Profili della presunzione di innocenza e della modalità della comunicazione nel d.lgs. n. 188 del 2021*
di Luigi Salvato
1. Per il tempo a disposizione, mi limito ad alcune sintetiche considerazioni in ordine alla presunzione di innocenza con riguardo alle modalità della comunicazione alla luce del d.lgs. n. 188 del 2021[1].
La premessa dalla quale muovere è che non irragionevolmente l’interesse suscitato dal decreto potrebbe destare sorpresa. Molta strada è stata infatti percorsa da quando la considerazione della presunzione di innocenza come una sorta di «stravaganza» germogliata «dai principi della Rivoluzione francese»[2] è stata accantonata dalla Costituzione, sia pure con la formula «presunzione di non colpevolezza», frutto di un compromesso che lasciava irrisolti alcuni problemi teorici. La presunzione di innocenza è assurta infatti a regola saldamente radicata nella coscienza, anche perché espressamente codificata[3] e nel tempo riempita di contenuto da numerose sentenze, in particolare, tra le altre, della Corte EDU[4], che l’hanno riferita alle dichiarazioni di tutte le autorità pubbliche[5], da rendere sempre «con tutta la discrezione e tutto il riserbo imposti dal rispetto della presunzione di innocenza»[6], avendola altresì inclusa la Corte di giustizia nell’ambito dei diritti fondamentali tutelati dall’ordinamento comunitario[7]. Numerose, sono state le prescrizioni dettate da fonti “interne” ed “esterne”, di vario rango[8], con riguardo proprio al profilo della comunicazione, dettagliate al punto da indurre a ritenere che tutto fosse stato già detto.
Così non è stato; l’insufficienza di queste fonti è sotto i nostri occhi e giustifica il recente intervento normativo. Al riguardo, basta considerare, in primo luogo, le criticità evidenziate dalla Commissione europea il 31 marzo 2020[9]; in secondo luogo, che il fenomeno definito nel 1993 da Daniel Soulez Larivièr «circo mediatico giudiziario»[10], sommamente lesivo della presunzione di innocenza, è stato aggravato dallo sviluppo delle nuove tecnologie.
2. Per porre rimedio a tali criticità, le «misure appropriate» richieste dall’art. 4 della direttiva[11] si sono concentrate, con il d.lgs. n. 188, sul versante delle autorità pubbliche; in particolare, anche rafforzando quelle di natura disciplinare, l’unico profilo al quale accenno, per ragioni di tempo e perché l’immaginario collettivo rimandato dai media le attribuisce una sorta di risolutiva funzione salvifica.
L’intervento, sotto questo profilo, è tuttavia sembrato quasi subito poco incisivo[12], al punto che costituisce oggetto di discussione la proposta di prevedere quale illecito disciplinare la violazione di tutti gli obblighi del richiamato art. 5[13].
Non pochi sono i dubbi e le preoccupazioni sollevati sulla congruità della disciplina: di quella introdotta dal d.lgs. n. 188, per difetto; di quella in itinere, per eccesso.
Sui dubbi e sulle preoccupazioni ‘per difetto’ occorrerà riflettere tenendo conto che, anche in mancanza di un ampliamento del catalogo degli illeciti[14], la violazione della presunzione di innocenza nella ‘comunicazione’, nella declinazione datane dal decreto legislativo, può integrare non poche fattispecie. Esemplificativamente: può determinare uno «ingiusto danno» (rilevante ai sensi dell’art. 2, lettera a); può costituire condotta gravemente scorretta (ex art. 2, lettera d); può permettere un’interpretazione più rigorosa dell’ingiustificata interferenza (art. 2, lettera e); può dare luogo ad una grave violazione di legge, ai sensi dell’art. 2, lettera g) (in presenza, ovviamente, di tutti i noti elementi richiesti ai fini disciplinari); può integrare l’illecito dell’art. 2, lettera l)[15]; può essere riconducibile all’art. 2, lettera n)[16].
