’indicazione qui data che non soltanto non trovano ostacolo alcuno nei principi fondamentali della Carta costituzionale a far ingresso nell’ordine interno ma anzi si pongono, per la loro parte, nei loro riguardi in funzione immediatamente servente.
L’obbligo di legiferare nel senso qui patrocinato discende, infatti, non dal solo art. 32 ma, ancora prima e più a fondo, dall’art. 54 della Costituzione, vale a dire da quel dovere di fedeltà alla Repubblica che, unitamente al dovere di solidarietà di cui è parola nell’art. 2, autentico pilastro portante dell’edificio costituzionale, col quale fa “sistema”, chiama ciascuno di noi e l’intera collettività (a partire da chi ha responsabilità di governo) a spendersi fino in fondo per assicurare l’integra trasmissione nel tempo della Repubblica stessa, con tutto ciò che ne dà la cifra identificante e qualificante[16].
È per ciò che, a ben vedere, l’obbligo di cui qui si discorre dispone di “copertura” nell’intera Carta costituzionale, pur rinvenendo la sua specifica espressione nei disposti sopra richiamati. Perché qui è in gioco – piaccia, o no, dobbiamo averne piena consapevolezza – la sopravvivenza stessa della Costituzione, nell’insieme dei valori fondamentali in essa positivizzati e nelle norme che vi danno voce e svolgimento, e, con essa, della società e dello Stato al quale tutti apparteniamo.
Sarebbe bene non scordarselo.
* Prof. Emerito di Diritto Costituzionale nell’Università di Messina.
[1] V., dunque, volendo, il mio La vaccinazione contro il Covid-19 tra autodeterminazione e solidarietà, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 2/2021, 22 maggio 2021, 170 ss.
[2] Maggiori ragguagli nella mia voce Autodeterminazione (principio di), in Digesto/Disc. Pubbl., VIII Agg. (2021), 1 ss.
[3] In realtà, in altri luoghi ho ritenuto di dover prendere le distanze dal modo perentorio con cui la libertà di cura è usualmente vista; non insisto, tuttavia, qui nel riproporre una tesi che richiederebbe un lungo ed articolato svolgimento argomentativo a suo sostegno.
[4] Sulla ratio della previsione costituzionale, di recente, A. Mazzola, Il diritto alla salute tra dimensione individuale e dovere sociale, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 2/2021, 22 luglio 2021, 572 ss., spec. 578 ss.
[5] Sulla “prudente strada” seguita dai Governi, tra i quali il nostro, v., di recente, S. Curreri, Sulla costituzionalità dell’obbligo di vaccinazione contro il COVID-19, in La Cost.info (www.laCostituzione.info), 28 agosto 2021. Quanto poi alle ragioni che hanno indotto a non far luogo a tutt’oggi all’obbligo vaccinale generalizzato, v., ora, R. Romboli, Aspetti costituzionali della vaccinazione contro il Covid-19 come diritto, come obbligo e come onere (certificazione verde Covid-19), in Quest. giust. (www.questionegiustizia.it), 6 settembre 2021. V., inoltre, utilmente i contributi al forum Sulla vaccinazione in tempo di Covid-19, in Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 2/2021, 257 ss.
[6] Si pensi solo ai giudizi di costituzionalità che si hanno in situazioni di emergenza, nella varietà delle sue espressioni, laddove discipline legislative in astratto meritevoli di essere caducate (e il giudice costituzionale non lo cela) sono invece mandate assolte proprio in quanto quest’esito si giustifica (e, anzi, impone) in considerazione della situazione di fatto che ne ha determinato l’adozione (richiamo al riguardo qui solo la nota vicenda maturata al tempo del terrorismo interno che aveva indotto il Governo a far luogo ad un’abnorme dilatazione dei termini di carcerazione preventiva, nel timore che persone detenute e sospette di appartenere alle BR potessero essere rimesse in libertà riprendendo a fare di persone innocenti bersagli della loro follia omicida: una misura, questa, dal giudice costituzionale pudicamente qualificata “insolita” – rectius, incostituzionale – e nondimeno fatta salva proprio in ragione della emergenza: sent. n. 15 del 1982).
