ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Criteri ambientali minimi ed eterointegrazione della lex specialis di gara (nota a TAR Napoli, sez. I, 15 gennaio 2025, n. 427).
di Giuliano Taglianetti
Sommario: 1. Premessa: le questioni giuridiche affrontate dalla sentenza. - 2. Il quadro normativo e giurisprudenziale in cui si inserisce la pronuncia in commento. - 3. La decisione del TAR Napoli. - 4. Considerazioni critiche e possibili soluzioni interpretative.
1. Premessa: le questioni giuridiche affrontate dalla sentenza
Con la sentenza in commento, la prima sezione del TAR Napoli si è pronunciata su due questioni problematiche riguardanti l’attuazione della normativa in materia di criteri ambientali minimi (d’ora in avanti, c.a.m.).
La prima questione riguarda la sussistenza o meno di un onere di immediata impugnazione del bando di gara nell’ipotesi in cui quest’ultimo non contenga alcun riferimento alle specifiche tecniche, alle clausole contrattuali e ai criteri premiali contenuti nei decreti ministeriali recanti i c.a.m..
La seconda, più complessa e problematica, attiene alle conseguenze del mancato inserimento dei c.a.m. nella lex specialis.
2. Il quadro normativo e giurisprudenziale in cui si inserisce la pronuncia in commento
Prima di analizzare la sentenza in commento, è opportuno esaminare il quadro normativo e giurisprudenziale in cui essa si colloca.
L’art. 57, comma 2, d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36 (codice dei contratti pubblici) sancisce l’obbligo per le stazioni appaltanti e gli enti concedenti di inserire nella documentazione progettuale e di gara le specifiche tecniche e le clausole contrattuali contenute nei c.a.m., definiti per categorie di contratti con decreto del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica.
La definizione a livello ministeriale di determinati standard di sostenibilità ambientale ed energetica si pone l’ambizioso obiettivo programmatico di limitare l’uso delle risorse naturali e di sostituire le fonti energetiche non rinnovabili con fonti rinnovabili, nonché di ridurre la produzione di rifiuti, delle emissioni inquinanti e dei rischi ambientali, nell’interesse della collettività e delle generazioni future.
I c.a.m. consistono concretamente in indicazioni tecniche, di natura eminentemente ambientale, che le pubbliche amministrazioni devono prendere in considerazione nel momento in cui definiscono le specifiche della prestazione oggetto della gara, nonché ai fini della valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa[1].
Il processo di determinazione dei c.a.m. è stato avviato dalla legge 27 dicembre 2006 n. 296, con la quale è stata prevista l’adozione del Piano nazionale d’azione sul green public procurement (c.d. PAN GPP) da parte del(l’allora) Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (poi Ministero della transizione ecologica e, oggi, Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica).
Con decreto dell’11 aprile 2008, quest’ultimo Ministero, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze e con il Ministero dello sviluppo economico, ha approvato il PAN GPP, individuando i settori merceologici di intervento prioritario per la tutela dell’ambiente (arredi, materiali da costruzione, manutenzione delle strade, gestione del verde pubblico, illuminazione e riscaldamento, elettronica, tessile, cancelleria, ristorazione, materiali per l’igiene, trasporti) in relazione ai quali definire i c.a.m.[2].
Il legislatore ha gradualmente imposto l’applicazione dei c.a.m nelle procedure preordinate all’affidamento di contratti pubblici[3], con il duplice fine di ridurre gli impatti ambientali e di promuovere modelli di produzione e consumo più sostenibili, favorendo, in tal modo, l’occupazione “verde”[4].
Dapprima, è intervenuto l’art. 18 della legge 28 dicembre 2015, n. 221, che ha introdotto l’art. 68-bis nel d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (cd. “codice De Lise”), sancendo l’obbligo di inserire nei documenti di gara le specifiche tecniche e le clausole contrattuali previste nei c.a.m. di alcuni settori come l’illuminazione pubblica, le attrezzature elettriche ed elettroniche, i servizi energetici per gli edifici pubblici[5].
Il decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, come riformato ad opera del primo correttivo di cui al d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56[6], aveva stabilito espressamente che tale obbligo si applicasse agli affidamenti di qualunque importo, relativamente alle categorie di forniture e di affidamenti di servizi e lavori oggetto dei c.a.m. adottati in attuazione del vigente Piano d’azione.
Infine, la disciplina dei c.a.m. ha trovato conferma nel codice vigente (d.lgs. n. 36/2023), che impone alla pubblica amministrazione l’obbligo di inserimento nella documentazione progettuale e di gara «almeno delle specifiche tecniche e delle clausole contrattuali contenute nei criteri ambientali minimi adottati con decreto del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica» (art. 57, comma 2).
La citata disposizione è applicabile a tutti i contratti pubblici, riferendosi esplicitamente sia alle stazioni appaltanti sia agli enti concedenti, a prescindere dal loro valore[7].
La stessa norma prevede che le amministrazioni aggiudicatrici «valorizzino economicamente le procedure di affidamento di appalti e concessioni conformi ai c.a.m.»: in altre parole, si impone alla pubblica amministrazione l’obbligo di considerare i fattori ecologici e ambientali nella valutazione delle offerte, modulando discrezionalmente il peso da attribuire a ciascuno di essi in base ai principi di adeguatezza e proporzionalità.
L’attuazione della normativa in materia di c.a.m. ha posto rilevanti problematiche, soprattutto di carattere processuale, ed è stata oggetto di un ampio dibattito in giurisprudenza, che ha tentato di far luce su alcuni aspetti controversi.
Una prima questione riguarda l’ammissibilità o meno dell’immediata impugnazione della lex specialis volta a contestare l’omesso inserimento nella medesima delle specifiche tecniche e delle clausole contrattuali contenute nei c.a.m.
Secondo un primo orientamento - più recente e, ad oggi, minoritario - il bando di gara privo di riferimenti ai c.a.m. impedirebbe la formulazione di “offerte consapevoli” da parte dei concorrenti e, pertanto, deve essere impugnato in via diretta ed immediata.
I sostenitori di questa tesi ritengono che, se la violazione dei principi in materia ambientale risulti già immediatamente evidente e percepibile al momento dell’indizione della gara, posporre l’impugnazione della lex specialis al momento dell’aggiudicazione si porrebbe in contrasto con i doveri di leale collaborazione, correttezza e buona fede (che governano sia i rapporti sostanziali sia quelli processuali)[8], nonché con i principi di economicità dell’azione amministrativa e di legittimo affidamento[9].
Tale indirizzo interpretativo sembra ricondurre l’omesso inserimento dei c.a.m. nella lex specialis alle fattispecie di «gravi carenze nell’indicazione di dati essenziali per la formulazione dell’offerta» ovvero ai casi eccezionali di clausole impositive di «obblighi contra ius» [10].
Secondo un diverso (e prevalente) indirizzo interpretativo la mancata previsione dell’obbligatorietà dei c.a.m. da parte del bando, non impedendo la partecipazione alla gara e la presentazione dell’offerta, non comporta l’onere di immediata impugnazione del bando stesso[11].
Seguendo quest’ultimo orientamento un ricorso diretto ad impugnare direttamente il bando per omesso inserimento dei c.a.m. sarebbe inammissibile per carenza di interesse ad agire.
Siffatta interpretazione risulta convincente, poiché i requisiti dell’attualità e della concretezza rappresentano parti integranti e ineliminabili dell’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.)[12], da ritenersi sussistenti soltanto a fronte di clausole del bando escludenti o impeditive della presentazione di offerte: clausole che la giurisprudenza qualifica come tali quando limitano o rendono estremamente difficoltosa la partecipazione alla gara[13].
In effetti, anche in presenza di un bando incompleto, non è possibile escludere a priori che una delle imprese partecipanti possa comunque presentare un’offerta conforme ai c.a.m., riuscendo così ad aggiudicarsi la gara.
D’altronde, la mancata previsione dell’obbligo di presentare offerte conformi ai c.a.m. - lungi dall’impedire o rendere estremamente difficoltosa la presentazione delle offerte - potrebbe addirittura essere considerato vantaggioso dalle imprese sotto il profilo tecnico ed economico, favorendo quindi una maggiore partecipazione alla gara[14].
Di maggiore complessità e rilevanza è il dibattito in merito alle conseguenze del mancato inserimento dei c.a.m. nella legge di gara, poiché riguarda il delicato equilibrio tra la tutela della concorrenza e il perseguimento di obiettivi ambientali.
Secondo un primo orientamento, invalso prevalentemente nella giurisprudenza di primo grado, l’obbligo di rispettare i criteri minimi ambientali deriva direttamente dall’articolo 57 del d.lgs. 36/2023, che costituisce norma imperativa e cogente, e dai decreti ministeriali in essa richiamati, i quali operano indipendentemente da una loro espressa e puntuale previsione negli atti di gara (cd. tesi della eterointegrazione normativa[15]).
Di conseguenza, l’omesso inserimento dei c.a.m. nella legge di gara non implica, di per sé, l’illegittimità della stessa[16].
A supporto di ciò è stato anche invocato il principio del risultato, che porrebbe l’accento «sull’esigenza di privilegiare l’effettivo e tempestivo conseguimento degli obiettivi dell’azione pubblica, prendendo in considerazione i fattori sostanziali dell’attività amministrativa, escludendo che la stessa sia vanificata, in tutti quei casi in cui non si rinvengano obiettive ragioni che ostino al suo espletamento»[17].
Da tale impostazione deriva che «anche in assenza di un’esplicita previsione nella lex specialis», da un lato, le imprese sono obbligate «ex lege ad offrire prodotti rispondenti ai c.a.m.»,[18] e, dall’altro, le amministrazioni aggiudicatrici sono tenute a verificare la rispondenza delle offerte tecniche presentate alle prescrizioni previste nei decreti ministeriali applicabili in base all’oggetto della gara.
In base a questa lettura, non è irragionevole pretendere che un operatore economico sia a conoscenza dell’esistenza e del contenuto dei c.a.m. (in ossequio al principio ignorantia legis non excusat) e che, pertanto, adegui la propria offerta ai citati criteri, in conformità al canone dell’ordinaria diligenza ex art 1176 c.c.[19]
Di conseguenza, la presentazione di offerte non conformi ai decreti ministeriali e ai relativi allegati che stabiliscono i c.a.m. giustifica l’esclusione del concorrente, anche se il rispetto degli stessi non è stato espressamente previsto nella lex specialis della gara[20].
Ciò è possibile in forza del generale meccanismo di cui agli artt. 1339 e 1374 c.c.[21].
Un’ulteriore e importante inferenza logica di tale impostazione è che l’impresa ricorrente, qualora sia in grado di dimostrare che la propria offerta sia stata comunque formulata in modo da rispettare i c.a.m., nonostante il loro omesso richiamo nel bando, potrebbe ottenere in via giurisdizionale, oltre all’annullamento dell’aggiudicazione definitiva, anche l’aggiudicazione del contratto in sostituzione della impresa aggiudicataria, ex art. 122 c.p.a.
In sintesi, accedendo a questa prima impostazione ermeneutica, l’impresa partecipante è obbligata ex lege ad offrire prodotti rispondenti ai c.a.m., anche in assenza di esplicita previsione nella lex specialis, e, in caso di mancata aggiudicazione, potrebbe agire in giudizio contestando la mancata esclusione delle offerte difformi dagli stessi c.a.m. allo scopo di conseguire la commessa, soddisfacendo così direttamente il suo interesse finale (vale a dire la stipula del contratto e l’esecuzione dello stesso).
Secondo una diversa tesi, che potremmo definire “della necessaria caducazione della procedura di gara”, l’inevitabile conseguenza del mancato inserimento dei c.a.m. nella lex specialis «è la caducazione dell’intera gara e l’integrale riedizione della stessa, emendata dal vizio in questione»[22].
Quest’ultimo orientamento intercetta le fondamentali esigenze di trasparenza dell’azione amministrativa e, quindi, di stabilità e certezza del rapporto negoziale tra la pubblica amministrazione e l’impresa aggiudicataria, oltre che di tutela del legittimo affidamento dei concorrenti nell’esercizio legittimo del potere [23].
In base a questo indirizzo interpretativo la puntuale declinazione dei c.a.m. nella lex specialis consente alle imprese partecipanti di formulare un’offerta più consapevole e più aderente alle esigenze ambientali, a vantaggio anche dell’interesse generale della collettività; essa, inoltre, favorisce una più chiara definizione dei reciproci diritti ed obblighi contrattuali, assicurando, in un’ottica di risultato, una maggiore efficacia nell’attuazione delle politiche ambientali[24].
Per inciso, è interessante osservare come il principio del risultato sia stato richiamato a supporto sia della tesi della eterointegrazione normativa (TAR Napoli, n. 377/2024 cit., secondo cui la rinnovazione della gara per l’omesso inserimento dei c.a.m. nel bando comprometterebbe l’effettivo e tempestivo conseguimento degli obiettivi dell’azione pubblica) sia della tesi della necessaria caducazione del bando di gara (Cons. Stato, n. 4701/2024 cit., secondo cui la rinnovazione della gara e la puntuale declinazione dei c.a.m. nella lex specialis comporterebbero la presentazione di offerte più adeguate al conseguimento degli obiettivi ambientali).
Il che avvalora l’idea in base alla quale il principio del risultato non è un criterio interpretativo univoco e decisivo, bensì incerto e sussidiario, prestandosi a interpretazioni differenti e, talvolta, finanche contrapposte[25].
3. La decisione del TAR Napoli.
Nel contesto così delineato si inscrive la pronuncia in commento.
In sintesi, la fattispecie sottoposta al collegio riguarda una procedura di gara indetta dall’Azienda Ospedaliera di Rilevo Nazionale (AORN) dei Colli di Napoli, preordinata all’affidamento del servizio di conduzione e manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti tecnologici a servizio delle proprie strutture.
All’esito della gara una delle imprese partecipanti impugnava la lex specialis, unitamente all’aggiudicazione definitiva[26] e a tutti gli atti di gara, contestando il mancato inserimento dei c.a.m. applicabili all’oggetto dell’affidamento.
L’amministrazione resistente e l’impresa aggiudicataria hanno eccepito, tramite le rispettive memorie, la tardività del ricorso per mancata impugnazione del bando nel termine decadenziale di trenta giorni decorrenti dalla sua pubblicazione, nonché l’infondatezza nel merito del ricorso stesso.
Nell’esaminare l’eccezione di tardività, il TAR partenopeo si è limitato a richiamare la giurisprudenza del Consiglio di Stato (in particolare, la sentenza n. 2795/2023 cit.), secondo cui l’omesso recepimento dei c.a.m. nella legge di gara non integra un vizio tale da imporre l’immediata impugnazione del bando, non essendo preclusivo della partecipazione e non precludendo la formulazione delle offerte.
Su questo punto la decisione appare condivisibile, alla luce delle argomentazioni giuridiche già sviluppate supra, al precedente § 2.
Vale la pena aggiungere che, nel caso in esame, la società ricorrente aveva partecipato alla gara e presentato un’offerta conforme ai c.a.m. di riferimento, come sottolineato più volte dal TAR Napoli.
Ciò dimostra concretamente che l’assenza di tali c.a.m. nella lex specialis non aveva ostacolato la partecipazione delle imprese alla gara né la formulazione di un’offerta “consapevole”.
Dunque, il collegio è passato ad esaminare «il principale motivo di ricorso», riguardante le conseguenze del mancato inserimento dei criteri ambientali minimi nella lex specialis.
Si è ritenuto, al riguardo, che il bando di gara, sebbene privo della concreta declinazione dei criteri ambientali minimi, non fosse illegittimo.
Sul punto, la sentenza in commento si è consapevolmente discostata dal consolidato orientamento del Consiglio di Stato in base al quale il mancato inserimento dei c.a.m. negli atti di gara postula necessariamente la caducazione della gara stessa.
