Dirigenza giudiziaria: la parola al CSM
Intervista di Riccardo Ionta e Federica Salvatore a Alberto Benedetti, Giuseppe Cascini e Loredana Miccichè
Il carico di lavoro consiliare, le carenze delle fonti informative, i pericoli di valutazioni basate su curricula pletorici e di carriere dirigenziali parallele, le motivazioni imperfette delle decisioni: le opinioni di tre componenti del Consiglio Superiore non sempre collimano, talvolta divergono. E l’intervento del giudice amministrativo sempre più spesso incombe.
Anche in questa consiliatura il CSM ha provveduto a un numero elevatissimo di nomine e conferme. Quanto incide questo numero sulla valutazione della qualità effettiva dei candidati, sui progetti organizzativi presentati dagli aspiranti direttivi? È compatibile, anche in prospettiva, con l’idea di un’estensione delle audizioni?
Alberto Benedetti I numeri sono stati alti, anche se certamente inferiori a quelli della consiliatura precedente. Mi ha certamente impressionato l’alto numero di domande per le varie posizioni, anche in relazione a uffici non direttivi. L’audizione può essere importante se, poi, se ne valorizzano i contenuti e i risultati nei provvedimenti di nomina; se, invece, sono un mero passaggio formale o rituale, non servono a nulla e, anzi, finirebbero con l’allungare ulteriormente i tempi delle decisioni. Credo nell’importanza del colloquio con gli aspiranti, soprattutto per le posizioni apicali più delicate, purché, ripeto, si tratti di un passaggio utile per valutare le capacità del candidato, non per ascoltare da lui un riassunto del proprio curriculum.
Giuseppe Cascini Da una rilevazione effettuata dall’Ufficio statistico del CSM nei primi 1156 giorni dall’inizio della consiliatura sono stati conferiti 383 incarichi, di cui 160 direttivi e 223 semidirettivi. Nello stesso periodo, cioè nei primi 1156 giorni, nella precedente consiliatura sono stati conferiti 771 incarichi (334 direttivi e 437 semidirettivi), nella consiliatura 2010/2014, sono stati conferiti 475 incarichi (199 direttivi e 276 semidirettivi), nella consiliatura 2006/2010 sono stati conferiti 761 incarichi (361 direttivi e 400 semidirettivi). E’ chiaro che le consiliature 2006/2010 e 2014/2018 hanno dovuto far fronte ad un numero molto più elevato di pratiche, come conseguenza, nel primo caso, della introduzione della temporaneità degli incarichi con la riforma del 2006 e, nel secondo caso, della riduzione dell’età pensionabile.
C’è da chiedersi come abbiano fatto, perché anche con la metà delle delibere, la situazione è molto difficile da gestire e i tempi di definizione sono molto lunghi.
In questa consiliatura la valutazione sulla qualità dei candidati, in base ai dati disponibili, e sui progetti organizzativi presentati è sempre stata molto approfondita, ma certamente un numero così elevato di pratiche è assolutamente incompatibile con la previsione di audizioni obbligatorie per tutte le pratiche.
Occorre, inoltre, considerare che con la riforma del TU della dirigenza del 2014, soprattutto alla luce della giurisprudenza amministrativa che si è formata a seguito di quella riforma, la procedura di nomina si è andata sempre più trasformando in una sorta di concorso per titoli, nel quale, soprattutto secondo l’impostazione del giudice amministrativo, non vi è molto spazio per valorizzare l’esito della audizione o la qualità del progetto organizzativo presentato.
Il sovraccarico di lavoro della Commissione ha determinato, però, un rilevante ritardo nella valutazione delle conferme. Ed è questo, oggi, l’aspetto più negativo dell’azione della quinta Commissione.
La proposta avanzata da AreaDG di una riduzione del numero di posti semi-direttivi, elaborata sulla base di motivazioni di politica giudiziaria ben più ampie e articolate, avrebbe comunque anche l’indubbio vantaggio di rendere più gestibile il carico di lavoro della Commissione.
