ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
E’ per me un grande onore e motivo di commozione ricordare in questa occasione insieme a voi studenti la figura di Francesca Morvillo. Pur non avendo mai conosciuto Francesca né avendo mai vissuto in Sicilia, traggo legittimazione al mio intervento dal fatto di essere donna ed essere per lungo tempo appartenuta all’ordine giudiziario: ciò mi consente, ed anzi mi impone, di accostarmi con uno sguardo di genere a questa figura di magistrata troppo a lungo evocata solo come la moglie di Giovanni Falcone e di attestarne l’ elevatissimo valore professionale. Ed ho particolarmente apprezzato che la sensibilità degli organizzatori di questo incontro li abbia indotti a porre per prima la sua persona tra tutti i magistrati vittime di mafia e terrorismo che saranno ricordati.
Francesca Morvillo, nata a Palermo il 14 dicembre 1945, figlia di un magistrato e più tardi sorella di un magistrato, all’ esito di un percorso universitario brillantissimo, costellato di 30 e lode, si è laureata in giurisprudenza con il massimo dei voti a soli 21 anni e mezzo; la sua tesi di laurea, dal titolo “Stato di diritto e misure di sicurezza”, ha ricevuto il prestigioso Premio Maggiore per la migliore tesi dell’anno in diritto penale. Durante il corso accademico ha insegnato in una scuola elementare per figli di detenuti. Subito dopo la laurea ha affrontato e superato il concorso in magistratura e ad appena 24 anni è stata nominata uditrice giudiziaria; le sue prime funzioni sono state quelle di giudice presso il Tribunale di Agrigento; quindi per circa 16 anni è stata sostituto procuratore presso il Tribunale per i Minorenni di Palermo e successivamente consigliera della Corte di Appello di quella città, dove ha redatto un numero elevatissimo di sentenze: ricordo in particolare che in quell’ ufficio, tra i molti importanti affari penali trattati, ha fatto parte del Collegio investito del processo sui grandi appalti di Palermo, che vedeva imputati amministratori e personaggi politici molto noti, tra i quali Vito Ciancimino. Infine è stata nominata componente della commissione giudicatrice del concorso in magistratura e a tale incarico si stava dedicando al momento della morte nella strage di Capaci, il 23 maggio 1992.
All’ attività professionale ha affiancato un prolungato impegno didattico di rilievo, insegnando dal 1986 al 1990 “Legislazione del minore” presso la Scuola di Specializzazione in Pediatria della Facoltà di Medicina di Palermo.
So bene che la lettura di un curriculum, per quanto prestigioso, non può restituire il senso complessivo di un percorso di vita professionale né lo spessore dell’impegno profuso; occorre quindi cogliere, con delicatezza e rispetto, le tracce e i segni che Francesca ha lasciato durante la sua breve esistenza.
La giustizia minorile ha costituito l’oggetto di tanta parte del suo lavoro e della sua passione, che ha associato all’ attenzione verso la funzione rieducativa della pena, secondo una prospettiva diretta a conciliare le esigenze punitive con il ravvedimento e la risocializzazione. Dal suo proficuo interesse su tali fronti si desume la forte volontà di dare un contributo per una giustizia più vicina ai più deboli e per rendere migliore la società e la sua terra in nome della legalità, con particolare riferimento all’ esigenza di aiutare i giovani a non essere catturati dalle logiche dei clan e di elaborare strumenti per il loro reinserimento nella società, facendoli tornare liberi di scegliere il loro futuro.
Da tutti i pareri formulati dai capi degli uffici in occasione delle sue domande di trasferimento o ai fini degli avanzamenti di carriera emerge un profilo di magistrata di livello eccezionale, intelligente, fine giurista, seria ed operosa, capace di evadere in tempi stretti montagne di arretrato.
Al di là del linguaggio burocratico di quei pareri emerge un comune apprezzamento delle qualità professionali, della vasta cultura, della sobrietà, della capacità di lavorare in silenzio.
Mi piace richiamare le parole scritte da Paola Di Nicola nel suo libro La Giudice in ricordo di Francesca, che era stata componente della sua commissione di esami: “Questa donna si muoveva con un incedere semplice ed elegante tra i nostri stretti e angusti banchi durante gli scritti del concorso…. Sapevamo che quella donna era giudice a Palermo. Per noi, ragazze e ragazzi, chini su quei fogli da ore, era una funzione mitica, che rievocava impegno giudiziario e civile e imponeva coraggio, tanto coraggio…. Molti di noi erano lì, in quell’ enorme salone dell’Ergife, per diventare come Francesca Morvillo, che faceva la giudice senza clamori e con rigore. Di ritorno dagli scritti del concorso, quella magistrata, dopo essermi passata accanto senza sapere che esistessi ma sentendo, di certo, il mio, il nostro sguardo sulle sue spalle, ….era volata in Sicilia. Voglio immaginarla in auto, seduta accanto a suo marito, Giovanni Falcone, mentre racconta sorridendo di quelle migliaia di giovani visti in un’ aula intrisa di emozione e tensione ideale”. Ed è stato proprio questo il fotogramma del momento precedente l’esplosione di Capaci, il giorno successivo all’ espletamento delle prove scritte.
E’ importante oggi ricordare tutto questo perché, come sottolinea Giovanna Fiume nel libro Non solo per amore, scritto a più mani e coordinato dalla stessa Fiume con Cetta Brancato e Paola Maggio, arricchito dalla bella prefazione di Marta Cartabia, il 23 maggio 1992 è stata uccisa una persona e una magistrata, la prima ed unica donna colpita dalla mafia, prima ancora che una moglie.
Nella narrazione dei mezzi di informazione e nella percezione collettiva Giovanni Falcone è stato il grande e unico obiettivo della strage, mentre le altre vittime sono subito apparse come mere comprimarie di quella tragedia, figure quasi senza nome e senza storia.
Ma occorre dare atto che Francesca Morvillo è stata un’eccellente magistrata, che ha attraversato tutte le giurisdizioni e si è distinta in tutte le sedi per il suo rigore intellettuale, per la sua preparazione giuridica, per la sua tensione verso una giustizia attenta ai diritti delle persone.
Rievocarla solo come la consorte di Giovanni Falcone, come purtroppo spesso è avvenuto e ancora avviene, è un errore miope e fuorviante, in quanto limita in misura inaccettabile la percezione della sua personalità, ne ferisce la professionalità e riflette chiaramente lo stereotipo che fa attribuire solo al mondo maschile il valore di una morte da eroi, nell’ adempimento di un dovere.
Appiattire il suo ruolo a quello di compagna e di moglie legata al suo uomo da un amore totalmente oblativo vuol dire negare la sua figura pubblica, relegandola ad una funzione ancillare.
Ed allora è necessario rovesciare l’endiadi: è stata uccisa una magistrata prima che una moglie. E’ necessario far uscire Francesca dal cono d’ ombra in cui la strage di Capaci l’ha confinata, strappandola dal ruolo subalterno che le è stato cucito indosso anche per effetto di quel radicato pregiudizio e facendo emergere pubblicamente il suo valore professionale. Si tratta a mio avviso di un dovere imposto dalla sua storia e dalla sua caratura di magistrata.
Ed è un sollievo constatare che questa esigenza di rispetto per la sua persona e la sua professionalità si sta sempre più diffondendo, come dimostra la frequente organizzazione di convegni nel suo ricordo, la pubblicazione di libri e saggi a lei dedicati e anche l’intitolazione a suo nome di strade e di aule di giustizia.
Nessuno di noi può dire quanto sia stato alto per la magistrata Morvillo il prezzo che la scelta di vivere accanto ad un uomo tanto noto, tanto importante e tanto grande ha comportato, quanto le sia stato gravoso stare al suo fianco, ridimensionare le proprie aspirazioni, rinunciare forse ad altri percorsi di carriera, ad occasioni di dibattito pubblico e di partecipazione a convegni, all’ attività associativa, accettare una vita blindata, con tutte le implicazioni in termini di sicurezza, serenità e libertà e costantemente accompagnata dall’ ombra della morte, rifiutare in accordo con il coniuge l’esperienza della maternità, nonostante l’ interesse sempre dimostrato per l’ universo minorile.
Non sappiamo quanta pena si nascondesse dietro quel sorriso così aperto, quali pensieri e quali nostalgie ella nutrisse, quali sentimenti coltivasse oltre l’amore per Giovanni. Né sappiamo quante volte abbia pensato con rimpianto a come avrebbe potuto essere la sua vita se non avesse dovuto condurre un‘ esistenza blindata.
Come ci ricorda la sociologa Renate Siebert, la protezione, se da un lato suggerisce un minimo di sicurezza, dall’ altro rende costantemente alta la tensione, in quanto pone in evidenza l’esistenza e l’attualità del pericolo e al tempo stesso riduce al minimo la vita vissuta, impoverisce la quotidianità, limitandola al necessario.
La riservatezza evocata da tutti coloro che l’hanno conosciuta come aspetto fondamentale del suo carattere ha certamente impedito a chi le era accanto di superare quella barriera e quel riserbo che le consentivano il controllo delle emozioni e di leggere a fondo nel suo animo, intercettandone la sofferenza e le paure.
Sappiamo però che il percorso seguito con una coerenza estrema da Francesca Morvillo era l’unica strada possibile per continuare a vivere accanto a Giovanni Falcone e che il prezzo da pagare, pur altissimo, non poteva essere eluso.
E’ necessario che il ricordo di una magistrata così straordinaria diventi patrimonio di tutti e che in particolare esso sia consegnato alle nuove generazioni, perché dal suo impegno professionale e dalla sua forza di spirito esse traggano stimolo per affrontare con coraggio e generosità le sfide che la vita loro riserverà.
A voi giovani è affidato l’esempio di una magistrata a tutto tondo, che ha incarnato con pienezza i valori della legalità e della giustizia, ha ispirato totalmente il suo lavoro sia di giudice che di pubblico ministero ai principi di autonomia e indipendenza sanciti dalla Costituzione ed ha testimoniato in ogni momento della sua vita quanto l’ esercizio della giurisdizione, intesa come servizio alla collettività, può garantire l’ effettività dei diritti di tutti.
Il suo esempio è una illuminante conferma che lo studio costituisce lo strumento fondamentale per non cadere nella mediocrità e per realizzare un futuro all’ altezza delle vostre speranze più ambiziose.
*Testo rielaborato dell’intervento svolto il 24 maggio 2023 al Convegno TESTIMONI CAPACI presso il DAP promosso dalla Scuola di Formazione Giovanni Falcone e dall’ ANM.
Il tema che mi è stato chiesto di affrontare è, come noto, uno dei più caldi dell’annoso dibattito sul delicato e difficile bilanciamento tra i contrapposti interessi incisi dalla disciplina e dall’applicazione delle cc.dd. informazioni interdittive antimafia (di seguito, per brevità, anche “interdittive antimafia” o solo “interdittive”)[1]. Come ripetutamente sottolineato dalla giurisprudenza, l’interdittiva antimafia è “una misura volta alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione”[2].
Per una migliore percezione della posizione della giurisprudenza amministrativa è ancora utile richiamare le parole dell’Adunanza plenaria n. 3 del 2018: l’interdittiva antimafia è “un provvedimento amministrativo al quale deve essere riconosciuta natura cautelare e preventiva, in un’ottica di bilanciamento tra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost.; … misura volta – ad un tempo – alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione. Tale provvedimento, infatti, mira a prevenire tentativi di infiltrazione mafiosa nelle imprese, volti a condizionare le scelte e gli indirizzi della Pubblica amministrazione e si pone in funzione di tutela sia dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, riconosciuti dall’art. 97 Cost., sia dello svolgimento leale e corretto della concorrenza tra le stesse imprese nel mercato, sia, infine, del corretto utilizzo delle risorse pubbliche. L’interdittiva esclude, dunque, che un imprenditore, persona fisica o giuridica, pur dotato di adeguati mezzi economici e di una altrettanto adeguata organizzazione, meriti la fiducia delle istituzioni (sia cioè da queste da considerarsi come ‘affidabile’) e possa essere, di conseguenza, titolare di rapporti contrattuali con le predette amministrazioni, ovvero destinatario di titoli abilitativi da queste rilasciati, come individuati dalla legge”.
Il provvedimento prefettizio ha, dunque, il precipuo fine di prevenire possibili infiltrazioni mafiose nell’economia, che inevitabilmente andrebbero a condizionare le scelte e gli indirizzi della Pubblica Amministrazione, costituendo al contempo un presidio dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, previsti dall'art. 97 Cost..
Da ciò la difficoltà di trovare un giusto equilibrio tra i contrapposti diritti e interessi: da un lato, i diritti fondamentali dei consociati a vivere in un clima di sicurezza pubblica e quelli degli imprenditori a operare in un regime di libera concorrenza e, dall’altro, i diritti dei destinatari dei provvedimenti interdittivi, che, in nome di tali diritti e interessi fondamentali, incidono comunque su sfere di libertà e diritti fondamentali della persona, tra i quali, alla luce della CEDU e della Carta di Nizza, devono ritenersi compresi anche il diritto di impresa e di proprietà.
Il tema qui affrontato ha assunto, come noto, massima attualità per effetto del cd decreto discovery n. 152 del 2021, con il quale, rispondendo a un’esigenza ripetutamente rappresentata dalla dottrina, il legislatore ha introdotto un obbligo di contraddittorio nel procedimento per il rilascio dell’informazione.
Ricordo a me stessa che, in base all’art. 91, co. 1, del Codice antimafia (d.lgs. n. 159/2011, più volte modificato e integrato fino alla citata riforma del 2021), l’informazione antimafia (liberatoria o interdittiva) deve essere acquisita dalle pp. AA. e dai soggetti a esse equiparati “prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti, ovvero prima di rilasciare o consentire i provvedimenti indicati nell’articolo 67, il cui valore sia: a) pari o superiore a quello determinato dalla legge in attuazione delle direttive comunitarie in materia di opere e lavori pubblici, servizi pubblici e pubbliche forniture, indipendentemente dai casi di esclusione ivi indicati; b) superiore a 150.000 euro per le concessioni di acque pubbliche o di beni demaniali per lo svolgimento di attività imprenditoriali, ovvero per la concessione di contributi, finanziamenti e agevolazioni su mutuo o altre erogazioni dello stesso tipo per lo svolgimento di attività imprenditoriali; c) superiore a 150.000 euro per l’autorizzazione di subcontratti, cessioni, cottimi, concernenti la realizzazione di opere o lavori pubblici o la prestazione di servizi o forniture pubbliche”.
L’informazione è rilasciata dal Prefetto, previa consultazione della banca dati nazionale unica, e conserva validità per dodici mesi.
In particolare, ai sensi dell’art. 92 del Codice, “quando non emerge, a carico dei soggetti ivi censiti, la sussistenza di cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67 o di un tentativo di infiltrazione mafiosa di cui all’articolo 84, comma 4”, l’informazione antimafia liberatoria deve essere “immediatamente conseguente” alla suddetta consultazione.
Qualora, invece, da quest’ultima emerga la sussistenza di tali circostanze, il Prefetto, entro i successivi 30 giorni, deve disporre le verifiche occorrenti e rilasciare, se del caso, un’informazione interdittiva (art. 92, co. 2). Il termine è protratto quando le verifiche disposte siano di particolare complessità: in questo caso, il Prefetto deve darne tempestiva comunicazione (“senza ritardo”) all'amministrazione interessata, e fornirle le informazioni acquisite nei successivi 45 giorni. L’ultimo periodo del comma precisa che il Prefetto procede con le stesse modalità quando la consultazione della banca dati è eseguita per un soggetto che risulti non censito.
L’art. 92 aggiunge peraltro che, decorso il suddetto termine di 30 gg. o, “nei casi di urgenza, immediatamente, i soggetti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, procedono anche in assenza dell’informazione antimafia”; ma “I contributi, i finanziamenti, le agevolazioni e le altre erogazioni di cui all’articolo 67 sono corrisposti sotto condizione risolutiva e [qualora sopravvenga l’informazione interdittiva] i soggetti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti”.
Come ripetutamente segnalato dalla dottrina, sia accademica che togata, e ben avvertito anche dalla più recente giurisprudenza, l’informazione interdittiva antimafia -nonostante la sua, formale, provvisorietà- può avere un effetto esiziale sull’impresa che ne è attinta.
Concepita come una misura di nicchia, essenzialmente focalizzata sui rapporti contrattuali della pubblica amministrazione e come tale in qualche modo giustificata dal diritto del committente (pubblico e privato) di scegliere contraenti -almeno apparentemente- “sicuri”, la misura ha acquistato sempre maggiore valenza quando, come ben evidenziato anche in un recente convegno presso il Consiglio di Stato[3], il legislatore ne ha esteso l'ambito di applicazione alle autorizzazioni commerciali e, attraverso i protocolli di legalità, alla contrattazione privata, e la giurisprudenza ha traslato i principi e le linee interpretative maturati quando l’informativa era riferita ai soli rapporti contrattuali con la p.A. anche a questa nuova e più ampia area di incidenza dello strumento.
L’operatore colpito dall’interdittiva, perché l’autorità prefettizia, da una serie di elementi puramente indiziari, ha rinvenuto un rischio di potenziale pericolo, non si vedrà invero più soltanto precluso l’accesso ai contratti pubblici, ma si troverà più generalmente impossibilitato ad avviare qualsivoglia attività economica (tanto che si è parlato di “ergastolo imprenditoriale”). Il che, verosimilmente, lo esporrà al dissesto o al fallimento, anche se all’esito del giudizio -amministrativo e/o penale- intentato per reagire allo strumento, il pericolo si rivelasse insussistente o comunque evitabile attraverso la sottoposizione a misure di prevenzione meno radicali. Ricordo a tale proposito che la Corte costituzionale, con la sent. n. 57/2020[4], per giustificare la conformità dell’istituto dell’interdittiva ai principi sostanziali e procedimentali a tutela dei diritti fondamentali dei soggetti colpiti, ha riconosciuto “un ruolo particolarmente rilevante [al] carattere provvisorio della misura”, propugnando una lettura rigorosa del termine annuale di validità previsto dall’art. 86 del codice: “È questo il senso della disposizione dell’art. 86, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, secondo il quale l’informativa antimafia ha una validità limitata di dodici mesi, cosicché alla scadenza del termine occorre procedere alla verifica della persistenza o meno delle circostanze poste a fondamento dell’interdittiva, con l’effetto, in caso di conclusione positiva, della reiscrizione nell’albo delle imprese artigiane, nella specie, e in generale del recupero dell’impresa al mercato. E va sottolineata al riguardo la necessità di un’applicazione puntuale e sostanziale della norma, per scongiurare il rischio della persistenza di una misura non più giustificata e quindi di un danno realmente irreversibile…”[5], il quale sottolinea che la durata annuale della misura non implica che, alla scadenza dei 12 mesi, gli elementi posti a base dell’originario provvedimento perdano di attualità, poiché essi, in mancanza di elementi sopravvenuti di segno contrario, mantengono inalterata la loro valenza indiziaria e ben possono giustificare il rinnovo del provvedimento interdittivo negli anni a seguire[6].
Nei fatti, a quanto mi si dice, l’interdittiva viene tendenzialmente confermata.
Sicché - nonostante il carattere formalmente preventivo e provvisorio, sul quale la giurisprudenza amministrativa e costituzionale appoggia anche la sufficienza della cd tassativizzazione giurisprudenziale dei presupposti indiziari, incompatibile con uno strumento di tipo sanzionatorio[7]- essa finisce in buona sostanza per limitare in via permanente l'esercizio dell’attività di impresa. Limite che viene, come noto, “giustificato dalla considerazione che il metodo mafioso, per sua stessa ragion di essere, costituisce un «danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41, comma secondo, Cost.), già sul piano dei rapporti tra privati (prima ancora che in quello con le pubbliche amministrazioni), oltre a porsi in contrasto, ovviamente, con l’utilità sociale, limite, quest’ultimo, allo stesso esercizio della proprietà privata. Il metodo mafioso è e resta tale, per un essenziale principio di eguaglianza sostanziale prima ancora che di logica giuridica, non solo nelle contrattazioni con la pubblica amministrazione, ma anche tra privati, nello svolgimento della libera iniziativa economica”[8].
Nella Relazione della DIA al Parlamento sul I semestre 2021 si legge infatti significativamente che con l’interdittiva, “in termini generali, si impedisce quindi alle imprese interessate di stipulare contratti con la pubblica amministrazione in ossequio al principio costituzionale di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione” e, “nel contempo si concorre al mantenimento di un sano regime concorrenziale ed alla difesa dell’ordine pubblico economico che ha la funzione di garantire, proteggere e dirigere l’attività economica nazionale”. Nella precedente Relazione per il I semestre 2020, la stessa Direzione rimarcava che la misura rappresenta “la massima anticipazione della tutela preventiva dello Stato dal crimine organizzato (...) in quanto comporta l'esclusione di un soggetto, ritenuto potenzialmente infiltrato dalla criminalità organizzata, dalla possibilità di intrattenere rapporti con le pubbliche amministrazioni”, esplicitando che essa è l’esito di un’apposita istruttoria effettuata in riferimento a “condizioni che non costituiscono un numero chiuso e non consistono solo in circostanze desumibili dalle sentenze di condanna per particolari delitti e dalle misure di prevenzione antimafia”, nella quale possono rilevare anche le “motivazioni che lumeggino situazioni di infiltrazione mafiosa da provvedimenti giudiziari non ancora definitivi”, ovvero i “rapporti di parentela, amicizia e collaborazione con soggetti controindicati e che indichino un verosimile pericolo di condizionamento criminale per intensità e durata”, nonché “aspetti anomali nella composizione e gestione dell’impresa sintomatici di cointeressenza dell’azienda e dei soci con il fenomeno mafioso”. Si tratta, come si vede e come noto, di elementi necessariamente indiziari che, per di più, il Prefetto valuta con un forte deficit di contraddittorio e che il giudice amministrativo sindaca, alla luce della richiamata tipizzazione giurisprudenziale e secondo la regola del “più probabile che non” (affatto diversa da quella dell’“in dubio pro reo”)[9], con i limiti che inevitabilmente derivano da un procedimento che, per garantire l’effetto “sorpresa” non era e, nonostante la riforma del 2021, non è pienamente trasparente[10].