Il giudici della I sezione hanno motivato il rigetto del ricorso facendo riferimento alla peculiarità della fattispecie concreta, consistente nella circostanza che la ricorrente avesse comunque formulato un’offerta conforme ai c.a.m. di riferimento, nonostante il loro omesso richiamo nel bando[27].
Il che dimostrerebbe, secondo il ragionamento posto a base della decisione, che la denunciata incompletezza del bando non ha avuto «incidenza sostanziale e lesiva»; di conseguenza - prosegue il Collegio - lo stesso non può essere considerato illegittimo, anche in virtù del principio della fiducia, il quale «pone una presunzione di legittimità dell’azione amministrativa, superabile con fondati elementi di segno opposto, da cui trarre in maniera adeguata il convincimento dell’opacità dell’operato della p.a., tale da aver precluso al privato di poter compiutamente svolgere la propria attività».
Il giudice campano ha, quindi, invocato il principio della fiducia come criterio interpretativo della lex specialis, pur essendo quest’ultima regolata, ratione temporis, dal codice del 2016.
Ha così interpretato tale principio come «una versione evoluta del principio di presunzione di legittimità dell’azione amministrativa».
A ben vedere, la pronuncia in esame, in continuità con la citata sentenza n. 377 del 2024 della medesima sezione, ha sposato la tesi dell’eterointegrazione normativa, seguendo un iter argomentativo basato non più sul principio del risultato, ma su quello della fiducia.
Siamo, dunque, di fronte all’elaborazione di una soluzione organica e meditata, dalla quale emergono molti spunti interessanti, ma anche diversi dubbi e aspetti critici.
4. Considerazioni critiche e possibili soluzioni interpretative
Le maggiori perplessità si addensano sull’iter logico seguito dal TAR Napoli per risolvere la problematica concernente le conseguenze del mancato inserimento dei c.a.m. nella lex specialis.
Il Collegio afferma la necessità di esaminare «compiutamente la fattispecie sottoposta al suo esame, senza automatismi, avendo riguardo agli elementi del caso concreto e compiendo, ove necessario, una rinnovata valutazione» (pt. 3.4.)
Tale metodo di indagine è astrattamente condivisibile.
Invero, a parere di chi scrive, la caducazione della gara e la rinnovazione della stessa non rappresentano sempre la soluzione più adeguata per la tutela del ricorrente e dell’interesse ambientale coinvolto nella procedura di evidenza pubblica: a fronte dell’omesso inserimento dei c.a.m. nella legge di gara, la decisione di caducare o meno l’intera procedura concorsuale non può prescindere da una concreta analisi delle offerte presentate.
Tuttavia, ed è questo l’aspetto che desta maggiori perplessità, l’analisi dei giudici si è concentrata esclusivamente sull’offerta della società ricorrente, senza considerare quella dell’impresa aggiudicataria.
È, invece, attraverso l’analisi dell’offerta presentata dall’aggiudicataria che si può verificare se la denunciata incompletezza del bando abbia avuto o meno un’«incidenza sostanziale e lesiva».
La criticità della sentenza riguarda, quindi, l’ordine logico e metodologico nell’analisi delle offerte presentate in sede di gara: esaminando l’offerta della società ricorrente, il giudice ha compiuto una valutazione che, logicamente, sarebbe dovuta avvenire in via eventuale, solo dopo aver verificato la rispondenza ai c.a.m. dell’offerta della società controinteressata.
Invero, ad avviso di chi scrive, in simili controversie - in cui il ricorrente contesta il mancato inserimento dei c.a.m. nel bando di gara, impugnando il bando stesso, unitamente all’aggiudicazione definitiva e a tutti gli atti della procedura - il giudice amministrativo dovrebbe innanzitutto analizzare, dandone conto in motivazione, l’offerta presentata dall’impresa aggiudicataria, verificando se tale offerta sia o meno conforme ai c.a.m. di riferimento.
Si aprono, in tal modo, tre possibili scenari.
1. Qualora né l’impresa aggiudicataria né l’impresa ricorrente abbiano presentato offerte conformi ai c.a.m. l’annullamento del bando e dell’intera procedura di gara appare l’unica strada percorribile.
In tale ipotesi la normativa in tema di c.a.m. viene violata sia sotto il profilo formale (il bando di gara non contiene le specifiche tecniche e le clausole contrattuali recate dai decreti ministeriali, come prescritto oggi dall’art. 57, comma 2, d.lgs. n. 36/2023), sia sotto il profilo sostanziale (le offerte presentate dall’impresa aggiudicataria e dalla ricorrente non sono conformi ai c.a.m.); sicché l’annullamento del bando (e, “a cascata”, dell’intera procedura di gara[28]) appare un esito inevitabile.
In tale fattispecie, per un verso, non si può procedere - com’è ovvio - all’aggiudicazione della gara in capo al ricorrente, residuando in capo a quest’ultimo soltanto l’interesse strumentale alla riedizione della gara; per altro verso, appare incongruo rigettare il ricorso limitandosi ad un mero richiamo della teoria della eterointegrazione, poiché, nell’ipotesi data, anche l’offerta presentata dall’impresa aggiudicataria non è conforme ai c.a.m.
2. Qualora, invece, emerga in giudizio il mancato rispetto dei c.a.m. da parte dell’impresa aggiudicataria e, al contempo, la conformità dell’offerta del ricorrente agli stessi c.a.m. il giudice dovrebbe accogliere il ricorso stabilendo se dichiarare o meno l’inefficacia del contratto eventualmente stipulato, ex art. 122 c.p.a. (ciò, naturalmente, a condizione che il ricorrente abbia presentato una idonea domanda in tal senso).
Nell’ipotesi testé prospettata, imporre a tutti i costi la rinnovazione della gara (anche in presenza di un’offerta conforme allo schema normativo di riferimento) avrebbe conseguenze inaccettabili, ponendosi in conflitto con il principio di buon andamento (e tempestività) dell’azione amministrativa, nonché con le esigenze di economia processuale (dato che la rinnovazione, anche solo parziale, della gara comporta il rischio di nuovo contenzioso), oltre che con il principio del risultato.
Quest’ultimo, infatti, può considerarsi realizzato se il contratto pubblico venga affidato direttamente (senza, cioè, la ripetizione della gara) all’impresa ricorrente che abbia ritualmente impugnato l’aggiudicazione definitiva dimostrando in giudizio (tramite schede tecniche e/o altra documentazione) di avere diligentemente formulato un’offerta conforme allo schema normativo di riferimento nonostante l’omesso inserimento dei c.a.m. nella lex specialis: il risultato avuto di mira dall’art. 57 del d.lgs. n. 36/2023 è rappresentato non già dall’inserimento formale nel bando delle clausole e delle specifiche tecniche previste nei decreti ministeriali, bensì dalla concreta attuazione delle politiche ambientali alle quali risulta funzionale la sostanziale conformità dell’offerta presentata dall’impresa aggiudicataria ai criteri ambientali minimi.
A questo proposito, lo stesso Consiglio di Stato ritiene, in linea di principio, ammissibile e giustificabile l’operatività della integrazione legale del bando laddove «il rispetto della norma eterointegrante sia indispensabile al fine di garantire il raggiungimento del risultato di interesse pubblico cui è preordinato lo svolgimento della gara»[29].
Di converso, l’adesione incondizionata alla tesi della rinnovazione (parziale o totale) della procedura di gara rischierebbe seriamente di vanificare il perseguimento degli obiettivi di sostenibilità: la caducazione e la rinnovazione della procedura illegittima, pur comportando il ripristino della legalità violata, si rivelerebbero non pienamente satisfattive per il ricorrente e per l’interesse pubblico perseguito in concreto dall’amministrazione, oltre a contraddire la concezione soggettiva della giurisdizione amministrativa[30].
3. Resta infine da esaminare l’ulteriore ipotesi in cui emerga in giudizio la conformità ai c.a.m. dell’offerta presentata dall’impresa aggiudicataria.
In tale ipotesi la contestazione del bando di gara risulterebbe inammissibile per difetto di interesse ad agire, a prescindere dal contenuto dell’offerta presentata dal ricorrente.
In una simile circostanza sarebbe manifestamente iniquo annullare l’intera procedura di gara facendo ricadere sull’operatore economico diligente (l’impresa vincitrice della gara) un errore (vale a dire l’omesso inserimento dei c.a.m. nel bando di gara) commesso in primo luogo dalla stessa amministrazione.
Nelle ultime due fattispecie prospettate (in cui si ipotizza la presentazione in sede di gara di offerte conformi ai c.a.m.), l’applicazione di meccanismi di integrazione legale consente di conciliare gli obiettivi di sostenibilità ambientale con la tutela della concorrenza, comportando l’aggiudicazione del contratto in favore dell’impresa che abbia diligentemente formulato un’offerta conforme ai c.a.m. nonostante l’omesso inserimento di questi ultimi nella lex specialis.
Dunque, la tesi della rinnovazione e la tesi della etereointegrazione del bando di gara non sono necessariamente contrapposte.
L’adesione all’una o all’altra non dovrebbe dipendere da scelte aprioristiche, bensì da un’analisi minuziosa della legge di gara e delle offerte presentate dai concorrenti, oltre che dalle domande formulate dalle parti in giudizio.
La sentenza in commento, pur non risultando del tutto condivisibile per la sequenza logico-giuridica dell’analisi, riveste comunque una certa importanza, in quanto pone in luce la necessità di affrontare le problematiche legate al mancato inserimento dei c.a.m. nel bando di gara mediante un approccio analitico e privo di automatismi, valutando “caso per caso” le offerte presentate durante la gara.
[1]A titolo di esempio, si può menzionare il d.m. MASE del 7 febbraio 2023, che definisce i c.a.m. nel settore tessile. Esso prevede che le amministrazioni acquistino prodotti tessili con determinate specifiche tecniche (tessuto riciclabile o costituito da fibre naturali; assenza di sostanze pericolose; tessuti lavabili a basse temperature; indumenti riutilizzabili; tessuti con elevata resistenza ai lavaggi e all’usura ecc.) e che inseriscano nei bandi taluni sub-criteri premianti di natura ambientale (tessuti biologici; servizi post-vendita di riparazione, riciclo e riuso; utilizzo di fibre tessili riciclate; filiera produttiva responsabile ecc.). Il d.m. in parola indica anche le modalità per la verifica delle caratteristiche tecniche dichiarate dagli operatori economici nell’offerta, come il possesso di una eco-etichetta (ad. esempio, il marchio Ecolabel), la presenza di rapporti di prova o auto-dichiarazioni del produttore).
[2] Il PAN GPP è stato da ultimo aggiornato il 3 agosto 2023, con decreto del MASE, di concerto con il Ministro delle Imprese e del Made in Italy e con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, alla luce dei più recenti atti di indirizzo europei e delle intervenute novità giuridiche.
[3] Per un’analisi approfondita del percorso di funzionalizzazione dei contratti pubblici all’obiettivo dello sviluppo sostenibile, anche attraverso il «sistema dei criteri ambientali minimi», v., ex multis, e. Caruso, La funzione sociale dei contratti pubblici. Oltre il primato della concorrenza?, Napoli, 2021; spec. p. 234 ss.
[4] Sul punto v. Cons. Stato, sez. V, 5 agosto 2022, n. 6934, secondo cui i criteri ambientali minimi contribuiscono a «connotare l’evoluzione del contratto d’appalto pubblico da mero strumento di acquisizione di beni e servizi a strumento di politica economica».
[5] Per completezza espositiva, è opportuno ricordare che, prima ancora, lo stesso d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 prevedeva, al primo comma del previgente art. 68, che, ove possibile, dovessero essere tenuti in considerazione gli aspetti di tutela ambientale nell’individuazione delle specifiche tecniche.
[6] Si veda T. Cellura, L’applicazione dei criteri ambientali minimi negli appalti pubblici. Gli acquisti verdi dopo il correttivo al nuovo codice degli appalti (d.lgs. n. 56/2017), Rimini, 2018.
[7] V’è da notare che l’art. 57, comma 2, d.lgs. 36/2023 non riporta il terzo comma del previgente art. 34, in forza del quale l’obbligo di contribuire al conseguimento degli obiettivi ambientali previsti dal PAN GPP vigeva per gli affidamenti di qualunque importo, introducendo in tal modo un elemento di incertezza. Tuttavia, è ragionevole ritenere che la normativa in tema di c.a.m. si applichi anche ai contratti di importo inferiore alla soglia europea: a sostegno di tale interpretazione si pongono sia la collocazione dell’art. 57 nella Parte II del Libro II – dedicata agli istituti e alle clausole comuni degli appalti – sia la previsione di cui all’art. 48, comma 3, in base al quale «ai contratti di importo inferiore alle soglie di rilevanza europea si applicano, se non derogate […], le disposizioni del codice».
[8] Sul punto, v., in particolare, M.G. Pulvirenti, Considerazioni sui principi di collaborazione e buona fede nei rapporti tra cittadino e pubblica, in Dir. econ., 2023, p. 130: «anche nel processo amministrativo le parti devono agire secondo buona fede. È questo il senso innanzitutto del richiamo ai doveri di lealtà e probità nel codice di procedura civile (art. 88, comma 1 c.p.c.) … Si tratta di una norma evidentemente applicabile al processo amministrativo per via del rinvio alle norme “compatibili” e alle disposizioni “espressione di principi generali” del codice di rito civile (art. 39, comma 2 c.p.a.)».
[9] Questo orientamento è stato espresso, da ultimo, da TAR Lazio, Roma, sez II-ter, 4 dicembre 2024, n. 21878, secondo cui «posporre l’impugnazione della lex specialis fino al momento dell’aggiudicazione non solo non risulta coerente, ma si pone anche in contrasto con il dovere di leale collaborazione e con i principi di economicità dell’azione amministrativa e di legittimo affidamento». In termini, cfr. TAR Lazio, Roma, sez II-ter, 6 marzo 2024, nn. 4493, 4494 e 4495; TAR Puglia, Bari, Sez. II, 28 maggio 2024, n. 675; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 2 dicembre 2024, n. 6698.
[10] Così TAR Lazio, Roma, n. 21878/2024 cit., richiamando TAR Campania, Napoli, sez. IV, 4 maggio 2023, n. 2729.
[11] V., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 3 febbraio 2021, n. 972, secondo cui la violazione dei previgenti artt. 34 e 71 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, in tema di c.a.m., non impone l’immediata impugnazione del bando di gara, non ricadendosi nei casi eccezionali di clausole escludenti o impeditive che consentono l’immediata impugnazione della lex specialis di gara. Più in particolare, secondo il ragionamento della V sezione, la partecipazione alla gara in un’ipotesi del genere non può considerarsi acquiescenza alle regole di gara; non può cioè essere qualificata come un venire contra factum proprium. In termini analoghi, Cons. Stato, sez. III, 2 novembre 2023, n. 9398; 20 marzo 2023, n. 2795; 30 dicembre 2024, secondo cui il mancato inserimento dei c.a.m. nella lex specialis non incide sulla formulazione dell’offerta, né in termini di impossibilità assoluta né in termini di condizionamento relativo.
[12]D’altronde, quando il legislatore ha inteso introdurre nel settore dei contratti pubblici una specifica ipotesi di onere di immediata impugnazione, a prescindere dalla sussistenza di un interesse ad agire attuale e concreto, ha avvertito la necessità di farlo tramite un’espressa previsione normativa: il riferimento è al previgente art. 120, comma 2-bis, c.p.a., su cui sia consentito rinviare a G. Taglianetti, La disciplina dei termini per ricorrere nel rito speciale in materia di contratti pubblici tra certezza e giustizia: considerazioni a margine dell’ordinanza della Corte di giustizia UE, 14 febbraio 2019, C-54/18, in Riv. giur. ed., n. 3/2019, p. 485 ss.