[7] Sul “rinvio alla scienza” v., ora, A. Mangia, Si caelum digito tetigeris. Osservazioni sulla legittimità costituzionale degli obblighi vaccinali, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2021, 9 settembre 2021, 432 ss.
[8] È, poi, un dato di comune esperienza quello per cui le misure in parola non sono rispettate in modo scrupoloso da molti, senza che peraltro il comportamento irresponsabile di chi vi fa luogo sia molte volte sanzionato come si deve.
[9] Non si trascuri, nondimeno, la differenza che si ha tra un’omissione assoluta ed una relativa del legislatore: nell’un caso, è praticamente impossibile porre rimedio al difetto di una disciplina normativa quale che sia; nel secondo, di contro, a volte si può confidare nell’aggiustamento di una disciplina carente per mano del giudice costituzionale, in ispecie nell’aggiunta di norme indebitamente mancanti, tanto più poi nella presente congiuntura segnata da un iperattivismo del giudice stesso emblematicamente testimoniato dal disinvolto superamento del limite delle “rime obbligate”, in occasioni viepiù frequenti, rimpiazzato da una normazione iussu iudicis in “versi sciolti” (per riprendere l’efficace qualifica datane da una sensibile studiosa, D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bononia University Press, Bologna 2020, spec. 101 ss. Di un “progressivo commiato dal teorema delle ‘rime obbligate’” ha poi, non molto tempo addietro, discorso un autorevole studioso e giudice costituzionale, F. Modugno, Le novità della giurisprudenza costituzionale, in Lo Stato, 14/2020, 101 ss., spec. 115. Della discrezionalità del legislatore tratta infine L. Pace, L’adeguatezza della legge e gli automatismi. Il giudice delle leggi fra norma “astratta” e caso “concreto”, Editoriale Scientifica, Napoli 2020, 114 ss.).
[10] Opportuno, però, è il monito ancora non molto tempo addietro venuto da una sensibile dottrina che ha rammentato che dell’immunità in parola “tutti egualmente ne beneficiano se tutti vi contribuiscono” [Q. Camerlengo - L. Rampa, Solidarietà, doveri e obblighi nelle politiche vaccinali anti Covid-19, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2021, 30 giugno 2021, 210].
[11] …ancora da ultimo affacciata da A.R. Vitale, Del green pass, delle reazioni avverse ai vaccini e di altre cianfrusaglie pandemiche come problemi biogiuridici: elementi per una riflessione, in questa Rivista, spec. § 2. V., inoltre, A. Mangia, op. cit., spec. 443 ss.
[12] …quale quella, caldeggiata da C. D’Orazi, Se è legittimo imporre il vaccino contro il Covid-19, fra autodeterminazione e necessità, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2021, 23 giugno 2021, 22 s., della previsione come obbligatoria unicamente della prima dose del vaccino, eventualmente accompagnata dalla mera raccomandazione relativa alla seconda.
[13] …e bisognosa di essere mantenuta pur dopo l’auspicata introduzione dell’obbligo vaccinale, rendendo la certificazione in parola conferma del suo avvenuto adempimento. Un’argomentata difesa del certificato in parola è in R. Bin, nella sua replica al documento anti-green pass di Questione giustizia, dal titolo Sul dovere costituzionale e comunitario di disapplicazione del c.d. decreto green pass, in La Cost. info (www.laCostituzione.info), 9 agosto 2021.
[14] Rilievi fortemente critici sul punto in G. Scarselli, Note sul decreto legge 105/2021 che estende il green pass a attività e servizi della vita quotidiana, in questa Rivista, 30 luglio 2021.