Il dibattito sulla natura e sui presupposti dell’interdittiva, cui si lega strettamente quello sull’ambito e sull’effettività del relativo sindacato giurisdizionale, è sempre acceso e il TAR di Reggio Calabria ha apportato importanti contributi al suo sviluppo. La tematica ha, come noto, coinvolto anche la Corte di Giustizia e la Corte costituzionale, portandola a coniare la discutibile categoria della tassatività giurisprudenziale o “giurisprudenza tassativizzante”, ritenuta eccezionalmente idonea a integrare i fisiologici limiti evolutivi del sistema normativo in una lotta contro un’organizzazione particolarmente forte, agguerrita e pericolosa, senza ledere il principio di legalità dell’azione amministrativa e quello di effettività della tutela giurisdizionale. In particolare, la Corte costituzionale, ha, ancora nel 2020 (con la nota sentenza n. 57/20), affermato la “tenuta” del sistema, facendo leva sulla natura preventiva e provvisoria dell’informazione interdittiva, per escludere che -diversamente da quanto affermato (all’esito della nota sentenza CEDU del 23 dicembre 2017 nella causa De Tommaso c. Italia) per le misure di prevenzione limitative della libertà personale ed esteso alle misure patrimoniali in quanto lesive di un altro diritto convenzionale come quello di proprietà- con riferimento alle informazioni, e in particolare a quelle cd “generiche”, la presenza di elementi “elastici” di valutazione, lasciati all’apprezzamento del Prefetto, arrechi un vulnus agli artt. 3 e 41 Cost. e integri una violazione del principio fondamentale di legalità sostanziale, riconoscendo alla cd tipizzazione giurisprudenziale, inaugurata dalla sentenza n. 1743/2016 del Consiglio di Stato, la capacità di garantire un livello sufficiente di tassatività sostanziale (che, in ambito sanzionatorio alla stregua dei cc.dd. Engel criteria, non sarebbe invece adeguata); e ha escluso del pari un vulnus al principio di effettività della tutela, affermando che, attraverso l’utilizzo dei poteri cognitori e istruttori riconosciutigli dal codice processuale, il sindacato del giudice amministrativo scende “nei fatti” ed è pieno perché valuta la ragionevolezza e la proporzionalità del giudizio prognostico, secondo la logica del ragionamento induttivo di tipo probabilistico (non quindi “al di là di ogni ragionevole dubbio”, ma soltanto “più probabile che non” o “probabilità cruciale”), posto a fondamento dell’informazione.
Su questi profili abbiamo ascoltato/ascolteremo come da programma, gli altri autorevoli relatori.
Il filo del rasoio sul quale, in assenza di una tipizzazione normativa previa, chiara e certa delle ipotesi in cui il Prefetto è legittimato a interdire l’esercizio di diritti fondamentali sulla base del “sospetto” di infiltrazione mafiosa, corre il confine tra valutazione e arbitrio e, in ambito processuale, quello tra potere/dovere di esercitare un sindacato effettivo sull’attendibilità del criterio valutativo utilizzato e conseguenzialità logica della decisione assunta, attraverso un controllo pieno e reale sui fatti e divieto di invasione dell’ambito di valutazione riservato all’autorità prefettizia, giustifica le perplessità e le preoccupazioni che, da varie parti, sono state espresse con riferimento alla riduzione delle garanzie di prevedibilità e di tutela dei soggetti esposti alla misura, e, soprattutto, sta alla base dell’esigenza, del pari da più parti espressa, di ripensamento in senso più garantista del contraddittorio procedimentale. È noto, del resto, che le garanzie partecipative sono tanto più importanti e devono essere tanto più rafforzate quanto meno sono stringenti quelle di legalità sostanziale. Da ciò la centralità del ruolo del procedimento quale luogo di verifica in contraddittorio della correttezza dei fatti posti a fondamento della decisione, anche per un rafforzamento del controllo giurisdizionale sull’eccesso di potere, nella prospettiva della tutela effettiva e piena delle situazioni soggettive incise.
Per questa ragione, la migliore dottrina ha da tempo auspicato un intervento riformatore dell’art. 93, co. 7, del Codice antimafia, che rimetteva allo stesso Prefetto la possibilità di disporre, ove lo ritenesse utile, sulla base delle informazioni acquisite, l’invito dei soggetti interessati ad un’audizione personale, per produrre, anche allegando elementi documentali, ogni informazione che ritenessero a loro volta utile: una garanzia di contraddittorio, pertanto, evidentemente attenuata, subordinata alla valutazione -difficilmente sindacabile- della sua utilità da parte della medesima autorità agente.
Diversi Autori, tra i quali mi piace in particolare ricordare Franco G. Scoca e Marco Mazzamuto, hanno manifestato perplessità nei confronti della posizione che, nel bilanciamento tra i contrapposti interessi giustifica l’attenuazione delle garanzie partecipative degli operatori economici in ragione della necessità di arginare con la massima celerità il fenomeno -indubbiamente gravissimo- della criminalità organizzata, in nome della difesa della legalità sostanziale, da intendersi come vero presidio nei riguardi dei pericoli rappresentati dalle organizzazioni mafiose.
La giurisprudenza ha sostenuto con convinzione questa tesi, muovendo dal presupposto della natura tendenzialmente cautelare e preventiva dell’interdittiva, e della sua conseguente riconducibilità alle ipotesi di esenzione dall’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento indicate dall’art. 7 della legge n. 241/1990[11], e dal radicato convincimento che le garanzie procedimentali introdotte da tale legge non possono trovare applicazione nei procedimenti di tutela antimafia “… intrinsecamente caratterizzati da profili del tutto specifici, connessi ad attività di indagine, oltre che da finalità … del tutto incompatibili con le procedure partecipative”[12].
Se è però certamente vero che le esigenze di immediata efficacia e di “effetto sorpresa” delle misure di prevenzione antimafia, possono giustificare delle deroghe anche sul piano del contraddittorio procedimentale, imposto -anche a livello generale- “ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento”, è altrettanto evidente che l’effettiva necessità e giustificabilità di tali deroghe deve essere valutata caso per caso, attraverso un necessario vaglio di proporzionalità, in relazione alla grave incidenza delle misure interdittive antimafia su diritti fondamentali dei loro destinatari.
Ciò a maggior ragione nelle ipotesi in cui, come agevolmente si evince da una rapida disamina della giurisprudenza, la valutazione prefettizia è esito di una “relazione riservata” proveniente dagli uffici che conducono le indagini sui reati commessi dalla criminalità organizzata. Sicché, essendo tali indagini ontologicamente sottoposte a segreto istruttorio, l’interessato non è messo in condizione di conoscere i fatti e gli elementi sulla base dei quali il Prefetto abbia assunto la decisione interdittiva, anche se essi sono sempre accessibili al giudice amministrativo, che valuta poi se ostenderli anche alle altre parti.
Come rilevato nella lucida ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale fornita dal consigliere Noccelli a margine della già richiamata sentenza n. 57 del 2020 della Corte costituzionale, in tale pronuncia, pur rigettando le questioni di l c del sistema sottoposte al suo vaglio, la Consulta, ponendo l’accento sulla particolare severità degli effetti della misura interdittiva “generica” (che alcuni AA hanno significativamente definito come “ergastolo imprenditoriale”), ha osservato che la mancanza, in materia, di una previsione analoga a quella dell’art. 67, comma 5, del d. lgs. n. 159 del 2011 (il quale dispone che “Per le licenze ed autorizzazioni di polizia, ad eccezione di quelle relative alle armi, munizioni ed esplosivi, e per gli altri provvedimenti di cui al comma 1 le decadenze e i divieti previsti dal presente articolo possono essere esclusi dal giudice nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all'interessato e alla famiglia), “merita indubbiamente una rimeditazione da parte del legislatore”. Rileva quindi l’A. che tale “garbato monito rivolto al legislatore” dimostra che l’incidenza dell’istituto sulla libertà imprenditoriale resta un problema aperto per quattro essenziali motivi, sui quali la Corte non è stata chiamata a pronunciarsi nello specifico: tra essi, appunto, il deficit di contraddittorio procedimentale, oggetto della riforma del 2021.
Ricordo a questo proposito che, in direzione opposta a quella seguita dalla surrichiamata giurisprudenza amministrativa, con ordinanza n. 28 del 13 gennaio 2020, il TAR Puglia, sede di Bari, sez. III, rimarcando che l’informazione interdittiva non è una misura provvisoria e strumentale all’adozione di un ulteriore provvedimento, bensì un “atto conclusivo del procedimento amministrativo avente effetti definitivi, conclusivi e dissolutori del rapporto giuridico tra l’impresa e la P.A., con riverberi assai durevoli nel tempo, se non addirittura permanenti, indelebili e inemendabili …”, aveva chiesto alla Corte di Giustizia UE di chiarire pregiudizialmente, ai fini della decisione del giudizio, se gli artt. 91, 92 e 93 del d. lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui non prevedevano il contraddittorio procedimentale in favore del soggetto nei cui confronti il Prefetto si proponeva di rilasciare una informazione antimafia, fossero compatibili con il principio del contraddittorio, quale espressione di civiltà giuridica europea, garantito dall’art. 41 della Carta di Nizza e inserito nel catalogo dei principi generali del Diritto dell’Unione in base all’art. 6, par. 3 del Trattato[13].
L’ordinanza non passava inosservata dal Consiglio di Stato, e, pochi giorni dopo, con la sentenza n. 820 del 31 gennaio 2020, redatta dallo stesso consigliere Noccelli, la III Sezione, si preoccupava di re-intervenire sul tema nonostante la questione del contraddittorio (definita nel senso della sua necessità dal giudice di I grado[14]) non formasse oggetto del giudizio di appello. In particolare, richiamando una precedente giurisprudenza della Corte di Giustizia, il Collegio -presieduto da Franco Frattini, all’epoca Presidente aggiunto e da qualche mese al vertice del Consiglio di Stato- riteneva “di dover rilevare incidenter tantum che, ferma restando ogni cognizione della Corte UE sulla questione rimessale [dal TAR Puglia], l’assenza di una necessaria interlocuzione procedimentale in questa materia non costituisca un vulnus al principio di buona amministrazione, perché, come la stessa Corte UE ha affermato, il diritto al contraddittorio procedimentale e al rispetto dei diritti della difesa non è una prerogativa assoluta, ma può soggiacere a restrizioni, a condizione che «queste rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti» (sentenza della Corte di Giustizia UE, 9 novembre 2017, in C-298/16, § 35 e giurisprudenza ivi citata)”. A ulteriore sostegno di tali considerazioni, il Consiglio di Stato ricordava che, più recentemente (con la sentenza 26 settembre 2019, in C-63/18, § 37), la stessa Corte UE, seppure ai diversi fini della compatibilità eurounitaria della disciplina italiana del subappalto, aveva “ribadito che «il contrasto al fenomeno dell’infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo che può giustificare una restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE che si applicano nell’ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici»”.
In sintesi, la III Sezione ribadiva la legittimità del sistema disegnato dall’art 97, co 3, del Codice antimafia, ritenendo che “la discovery anticipata, già in sede procedimentale, di elementi o notizie contenuti in atti di indagine coperti da segreto investigativo o in informative riservate delle forze di polizia, spesso connessi ad inchieste della magistratura inquirente contro la criminalità organizzata di stampo mafioso e agli atti delle indagini preliminari, potrebbe frustrare la finalità preventiva perseguita dalla legislazione antimafia, che ha l’obiettivo di prevenire il tentativo di infiltrazione da parte delle organizzazioni criminali, la cui capacità di penetrazione nell’economia legale ha assunto forme e “travestimenti” sempre più insidiosi”.
Aggiungeva inoltre la sentenza che, come già chiarito dalla propria precedente giurisprudenza, “la delicatezza della ponderazione intesa a contrastare in via preventiva la minaccia insidiosa ed esiziale delle organizzazioni mafiose, richiesta all’autorità amministrativa, può comportare anche un’attenuazione, se non una eliminazione, del contraddittorio procedimentale, che del resto non è un valore assoluto, come ha pure chiarito la Corte di Giustizia UE nella sua giurisprudenza (ma v. pure Corte cost.: sent. n. 309 del 1990 e sent. n. 71 del 2015), o slegato dal doveroso contemperamento di esso con interessi di pari se non superiore rango costituzionale, né un bene in sé, o un fine supremo e ad ogni costo irrinunciabile, ma è un principio strumentale al buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e, in ultima analisi, al principio di legalità sostanziale (art. 3, comma secondo, Cost.), vero e più profondo fondamento del moderno diritto amministrativo (Cons. St., sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565)”.
In questo quadro si inseriva la richiamata sentenza n. 57 del 26 marzo 2020 della Corte costituzionale, che ricordando la propria sentenza n. 309 del 1993, ha ribadito che in questa materia la mera eventualità e non obbligatorietà del contraddittorio procedimentale non confligge con i principî costituzionali.
La Corte di Giustizia, con ordinanza 28 maggio 2020 (in C-17/20), non entrava purtroppo nel merito della questione sollevata dal TAR pugliese, rilevandone la manifesta irricevibilità per difetto di rilevanza transfrontaliera, ma ricordava, incidentalmente, che il rispetto dei diritti di difesa costituisce un “principio generale del diritto dell’Unione che trova applicazione quando l’amministrazione intende adottare nei confronti di una persona un atto che le arrechi pregiudizio”.
Come sottolineato nel ricordato scritto di Noccelli, restava quindi “sullo sfondo l’interrogativo, se la partecipazione procedimentale, almeno in certe ipotesi, non sia necessaria ad evitare l’emissione del provvedimento interdittivo ed adottare misure meno invasive per l’impresa a rischio di infiltrazione mafiosa, anche in una prospettiva de iure condendo”.
Tanto che, nella pluricommentata sentenza n. 4979 del 2020[15], la medesima III Sezione del Consiglio di Stato -pur ricordando che, nel sistema disegnato dall’art 93 del Codice, l’audizione degli interessati “non è assente, ma solo eventuale, rimettendo alla valutazione discrezionale del prefetto la scelta sulla ‘… utilità di detto contraddittorio procedimentale in seno ad un procedimento informato da speditezza, riservatezza ed urgenza, per evidenti ragioni di ordine pubblico’ ” e che il sacrificio delle garanzie procedimentali, giustificato anche dall’esigenza di evitare strumentali iniziative dilatorie, sarebbe compensato dalla possibilità di far valere le proprie ragioni in sede giurisdizionale, attraverso il sindacato sull’atto adottato dal Prefetto, che, contrariamente a quanto assume parte della dottrina, sarebbe pieno ed effettivo, in termini di full jurisdiction (cfr. sent. 2854 del 2020)- nei passaggi conclusivi, accogliendo anche le sollecitazioni della dottrina, suggeriva, de iure condendo, un recupero, quantomeno parziale, delle garanzie procedimentali, nel rispetto dei diritti di difesa spettanti al soggetto destinatario del provvedimento, in tutte quelle ipotesi in cui la permeabilità mafiosa «appaia alquanto dubbia, incerta, e presenti, per così dire, delle zone grigie o interstiziali, rispetto alle quali l’apporto procedimentale del soggetto potrebbe fornire utili elementi a chiarire alla stessa autorità procedente la natura dei rapporti tra il soggetto e le dinamiche, spesso ambigue e fluide, del mondo criminale»
Si è così opportunamente osservato che, in tutte queste ipotesi, l’ordinamento dovrebbe generalmente garantire la partecipazione dell’operatore interessato, salvo che essa non frustri l’urgenza di provvedere e le particolari esigenze di celerità invocabili ai sensi dell’art. 7 della l. n. 241 del 1990, per bloccare un grave, incontrollabile o imminente pericolo di infiltrazione mafiosa e, dunque, non ostacoli la ratio stessa dell’informazione antimafia quale strumento di massima tutela preventiva nella lotta contro la mafia.
Come rilevato in dottrina[16], il riconoscimento di tale garanzia è tanto più importante in quanto, “laddove la decisione prefettizia si basi su accertamenti di fatto complessi, in questo caso addirittura di tipo indiziario, ben possono manifestarsi margini di errore, rispetto ai quali non sembrano residuare strumenti di protezione adeguata dell’interessato in assenza di una sua audizione”.
Di contro, il contraddittorio procedimentale:
a) consentirebbe all’impresa di esercitare in sede procedimentale i propri diritti di difesa e di spiegare le ragioni alternative di determinati atti o condotte, ritenuti dalla Prefettura sintomatici di infiltrazione mafiosa, nonché di adottare, eventualmente su proposta e sotto la supervisione della stessa Prefettura, misure di self cleaning, che lo stesso legislatore potrebbe introdurre già in sede procedimentale con un’apposita rivisitazione delle misure straordinarie, ad esempio, dall’art. 32, comma 10, del d.l. n. 90 del 2014, conv. con mod. in l. n. 114 del 2014, da ammettersi, ove la situazione lo consenta, prima e al fine di evitare che si adotti la misura più incisiva dell’informazione antimafia;
b) consentirebbe allo stesso Prefetto di intervenire con il provvedimento interdittivo quale extrema ratio solo a fronte di situazioni gravi, chiare, inequivocabili, non altrimenti giustificabili e giustificate dall’impresa, secondo la logica della probabilità cruciale, di infiltrazione mafiosa, all’esito di una istruttoria più completa, approfondita, meditata, che si rifletta in un apparato motivazionale del provvedimento amministrativo, fondamento e presidio della legalità sostanziale in un ordinamento democratico, che sia il più possibile esaustivo ed argomentato;
c) consentirebbe infine al giudice amministrativo di esercitare con maggiore pienezza il proprio sindacato giurisdizionale sugli elementi già valutati dalla Prefettura in sede procedimentale, anche previo approfondimento istruttorio nel contraddittorio con l’impresa, nonché sul conseguente corredo motivazionale del provvedimento prefettizio, e di affinare così ulteriormente, nell’ottica della full jurisdiction, i propri poteri cognitori e istruttori in questa delicata materia, crocevia di fondamentali valori costituzionali, eurounitari e convenzionali in gioco.
Anche la giurisprudenza amministrativa andava rimarcando il valore del contraddittorio anche sul piano sostanziale[17].
In questo quadro si è inserito il d.l. 152/2021, convertito nella l. n 233 del 29 dicembre, che ha, tra l’altro, introdotto la possibilità che il Prefetto, nei casi in cui rilevi situazioni di mera “agevolazione occasionale”, disponga meno incisive misure amministrative di cd “prevenzione collaborativa”, e, per quanto qui di interesse, all’art. 48, ha ridisciplinato il “contraddittorio nel procedimento di rilascio dell’interdittiva antimafia”.
La novella ha innanzitutto modificato l’art. 92 del Codice, sostituendo il vecchio comma 2-bis con una nuova disposizione, dove si legge che “Il prefetto, nel caso in cui, sulla base degli esiti delle verifiche disposte ai sensi del comma 2, ritenga sussistenti i presupposti per l'adozione dell'informazione antimafia interdittiva ovvero per procedere all'applicazione delle misure di cui all'articolo 94 bis [le riferite misure amministrative di prevenzione collaborativa], e non ricorrano particolari esigenze di celerità del procedimento, ne dà tempestiva comunicazione al soggetto interessato, indicando gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa”.
Come è immediatamente percepibile dal confronto con l’art. 93, co. 7, modificato a sua volta dal medesimo art. 48, la garanzia partecipativa inserita nell’art. 92 si aggiunge a quella, che, come vedremo, resta meramente eventuale, prevista dal primo e, per quanto visto, comparabile alla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 l. n. 241/90.
Il nuovo obbligo informativo opera, infatti, soltanto nell’ipotesi in cui il Prefetto, all’esito delle verifiche di quanto emerso dalla consultazione della banca dati, ritenga sussistenti i presupposti per l'adozione dell'informazione interdittiva ovvero per procedere all'applicazione delle nuove misure amministrative di prevenzione collaborativa introdotte dall’art. 94-bis.
Si tratta, quindi, di una sorta di contestazione degli addebiti, con invito a controdedurre.