Loredana Micciché L’elevato numero di nomine non incide sulla qualità delle valutazioni ma sui tempi necessari per la copertura dei posti direttivi, che richiede, in media, circa un anno. La durata delle procedure dimostra che il lavoro è svolto con il necessario approfondimento: nella esperienza biennale in Quinta Commissione ho potuto constatare che tutti i componenti conoscevano i profili professionali dei candidati e che la decisione ha richiesto, spesso, molte sedute. Preciso che i profili degli aspiranti vengono redatti dalla Segreteria della Commissione in base alla documentazione allegata alla domanda e in relazione a tutti gli indicatori dell’attitudine direttiva previsti dal Testo Unico della Dirigenza. Certamente l’elevato numero dei posti da conferire rende impossibile audire tutti i candidati, ma, in ogni caso, il ricorso ad audizioni generalizzate, a prescindere dal numero dei posti, può costituire un inutile appesantimento istruttorio, posto che le audizioni hanno un mero valore conoscitivo – comunque valutabile – ma non possono rivestire efficacia dirimente nella decisione. Una insoddisfacente valutazione della qualità “effettiva” è invece legata ad un problema di lacunosità delle fonti di conoscenza, poiché molto difficilmente i pareri attitudinali specifici degli Organi di autogoverno locale segnalano criticità.
Si lamenta da sempre la carenza delle fonti di conoscenza sui profili dei candidati. Ma, anche quando siano individuate, ciò che ne emerge viene verificato o è almeno verificabile da parte del Consiglio?
Alberto Benedetti Nella mia esperienza, generalmente si ritiene affidabile ciò che i candidati indicano nell’autorelazione; poi, naturalmente, le Commissioni possono fare ulteriori verifiche, specie all’interno del consiglio, per completare il quadro del profilo del candidato. Osservo che se si dovesse verificare ciò che si legge nelle autorelazioni, i tempi ulteriormente si allungherebbero; ogni consigliere – io l’ho fatto spesso – può poi verificare nelle fonti aperte i dati che legge sulle autorelazioni, per esempio per quel che riguarda le pubblicazioni allegate dai candidati o le esperienze didattiche.
Giuseppe Cascini Io credo che sia un errore, e anche un po’ una illusione, pensare di affidare ai sistemi di valutazione la “misurazione” delle qualità professionali dei candidati. I sistemi di valutazione (quelli quadriennali sulla professionalità, quelli in sede di conferma o di parere per il conferimento di incarichi) dovrebbero servire esclusivamente (o almeno prevalentemente) ad individuare eventuali elementi di criticità. Non è cosa da poco, in quanto un sistema in grado di escludere i candidati inadeguati può affidarsi con maggiore serenità a regole più stringenti e “oggettive” nella attribuzione degli incarichi. Su questo terreno io penso che il complessivo sistema di valutazione dei magistrati sia largamente carente. Ciò che prevale è l’uso, sovente generoso, di aggettivi superlativi sganciati dai fatti, mentre gli elementi di criticità, che spesso sono ampiamente conosciuti da tutti, raramente emergono.
La riforma, già approvata dal Consiglio, sulle procedure di conferma dei direttivi e semidirettivi e quella, in discussione in questi giorni in Quarta Commissione sulle valutazioni di professionalità, si pongono proprio l’ambizioso obiettivo di eliminare gli aggettivi e sostituirli con i fatti. Dalla approvazione, e dalla effettiva attuazione, di queste riforme passa, a mio avviso, la vera possibilità di un recupero di credibilità dell’azione consiliare.
Loredana Micciché Il CSM dispone d’ufficio, per ogni aspirante, la verifica sulla posizione disciplinare o sulla esistenza di pendenze riguardanti procedimenti di incompatibilità ambientale o parentale. Può acquisire elementi valutativi da atti, documenti o informazioni nella sua disponibilità, garantendo il contraddittorio del candidato ove si tratti di elementi negativi. Può anche disporre accertamenti presso le proprie articolazioni interne, come prevede l’art. 36 TU sulla Dirigenza Giudiziaria. Certamente, dunque, il Consiglio ha la possibilità e i mezzi per disporre verifiche e in tal senso si è sempre proceduto.