I dubbi e le preoccupazioni ‘per eccesso’ dovranno invece essere approfonditi alla luce della considerazione che la gran parte dei nuovi (proposti) illeciti, certo quelli più problematici, sono previsti da clausole generali, quali sono quelle che consentono la diffusione delle informazioni «solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico», ovvero di tenere una conferenza stampa soltanto in presenza di «specifiche ragioni di pubblico interesse». Si tratta di clausole compatibili con il principio di legalità come declinato dalla Corte costituzionale[17]. Le espressioni identificano infatti con certezza il precetto e fanno riferimento a concetti di comune esperienza ed a valori etico-sociali oggettivamente accertabili dall'interprete, anche perché, al fine di stabilire se la fattispecie sia stata integrata, occorre accertare che sia stato leso il bene giuridico specifico oggetto della fattispecie, che si pone accanto a quello generale della credibilità del magistrato e del prestigio dell’ordine giudiziario[18].
Bene specifico tutelato dalle fattispecie è il diritto alla presunzione di innocenza, che si affianca a quello all’immagine di indipendenza, imparzialità e serenità di giudizio del magistrato, nonché all’inesistenza di una «possibile percezione di disparità di trattamento tra accusa e difesa», sicuramente già tutelato dalle vigenti previsioni in tema di modalità della comunicazione[19]. Nondimeno, va ricordato che accanto a tale diritto si pone altresì il diritto all’informazione, «cardine di democrazia nell’ordinamento generale»[20], anche in considerazione del ruolo della stampa di «cane da guardia» della democrazia[21], assumendo la libertà di stampa «un’importanza peculiare, in ragione del suo ruolo essenziale nel funzionamento del sistema democratico, nel quale al diritto del giornalista di informare corrisponde un correlativo “diritto all’informazione” dei cittadini»[22], costituendo l’accesso alla pubblica opinione non una «opportunità», ma una «necessità politica»[23], correttamente e chiaramente considerata – è opportuno sottolinearlo – anche dal d.lgs. n. 188, tenendo conto che, come di recente ricordato dal Presidente della Repubblica, «è opportuna la trasparenza della decisione da assicurare attraverso un’adeguata comunicazione istituzionale», nell’osservanza del «principale dovere che deve assumere il magistrato: l’eticità dei suoi comportamenti, anche nelle diverse forme di comunicazione»[24]. La questione, non esistendo nell’ordinamento costituzionale alcun diritto tiranno, resta dunque quella della modalità dell’informazione e del bilanciamento dei valori in gioco, bilanciamento difficile, ma non impossibile, anche tenendo conto delle coordinate fissate, anche di recente, dalla Corte costituzionale[25].
3. Queste sintetiche considerazioni permettono di ridimensionare alcune preoccupazioni e di dare risposta ad alcuni dubbi, ma forse non eliminano le perplessità per l’enfatizzazione della pregnanza dell’intervento disciplinare, e ciò per almeno tre ordini di ragioni.
La prima è che tale enfatizzazione conforta la preoccupazione, di recente ricordata dal Procuratore generale della Corte di cassazione, Giovanni Salvi[26], per la «crescente tensione per un diritto punitivo etico», che ripropone dinamiche degenerative concernenti il diritto penale (giustamente criticate ed irragionevolmente esportate), giungendo ad invocare, non correttamente, il diritto disciplinare quale strumento di garanzia dell’etica e della professionalità delle condotte dei magistrati. Essa rischia, inoltre, di tramandare l’inesatto convincimento sull’esistenza di un inscindibile nesso tra etica, deontologia e responsabilità disciplinare che, confondendo i diversi livelli di riprovevolezza dei comportamenti, ne impedisce un efficace contrasto sui differenti piani dell’etica (individuale e sociale) e della responsabilità sociale e deontologica, prima ancora che disciplinare, civile e penale, postulando un’inesistente, perniciosa, relazione che finisce con l’ostacolare anche l’irrogazione di quelle sanzioni (in senso lato) non condizionate alla celebrazione di un processo. L’enfatizzazione alimenta una concezione della responsabilità disciplinare erronea, che ne oblitera l’esclusivo carattere di rimedio preordinato a sanzionare la violazione dei doveri funzionali del magistrato nei confronti dello Stato e ad irrogare una sanzione che incide esclusivamente sul rapporto di impiego, all’interno di un procedimento cui il cittadino resta estraneo. Non è dunque (non può essere) strumento di garanzia della esattezza delle decisioni dei diritti lesi da provvedimenti e/o condotte non corretti, i quali restano tutelati e tutelabili con rimedi diversi, autonomi e indipendenti, oggetto di altri, differenti, procedimenti che non sono influenzati (e/o condizionati) da quello disciplinare e, dunque, sul piano dell’immediata tutela del diritto leso la misura disciplinare può rivelarsi non appagante e finanche fuorviante.