Eccessivo, ad ogni buon conto, sembra essere il giudizio di chi, come A.R. Vitale, op. cit., § 3, vede nel green pass la fonte di “seri pregiudizi di carattere sistematico sull’intera struttura dei fondamenti ordinamentali e sulla concezione dello stesso Stato di diritto”. Di contro, com’è stato fatto notare dalla più avvertita dottrina, trattasi di una misura resasi indispensabile per l’esercizio di diritti che altrimenti non potrebbero trovare il modo per farsi valere: emblematico al riguardo l’esempio addotto da R. Romboli (nella intervista resa a L. Milella, sotto il titolo Sì all’obbligo se tutela la salute di tutti, per La Repubblica, 12 settembre 2021) degli stadi ai quali è possibile accedere proprio grazie al certificato verde, l’alternativa realisticamente prospettabile essendo quella della loro chiusura, così come peraltro si è già avuto in passato. Una opportuna replica a quanti hanno osservato che il green pass produrrebbe effetti discriminatori tra i cittadini è di recente venuta da A. Poggi, nell’Editoriale dal titolo Green pass, obbligo vaccinale e le scelte del Governo, in Federalismi (www.federalismi.it), 21/2021, 8 settembre 2021, IX, che, ribaltando la critica, ha rilevato come si tratti piuttosto di uno strumento idoneo a dar voce al principio di eguaglianza. Cfr., nella stessa Rivista, il punto di vista di C. Bertolino, “Certificato verde Covid-19” tra libertà ed eguaglianza, 15/2021, 16 giugno 2021, 1 ss.; v., inoltre, il confronto su Micromega tra A. Barbero e P. Flores d’Arcais, Green pass: discriminazione o libertà, 8 settembre 2021.
[15] Non si trascuri, tuttavia, che in tal modo resterebbe esclusa proprio la fascia delle persone avanti con gli anni che rientra tra quelle maggiormente esposte. Sull’obbligo vaccinale negli ambienti di lavoro, tra gli altri, v. M. Massa, Lavoro e vaccinazione contro il Covid-19. Note costituzionali su un dibattito giuslavoristico, in Quad. cost., 1/2021, 89 ss.; A. Maresca, La vaccinazione volontaria anti Covid nel rapporto di lavoro, Editoriale, in Federalismi (www.federalismi.it), 8/2021, 24 marzo 2021, IV ss.; nella stessa Rivista, inoltre, M. Giovannone, La somministrazione vaccinale nei luoghi di lavoro dopo il D.L. n. 44/2021, 14/2021, 2 giugno 2021, 103 ss., e C. Della Giustina, La vaccinazione contro il Covid-19 tra facoltà ed obbligo nel rapporto di lavoro subordinato. Riflessioni giuspubblicistiche, 18/2021, 28 luglio 2021, 71 ss.
[16] Sulle plurime e rilevanti valenze espresse dal dovere di fedeltà, v., part., A. Morelli, I paradossi della fedeltà alla Repubblica, Giuffrè, Milano 2013. Quanto, poi, al dovere di solidarietà, riferimenti da ultimo nello scritto sopra cit. di A. Mazzola, 585 ss., e, per il rilievo che esso acquista nella dimensione sovranazionale, tra gli altri, F. Medico, Il ruolo della Carta di Nizza e la questione sociale: ci può essere solidarietà senza integrazione politica?, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2021, 16 luglio 2021, 236 ss., e G. Comazzetto, La solidarietà nello spazio costituzionale europeo. Tracce per una ricerca, 258 ss., nonché G. Saltelli, Solidarietà, sussidiarietà e diritti fondamentali del cittadino europeo nel processo di integrazione politica dell’Europa, 26 luglio 2021, 339 ss., spec. 347 ss. Lo qualifica un “male necessario” F. Grandi, L’art. 32 nella pandemia: sbilanciamento di un diritto o “recrudescenza” di un dovere?, in Costituzionalismo (www.costituzionalismo.it), 1/2021, 17 maggio 2021, 84 s. Infine, specifica attenzione alla solidarietà nelle politiche vaccinali è prestata da Q. Camerlengo e L. Rampa, op. cit., 199 ss.
Dal dovere di solidarietà – giova qui rammentare – linearmente discende altresì l’impegno al quale anche il nostro Stato, unitamente ad altri, è chiamato verso quei Paesi nei quali la vaccinazione è ad oggi in forte ritardo, anche per la carenza di risorse, umane e materiali, necessarie per farvi fronte [sugli sviluppi che si attendono lungo questo versante, v., per tutti, A. Spadaro, che ne ha trattato a più riprese: ad es., in L’amore dei lontani: universalità e intergenerazionalità dei diritti fondamentali fra ragionevolezza e globalizzazione, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it); Dai diritti “individuali” ai doveri “globali”. La giustizia distributiva internazionale nell’età della globalizzazione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, e I diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo “modello sociale europeo”: più sobrio, solidale e sostenibile), in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2011, 6 dicembre 2011].