[13] Per un’elencazione delle fattispecie rientranti nel genus delle clausole immediatamente escludenti, v. Ad. Plen., 26 aprile 2018, n. 4, in Foro it. 2019, III, p. 67; per un commento alla sentenza: S. Terracciano, Immediata impugnazione dei bandi di gara: tra novità legislative e conferme giurisprudenziali, in Dir. proc. amm., 2018, p. 1438 ss.; L. Bertonazzi, Notarelle originali in tema di impugnazione dei bandi, ivi, 2019, p. 959 ss.
[14] Si consideri la possibile differenza di costi che potrebbe emergere per i partecipanti qualora fossero obbligati a utilizzare prodotti e modalità di lavorazione imposti dai c.a.m., rispetto al caso in cui, invece, fossero liberi di scegliere tra materiali e pratiche esecutive alternativi. Tale differenza potrebbe influire in modo significativo sulla competitività economica delle offerte: l’obbligo di aderire ai c.a.m. potrebbe comportare un incremento dei costi, mentre la libertà di scelta consentirebbe una maggiore flessibilità, con il conseguente vantaggio di poter ridurre le spese di partecipazione.
[15] Per una generale ricostruzione dei presupposti del ricorso all’eterointegrazione della legge di gara, v. Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3811, in Foro amm. CdS, 2013, p. 2062, ove si chiarisce che il meccanismo della eterointegrazione può operare soltanto in caso di lacune della legge di gara e non in caso di ambiguità interpretative del bando. Di talché, «solo nel caso in cui la stazione appaltante ometta di inserire nella disciplina di gara elementi previsti come obbligatori dall’ordinamento giuridico, soccorre il meccanismo di integrazione automatica in base alla normativa in materia, analogamente a quanto avviene nel diritto civile ai sensi degli artt. 1374 e 1339 c.c., colmandosi in via suppletiva le eventuali lacune del provvedimento adottato dalla pubblica amministrazione»; viceversa, prosegue la quinta sezione, «quando la legge di gara contiene disposizioni contrastanti con quanto normativamente previsto, non può disporsi l’esclusione dalla gara del concorrente che non abbia allegato quanto espressamente previsto dalla legge, dovendo tenersi conto che solo fondamentali esigenze di certezza del diritto e tutela della par condicio dei concorrenti possono impedire all’amministrazione di disattendere i precetti fissati nella normativa di gara dalla stessa formulata, in ossequio al principio di affidamento formalmente elevato al rango di principio generale dell’azione amministrativa dall’art. 1 comma 1, l. 7 agosto 1990 n. 241, che impedisce che sul cittadino possano ricadere gli errori dell’amministrazione». La dottrina ha da sempre manifestato forti perplessità in ordine alle ipotesi di inserzione automatica di clausole, nella misura in cui mettono a repentaglio le esigenze di certezza e conoscibilità delle condizioni di partecipazione, nonché l’affidamento dei partecipanti sulla loro completezza ed esaustività: per un approfondimento, cfr. E. Boscolo, Il divieto di eterointegrazione del bando: certezza e stabilità della lex specialis, in Giur. it., 1, 2018, p. 173 ss.; G. Crepaldi, Norme imperative di legge e principio di eterointegrazione del bando di gara, in Foro amm. CdS, 2007, p. 568 ss.
[16] In questo senso, cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I, 26 novembre 2024, n. 21224, secondo cui, in base all’attuale normativa, il bando di gara «deve reputarsi automaticamente eterointegrato dai menzionati criteri ambientali».
[17] TAR Napoli, sez. I, 15 gennaio 2024, n. 377, secondo cui ai fini dell’operatività dei c.a.m. è sufficiente un loro mero richiamo nella lex specialis: «l’onere di diligenza impone al concorrente di adeguare la propria offerta ai criteri ambientali minimi che la stazione appaltante non ha trascurato, e che l’operatore economico è così messo in grado di conoscere e valutare, per formulare un’offerta consapevole». In un simile contesto, proseguono i giudici partenopei, «apparirebbe ultroneo pretendere da parte della stazione appaltante la declinazione dei criteri ambientali minimi contenuti nella relativa normativa di legge, che si sostanzierebbe nell’obbligo meramente formale di riproduzione del suo contenuto, ogni qualvolta non sia dedotto e dimostrato che, con riferimento alla specificità dell’appalto o ad altre circostanze peculiari, una tale esigenza si imporrebbe, per l’impossibilità che il concorrente possa formulare un’offerta adeguata».
[18] TAR Venezia, sez. I, 18 marzo 2019, n. 329, che ha rigettato il ricorso rivolto avverso il bando di gara e l’aggiudicazione definitiva, ritenendo direttamente applicabili i criteri ambientali minimi anche in ipotesi di completa omissione dal bando di gara: «si deve ritenere che l’obbligo di rispettare i criteri minimi ambientali derivi direttamente dalla previsione contenuta all’art. 34 del d.lgs. n. 50/2016, che costituisce norma imperativa e cogente e che opera, pertanto, indipendentemente da una sua espressa previsione negli atti di gara».
[19] Su questo specifico aspetto, risulta interessante quanto evidenziato nella pronuncia in commento: «la tematica della sostenibilità ambientale degli appalti è oramai entrata a far parte di una specifica professionalità dell’operatore economico interessato, il quale appronta risorse umane e strumentali per corrispondere ai dettami di legge volti alla preservazione dell’ambiente naturale nell’affidamento di contratti pubblici».
[20] A questo proposito, cfr. TAR Toscana, Firenze, sez. III, 20 febbraio 2020, n. 225, secondo cui la conformità dell’offerta alle caratteristiche ambientali obbligatorie deve «essere esattamente documentata, senza che sussista la possibilità del soccorso istruttorio».
[21] Come osservato da S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 2004, p. 12, «l’integrazione è fuori del contratto, ma al tempo stesso ne determina l’operare; il contratto è il suo oggetto, ma alla costruzione del proprio oggetto essa non manca di partecipare. Di ciò l’art. 1374 è testimonianza eloquente, nel suo apparente contrapporre due diverse fonti degli obblighi discendenti dal contratto: quanto in esso è espresso, da un canto, e la legge, gli usi e l’equità, dall’altro». In modo non dissimile, l’art. 1339 c.c. stabilisce che le clausole, i prezzi di beni e servizi, imposti dalla legge, sono di diritto inseriti nel contratto, anche in sostituzione di clausole difformi. Ne deriva che i contraenti possano vedere estesi i loro reciproci obblighi oltre quelli espressamente pattuiti: ampiamente, sul punto C. Scognamiglio, L’integrazione, in Trattato dei contratti, a cura di P. Rescigno, E. Gabrielli, Torino, 2006, 1149 ss.
[22] Così, Cons. Stato, sez. III, 14 ottobre 2022, n. 8773, secondo cui la circostanza che l’offerta della società appellante non fosse rispettosa dei c.a.m. «non configura vizio finché detta offerta era conforme alla lex specialis».
[23] Sulla relazione esistente tra affidamento, presunzione di legittimità del provvedimento amministrativo e certezza del diritto cfr. G. Treves,Presunzione di legittimità degli atti amministrativi, Padova, 1936; M.S. Giannini, Atto amministrativo, in Enc. Dir., Milano, 1959, IV, p. 157 ss., spec. p. 187; F. Merusi, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni Trenta all’alternanza, Milano, 2001; f. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 1995; G. Mannucci, L’affidamento nel rapporto amministrativo, Napoli, 2023.
[24] In tal senso, v. Cons. Stato, sez. III, 27 maggio 2024, n. 4701, secondo cui la tesi della “eterointegrazione” avrebbe l’effetto di spostare nella fase di esecuzione del contratto ogni questione relativa alla conformità della prestazione ai criteri ambientali, così contraddicendo la logica del risultato, che mira piuttosto ad una sollecita definizione, in termini di certezza e stabilità del rapporto negoziale. Secondo i giudici della III sezione «la genericità del richiamo a criteri semplicemente “non trascurati” attenua fortemente il relativo onere del partecipante».
[25] Per tale opinione, sia consentito rinviare a G. Taglianetti, Contratti pubblici e principio del risultato. Profili sostanziali e processuali, in www.federalismi.it, n. 14/2024, spec. p. 255 ss.
[26] Non è chiaro se quest’ultima fosse stata contestata per illegittimità derivata o anche per vizi propri.
[27] La conformità dell’offerta presentata dalla società ricorrente ai c.a.m. è stata più volte rimarcata dal giudice campano. In particolare, nel punto 3.6. si legge: «Come detto, la ricorrente non ha trascurato la rilevanza degli interessi in gioco, assumendo l’interesse sostanziale della stazione appaltante e facendolo proprio, nel formulare l’offerta … Tanto considerato, risulta quindi che il concorrente si sia premurato di formulare un’offerta collimante con le migliori tecniche di rispondenza all’osservanza dei criteri minimi ambientali, nella piena consapevolezza della materia e nella correlativa assunzione degli obblighi che ne derivano … Nel caso di specie, per quanto innanzi chiarito, emerge che la ricorrente abbia adeguato la propria offerta all’osservanza dei criteri minimi ambientali».
[28] Sull’effetto caducante dell’annullamento del bando di gara determinato dalla mancata inclusione dei criteri ambientali minimi, cfr. Cons. Stato, sez. III, 11 ottobre 2024, n. 8171.
[29] Cons. Stato, n. 7023/2018.
[30] Secondo un condivisibile indirizzo interpretativo, su cui sembra convergere la dottrina amministrativistica, il principio dispositivo e quello di effettività, che caratterizzano un processo ormai divenuto “di parti”, impongono al giudice, in caso di graduazione dei motivi di ricorso, di dare prevalenza al risultato maggiormente satisfattivo per l’interesse del ricorrente piuttosto che all’interesse pubblico. In argomento, cfr. V. Caianiello, Lineamenti del processo amministrativo, Torino, 1979, spec. p. 24; R. De Nictolis, L’ordine dei motivi e la sua disponibilità, in www.federalismi.it, n. 18/2010, spec. § 6; M. Ramajoli, L’atto introduttivo del giudizio amministrativo tra forma e contenuto, in Dir. proc. amm., 2019, p. 1051 ss. Sul tema, la sentenza n. 5 del 27 aprile 2015 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato funge da spartiacque: cfr., al riguardo, le osservazioni di E. Follieri, Due passi avanti e uno indietro nell’affermazione della giurisdizione soggettiva, in Giur. it, 2015, p. 2192 ss.; L.R. Perfetti, G. Tropea, “Heart of darkness”: l’Adunanza Plenaria tra ordine di esame ed assorbimento dei motivi, in Dir. proc. amm., 2016, p. 218 ss.
Sommario: 1. L’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa e la “graduabilità in via generale” - 2. La sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024: il “monito di politica legislativa” ... in itinere - 3. Il principio del risultato e l’asserito modello del Codice dei contratti pubblici per tipizzare la colpa grave - 4. La underdeterrence è l’unica via per rafforzare la capacità amministrativa?
1. L’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa e la “graduabilità in via generale”
L’introduzione in via legislativa del c.d. “scudo erariale” e la sua ripetuta proroga[1], con la limitazione della responsabilità amministrativa al solo dolo per le condotte commissive, rievoca alcune questioni dibattute allorquando il legislatore, nel 1996, limitò alla colpa grave la medesima responsabilità (allora anche per condotte omissive).
Già in quel momento, come noto, la limitazione dell’elemento soggettivo rilevante fu censurata dalla Corte dei conti alla Corte costituzionale, ma venne da questa ritenuta costituzionalmente legittima con motivazione dal sapore attuale. Nel 1998 il professor Casetta commentò con un titolo estremamente pungente la sentenza di rigetto della Corte costituzionale n. 371 del 1998[2]: “Colpa del dipendente pubblico o colpa del legislatore?”[3].
Tutti conoscono quale fosse il punto cruciale di quella sentenza, che auspicava un assetto normativo nel quale il timore della responsabilità del funzionario non disponesse l’amministrazione pubblica all’inerzia. Pare tuttavia opportuno rileggere l’apparato argomentativo per valutare se sia applicabile al contesto dello scudo erariale: “Il punto è la combinazione di elementi restitutori e di deterrenza per raggiungere l’equilibrio che renda la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo e non di disincentivo”[4]. Si tratta di una evidente forzatura lessicale, solo ove si consideri la difficoltà che la responsabilità amministrativa possa costituire uno stimolo. Non è certo la responsabilità che funge da stimolo ma è la configurazione di un adeguato status giuridico del dipendente pubblico, in via normativa e amministrativa, a stimolarne l’azione legittima e efficiente.
A parte l’infelice formulazione, i motivi del rigetto della questione di legittimità costituzionale allora sollevata sono illuminanti e meritano riflessione, soprattutto in relazione alla questione recentemente scrutinata dalla Corte costituzionale. Sintetizzando, la disciplina legislativa censurata non avrebbe violato l’art. 97 Cost. poiché la discrezionalità del legislatore non è censurabile “se non quando è arbitraria o irragionevole”. In questo caso, la Corte, invero in modo sbrigativo, ritenne che quell’“upgrade” dell’elemento soggettivo (dalla colpa alla colpa grave) non fosse né irragionevole né arbitrario, nella ricerca di quell’agognato equilibrio tra stimolo e disincentivo per il funzionario pubblico[5].
Non c'era violazione dell’art. 103 della Costituzione, poiché la materia della contabilità pubblica è definita dalla legge e, quindi, è la razionalità del legislatore, con la sua discrezionalità, a definire il perimetro entro il quale giudica la Corte dei conti. Non era inoltre ravvisato un nesso diretto tra la disciplina censurata e gli adempimenti degli obblighi sovranazionali (all’epoca si trattava del rispetto dei parametri di Maastricht), nonostante il giudice a quo avesse sostenuto una violazione del diritto (allora) comunitario, ridondante in violazione dell’art. 81 Cost.
Ma il professor Casetta, con la sua nota caustica, criticava l’intero sistema ordinamentale che aveva condotto a quella scelta legislativa. Criticava in primis la stessa formulazione dell’art. 28 della Costituzione, poi il legislatore successivo, la Corte dei conti come giudice a quo nella formulazione della rimessione, e infine la sentenza della Corte costituzionale, con diverse sfumature di riprensione[6].
Riguardo all’art. 28 Cost., sulla scorta dei propri importanti studi[7], affermava che i lavori preparatori erano confusi e certamente non illuminanti, frutto di un difetto di redazione lessicale. Riguardo alle leggi successive, come il Testo Unico n. 3 del 1957 e il decreto sulla privatizzazione del pubblico impiego, il legislatore “ha creduto di intervenire con una limitazione della responsabilità, illusoria e inutile, fondatamente sospetta di incostituzionalità”. Sulla Corte dei conti in funzione di giudice a quo, considerava le censure formulate fragili e poco penetranti, tanto da agevolare il rigetto delle questioni mediante una semplice riaffermazione della discrezionalità del legislatore[8].
Infine, riguardo alla Corte costituzionale, il professor Casetta riteneva che il rigetto della questione di legittimità costituzionale fosse costruito su presupposti errati, poiché la discrezionalità del legislatore era arbitraria per avere “rovinato” la visione unitaria, di matrice civilistica, della natura risarcitoria comune alla responsabilità civile e a quella amministrativa.
Riportando l’osservazione del professor Casetta ai giorni nostri, riguardo allo scudo erariale e alla limitazione di responsabilità di cui si è ampiamente discusso, si possono notare differenze notevoli rispetto al precedente “upgrade” normativo dell’elemento soggettivo.
Le censure sollevate riguardo alla proroga dello “scudo erariale” dalla Sezione giurisdizionale campana della Corte dei conti hanno delineato profili d’incostituzionalità senz’altro nuovi, alcuni dei quali, ad avviso di chi scrive, non sono stati adeguatamente esaminati dalla Corte costituzionale, come si noterà a breve.