Sintomaticamente, la novella parla di “preavviso di interdittiva o della misura amministrativa di prevenzione collaborativa”, nel quale il Prefetto deve indicare all’interessato gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa, assegnandogli un termine, non superiore a 20 giorni, per presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, nonché per richiedere l'audizione, da effettuare secondo le modalità previste dall'art. 93, commi 7, 8 e 9. In buona sostanza, il coinvolgimento dell’interessato diventa regola generale soltanto dopo che il Prefetto si sia già indirizzato verso l’adozione della misura preventiva. Se quindi, a prima lettura, la deroga all’obbligo informativo a fronte di “particolari esigenze di celerità del procedimento” sembra ricalcare il modello di cui all’art. 7 l. 241/90, quando la si cala nell’ambito della contestazione degli addebiti, assume ben altro impatto. Il destinatario del preavviso, infatti, non potrà contribuire alla progressiva valutazione degli elementi che hanno, ab origine, indotto il Prefetto ad avviare la procedura, ma potrà soltanto cercare di indurlo a modificare la valutazione che esso ha sostanzialmente già effettuato. Affinché la novella non si risolva in una mera “parvenza di garanzia partecipativa”, occorrerà quindi che i poteri (amministrativo e giurisdizionale) chiamati rispettivamente ad applicarla e interpretarla
- leggano in modo rigoroso la deroga, considerando che il riferimento normativo alle “particolari esigenze di celerità” esclude che esse coincidano con quelle -fisiologiche-delle misure di prevenzione e, trattandosi di una eccezione alla regola, non può essere utilizzato per eluderla;
- tengano in reale considerazione le osservazioni e i documenti che l’interessato adduca a sostegno delle proprie controdeduzioni: il Prefetto valutandoli senza preconcetti e il Giudice garantendo quel sindacato pieno sui fatti ed effettivo sulla ragionevolezza della relativa valutazione in forza del quale il Consiglio di Stato e la Corte costituzionale hanno ritenuto giustificabile l’attenuazione del contraddittorio procedimentale. Merita a tale riguardo ancora una volta ricordare che il Giudice delle leggi, premesso che l’informazione interdittiva si pone in una “prospettiva anticipatoria della difesa della legalità …, comportando un giudizio prognostico circa probabili sbocchi illegali della infiltrazione mafiosa” e, pertanto, è chiaramente basata “su elementi fattuali più sfumati di quelli che si pretendono in sede giudiziaria, perché sintomatici e indiziari”, ha espressamente sottolineato che il Prefetto deve effettuare “una attenta valutazione di tali elementi, che devono offrire un quadro chiaro, completo e convincente del pericolo di infiltrazione mafiosa”. E ancora -nel rimarcare che tale valutazione, discrezionale, ma “dalla forte componente tecnica”, deve essere accuratamente motivata, onde consentire “un vaglio giurisdizionale pieno ed effettivo”- ha espressamente giustificato la tenuta del sistema con l’argomento che la giurisprudenza amministrativa in materia ha identificato un “nucleo consolidato … di situazioni indiziarie … costruendo un sistema di tassatività sostanziale” e che nelle pronunce che si sono occupate dell’istituto si è proceduto a verificare consistenza e coerenza di tutti gli elementi raccolti dal Prefetto, non limitandosi ad un sindacato meramente estrinseco. Questa esigenza non può certo ritenersi attenuata per effetto del nuovo “preavviso di interdittiva o della misura amministrativa di prevenzione collaborativa”, che colmano solo in parte il gap di contraddittorio procedimentale più volte denunciato dalla dottrina.
In coerenza con questa linea, la novella prevede del resto che l’invio della comunicazione sospende il termine entro cui il Prefetto dovrà rilasciare l’informazione antimafia ai sensi dell’art. 92, co. 2, e fissa un tempo tendenzialmente congruo per la conclusione della procedura in contraddittorio, precisando che, entro 60 giorni dalla ricezione della comunicazione da parte dell’interessato, l’autorità, ove non proceda al rilascio dell’informazione antimafia liberatoria, dispone l’applicazione delle misure amministrative di “prevenzione collaborativa” nei casi di situazioni di agevolazione occasionale, oppure, laddove non ricorrano tali casi (e dunque la stessa autorità ravvisi la presenza di tentativi stabili di infiltrazione mafiosa), adotta l’informazione interdittiva, dandone comunicazione all’interessato entro 5 giorni, valutando la sussistenza dei presupposti per le misure di cui all’art. 32, co. 10, del d.l. n. 90 del 2014 (ossia la nomina di un commissario o la rinnovazione degli organi sociali) e, in caso affermativo, informandone tempestivamente il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione.
Il co. 2-quater, del nuovo art. 94-bis specifica peraltro espressamente che, ai fini dell’adozione della misura interdittiva, il Prefetto possa prendere in considerazione anche le sopravvenienze manifestatesi nel periodo intercorso fra la ricezione della comunicazione e la conclusione della procedura in contraddittorio.
La nuova “difesa” procedimentale nasce quindi evidentemente monca. Sembra infatti che i Prefetti stiano di fatto sterilizzando la riforma apponendo una clausola di stile mutuata dalle riferite disposizioni. Non vi è poi chi non veda come la formula utilizzata dal legislatore – “informazioni che, se disvelate, sono suscettibili di pregiudicare procedimenti amministrativi o attività processuali in corso, ovvero l'esito di altri procedimenti amministrativi finalizzati alla prevenzione delle infiltrazioni mafiose”- lasci ancora una volta estrema discrezionalità all’autorità amministrativa, riducendo -o quantomeno aggravando- il sindacato del giudice amministrativo, che sarà costretto a defatiganti istruttorie processuali[18], con dilazione dei tempi di definizione del giudizio, e conseguente sostanziale svilimento della tutela contro una misura teoricamente provvisoria.
A quest’ultimo riguardo, mi è stata peraltro segnalata la tendenza dei Prefetti a confermare l’interdittiva, rigettando le istanze di revisione e aggiornamento della misura, ex art. 91, comma 5, del Codice, negando per di più, anche in questi casi, nonostante l’evidente assenza di esigenze di celerità, le correlate garanzie partecipative.
Il problema maggiore resta comunque a mio avviso quello degli atti riservati.
A quanto mi hanno riferito alcuni avvocati che seguono specificamente la materia, le informative di polizia, sulla cui scorta viene adottata l’interdittiva, in tempi recenti non rimangono più riservate, ma vengono tutt’al più omissate in talune parti (p.es.: sui nomi dei soggetti “controllati” con l’interessato, ma certamente non fino all’eventuale giudizio (ove sono poi rese accessibili integralmente).
Il problema della riservatezza riguarda però gli atti dei procedimenti penali, specie quelli in corso ed in fase di indagine, i quali non sono mai prodotti, ma solo menzionati e/o citati nelle parti di interesse dalle Prefetture e dalle forze di polizia: sui loro contenuti e sui fatti ivi citati in effetti non esiste, nell’ambito delle misure di prevenzione amministrativa, alcun contraddittorio. Si pensi alla criticità di tutto ciò, vieppiù considerando che anche nel caso di un processo penale che venga esitato con una sentenza di assoluzione con formula piena, la stessa sentenza assolutoria può non esser sufficiente ad escludere l’adozione di un’interdittiva e può essere anzi posta a fondamento della stessa. In sostanza ove non ci sia “contraddittorio” sui fatti, la valutazione è rimessa totalmente alla discrezionalità del Prefetto.
Da qui l’importanza di un sindacato pieno ed effettivo del giudice amministrativo, che ha il diritto e il dovere di accedere a tutti gli atti ed elementi presupposti al provvedimento impugnato.
Sindacato che, evidentemente, deve estendersi al necessario controllo di proporzionalità della scelta interdittiva rispetto a quella di mera prevenzione collaborativa e che incide, per l’effetto, sulla concreta valenza della graduazione delle misure di prevenzione costituente, come già osservato, la più importante novità della riforma del 2021.
A questi ultimi fini, come considerazione di chiusura, non si può peraltro mancare di segnalare come il legislatore abbia perso un’importante occasione per dare alle imprese, come pure era stato suggerito, una possibilità di adottare misure di self cleaning.
*Lo scritto riproduce il testo dell’intervento, corredato da note, della Relazione su “Il contraddittorio nel procedimento della nuova interdittiva antimafia” tenuta dall’A. all’Incontro di studio sul tema “Il nuovo volto delle interdittive antimafia alla luce del Piano nazionale di ripresa e resilienza”, organizzato dalla Sezione staccata di Reggio Calabria del T.A.R. Calabria e dall’Università degli studi di Reggio Calabria, l’8 aprile 2022.
[1] Tra gli studi più recenti sulle interdittive antimafia, si vedano, senza pretesa di esaustività, R. Maria e A. Amore, Effetti «inibitori» delle interdittive antimafia e bilanciamento fra principi costituzionali: alcune questioni di legittimità dedotte in una recente ordinanza di rimessione alla Consulta (5 maggio 2021), in Federalismi.it, n. 12/2021; G. D’Angelo, Il tentativo d'infiltrazione mafiosa ai fini dell'adozione dell'informazione interdittiva, tra garanzie procedimentali, tassatività sostanziale e sindacato giurisdizionale, in Foro it., 2021; F. Figorilli-W. Giulietti, Contributo allo studio della documentazione antimafia: aspetti sostanziali, procedurali e di tutela giurisdizionale, in federalismi.it, 2021; le varie note a sentenza di R. Rolli e R. Rolli-M. Maggiolini su Giustiziainsieme, negli anni 2020 e 2021; M. Mazzamuto, Interdittive prefettizie: rapporti tra privati, contagi e giusto procedimento, in Giur. it., 2020; M. Noccelli, Le informazioni antimafia tra tassatività sostanziale e tassatività processuale, in giustizia-amministrativa.it, 2020; A. Longo, La Corte costituzionale e le informative antimafia. Minime riflessioni a partire dalla sentenza n. 57 del 2020, in Nomos 2020; e ancora i contributi raccolti in G. Amarelli e S. Sticchi Damiani (a cura di), Le interdittive antimafia e le altre misure di contrasto all’infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, Torino, 2019, tra cui quello dello stesso G. Amarelli, Le interdittive antimafia “generiche” tra interpretazione tassativizzante e dubbi di incostituzionalità, ivi, pp. 207 ss.; R. Garofoli e G. Ferrari, Sicurezza pubblica e funzioni amministrative di contrasto alla criminalità; le interdittive antimafia, in giustizia-amministrativa.it, J. P. De Jorio, Le interdittive antimafia e il difficile bilanciamento con i diritti fondamentali, Napoli, 2019; A. Longo, La «massima anticipazione di tutela». Interdittive antimafia e sofferenze costituzionali, in federalismi.it, 2019; F. Siracusano, Impresa mafiosa e contiguità, in A. M. Maugeri, V. Scalia e G. M. Vagliasindi (a cura di), Crimine organizzato e criminalità economica, Pisa, 2019, pp. 325 ss.; A. Bongarzone, L’informativa antimafia nelle dinamiche negoziali tra privati e pubbliche amministrazioni, Napoli, 2018, pp. 21 ss.; F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in giustamm.it, 2018A. Specifici riferimenti anche in F. Fracchia e M. Occhiena, Il giudice amministrativo e l’inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell’interesse pubblico, in Dir. econ., 2018, 3, pp. 1125-1164. Sull’istituto si sono pronunciate, come è noto, ripetutamente pronunciate, sia la Corte costituzionale (cfr. da ultime le sentt. n. 4 del 2018 n. 4 e n. 57 del 2020) che l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (cfr. la sent. 6 aprile 2018, n. 3, su cui v. i commenti di G. Leone, L’Ad. Plen. del Cons. di Stato alle prese con l’interdittiva prefettizia antimafia e la teoria dell’interpretazione, in Foro amm., 2018, 1103 e di M. Mazzamuto, Pagamento di imprese colpite da interdittiva antimafia e obbligatorietà delle misure anticorruzione, in Giur. it., 2019, 1, p. 157 ss. nonché, da ultimo, la sent. n. 23 del 26 ottobre 2020).
[2] Per tutte, quella della III Sezione del Consiglio di Stato, dalla nota sent. 3 maggio 2016 n. 1743 alla recente sent. 25 ottobre 2021 n 7165, su cui il richiamato commento di R. Rolli e M. Maggiolini.
[3] G. VELTRI, Questioni controverse in tema di interdittive antimafia, Relazione al convegno su “Questioni controverse di diritto amministrativo. Un dialogo tra Accademia e Giurisprudenza”, svoltosi a Palazzo Spada il 1° aprile scorso e visualizzabile dal link youtube indicato sul sito della giustizia amministrativa.
[4] Su cui cfr. inter alia A. LONGO La Corte costituzionale, cit.
[5] Merita in proposito rimarcare che la giurisprudenza amministrativa è consolidata nell’affermare che il decorso del termine annuale indicato dall’art. 86 non implica la decadenza automatica dell’eventuale misura interdittiva, ma impone soltanto di procedere alla verifica della persistenza o meno delle circostanze poste a fondamento dell’interdittiva, con l’effetto, in caso di conclusione positiva, della reiscrizione dell’impresa nell’albo le imprese e, in generale, del suo recupero al mercato. Il principio è ribadito, citando anche l’Adunanza Plenaria n. 23 del 2020, in un ampio e puntuale scritto del consigliere di Stato Massimiliano NOCCELLI, pubblicato nel 2021 sul sito della giustizia amministrativa: M. NOCCELLI, Le informazioni antimafia tra tassatività sostanziale e tassatività processuale, in www.giustizia-amministrativa 2020.
[6] L’A. richiama in proposito Cons. Stato, sez. III, 5 ottobre 2016, n. 4121, nel senso che la persistente rilevanza degli elementi indiziari posti a base dell’informativa affermata dalla giurisprudenza, anche dopo il decorso del termine annuale previsto dall'art. 86, co 2, cit., non è l’effetto di una non prevista ultrattività dell'informativa positiva, a differenza di quella c.d. negativa (o liberatoria), né tantomeno il frutto di una non consentita interpretazione in malam partem, come pure si è ritenuto, ma l’oggetto di una precisa disposizione normativa e, in particolare, dell’art. 91, comma 5, dello stesso d. lgs. n. 159 del 2011, per il quale «il Prefetto, anche sulla documentata richiesta dell’interessato, aggiorna l’esito dell’informazione al venir meno delle circostanze rilevanti ai fini dell’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa». Secondo la giurisprudenza amministrativa, tale disposizione ha evidentemente considerato che gli elementi posti a base dell’informativa antimafia a effetto interdittivo non “scadono” per il decorso del termine annuale, in quanto l’aggiornamento “liberatorio” dell’informativa può esservi solo quando essi perdano la loro rilevanza indiziaria del pericolo di infiltrazione (così ad es. TAR Lazio, Latina, sez. I, n. 32 del 2021). A conferma e sostegno di tale chiave di lettura, il Collegio ha aggiunto che sarebbe del resto irragionevole e contrario alla ratiodella normativa antimafia «sostenere che elementi di consistente gravità, quali ad esempio l’assidua frequentazione, nel tempo, di soggetti pregiudicati o l’altrettanto costante collaborazione economica dell’impresa con la mafia o, addirittura, la presenza di soggetti controindicati nelle cariche societarie, perdano la loro efficacia indiziante solo perché l'informativa sia “scaduta” decorso l’anno dalla sua emanazione».
[7] Cfr. da ultimo, prima della riforma del 2021, Cons. Stato, sez. III, 25 ottobre 2021 n. 7165 (con nota di P. CACACE, Conformità dell’interdittiva antimafia alle norme costituzionali, euro unitarie e internazionali pattizie, in giustamm.it, 2022, che, richiamando anche la sentenza n. 3 del 2018 dell’Adunanza plenaria, rimarca che la natura cautelare, anticipatoria e prudenziale, affermata da consolidata giurisprudenza, rende estranee al sistema sanzionatorio penale le misure interdittive antimafia, soggette, invece, al principio di legalità e a quello del giusto procedimento “secondo criteri di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità”.
[8] Cfr. Cons. Stato, sez. III, sent. n. 565 del 2017.
[9] Cfr. in argomento F. Fracchia-M. Occhiena, Il giudice amministrativo e l’inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell’interesse pubblico, in Dir. econ., 2018, 3, pp. 1125-1164.
[10] V. infra.
[11] Cfr. la sentenza n. 3 del 2018 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
[12] Cons. Stato, sez. III, 26 ottobre 2016, n. 4555 e, a seguire, tra le altre, sentt. 30 novembre 2017, n. 5623 e, più recentemente, 3 marzo 2020, n. 1576.
[13] Sull’ordinanza v. i commenti di L. Bordin, Contraddittorio endoprocedimentale e interdittive antimafia: la questione rimessa alla Corte di Giustizia. E se il problema fosse altrove? in Federalismi.it, 22 luglio 2020 e di G. Carratelli, Il (mancato) contraddittorio endoprocedimentale in materia di informazione antimafia, in Amministrazione e contabilità dello Stato e degli enti pubblici(www.contabilitapubblica.it), 30 gennaio 2021.
[14] TAR Lombardia, Brescia, sentenza del 17 maggio 2019 c. Prefettura di Mantova, con numero oscurato.
[15] Su cui, inter alia, gli scritti di R. Rolli, e di R. Rolli e M. Maggiolini, citt.,
[16] F. Figorilli, W. Giulietti, cit.
[17] Cfr. le sentt. Cons. Stato, Sez. III, 9 aprile 2021 n. 2899, nonché, subito dopo la novella 2021, 13 dicembre 2021 n. 8309, rimarcando che soprattutto nelle “ipotesi in cui la permeabilità mafiosa appaia alquanto dubbia, incerta, e presenti, per così dire, delle zone grigie o interstiziali (…) l’apporto procedimentale del soggetto potrebbe in effetti fornire elementi utili a chiarire alla stessa autorità procedente la natura dei rapporti tra il soggetto e le dinamiche, spesso ambigue e fluide, del mondo criminale”.
[18] Esemplificativamente, per restare in Calabria, l’ordinanza TAR Catanzaro, 16 aprile 2021 n. 784.
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Abusi edilizi e sistema sanzionatorio: contesto normativo e profili dommatici: la lottizzazione abusiva. – 2.1. Le ulteriori fattispecie di illecito edilizio. – 3. Il principio del legittimo affidamento e il potere sanzionatorio: considerazioni dommatiche e profili di interferenza. – 3.1: Segue: legittimo affidamento e onere motivazionale nell’ordine di demolizione: vicende applicative. – 4. Abuso di necessità e diritto all’abitazione: le soluzioni giurisprudenziali nel diritto interno e sovranazionale. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Considerazioni introduttive
Il tema dell’abusivismo edilizio e della disaggregazione territoriale esistente fra nord e sud Italia nell’utilizzazione del territorio[1] ha da sempre sollevato un acceso dibattito in dottrina e giurisprudenza con orientamenti contrastanti sulla interpretazione ed applicazione delle misure di contrasto e repressione degli abusi, anche per le forti incertezze e contraddizioni esistenti nel sistema normativo in ambito edilizio[2]. Considerato che il territorio italiano è posto anche ad alti rischi di dissesto idrogeologico e molti Comuni sono ad alta pericolosità di frana e pericolosità di idraulica, ci si è chiesti quali misure si possono adottare per preservare le aree verdi ed il territorio contrastando fattori quali il consumo del suolo e l’abusivismo edilizio ed esplorando soluzioni che possano mitigare la tensione sociale preludendo a una strategia di ricomposizione urbanistica. Il tema dell’abusivismo edilizio non può essere ridotto solo ad una questione strettamente repressivo-sanzionatoria ma è un problema anche culturale, di prevenzione, di ambiente, di salute che va opportunamente sviluppato, quindi, in un quadro normativo nazionale e regionale chiaro e lungimirante.Tuttavia, la dilagante diffusione dell’abusivismo edilizio, l’intrico normativo e l’articolata suddivisione delle competenze fra Stato-Regioni hanno contribuito ad acuire la scarsa tutela del territorio oltre che al fallimento delle politiche urbanistiche ed ambientali nazionali, regionali e locali, confermando la crisi del modello di federalismo consolidatosi dopo la riforma costituzionale del 2001. Paradossalmente i conflitti di competenza fra istituzioni, la gerarchia normativa che vede intersecarsi principi costituzionali, Testo Unico dell’edilizia, Codice dei beni culturali e del paesaggio, Convenzione europea sul paesaggio, leggi nazionali e regionali, normative e pianificazioni a ogni livello ha dato luogo a un farraginoso sistema normativo con norme spesso non coincidenti tra loro.
In un tale contesto caratterizzato da carenze e criticità della normativa e dell’attività amministrativa del governo del territorio – che hanno sovente impedito la costruzione di un sistema urbano equilibrato e policentrico – si inserisce il delicato rapporto tra potere-dovere dell’amministrazione pubblica locale nell’esercizio dei poteri di vigilanza e di irrogazione di sanzioni su tutta l’attività edilizia ed urbanistica e delle conseguenze imputabili alla sua inerzia nella repressione degli illeciti urbanistici. Per la Suprema Corte di Cassazione, in particolare, con riguardo ai reati urbanistici[3], l’oggetto della tutela penale apprestata in materia edilizia non va individuato esclusivamente nell’interesse strumentale della P.A. al controllo delle attività che comportano trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, bensì e principalmente nella "salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio" medesimo[4]. Ed al fine di garantire un ordinato sviluppo del territorio si rende necessario un apparato normativo di chiusura che garantisca la vigilanza e la repressione degli abusi edilizi mediante sanzioni sia amministrative che penali[5].
2. Abusi edilizi e sistema sanzionatorio: contesto normativo e profili dommatici: la lottizzazione abusiva
L’attuale disciplina della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia[6], nonché della responsabilità e sulle relative sanzioni, è contenuta nel Titolo IV, capi I e II, del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 s.m.i. (cd. t.u.ed.)[7], che costituisce il testo fondamentale di riferimento[8], anche se ai sensi dell’art.117 Cost. il ‘governo del territorio’[9] rientra tra le materie di competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni[10]. Coerentemente con tale assetto, il t.u.ed. fa riferimento alla potestà legislativa regionale esercitabile nel rispetto dei principi fondamentali così come fissati da legge statale. (art. 2 t.u.ed.)
Il t.u.ed. nel disciplinare i diversi livelli di intervento sul territorio, prevede, per la violazione dei precetti relativi ad ognuno di essi, apposite sanzioni. Il legislatore, infatti, dopo aver individuato agli artt. 27 e 31, commi 7 e 8, i soggetti preposti all’attività di vigilanza e di repressione e all’art. 29 i soggetti diversamente responsabili dell’illecito commina, per gli interventi realizzati in assenza di titolo, le sanzioni amministrative di cui agli artt. 31, 33, 37, 38, nonché quelle penali di cui all’art. 44, comma 1, lett. b e c, e comma 2-bis, applicabili unitamente a quelle amministrative[11].