La seconda delle richiamate ragioni è costituita dal rischio che l’enfatizzazione del profilo disciplinare possa far perdere di vista, ed impedire di considerare al giusto, le cause della complessità della questione. Queste ultime sono anzitutto di sistema, rinvenendo radice nell’avanzata dello stato costituzionale che, ha scritto Peter Häberle, ha posto all’ordine del giorno la questione del peso dei problemi di verità e del diritto dell’uomo alla verità, assurto a diritto fondamentale quando si riconosca che la verità è una forma di giustizia[27]. Lo stato costituzionale si caratterizza tuttavia «per la consapevolezza di non essere in possesso di precostituite verità eterne, ma di essere invece destinato ad una mera ricerca della verità»; unica regola assoluta è quella, di metodo, della sua ricerca attraverso la dialettica ed il confronto. Per tale imperativa regola, nello stato costituzionale deve ritenersi rafforzata la distinzione tra verità «storica», «giornalistica» e «giudiziaria»: ciascuna può non essere identica all’altra; si collocano su piani diversi che non sempre si intersecano; vanno ricercate attraverso le procedure previste ed è questo che ne certifica la validità. Verità giudiziaria è solo quella raggiunta nella rigorosa osservanza del giusto processo di legge. Il giurista è tenuto a «valorizzare l’”autonomia” del suo discorso di verità ed elaborarlo specificandone gli ambiti e le funzioni: alla libera stampa è consentito un rapporto con la verità diverso da quello che coinvolge il giudice»[28]. Restano quindi valide le considerazioni con cui non un giurista, ma un intellettuale e giornalista, ricordò anni addietro che gli era capitato di indossare «una toga e di fare una dozzina di processi televisivi. Ma io scherzavo», osservando efficacemente: «la storia sputa sentenze che appartengono a lei sola, e la giustizia non deve imitarla, rincorrerla, ricalcarla, mescolarla a sé. Ne va del Vero giuridico, quell’approssimazione al fatto “come è accaduto” che ha un senso soltanto se non è intuizione, giudizio o accertamento storico, soltanto se si fonda su garanzie liberali di cui uno storico non saprebbe come servirsi»[29]. Se non comprendiamo questo, «allora la base delle nostre libertà è non già incrinata o messa in mora ma letteralmente distrutta» ed è sicura la perdita di «quella secolare conquista della civiltà giuridica secondo cui solamente all’esito di un giusto processo» si può essere definiti colpevoli[30].
La terza delle accennate ragioni di complessità è costituita dalla novità dell’irrompere del mondo di Internet, nel quale la valutazione ed il verdetto sono diventati frutto della «smisurata giuria pubblica» dei social media, che giudica in tempo reale, pretende una risposta immediata attraverso plebisciti governati dalla sola logica dell’emotività, a prescindere (e contro) i principi del giusto processo di legge, visto «come un lungo e a tratti noioso percorso burocratico per arrivare a definire qualcosa che […] nella coscienza collettiva è già certo»[31], come invece non è, ed è necessario ribadirlo con forza, senza stancarsi. Tutto ciò senza peraltro che il popolo dei social media abbia consapevolezza del rischio, insito negli stessi, della «relativa facilità con cui le emozioni negative possono essere usate per creare dipendenza e manipolare [che] produce risultati aberranti», a causa di una «sfortunata combinazione di biologia e matematica»[32].
Un passato non troppo remoto ci ha consegnato luminosi esempi del corretto modo del magistrato e del professionista dell’informazione di porsi di fronte al processo, in una vicenda in cui tutte le questioni che costantemente si ripropongono erano particolarmente esaltate; a questi dobbiamo avere riguardo, da questi dobbiamo trarre i dovuti insegnamenti. Mi riferisco al celeberrimo reportage di Hannah Arendt relativo al processo ad Adolf Eichmann[33]. L’Autrice sintetizzò con rara efficacia la diversità dei compiti della politica, dei giudici e dell’informazione («Ben Gurion non si “curava” della sentenza che sarebbe stata pronunziata», ma «è innegabile che emettere una sentenza era l’unico compito del Tribunale di Gerusalemme»), gli imperativi che ai diversi attori si impongono, di non cadere preda dell’opinione pubblica (il Presidente della Corte non esitò ad usare nel corso del processo la sua lingua materna, il tedesco, dimostrando «la sua notevole indipendenza di spirito che gli aveva permesso di non curarsi dell’opinione pubblica israeliana») e di non sostituirsi al giudice, ma di descrivere il processo, analizzarne le contraddizioni e ricercare verità e significati diversi da quella giudiziaria (come ella fece, senza indietreggiare di fronte al fuoco di fila delle polemiche che la travolsero perché aveva inteso adempiere a questo suo unico compito), nel massimo rispetto della dignità di coloro che sono coinvolti dallo stesso.