L’autorizzazione condizionata non implica il carattere sperimentale deI vaccino (nota a TAR FVG, 10 09 2021 n. 261)
La sentenza definisce il giudizio d’impugnazione del provvedimento adottato da Azienda sanitaria ai sensi dell’art. 4, comma 6 del d.l. 44 del 2021 (conv. in l. 76 del 2021), con cui è stata accertata l’inosservanza dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell'infezione da SARS-CoV-2. Il ricorso ne aveva chiesto l’annullamento previa dichiarazione d’incostituzionalità della norma attributiva del relativo potere sotto diversi profili, sostanzialmente riassumibili nella insussistenza del presupposto per imporre trattamenti sanitari obbligatori a norma dell’art. 32, comma 2 Cost.; insussistenza dedotta dall’asserito carattere sperimentale del vaccino e dal fatto che questo non avrebbe l’effetto di prevenire la diffusione dell’infezione, ma solo lo sviluppo della malattia, con la conseguenza che la imposizione della somministrazione di un farmaco sperimentale di cui non sono noti gli effetti collaterali a breve e lungo termine non sarebbe idonea a perseguire l’obiettivo dichiarato di tutela della salute pubblica.
Il ricorso viene definito con sentenza breve osservando innanzi tutto che l’evidenza dei dati statistici dimostra che la profilassi vaccinale ha efficacia preventiva, oltre che dei sintomi della malattia, anche della trasmissione dell’infezione e che l’interesse a prevenire lo sviluppo della malattia da Covid-19 in capo agli operatori sanitari, nel contesto dell’emergenza pandemica, assume un’indubbia valenza pubblicistica, giacché garantisce la continuità delle loro prestazioni professionali e, quindi, l’efficienza del servizio fondamentale cui presiedono, con conseguente esclusione della possibilità di confinare la scelta vaccinale del sanitario in una dimensione strettamente individuale e quindi in nessun modo coercibile.
La motivazione della decisione merita di essere poi segnalata per aver chiarito che la “sperimentazione” dei vaccini deve ritenersi conclusa con la loro autorizzazione all’immissione in commercio e che non è corretto affermare che la sperimentazione sia ancora in corso solo perché l’autorizzazione è stata concessa in forma condizionata. Al riguardo la sentenza precisa che l’autorizzazione si colloca a valle delle usuali fasi di sperimentazione clinica che precedono l’immissione in commercio di un qualsiasi farmaco, senza alcun impatto negativo sulla completezza e sulla qualità dell’iter di studio e ricerca escludendo con ciò l’equiparazione dei vaccini a “farmaci sperimentali”.
Con riferimento invece alla ragionevolezza della disposizione, nella parte in cui fa conseguire alla mancata sottoposizione al vaccino la sospensione dall’esercizio della professione e quindi la radicale impossibilità di ottenere un reddito, la sentenza ritiene che la primaria rilevanza del bene giuridico protetto, cioè la salute collettiva, giustifichi la temporanea compressione del diritto al lavoro del singolo che non voglia sottostare all’obbligo vaccinale, in quanto ogni libertà individuale trova un limite nell’adempimento dei doveri solidaristici, imposti a ciascuno per il bene della comunità cui appartiene (art. 2 della Cost.); e anche sotto il profilo della proporzionalità assume rilevanza il fatto che l’art. 4 del d.l. 44 del 2021 prevede comunque un meccanismo di esenzione dall’obbligo vaccinale, per i casi di “accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale”, e che la sospensione, anche nelle ipotesi di permanente e ingiustificato inadempimento, ha natura temporanea, estendendosi “fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021”. Il che scongiurerebbe le conseguenze negative derivanti dall’inadempimento dell’obbligo vaccinale in caso di accertata impossibilità di sottoporsi al vaccino.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.