Ponti versus muri, o muri e ponti. 11) Stati sovrani e giustizia globale
di Enzo Cannizzaro
[Per conoscere e consultare tutti i contributi sviluppati sul tema,
si veda l'Editoriale]
“Ponti e muri” sono concetti metaforicamente antitetici. I ponti uniscono, i muri dividono. Nelle complesse categorie concettuali del diritto e della scienza politica, questi concetti ben esprimono due grandi opzioni ideologiche: da un lato, l’aspirazione a una dimensione di carattere universale, la quale sia capace di creare una sfera pubblica globale e tutelare e promuovere valori e interessi collettivi dell’intera comunità umana; d’altro lato, il tranquillizzante ritorno a dinamiche pubbliche racchiuse nella dimensione nazionale, che si svolgono entro comunità parziali dotate, ciascuna, di propri principi e valori.
La prima opzione, quella dell’universalità, è uscita prepotentemente dal mondo dell’utopia allorché la competizione fra nazioni e nazionalismi ha portato, come indica il preambolo della Carta delle Nazioni unite, l’umanità sull’orlo del baratro. Da allora, l’idea dell’esistenza di valori e interessi comuni all’intera umanità ha fatto molta strada. Essa è entrata non solo nel dibattito accademico, ma altresì nella prassi e nei testi normativi internazionali nonché nella percezione dell’opinione pubblica. La consapevolezza di un destino comune dell’umanità, che esige forme collettive di governo, è stata tragicamente rafforzata dalla pandemia da Covid-19. Tuttavia, a dispetto di questa marcia, apparentemente trionfale, l’amministrazione delle cose del mondo è ancora affidata, e lo sarà per molto tempo, ai governi delle comunità parziali, spesso fondate su vincoli storici e culturali e che condividono tradizioni e modelli di vita, che noi chiamiamo Stati.
La metaforica opposizione fra muri e ponti esprime, quindi, uno dei dilemmi del mondo contemporaneo, fra una realtà fatta da ordinamenti parziali, nei quali si esauriscono le dinamiche politiche e giuridiche, dominati dal principio di esclusività, e l’aspirazione ideale verso valori e interessi universali. In tale metafora, i muri delimitano non solo il territorio degli Stati, ma altresì il loro ordinamento politico e giuridico insieme ai loro interessi e valori, e ne custodiscono la purezza ideologica. Di converso, i ponti determinano una nobile contaminazione fra esperienze e principi, alla ricerca di una forma di governo della comunità universale, fondata su principi e valori comuni, potenzialmente costitutivi di una forma, sia pur parziale, di governo globale.
Da qui una domanda fondamentale: è possibile comporre questa discrasia fra l’emergenza di interessi valori universali, i ponti ideali del nostro tempo, e la perdurante esistenza dei muri che tengono ben separate le singole comunità parziali? È possibile, in altre parole, promuovere e tutelare interessi e valori universali in un mondo fatto di muri?
È veramente difficile dare una risposta positiva a questa domanda, senza cadere preda del dolce richiamo dell’utopia. Al riconoscimento di un patrimonio comune di principi e valori dell’umanità non corrisponde infatti, se non in piccola parte, lo sviluppo di procedure e istituzioni competenti a tutelarli e a promuoverli. Di conseguenza, la tutela e la promozione della sfera dei valori collettivi dell’umanità è, in larghissima parte, affidata all’azione degli Stati, gli attori forti, se pur non più unici, della vita di relazioni internazionali. Per questa via, gli Stati, persone giuridiche internazionali, diventano i gestori della sfera pubblica delle relazioni internazionali. Ne consegue che, come si p verificato più volte nella storia recente, gli interessi pubblici saranno promossi solo se coincidenti con l’interesse privato degli Stati agenti.
Questo iato evidente è il prodotto dell’assenza di robuste istituzioni indipendenti dagli Stati, le quali abbiano la competenza a tutelare e a promuovere valori e principi collettivi. Né tale sviluppo sembra imminente, per lo meno in un arco temporale prevedibile.
È in questo ambito concettuale che va ricercata, ad avviso di chi scrive, la relazione fra sovranità e giustizia. Tale relazione potrebbe non emerge a prima vista. La sovranità è un concetto che attiene alla qualità del potere politico, che esige - come ha sempre fatto - unitarietà e assolutezza. La giustizia, o meglio, il suo contrario, l’ingiustizia, è un concetto che attiene al mondo dei concetti etici e soffre, da sempre, un deficit di misurabilità. La sovranità attiene al mondo delle cose; la giustizia a quello delle idee. La sovranità può realizzare, indifferentemente, la giustizia e l’ingiustizia. Se ci si pone nella prospettiva della sovranità, quindi, appare indifferente determinare il tasso di giustizia di un ordinamento giuridico. Quod principis placuit, legem habet vigorem!
E tuttavia, a dispetto della neutralità del concetto di sovranità, esso entra in relazione, talvolta conflittuale, con il concetto di giustizia.