Rispetto alla “paura della firma”, alla “burocrazia difensiva”, alla “fatica dell’amministrare” e alle diverse formulazioni entrate vigorosamente nel lessico giuridico[9], la limitazione emergenziale della responsabilità amministrativa è divenuta in questi ultimi anni ordinaria, giustificando, ben oltre le ragioni del suo esordio, la corrispondente limitazione dei poteri requirenti e giurisdizionali della Corte dei conti.
Anche la recente pronuncia della Corte costituzionale n. 132 del 2024, con la sua inedita vis propulsiva, suggerisce al legislatore rimedi di diritto sostanziale, appunto intesi a ridisegnare i confini della responsabilità amministrativa, e rimedi di natura ordinamentale e processuale, che interessano le funzioni giurisdizionali della Corte dei conti[10].
Come ricorda il Professor Carlo Emanuele Gallo nel Manuale di contabilità pubblica, tuttavia, la Corte dei conti ha sempre valutato il regime della responsabilità amministrativa con estrema attenzione alle esigenze della pubblica amministrazione, preoccupandosi più di affermare i principi di correttezza nella gestione che di sanzionare gli agenti[11]. Questo è l’orientamento della giurisprudenza contabile, come del resto testimoniano le relazioni di inaugurazione degli anni giudiziari e le relative appendici statistiche.
Piuttosto, citando di nuovo il professor Gallo, “è il legislatore che, talora, sbaglia” perché “prevede sanzioni incredibili, decine di volte maggiori rispetto al danno perpetrato”, oppure “introduce incoerenze, come il danno di immagine”. Le citazioni a riguardo sono numerose. Ad esempio, il caso della “medicina difensiva”, parallelo a quello della “burocrazia difensiva”, dimostra che i rimedi alla “paura” del personale esistono, non limitandosi alla copertura dei rischi mediante la stipulazione di polizze assicurative. Sappiamo benissimo che la legge n. 24 del 2017, c.d. legge Gelli-Bianco, in tale ambito, prevede altri efficaci rimedi, per esempio già prevede l’esonero di responsabilità in caso di conformità della condotta alle linee guida e le buone pratiche clinico-assistenziali, tra gli altri strumenti[12].
La visione unitaria dell'art. 28 della Costituzione è stata frantumata, come affermava il professor Casetta, da quando la responsabilità amministrativa si è disallineata rispetto alla responsabilità civile, sotto il profilo dell'elemento soggettivo. Questo processo ha incrinato l’unitarietà, già debole, del modello di responsabilità discendente dalla laconica disciplina costituzionale.
La questione di fondo riguarda l’individuabilità di limiti a questa gradualità generale dell’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa; in altri termini dove si arresta la discrezionalità del legislatore e da quale punto essa diventi arbitraria e contraria ai principi costituzionali, nella diuturna ricerca dell’ottimale combinazione tra elementi restitutori e di deterrenza propri dell’istituto.
Se il modello di partenza è l’art. 28 Cost., va ricordato che la stessa previsione costituzionale ha occasionato letture profondamente divergenti: Carlo Esposito, nel 1954, riteneva addirittura che la Costituzione limitasse la responsabilità al solo dolo, poiché si riferiva ad atti compiuti in lesione di diritti[13]. Elio Casetta, invece, sosteneva che l’ampia discrezionalità legislativa avrebbe vanificato la Costituzione, portando a estremi problematici, come nel caso della responsabilità civile dei magistrati, ridotta “a essere quasi soltanto simbolica, nella dimensione dell'elemento soggettivo, quando nulla impediva di mantenere la colpa lieve” (Regio decreto di contabilità pubblica n. 2440 del 1923).
Da ultimo, il Codice dei contratti pubblici di cui al d. lgs. n. 36 del 2023, all’art. 2, comma 3, distingue la colpa grave generica dalla colpa lieve, che invece è specifica. Il profilo colposo si manifesta per violazione di norme di diritto o di autolimiti dell’amministrazione (qui abbiamo un profilo di colpa lieve specifica), oppure per palese violazione di regole di prudenza, diligenza e perizia. In questo caso, il termine “palese” suggerisce una violazione macroscopica, riferibile alla colpa grave. Con una previsione degna di sistemi giuridici di Common Law, la stessa disposizione esclude poi dalla colpa grave “la violazione o l’omissione determinata dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti”. In disparte la ottimistica fiducia riposta nella formazione di giurisprudenza omogenea su temi complessi e verso l’armonia tra giurisprudenza e orientamenti delle autorità di vigilanza, questa formulazione non pare tipizzare la colpa grave, come per contro si sostiene nelle proposte normative di riforma della responsabilità amministrativa, che la assumono come modello di riferimento, anche alla luce del monito rivolto al legislatore dalla Corte costituzionale.
Provando a riprendere il pensiero del professor Casetta e ad applicarlo al contesto attuale rispetto alla pronuncia della Corte costituzionale del 1998, sorgono diverse domande e questioni, che si ritiene solo in parte siano state affrontate dallo stesso giudice delle leggi con la sentenza n. 132 del 2024. Partendo dal caso pratico, sorge spontaneo chiedersi perché lo “stimolo” di cui già allora parlava la sentenza della Corte costituzionale debba essere rivolto al progettista e non al collaudatore di un’opera pubblica e dove risieda la ragionevolezza della distinzione. Perché lo stimolo, e non il disincentivo, deve riguardare chi progetta e non chi collauda, in ragione della condotta attiva o omissiva? A chi scrive la stessa distinzione pare macroscopicamente viziata, ma la censura che originava dal giudizio a quo era riferita a condotte non inequivocamente riconducibili alla criticata contrapposizione azione/omissione, così consentendo alla Corte costituzionale di sfumare il proprio giudizio su tale punto nodale[14].
Per quanto riguarda l’art. 103 della Costituzione e l’ambito della giurisdizione contabile, sembrava che la questione non potesse essere liquidata in poche righe, come avvenne nel 1998, specie richiamando la giurisprudenza costituzionale che ha ripetutamente riconosciuto la funzione del giudice contabile come giudice naturale del bilancio e della contabilità pubblica. La Corte costituzionale, replicando il proprio originario orientamento, ha tuttavia ritenuto che la disciplina degli elementi della responsabilità amministrativa riguardi il solo diritto sostanziale, escludendo un correlato vulnus alla giurisdizione contabile[15]. L’affermazione stupisce, specie considerando il lungo monito che la stessa Corte costituzionale formula al legislatore, che riguarda congiuntamente profili di diritto sostanziale e di diritto processuale, destinati a incidere profondamente sull’ambito della giurisdizione della Corte dei conti. Lo stesso Presidente della Corte dei conti, nella relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario 2025 ha sollecitato una attenta ponderazione riguardo alle conseguenze di eventuali limitazioni della responsabilità erariale, con “riduzione dello spazio della giurisdizione contabile”, che condurrebbero l’attività dannosa del pubblico funzionario nel più generale alveo dell’illecito[16] civile, con assoggettamento allo statuto generale della relativa responsabilità, certamente meno attenta alla “fatica dell’amministrare”.
Riesce davvero difficile disgiungere il riassetto della responsabilità amministrativa dalle conseguenze processuali indotte, in primo luogo riguardo agli effetti sulla giurisdizione contabile e ai rapporti tra quest’ultima e la giurisdizione ordinaria.
Il riferimento corre alla proposta di legge Foti (C-1621), presentata il 19 dicembre 2023, che nella sua versione originaria avrebbe sostanzialmente snaturato la Corte dei conti, rendendola un organo consultivo, financo consulenziale[17], per le amministrazioni statali con grave rischio di violare il divieto di co-amministrazione[18]. Gravissimo, poi, a parere di chi scrive, prevedere l’istituto del silenzio-assenso riguardo al rilascio dei medesimi pareri: un errore molto grave, indice della natura amministrativa e, per l’effetto, della funzione di co-amministrazione che verrebbe intestata alla stessa Corte, dimenticando la sua posizione nell’assetto costituzionale[19]. Ancora più anomala l’originaria previsione, ad opera della stessa proposta di legge, dell’attribuzione alla Corte dei conti di poteri sanzionatori nei confronti dei dipendenti quali la sospensione o destituzione dei dipendenti in caso di responsabilità amministrativa, che renderebbe la Corte dei conti una sorta di ufficio disciplinare esterno o la assimilerebbe ad una Authority, nuovamente in ispregio alla sua collocazione costituzionale[20]. Tutto il progetto di legge aumenta del resto il rischio di accentuare i profili sanzionatori della responsabilità amministrativo-contabile, allontanandosi dalla sua “natura risarcitoria di fondo”[21].
La relazione di accompagnamento alla richiamata proposta invoca a sostegno delle sue previsioni un effetto “tranquillizzante” per i funzionari pubblici, che lavorerebbero senza preoccupazioni grazie alla copertura assicurativa per la colpa grave, eliminando così le conseguenze di responsabilità amministrativa e contabile, previa funzione consultiva della Corte dei conti. Tuttavia, questa prospettiva condurrebbe a funzionari “anestetizzati” che operano senza il giusto stimolo a causa dell’indotto effetto deresponsabilizzante. Non si ritiene che sia questa la ragionevole misura tra “overdeterrence” e “underdeterrence” invocata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 132 del 2024[22].
Citando il professor Rosario Ferrara, si può osservare la tendenza preoccupante del legislatore, già lamentata nel 1999, verso la disciplina di “un’amministrazione senza qualità, un’amministrazione deresponsabilizzata”[23]. Tale approccio disvela una sfiducia evidente, molto marcata, nella dirigenza e nell’apparato apicale delle pubbliche amministrazioni, con il rischio che anche il legislatore, procedendo in questo modo, violi il principio di fiducia (verso l’apparato amministrativo).
2. La sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024: il “monito di politica legislativa” ... in itinere
La richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024 è già stata ampiamente e diffusamente commentata e a tali commenti si può fare un generale rinvio[24].
Si intendono tuttavia aggiungere alcune riflessioni, riferite alla forma della pronuncia, alla sua classificazione e ad alcuni paradossi che il futuro legislatore sarà tenuto ad affrontare e, auspicabilmente, a risolvere per effetto dell’articolato monito in essa contenuto[25].
Iniziando dalla forma, riferita alla redazione lessicale e allo sviluppo argomentativo, si può agevolmente constatare l’utilizzo di espressioni forzatamente evocative e poco tecniche. Se ne richiamano alcune, che ben rendono l’idea: “la spinta della macchina amministrativa”, “rimettere in movimento il motore dell’economia”, “i tasselli principali”, “la testata d’angolo” et similia. È evidente l’intento della Corte di concentrare l’attenzione, come ribadito in diversi passaggi, sul risultato della ripresa dell’economia, che non può essere ostacolato da un’amministrazione pubblica “difensiva” (termine invero abusato), ostaggio di una legislazione complessa e di una amministrazione non pronta a farsene carico.
Il ragionamento complessivo è icasticamente ispirato al principio del risultato, che è divenuto centrale dopo la sua positivizzazione nel Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 36 del 2023.
Il sillogismo che origina dall’applicazione del principio del risultato è, tuttavia, non obbligato nella direzione segnata, o auspicata, dalla stessa pronuncia della Corte.
La “amministrazione di risultato” è richiamata più volte: al punto 6.2, al punto 6.4 con riferimento al Codice dei contratti pubblici e, infine, al punto 11 che, come noto, contiene una sorta di “monito di politica legislativa” (per riprendere una felice espressione dottrinale[26]) verso la riscrittura della disciplina della responsabilità amministrativa.
Di solito, tuttavia, le sentenze monito sollecitano il legislatore ad attivarsi ex novo e non recepiscono spunti da un’attività legislativa in itinere e in fase avanzata di analisi parlamentare, ancorché le tecniche monitorie del giudice delle leggi siano progressivamente mutate nel tempo[27].
3. Il principio del risultato e l’asserito modello del Codice dei contratti pubblici per tipizzare la colpa grave
Chi scrive ha appena consegnato alle stampe un lavoro che approfondisce l’effetto del principio del risultato riguardo all’ambito del sindacato giurisdizionale amministrativo[28]: da tale studio si coglie un effetto divergente nell’applicazione del medesimo principio riguardo all’altro plesso di giurisdizione speciale.
In altri termini, i giudici amministrativi, in applicazione del principio del risultato[29], stanno ampliando l’ambito della propria cognizione, attraendo nel giudizio di legittimità spazi che dapprima erano confinati nel merito amministrativo: il Consiglio di Stato replica ormai con convinzione la stessa massima[30].
Il sindacato del giudice amministrativo si irradia inoltre sulla intera “operazione amministrativa”[31]. Questo ampliamento del sindacato è consentaneo alla “individuazione della regola per il caso concreto” che grava sull’amministrazione, come ribadito dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 132 del 2024, cit., che richiama l’art. 1, co. 4, del Codice contratti e la riduzione della quota di rischio a carico del dipendente. Il richiamo implicito è alla classica teoria della “discrezionalità in azione” di Vittorio Ottaviano, che affidava appunto all’amministrazione la creazione della regola per il caso concreto[32].
A questo punto, tuttavia, ad avviso di chi scrive, il sillogismo ipotizzato dal giudice delle leggi non mantiene più una univoca coerenza: si ricorda, infatti, che lo stesso Codice dei contratti mira a “favorire e valorizzare l’iniziativa e l’autonomia decisionale dei dipendenti” (art. 2, co. 2): come si può sostenere che l’autonomia decisionale sia garantita, a rime obbligate, da una disciplina che comporti un sostanziale e significativo sgravio di responsabilità? Si riconosce autonomia decisionale solo senza responsabilità o con forti limitazioni di responsabilità? Forse sì, ma solo in un contesto economico e sociale “peculiarissimo”, utilizzando lo stesso superlativo assoluto speso dalla Corte costituzionale[33].
Il modello richiamato dalla Corte costituzionale è il Codice dei contratti pubblici, che sarebbe da seguire secondo due direttrici: la (asserita) tipizzazione della colpa grave; l’introduzione delle polizze assicurative per i rischi del personale, secondo un modello che si è visto non esaurisce i rimedi introdotti per fronteggiare la c.d. “medicina difensiva”.
Qui la Corte costituzionale forse chiede troppo: ammette che la colpa grave è un “concetto giuridico indeterminato” (punto 6.5 in diritto) ma pretende che venga tipizzata. Ad avviso di chi scrive, non è certo una tipizzazione esemplare quella introdotta dal Codice dei contratti, che utilizza la classica distinzione tra colpa generica e colpa specifica senza aggiungere elementi utili a delineare le fattispecie rilevanti. È una contraddizione rendere determinato un concetto giuridico indeterminato, peraltro affidandosi allo stesso legislatore che viene ripetutamente criticato quale principale fonte dell’inefficienza amministrativa (punto 6.5, specificamente sulla “fame di norme”). Né è affidabile il riferimento agli indirizzi giurisprudenziali “prevalenti”, specie nella magmatica materia dei contratti pubblici.
Invocare la tipizzazione delle condotte è inoltre in palese controtendenza rispetto ad un generale processo di “fuga dalla fattispecie” che caratterizza irreversibilmente l’intero sistema giuridico[34].
L’effetto del principio del risultato in sede di giurisdizione amministrativa consente al giudice di sindacare riguardo a scelte di merito, estese a tutta l’operazione amministrativa (nozione ben più estesa rispetto al procedimento, come noto). In tal modo il giudice “intercetta” la volontà dell’amministrazione, anche dove non espressa, mediante il risultato, una sorta di “faro” che illumina atti e comportamenti amministrativi, e amplia di conseguenza anche i propri poteri di decisione, giungendo ad annullare atti amministrativi viziati per tali ragioni (non più di opportunità ma di legittimità).