L’individuazione dei soggetti coinvolti nella realizzazione dell’illecito edilizio costituisce il presupposto per la applicabilità delle sanzioni di cui al Capo II, sia dal punto di vista amministrativo che penale: a tal proposito, l’art. 29 t.u.e.d. stabilisce che “il titolare del permesso di costruire, il committente ed il costruttore sono responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo” [12]. Sussiste, poi, un preciso obbligo[13] di attivarsi da parte dei soggetti deputati alla vigilanza sull’attività urbanistica. La legislazione urbanistica, infatti, attribuisce all’ente comunale il potere-dovere di intervenire al fine di prevenire e di reprimere gli episodi di abusivismo, di cui, tuttavia, non circoscrive debitamente i margini di discrezionalità[14].
Inoltre, ancora problematico è il tema delle modalità di partecipazione del privato al procedimento di irrogazione della sanzione. Tendenzialmente la giurisprudenza maggioritaria esclude che i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, attesa la loro natura vincolata e la doverosità della sanzione, debbano essere assistiti da particolari garanzie partecipative, e quindi preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 e ss. della l. n. 241 del 1990 agli interessati per le opere realizzate in assenza di titolo[15], ma sul punto si tornerà nel corso della trattazione.
Come innanzi detto, il t.u.ed. al capo II, nell’individuare le diverse ipotesi di illecito, delinea un sistema graduato delle misure di repressione degli abusi edilizi e le relative conseguenze sanzionatorie amministrative e penali, prevedendo altresì, le ipotesi di sanatoria ottenibile mediante l’accertamento di doppia conformità disciplinato dall’art. 36[16].
L’art. 30, nel disciplinare gli elementi tipici della lottizzazione abusiva e il relativo regime sanzionatorio[17], come più volte sottolineato dalla giurisprudenza , mira a garantire un ordinato sviluppo del tessuto urbano, in coerenza con le scelte urbanistiche dell’amministrazione comunale, il cui potere pianificatorio viene ad essere vanificato dall’indebito intervento urbanistico o edilizio sui terreni “in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adattati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione” (art. 30 comma 1)[18]. La norma prevede l’adozione di atti amministrativi volti a colpire e sanzionare sul piano amministrativo la lottizzazione abusiva di terreni, senza che sia prevista alcuna pregiudiziale penale, cioè di previa verifica della sussistenza della responsabilità penale di cui all’art. 44, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001[19]. Difatti, in caso di accertamento di tale condotta illecita, il dirigente del competente ufficio comunale deve emettere immediata ordinanza di sospensione delle opere in corso, che va trascritta nei registri immobiliari, e il “divieto di disporre dei suoli e delle stesse opere con atto tra vivi”; qualora, nei successivi 90 giorni, non intervenga la revoca del provvedimento di sospensione, si attiva un meccanismo di automatica traslazione delle aree lottizzate nel patrimonio disponibile del Comune in modo che il dirigente o responsabile del competente ufficio possa procedere alla demolizione (art. 30, commi 7 e 8)[20]. In tal caso,la gratuita acquisizione del bene abusivo nel patrimonio dello Stato è inscindibilmente connessa al regime di competenza della rimozione dell’opera abusiva che rientra nella sfera della pubblica amministrazione[21].
In merito al ruolo che deve essere svolto dalle Amministrazioni competenti, i Giudici di Palazzo Spada[22] hanno precisato che gli enti preposti nella gestione e tutela del territorio non esauriscono la loro funzione nel tutelare l’interesse al formale rispetto della pianificazione urbanistica, esigendo, invece, anche “la tutela dell’interesse all’effettività del controllo del territorio da parte del soggetto pianificatore tenuto a reprimere qualsiasi intervento lottizzatorio che non sia stato previamente assentito”. Ciò perché spesso non è infrequente constatare lacorresponsabilità dello stesso Comune nella violazione delle norme urbanistiche e nel mancato esercizio del controllo. Del resto, la giurisprudenza amministrativa e penale più volte ha sottolineato che la lottizzazione abusiva è fra le principali cause del degrado urbano e dei gravi problemi sociali che ne derivano[23] e la sanzione prevista dell’acquisizione coattiva dell’immobile al patrimonio del Comune contemplata dall’art. 30, comma 8, tu.e.d. è un atto vincolato[24].
Tuttavia, va ricordato che l’innegabile gravità dell’effetto della confisca per coloro che si trovino coinvolti anche in modo inconsapevole ed estranei alla condotta antigiuridica, ha determinato per quanto concerne le sanzioni, un’oscillazione in merito alle posizioni assunte della stessa Cassazione nell’individuare dei correttivi alla irrogazione della confisca da parte del giudice penale, prendendo in considerazione la possibilità di riconoscere tutela alla buona fede degli acquirenti anche in considerazione del principio di proporzionalità della sanzione. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi di acquirente in buona fede, nel caso in cui non sia stata trascritta l’ordinanza di demolizione antecedentemente all’atto di acquisto, con la conseguente sua inopponibilità agli aventi causa del cespite. In tale ipotesi,ai sensi dell’art. 1147 c.c. “la buona fede è presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto”, e che “la buona fede non giova se l'ignoranza dipende da colpa grave”[25]. Inoltre, l’art. 46, comma 1, del Tu.e.d prevede la sanzione della nullità solo per gli atti tra vivi, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione sia iniziata dopo il 17 marzo 1985, e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Con la conseguenza che, allorquando nell’atto notarile di trasferimento dell’immobile oggetto di irregolarità urbanistica, il titolo edilizio sussista, ma l’abuso consista in una lottizzazione abusiva per cambio di destinazione d’uso, lo stesso non può essere dichiarato affetto dal vizio di nullità, pur essendo irregolare sotto altri profili[26]. In tale ipotesi, di fronte ad un atto rogato da notaio che non sollevi alcuna obiezione, la buona fede dell’acquirente non può essere apriori esclusa nonostante l’orientamento della giurisprudenza (se pur non condivisibile) che ritiene sussistere nell’acquirente una presunzione legale di conoscenza del regime urbanistico ed edilizio.
Al riguardo, la Corte costituzionale nella sentenza 26 marzo 2015 n. 49, seguendo l’orientamento della CEDU, rilevò che in caso di lottizzazione abusiva la confisca disposta, avendo natura di sanzione intrinsecamente penale, qualora venga in concreto applicata da un’autorità diversa dal Giudice penale, ovvero dall’autorità amministrativa, può essere disposta “solo nei confronti di colui la cui responsabilità sia stata accertata in ragione di un legame intellettuale (coscienza e volontà) con i fatti”[27]. Ma con successiva sentenza 8 luglio 2021 n. 146, la Corte costituzionale soffermandosi sulla tutela dei terzi acquirenti destinatari della misura ablativa, ha in primo luogo affermato che, essendo nulli gli atti di acquisto di beni oggetto di lottizzazione abusiva, gli stessi possono agire, nei confronti dei responsabili diretti dell’illecito lottizzatorio mediante azione di ripetizione dell’indebito oggettivo ed eventuale azione risarcitoria. Ma ha anche osservato che, se la confisca, per la sua incidenza sulla sfera patrimoniale del singolo, è vincolata anche al rispetto del principio di proporzionalità, è nondimeno doveroso ritenere che tale principio assume diverse caratterizzazioni – riverberandosi ciò sulla diversa entità della tutela offerta – a seconda della struttura delle fattispecie sanzionatorie e delle relative finalità[28], considerato anche che, l’adozione della misura ablatoria si realizza solo laddove a tale esito non si sia giunti per effetto della previa adozione, da parte del Comune, dei provvedimenti previsti dall’art. 30, commi 7 e 8, d.P.R. n. 380/2001 e delle altre determinazioni dell’Autorità amministrativa comunale.
Di certo non aiuta l’interprete Cass. pen., Sez. III, n. 18527/2022[29], la quale, ribadendo che sussiste la lottizzazione c.d. materiale allorquando “l’intervento è idoneo a pregiudicare la riserva pubblica di programmazione territoriale, presupponendo la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria, o comunque quando si verifica un mutamento dell’assetto territoriale che implica la necessità di predisporre nuove opere di urbanizzazione o di potenziare quelle esistenti”, ritiene che per aversi lottizzazione abusiva occorra un mutamento dell’assetto territoriale comportante la predisposizione di nuove opere di urbanizzazione, dimenticando che il legislatore già con l’art. 18 l. 28 febbraio 1985 n. 47 avesse dato la definizione dell’illecito della lottizzazione[30]. Ma così ragionando, si finirebbe con l’attribuirebbe al giudice una discrezionalità nella valutazione di quel quid pluris – tale da sconfinare nell’arbitrio – nonché la violazione del principio costituzionale di eguaglianza in correlazione alle sanzioni stabilite dalla legge per gli illeciti.La oggettiva complessità e poliedricità del fenomeno evidenzia la innegabile gravità delle conseguenze che essa comporta soprattutto per coloro i quali non risultano sempre consapevoli della antigiuridicità dei comportamenti e delle implicazioni connesse all’esercizio del potere delle amministrazioni comunali.
2.1. (Segue): Le ulteriori fattispecie di illecito edilizio
Occorre premettere che le fattispecie di illecito edilizio che saranno oggetto d’analisi sono quelle sottoposte al regime di controllo preventivo connesso al necessario previo rilascio del titolo abilitativo. Gli interventi soggetti a segnalazione certificata di inizio attività[31], invece, sono regolati dall’art. 37 tu.e.d che prevede la sola “sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento del valore venale del bene conseguente alla realizzazione dell’abuso e comunque non inferiore a 516 euro”[32].
Oltre all’ipotesi della lottizzazione abusiva, che rappresenta l’illecito urbanistico più grave tra quelli previsti dall’attuale ordinamento, il d.P.R. n. 380/2001 distingue diverse categorie di illecito, individuandone le specifiche caratteristiche.
Difatti, autonomo rispetto alla fattispecie di lottizzazione abusiva è un diverso genus di abuso edilizio caratterizzato, come si coglie dalla diversa qualitas e dosimetria sanzionatoria, da una minore carica disvaloriale. Detta categoria è suscettibile di venire a consumazione, alternativamente, mediante diverse modalità di realizzazione, ordinate secondo la gravità dell’abuso: una prima ipotesi, delineata dall’art. 31, parifica, quanto alle conseguenze sanzionatorie, tre tipi di intervento abusivo: quello realizzato nell’assenza di permesso di costruire, in totale difformità e con variazioni essenziali. In ossequio al principio di determinatezza dell’illecito, che informa il sistema sanzionatorio latu sensu, il Legislatore, ai sensi degli artt. 31, comma 1, e 32[33], puntualmente descrive le ultime due fattispecie nelle rispettive caratterizzazioni oggettive.
La seconda modalità di realizzazione, di carattere residuale, consiste, invece, in un intervento edilizio soltanto parzialmente difforme dal permesso a costruire (art. 34).
L’assenza di una esplicita perimetrazione contenutistica di quest’ultima fattispecie ha richiesto interventi giurisprudenziali in chiave tassativizzante: la nozione di parziale difformità, secondo una ricostruzione di matrice pretoria, presuppone che l’intervento costruttivo, nonostante sia previsto nel titolo autorizzatorio, venga realizzato secondo modalità diverse da quelle “consacrate a livello progettuale”[34].
Tale prospettiva riceve specifico avallo da una lettura a contrario dell’art. 31 t.u.ed., che, nel descrivere le opere eseguite in totale difformità dal permesso a costruire, si riferisce a quelle che “comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto nel permesso stesso”. Come opportunamente evidenziato in giurisprudenza, il discrimen intercorrente tra le due species di difformità – che sono accomunate esclusivamente dalla sussistenza di un titolo abilitativo descrittivo di uno specifico intervento costruttivo – va ravvisato nella divergenza dei parametri di raffronto: se la totale difformità evoca una “comparazione sintetica tra l’organismo progettato e quello scaturente dalla complessiva attività di edificazione, quella parziale, piuttosto, concerne la singola difformità rispetto alle previsioni progettuali dell’intervento edilizio”[35].
Margini di potenziale sovrapponibilità si profilano anche con riguardo alla fattispecie intermedia dell’intervento realizzato con variazioni essenziali: a tal proposito si è di recente sostenuto che integra difformità parziale un intervento caratterizzato da modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera[36].
Il corretto discernimento tra le diverse ipotesi è pregno di risvolti di tipo pratico apprezzabili in punto di disciplina. Nella prima categoria, a tenore dell’art. 31, accertata la sussistenza dell’illecito, la pubblica amministrazione emette un provvedimento col quale ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione. Come sanzione all’inottemperanza del suddetto obbligo, oltre che l’irrogazione di una pena pecuniaria, opera un meccanismo analogo a quello previsto per la lottizzazione abusiva. In particolare “il bene e l’area di sedime[37], nonché quella necessaria secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del Comune”.
Nella seconda ipotesi, ferma restando la rimozione o la demolizione delle opere abusive a spese dei responsabili e a cura di questi ultimi – ovvero a cura del Comune in caso di inerzia dei responsabili – è prevista una speciale ipotesi di conversione della sanzione demolitoria con una pena pecuniaria – cd. fiscalizzazione dell’abuso[38] – secondo i parametri di commisurazione di cui all’art. 34, comma 2, stante la parziale conformità dell’intervento ai requisiti prescritti. Detta conversione, infatti, è subordinata alla valutazione di impossibilità di rimozione dell’opera senza pregiudizio dell’intervento realizzato a norma di legge.
A mente di consolidata giurisprudenza la prospettiva funzionale prevalente del complesso sanzionatorio è quello orientato alla restituzione in integro dell’ordine urbanistico violato[39]. La sanzione pecuniaria, infatti, si qualifica come deroga alla regola generale della demolizione e presuppone la rigorosa dimostrazione dell’oggettiva impossibilità di procedere alla rimozione delle parti difformi senza incidere, sul piano delle conseguenze materiali, sulla stabilità dell'intero edificio [40].
Il Legislatore, dunque, attribuisce alla pubblica amministrazione, su istanza del privato e nella fase esecutiva, il potere di sostituire la più grave sanzione della demolizione con una pena di species diversa, cioè la sanzione pecuniaria solo nei casi in cui sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione: “deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso”[41]. Di nessun rilievo, pertanto, sarebbe il fatto che l’intervento di ripristino risulti eccessivamente oneroso anche in ragione del valore attribuibile all’immobile. A parere del Consiglio di Stato, infatti, “se si potessero prendere in esame anche questi profili si rischierebbe di trasformare l’istituto in esame in una sorta di “condono mascherato” con incidenza negativa grave sul complessivo assetto del territorio e in contrasto con la chiara determinazione del legislatore, che ha imposto che abbia luogo la demolizione parziale, tranne il caso in cui la relativa attività materiale incida sulla stabilità dell’intero edificio, e dunque anche nell’ipotesi in cui nella parte da demolire siano stati realizzati strumenti o impianti più o meno costosi”[42].
Quanto al pregiudizio funzionale ovvero ai danni arrecati all’immobile che possono impedirne l’utilizzo (es. interruzione degli impianti), lo si ritiene irrilevante in quanto, ripristinati lo stato dei luoghi e lo status legittimo (art. 9-bis d.P.R. n. 380/01), l’interessato potrà dare corso a tutti gli interventi utili all’ottenimento delle condizioni previste per l’agibilità degli immobili. Pertanto, è onere del privato fornire dimostrazione dell’obiettiva impossibilità di ottemperare all’ordine stesso senza pregiudizio per la parte conforme[43].
Tale affermazione poggia, in primo luogo, sul bene giuridico tutelato dal complesso normativo in esame, qual è l’ordinato sviluppo del tessuto urbano e degli insediamenti abitativi, in aderenza alle scelte pianificatorie dell’amministrazione nonché un uso corretto del suolo edificabile coerente con le sottese esigenze finanziarie e della comunità territoriale di riferimento. Viene in rilievo, in secondo luogo, l’interesse privato alla salvaguardia di un intervento edilizio realizzato in maniera compatibile con i parametri di legge, riferibile, a seconda dei casi, alla libera iniziativa economica o al diritto di abitazione.
Nel contesto normativo così delineato è possibile individuare un sistema sanzionatorio che si articola, sul versante amministrativo, in un triplice ordine di misure: l’ordine di demolizione, la gratuita acquisizione al patrimonio indisponibile del Comune dell’area sulla quale insiste la costruzione abusiva nelle ipotesi di cui all’art. 31 tu.e.d.[44] e la pena pecuniaria eventualmente inflitta in sostituzione alla demolizione.
Tale assetto è insuscettibile di essere ricostruito in termini univoci in ragione della profonda asimmetria che insiste quanto ai rispettivi requisiti di operatività nonché quanto ai relativi scopi: l’ingiunzione a demolire è sanzione orientata alla restitutio in integrum e, segnatamente, all’obiettivo di ristabilire il menomato ordine urbanistico[45]. Invero, proprio in ragione della sua spiccata vocazione ripristinatoria, l’irrogazione della misura prescinde dall’accertamento dei requisiti soggettivi del trasgressore potendosi applicare anche a carico del soggetto rispetto al quale non sia possibile muovere alcun addebito di responsabilità purché si trovi in rapporto con la res tale da consentire la restaurazione dell’ordine violato[46].
L’automatica traslazione dell’oggetto materiale dell’illecito al patrimonio dello Stato, invece, differentemente si atteggia a seconda dell’illecito contestato e conserva la propria autonomia rispetto all’ordine di demolizione[47]. Nei casi di lottizzazione abusiva, infatti, la misura ablatoria ha ad oggetto le aree lottizzate ed è conseguenza automatica della mancata revoca dell’ordine di sospensione di cui all’art. 30, comma 7: essa è legata da un nesso di stretta strumentalità con la demolizione delle opere che avviene a esclusiva cura della pubblica amministrazione competente.
Nel diverso caso di interventi eseguiti in assenza, totale difformità o con variazioni essenziali del permesso di costruire, come anticipato, il soggetto che deve provvedere alla demolizione è il responsabile dell’abuso, destinatario del provvedimento di ingiunzione, o l’attuale proprietario dell’immobile, se soggetto diverso. Solo in caso di inottemperanza all’ordine di ripristino[48], è prevista la sanzione della gratuita acquisizione con vocazione afflittiva[49]: tale misura, infatti, non ha valenza strumentale alla rimozione delle opere indebitamente realizzate ed è, invece, subordinata ad un duplice ordine di condotte: la costruzione di un’opera abusiva e l’inadempimento all’obbligo di demolirla[50]. In presenza di tali condizioni, il transito del bene abusivamente edificato nel patrimonio comunale avviene ipso iure, costituendo effetto automatico di tali condotte[51]. In tal caso, proprio in ragione della natura afflittiva della sanzione in esame, vi deve essere necessaria coincidenza tra l’autore della condotta sanzionata – ovverosia l’inottemperanza – e il destinatario della sanzione, in ossequio al principio della personalità della pena[52].
La ricostruzione della natura e degli effetti della sanzione nei termini anzidetti è stata di recente ribadita dal Consiglio di Stato, che ha chiarito alcuni profili della disciplina in esame e segnatamente quali siano le condizioni affinché il proprietario del bene abusivo possa scongiurare l’effetto ablativo a detrimento del diritto di proprietà.
In particolare, il soggetto destinatario di un ordine di demolizione non adempiuto deve dimostrare di essere stato impossibilitato ad eseguirlo “per una ragione non riconducibile a sua colpa” [53]. Solo in tal caso si recide il necessario nesso di riferibilità soggettiva della condotta materiale al soggetto, sufficiente a ritenere non integrato l’illecito in questione.
La sentenza in esame prende in considerazione anche l’ipotesi non infrequente in cui il rapporto con la res sia precluso in ragione della sottoposizione del bene a sequestro penale. Ebbene, in tal caso, la mera sottoposizione a sequestro, che fisiologicamente esclude qualsivoglia potere di disponibilità sulla cosa, non è di per sé ostativa a rendere operativo il meccanismo di automatico trasferimento. Ciò in quanto grava comunque sul titolare l’onere di attivarsi presentando all’autorità giudiziaria un’istanza di dissequestro ai fini del ripristino dello stato dei luoghi così come contemplata ai sensi dell’art. 85 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale: solo in caso di rigetto si avrebbe sospensione dell’ordinanza di demolizione. In tale ipotesi, invero, non sarebbe possibile muovere un giudizio di rimproverabilità nei confronti del destinatario della misura afflittiva posto il carattere incolpevole della condotta inadempiente. Tale conclusione consente, peraltro, bilanciare la insopprimibile garanzia della necessaria riferibilità soggettiva della condotta all’autore, alla diversa esigenza di “non incentivare comportamenti opportunistici volti a paralizzare l’azione amministrativa di vigilanza e tutela del territorio, speculando sui tempi – per ovvi motivi, necessariamente più lunghi – di conclusione del procedimento penale”[54].
La forte incidenza della misura ablatoria in esame sul diritto di proprietà soddisfa, come osservato in dottrina, anche una funzione marcatamente preventiva della commissione dell’illecito congiuntamente a quella di incentivare alla spontanea rimozione dell’illecito[55].
Significativa valenza paradigmatica assume, con riguardo al tema in esame, il comma 5 dell’art. 31 del TU Edilizia[56]: nel delineare le conseguenze dell’acquisizione gratuita del bene al patrimonio dello Stato, ne individua quale esito fisiologico la demolizione cui – occorre ribadirlo – tale misura ablatoria è preordinata[57]. La norma individua, poi, un’ipotesi derogatoria rappresentata dal caso in cui “con deliberazione consiliare non si dichiari l’esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico.” In tal caso non si darebbe luogo alla demolizione e l’opera abusivamente costruita resterebbe inglobata nel patrimonio statale.
Tale disposizione suscita particolare interesse per una serie di aspetti che spaziano dal profilo redazionale alle relative implicazioni quanto alla consistenza del potere del Comune.