Nella “meritevolezza” su cui il CSM cerca basare le nomine quali capacità sono riconosciute? E c’è spazio per le capacità relazionali? Non si rischia piuttosto di premiare ambizioni basate su curricula costruiti ad hoc in un percorso professionale?
Alberto Benedetti Il rischio c’è, è molto concreto; nella mia esperienza, ho visto scelte basate solo sulle autorelazioni (talvolta accompagnate da audizioni, ma non sempre) e sui dati in queste contenuti. Le capacità relazionali potrebbero essere verificate solo ascoltando i colleghi del candidato o chi ha coordinato e diretto gli uffici in cui ha lavorato; ma allo stato non si fa e mi auguro che la riforma possa affrontare questo importantissimo aspetto con regole specifiche.
Giuseppe Cascini Come accennavo prima, già con la riforma del 2006, ma soprattutto con il nuovo TU della dirigenza del 2014 e la giurisprudenza amministrativa che su di esso si è formata, la procedura di nomina dei dirigenti si è andata sempre più trasformando in un concorso per titoli, nel quale conta prevalentemente il dato del formale svolgimento di un incarico, senza che vi sia una seria ed effettiva possibilità di verificare come quell’incarico è stato svolto e quali risultati sono stati conseguiti. L’eccessivo numero di indicatori, speciali e generali, in posizione pariordinata tra loro offre eccessivi “margini di manovra” al Consiglio, ma anche al giudice amministrativo, che sempre più spesso tende ad “invadere” la sfera della discrezionalità delle scelte.
La proposta di riforma del TU della dirigenza avanzata dal gruppo di AreaDG si pone l’obiettivo di attribuire peso prevalente alla esperienza professionale maturata nell’esercizio dell’attività giudiziaria, riducendo la rilevanza dei tanti, e diversi, incarichi di “collaborazione”.
Resta, però, un nodo ineludibile. In qualunque sistema di valutazione comparativa le precedenti esperienze direttive o semidirettive hanno un peso obiettivamente rilevante. Ciò determina il rischio della creazione di un circuito separato di dirigenti che passano da un incarico all’altro, accrescendo sempre più il proprio carnet di titoli. L’importante, allora, è entrare in quel circuito, casomai partendo da un semidirettivo scomodo e poco ambito, per poi risultare vincenti in tutti i successivi concorsi.
Loredana Micciché Il Testo Unico sulla Dirigenza giudiziaria è basato sulla fonte primaria, ossia sull’art. 12 del d.lgs. n.160/2006, che richiede “capacità di programmare e gestire le risorse”, “propensione all’impiego di tecnologie avanzate”, “capacità di valorizzare le attitudini dei magistrati e funzionari”, di “operare il controllo di gestione sull’andamento generale dell’ufficio”, di “dare piena attuazione a quanto indicato nel progetto tabellare”. È la legge, dunque, che richiede la presenza di una attitudine direttiva che deve necessariamente ricollegarsi ad elementi concreti. Detti elementi, nell’impianto del Testo Unico, si chiamano “indicatori” e vengono distinti tra indicatori “specifici” – che riguardano esperienze collegate alla tipologia di ufficio a concorso, quali esperienze di collaborazione, pregressi incarichi semidirettivi o direttivi, esperienza giurisdizionale nel settore civile o penale a seconda dell’incarico da conferire – e indicatori “generali”, rivelatori invece della attitudine direttiva a prescindere dal tipo di ufficio, quali le esperienze ordinamentali, le esperienze di referente informatico, le esperienze di formazione. Quanto alle capacità relazionali, le stesse sono espressamente valutabili, secondo il Testo Unico, solo con riferimento alle capacità dimostrate nello svolgimento di pregressi incarichi dirigenziali ai fini dell’acquisizione della dirigenza di un ufficio di grandi dimensioni, a norma dell’art. 18 T.U. Il “rischio di curricula ad hoc” che si paventa è legato alla esigenza tratteggiata dalla legge primaria, cui la normativa consiliare ha cercato di dare attuazione, non dimenticando però la contemporanea valorizzazione del lavoro giudiziario.