È appena il caso di notare che siffatto modo di procedere, indotto dalla legislazione per principi, approda ad una affermazione contraria a quella che ispira lo stesso legislatore, perché poggia su una generale sfiducia verso la pubblica amministrazione (una “amministrazione senza qualità”, per dirla con R. Ferrara). L’iniziativa e autonomia decisionale del dipendente conduce paradossalmente ad un maggior controllo giudiziale sugli atti e ad un ampliato esito di annullamento delle decisioni amministrative.
4. La underdeterrence è l’unica via per rafforzare la capacità amministrativa?
La ricerca legislativa di un equilibrio tra overdeterrence e underdeterrence riporta ai ragionamenti della sentenza della Corte costituzionale n. 371 del 1998, che già allora giustificava la lata discrezionalità del legislatore, con l’effetto della progressiva “rovina” della visione unitaria della responsabilità fondata sull’art. 28 Cost.
Il “polo dell’underdeterrence” è ritenuto “socialmente più accettabile” e, in prospettiva, pare destinato a consolidarsi, già solo per il “timore del riespandersi della burocrazia difensiva” (Corte cost., n. 132 del 2024, cit., punto 11 in diritto).
Questo processo di upgrade dell’elemento soggettivo rilevante non pare dunque arrestarsi, e viene assunto come unica soluzione percorribile, sia pure razionalizzata (escludendo a regime la limitazione generalizzata al solo dolo), senza approfondire le altre strade che condurrebbero a rafforzare la capacità amministrativa, mediante doverosi investimenti a favore dell’amministrazione e della formazione del suo personale.
Lo stesso Codice dei contratti pubblici, eretto a modello, sottolinea del resto il carattere della “esigibilità” delle condotte dell’agente pubblico “in base alle specifiche competenze e in relazione al caso concreto” (art. 2, co. 3, d. lgs. n. 36 del 2023, cit.).
A tacere di alcune risposte della Corte costituzionale che, ad avviso di chi scrive, non sono soddisfacenti né esaustive rispetto alle questioni poste dall’ordinanza di rimessione (si pensi alla ingiustificata distinzione tra condotte attive e omissive e al riferimento alle condotte materiali, affrontato sbrigativamente al punto 7 in diritto), si segnalano due paradossi indotti dal monito al legislatore:
1) Il riferimento all’operazione amministrativa (incluse le condotte materiali) consente un maggiore sindacato del giudice amministrativo e conduce all’annullamento di più atti amministrativi, ma fa punire di meno le condotte serventi, facendo gravare sulla collettività gli effetti pregiudizievoli dell’illegittimità. Non vi è quindi coincidenza tra “effetto tranquilizzante del dipendente” (leitmotiv della p.d.l. Foti, cit.) e legittimità del risultato amministrativo;
2) Se il risultato giustifica condotte viziate anche da colpa grave, esso produce un effetto disincentivante per il funzionario diligente[35].
Occorre infine ricordare che il principio del risultato, per espressa definizione normativa, costituisce attuazione del principio costituzionale del buon andamento ed è perseguito nell’interesse della comunità (art. 1, co. 3, d. lgs. n. 36 del 2023, cit.). Occorrerà dunque che il legislatore, nel rivisitare la disciplina della responsabilità amministrativa, corregga gli eccessi di underdeterrence gravanti sulla collettività, riportando, nell’esercizio della sua razionale discrezionalità, l’inquadramento dell’elemento soggettivo rilevante a conformità con il principio costituzionale di cui all’art. 97 Cost.
Il “peculiarissimo” periodo economico e sociale che ha generato lo “scudo erariale” è superato e un generale metus del funzionario pubblico non può essere tollerato in via generalizzata come fisiologico, a meno di offrire una lettura del principio di buon andamento dell’amministrazione che consenta di riversare sulla collettività le conseguenze di condotte dei funzionari anche gravemente colpose (non sempre, ma in casi tipizzati). Ciò comporta una riparametrazione dell’“interesse della collettività”, che sarebbe soddisfatto anche gravando su di essa il rischio della colpa grave del funzionario, sulla presunzione che l’amministrazione procederebbe complessivamente in modo più celere ed efficiente.
La collettività, in altri termini, beneficerebbe dell’effetto tranquillizzante garantito al funzionario perché l’amministrazione sarebbe, per l’effetto, più performante. Una lettura che non convince in via assoluta, non essendo dimostrato che questa sia la soluzione “socialmente più accettabile”, come per contro perentoriamente asserito dalla Corte costituzionale.
La tipizzazione delle condotte rilevanti per la responsabilità amministrativa richiede in primo luogo una decisa semplificazione normativa, accompagnata da un correlato e consentaneo “adeguamento” della funzione requirente della Corte dei conti: allorquando la normazione è complessa, l’errore d’interpretazione (e di conseguente applicazione in via amministrativa) non può né deve essere inteso come grave negligenza e non può integrare il presupposto per l’azione erariale[36].
Il legislatore, in altri termini, deve non solo tipizzare le condotte (attività non semplice, come si è visto, ma sollecitata dalla Corte costituzionale) ma deve anche, e soprattutto, semplificare e razionalizzare la disciplina normativa per l’attività delle pubbliche amministrazioni. La Corte dei conti, fin dall’azione requirente, deve continuare ad affermare i principi di correttezza nella gestione delle risorse pubbliche, soppesando e dimensionando adeguatamente la gravità della colpa del soggetto agente “in un quadro normativo multilivello caotico e con risorse non sempre adeguate al fabbisogno”[37]. In questo prospettato quadro di riforma, anche la parziale tipizzazione del potere riduttivo dell’addebito del giudice contabile, non sempre adeguatamente utilizzato[38], può ridurre il denunciato effetto disincentivante per l’azione amministrativa[39].
[1] Art. 21, comma 2, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, ai sensi del quale «limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 30 giugno 2024, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente». Il termine è stato ripetutamente prorogato, da ultimo fino al 30 aprile 2025 (art. 1, co. 9, d.l. 27 dicembre 2024, n. 202, convertito con legge 21 febbraio 2025, n. 15, recante “Disposizioni urgenti in materia di termini normativi”).
[2] Corte cost., sent. 20 novembre 1998, n. 371, Pres. Vassalli, Redattore Vari.
[3] E. Casetta, Colpa del dipendente pubblico o colpa del legislatore?, in Giur. cost., 1998, 3257 ss.
[4] Corte cost., n. 371 del 1998, cit., punto 6 in diritto.
[5] Il termine “upgrade”, riferito alla diversa qualificazione dell’elemento soggettivo, è stato utilizzato da G. Morbidelli nella Relazione al convegno “La responsabilità per gli illeciti degli enti pubblici”, Università di Torino, 21 marzo 2024.
[6] E. Casetta, Colpa del dipendente pubblico o colpa del legislatore?, op. e loc. cit., ed ivi il riferimento a un “(provvisorio?) epilogo” alla “tormentata vicenda dell’istituto della responsabilità dei dipendenti e funzionari pubblici”.
[7] E. Casetta, L’illecito degli enti pubblici, Torino, 1953, spec. 240 ss.
[8] E. Casetta, op. e loc. ult. cit.
[9] Addirittura, nella Relazione di accompagnamento alla p.d.l. AC 1621 “Foti”, di cui infra nel testo, si ostenta l’improponibile termine “firmite”.
[10] Corte cost., sentenza 17 luglio 2024, n. 132, Pres. Barbera, Red. Pitruzzella, specie punto 11 in diritto.
[11] C.E. Gallo, La responsabilità amministrativa e contabile e la giurisdizione, in AA.VV., Contabilità di Stato e degli enti pubblici, Torino, VIII ed., 2018, 207 ss.
[12] Al riguardo si vedano gli ampi riferimenti giurisprudenziali contenuti nella relazione di P. Silvestri, Procuratore generale della Corte dei conti all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024, ed ivi in particolare, la parte curata dalla V.P.G., C. Vetro, La responsabilità medica nel giudizio innanzi alla Corte dei conti, 35 ss.; nonché nella relazione all’inaugurazione all’anno giudiziario 2025, ed ivi F. Cerioni e G. Stolfi, 83 ss.
[13] C. Esposito, La responsabilità dei funzionari e dipendenti secondo la Costituzione, in La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, 103, richiamato da E. Casetta, op e loc. ult. cit.
[14] Corte cost. n. 132 del 2024, cit., punto 8 in diritto.
[15] Corte cost. n. 132 del 2024, cit., punto 10 in diritto.
[16] G. Carlino, Relazione alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2025, 12.
[17] In tali termini, Corte dei conti, SS.RR. in sede consultiva, Adunanza 28 ottobre 2024, Parere n. 3/2024 in merito alla pdl C n. 1621, 27.
[18] Cfr. d.d.l. recante “Modifiche alla legge 14 gennaio 1994, n. 20, al Codice della giustizia contabile, di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, e altre disposizioni in materia di funzioni di controllo e consultive della Corte dei conti e di responsabilità per danno erariale” (atto camera 1621), sul quale si veda “La riforma della Corte dei conti: il DDL Foti”, in Dir. e conti, 30 settembre 2024. Analoga preoccupazione è espressa da M. Luciani, Appunti per l’audizione innanzi la I Commissione (Affari costituzionali) e la II Commissione (Giustizia) della Camera dei deputati, 29 luglio 2024.
[19] Si vedano al riguardo anche gli emendamenti, intesi ad espungere dal testo i riferimenti al silenzio-assenso, formulati dal Presidente della Corte dei conti alle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera dei deputati, Audizione del 4 febbraio 2025.
[20] Da ultimo, per una critica complessiva alla riforma, cfr. M.T. Polito, La riforma della Corte dei conti. Si smantellano le funzioni per valorizzare l’esimente relativa alla responsabilità erariale a danno dei cittadini, in Giustiziainsieme.it, 7 aprile 2025.
[21] Che invece è rimarcata proprio da Corte cost. n. 132 del 2024, cit., punto 5.2 in diritto.
[22] Punto 6.7 in diritto circa lo spostamento temporaneo della configurazione dell’elemento soggettivo verso il polo della underdeterrence.
[23] R. Ferrara, Le “complicazioni” della semplificazione amministrativa: verso un’amministrazione senza qualità?, in Dir. proc. amm., 1999, 2, 323 ss.
[24] V. Tenore, Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare: lo “scudo erariale” è legittimo perché temporaneo e teso ad alleviare “la fatica dell’amministrare”, che rende legittimo anche l’adottando progetto di legge Foti C1621, in Riv. Corte dei conti, 4/2024, 195 ss.; F.S. Marini, La sentenza n. 132 del 2024: la Corte costituzionale sperimenta nuove tecniche decisorie, in Riv. Corte dei conti, 4/2024; F. Cintioli, La sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024: dalla responsabilità amministrativa per colpa grave al risultato amministrativo, in Federalismi, 19/2024; L. Balestra, Per un ripensamento della responsabilità erariale e, più in generale, delle funzioni della Corte dei conti, in Giur. It., ottobre 2024, 2166 ss.; A. Indelicato, Responsabilità e “scudo” erariale: retrospettive e prospettive dopo la rimessione alla Consulta, in Riv. Corte dei conti, 6/2023, 217 ss.; D. Palumbo, La sentenza della Corte costituzionale n. 132/2024: verso un nuovo punto di equilibrio nella ripartizione del rischio tra la P.A. e l’agente pubblico?, in Giustizia Insieme, 18 novembre 2024.
[25] Sul punto, già S. Foà, Relazione all’Incontro dibattito “Prospettive della responsabilità per colpa grave dopo la sentenza n. 132/2024 della Corte costituzionale” presso la Scuola di alta formazione “Francesco Staderini”, Corte dei conti, Roma, 16 gennaio 2025.
[26] G. Zagrebelsky, V. Marcenò, Giustizia Costituzionale, Vol. II, Bologna, 2018, 253 ss.
[27] Per un’analisi del mutamento delle tecniche monitorie, cfr. da ultimo E. Cocchiara, L’ evoluzione dei moniti della Corte costituzionale al legislatore: un bilancio a settant’anni dalla L. 87 del 1953, in La Rivista del Gruppo di Pisa, n. 3/2023, 1 ss.
[28] S. Foà (a cura di), Il nuovo merito amministrativo, Torino, 2025.
[29] Tra gli ormai abbondanti contributi sul principio del risultato, si vedano M.R. Spasiano, Codificazione di principi e rilevanza del risultato, in C. Contessa, P. Del Vecchio, Codice dei contratti pubblici, Napoli, 2023, 49 ss.; S. Vaccari, Principio del risultato e legalità amministrativa, ambiguità della “lex specialis” di gara ed interpretazione logico-sistematica, in Giorn. dir. amm., 5, 2024, 669 ss. Sulla nozione di “amministrazione di risultato”, L. Iannotta, Merito, discrezionalità e risultato nelle decisioni amministrative (l’arte di amministrare), in Dir. proc. amm., 1, 2005, 10 ss.
[30] Cons. Stato, Sez. III, 26 marzo 2024, n. 2866, punto 6.4. La massima giurisprudenziale riecheggia ipotesi di eclissi del merito e relativa attrazione nell’area della legittimità: cfr. B. Giliberti, Il merito amministrativo, Padova, 2013, 280; oggi S. Foà, Il nuovo merito amministrativo, op. ult. cit.
[31] Cons. Stato, Sez. IV, 24 aprile 2024, n. 3738; Id., Sez. V, 12 gennaio 2023, n. 431. Sulla nozione di operazione amministrativa, cfr. D. D’Orsogna, Contributo allo studio dell’operazione amministrativa, Napoli, 2005, passim, ed ivi la superata contrapposizione con la nozione di procedimento amministrativo, a partire dalle riflessioni di A.M. Sandulli, Il procedimento amministrativo, Milano, 1940, passim, ma spec. 35 ss.
[32] V. Ottaviano, Studi sul merito degli atti amministrativi, in Annuario dir. comp. e studi legislativi, Serie III, 1948.
[33] Corte cost., n. 132 del 2024, cit., punto 6.7 in diritto.
[34] N. Irti, La crisi della fattispecie, in Riv. dir. proc., 2014, 1, 36 ss., ed ivi l’affermazione secondo cui il valore “non ha bisogno di fattispecie, di una qualche figura o descrizione di fatti, poiché vale in sé, e si applica dovunque sia invocato e preteso”; G. Corso, Tra legge e fattispecie: la prospettiva del diritto amministrativo, in Ars interpretandi, 2019, fasc. 1, 71 ss.
[35] In tal senso anche la Relazione del Procuratore generale della Corte dei conti P. Silvestri all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024.
[36] La stessa posizione è espressa da M. Luciani, Appunti per l’audizione innanzi la I Commissione (Affari costituzionali) e la II Commissione (Giustizia) della Camera dei deputati, 29 luglio 2024, 5 ss.
[37] In tali termini la Relazione del Procuratore generale P. Silvestri all’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei conti 2025, 5.
[38] In tal senso, cfr. C.E. Gallo, La responsabilità amministrativa e contabile e la giurisdizione, in AA.VV., Contabilità di Stato e degli enti pubblici, Torino, VIII ed., 2018, 241 ss., spec. 243, ed ivi la critica all’atteggiamento più recente del giudice contabile, che conduce ad esercitare raramente il potere riduttivo e ad applicarlo in percentuali modeste.
