Quando si parla di aggressività ci si riferisce quasi sempre a fantasie o comportamenti violenti verso sé stessi o verso gli altri. La valenza semantica del termine è certamente complessa se è vero che adgredi ha tra i suoi significati anche quello di “andare verso gli altri” in senso positivo.
Dunque l’aggressività potrebbe essere rappresentata come una sorta di Giano bifronte: una faccia distruttiva, l’altra costruttiva.
Quando assistiamo a delitti efferati e alle peggiori spettacolarizzazioni di essi, viene da pensare che forse è davvero presente nell’uomo come sua caratteristica strutturale, come oscura tendenza innata quella crudele aggressività che rivela in lui “una bestia selvaggia alla quale è estraneo il rispetto della propria specie”.
Tutti gli eventi in cui si manifesta la distruttività, lo spirito di Thanatos, sembrano perciò smentire l’idea dell’uomo animale politico di matrice aristotelica o la teoria dei giusnaturalisti i quali discettavano sull’istinto alla benevolenza, l’amore naturale che porterebbe gli uomini a interagire nella collettività anche senza esservi spinti dall’interesse o dalla paura.
In tutta l’opera di Hobbes proprio queste due componenti strutturali dell’essere umano garantiscono la nascita dello stato e delle sue leggi necessariamente restrittive delle libertà individuali. I due aspetti dell’aggressività sono presenti nelle analisi dei filosofi, nella psicologia del profondo, nella psicologia sociale. E se risulta oltremodo difficile la possibilità di conciliare le opposte tendenze, vale comunque la pena di interrogarci un po'.
È possibile come afferma Jung che le reazioni violente nascano per compensazione, ossia mediante l’aggressività la persona reagisce ad un sentimento profondo di inferiorità? Mi è capitato spesso di notare nei giovani forme di ostilità apparentemente inspiegabili.
Un giorno, fuori dal cancello della scuola nella quale insegnavo, ho assistito ad una scena orribile, ho visto negli occhi di quei due ragazzi una rabbia sorda, ho sentito le loro parole, l’esplosione violenta attraverso i pugni della loro aggressività. E quando con l’aiuto di alcuni compagni furono separati e io chiesi il motivo dello scontro, esso era di una banalità e futilità agghiaccianti: si ammazzavano di botte per un telefonino. In realtà erano due personalità deboli che si scontravano per prevalere, ciascuna per farsi riconoscere dall’altra come vincente e perciò come la più forte.
E che dire delle risse in Parlamento quando, esauriti gli strumenti del dialogo razionale, i nostri rappresentanti si esibiscono in turpiloqui e si attaccano pure fisicamente in quello spazio ristretto trasformato in un ring? Provocazioni, parolacce, insulti nel luogo istituzionale per eccellenza. Sui temi più svariati si esercita la guerriglia parlamentare. Si raggiunge spesso l’acme della schermaglia quando si discute della Giustizia che dovrebbe essere trattata come il fondamento dello stato di diritto da uomini pacati veramente al servizio della “Nazione”. Sicuramente con la pulsione distruttiva bisogna fare i conti. Freud parla di ostilità primaria degli uomini tra loro (l’homo homini lupus di hobsiana memoria), perciò la società incivilita è continuamente minacciata di distruzione. La civiltà intanto esiste, in quanto ognuno è in grado di dominare e in gran parte di reprimere i propri istinti. In questo senso la storia dell’uomo è la storia della “sua” repressione. Ovvero della rinuncia a Thanatos in nome di Eros.
La nostra difficoltà, oggi più che mai, è quella di costruire una società che non sia autodistruttiva. Tutto intorno grida, trasuda violenza: il ragazzo in guerra che stringe il suo fucile, il giovane occidentale che rapina il supermercato per comprarsi quello che c’è dentro, la donna-bambina brutalizzata ad ogni latitudine, le leggi massacrate dall’interesse particolare.
C’è chi spiega tutto ciò individuandone le cause nel deficit di valori o comunque nell’inadeguatezza di norme idonee a regolamentare i comportamenti individuali. E chi insiste, specie per quel che riguarda i giovani, nel considerare l’aggressività espressione per eccellenza della trasgressione orientata a contestare le norme vigenti o comunque a rivelarne l’insufficienza. Nel secolo passato, il Novecento breve dalle mille facce, non si contano gli intellettuali che hanno teorizzato il valore morale della violenza e di queste cattive ideologie si sono nutriti per lo più i conservatori in politica e gli opportunisti nell’etica con risultati disastrosi in entrambi gli ambiti.
Ci sono stati grandi uomini, primo fra tutti Gesù Cristo, che hanno sognato di eliminare le cause sociali che producono nell’uomo i comportamenti aggressivi: le disuguaglianze, i soprusi, le ingiustizie.
Ci sono stati e ci sono altri uomini che si impegnano, al contrario, per mantenere lo stato potenziale di belligeranza, per impedire la vittoria di Eros e purtroppo sono potenti non perché abbiano più forza nel cuore, ma perché possiedono in pochi quello che dovrebbe essere diviso fra tutti.
Siamo entrati pienamente nel secolo delle oligarchie chiuse, giustificate, esaltate, addirittura sacralizzate. Quid non mortalia pectora cogis auri sacra fames? (Quintiliano, Istituzione Oratoria, IX, 3)