Quanto ritiene grande il rischio che, nella mole degli indicatori previsti dal t.u. sulla dirigenza, si crei una categoria di magistrati direttivi per carriera, estromettendo quanti, vale a dire la maggioranza, che per una parte della propria vita professionale non ha modo di acquisire titoli che vadano al di là dell’attività giurisdizionale?
Alberto Benedetti Il rischio mi pare elevatissimo; non occorre scomodare l’analisi economica del diritto per capire che se si appesantisce una scelta con mille parametri di ogni genere l’aspirante cerca di orientare la propria carriera all’obiettivo del conseguimento di questi parametri. E questo non va bene. Crea infatti persone che, ansiose di progredire, pensano più al loro cv che al lavoro che, in quel momento, stanno facendo, con risultati pessimi in termini di efficienza del sistema giustizia.
Giuseppe Cascini Il rischio, almeno a mio avviso è un rischio, è che si determini una separazione delle carriere tra un ristretto numero di dirigenti e tutti gli altri. Per evitare questo rischio sono necessari, a mio avviso, interventi su più fronti. Sul piano della legislazione primaria occorre, come accennavo prima, ridurre il numero di posti semidirettivi, secondo la proposta avanzata da Area DG e oggi fatta propria dalla Ministra Cartabia nel suo emendamento alla riforma dell’ordinamento giudiziario. Occorre, inoltre, introdurre una effettiva temporaneità delle funzioni direttive e semidirettive, con la previsione di un periodo di decantazione tra un incarico e l’altro. In ogni caso dovrebbe, quantomeno, essere esclusa la possibilità di presentare domande per ulteriori incarichi direttivi o semidirettivi prima della conclusione dell’incarico precedente. Sul piano dell’azione del governo autonomo il tema è quello delle procedure di conferma.
Loredana Micciché Come detto, è la fonte primaria che richiede una specifica attitudine direttiva, la quale va ancorata ad elementi concreti. Va segnalato, al riguardo, che il Testo Unico valorizza le esperienze nel lavoro giudiziario, anche sotto il profilo dei risultati conseguiti in relazione alla gestione degli affari, e viene in rilievo altresì la durata delle esperienze nel settore ove si colloca il posto da conferire. L’esperienza professionale nella giurisdizione, dunque, è considerata ampiamente dalla normativa consiliare. Certamente l’impianto del Testo Unico – in armonia con la legge primaria – incoraggia il ricorso ad attività che comportino la sperimentazione delle attitudini organizzative non limitate al proprio lavoro individuale, quali il coordinamento di fatto di settori o sezioni se prolungato nel tempo, la collaborazione con la dirigenza, l’attività di magistrato di riferimento per l’informatica, l’esperienza ordinamentale ovvero l’attività formativa. Non si tratta, però, di esperienze “inarrivabili”: spesso non si registrano aspiranti per le attività di MAGRIF o di formatore decentrato; le presidenze di fatto, cui possono accompagnarsi attività organizzative, si acquisiscono per mera anzianità, le collaborazioni con la dirigenza sono regolarmente richieste con interpelli. In conclusione, l’approdo ad un incarico semidirettivo non è affatto irraggiungibile o riservato a pochi, ma è ampiamente alla portata di ogni magistrato che svolga bene il proprio lavoro e manifesti disponibilità per esperienze che sono ampiamente accessibili a tutti.
La percentuale di conferme positive di direttivi e semidirettivi è elevata, tendente alla totalità. Manca una reale “misurazione” della performance, che valuti gli obiettivi realizzati e la qualità dei provvedimenti o le ragioni sono altre?
Alberto Benedetti Vero, mancano indicatori sicuri e affidabili; bisognerebbe ascoltare chi ha lavorato con il confermando, gli avvocati del foro, gli amministrativi. Le conferme non devono essere più atti scontati o rituali, ma dovrebbero diventare momenti di verifica effettiva e come tali dovrebbero essere percepiti soprattutto dai titolari degli uffici.