4. Riflettere su queste complessità è imprescindibile per identificare le «misure appropriate» ai fini del ragionevole bilanciamento della presunzione di innocenza e del diritto all’informazione, per evitare che restino vane le molte (finanche troppe, visti i risultati) parole spese sulla modalità della comunicazione. La riflessione permette di apprezzare anzitutto la necessità di ripristinare, nel significato più profondo, il principio di competenza, relegato negli ultimi anni tra i vecchi, inutili arnesi, come non è e non può essere. Dobbiamo accantonare l’idea che tutti possano fare tutto. Ciò non è, non soltanto quando si tratta di pilotare un jet o di operare a cuore aperto, ma anche di informare professionalmente, ovvero di celebrare un processo. L’opinione pubblica di derivazione illuministica non deve essere confusa con lo «indistinto aggregato, prodotto dall’insieme di acritici e passivi utenti di televisione e di rete, pronti ad accettare per vera un’opinione per il solo fatto che viene ripetuta e diffusa»[34]. Occorre dirlo con forza, nella speranza che la concezione corretta diventi patrimonio della coscienza collettiva. E’ ovviamente indiscusso il diritto di ciascun cittadino di esprimere le proprie idee ed opinioni, beninteso nell’assoluto rispetto dei diritti degli altri. Ma l’informazione, in senso tecnico, spetta ai professionisti. Ed è necessario che questi, ma non solo loro, rivendichino il compito che, in virtù dei principi di competenza e professionalità, spetta soltanto ad essi, da perseguire tenendo conto che la stessa deve parlare del processo, ma non può sostituirlo. Celebrare il processo spetta invece esclusivamente ai magistrati ed agli avvocati, ai quali si impone di osservare tutte le regole che lo governano, dovendo altresì i primi avere quale stella polare l’alto ammonimento del Presidente della Repubblica che il magistrato «non deve mai farsi suggestionare dalla pressione che può derivare dal clamore mediatico […] poiché le sue decisioni non devono rispondere alla opinione corrente – né alle correnti di opinione – ma soltanto alla legge»[35] e deve altresì informare la condotta nella comunicazione alle regole che la disciplinano, tutte a ben vedere già scritte anche prima del d.lgs. n. 188. Ma è anche necessario che questi fondamentali principi divengano davvero patrimonio comune della coscienza collettiva e che, quindi, si radichi in ognuno il convincimento che la sola sottoposizione ad un procedimento penale non mina la presunzione di innocenza, che deve essere rispettata da tutti i cittadini, indistintamente.
5. Il ragionevole bilanciamento dei valori in gioco va ricercato operando anzitutto sul piano della professionalità, mediante la maturazione e l’elaborazione di modelli di comportamento condivisi. Con riguardo ai magistrati, in particolare del pubblico ministero, merita dunque condivisione il d.lgs. n. 188 nella parte in cui ha esteso l’attività di vigilanza dell’art. 6 del d.lgs. n. 106 del 2006 all’osservanza dei doveri di cui all’art. 5. L’art. 6 stabilisce infatti «un potere (non gerarchico) di informazione e di controllo sulle attività dei Procuratori della Repubblica svolto tramite i Procuratori generali dei singoli distretti di Corte d’appello […] funzionale a garantire il rispetto dei principi convenzionali e costituzionali del giusto processo» ed ora anche delle modalità della comunicazione[36]. Rileva dunque che attraverso la Procura generale della Cassazione possono essere individuate e diffuse buone prassi organizzative, all’interno di un sistema "a rete" e di un modello dialettico che realizza la c.d. nomofilachia delle prassi mediante un processo collegiale e condiviso, garanzia della crescita e del consolidamento di una professionalità comune e condivisa sempre più elevata, che assicura il ragionevole bilanciamento al quale ho accennato. Al riguardo, va ricordata la tempestività dell’azione di molte Procure della Repubblica, tradottasi in numerosi documenti di indirizzo dei criteri da osservare nella comunicazione[37] e l’avviato confronto degli stessi all’interno del circuito dell’art. 6, al fine di elaborare orientamenti condivisi.