[39] Sia pure entro i limiti invocati dalla stessa Corte dei conti: cfr. Corte dei conti, SS.RR. in sede consultiva, Adunanza 28 ottobre 2024, Parere n. 3/2024 in merito alla pdl C n. 1621, ove si legge: “Se, in linea di massima, si può concordare sull’opportunità di riconsiderare la disciplina dell’esercizio del potere riduttivo dell’addebito, ampliando la dovuta motivazione del Giudice anche su questo profilo, la sostanziale introduzione di un tetto alla responsabilità pone una serie di criticità, tali da ritenere necessario un ripensamento, almeno rispetto alla formulazione così come prospettata. In primo luogo, la stessa Corte costituzionale, nella più volte richiamata sentenza n. 132/2024, espressamente formula un monito in ordine alla necessità di “vagliare con attenzione” - sostanzialmente negandone la pacifica legittimità, da valutarsi, dunque, in ragione della precipua articolazione di una eventuale disciplina - “la generalizzazione di una misura già prevista per alcune specifiche categorie, ossia l’introduzione di un limite massimo oltre il quale il danno, per ragioni di equità nella ripartizione del rischio, non viene addossato al dipendente pubblico, ma resta a carico dell’amministrazione nel cui interesse esso agisce” (v. punto 11.1 del diritto). L’introduzione generalizzata di un limite massimo, non riferito ad alcune specifiche categorie, né circoscritto temporalmente in ragioni di eccezionali circostanze, non appare agilmente coerente con i principi ribaditi dalla stessa Corte costituzionale, nella suddetta sentenza. Occorre valutare infatti se, quanto ivi chiarito con riferimento all’esclusione temporanea ed eccezionale della responsabilità per colpa grave, possa avere qualche validità anche rispetto a disposizioni normative che ne riducono l’effettività: una così forte limitazione, al pari dell’esclusione della responsabilità, riducendone la finalità risarcitoria e indebolendone anch’essa la funzione deterrente, per essere ritenuta non irragionevole dovrebbe trovare anch’essa una piena e valida giustificazione e, dunque, una applicazione non generalizzata, ma radicata nella particolarità di “uno specifico contesto”.
Immagine: Scudo di Atena Parthenos cd. Stragford Da Atene, Marmo pentelico, III secolo d.C., Londra, British Museum, inv. 1864,0220.18 ©The Trustees of the British Museum.
Sommario: 1. Massima – 2. Il caso oggetto della pronuncia e i principi affermati dalla Cassazione – 3. Il procedimento di modifica del cognome, nel quadro delle nuove regole di attribuzione del cognome ai figli - 4. Cambiamento del cognome del figlio minorenne e contrasto tra i genitori
1. Massima
L'istanza di modifica del cognome di un minore, in caso di disaccordo tra i genitori esercenti la responsabilità genitoriale, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario secondo le disposizioni di cui agli artt. 316, secondo e terzo comma, e 337-ter, terzo comma, c.c. Il giudice è chiamato a valutare l'effettivo interesse del minore e a riconoscere la specifica rappresentanza ad acta ad uno dei genitori per presentare la domanda al Prefetto.
2. Il caso oggetto della pronuncia e i principi affermati dalla Cassazione
Con ricorso ex art. 316, comma 2, e 337-ter, comma 3, c.c., la madre di un minore, affidato in via condivisa a seguito di divorzio, adiva il Tribunale chiedendo l'aggiunta del cognome materno a quello paterno, già attribuito al figlio alla nascita. La ricorrente fondava la propria istanza sulla pronuncia della Corte costituzionale n. 131 del 2022, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’automatismo normativo che prevedeva l’attribuzione esclusiva del cognome paterno al figlio, in difetto di diverso accordo tra i genitori, nonché sul rilevante valore storico-culturale del proprio cognome, discendente da una stirpe citata da Dante nella Divina Commedia.
Il Tribunale aveva in primo gravo rigettato la domanda, ritenendo che, per i figli nati anteriormente alla pronuncia della Consulta, l’attribuzione del doppio cognome non operasse in via automatica. Aveva, inoltre, ritenuto che la domanda dovesse essere indirizzata al Prefetto, ai sensi dell’art. 89 del d.P.R. 396/2000, come sostituito dal d.P.R. 54/2012.
La Corte d’appello, diversamente opinando, accoglieva l’impugnazione, riconoscendo la competenza del giudice ordinario ai sensi dell’art. 316, comma 2, c.c., in caso di disaccordo tra i genitori su decisioni di particolare rilevanza per il figlio e, ritenuto prevalente l’interesse del minore all’aggiunta del cognome materno, disponeva direttamente la modifica dell’atto di nascita.
Il padre proponeva quindi ricorso per cassazione, denunciando il difetto di giurisdizione e la violazione delle norme sulla competenza, sostenendo che la questione avrebbe dovuto essere devoluta alla giurisdizione del Prefetto, e in caso di diniego, eventualmente al giudice amministrativo.
La Corte di Cassazione, con la pronuncia in commento, ha innanzitutto precisato che la domanda formulata nel caso di specie non riguardava l’attribuzione originaria del cognome, ma la successiva modifica dello stesso, per la quale l’art. 89 del d.P.R. n. 396/2000 prevede una procedura amministrativa da promuoversi davanti al Prefetto, risultando dunque incompetente il tribunale adito.
Tuttavia, ha chiarito che tale istanza non possa essere presentata se non sussistendo accordo tra i genitori; di guisa che, in caso di disaccordo sull’opportunità di promuovere tale domanda, è competente il giudice ordinario a decidere ai sensi degli articoli 316, commi 2 e 3, e 337-ter, comma 3, c.c., con riferimento alle scelte di maggiore rilevanza per la vita del minore.
In tale prospettiva, il giudice è chiamato a compiere una valutazione autonoma e sostanziale dell’interesse del minore, tenendo conto del carattere non pretestuoso dell’eventuale dissenso dell’altro genitore, della rilevanza dei motivi sottesi alla richiesta e dell’impatto della modifica sull’identità personale del figlio. Trattasi, in sostanza, di una funzione giurisdizionale distinta rispetto a quella demandata al Prefetto, cui spetterà poi la decisione amministrativa sulla base della domanda eventualmente autorizzata dal giudice.
Ne consegue che l’atto giurisdizionale non può disporre direttamente la modifica del cognome, ma può solo autorizzare il genitore ritenuto più idoneo a presentare, in qualità di rappresentante ad acta, la domanda al Prefetto, ma non certo direttamente disporre la modifica dell’atto di nascita con la modifica del cognome.
Sul piano sostanziale, la Suprema Corte ha comunque confermato la correttezza della valutazione effettuata dal giudice di merito quanto alla prevalenza dell’interesse del minore all’aggiunta del cognome materno, valorizzando elementi quali la storicità del cognome e la mancanza di motivazioni concrete nel rifiuto paterno.
L’analisi della pronuncia della Cassazione, condivisibile nel principio affermato, mette in rilievo la discrasia allo stato esistente tra astratta asserzione del diritto all’identità personale nella sua specifica declinazione di diritto al nome e concreta realizzazione della sua tutela, specie in riferimento all’ipotesi in cui si tratti di un minore e, mancando l’accordo dei genitori, sia necessario – nelle possibili sue differenti declinazioni – l’intervento giudiziale.
In questa prospettiva si tenterà un quadro di sintesi dei differenti profili di intersecazione dell’intervento del giudice ordinario e dell’organo amministrativo, e della partizione delle relative competenze, nel contesto di un quadro di regole e di principi giurisprudenziali non sempre perspicui.
3. Il procedimento di modifica del cognome, nel quadro delle nuove regole di attribuzione del cognome ai figli
È noto che la Corte costituzionale con la sentenza n. 131/2022[1] ha, come da tempo e da più parti auspicato[2], superato il sistema tradizionale di attribuzione del cognome ai figli fondato sulla regola del patronimico, tanto per i figli nati nel matrimonio – in relazione ai quali essa non era espressa, ma desumibile dal sistema[3] – quanto in relazione ai figli nati fuori del matrimonio ove essa era sancita all’art. 262 c.c.
Più volte sollecitata sul punto[4], con la richiamata sentenza la Corte costituzionale, nel concludere per l’illegittimità delle richiamate norme con gli artt. 2, 3 e 29 Cost., ha evidenziato l’intreccio, nella disciplina del cognome, tra il diritto all’identità personale del figlio e il principio di eguaglianza tra genitori, rilevando che la selezione della sola linea parentale paterna “oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre”, cosicché l’automatismo imposto dalla richiamata disposizione reca con sé “il sigillo di una diseguaglianza tra i genitori, che si riverbera e si imprime sulla identità del figlio, così determinando la contestuale violazione degli artt. 2 e 3 Cost.” (ibidem)[5].
A seguito dell’intervento della Corte, dunque, il doppio cognome è divenuto la regola, a meno che i genitori non siano concordi nell’attribuire uno solo dei cognomi, consentendo al figlio di vedere emergere mediante il cognome il legame con le famiglie di entrambi i rami genitoriali; il cognome, infatti, collegando l’individuo alla formazione sociale “che lo accoglie tramite lo status filiationis”, deve “radicarsi nell’identità familiare”. In maniera non pienamente condivisibile, nondimeno, tale ultimo diritto risulta cedevole di fronte alla ammissibile scelta concorde dei genitori circa l’attribuzione di uno solo dei cognomi[6].
Se, dunque, e a differenza dell’assetto definito dalla precedente sentenza della corte cost. 286/2016, il contrasto dei genitori trova rimedio non più nell’attribuzione del patronimico, bensì nell’applicazione automatica del doppio cognome; permane però una possibile fonte di conflitto tra i genitori nella determinazione dell’ordine dei cognomi. È la stessa Corte costituzionale n. 131/22 a fare riferimento all’art. 316 c.c., giusta il quale in caso di contrasto “il giudice, sentiti i genitori e disposto l'ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento, tenta di raggiungere una soluzione concordata e, ove questa non sia possibile, adotta la soluzione che ritiene più adeguata all'interesse del figlio”. Adito dai genitori o da uno solo di essi, dunque, il Tribunale interviene entrando nel merito della determinazione del cognome da attribuire al figlio, con una pronuncia che andrà a valere nei confronti dell’ufficiale di stato civile che dovrà attenervisi.
Naturalmente la rimessione al giudice della decisione – inevitabile, almeno finché non intervenga il legislatore a fissare una regola di risoluzione alternativa – si traduce in un ritardo nella formazione dell’atto di nascita del figlio, sia esso matrimoniale o non matrimoniale, “poiché non si vede come l’ufficiale dello stato civile possa darvi corso fino a quando il giudice non si sia pronunciato al riguardo”[7].
Il mutamento delle regole di attribuzione del cognome non è – lo ha espressamente affermato la sentenza 131/22, ma alcun dubbio vi sarebbe in ogni caso potuto esservi – applicabile ai figli nati prima della sua pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Il che, lo si è osservato, può comportare un trattamento differenziato anche tra fratelli (germani), conducendo ad un trattamento, tra l’altro, suscettibile di ledere l’identità personale anche in senso per così dire orizzontale, obliterando cioè l’identificazione dei fratelli come appartenenti al medesimo nucleo familiare mediante la unitaria identificazione data dall’uso dello stesso cognome, superabile solo mediante la richiesta di modifica.
La sentenza in commento - pur pronunciatasi in riferimento ad una richiesta di modifica del cognome del figlio minorenne, motivata non già dalle prefigurate esigenze di uniformizzazione dei cognomi, bensì dall’interesse del figlio di far emergere il legame con la madre – si inserisce nell’anzidescritto imprescindibile quadro di epocali cambiamenti.
Essa, infatti, vi attinge allorché conferma la decisione della corte d’appello resa ex art. 316-337 ter c.c. recante l’autorizzazione all’aggiunta del cognome materno, ritenendola ben motivata e conforme al “diritto vivente”. Si legge infatti: “In proposito, va osservato che la decisione della Corte di appello è chiaramente e diffusamente motivata, mediante il raffronto tra le ragioni esposte dalla madre, le circostanze dedotte come pregiudizievoli o ostative dal padre, raffronto maturato nel concreto ed esclusivo interesse del minore, e si colloca su un versante conforme ai principi elaborati dalla Corte Costituzionale in tema di doppio cognome e agli orientamenti di questa Corte, giacché ha riconosciuto l'apprezzabilità e la fondatezza della richiesta materna a cui ha dato la netta prevalenza, osservando che: i) il rifiuto paterno appariva emulativo (avendo, peraltro, egli prestato il proprio assenso al doppio cognome, prima della nascita del figlio salvo cambiare idea dopo la nascita); ii) non vi erano ragioni oggettive ed esplicitate; iii) il cognome materno, come non contestato, apparteneva alla famiglia dal tempo di Dante, che la aveva citata nel discorso di Cacciaguida, si connotava per rilievo storico e culturale e sarebbe stato destinato, altrimenti, a scomparire (fol. 5, decr. imp.)”.
Sotto diverso profilo, la Corte di cassazione ribadisce la rigida bipartizione tra il sistema di attribuzione del cognome al momento della nascita e i casi invece in cui si chieda la sua modifica. Viene in altri termini confermata la competenza esclusiva del prefetto in relazione alle richieste di mutamento del cognome dei figli successivi alla formazione dell’atto di nascita (e non dipendenti dal mutamento dello status filiationis), di cui al procedimento ex art. 89 d.p.r. 396/2000, che demanda all’organo amministrativo un potere valutativo, id est “un potere di natura discrezionale, che si esercita bilanciando l'interesse dell'istante (da circostanziare esprimendo le "ragioni a fondamento della richiesta"), con l'interesse pubblico alla stabilità degli elementi identificativi della persona, collegato ai profili pubblicistici del cognome stesso come mezzo di identificazione dell'individuo nella comunità sociale", rispetto alla quale "la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che la posizione giuridica del soggetto richiedente il cambio di cognome abbia natura di interesse legittimo, e che la P.A. disponga del potere discrezionale in merito all'accoglimento o meno dell'istanza (cfr. tra le tante, Cons. Stato, Sez. III, 26-09-2019, n. 6462), tenuto conto che - a fronte dell'interesse soggettivo della persona, spesso di carattere "morale" - esiste anche un rilevante interesse pubblico alla sua 'stabile identificazione nel corso del tempo' (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 15 ottobre 2013, n. 5021; Sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2320; Sez. IV, 27 aprile 2004, n. 2752)” [8].
Ora, in relazione partitamente all’ipotesi in cui l’istanza (a) si fondi sul diritto all’identità personale/familiare del figlio, (b) provenga dai genitori congiuntamente o dal figlio stesso maggiorenne e (c) sia diretta all’aggiunta del cognome materno/paterno e/o alla sostituzione del cognome del figlio attribuito alla nascita con quello dell’altro genitore, non è prevista alcuna previa valutazione da parte del tribunale ordinario, risultando esclusivamente competente l’autorità amministrativa. Nel merito, poi, dovrebbe essere invero piuttosto remoto – ed anche tenuto conto della minore età dell’interessato – che possa opporsi un motivato diniego alla richiesta, prevalendo di norma invece l’interesse del figlio ad acquisire il cognome di entrambi i genitori[9].
In tal senso, l’intervento dell’autorità governativa opera a ben vedere in maniera complementare rispetto alla pronuncia della Corte cost. n. 131/22, consentendo un facile - sebbene non immediato e tantomeno automatico - adeguamento delle situazioni pregresse alla nuova regola del doppio cognome.
Ma più in generale, in relazione alle richieste di modifica del cognome che abbiano ad oggetto la “mera” aggiunta del cognome – il più delle volte materno – ovvero la sostituzione del cognome paterno con quello materno (così come, eventualmente, l’inverso), il margine di discrezionalità della p.a. risulta piuttosto circoscritto; deve aversi riguardo infatti al cambio di passo dettato dalla sentenza 8422/2023 del Consiglio di Stato, che ha censurato la carenza di motivazione del provvedimento con cui il prefetto – senza addurre specifiche esigenze di interesse pubblico – aveva respinto la richiesta di modifica del cognome avanzata da una figlia che, volendo recidere ogni rapporto formale con un padre da sempre assente e inadempiente ai propri doveri, aveva chiesto di portare il solo cognome della madre. Tale arresto ha in sostanza attuato una sorta di inversione dell’onere della prova, fondata sul rilievo giusta il quale “rispetto al figlio, insomma, i cognomi genitoriali sono a priori dotati di valenza identitaria, e la conservano in potenza. Il che significa che quando l’istanza di modifica resta in quel perimetro (nel senso che al cognome ereditato da un genitore si chiede di aggiungere o sostituire l’altro) non spetta al cittadino convincere l’amministrazione della bontà delle ragioni identitarie allegate alla domanda. È piuttosto l’amministrazione a dover evidenziare ‘‘specifiche ragioni di interesse pubblico ostative all’accoglimento dell’istanza’’ [10]. Trattasi di un principio affermato con riguardo al caso di richiesta effettuata dalla figlia in persona, ma senza dubbio applicabile anche allorché la richiesta provenga dai genitori.