Giuseppe Cascini Su questo versante è essenziale dare piena ed effettiva attuazione alla riforma del procedimento di conferma approvata in questa consiliatura, in modo da riuscire ad estromettere da quel circuito quelli che si rivelino inadeguati, così da evitare il rischio, che io credo si stia verificando oggi, che per la carriera dei magistrati si sia passati dalla anzianità senza demerito, in base alla quale si nominava il più anziano del concorso, indipendentemente dalle sue qualità e purchè non avesse particolari criticità, alla dirigenza senza demerito, in base alla quale si nomina chi ha già svolto un precedente incarico, indipendentemente da come lo abbia in concreto svolto e purchè non risultino particolari criticità. È assolutamente necessario, inoltre, ridurre drasticamente i tempi delle decisioni consiliari sulle conferme, che oggi registrano ritardi intollerabili.
Loredana Micciché In ordine alla elevata percentuale di conferme si possono reiterare le considerazioni già espresse sul fatto che anche in ordine alla valutazione del quadriennio nell’incarico direttivo o semidirettivo i pareri dei Consigli giudiziari sono sempre positivi e non segnalano alcuna criticità. In questa Consiliatura abbiamo riformato il Testo Unico proprio nella parte riguardante le conferme, predisponendo una modulistica per auto relazioni e pareri con la necessaria allegazione anche dei dati statistici riguardanti l’andamento dell’ufficio o della sezione diretta. È stata valorizzata la valutazione, da parte della settima Commissione del CSM, dei provvedimenti organizzativi adottati. Va comunque segnalato che, una volta acquisiti gli elementi indicati, il procedimento di conferma richiede uno sforzo valutativo pari o anche superiore a quello della designazione per l’incarico, compito difficile da svolgere per l’attuale struttura del Consiglio, del tutto insufficiente.
Gli annullamenti delle nomine da parte del giudice amministrativo sembrano rappresentare un indice delle disfunzioni nell’esercizio della discrezionalità da parte del CSM. Emerge una difficoltà di tenuta delle motivazioni rispetto alle scelte consiliari. Da cosa dipende: il numero delle nomine, la quantità e l’estensione dei parametri attitudinali, altri fattori?
Alberto Benedetti Prima di tutto occorre domandarsi: perché così tanti magistrati non accettano le decisioni del CSM e trovano naturale ricorrere al giudice amministrativo come fosse un atto necessitato? Certo, alla base c’è anche una questione di elevata autostima, tale da far ritenere a molti del tutto impensabile che qualcuno venga loro preferito; c’è un aspetto umano non trascurabile. A questo si aggiunge una perdita di autorevolezza dell’organo che decide, accentuata in questi anni dalle note vicende e che induce chi non è stato nominato a ritenere che ciò derivi da chissà quali cause occulte. Poi, certo, le motivazioni dei provvedimenti risentono della pesantezza degli atti e dei procedimenti e del troppo elevato tasso di burocraticità; ma, onestamente, i vizi di motivazione, a leggere moltissime decisioni dei giudici amministrativi, alla fine sono diverse valutazioni di merito che il giudice ammnistrativo esprime rispetto alla scelta del CSM, perché sappiamo tutti che il sindacato di “ragionevolezza” – a differenza di quello di legittimità – spesso finisce con l’entrare nel merito delle scelte contestate, attività che ritengo lesiva delle prerogative costituzionali del CSM.