L’obiettivo da perseguire, a ben vedere, con riguardo alla comunicazione del P.M., è stato peraltro già compiutamente e puntualmente fissato nella Relazione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022 dal Procuratore generale della Corte di cassazione ed è quello di garantire il rispetto «[del]l’autonomia delle scelte del Procuratore della Repubblica sulle modalità della comunicazione istituzionale», senza appesantire l’aspetto burocratico, tenendo conto che «la comunicazione delle attività dell’ufficio costituisce un dovere», da adempiere «nel rispetto dei principi indicati dal Legislatore e prima ancora, temporalmente, dal Consiglio superiore della magistratura e dal Consultative Council of European Prosecutors (CCPE), ma deve al contempo essere completa, tempestiva ed efficace». La sfida è, dunque, di cogliere al meglio le opportunità offerte dal d.lgs. n. 188, nella consapevolezza che l’obiettivo da conseguire è quello di realizzare il corretto bilanciamento della presunzione d’innocenza e del diritto all’informazione, che è nelle mani non soltanto dei magistrati e degli avvocati, ma anche dei professionisti dell’informazione, oltre che di tutti i cittadini.
* Il testo riproduce, con l’aggiunta delle note, l’intervento al convegno organizzato dalla Rivista Giustizia Insieme sul tema Processo mediatico e presunzione di innocenza, Roma, 1° aprile 2022.
[1] Oggetto di numerosi commenti, tra gli altri, negli interventi in questa rivista di F. Resta (Il “compiuto” adeguamento alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione d’innocenza), A. Spataro (Commento al Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 188) e V.A. Stella (Recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza: è davvero la fine dei processi mediatici?); G. De Marzo, Il d.leg. 8 novembre 2021, n. 188 e la presunzione di innocenza nel nostro ordinamento, in Foro it., 2022, V, 12; A. Malacarne, La presunzione di non colpevolezza nell’ambito del d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188: breve sguardo d’insieme, in Sistema penale, 17 gennaio 2022; F. Rotondo, Presunzione di innocenza, informazione giudiziaria e diritti fondamentali, in Freedom Security Justice, 2022, 1, 308.
[2] Contenuta nella Relazione al progetto preliminare del c.p.p. del 1930.
[3] Tra l’altro, nell’art. 11 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948; nell’art. 6 della Convenzione EDU; nell’art. 14 par. 2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, approvato dall’Assemblea delle Nazioni unite il 16 dicembre 1966; nell’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; nello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale; nelle conclusioni del X Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione e il trattamento dei trasgressori
[4] Almeno a partire dalle fondamentali sentenze 27 febbraio 1980, Deweer c. Belgio; 25 marzo 1983, Minelli c. Svizzera; per ulteriori riferimenti sulla giurisprudenza della Corte EDU, v. R. Chenal, Il rapporto tra processo penale e media nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Dir. pen. Cotemporaneo, 3, 2017; F. Rotondo, Presunzione di innocenza, cit., 308.
[5] Sentenza 28 ottobre 2004, Y.B. e altri c. Turchia.
[6] Sentenza 10 febbraio 1995, Allenet de Ribemont c. Francia, da osservare altresì nella motivazione della sentenza, sentenza 25 agosto 1987, Lutz c. Germania.
[7] Sentenza 8 luglio 1999, C-235/92, Montecatini S.p.A.
[8] In via meramente esemplificativa, per le prime, tra le altre, il d.lgs. n. 109 del 2006, da leggere in correlazione con l’art. 5 del d.lgs. 106/2006; l’art. 6 del codice etico dell’ANM; la circolare del CSM recante le Linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale; l’ art. 8 del TU dei doveri del giornalista; la delibera 13/2008 dell’Autorità Garante delle telecomunicazioni; per le seconde, ex plurimis, le Raccomandazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri: Rec(2000)19, Rec(2012)11, Rec(2003)13, Rec(2010)12, Rec(2011)7; i pareri del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) n. 7(2005) e “Magna Carta of Judges (Fundamental Principles” (2010), n. 14(2011); i pareri del Consiglio consultivo dei procuratori europei (CCPE): n. 8 (2013), n. 9(2014); al parere congiunto CCJE-CCPE, “Dichiarazione di Bordeaux” (2009); i molteplici rapporti dell’ENCJ (European Network of Councils for the Judiciary).