La pubblica amministrazione territorialmente competente può, in deroga al regime sanzionatorio, deliberare a favore della permanenza di un’opera formalmente abusiva se ravvisi l’esistenza di interessi pubblici preponderanti. La norma attribuisce alla P.A. una discrezionalità dai confini evidentemente estesi in ragione del generico richiamo alla categoria degli interessi pubblici e in assenza di un catalogo legalmente predeterminato idoneo a veicolare l’azione discrezionale della pubblica amministrazione.
L’ampia categoria di interessi pubblici è, invero, notoriamente poliedrica e suscettibile di inglobare una vasta gamma di valori rilevanti che, nell’ipotesi in esame, il Legislatore non si occupa di circoscrivere.
Tale considerazione è pregna di conseguenze pratiche: la discrezionalità della pubblica amministrazione, è così significativamente dilatata con il latente rischio di abuso di tale estensione. Alle complicazioni geneticamente connesse al bilanciamento di interessi pubblici e privati che rilevano nel caso concreto, si aggiungono, infatti, quelle derivanti da una necessaria e preliminare selezione in astratto degli interessi pubblici da ponderare, scelta che sfugge a qualsivoglia circoscrizione legislativa ma è rimessa interamente alle scelte comunali. Un tale contesto genera qualche perplessità che è alimentata, in primo luogo, dalle conseguenze particolarmente incisive di una scelta totalmente rimessa alla P.A. sulla sfera del privato: la misura ablatoria della gratuita acquisizione dello Stato, che incide in misura massima su un diritto costituzionalmente garantito, è inscindibilmente connessa alla demolizione di una costruzione abusiva: dovrebbe essere, dunque, prerogativa del Legislatore stabilire con precisione le condizioni che consentono sacrificio di un diritto soggettivo, destinato a cedere dinnanzi all’interesse pubblico preponderante: quello della salvaguardia dell’ordine edilizio. L’ipotesi derogatoria contemplata dal comma 5 dell’art. 31 attribuisce al Comune il potere di interrompere il nesso di strumentalità tra la gratuita acquisizione del bene al patrimonio dello stato e la demolizione, consentendo, peraltro, una deviazione dalla naturale conseguenza della demolizione sulla base di una valutazione di interessi rimessa alle scelte dell’amministrazione nell’esercizio della discrezionalità collocata non solo a valle, nel valutare l’opportunità della rimozione integrale dell’opera rispetto alla preminenza di interessi pubblici, ma anche a monte, nella selezione degli stessi, attingendo da una categoria dai confini incerti e assai estesi.
A bilanciare, soltanto parzialmente, questa dilatazione notevole del potere amministrativo, appare essere l’ultima parte del già menzionato comma laddove preclude al Comune competente di adottare la delibera della mancata rimozione laddove l’opera contrasti con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico[58]. Anche in tal caso, tuttavia, la clausola finale ben si presta ad interpretazioni eterogenee.
A chiarire i presupposti dell’esercizio del potere comunale di cui all’art. 31 co. 5 del T.u.ed. è intervenuta, ancora una volta, la fonte giurisprudenziale.[59] Il Consiglio di Stato[60] ha infatti individuato in tale norma di chiusura uno strumento la cui operatività è subordinata alla presenza di un intervento edilizio non solo illegittimo ma anche non altrimenti recuperabile alla legittimità in favore dei privati la cui portata derogatoria è rimessa alla esclusiva potestà comunale, “consentendo, di fatto, alla mano pubblica ciò che non è permesso alla parte privata”[61]. Tale “via d’uscita”, di natura evidentemente eccezionale[62] rispetto alla soluzione della demolizione è, dunque, un “vantaggio unilaterale” di cui l’ente locale ricopre la veste di esclusivo arbitro. Quanto alla posizione del privato, delle cui sorti è immediato domandarsi, la Corte riserva la “residua difesa di poterne dimostrare l’insussistenza”. La ratio legis è limpidamente delineata: “in un ordinamento nel quale la non consumazione del territorio, specie mediante edificazioni non legittime, costituisse valore assoluto, o, quanto meno, di grado sufficientemente elevato, quella norma non avrebbe motivo di essere, posto che allora la reintegrazione del territorio – mediante eliminazione di quanto l’ha non correttamente consumato – dovrebbe da esso essere pretesa senza eccezioni per alcuno. Non così nel nostro, all’evidenza, dove invece quella norma funge da strumento di sostanziale redenzione dalla colpa (costituita dall’avvenuta edificazione non legittima), con l’unica attenuante data dal fatto che il perdono (a livello sostanziale ed oggettivo) non si risolva in vantaggio del singolo, autore della colpa, bensì dell’intera collettività”[63].
E allora è proprio la ricostruita ratio – la tutela del vantaggio della collettività[64] – che dovrebbe animare l’esercizio del potere in esame che dovrebbe altresì fungere anche come criterio di bilanciamento delle sopravvenute emergenze, connesse al fisiologico decorrere del tempo ed alle contingenze ad esso legate, specie nelle ipotesi, del tutto infrequenti, nelle quali le lungaggini delle vicende legate all’accertamento degli abusi edilizi determinano scenari complessi e cangianti.
3. Il principio del legittimo affidamento e il potere sanzionatorio: considerazioni dommatiche e profili di interferenza
L’analisi del sistema sanzionatorio degli illeciti edilizi finora svolta costituisce premessa necessaria per l’inquadramento delle condotte e i connessi profili funzionali nonché idonea a disvelarne una connotazione fondamentale che costituisce il minimo comune denominatore con le vicende sviluppatesi intorno al tema del legittimo affidamento: la coesistenza di interessi collettivi e privati può essere considerata, infatti, il fulcro attorno a cui ruotano le problematiche che emergono nell’attività di repressione degli abusi edilizi rappresentandone, tra l’altro, il punto di maggiore delicatezza. Ne costituiscono conferma, come si è visto, le numerose vicende giurisprudenziali che ne hanno governato l’attuazione. Su questa linea ricostruttiva giova, ora, procedere all’analisi dell’interferenza tra il principio del legittimo affidamento, che occorre brevemente illustrare nella sua dimensione teorica e pratica, e l’esercizio del potere sanzionatorio, così come esaminato nei paragrafi precedenti.
A dispetto dell’assenza di un esplicito richiamo in Costituzione, il principio del legittimo affidamento[65] ha una portata valoriale tale da potersi ascrivere ai principi di ordine costituzionale acquisendone, dunque, analoga collocazione sovraordinata[66]. Di pacifica opinione, riscontrabile in consolidata giurisprudenza, è la sua riconducibilità al disposto di cui all’art 3 Cost. di cui costituirebbe diretto corollario. Di peculiare pregnanza è la posizione della giurisprudenza costituzionale che, nel riferirsi a tale principio, lo eleva ad “elemento essenziale dello Stato di diritto”.[67]
Sinergicamente, la garanzia dell’affidamento assume significativa rilevanza nella regolazione dei rapporti tra Stato e cittadino assurgendo a canone fondamentale dell’azione amministrativa[68] essendo stato virtualmente inserito, anche in tal caso per via dottrinale e pretoria, nell’elenco dei principi generali di cui alla disposizione d’esordio della legge sul procedimento amministrativo[69]. Il legittimo affidamento sconta, infatti, analogo difetto di espressa menzione normativa anche a livello di legislazione primaria. Tale opzione è, tuttavia, di mera valenza formale posto che, all’esito della progressiva rimodulazione delle relazioni tra pubblica amministrazione e cittadino in termini squisitamente dialogici, il legittimo affidamento ne costituisce premessa necessaria. Ad avallare tale conclusione si pone la recente interpolazione dell’art. 1 della l. 241/1990 ad opera della l. 120/2020 di conversione del cd. Decreto Semplificazione, arricchita del nuovo comma 2-bis la cui collocazione tassonomica ne disvela la funzione programmatica: se l’interazione tra cittadino e Stato deve essere improntata per specifica dizione normativa da collaborazione e buona fede, essa deve indefettibilmente svilupparsi sotto l’egida del legittimo affidamento.
Nello studio che ci si appresta a svolgere, tali considerazioni costituiscono una chiave metodologica nella risoluzione della più immediata questione esegetica insorgente attorno al principio di affidamento: la perimetrazione di quelle situazioni qualificate idonee a generare una posizione meritevole di tutela. Legittimo affidamento e bilanciamento di interessi rappresentano, invero, i termini di un sillogismo complesso: nella dichiarazione di infondatezza della questione di legittimità sollevata dalla Suprema Corte di Cassazione[70] dell’art. 29, comma 1, d.-l. n. 185/2008[71]proprio in relazione alla lesione di tale parametro, la Corte Costituzionale, richiamando peraltro svariati precedenti, ribadisce la fisiologica sottoposizione del principio dell’affidamento all’operazione di ponderazione con altri diritti e valori costituzionali e ciò finanche nel caso in cui l’affidamento afferisca a diritti soggettivi perfetti.[72]
Tale ricostruzione impone di abiurare criteri selettivi staticamente assertivi e previlegiare, invece, una logica necessariamente dinamica che si sviluppi in operazioni di perenne raffronto con situazioni ed esigenze eterogenee.
Mentre nel caso del rapporto con le istituzioni pubbliche, e segnatamente nell’attività di produzione legislativa, il quesito è stato risolto dalla Corte costituzionale ricorrendo alla nozione di causa normativa adeguata, nell’attività amministrativa, il parametro dirimente deve necessariamente coincidere con l’interesse pubblico individuato dalla norma attributiva del potere quale sua direzione teleologica.
Tuttavia, la verifica della preminenza di un interesse pubblico è operazione ben più complessa che ha impegnato a lungo la giurisprudenza amministrativa.
Occorre dar conto sinteticamente degli approdi di matrice pretoria in proposito che saranno utili a disvelare le singolarità che invece hanno caratterizzato il provvedimento oggetto di esame, l’ordine di demolizione.
Nell’individuare le situazioni di volta in volta idonee a costituire posizione di vantaggio a favore del privato, la giurisprudenza, come anticipato, si è avvalsa di una criteriologia di tipo fattuale, insuscettibile di essere ricondotta ad unità all’interno di una trama sistematicamente ordinata. A conferma di tale impostazione è stata, in particolare, la progressiva apertura alla tesi dell'indifferenza della forma dell’atto fonte del legittimo affidamento tale da poter ipotizzare che anche un mero comportamento o una condotta di inerzia possa ingenerare nel privato l’affidamento circa l’an di una data circostanza. Emblematiche sono, in proposito, le tre note ordinanze gemelle della Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 23 marzo 2011, nn. 6594, 6595 e 6596, che, per ciò che qui interessa, hanno ritenuto azionabile il diritto al risarcimento del danno per lesione del legittimo affidamento non ingenerata da un atto amministrativo ma da mero comportamento. In particolare, “il provvedimento che aveva concesso il diritto a edificare e che, perché illegittimo, è stato legittimamente posto nel nulla, rileva per il titolare dello ius aedificandi esclusivamente quale mero comportamento degli organi che hanno provveduto al suo rilascio, integrando così, ex art. 2043 c.c., gli estremi di un atto illecito per violazione del principio del neminem laedere, [..] per avere tale atto, con la sua apparente legittimità, ingenerato nel destinatario l’incolpevole convincimento (fondato sull’affidamento in ordine alla legittimità dell’atto amministrativo e, quindi, sulla correttezza dell’azione amministrativa) di potere legittimamente procedere all’edificazione”.
È ora opportuno evidenziare come, secondo una autorevole ricostruzione dommatica della nozione di discrezionalità amministrativa, il potere discrezionale attribuito alla pubblica amministrazione consiste nel bilanciare i diversi interessi esistenti, individuando attraverso una visione pluralistica, la soluzione ottimale ai fini della cura dell’interesse pubblico[73]. Tale scelta, che trova estrinsecazione formale nel provvedimento amministrativo, è esito di una valutazione comparativa di interessi pubblici e privati rilevanti nella fattispecie concreta, i quali possono essere anche confliggenti. È proprio in questa complessa operazione di bilanciamento e di ponderazione che si rinviene l’ubi consistam dell’attività amministrativa in quanto tale.
A tale postulato è ispirata la fisionomia del procedimento amministrativo[74]: la trama degli istituti partecipativi che scandisce la dinamica procedimentale è strumentale, in una prospettiva dialogico-collaborativa, all’ampliamento dello spettro cognitivo della pubblica amministrazione tale che possa acquisire elementi ulteriori utili all’esercizio del potere. Discrezionalità amministrativa che non implica affatto libertà di scelta, ma, al contrario, necessità che ogni decisione sia il frutto dell’osservanza di precisi criteri, alcuni individuati dalla norma altri dall’esperienza dell’amministrazione decidente[75]. Su un diverso versante, secondo una logica, invece, prettamente difensiva, i poteri di interazione riconosciuti dalla legge al privato assumono vocazione squisitamente garantistica specie con riguardo ai provvedimenti idonei ad incidere negativamente sulla sfera giuridica soggettiva individuale: a tale categoria sono senz’altro ascrivibili le fattispecie provvedimentali rilevanti ai fini dell’analisi che ci si appresta a condurre e segnatamente le misure predisposte dall’ordinamento alla repressione degli abusi edilizi.
È opportuna qualche precisazione metodologica: nella disamina dei profili problematici geneticamente connessi alla ponderazione di contrapposti interessi, tali misure assumono, invero, straordinaria valenza paradigmatica posto che nella relativa articolazione procedurale si condensano le spinosità tipicamente connotative dei provvedimenti di segno negativo i quali, nel perseguire una finalità pubblicistica, incidono a detrimento di interessi privati.
La tematica in esame sarà scandagliata in relazione a due diversi fronti speculari a due diverse accezioni dell’interesse privato latu sensu inteso.
In primis l’indagine verterà sui punti di interferenza tra l’esercizio del potere amministrativo di controllo e conseguente sistema sanzionatorio[76] alla luce della consolidata giurisprudenza amministrativa che esclude la configurabilità di un legittimo affidamento tutelabile. In particolare, è opportuno premettere che orientamento del Consiglio di Stato ha ribadito il principio secondo cui il decorso del tempo non incide sulla doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della misura sanzionatoria, in quanto trattandosi di atto di natura vincolata non è richiesta alcuna specifica motivazione circa la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all’irrogazione della sanzione[77]. Il profilo della rilevanza del decorso temporale, che sarà oggetto di analisi approfondita nel paragrafo che segue, si interseca con la qualificazione del potere di irrogazione delle sanzioni che giurisprudenza consolidata esclude essere di natura discrezionale in quanto carente degli estremi sopra descritti. In tale direzione il potere sanzionatorio si inserisce nell’area dell’attività vincolata.[78]
In secondo luogo, sarà analizzata la rilevanza dell’interesse privato anche nel suo peculiare atteggiarsi in termini di vero e proprio diritto e segnatamente di diritto all’abitazione.
Giova preliminarmente sottolineare la centralità del formante giurisprudenziale che, su ambedue i versanti, ha tracciato le linee del processo evolutivo – sovente tortuoso e irto di contraddizioni – sviluppatosi attorno a tali questioni, caratterizzate, come si vedrà, da stringente attualità.
3.1. (Segue): Legittimo affidamento e onere motivazionale nell’ordine di demolizione: vicende applicative
La problematica questione della determinazione delle situazioni idonee a fondare legittimo affidamento è stata esaminata di recente in tema di abusi edilizi. Il tema della repressione di tale ordine di illeciti ha costituito, invero, terreno fertile per il progredire del dibattito sul profilo in esame.
In particolare, costante era il contrasto giurisprudenziale in materia di legittimità dell’ordine di demolizione di un’opera abusiva quando fosse decorso un considerevole lasso temporale dalla realizzazione dell’intervento specie nei casi nei quali vi fosse stata dissociazione soggettiva tra il responsabile dell’abuso ed il proprietario del bene il quale abbia maturato legittimo affidamento sulla conformità ai parametri di legge dell’immobile di sua proprietà.
La questione ha riguardato anche gli eventuali profili di incidenza del decorso temporale sulla parte motiva del provvedimento amministrativo e segnatamente sull’idoneità della consistente distanza cronologica tra l’intervento abusivo e l’esercizio del potere della pubblica amministrazione a rimodulare in senso rafforzativo l’obbligo di motivazione[79].
Un orientamento giurisprudenziale più risalente aveva negato qualsiasi incidenza del mero trascorrere del tempo sia sui profili di legittimità del provvedimento sia sui relativi obblighi motivazionali. Siffatta conclusione muove dalla premessa della inesauribilità del potere amministrativo che dunque non solo non è oggetto ad alcun termine prescrizionale ma è da qualificare come atto dovuto: l’esercizio del “potere di ripristino dello staus quo” a distanza di un arco cronologico considerevole dalla realizzazione dell’abuso non è circostanza idonea ad ingenerare una posizione giuridica meritevole di tutela a beneficio del privato. Lo snodo argomentativo a sostegno di tale tesi è rinvenibile nella insussistenza di un obbligo di comparazione di contrapposti interessi: da ciò deriverebbe l’irrilevanza del fattore temporale sul corpus motivazionale del provvedimento che trova, poi, ulteriore ragione giustificativa nella doverosità dell’esercizio del potere[80]. L’ordine di demolizione, proprio per la sua natura di atto vincolato, non solo non richiede la valutazione, da parte dell’amministrazione, delle ragioni di interesse pubblico – concrete ed attuali – sottese alla sua emanazione ma neppure la comparazione con gli interessi privati sacrificati[81]. Il carattere abusivo dell’opera è ostativo alla possibilità di “dolersi del fatto che l’amministrazione lo abbia prima in un certo qual modo avvantaggiato, adottando solamente a notevole a distanza di tempo i provvedimenti repressivi dell’abuso non sanabile”[82].
A mente di tale orientamento, in sintesi, non è giuridicamente ipotizzabile l’insorgenza di un affidamento legittimo alla permanenza di una situazione illegale, né il decorso del tempo può esaurire il potere sanzionatorio della pubblica amministrazione o valere alla stregua di una sanatoria: consentire l’estinzione di un abuso edilizio per il semplice decorso del tempo significherebbe configurare una sorta di “sanatoria extra ordinem”[83].
Diverso orientamento aveva attribuito, invece, al fattore temporale una portata incidente sulle modalità di esercizio del potere repressivo specie in caso nel quale responsabile dell’abuso e proprietario del bene fossero soggetti diversi: tale dissociazione soggettiva era ritenuta, invero, sintomatica della buona fede del proprietario rilevante in quanto connessa al principio di proporzionalità dell’azione amministrativa, corollario di quello di ragionevolezza e parità di trattamento, che impone all’amministrazione il perseguimento del pubblico interesse col minor sacrificio possibile dell’interesse privato[84]. La decorrenza di un consistente lasso temporale tra la realizzazione dell’abuso e l’esercizio del potere sanzionatorio, in sostanza, si considerava idonea ad ampliare i termini dei valori oggetto di bilanciamento con conseguenti riflessi sulla consistenza dell’apparato motivazionale del provvedimento di demolizione: l’interesse pubblico non poteva, in quest’ottica, coincidere, con il mero ripristino della legalità violata, in particolare il Comune avrebbe dovuto esplicitare in motivazione considerazioni afferenti alla posizione dei proprietari non responsabili dell’abuso nonché della protratta inerzia della pubblica amministrazione[85].
Dalla disamina delle pronunce giurisdizionali aderenti a tale tesi, si evince, in ogni caso, la necessità di valutare la effettiva sussistenza di una situazione di incolpevole affidamento. Restando, infatti, pacifica la natura vincolata dell’ingiunzione alla demolizione nonché della sua realità – dal che consegue l’irrilevanza di un eventuale successivo trasferimento del bene – la giurisprudenza in esame sostiene che solo in taluni casi limite, opportunamente circoscritti, è possibile giungere a diverse conclusioni: trattasi dei casi in cui l’attuale proprietario dell’edificio abusivo destinatario del provvedimento di rimozione non sia responsabile dell’abuso nonché il trasferimento del bene non sia avvenuto al solo fine di eludere la disciplina sanzionatoria e che tra la realizzazione dell’abuso, il successivo acquisto, e l’esercizio da parte dell’autorità dei poteri repressivi sia intercorso un lasso temporale consistente. In una simile evenienza, proprio in ragione dell’evidente stato di buona fede del proprietario, grava in capo all’amministrazione l’onere di motivare sugli interessi pubblici idonei a ritenere “recessivo” lo stato di buona fede dell’attuale proprietario[86]. In questa prospettiva ben si comprende l’asserita necessità di un impegno esplicativo maggiore nella parte motiva del provvedimento sanzionatorio che deve rendere conto della presenza di un interesse pubblico idoneo a prevalere sullo stato soggettivo, interesse pubblico che, evidentemente, non può esaurirsi alla mera restaurazione dell’ordine urbanistico violato.
Il conflitto giurisprudenziale ha trovato definitiva composizione nella sentenza n. 9 del 17 ottobre 2017 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato aderendo alla tesi meno favorevole per il privato, per vero maggioritaria. La Corte è stata investita della questione di diritto riguardante la necessità o meno che l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo debba essere congruamente motivato sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata quando il provvedimento sanzionatorio intervenga ad una distanza temporale straordinariamente lunga dalla commissione dell’abuso nei casi-limite in cui il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi del provvedimento sanzionatorio. La Corte ribadisce l’assunto argomentativo chiave della tesi cui aderisce: “nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico, non è idonea a far divenire legittimo ciò che – l’edificazione sine titulo – è sin dall’origine illegittimo”. Non è, dunque, ipotizzabile una posizione di affidamento legittimo in capo al proprietario dell’abuso. Si è, in proposito, osservato che diversamente opinando, risulterebbero ampliate contra legem le modalità di sanatoria dell’illecito edilizio che, invece, sono oggetto di predeterminazione legale[87].