Ciò accade qualora l’idea di giustizia si allarga, fuoriesce dai confini nelle comunità parziali nelle quali il nostro mondo è diviso, si riferisce a rapporti fra membri di comunità diverse. È questa idea di giustizia universale che entra in conflitto irrimediabile con un mondo dominato dalla sovranità delle comunità parziali e dai loro interessi individuali.
Questo conflitto può essere declinato diversamente a seconda delle infinite connotazioni della nozione di giustizia. Per comodità espositiva, si può far riferimento a due di esse. La prima, che costituisce l’essenza dell’idea stessa di giustizia, è la giustizia sociale, vale a dire la distribuzione dei beni materiali. La seconda, ben diversa dalla prima, attiene a un concetto per così dire “giuridico” di giustizia: vale a dire quella relativa al godimento effettivo di diritti. Or bene, sembra ragionevole ritenere, che, pur senza utilizzare strumenti di analisi scientifica, peraltro a propria volta controvertibili, la pretesa di sovranità degli Stati costituisce un ostacolo formidabile alla realizzazione di forme di giustizia sociale e, forse ancor più, di giustizia “giuridica”.
Le statistiche sulla distribuzione della ricchezza mondiale fanno emergere come una larga parte della popolazione mondiale soffra di una doppia esclusione. La povertà, infatti, come anche la povertà estrema, si manifesta rispetto alla distribuzione di ricchezza all’interno del proprio Stato ma anche a quella che misurata nei rapporti fra Stati. Le statistiche delle Nazioni unite indicano come oltre il 10% della popolazione mondiale soffre di povertà estrema, vale a dire, dispone di meno in 1,90 dollari al giorno. Le medesime statistiche indicano che la massima parte di tali individui vivono in determinate aree del mondo, comunemente chiamate il global South.
È, quindi, una doppia barriera alla iniqua distribuzione della ricchezza. La prima deriva dalle politiche pubbliche dei singoli Stati le quali possono marginalizzare una parte della popolazione esclusa dal benessere. Ma ve ne è un’altra, creata dalla assenza di politiche pubbliche fuori dallo Stato. Ambedue agiscono, o fors’anche interagiscono, nel senso di non consentire alla povertà globale di sottrarsi a questo stato di cose. Le politiche pubbliche degli Stati più poveri sono spesso corrose da corruzione e da familismo, due fattori di moltiplicazione delle diseguaglianze interne. L’assenza di politiche internazionali spiega l’altissimo debito pubblico che grava su tali Paesi, ormai in vari casi non più riscattabile, e la loro sostanziale sudditanza rispetto alle dinamiche finanziarie internazionali. Paradossalmente, la sovranità statale, l’aspirazione comune dei popoli non autodeterminati al tempo della decolonizzazione, funge ora solo da moltiplicatore di povertà e di disperazione. Nella selvaggia arena del mercato globale, privo di regole, la sovranità non esalta l’indipendenza decisionale dei Paesi afflitti da povertà estreme, ma piuttosto la svuota di ogni contenuto.
In un certo senza analogo appare il destino della seconda nozione di giustizia universale: quella relativa al godimento dei diritti fondamentali dell’uomo. Tali diritti, proclamati dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948, hanno percorso, fino ad oggi, un lungo cammino e costituiscono, ormai, un patrimonio giuridico dell’umanità. La retorica dei diritti universali è parte integrante della prassi internazionale. E, tuttavia, essi continuano ad essere violati proprio dagli Stati che dovrebbero essere i loro garanti. Se negli anni ’90 si è registrata la più ampia espansione dei regimi ispirati ai principi di democrazia e rispetto dei diritti fondamentali, oggi il tasso di effettivo rispetto di tali principi è calato a livelli preoccupanti. Accanto ai regimi brutalmente autoritari, ve ne sono altri che pagano omaggio alla retorica della democrazia e dei diritti fondamentali, ma che praticano, e talvolta anche teorizzano forme di governo autoritarie e volte alla feroce repressione del dissenso, individuale o collettivo.
Alla luce della debolezza, se non addirittura dell’assenza di un sistema di controllo e di enforcement fondato su procedure e istituzioni indipendenti, l’attuazione dei diritti universali è quindi pesantemente condizionata dalle logiche politiche degli Stati: sia di quello sul quale incombe l’obbligo di garantire il godimento di tali diritti entro la propria giurisdizione che dagli altri, titolari del potere giuridico di agire al fine di assicurarne il rispetto. Ma, come ciascuno può osservare, gli Stati, anche quelli le cui politiche interne sono genuinamente ispirate al rispetto dei principi di democrazia e di rispetto del diritto fondamentali, sono riluttanti a intervenire in questioni che vengono ancora considerate come forme di ingerenza negli affari interni di altri Stati. Una azione a tutela dei valori e degli interessi collettivi dell’umanità generalmente considerata solo qualora essa sia strumentale alla realizzazione di strategie geo-politiche, le quali pervadono e pervertono l’intera vita di relazioni internazionali.