[9] Puntualmente richiamata nella relazione allo schema di decreto delegato poi emanato quale d.lgs. n. 188 del 2021.
[10] D. Soulez Larivier, Il circo mediatico giudiziario, Macerata, 1994.
[11] Direttiva 2016/343/UE del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali.
[12] In quanto il d.lgs. n. 188 del 2021 non ha introdotto nuove fattispecie disciplinari, sicchè appare restare tale esclusivamente la violazione dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. 106 del 2006 prevista dall’art. 2, lettera v), del d.lgs. n. 109 del 2006.
[13] Il riferimento è, in particolare, al maxiemendamento al disegno di legge A.C. 2681, oggetto delle considerazioni svolte nel parere reso dal CSM il 23 marzo 2022 su richiesta del Ministro della Giustizia, ai sensi dell'art. 10 della legge 24 marzo 1958, n. 195.
[14] Quale previsto dal d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, cui si fa riferimento nel testo.
[15] Nei casi in cui i commi 1 e 3-bis del novellato art. 5 del d.lgs. n. 106 del 2006 prescrivono l’obbligo della motivazione, non rilevando, per escluderlo, natura e la finalità del provvedimento, ma soltanto che si tratta di atto posto in essere nell’esercizio delle funzioni.
[16] Per la violazione delle specifiche direttive stabilite in apposito ‘ordine di servizio’ o nei criteri organizzativi, nella parte relativa alla modalità dell’informazione in esame.
[17] Sul punto, avendo riguardo esclusivamente alla materia degli illeciti disciplinari dei magistrati, è sufficiente richiamare la sentenza n. 100 del 1981 avente ad oggetto la clausola generale già contenuta nell’art. 18 della legge delle guarentigie.
[18] Al riguardo, è sufficiente rinviare al principio enunciato dalle Sezioni unite civili nella sentenza n. 31058 del 2019.
[19] Secondo la declinazione di recente offertane dalle Sezioni unite civili proprio con specifico riguardo al dovere di riserbo ed alle modalità della comunicazione, con accenti in parte nuovi, dalla sentenza n. 22373 del 2020.
[20] Corte cost., sentenza n. 206 del 2019.
[21] Corte EDU, sentenza 27 marzo 1996, Goodwin contro Regno Unito.
[22] Corte cost., sentenza n. 1 del 1981; v. anche le sentenze n. 84 del 1969, n. 126 del 1985, n. 112 del 1993, n. 105 del 2002.
[23] G. Giostra, Processo penale e mass media, in Criminalia, 2007, 68.
[24] Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con i magistrati ordinari in tirocinio nominati con D.M. 2 marzo 2021, Roma 30 marzo 2022.
[25] Con specifico riguardo alla relazione tra diritto di informare e reputazione della persona, sentenze n. 206 del 2019 e n. 150 del 2021.
[26] Il riferimento è al testo della Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022.
[27] P. Häberle, Diritto e verità, Torino, 2000.
[28] P. Häberle, op. cit., XIX.
[29] G. Ferrara, Introduzione, in Il circo mediatico giudiziario, cit., IX ed XI.
[30] P. Sammarco, Giustizia e social media, Bologna, 2019, edizione digitale, pos. 648.
[31] P. Sammarco, op. cit., pos. 711.
[32] J. Lanier, Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, Milano 2018, 26, la cui considerazione è particolarmente significativa, poiché è uno dei padri dell’A.I. che governa il mondo di Internet.
[33] H. Arendt, La banalità del male, edizione digitale, Milano, 2019.
[34] F. Ippolito, Recuperare la fiducia e non rincorrere il consenso, in Questione Giustizia, 2018, 4, 235.
[35] Intervento – il 5 aprile 2019 – del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di inaugurazione dei corsi di formazione della Scuola Superiore della Magistratura per l’anno 2019.
[36] Al riguardo, per apprezzare il contenuto dei compiti fissati dall’art. 6 ed il modello non gerarchico dallo stesso fissato è sufficiente rinviare alle indicazioni offerte dalla P.G.C. leggibili nel sito web dell’ufficio.
[37] Senza pretese di completezza, cfr. gli atti delle Procure di Bologna, Cuneo, Cremona, Perugia, Pesaro, Terni, Vicenza, leggibili nei siti web degli uffici.