La pronuncia in esame valorizza, come dato posto a premessa dell’esegesi svolta, la divergenza sostanziale che intercorre tra l’esercizio del potere sanzionatorio e l’intervento in autotutela cui segue l’annullamento di un atto amministrativo illegittimo[88]: in quest’ultimo caso, infatti, il potere dell’amministrazione di annullare in via di autotutela un atto amministrativo illegittimo incontra il limite generale nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza sempreché sia verificato il carattere legittimo ed incolpevole dell’affidamento meritevole di tutela[89]. Ribadendo il principio secondo cui il decorso del tempo non incide sulla doverosità[90] degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della misura sanzionatoria[91], e trattandosi di attività vincolata, il Consiglio di Stato statuisce che l’ordinanza di demolizione anche se adottata tardivamente, non necessità di una specifica motivazione sulla prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino dello status quo ante né di una comparazione con l’interesse del privato coinvolto[92].
La funzione riparatoria dell’atto, che si muove in sinergia con la doverosità del potere sanzionatorio, rende, di fatto ininfluente la mancata coincidenza tra autore dell’abuso e destinatario del provvedimento in quanto inerente allo stato soggettivo dell’avente causa e dunque non incide sulle doverose[93] conseguenze connesse alla commissione dell’abuso[94]. Le conclusioni prospettate dalla Plenaria consentono di estrapolare il criterio attraverso cui la giurisprudenza ha risolto la questione in ordine alla perimetrazione di quelle situazioni qualificate idonee a generare una posizione meritevole di tutela: l’affidamento del privato, infatti, pare rilevarsi limitatamente alle situazioni in cui esista un provvedimento amministrativo favorevole e solo in caso di potere discrezionale.
La sentenza in esame ha prestato il fianco a numerose obiezioni che contestano da un lato le conclusioni inerenti alla parte motiva del provvedimento e dall’altro la negazione in toto di una posizione di legittimo affidamento del privato. In primo luogo, appare poco condivisibile il generalizzato affievolimento dell’onere motivazionale, limitata, finanche nei casi-limite oggetto di esame, ad una mera constatazione del carattere abusivo dell’opera. Da un lato, la tesi sostenuta in sentenza, nell’affermare la doverosità dell’attivazione dei poteri sanzionatori, può ritenersi coerente con la natura dommatica dell’abuso edilizio latu sensu inteso quale illecito permanente e con la ratio del sistema sanzionatorio edilizio: la circostanza la condotta non si esaurisca determina una situazione perdurante di antigiuridicità che sorregge il potere-dovere dell’amministrazione di intervenire alla sua rimozione[95]. D’altro canto, quantomeno in relazione alle ipotesi marginali in cui il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi del provvedimento sanzionatorio, sarebbe stata più opportuna una differente modulazione dell’onere motivazionale[96], anche in considerazione della sua insopprimibile portata garantistica[97].
In secondo luogo, come osservato in dottrina[98], per verificare la sussistenza di un incolpevole affidamento del privato, dovrebbe essere sottoposta a vaglio sia la condotta della pubblica amministrazione, che deve essersi estrinsecata in comportamenti incompatibili con la volontà di esercitare il potere sanzionatorio[99], sia del privato: deve accertarsi, cioè, se il destinatario del provvedimento sia responsabile dell’abuso e se abbia operato con finalità elusive. In caso di esito positivo, secondo tale dottrina, è inopinabile l’esistenza di incolpevole affidamento. Evidentemente, la constatazione di una siffatta posizione meritevole di tutela – che giammai potrebbe incidere sull’an del potere sanzionatorio – richiederebbe una enfatizzazione degli obblighi motivazionali tale da rendere espliciti i motivi e gli interessi pubblici per cui l’amministrazione decida di attivarsi a distanza di un lungo lasso temporale a detrimento degli interessi privati[100]. Alla medesima conclusione – quella, ossia, della necessità di una motivazione puntuale nell’ordine di demolizione nei cd. casi limite – è giunta parte della giurisprudenza amministrativa seppure in base ad un diverso iter logico-argomentativo rispetto a quello poc’anzi tracciato. Un maggiore impegno esplicativo non rinverrebbe la sua ragione giustificativa dalla ritenuta esistenza di una posizione di legittimo affidamento piuttosto costituirebbe naturale conseguenza del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa[101]. Tale soluzione, tuttavia, deve inevitabilmente fare i conti con i dubbi circa la compatibilità tra il principio di proporzionalità e gli atti di natura vincolata, questione su cui hanno interloquito numerose voci e rispetto a cui non si profila in dottrina una visione univoca. Su tale questione si colgono ulteriori spunti di riflessione da alcune soluzioni prospettate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo su cui si tornerà nei paragrafi che seguono.
Non è sfuggito all’occhio critico della dottrina, infine, che, in maniera poco condivisibile, la sentenza in esame ha omesso di citare un proprio precedente attestato su una diversa tesi[102]: sarebbe stato coerente con le funzioni ed il valore delle sentenze emesse dall’Alto Consesso un maggiore impegno nel chiarire le ragioni del superamento di un orientamento giurisprudenziale condensato in una sentenza, pur risalente, della stessa Plenaria[103].
È proprio alla luce di tali considerazioni che sarebbe più opportuno qualificare la posizione meritevole di tutela vantata dal privato come affidamento in buona fede, terminologia, peraltro, di non infrequente utilizzo in giurisprudenza, posto che, come emerge dalle ricostruzioni svolte, l’obbligo motivazionale è modulato in sinergia con una condizione strettamente legata al singolo proprietario in relazione al bene oggetto del provvedimento[104]. Ciò in quanto “gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o dell’occupante dell’immobile, applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell’irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell’ordine giuridico violato”[105].
Suscita qualche perplessità il richiamo all’art. 17, comma 4-bis, d.P.R. 380/2001 invocato dalla Corte, in una prospettiva sistematica, a sostegno dell’esegesi svolta, rischiamo che può suggerire talune osservazioni. In particolare, nel terzo periodo della disposizione sopra citata si legge che “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”. Ebbene la Corte conclude che se le conseguenze della tardività del provvedimento sono per legge circoscritte alla sola dimensione della responsabilità, giammai potrebbero incidere sull’an del potere sanzionatorio[106]. La contestazione oggetto della vertenza piuttosto che attenere all’esistenza di radice del potere sanzionatorio – che, alla luce delle considerazioni svolte, può ritenersi acclarata – riguardava, piuttosto, i termini sostanziali degli interessi oggetto di bilanciamento sotteso all’emanazione del provvedimento nonché il rispetto delle garanzie tipiche che avrebbero consentito al privato una effettiva interlocuzione con la pubblica amministrazione segnatamente con riguardo all’apparato motivazionale nonché la comunicazione di avvio al procedimento. Esplicativo è, a riguardo, il ricorso in appello di cui sono esposti i punti fondamentali in esordio alla sentenza. Innanzitutto, la tesi prospettata dai ricorrenti sostiene che la qualificazione dell’ordine di demolizione come atto vincolato non esime l’amministrazione a comunicare l’avvio del provvedimento con lo scopo di garantire che il destinatario sia posto nelle condizioni di interloquire con l’amministrazione in ordine alla sussistenza dei presupposti per la sua adozione[107]. Tale prospettazione non può ritenersi condivisibile e consente una riflessione sul rapporto tra provvedimenti vincolati e istituti partecipativi. Sebbene dottrina e giurisprudenza non siano unanimi sul punto[108], è stato ribadito dalla giurisprudenza che l’attività amministrativa vincolata, proprio in quanto rigidamente regolata dalla legge, non richiede l’adempimento dell’obbligo comunicativo da parte della pubblica amministrazione. Specificamente con riguardo all’ordine di demolizione, oltretutto, giurisprudenza recente ha ribadito con forza tale assunto proprio sul presupposto che l’ordine di demolizione è una “misura sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si collega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l’abuso”.[109] Tuttavia, con riguardo alla generale categoria dei provvedimenti vincolati, è opportuno menzionare un recente arresto della giurisprudenza del Consiglio di Stato[110]che, attestatosi sulla tesi opposta, ha dichiarando illegittimo un atto vincolato non preceduto dalla comunicazione di cui all’art. 7 della l. 241/1990 nel caso in cui “dal giudizio emerga che l’omessa comunicazione del procedimento avrebbe consentito al privato di dedurre le proprie argomentazioni, idonee a determinare l’emanazione di un provvedimento con contenuto diverso”. Emerge, dunque, una posizione dai tratti certamente non assolutamente assertivi, anche in considerazione della particolare complessità del caso di specie, che, in ogni caso, sembra far trasparire l’intento di garantire un adeguato bilanciamento tra la ratio sottesa all’istituto partecipativo in esame e i principi che reggono l’azione della pubblica amministrazione così come delineati dall’art. 1 della l. 241/1990[111].
Gli orizzonti giurisprudenziali hanno, in alcune occasioni, mostrato una tendenza a contemperare l’ambivalenza funzionale della partecipazione del privato al procedimento orientato a garantire, in primis, una maggiore tutela delle posizioni del privato coerentemente con i principi della collaborazione e della correttezza che animano il procedimento amministrativo e che mirano a porre il cittadino nella condizione di esplicitare le proprie posizioni. Come anticipato, infatti, le garanzie procedimentali rappresentano un’ineludibile componente della struttura del procedimento ed hanno una doppia faccia: una funzione difensiva, a presidio delle posizioni soggettive incise dal provvedimento amministrativo ed una funzione di tipo cognitivo – che vede in tal caso la pubblica Amministrazione come destinatario – che mira, a prescindere dalla natura del potere, ad una più esaustiva ricostruzione delle circostanze fattuali. Soltanto un’interlocuzione effettiva, che si realizza tramite l’applicazione razionale delle garanzie procedimentali, è idonea al soddisfacimento di tali obiettivi.
4. Abuso di necessità e diritto all’abitazione: le soluzioni giurisprudenziali nel diritto interno e sovranazionale
La disamina delle dinamiche sottese alla ponderazione di interessi contrapposti assume sfaccettature assai più delicate laddove l’interesse privato si atteggi in termini non già di mera posizione giuridica meritevole di tutela piuttosto come un diritto ascrivibile all’alveo della tutela costituzionale[112].
Il diritto al domicilio rientra nell’orbita dei valori potenzialmente sacrificabili ove l’ordine di demolizione abbia ad oggetto una casa abitata.
Il tema ha conosciuto, oltretutto, vicende applicative ben più estese, esulanti dall’area del solo diritto nazionale proprio in considerazione della pregnanza del bene giuridico rientrante nei termini del bilanciamento.
Giova procedere preliminarmente all’analisi degli esiti della giurisprudenza sovranazionale che, segnatamente, attengono a un noto caso decisi dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza Ivanova and Cherkezov c. Bulgaria. Trattasi di una sentenza di condanna pronunciata contro il Governo bulgaro per la violazione dell’art. 8 CEDU, rubricato diritto al rispetto della vita privata e familiare ed esteso anche al diritto al domicilio[113].
A dispetto degli esiti, la sentenza chiarisce profili fondamentali che si inseriscono nel complesso tema del bilanciamento degli interessi pubblici e privati. La Corte, infatti, nell’esaminare i profili di merito, innanzitutto conclude per la piena legittimità dell’ordine di demolizione sia sotto il profilo delle garanzie processuali che dello scopo, descritto con diversi sintagmi (re-establish the rule of law, prevention of disorder and promoting the economic well-being of the country)[114] ed in sostanza volto a ristabilire l’ordine urbanistico violato.
Una volta ravvisata la piena legalità formale dell’ordine di demolizione, la Corte si avvale del parametro esegetico così come delineato dall’art. 8 della CEDU: la necessità della demolizione in una società democratica. (The salient issue is whether the demolition would be “necessary in a democratic society”). La Corte qualifica la perdita della propria abitazione come la forma più estrema di interferenza con il diritto di abitazione, motivo per il quale, ciascun individuo sottoposto a tale rischio – a prescindere dalla appartenenza alla categoria dei soggetti vulnerabili – dovrebbe, in linea di principio, essere in grado di invocare il principio di proporzionalità nell’applicazione di misure ablatorie. In particolare, la Corte passa in rassegna taluni fattori che è necessario considerare e adeguatamente ponderare in caso di applicazione di un provvedimento di tale ingerenza fornendo indicazioni specifiche proprio sui termini del bilanciamento degli interessi confliggenti[115]. In tale prospettiva, è onere della pubblica amministrazione procedere ad una puntuale disamina di questi dati e renderne conto nella motivazione.
In sostanza, il pubblico interesse rappresentato dal ripristino della legalità urbanistica non può, in via assoluta, ritenersi preminente rispetto al diritto di abitazione: tale conclusione richiede una valutazione caso per caso. Né tale considerazione può essere smentita dalla mera contingenza del carattere diffuso e pervasivo degli abusi edilizi alla base del rigore delle misure repressive.
Il punto cardine della sentenza in esame è legato alla contestazione secondo cui il giudice amministrativo bulgaro abbia omesso di considerare la situazione individuale inerente alle persone destinatarie del provvedimento. Ciò in quanto la soluzione appropriata rispetto al bilanciamento di interessi in gioco è risolta a livello di legislazione interna che la individua sempre e in via di principio nella repressione degli illeciti edilizi. La valutazione, prima dell’amministrazione poi del giudice amministrativo, è stata svolta, ossia, pretermettendo qualsivoglia riferimento alla proporzionalità[116]tra la misura sanzionatoria e il diritto all’abitazione. Tale omissione, invero, ha riguardato non solo a monte il procedimento amministrativo ma anche la successiva fase giurisdizionale laddove i ricorrenti non sono stati posti nelle condizioni di far valere tale posizione. La Corte ribadisce, dunque, che le misure che incidono sui diritti individuali devono necessariamente rappresentare esito di un giusto bilanciamento (fair balance[117]) tra l’interesse generale della comunità e i diritti medesimi. Ciò implica che la misura deve essere al contempo proporzionale e non sproporzionata al raggiungimento dello scopo per il quale è prevista.
In ogni caso la giurisprudenza della Corte EDU successiva ha analiticamente puntualizzato il significato da attribuire al principio di proporzionalità negando che le condizioni personali del destinatario dell’ordine di demolizione possano avere un peso dirimente nel bilanciamento di interessi, specie nei casi nei quali l’autore della violazione abbia consapevolmente realizzato un’opera abusiva in un’area protetta in assenza del titolo edificatorio necessario[118]: diversamente opinando si sarebbe svilita la ratio di tutela dei diritti ambientali della comunità così come la funzione repressiva della misura in parola. Emerge, in definitiva, la necessità di una verifica che tenga luogo delle eterogenee circostanze emergenti nella singola fattispecie.
Il prorompente caso sopra esaminato ha ricevuto diversi seguiti nella giurisprudenza italiana[119]: recentissima è la sentenza della Cassazione penale[120] che fa applicazione dei principi Ivanova. In tema di reati edilizi, la giurisprudenza di legittimità si era già affermata nel senso della inesistenza di un diritto assoluto alla inviolabilità di domicilio[121] desumibile dalle decisioni della Corte EDU posto che tale valore deve rientrare nei termini del contemperamento con esigenze di pari rango secondo i criteri della necessità, sufficienza e proporzionalità[122]. Il rispetto di tali principi passa necessariamente per la trama delle garanzie procedurali predisposte dall’ordinamento, serventi a garantirne l’effettività. Per tali ragioni il giudice nazionale, “nel dare attuazione all’ordine di demolizione di un immobile abusivo adibito ad abituale abitazione di una persona, è tenuto a rispettare il principio di proporzionalità così come elaborato dalla giurisprudenza convenzionale, considerando l’esigenza di garantire il rispetto della vita privata e familiare e del domicilio di cui all’art. 8 della CEDU, e valutando, nel contempo, la eventuale consapevolezza della violazione della legge da parte dell’interessato, per non incoraggiare azioni illegali in contrasto con la protezione dell’ambiente, nonché i tempi a disposizione, dopo l’irrevocabilità della sentenza di condanna, per conseguire, se possibile, la sanatoria dell’immobile ovvero per risolvere le proprie esigenze abitative”[123].
In definitiva, il perno dell’iter valutativo ruota attorno all’accertamento vari fattori tra cui assumono rilievo la condizione soggettiva e la consapevolezza dell’abuso del destinatario dell’ordine di demolizione così da poter soddisfare, da un lato, i primari bisogni abitativi e dall’altro l’esigenza di scongiurare elusioni del sistema ordinamentale di repressione degli abusi edilizi. Quanto al primo aspetto, è essenziale la specificazione dell’interesse protetto con la demolizione che va adeguatamente ponderato con in diritto di cui all’art. 8 CEDU nel rispetto del principio di proporzionalità e alla luce dei criteri guida elaborati dalla giurisprudenza di legittimità più recente che, in tale prospettiva, ha avuto l’importante ruolo di perimetrare entro confini più certi il potere valutativo del giudice dell’esecuzione. Quanto al secondo aspetto, assume preliminare rilievo accertare la consapevolezza dell’agire illegalmente, il grado della colpa nonché la volontà di adoperarsi al fine di trovare una soluzione alle proprie esigenze abitative desumibile dai comportamenti successivi al provvedimento demolitorio. Tali circostanze vanno valutate congiuntamente alle effettive condizioni di salute e socioeconomiche dei destinatari dell’ordine laddove queste esplichino rilevanza sul giudizio di
verifica del rispetto del principio di proporzionalità. Rientrano, altresì, nei fattori da tenere in considerazione, il tempo sufficiente per garantire il rispetto del diritto all’abitazione – e dunque per legalizzare l’abuso ove giuridicamente possibile ovvero pe trovare una soluzione alle esigenze abitative nonché il bisogno di evitare la compressione di altri diritti fondamentali quali diritto alla salute o diritto del minore di frequentare la scuola. Così facendo, la Corte di Cassazione ha delineato un quadro lineare in ordine alla natura del diritto di abitazione e le modalità entro le quali lo stesso va ponderato con gli interessi pubblici sottesi all’ordine di demolizione, confermando, peraltro, l’assoluta centralità della parte motiva del provvedimento quale imprescindibile canale di tutela da un lato della posizione del privato ma anche della difesa dell’interesse collettivo, che permea una società democratica, dell’ordine urbanistico ed edilizio e della promozione dell’interesse economico del paese.
A tali esiti è giunta giurisprudenza penale recente[124], che valorizza la funzione prima dell’ordine di demolizione, qual è la restitutio in integrum del menomato sistema edilizio che presenta una componente anche general-preventiva, tesa ossia a scoraggiare altri potenziali trasgressori. La corretta individuazione della ratio legis consente di delineare i termini del bilanciamento di beni costituzionalmente tutelati quali sono il diritto individuale al rispetto della vita privata e familiare e quello collettivo, oggetto di tutela della normativa sanzionatoria.
5. Considerazioni conclusive
Come si è cercato di dimostrare nel presente lavoro, l’esercizio dell’azione amministrativa risulta notevolmente inciso dalla necessità di contemperare il fine pubblico tutelato dalla norma attributiva del potere con gli interessi privati di diverso ordine e rango: tale condizionamento trova il suo punto di sintesi nella pluriarticolata operazione di bilanciamento di interessi confliggenti che, nella sua genetica complessità, ha impegnato a lungo dottrina e giurisprudenza.
A.M. Sandulli in suo contributo del 1958 evidenziava che “la materia dell’edilizia urbana rappresenta indubbiamente uno dei settori dove più intensamente interferiscono norme e regole di diritto pubblico e di diritto privato, potestà pubbliche e posizioni soggettive private, diritti soggettivi e interessi legittimi, e in conseguenza competenze giurisdizionali diverse. Si tratta di una materia ricca di zone di confine e di zone grigie. Essa rappresenta quindi un incomparabile banco di prova per qualsiasi operatore del diritto”[125].
A delineare con maggior grado di precisione i termini e le modalità di tale complessa operazione ha contribuito, invero, la giurisprudenza amministrativa e di legittimità, che ha fornito – anche recependo indicazioni del diritto sovrannazionale – fondamentali coordinate ermeneutiche idonee a regolare i complessi profili di interrelazione tra gli obiettivi della comunità e gli interessi individuali. In tale contesto, il contributo di origine pretoria ha riguardato non solo la definizione – a monte – delle situazioni meritevoli di protezione ma anche delle modalità di interferenza con i pubblici poteri.
La elevata incidenza dell’opera esegetica di stampo giurisprudenziale è sintomatica della assenza o della non sufficiente chiarezza della legislazione vigente che, invece, nel prevedere ipotesi di compressione di diritti fondamentali, dovrebbe presentare margini più elevati di precisione e determinatezza tali da consentire la piena prevedibilità delle conseguenze delle condotte individuali: il principio della forseeability – congiuntamente a quello dell’accessibility – sono stati elevati, alla luce degli sviluppi giurisprudenziali più recenti, a valori informatori del sistema sanzionatorio latu sensointeso: è, dunque, fallace e fuorviante circoscrivere l’operatività di tali principi alla sola materia penale. Ciò, a maggior ragione, se oggetto del potenziale sacrificio sono diritti dotati di copertura costituzionale.
Come si è visto, l’analisi del bilanciamento di interessi è un profilo che inscindibilmente si connette allo studio del sistema di repressione degli abusi edilizi in ragione della sua fisiologica incidenza su posizioni meritevoli di tutela: ci si è soffermati, in particolare, sulla macroarea del legittimo affidamento e sul diritto di abitazione. Nonostante la evidente asimmetria contenutistica di tali ordini di interessi privati, ambedue, seppure scontino l’assenza di una copertura costituzionale diretta, sono stati ascritti all’alveo della tutela di rango gerarchicamente sovraordinato in quanto rappresentano entrambi precipitati applicativi di diritti fondamentali dell’individuo.