Risultano pertanto sfumati i confini qualificatori tra diritto soggettivo ed interesse legittimo; ulteriormente assottigliati, sul piano pratico, dal riconoscimento anche nella giurisprudenza amministrativa della eccezionalità del diniego a fronte della esigenza di tutelare il diritto identitario del figlio.
4. Cambiamento del cognome del figlio minorenne e contrasto tra i genitori
Se questo è il quadro di riferimento, appare ineccepibile la statuizione della cassazione che ha ribadito come la competenza circa il mutamento del cognome spetti all’autorità amministrativa, anche allorché i genitori esercenti la responsabilità, non concordando in ordine all’istanza, previamente si rivolgano al t.o. per dirimere il conflitto.
In tali fattispecie, piuttosto, il disaccordo dei genitori impone di superare il difetto di legittimazione del genitore in ordine al compimento di un atto civile che richiede, ai sensi dell’art. 320 c.c. l’accordo[11], in mancanza del quale occorre una pronuncia autorizzativa resa ai sensi dell’art. 316-337 ter c.c. Sul piano procedimentale, è da segnalare l’intervenuta modifica dell’art. 316 c.c., cosicché ad oggi, inutilmente esperito il tentativo di conciliazione, il giudice non si limita ad indicare il genitore legittimato ad assumere la decisione, come in passato, bensì egli stesso assume la decisione che ritiene più adeguata nell’interesse del figlio. La norma ha dunque attuato l’uniformazione delle modalità di composizione del contrasto tra i genitori non in crisi indicate dall’art. 337 ter comma 3 c.c. per quelli in crisi, conferendo al giudice un potere di intervento e decisionale senz’altro idoneo ad accelerare e semplificare l’impasse decisionale, ma nel contempo (forse troppo) compressivo dell’autonomia dei genitori[12]. Infatti,
Appuntando l’attenzione, almeno per sommi capi, sul merito della decisione, il t.o. dovrà valutare se l’atto compiendo sia o meno conforme all’interesse del minore, anche ascoltando il minore se ultradodicenne e/o capace di discernimento. In linea di principio, l’identità del minore sarà meglio preservata dal doppio cognome, di guisa che la richiesta di aggiunta del cognome sarà sempre da accordare; parimenti potrà ritenersi tale quella di sostituire il cognome materno a quello paterno, almeno ogniqualvolta prevalga l’esigenza di recidere il legame con un genitore che abbia tenuto comportamenti pregiudizievoli per il figlio. In tale ultimo caso il vaglio dovrà essere particolarmente attento, proprio in considerazione del fatto che la richiesta proviene dall’altro genitore e non direttamente dal figlio. Si coglie in tale profilo tutta la delicatezza della materia, che giustifica dunque l’intervento del giudice (quello ordinario) deputato ad apprezzare funditus l’interesse del minore, nel contraddittorio delle parti e se necessario ascoltando il minore, nonché giudice deputato a riconoscere il genitore la specifica “rappresentanza ad acta”.
Appaiono pertanto in sintesi condividibili i passaggi della sentenza in commento ove si legge: “Va rimarcato, in proposito, il diverso spessore della cognizione del giudice ordinario, sempre tenuto a valutare la rispondenza del mancato consenso del genitore all'interesse del minore e il carattere non pretestuoso del diniego del consenso, nonché la concreta compatibilità di quanto richiesto (nel caso di specie, la modifica del cognome) con l'interesse del minore stesso” Rammenta la pronuncia altresì che “una tale attività di ponderazione postula comunque un'istruttoria condotta nel pieno rispetto dei principi del contraddittorio, di proporzionalità, di non automatismo della decisione; si tratta, quindi di un procedimento e di una valutazione ben diversa da quella che, una volta presentata la domanda a seguito di autorizzazione del giudice ordinario, competerà al Prefetto ai sensi della normativa sullo stato civile”.
Tali considerazioni, peraltro, rievocano alcuni passaggi di una recente sentenza del Consiglio di stato[13], che pronunciandosi in relazione alla modifica del cognome del figlio minore a seguito del secondo riconoscimento non contestuale, ha affermato che la competenza esclusiva in capo al t.m. – a discapito dell’autorità amministrativa – trova radice nella esigenza di attuazione dell'interesse della minore “a vedere accolta la domanda di cambiamento del cognome impone di ritenere che l'istanza debba presentarsi al Tribunale per i minorenni, ai sensi dell'articolo 262 c.c., nel contesto di un procedimento che garantisce la tutela dei precipui e prevalenti interessi della minore”.
Sempre che, ça va sans dire, uno dei genitori non sia decaduto dalla responsabilità genitoriale, o ne sia stato limitato nell’esercizio; in tal caso infatti è ex lege legittimato il solo genitore esercente la responsabilità e non verrà affatto in considerazione la previa valutazione del tribunale ordinario, nell’ambito dell’istanza di autorizzazione, della corrispondenza del mutamento del cognome (così come eventualmente della sua aggiunta) all’interesse del minore, che è tenuto a valutare in via diretta ed esclusiva l’istanza. In tale caso, si ritiene, la valutazione dell’organo amministrativo dovrà dunque essere condotta ponderando attentamente le ragioni addotte a fondamento, in maniera senz’altro più pregnante rispetto al caso in cui tale valutazione sia già stata condotta dal tribunale o, e a fortiori, se l’istanza sia presentata con volontà convergente da entrambi i genitori.
Fermo restando da un lato, dunque, la competenza esclusiva del prefetto in ordine al mutamento del cognome per cause diverse dallo status filiationis, e dall’altro lato la necessità, ogniqualvolta il cambiamento riguardi il minore di accertare compiutamente e in concreto se tale cambiamento corrisponda al suo interesse, non vi è chi non veda come necessariamente allo stato in caso di disaccordo dei genitori non possa superarsi alla bisafisicità della procedura, che rischia però di tradursi in una (irragionevole) duplicazione, se si ammette, come parrebbe inevitabile, che il prefetto non possa fare altro che recepire, appiattendovisi, sulle decisioni del t.o. L’affievolimento della discrezionalità amministrativa di cui si è detto in precedenza in relazione alle ipotesi in cui contrasto non vi sia, si presenta con caratteri più marcati nel caso in cui la valutazione del merito del mutamento, anche con riferimento alla corrispondenza dello stesso all’interesse del minore, sia stata effettuata dal tribunale ordinario.
Il che peraltro appare invero in linea con i tracciati percorsi della giurisprudenza amministrativa, in relazione ai quali un attento studioso ha evidenziato come il diritto al nome e il diritto all’identità personale con riferimento al figlio si estrinsecano in una ben precisa maniera, ovvero come “diritto a portare un cognome che, scelto tra le quattro opzioni possibili secondo la Corte costituzionale (doppio cognome col paterno in testa; doppio cognome col materno in testa; mono-cognome materno o mono-cognome paterno), sia il più rispondente alla rappresentazione identitaria di colui che lo deve portare”, di guisa che “in potenza, ciascuna delle quattro opzioni è lecita; e nessuna cessa di esserlo solo perché è stata scartata alla nascita”.
E se si tratta di un diritto - attuato mediante la scelta incondizionata spettante ai genitori, rappresentanti del minore – esso rimane tale anche dopo la nascita, non potendo degradare ad interesse legittimo, almeno allorché la domanda di modifica rimanga all’interno delle predette quattro opzioni[14].
Vista in questa prospettiva la sentenza della Cassazione in commento, seppur corretta, mette in evidenza un formalismo eccessivo del sistema, impostato su un dualismo di intervento che sarebbe forse tempo di superare, con l’occasione dell’auspicato intervento generale (e non oltre rimandabile) del legislatore in materia.
[1] Corte cost. 31 maggio 2022, n. 131, in Fam. e dir., 2022, 871, con nota di Sesta, Le nuove regole di attribuzione del doppio cognome tra eguaglianza dei genitori e tutela dell’identità del figlio, di Al Mureden, Cognome e identità personale
nella complessità dei rapporti familiari, e di Calvigioni, La nuova disciplina del cognome: il ruolo dell’ufficiale dello stato civile; in Giur. it., 2002, 2335, con nota di Diurni, La competizione tra valori identitari nell’attribuzione del cognome alla nascita, e di Sirgiovanni, Una pronuncia storica: l’attribuzione al figlio del cognome di entrambi i genitori (salvo diverso accordo); in Foro It., 2022, 1, 7-8, 2233; Nuova Giur. Civ., 2022, 5, 958.
[2] Cfr. Corte cost. 11 febbraio 1988, n. 176, in Dir. fam. pers., 1988, 670; Corte cost. 19 maggio 1988, n. 586, in Dir. fam. pers., 1988, 1576; Corte cost. 16 febbraio 2006, n. 61, in Familia, 2006, 931, con nota di Bugetti. In dottrina, ex plurimis, De Cicco, Cognome e principi costituzionali, in Sesta - Cuffaro (a cura di), Persona, famiglia e successioni, Napoli, 2005, 209 ss.; Gatto, Cognome del figlio riconosciuto, in M. Bianca (a cura di), Filiazione, Milano, 2014, 34; Bugetti, Riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio. Dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità, in Comm. Scialoja-Branca-Galgano, a cura di De Nova, Bologna, 2020, 245 ss.
[3] A differenza di quanto accade nell'ambito della filiazione legittima, l'attribuzione del cognome al figlio naturale è espressamente regolata all'art. 262 c.c., il quale dispone che, in caso di contemporaneo riconoscimento da parte di entrambi i genitori, è attribuito il cognome del padre; diversamente, il cognome del genitore che per primo lo riconosce. Il secondo comma della norma richiamata statuisce invece che, se la filiazione nei confronti del padre viene riconosciuta o accertata successivamente, il figlio assume il cognome paterno ovvero lo aggiunge a quello materno. La decisione circa l'aggiunta o la sostituzione del cognome, spetta, se il figlio è infrasedicenne, al giudice, viceversa a quest'ultimo. A seguito dell'intervento della Corte costituzionale (Corte cost. 23 luglio 1996, n. 297, in Giust. civ., 1996, 2475, che ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 262 nella parte in cui non prevede che il figlio naturale, nell'assumere il cognome del genitore che lo ha riconosciuto, possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere, anteponendolo o, a sua scelta, aggiungendolo a questo, il cognome precedentemente attribuitogli con atto formalmente legittimo, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale), anche il figlio che sia stato riconosciuto successivamente, ha il diritto di mantenere il cognome originariamente attribuitogli dall'ufficiale di stato civile, ove questo sia divenuto segno identificativo della persona.
[4] Calviglioni, La nuova disciplina del cognome: il ruolo dell’ufficiale dello stato civile, in Fam. e dir., 2022, p. 891. Con la sentenza n. 286 del 2016, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della normativa che imponeva, in via automatica, l’attribuzione del solo cognome paterno al figlio, anche in presenza di un accordo tra i genitori per l’aggiunta di quello materno. Tale pronuncia si colloca nel solco della giurisprudenza della Corte EDU (Cusan e Fazio c. Italia, 7 gennaio 2014, ric. n. 77/07), che aveva ravvisato la violazione degli artt. 8 e 14 CEDU. La Consulta ha censurato l’art. 262, comma 1, c.c., nella parte in cui non consentiva l’attribuzione anche del cognome materno in caso di riconoscimento contestuale da parte di entrambi i genitori. Tuttavia, l’intervento si è limitato a riconoscere la possibilità di aggiunta solo in presenza di un accordo tra i genitori, lasciando irrisolti i casi di disaccordo, nei quali continuava a operare l’automatismo del patronimico. Inoltre, la sentenza non ha attribuito ai genitori né la facoltà di scegliere l’ordine dei cognomi, né quella di attribuire al figlio il solo cognome materno. Pertanto, pur rappresentando un significativo passo verso l’uguaglianza genitoriale, la decisione non ha superato l’asimmetria strutturale del sistema, che permaneva in assenza di accordo.
[5] Cfr. Sesta, Le nuove regole di attribuzione del doppio cognome tra eguaglianza dei genitori e tutela dell’identità del figlio, cit., 880: “A bene vedere, infatti, in forza della regola enunciata dalla sentenza, i genitori sono riconosciuti arbitri della decisione di imporre al figlio il cognome di entrambi oppure quello dell’uno o dell’altro, senza che - in tale ultima ipotesi - sia previsto alcun tipo di apprezzamento e di sindacato dell’interesse del minore, che passivamente subisce una scelta comportante la perdita del cognome di uno dei rami familiari.”
[6] Sesta, op. cit., 881.
[7] Sesta, op. loc. cit.; Calvigioni, op. cit., 895.
[8] Cfr. Consiglio di Stato, Sezione III, 19 settembre 2023, n. 8422 e i richiami giurisprudenziali ivi operati, anche con riguardo ai precedenti della Corte Costituzionale. Si rimanda alla disamina di Musolino, Il cognome dei figli. Istanze pubbliche, unità familiare ed eguaglianza sostanziale dei coniugi, elementi negoziali nel rapporto fra padre e madre, in Riv. not., 2023, 35 ss.
[9] Già prima della 131/22 cfr. Tar Lazio Roma, 26 novembre 2018, n. 11410, che ha statuito come la richiesta del cambiamento di cognome, in ipotesi di soggetto minorenne, deve necessariamente provenire dai soggetti che ne hanno la rappresentanza legale, quindi, nel caso di specie dagli esercenti la potestà genitoriale. Solo nel caso in cui vi sia accordo tra i medesimi deve senza dubbio essere riconosciuta la possibilità di trasmettere ai figli, e quindi, di aggiungere al cognome paterno, anche il cognome materno.
[10] Olivero, Il Consiglio di Stato e la modifica del cognome tra interesse legittimo e diritto soggettivo, in Giur. it. 2024, 1047.
[11] T.A.R. Emilia-Romagna Parma, 6 maggio 2022, n. 115 che ha stabilito che il Prefetto non ha il potere di modificare il cognome del minore, sull'istanza di uno dei due genitori, in assenza di accordo e, anzi, in presenza del dissenso dell'altro genitore. La richiesta di modifica del cognome del figlio minore, integrando un "atto civile", può essere presentata, allora, dai genitori solo nell'esercizio della rappresentanza legale che trova la sua fonte e disciplina nell'art. 320 c.c., di guisa che deve ritenersi a tal fine imprescindibile il consenso di entrambi i genitori, fatto salvo solo il caso in cui uno di essi sia stato privato della potestà genitoriale. Cfr. anche T.A.R. Friuli-V. Giulia Trieste, 7 marzo 2019, n. 105 che ha ribadito come il Prefetto non ha il potere di modificare il cognome del minore, sull'istanza di uno dei due genitori, in assenza di accordo e, anzi, in presenza del dissenso dell'altro genitore. Infatti, in tal caso il Prefetto deve, preso atto del dissenso, sospendere ogni determinazione in merito, in attesa delle decisioni del giudice ex art. 316 c.c., cui la madre (ma anche il padre) può ricorrere per integrare questo indefettibile presupposto del procedimento amministrativo.
[12] Sesta, La riforma e il diritto di famiglia. la prospettiva paidocentrica dal diritto sostanziale al diritto processuale, in Fam. e dir., 2023, 1054; De Cristofaro, Le modificazioni apportate al codice civile dal decreto legislativo attuativo della “Legge Cartabia” (D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149). Profili problematici delle novità introdotte nella disciplina delle relazioni familiari, in Nuove leggi civ. comm.,
[13] Cons. di stato, 8 luglio 2024, n. 6000.