Al di là di questo, occorre affrontare il problema a livello ordinamentale e forse costituzionale; mi pare evidente che la giustizia amministrativa debba esercitare la sua imprescindibile funzione di controllo di legalità, ma non può trasformarsi in un “altro” CSM. Rendendo più trasparenti e meno burocratiche le scelte del CSM, mi auguro comunque che cali il tasso dei ricorsi contro i suoi provvedimenti e che i magistrati imparino ad accettare serenamente le decisioni del loro organo di autogoverno; anche qui prima o poi è necessario affrontare meglio la questione del trattamento dei provvedimenti del CSM, organo di rilevanza costituzionale e strumento di realizzazione del principio costituzionale di autonomia della magistratura ; ci sono molte idee condivisibili in campo (tra cui quella di un’Alta Corte), ma necessitano di scelte meditate e non affrettate e questo mi fa pensare che se ne parlerà molto più in là nel tempo.
Giuseppe Cascini Negli ultimi 10 anni, e con una media più o meno costante per ogni anno, solo il 6% delle delibere di nomina è stato annullato dal giudice amministrativo. Sul piano dei numeri, dunque, non si può dire che vi sia una effettiva criticità.
Di regola l’intervento del giudice amministrativo è giustificato da carenze motivazionali, che possono essere sintomo di errori di valutazione – che quindi impongono una revisione della decisione da parte del Consiglio – ovvero possono derivare dalla difficoltà di esporre compiutamente in sede di motivazione tutti gli aspetti rilevanti, o ritenuti tali dal giudice, sul piano comparativo, difficoltà che può essere fronteggiata con una nuova e più approfondita motivazione.
In alcuni casi, però, si deve registrare una certa espansione del giudice amministrativo nell’ambito delle valutazioni discrezionali di merito operate dall’organo consiliare, in ciò favorito, per quello che dicevo prima, dalla tecnica di formulazione del TU sulla dirigenza e anche, forse, da un certo clima generale sul Consiglio e sulle sue decisioni in materia.
In verità, tutte le sentenze ribadiscono sempre, in premessa, l’intangibilità della sfera di discrezionalità dell’organo consiliare, ma poi nei fatti traspare sempre più spesso una tendenza del giudice amministrativo a sovrapporre le proprie valutazioni discrezionali a quelle dell’organo consiliare.
Ad esempio nella valutazione comparativa tra esperienze direttive e semidirettive il giudice amministrativo tende ad affermare la quasi obbligatoria prevalenza delle prime sulle seconde, sulla base di un dato esclusivamente formale, che sembra rispondere ad una cultura della carriera improntata ad una visione gerarchica e verticistica, che secondo me non dovrebbe appartenere al modello ordinamentale della magistratura ordinaria.
Loredana Micciché Come detto, il numero delle nomine non incide sull’approfondimento della valutazione, ma certamente incide sulla qualità delle motivazioni delle delibere, che richiedono sempre più completezza e precisione. Va evidenziato infatti che, con la modifica del Testo Unico della Dirigenza nel 2015, al fine di rendere più certi i criteri per l’accesso agli incarichi direttivi, si sono introdotti plurimi “indicatori” dell’attitudine direttiva che hanno inevitabilmente ridotto la discrezionalità del CSM ed hanno quindi reso più vulnerabili le decisioni adottate. Il basso numero di annullamenti negli anni pregressi dipende non tanto da un “buon” esercizio della discrezionalità, ma dal fatto che le precedenti circolari consentivano uno spazio valutativo amplissimo. Va anche aggiunto che il giudice amministrativo è intervenuto nel tempo su questioni controverse – quali, ad esempio, la automatica prevalenza dell’incarico direttivo sull’incarico semidirettivo e il valore delle dimensioni degli uffici e i contenuti dell’incarico – determinando fisiologicamente la caducazione di alcune decisioni ma formando nel contempo principi giurisprudenziali che dovrebbero rendere più certi i criteri valutativi per il futuro. Sotto il profilo delle possibili soluzioni al problema, si potrebbero rendere ancora più stringenti gli indicatori specifici, prevedendo, ad esempio, che l’accesso ai direttivi di secondo grado implichi il necessario pregresso svolgimento delle funzioni di secondo grado o di legittimità, elemento al momento non previsto. Occorre però contemporaneamente aggiungere l’unico criterio di indiscutibile certezza, ossia l’introduzione della c.d. fascia di anzianità riferita almeno all’arco di due valutazioni di professionalità.