Alla luce delle considerazioni svolte, è possibile osservare come - a parere di chi scrive -, gli istituti sostanziali e i meccanismi procedurali predisposti dall’ordinamento edilizio ed urbanistico non sempre costituiscono tutela per i diritti individuali. Da un lato, infatti, l’attribuzione di una discrezionalità eccessivamente ampia all’amministrazione, non sufficientemente veicolata da chiari parametri legali, reca in sé il rischio di snaturare la finalità protettiva insita nella ratio degli istituti che scandiscono la dinamica procedimentale. D’altro canto, il principio di proporzionalità dell’azione amministrativa, ormai radicato nella giurisprudenza eurounitaria e sovranazionale, impone un’attenta analisi della proiezione finalistica e strumentale delle misure sanzionatorie che deve trovare un bilanciamento, in termini di adeguatezza ed opportunità, con i valori potenzialmente soccombenti così che possa essere individuata una soluzione “comporti il minor sacrificio possibile”[126]. L’effettività di tale principio, che si atteggia a vero e proprio parametro di correttezza dell’esercizio del potere discrezionale, può conseguire solo da un esercizio del potere imperniato attorno a logicità, razionalità e ragionevolezza sì da poter conferire concretezza alla collaborazione e alla buona fede a cui, per esplicita dizione legale, sono improntati i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione. L’incerta distribuzione delle competenze in materie strategiche come l’urbanistica e l’ambiente, la netta separazione tra competenze in materia urbanistica ed ambientale e tra pianificazione paesistica e territoriale, unite alla proliferazione di enti ed organismo tecnici hanno determinato la frammentazione delle responsabilità, moltiplicato i centri decisionali, gli enti e gli strumenti di pianificazione nonché le procedure, dando luogo a duplicazioni e sovrapposizioni di competenze e alimentando il contenzioso. Inoltre, l’arretratezza degli strumenti urbanistici, l’inefficienza amministrativa, la carenza di programmazione e di coordinamento tra le istituzioni unitamente alla carenza di risorse a destinare ad attività di contrasto del fenomeno dell’abusivismo edilizio, danno luogo alla percezione da parte del privato di un clima di impunità e di assenza di regole certe orientando una consistente quota di attività edilizia verso la realizzazione di immobili abusivi.
Il tema del controllo e della repressione dell’abusivismo edilizio è particolarmente delicato per aver assunto nel tempo una rilevanza sociale e politica tale da influenzare e vincolare l’intera disciplina urbanistica. Tuttavia, anche se non può essere che unanime una severa condanna del fenomeno trasgressivo, se esaminiamo da un punto di vista storico-legislativo i continui mutamenti normativi in campo urbanistico-edilizio, e le incertezze determinatesi, non si può osservare che vi sia stata una forma di concorso di colpa pubblico-privato nel riconoscere ai privati dei diritti, o quanto meno, delle aspettative di diritto, come la riproposizione ciclica di sanatorie applicate anche in contesti territoriali a rischio sismico e geologico, dove la cementificazione di terreni agricoli e la copertura del suolo incrementa la probabilità di frane e alluvioni.
Senza la percezione collettiva delle regole e la consapevolezza sociale degli oneri economici che derivano da uno sfruttamento illegale del territorio e delle gravissime conseguenze in termini di sicurezza del territorio, nessun governo e amministrazione pubblica potrà trovare una base di consenso e la quota di risorse necessarie per affrontare seriamente la questione del controllo del territorio e del contrasto di economie criminali che trovano gli spazi per il riciclaggio dei loro proventi[127]. Come scrisse Salvatore Settis nel suo libro “Paesaggio. Costituzione. Cemento”, l’Italia ha un “paesaggio distrutto dalle leggi”[128]. Ma per attuare un progetto di miglioramento della funzionalità sistemica del territorio è indispensabile una politica di lungo periodo che, preso atto dello stato dei territori, compia delle scelte anche coraggiose, prevedendo modalità di intervento e soluzioni diversificate in considerazione dei diversi contesti territoriali in cui si è sviluppato il fenomeno dell’abusivismo edilizio e consentendo di mitigare la tensione sociale.
[1] Sul maggior indice di abusivismo nelle regioni meridionali e nelle isole, M. Cremaschi, L’abusivismo meridionale: realtà e rappresentazione, in Meridiana, 1990, 9, 127- 153. In alcune Regioni, come la Campania e Calabria alla data del 2007 l’indice di abusivismo arrivava al 64%.
Dopo i tre condoni edilizi degli anni 1985, 1994 e 2003, alla data del 2016, risultava un totale di oltre 15 milioni di pratiche, di cui 5 milioni ancora inevase, sul tema Cfr. Rapporto del Centro Studi Sogeea, presentato in Senato per il convegno Trent’anni di condono edilizio in Italia, Criticità, prospettive e opportunità, 22 aprile 2016, in www.centrostudisogeea.it/img_ricerche/Rapporto%20Condono%20Edilizio%20%20Aprile%202016.pdf.
[2]M.A. Sandulli, Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in Federalismi.it, 2019; Id., Edilizia (voce), in questa Rivista, 2022, 3, 171.
[3] M. Bresciano - A. Padalino Morichini, I reati urbanistici, Milano, 2000; L. Ramacci, Diritto penale dell’ambiente, Padova, 2017.
[4] Secondo Cass., 28 febbraio 2007 n. 8407, tale bene giuridico può essere indifferentemente offeso da chiunque compia attività siffatte e non soltanto da determinati soggetti che si trovino in possesso delle particolari qualità soggettive indicate dall'art. 29 t.u.ed. Inoltre, la qualifica di parte offesa dei reati edilizi spetta unicamente al Comune, stante il “diritto soggettivo pubblico” facente capo all’ente territoriale al riconoscimento della propria posizione funzionale così come del diritto alla realizzazione e alla conservazione di un ordinato sviluppo di un predeterminato assetto urbanistico, che sono compromessi dagli illeciti urbanistici.
[5] F. Francario, Illecito urbanistico o edilizio e cosa giudicata. Spunti per una ridefinizione della regola del rapporto tra processo penale ed amministrativo, in questa Rivista, 2015, 4, 99.
[6] G. Pagliari, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2019.
[7] M.A. Sandulli (a cura di), Testo Unico dell’Edilizia, Milano, 2015.
[8] Sulla regolamentazione dell’attività edilizia per alcuni aspetti incidono anche le disposizioni introdotte dalla l. 7 agosto 2015 n. 124 (c.d. riforma Madia). Sul tema, N.M. D’Alessandro, DIA E SCIA: evoluzione storico – normativa alla luce delle modifiche apportate dalla l. n. 124/2015 (cd. Riforma Madia), in La voce del diritto, 2016. In tema di annullamento d’ufficio, o al nuovo art. 17-bis, recante il silenzio-assenso tra le pubbliche amministrazioni, si v. M.A. Sandulli, Poteri di autotutela della pubblica amministrazione e illeciti edilizi, in Federalismi.it, 2015, 17; G. Mari, Autorizzazioni preliminari e titoli abilitativi edilizi: il ruolo dello sportello unico dell’edilizia, la conferenza di servizi e il silenzio assenso di cui agli artt. 17-bis e 20 l. n. 241/1990, in G. Trupiano, Semplificazione e trasparenza amministrativa: esperienze italiane ed europee a confronto, Milano, 2016; M.A. Sandulli (a cura di), Le nuove regole della semplificazione amministrativa, Milano, 2016; M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della l. 7 agosto 2015, n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in Federalismi.it, 2015.
[9] S. Richter, La nozione di governo del territorio dopo la riforma dell’art. 117 Cost., in Giust. civ., 2003, 4, 107.
[10] Corte cost., n. 383/2005, nel delimitare la nozione di governo del territorio e l’oggetto della competenza legislativa concorrente ebbe a precisare che “l’ambito materiale cui ricondurre le competenze relative ad attività che presentano una diretta o indiretta rilevanza in termini di impatto territoriale, va ricercato non secondo il criterio dell’elemento materiale consistente nell’incidenza delle attività in questione sul territorio, bensì attraverso la valutazione dell’elemento funzionale, nel senso della individuazione degli interessi pubblici sottesi allo svolgimento di quelle attività, rispetto ai quali l’interesse riferibile al “governo del territorio” e le connesse competenze non possono assumere carattere di esclusività, dovendo armonizzarsi e coordinarsi con la disciplina posta a tutela di tali interessi differenziati”. N. Maccabiani, La Corte “compone” e “riparte” la competenza relativa al “governo del territorio”, in questa Rivista, 2005, 2, 211 e ss.; M. Luciani, L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia di urbanistica ed edilizia, ivi, 2009, 15 e ss.; G. Soricelli, Il “Governo del territorio”: nuovi spunti per una ricostruzione sistematica, ivi, 2016, 6, 683. Tale rapporto Stato-Regione, evidenzia che la disciplina dell’uso del territorio coinvolge una molteplicità di interessi pubblici, di rilevanza statale e regionale, nonché privati, ponendo non solo il problema del bilanciamento dei diversi interessi ma soprattutto quello di assicurare una unitarietà della normativa a livello nazionale e l’ esigenza di differenziazione a livello regionale secondo le specifiche diversità territoriali, in modo da evitare sperequazioni nella pianificazione e gestione delle trasformazioni del territorio.
[11] Si parla, in tal senso, di responsabilità di posizione legislativamente prevista che non è idonea, in ogni caso, a qualificare i reati in materia edilizia come reati propri: il bene giuridicamente tutelato, infatti, è la conservazione dell’ordine edilizio e può essere indifferentemente offeso da chiunque commetta condotte tese a menomare gli usi pubblici e sociali del territorio. Così App. Cagliari, Sez II, 18 giugno 2012.
[12]Secondo l’art. 29, comma 1, d.P.R. n. 380/2001: “Il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili, ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo, della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo. Essi sono, altresì, tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
[13] Sulla evoluzione normativa della natura vincolata e obbligatoria del potere repressivo della p.A. in materia urbanistico-edilizia si veda, P. Tanda, L’Adunanza Plenaria n. 9/2017 si pronuncia sul ruolo del fattore tempo nell’esercizio del potere repressivo della p.a. in materia urbanistico edilizia, in Federalismi.it, 2018, 2 e ss.; M.T. Paola Caputi jambrenghi, Principio di obbligatorietà, in AA.VV., Sanzioni amministrative in materia edilizia, Milano, 2014, 3 e ss.; Cfr. anche Cons. Stato, Sez. VI, 9 gennaio 2020 n.183 e Id., 18 maggio 2020 n. 3120: “Nel caso della vigilanza edilizia l’obbligo di provvedere emerge ormai pacificamente sia nella richiamata giurisprudenza sia dal tenore della disciplina edilizia avente natura ed effetti di normativa di principio (cfr. art. 27 d.P.R. n. 380 del 2001)”.
[14] T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 30 gennaio 2018 n. 664: “L’art. 27, comma 2 del D.P.R. n. 380 del 2001 (…) riconosce, infatti, all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l’attività urbanistica ed edilizia, imponendo l’adozione di provvedimenti di demolizione in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall’intervento edilizio non autorizzato. E ciò mediante l’esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con DIA, prive di autorizzazione paesaggistica”; conf. Id., 8 gennaio 2016 n. 17.
[15] Così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. II, 13 giugno 201 n. 3971; Id., Sez. IV, 19 marzo 201 n. 1717; Id., 29 novembre 201 n. 5595; Id., 12 ottobre 2016 n. 4204; Id., 17 giugno 2015 n. 3051.
[16] Per una rassegna delle modifiche legislative intervenute sul testo unico si veda A. Senatore, L’acquisizione gratuita degli abusi edilizi al patrimonio culturale: evoluzione normativa ed approdi giurisprudenziali, in Nuove Autonomie, 2015, 383 e ss.
[17] La norma disciplina due diverse ipotesi di lottizzazione abusiva: la lottizzazione abusiva cd. “materiale”, allorquando le opere realizzate comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia dei terreni, sia in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, approvati o adottati, ovvero di quelle stabilite direttamente in leggi statali o regionali, sia in assenza della prescritta autorizzazione. Si ha invece lottizzazione abusiva “formale” o “cartolare” quando, pur non essendo ancora avvenuta una trasformazione lottizzatoria di carattere materiale. se ne sono già realizzati i presupposti con il frazionamento e la vendita del terreno in lotti che, per specifiche caratteristiche, quali la dimensione, la natura del terreno, la destinazione urbanistica, l’ubicazione e la previsione di opere urbanistiche, o per altri elementi, evidenzino in modo non equivoco la destinazione ad uso edificatorio. La giurisprudenza ha individuato un tertium genus, la cd. lottizzazione mista, ‘consistente nell’attività negoziale di frazionamento di un terreno in lotti e nella successiva edificazione dello stesso” (Cass., 26 ottobre 2007 n. 6080; Id., 20 maggio 2015 n. 24985).
[18] P. Tanda, I reati urbanistico-edilizi, V ed., Padova, 2018, 343 e ss.; M. Laforgia, Tutela penale avverso gli atti dell’amministrazione. Legittimità amministrativa accertata dal giudice amministrativo e processo penale: i reati edilizi, in Riv. nel Diritto, 2012, 35.
[19] Il procedimento amministrativo e procedimento penale, anche se sono diretti a tutelare il medesimo bene giuridico, procedono su binari paralleli. Cons. Stato, Sez VI, 19 luglio 2021 n. 5403, ha ribadito che: il sindacato del giudice amministrativo attiene alla piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’amministrazione, al fine di verificare l’esattezza materiale degli elementi di prova invocati dall’amministrazione, la loro affidabilità e la loro coerenza, e se essi sono idonei a corroborare le conclusioni che la stessa amministrazione ne ha tratto, non secondo il canone di valutazione dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”, proprio del giudizio penale avente direttamente ad oggetto le condotte e la responsabilità personale dell’imputato, ma di credibilità razionale della decisione amministrativa alla luce degli elementi posti dall’amministrazione a giustificazione della stessa, essendo poi onere del ricorrente, tramite il ricorso, quello di contestare la veridicità dei fatti, o di rappresentate circostanze atte ad incrinare la credibilità del processo intellettivo sottostante la decisione dell’amministrazione. Cfr. anche Cass. pen., Sez. III, 24 giugno 2022 n. 24407.
[20] In caso di inerzia comunale dovrà intervenire, con gli stessi poteri previsti dall’art. 31, comma 8, il competente organo regionale che, dandone contestuale comunicazione alla autorità giudiziaria ai fini dell’esercizio dell’azione penale, provvederà ad adottare i provvedimenti eventualmente necessari a rendere effettiva la attività repressiva e ripristinatoria rimasta incompiuta.
[21] Cons. Stato, Sez. VI, 23 marzo 2018 n. 1878; Id., 23 marzo 2018 n. 1878; Id., 19 luglio 2021 n. 5384; Id., Sez. II, 17 maggio 2019 n. 3196; Id., 24 giugno 2019 n. 4320; Cons. Giust. Amm. Regione Sicilia, 8 febbraio 2021 n. 93;
[22] Cons. Stato, Sez. V, 12 marzo 2012 n.1374, www.giustizia-amministrativa.it.
[23] Cons. Stato, Sez. IV, 7 giugno 2012 n. 3381; Id, 19 giugno 2014 n. 3115; nonché Cass. pen., Sez. III, 3 dicembre 2013 n. 51710.
[24] Sulle differenze fra sindacato del Giudice amministrativo e quello del Giudice penale, cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 19 luglio 2021 n. 5403, in www.giustizia-amministrativa.it.
[25] Cons. Stato, Sez. VI, 28 luglio 2017 n. 3788, in www.diritto.it. In senso conforme, Corte EDU, Sez. II, 20 gennaio 2009, ricorso n. 75909/01, Sud Fondi c. Italia. La Corte EDU ha affermato che per disporre la confisca urbanistica – così come ogni confisca e sanzione “intrinsecamente punitiva” – è indispensabile la formulazione di un giudizio di colpevolezza, ovvero la necessità di un’imputazione soggettiva (dolosa o colposa) del fatto. Ma successivamente, la Corte EDU, 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia, in Cass. pen., 2014, 1392, va oltre affermando che se la confisca è una pena, allora la sua applicazione presupporrà necessariamente una formale dichiarazione di responsabilità a carico del suo autore, e dunque una sua condanna, non potendo trovare applicazione la confisca urbanistica mediante una sentenza che dichiari estinto il reato per prescrizione. Da qui il ricorso alla Corte cost., pronunciatasi con la sentenza 26 marzo 2015 n. 49, la quale tuttavia lascia ampi dubbi interpretativi attribuendo al giudice nazionale un compito particolarmente difficile in fase di applicazione delle decisioni della Corte EDU dovendo distinguere se la fattispecie ricada in giurisprudenza consolidata (vincolante) o meno. Si v. da ultimo, Corte EDU, 28 giugno, G.I.E.M. srl e altri c. Italia.
[26]Si v. Cons. Stato, Sez. VI, 28 luglio 2017 n. 3788, cit.
[27]In tema di confisca urbanistica in assenza di condanna, Corte cost., 26 marzo 2015 n. 49, in www.cortecostituzionale.it. Se il reato di lottizzazione abusiva si prescrive prima dell’esercizio dell’azione penale, è escluso che l’autorità giudiziaria possa disporre legittimamente la confisca di cui all’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380/2001.
[28] Corte cost. 8 luglio 2021 n. 146, in www.cortecostituzionale.it.
[29] Cass. pen., Sez. III, 11 maggio 2022 n. 18527, in www.ambientediritto.it.
[30] Va ricordato che con l’entrata in vigore della legge n. 47/198 non è più consentito all’ente comunale di poter autorizzare ex post la lottizzazione abusiva.
[31] Per un esame approfondito sull’evoluzione del sistema dei titoli abilitativi edilizi si veda, M.A. Sandulli, Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in Federalismi.it, 2019, 2 ss.
[32] Per una disamina della disciplina degli interventi soggetti a s.c.i.a si vedano dello stesso Autore, M.A. Sandulli, Edilizia (voce), cit., 43 ss.; Id., Controlli sull'attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in Federalismi.it, 2018; V. De gioia, Edilizia e Urbanistica, Regimi normativi, titoli abilitativi e strumenti di tutela, Torino, 2009; Id., La segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.), in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell'azione amministrativa, 2017, Milano, 215 ss.
[33] In particolare, l’art. 31, comma 1, stabilisce che “sono interventi eseguiti in totale difformità del permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l’esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costruire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile”. L’art. 32 opportunamente definisce la nozione di essenzialità rilevante ai fini delle variazioni che integrano l’illecito. Sul concetto di tolleranza costruttiva nelle variazioni essenziali e sugli effetti del superamento del margine di tolleranza del 2%, previsto dall’art. 34-bis d.P.R. n. 380/2001, Cons. Stato, Sez. VI, 10 maggio 2021 n. 3666; Id., Sez. II, 28 agosto 2020 n. 5288, in www.giustizia-amministrativa.it.
[34] Sul concetto di parziale difformità, TAR Campania, Napoli), 26 febbraio 2009 n. 1103, in www.giustizia-amministrativa.it.
[35] Ibidem.
[36] Cons. Stato, Sez. VI, 6 luglio 2022 n. 5620, in www.giustizia-amministrativa.it.
[37] A. Senatore, L’acquisizione gratuita degli abusi edilizi al patrimonio culturale: evoluzione normativa ed approdi giurisprudenziali, cit., 389: “L’estensione dell’oggetto dell’acquisizione gratuita, compiuta dal Legislatore è comprensibile e logica, se si considera la stretta connessione giuridica e materiale che esiste tra l’immobile e l’area sulla quale insiste. Il transito nella titolarità della p.a. comunale anche dell’area di sedime, da un lato, agevola la demolizione e il ripristino dello status quo ante dei luoghi, dall’altro, impedisce l’operatività di alcuni istituti come l’accessione (artt. 934 ss. c.c.), che potrebbero dar vita a rivendicazioni dell’immobile abusivo o al pagamento del relativo valore da parte del privato. L’acquisizione gratuita dell’area di sedime, dunque, non è un evento giuridico autonomo, ma collegato all’acquisizione dell’immobile abusivo, al fine di dargli la sua base superficiataria. Di conseguenza, l’area di sedime non può mai considerarsi di per sé abusiva, e pertanto non può mai essere acquisita in modo separato specie se l’immobile risulti demolito a seguito della relativa ingiunzione, in quanto ciò determinerebbe una sorta di espropriazione sine titulo, evidentemente non consentita dall’apparato sanzionatorio urbanistico ed edilizio”.
[38] Amplius in F. Cipriani, La fiscalizzazione dell’abuso edilizio: profili sostanziali e giurisprudenziali, Salvis Juribus, 2022.
[39]Cons. Stato, Sez. VI, 22 ottobre 2015 n. 4843, in www.giustizia-amministrativa.it. Nello stesso senso Cons. Stato, Sez II, n. 3156/2020, ivi.
[40]Cons. Stato, Sez. VI, 10 gennaio 2020, n. 254, in www.giustiziamministraiva.it.
[41]Cons. Stato, Sez. IV, n. 1912/2013, in www.giustizia-amministrativa.it.; Cons. Stato, Sez. V, 29 novembre 2012 n. 6071, ivi; Id., 5 settembre 2011 n. 4982, ivi.
[42]Cons. Stato, Sez. VI, 9 aprile 2013 n. 1912, in www.giustizia-amministrativa.it.
[43] Cons. Stato, sentt. nn. 7637/2020, 561/2020, 6147/2019, 4939/2019, 3280/2019, 4169/2018, 6497/2018 e 5585/2017, tutte in www.giustizia-amministrativa.it; TAR. Lombardia, Milano, Sez. II, 6 aprile 2020 n 59, ivi.