[14] Olivero, op. cit. 1049: “La discrezionalità dell’amministrazione, dunque, continuerà a operare solo al di fuori di quel perimetro; mentre al suo interno dovrà contenersi entro gli stretti margini di un controllo atto a evitare abusi del diritto, che si traducano, ad esempio, in richieste compulsive di variazioni, indizio di una volontà non assennata o non seria”.
Immagine: Edouard Manet, La famiglia Monet nel giardino di Argenteuil, 1874, olio su tela, cm 61 x 99, MET, New York.
Quando si parla di aggressività ci si riferisce quasi sempre a fantasie o comportamenti violenti verso sé stessi o verso gli altri. La valenza semantica del termine è certamente complessa se è vero che adgredi ha tra i suoi significati anche quello di “andare verso gli altri” in senso positivo.
Dunque l’aggressività potrebbe essere rappresentata come una sorta di Giano bifronte: una faccia distruttiva, l’altra costruttiva.
Quando assistiamo a delitti efferati e alle peggiori spettacolarizzazioni di essi, viene da pensare che forse è davvero presente nell’uomo come sua caratteristica strutturale, come oscura tendenza innata quella crudele aggressività che rivela in lui “una bestia selvaggia alla quale è estraneo il rispetto della propria specie”.
Tutti gli eventi in cui si manifesta la distruttività, lo spirito di Thanatos, sembrano perciò smentire l’idea dell’uomo animale politico di matrice aristotelica o la teoria dei giusnaturalisti i quali discettavano sull’istinto alla benevolenza, l’amore naturale che porterebbe gli uomini a interagire nella collettività anche senza esservi spinti dall’interesse o dalla paura.
In tutta l’opera di Hobbes proprio queste due componenti strutturali dell’essere umano garantiscono la nascita dello stato e delle sue leggi necessariamente restrittive delle libertà individuali. I due aspetti dell’aggressività sono presenti nelle analisi dei filosofi, nella psicologia del profondo, nella psicologia sociale. E se risulta oltremodo difficile la possibilità di conciliare le opposte tendenze, vale comunque la pena di interrogarci un po'.
È possibile come afferma Jung che le reazioni violente nascano per compensazione, ossia mediante l’aggressività la persona reagisce ad un sentimento profondo di inferiorità? Mi è capitato spesso di notare nei giovani forme di ostilità apparentemente inspiegabili.
Un giorno, fuori dal cancello della scuola nella quale insegnavo, ho assistito ad una scena orribile, ho visto negli occhi di quei due ragazzi una rabbia sorda, ho sentito le loro parole, l’esplosione violenta attraverso i pugni della loro aggressività. E quando con l’aiuto di alcuni compagni furono separati e io chiesi il motivo dello scontro, esso era di una banalità e futilità agghiaccianti: si ammazzavano di botte per un telefonino. In realtà erano due personalità deboli che si scontravano per prevalere, ciascuna per farsi riconoscere dall’altra come vincente e perciò come la più forte.
E che dire delle risse in Parlamento quando, esauriti gli strumenti del dialogo razionale, i nostri rappresentanti si esibiscono in turpiloqui e si attaccano pure fisicamente in quello spazio ristretto trasformato in un ring? Provocazioni, parolacce, insulti nel luogo istituzionale per eccellenza. Sui temi più svariati si esercita la guerriglia parlamentare. Si raggiunge spesso l’acme della schermaglia quando si discute della Giustizia che dovrebbe essere trattata come il fondamento dello stato di diritto da uomini pacati veramente al servizio della “Nazione”. Sicuramente con la pulsione distruttiva bisogna fare i conti. Freud parla di ostilità primaria degli uomini tra loro (l’homo homini lupus di hobsiana memoria), perciò la società incivilita è continuamente minacciata di distruzione. La civiltà intanto esiste, in quanto ognuno è in grado di dominare e in gran parte di reprimere i propri istinti. In questo senso la storia dell’uomo è la storia della “sua” repressione. Ovvero della rinuncia a Thanatos in nome di Eros.
La nostra difficoltà, oggi più che mai, è quella di costruire una società che non sia autodistruttiva. Tutto intorno grida, trasuda violenza: il ragazzo in guerra che stringe il suo fucile, il giovane occidentale che rapina il supermercato per comprarsi quello che c’è dentro, la donna-bambina brutalizzata ad ogni latitudine, le leggi massacrate dall’interesse particolare.
C’è chi spiega tutto ciò individuandone le cause nel deficit di valori o comunque nell’inadeguatezza di norme idonee a regolamentare i comportamenti individuali. E chi insiste, specie per quel che riguarda i giovani, nel considerare l’aggressività espressione per eccellenza della trasgressione orientata a contestare le norme vigenti o comunque a rivelarne l’insufficienza. Nel secolo passato, il Novecento breve dalle mille facce, non si contano gli intellettuali che hanno teorizzato il valore morale della violenza e di queste cattive ideologie si sono nutriti per lo più i conservatori in politica e gli opportunisti nell’etica con risultati disastrosi in entrambi gli ambiti.
Ci sono stati grandi uomini, primo fra tutti Gesù Cristo, che hanno sognato di eliminare le cause sociali che producono nell’uomo i comportamenti aggressivi: le disuguaglianze, i soprusi, le ingiustizie.
Ci sono stati e ci sono altri uomini che si impegnano, al contrario, per mantenere lo stato potenziale di belligeranza, per impedire la vittoria di Eros e purtroppo sono potenti non perché abbiano più forza nel cuore, ma perché possiedono in pochi quello che dovrebbe essere diviso fra tutti.
Siamo entrati pienamente nel secolo delle oligarchie chiuse, giustificate, esaltate, addirittura sacralizzate. Quid non mortalia pectora cogis auri sacra fames? (Quintiliano, Istituzione Oratoria, IX, 3)
Riteniamo utile pubblicare il documento approvato ieri dal Consiglio direttivo dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, sul Pacchetto sicurezza. Già il 3 ottobre 2024 Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria. l’Associazione si era pronunciata sul disegno di legge n. A.S. 1236 recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”. L’Associazione conferma la critica “al ricorso al diritto penale in chiave simbolica di rafforzamento della sicurezza pubblica”. A detta critica aggiunge quella rivolta al ricorso alla decretazione d’urgenza in assenza dei requisiti costituzionali. «Il decreto-legge viene così impropriamente utilizzato come un disegno di legge ad effetto immediato, creando un precedente che potrebbe alimentare una prassi che svilisce il ruolo del Parlamento», si legge nel documento che richiama alcuni passaggi della sentenza della Corte costituzionale sent. n. 146/2024 e illustra le ragioni per cui il ricorso al decreto-legge, in assenza di requisiti di cui all’art. 77 Cost., incide negativamente sulla democrazia parlamentare ed esclude dal dibattito le minoranze politiche. È stato trasporto nel decreto-legge, recepite i sei rilievi del Presidente della Repubblica con modifiche invero assai marginali, il contenuto del disegno di legge n. A.S. 1236, Sono quattordici in nuovi reati che introducono criminalizzazioni di condotte espressive di marginalità sociale o di forme di manifestazione del dissenso »La politica sembra preferire il diritto penale “a costo zero”, rinunciando a promuovere investimenti che – essi sì nel rispetto dei principi costituzionali! – potrebbero realmente migliorare il benessere sociale, anche sotto il profilo delle condizioni della sicurezza collettiva.» I professori mettono in guardia dalle ricadute sulla efficienza della giustizia penale in termini di aumento dei procedimenti e “possibili effetti negativi sulla durata complessiva dei processi”. Mettono in guardia altresì dal conseguente “aumento della popolazione detenuta”, e ciò a fronte di sovraffollamento carcerario segnato dall’incessante, tragico, numero record dei suicidi in carcere. Il documento si conclude con l’auspicio che «in sede di conversione in legge del decreto, possano essere apportare modifiche volte a ridurre, quanto meno, i più evidenti profili di contrasto con i principi fondamentali del sistema penale» e rassegna la disponibilità immediata a prestare la propria collaborazione nelle sedi istituzionali.
SUL “PACCHETTO SICUREZZA” VARATO CON DECRETO-LEGGE
Il Consiglio direttivo dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, nel richiamare il proprio documento del 3 ottobre 2024 sul disegno di legge n. A.S. 1236 (“Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”), ribadisce la seria e oggi concreta preoccupazione per un così vasto intervento espressione di un ricorso al diritto penale in chiave simbolica di rafforzamento della sicurezza pubblica, per di più realizzato con lo strumento della decretazione d’urgenza. Le opportune modifiche rispetto alla versione originaria del “pacchetto sicurezza”, tese a diminuire la torsione repressiva dell’intervento, appaiono nel complesso marginali e non ne modificano l’impianto complessivo. Vengono infatti introdotti, con decreto-legge, almeno quattordici nuove fattispecie incriminatrici e inasprite le pene di almeno altri nove reati. Le condotte oggetto di criminalizzazione appaiono, nella quasi totalità dei casi, espressive di marginalità sociale o di forme di manifestazione del dissenso, con interventi che – come già illustrato nel precedente comunicato della nostra Associazione – risultano per diversi profili di dubbia compatibilità con svariati principi costituzionali, compresi quelli di necessaria offensività, sussidiarietà e proporzione. Emblematica in tal senso è la pena per l’occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui (da due a sette anni di reclusione), coincidente con quella comminata dall’art. 589, co. 2, c.p. per l’omicidio con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. Con altrettanta preoccupazione registriamo oggi l’anomalo ricorso alla decretazione d’urgenza in materia penale per trasferire in un decreto-legge un intero disegno di legge presentato oltre un anno fa e al cui esame sono state dedicate un centinaio di sedute tra Camera e Senato, con l’audizione di numerosi professori ed esperti. Il decreto-legge viene così impropriamente utilizzato come un disegno di legge ad effetto immediato, creando un precedente che potrebbe alimentare una prassi che svilisce il ruolo del Parlamento. Con le parole usate in una recente sentenza dalla Corte costituzionale (sent. n. 146/2024, Pres. Barbera, Rel. Pitruzzella), ricordiamo che – anche al di fuori della materia penale – il ricorso alla decretazione d’urgenza è soggetto a limiti «fissati allo scopo di non vanificare la funzione legislativa del Parlamento». Non si può in alcun modo giustificare «lo svuotamento del ruolo politico e legislativo del Parlamento, che resta la sede della rappresentanza della Nazione (art. 67 Cost.), in cui le minoranze politiche possono esprimere e promuovere le loro posizioni in un dibattito trasparente (art. 64, secondo comma, Cost.), sotto il controllo dell’opinione pubblica». È sempre la Corte costituzionale a ricordare, da ultimo, nella sua recente sentenza che «l’ampia autonomia politica del Governo nel ricorrere al decreto-legge non equivale, tuttavia, all’assenza di limiti costituzionali. L’adozione del decreto-legge è prevista “come ipotesi eccezionale, subordinata al rispetto di condizioni precise” principi normativi e di regole giuridiche indisponibili da parte della maggioranza, a garanzia della opzione costituzionale per la democrazia parlamentare e della tutela delle minoranze politiche». Nel caso di specie, considerato che il pacchetto sicurezza è stato presentato oltre un anno fa con un disegno di legge di iniziativa governativa – e non già come decreto-legge – appare quanto meno dubitabile che siano sopravvenute effettive ragioni di necessità e urgenza in relazione a tutte le eterogenee disposizioni contenute nella quarantina di articoli del provvedimento. Ciò apre la strada a possibili questioni di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 77 Cost. Non possiamo poi fare a meno di rammentare che, nello specifico della materia penale, la riserva di legge sancita dall’art. 25, co. 2 Cost. impone un ricorso ancora più limitato alla decretazione d’urgenza. Le disposizioni penali introdotte (mai così numerose, a nostra memoria, in un solo decreto-legge) entrano immediatamente in vigore, senza un periodo di vacatio che ne consenta la previa conoscibilità, come imposto dal principio di colpevolezza (art. 27, co. 1 e 3, Cost.). Inoltre, prima ancora della conversione in legge, tali disposizioni possono produrre effetti irreversibili sulla libertà personale: si pensi, ad esempio, all’arresto eseguito in forza di una disposizione del decreto sicurezza che, in sede di conversione, dovesse essere abrogata o modificata in senso tale da non consentire più l’arresto. Pensare di garantire la sicurezza dei cittadini facendo esclusivo affidamento sul diritto penale è, d’altra parte, illusorio. Come confermano studi scientifici condotti a livello nazionale e internazionale, la creazione di nuovi reati o l’inasprimento delle pene non può garantire di per sé migliori livelli di sicurezza per i cittadini, né risolvere le cause – economiche, sociali, culturali – alla base delle forme di criminalità che si intendono contrastare. È rimasta purtroppo inascoltata, ancora una volta, la lezione di Cesare Beccaria, che così scriveva 260 anni fa nel suo “Dei delitti e delle pene”: «il proibire una moltitudine di azioni…non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma…è un crearne di nuovi… e il più sicuro ma il più difficil mezzo di prevenire i delitti è il perfezionare l’educazione». Più che nuovi reati, Beccaria, padre dell’illuminismo italiano ed europeo, indicava come «mezzi efficaci» per assicurare la «tranquillità pubblica» e prevenire i delitti «la notte illuminata a pubbliche spese [e] le guardie distribuite ne’ differenti quartieri della città». Gli investimenti per la sicurezza pubblica, pur non assenti nel “pacchetto sicurezza”, hanno purtroppo un peso marginale nel contesto del decreto-legge. Ancora una volta la politica sembra preferire il diritto penale “a costo zero”, rinunciando a promuovere investimenti che – essi sì nel rispetto dei principi costituzionali! – potrebbero realmente migliorare il benessere sociale, anche sotto il profilo delle condizioni della sicurezza collettiva. Viceversa, in assenza di interventi strutturali, la suggestiva quanto vaga nozione di “sicurezza pubblica”, rischia di rimanere una formula vuota e priva di riscontri concreti, come già reso palese da precedenti esperienze legislative e, proprio, da altri “decreti sicurezza”. Sono, altresì, facilmente intuibili le ricadute sulla efficienza della giustizia penale. Introdurre nuovi reati e inasprire le pene per quelli esistenti comporterà un aumento dei procedimenti, con possibili effetti negativi sulla durata complessiva dei processi. A ciò si aggiunga un probabile aumento della popolazione detenuta, senza che il provvedimento d’urgenza – che interessa anche la materia penitenziaria – introduca misure per fronteggiare le (reali) emergenze del sovraffollamento carcerario e dell’incessante, tragico, numero record dei suicidi in carcere, già denunciato dalla nostra Associazione con un comunicato alla fine dell’anno scorso. Il carcere, inoltre, rischia di aprire con maggiore frequenza le sue porte alle donne incinte o madri di figli di età inferiore a tre anni, anche in ragione del limitato numero degli ICAM - Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (attualmente solo quattro in tutta Italia), dei quali non si prevede l’incremento.
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Nel sottolineare e ribadire le ragioni della propria preoccupazione, l’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale auspica che, in sede di conversione in legge del decreto, possano essere apportare modifiche volte a ridurre, quanto meno, i più evidenti profili di contrasto con i principi fondamentali del sistema penale. A tal fine, l’Associazione, rappresentativa di oltre duecento professori di diritto penale, si rende disponibile sin d’ora a prestare la propria collaborazione nelle sedi istituzionali.
9 aprile 2025
Il Consiglio Direttivo
Prof. Gian Luigi Gatta (Presidente)
Prof. Vincenzo Mongillo (Vice Presidente)
Prof. Gian Paolo Demuro
Prof. Stefano Fiore
Prof. Dèsirèe Fondaroli
Prof. Carlo Longobardo
Prof. Domenico Notaro
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