[44] Per una disamina approfondita dell’istituto con riguardo alla genesi e alle vicende evolutive e alla relativa teorizzazione si veda A. Senatore,L’acquisizione gratuita degli abusi edilizi al patrimonio culturale: evoluzione normativa ed approdi giurisprudenziali, cit., 384 e ss.
[45] Da ultimo si v. Cass. pen., Sez. III, 6 luglio 2022 n. 32869. Cfr. anche Corte EDU, 20 gennaio 2009, ricorso n. 75909/01, Sud Fondi srl ed altri c. Italia.
[46] In ultimo, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 9 dicembre 2020 n. 5940: “La sanzione demolitoria degli abusi edilizi ha natura oggettiva e ripristinatoria; essa colpisce il bene abusivo, indipendentemente da chi abbia commesso l’abuso; da ciò consegue che l’attuale proprietario ne subisce gli effetti a prescindere dalla circostanza di essere l’autore materiale degli abusi stessi. Pertanto, ai fini della legittimazione passiva del soggetto destinatario dell’ordine di demolizione, il testo unico dell’edilizia, nell’individuare i soggetti destinatari delle misure repressive nel proprietario e nel responsabile dell’abuso, considera quale soggetto passivo della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere concretamente l’abuso, potere che compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta (Cons. Stato, Sez. VI, 28 luglio 2017, n. 2789; Id., 26 luglio 2017, n. 3694; Tar Ancona, Sez. I, 18 luglio 2018, n. 512)”.
[47] Si veda, sul punto, TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 20 aprile 2005, n. 4336 in https://lexambiente.it/en/materie/urbanistica/88-giurisprudenza-amministrativa-tar88/2047-urbanistica-ordinanza-demolizione2047.html
[48] Sulla natura dell’ordine di ripristino si veda M.A. Sandulli, Edilizia (voce), cit.
[49] Cfr. A. Senatore, L’acquisizione gratuita degli abusi edilizi al patrimonio culturale: evoluzione normativa ed approdi giurisprudenziali, cit., 387: “L’acquisizione gratuita ha per oggetto una condotta rappresentata dall’inerzia (anche parziale in caso appunto di parziale demolizione dell’abuso eseguito) rispetto al provvedimento di demolizione adottato dalla p.a. comunale. Nel caso del provvedimento di demolizione ad essere sanzionata è una condotta commissiva (edificazione di un’opera illegittima), mentre nel caso dell’acquisizione a titolo gratuito ad essere sanzionata è una condotta omissiva (mancata demolizione della stessa opera illegittima). L’autonomia della sanzione dell’acquisizione gratuita, come detto fondata su una condotta autonomamente rilevante, è dunque piena, con la conseguenza che la stessa acquisizione non può nemmeno essere qualificata come sanzione accessoria all’ordine di demolizione. È proprio questo aspetto a costituire l’elemento differenziale tra l’acquisizione gratuita e la sanzione penale della confisca del bene, allorquando quest’ultima è emessa come sanzione accessoria ad altra sanzione impartita dal giudice penale o come misura strumentale tesa ad ovviare l’ulteriore esecuzione del reato oppure l’utilizzazione dei proventi del reato medesimo”; M.A. Sandulli, Edilizia (voce), cit., 171 ss.: “Non si può negare la natura afflittiva e non meramente sanzionatoria anche in forza dei cd. Engel criteria individuati dalla CEDU – della acquisizione gratuita al patrimonio comunale del bene e della relativa area di sedime, nonché di quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive (…)” proprio in ragione del fatto che “la sanzione è in realtà l’esito dell’inottemperanza” dell’ordine di “spontanea eliminazione degli effetti dell’illecito”. Conferma la natura amministrativa dell’ordine di demolizione Cass. pen., Sez. III, 3 marzo 2022 n. 7631.
[50] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 1° settembre 2021 n. 6190; Id., 10 dicembre 2021 n. 8240; Corte cost., 15 luglio 1991 n. 345; Id., 12 settembre 1995 n. 427, secondo la cui ricostruzione, l’acquisizione dell’opera abusiva al patrimonio comunale è stata configurata come sanzione distinta dalla demolizione che “rappresenta la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima, esegue un’opera abusiva e, poi, non adempie all’obbligo di demolirla. L’operatività dell’ingiunzione a demolire non presuppone sempre la preventiva acquisizione dell’immobile al patrimonio comunale, perché l’ingiunzione è un provvedimento amministrativo di natura autoritativa, che, in quanto tale, è assistito […] dal carattere della esecutorietà insito nel potere di autotutela.” Per tale ragione “appare evidente che, qualora non ricorrano i presupposti per l’acquisizione gratuita del bene, come nel caso in cui l’area sia di proprietà del terzo [estraneo all’illecito], la funzione ripristinatoria dell’interesse pubblico violato dall’abuso, sia pur ristretta alla sola possibilità della demolizione, rimane affidata al potere dovere degli organi comunali di darvi esecuzione d’ufficio.
[51]Ex multis, Cons. Stato, Sez VI, 25 giugno 2019 n. 4336: “In caso di inottemperanza all’ordine di demolizione di opere abusive, l’effetto traslativo della proprietà avviene ipso iure e costituisce l’effetto automatico della mancata ottemperanza; pertanto, il provvedimento di acquisizione presenta una natura meramente dichiarativa e non implica alcuna valutazione discrezionale”. Cfr. anche TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 16 aprile 2015 n. 2172, in www.giustizia-amministrativa.it.
[52] M.A. Sandulli, La potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione. Studi preliminari, Napoli, 1981; Id., Le sanzioni amministrative pecuniarie. Profili sostanziali e procedimentali, Napoli, 1983, M.A. Sandulli, Edilizia (voce), cit., 171 ss., che approfondisce la questione con riguardo al problema di diritto transitorio posto dalla modifica del regime dei controlli e dei titoli abilitativi.
[53] Cons. Stato, Sez VI, 6 luglio 2022 n. 5620, in www.giustizia-amministrativa.it.
[54] Ibidem.
[55] Cfr. A. Senatore, L’acquisizione gratuita degli abusi edilizi al patrimonio culturale: evoluzione normativa ed approdi giurisprudenziali, cit., 387 che osserva che si tratta di “una rimozione spontanea dalla quale deriva un connesso beneficio per l’interesse pubblico in termini di risparmio di misure attuative della riduzione in pristino dei luoghi. Perché se è vero che l’art. 41 del d.P.R n. 380/2001 pone a carico del responsabile dell’abuso le spese necessarie alla rimozione materiale di quest’ultimo (c.d. esecuzione in danno), è altrettanto vero che la prassi concreta evidenzia una difficoltà nel recupero delle stesse spese, che spesso rimangono a carico dell’ente”.
[56] Per un’analisi del tema si veda G. Mari, L’acquisizione di diritto ex art t.u. edilizia nei confronti dell’attuale proprietario del bene erede del responsabile dell’abuso, in questa Rivista, 2015, 3, 419 ss.
[57] Cfr. F. Armenante, Il regime pluriarticolato e disorganico delle sanzioni in materia di abusi edilizi, in Iura & Legal Systems, 2018, 142 ss.: “Il legislatore statale ha dettato, innanzitutto, la regola secondo cui l’opera abusiva acquisita al patrimonio comunale deve essere demolita e ha consentito, in via d’eccezione, ai Comuni – con attribuzione della relativa competenza al consiglio comunale – di utilizzare, anziché demolire, l’opera abusiva quando ritengano sussistente l’interesse pubblico alla conservazione e la prevalenza di esso sul concorrente interesse, anch’esso pubblico, al ripristino della conformità del territorio alla normativa urbanistico-edilizia. L’interesse pubblico alla conservazione dell’opera può essere apprezzato – e ritenuto prevalente – sempre che non sussistano le situazioni preclusive costituite dal contrasto dell’opera “con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’aspetto idrogeologico”.
[58] Si segnala che, nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico, le strutture periferiche del Ministero per i Beni e le Attività Culturali devono emettere un parere sul mancato contrasto con i rilevanti interessi ambientali. Tale parere consente all’ente comunale di deliberare per la soluzione alternativa alla demolizione per prevalente interesse pubblico. In tal senso si veda il parere fornito dall’Ufficio legislativo del Ministero con nota prot. n. 11428 dell’11 giugno 2010.
[59] Quanto alle modalità di esercizio del potere si veda Cass. pen., Sez. III, 29 dicembre 2017 n. 57942, che afferma che la delibera comunale che dichiara l’esistenza di un interesse pubblico prevalente sul ripristino dell’assetto urbanistico violato, sottraendo l’opera abusiva al suo normale destino di demolizione previsto per legge, non può fondarsi su valutazioni di carattere generale o riguardanti genericamente più edifici, ma deve dare conto delle specifiche esigenze che giustificano la scelta di conservazione del singolo manufatto, precisamente individuato.
[60] Cons. Stato, Sez. VI, 13 aprile 2017 n. 1770.
[61] Ibidem.
[62] Sulla natura eccezionale della conservazione disposta dal comune ex art. 31, comma 5, si v. Corte cost., 5 luglio 2018 n. 140, che ha dichiarato illegittima la norma di legislazione regionale campana che aveva consentito ai comuni, sulla base di Linee guida regionali, di regolamentare ed attuare misure alternative alla demolizione degli immobili acquisiti al proprio patrimonio prevedendo, tra l’altro, anche la possibilità di alienarli o cederli in locazione. A tal proposito la Corte ha precisato, innanzitutto, che la demolizione degli immobili abusivi acquisiti al patrimonio comunale costituisce “principio fondamentale della materia del governo del territorio”. Per tale ragione tale materia richiede regolamentazione uniforme su tutto il territorio nazionale: le ipotesi derogatorie e le relative modalità di attuazione, pertanto, devono essere stabilite per legge. Una diversa disciplina regolata da legge regionale contrasta con l’art. 117, comma 3, Cost. Sul tema della possibilità per i Comuni di deliberare l’acquisizione al patrimonio di immobili abusivi da adibire ad esigenze di housing sociale si veda M. Galdi, Incostituzionalità della previsione di Linee guida regionali in tema di acquisizione al patrimonio comunale di immobili abusivi e limiti delle leggi provvedimento. Un commento a prima lettura di C. Cost., 5 luglio 2018, n. 140, in Osservatorio sulle fonti, 2018, 3, 8 ss.
[63] Cons. Stato, Sez VI, 13 aprile 2017 n. 1770: “Nella specie, l’ente locale ha trovato il “prevalente interesse pubblico” nella soluzione di incapsulare in parte del piano terra dell’edificio non legittimo (per il resto costituito, per quanto consta, da un condominio a tutti gli effetti) uffici pubblici, destinati per loro natura alla fruizione collettiva. Per certi versi intuibilmente, con tale soluzione l’ente locale ha anche risolto un problema non secondario, di cui non s’è fatto carico il contenzioso pregresso: dove ricollocare i privati proprietari delle unità immobiliari sovrastanti al piano terra. Non avendo il precedente contenzioso affrontato la questione di una eventuale demolizione parziale dell’edificio non legittimo, forse possibile (ma la questione non è in alcun modo possibile che venga qui affrontata, ora, dati anche gli accadimenti processuali nel frattempo verificatisi), sta di fatto che i titoli giudiziari susseguitisi (anche per come, evidentemente, le avverse difese si sono via via articolate) avrebbero condotto alla necessità di una demolizione complessiva dello stabile, anche nelle parti già compravendute fra privati e divenute abitazioni. Se questo – sul piano, tuttavia, della mera ipotesi – può dare una spiegazione alla circostanza che il privato edificatore, pur ingiunto a demolire, non l’abbia fatto, lo stesso, per altro verso, può indurre a ritrovare una giustificazione remota al fatto che neanche l’ente locale si sia sobbarcato il tema della sorte dei condomini che sarebbero rimasti privi della loro abitazione. Grazie alla norma anzidetta e alla soluzione concreta individuata dal Comune, un punto d’equilibrio, nel bilanciamento di sopravvenute emergenze, è stato pur sempre trovato”.
[64] Cfr. Cons. Stato, Sez VI, 18 maggio 2020 n. 3120: “La norma consente, in alternativa alla soluzione finale della demolizione dell’edificazione abusiva, che quest’ultima resti pur sempre in situ, ponendo, affinché effettivamente si determini il vantaggio per l’intera collettività, requisiti destinati a fungere da presupposto dell’evento – sussistenza di prevalenti interessi pubblici; mancanza di contrasto dell’edificazione con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico – dei quali è arbitro l’ente locale e dei quali il controinteressato può dimostrare l’insussistenza”. Cfr. anche Cons. Stato, Sez VI, 13 aprile 2017 n. 1770, cit.
[65] E. Zampetti, Il principio di tutela del legittimo affidamento, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017.
[66] Per una più approfondita disamina in ordine al dibattito sulla collocazione tassonomica del principio in questione, si veda A. Travi, La tutela dell’affidamento del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, in Il Mulino Rivisteweb, 2018.
[67] Corte cost., 4 novembre 2017 n. 149.
[68] In questi termini Cons. Stato, Sez. V, 15 luglio 2013 n. 3811.
[69] Per un’analisi dei principi del procedimento amministrativo si v. M.A. Sandulli, Il codice dell’azione amministrativa: il valore dei principi e l’evoluzione delle sue regole, in M.A. Sandulli (a cura di), Il codice dell’azione amministrative, cit., 3 ss.
[70] Cass., 25 febbraio 2015 (ord.).
[71] Trattasi del decreto-legge concernente le Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anticrisi il quadro strategico nazionale.
[72] Corte cost., 4 novembre 2017 n. 149 nella quale si legge: “Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, “il valore del legittimo affidamento, il quale trova copertura costituzionale nell’art. 3 Cost., non esclude che il Legislatore possa assumere disposizioni che modifichino in senso sfavorevole agli interessati la disciplina di rapporti giuridici “anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti”, ma esige che ciò avvenga alla condizione “che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica (sentenze n. 56 del 2015, n. 302 del 2010, n. 236 e n. 206 del 2009). Solo in presenza di posizioni giuridiche non adeguatamente consolidate, dunque, ovvero in seguito alla sopravvenienza di interessi pubblici che esigano interventi normativi diretti a incidere peggiorativamente su di esse, ma sempre nei limiti della proporzionalità dell’incisione rispetto agli obiettivi di interesse pubblico perseguiti, è consentito alla legge di intervenire in senso sfavorevole su assetti regolatori precedentemente definiti (ex plurimis, sentenza n. 56 del 2015)” (sentenza n. 216 del 2015; si vedano anche, tra le tante, le sentenze n. 160 e n. 103 del 2013, n. 416 del 1999). L’intervento retroattivo del legislatore, dunque, può incidere sull’affidamento dei cittadini a condizione che: 1) trovi giustificazione in “principi, diritti e beni di rilievo costituzionale” (ex multis, sentenza n. 308 del 2013), e dunque abbia una “causa normativa adeguata” (sentenze n. 203 del 2016, n. 34 del 2015 e n. 92 del 2013), quale un interesse pubblico sopravvenuto (sentenze n. 16 del 2017, n. 216 e n. 56 del 2015) o una “inderogabile esigenza” (sentenza n. 349 del 1985); 2) sia comunque rispettoso del principio di ragionevolezza (fra le tante, sentenza n. 16 del 2017) inteso, anche, come proporzionalità (sentenze n. 203 e n. 108 del 2016; n. 216 e n. 56 del 2015).
[73]M.S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Concetto e problemi, Milano, 1939, 78.
[74]A. Travi, La tutela dell’affidamento del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, cit., 131, osserva come “la sintesi è ricercata non sul piano sostanziale ma sul piano procedimentale: l’affidamento si risolve in un argomento da ponderare nel procedimento e in null’altro”.
[75] S. Civitarese Matteucci - P. Urbani, Diritto urbanistico, Torino, 2020.
[76] Mentre in presenza di determinati presupposti individuati dalla norma, l’amministrazione è sostanzialmente vincolata nell’esercizio dei poteri e, non ha altra scelta che adottare un determinata misura, in altri casi, l’attività amministrativa è attività discrezionale, potendo la pubblica amministrazione attraverso una prudente ponderazione di tutti gli interessi in gioco adottare la scelta migliore per la realizzazione dell’interesse pubblico, tra quelle astrattamente consentite dalla norma di legge.
[77] Cons. Stato, Ad. plen., n. 9/2017 ha affermato il principio secondo cui il decorso del tempo non incide sulla doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della misura sanzionatoria, in quanto trattandosi di atto di natura vincolata non è richiesta alcuna specifica motivazione circa la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all’irrogazione della sanzione. Secondo i Giudici di Palazzo Spada “Non sarebbe in alcun. modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il rave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa o praeter legem”.
[78] Per un esame sulla evoluzione dommatica, normativa e giurisprudenziale, in tema di qualificazione dell’attività sanzionatoria della pubblica amministrazione con riguardo agli illeciti edilizi si veda P. Tanda, L’Adunanza Plenaria n. 9/2017 si pronuncia sul ruolo del fattore tempo nell’esercizio del potere repressivo della p.a. in materia urbanistico edilizia, cit., 3 ss.
[79] Per i diversi sviluppi giurisprudenziali concernenti l’ipotesi di abuso edilizio realizzato in area sottoposta a vincolo paesaggistico si vedano Cons. Stato, Sez V, 27 agosto 2012 n. 4610, in www.giustizia-amministrativa.it, T.A.R. Toscana, Sez. III, 13 maggio 2011 nn. 840, 842 e 844: in tal caso, infatti, si è affermato che la preminenza dell’interesse collettivo a preservare l’ordine paesaggistico fosse in re ipsa proprio in ragione della sua portata costituzionale.
[80] Cons. Stato, Sez. V, 29 luglio 2016 n. 3435: “Infatti, anche nel caso di abuso risalente nel tempo, l’ordine di demolizione costituisce atto dovuto, non potendo il semplice trascorrere del tempo giustificare il legittimo affidamento del contravventore poiché il potere di ripristino dello status quo non è soggetto ad alcun termine di prescrizione, né tacitamente rinunciabile: in definitiva il semplice trascorrere del tempo non può legittimare una situazione di illegittimità e tanto meno può imporre all’amministrazione un obbligo di comparazione dell’interesse del privato alla conservazione dell’abuso con l’interesse pubblico alla repressione dell’illecito”.
[81] Cons. Stato, Sez. IV, 20 luglio 2011 n. 4403, in www.giustizia-amministrativa.it; Id., 19 agosto 2016 n. 3660; Id., Sez. V, 8 novembre 2012 n. 5691, ivi; Id., Sez. IV, 11 gennaio 2011 n. 79, ivi. Postulato centrale di tale orientamento poggiava sulla considerazione che il provvedimento demolitorio non richiedesse una particolare motivazione ma che, invece, fosse sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell’intervento edilizio.
[82] T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 22 febbraio 2010 n. 860 secondo la quale il decorso del tempo non solo non rafforza la posizione giuridica dell’interessato ma anzi rafforza il carattere abusivo dell’intervento effettuato; in senso conforme: Cons. Stato, Sez. VI, 5 gennaio 2015 n. 15; Id., 6 marzo 2017 n. 1386; Id., 6 marzo 2017 n. 1060; Id., 10 maggio 2016 n. 1774; Id., 11 dicembre 2013 n. 5943; Id., 23 ottobre 2015 n. 4880; Id., Sez. V, 11 luglio 2014 n. 4892; Id., Sez. IV, 4 maggio 2012 n. 2592.
[83] Cons. Stato, Sez. VI, 5 gennaio 2015 n. 13.
[84] Sul tema del rapporto del fattore temporale e principio di ragionevolezza CGUE, 12 luglio 1957, in cause riunite 7/56, 3/57 e 7/57, Algera Dineke e.a.c. Alta Autorità, in Racc. 1957, 81 ss., punto III.
[85] Cons. Stato, Sez. VI, 27 gennaio 2017 n. 341; Id., Sez. IV, 29 febbraio 2016 n. 816. Cfr. F. Armenante, Il regime pluriarticolato e disorganico delle sanzioni in materia di abusi edilizi, cit., 147 ss. “Nel medesimo solco interpretativo si è invocata l’applicazione del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa. In particolare, pur ribadendosi che l’ingiunzione di demolizione (in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso) è in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, si è fatta salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e per il protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; secondo tale prospettazione, in assenza di una congrua motivazione, deve ritenersi integrata la violazione del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa, di diretta derivazione dal diritto eurounitario, principio che impone all’amministrazione il perseguimento del pubblico interesse col minor sacrificio possibile dell’interesse privato che è corollario di quello di ragionevolezza e parità di trattamento. […] Tale principio di proporzionalità impone invero un’indagine c.d. “trifasica”, che passa attraverso l’accertamento della necessità della misura, della sua idoneità allo scopo da perseguire e della stretta proporzionalità della misura applicata con il fine da raggiungere, per cui deve essere preferita la misura più mite che consenta di raggiungere lo scopo perseguito dalla norma”. In questo senso si veda T.A.R. Campania, Napoli, 21 luglio 2017 n. 3893. Si veda anche Cons. Stato, Ad. plen. n. 12/1983 e P. Tanda, L’Adunanza Plenaria n. 9/2017 si pronuncia sul ruolo del fattore tempo nell’esercizio del potere repressivo della p.a. in materia urbanistico edilizia, cit., 3 ss: “Come limpidamente argomentato dalla pronuncia n. 12/1983 dell’Adunanza Plenaria, il decorso di un lasso di tempo particolarmente lungo, se da un lato non poteva di per sé sanare di fatto un’opera abusiva, dall’altro lato – però – imponeva che quest’ultima potesse essere abbattuta solo mediante una puntuale motivazione sulla sussistenza di specifiche esigenze di pubblico interesse”.
[86]Cons. Stato, Sez. V, 15 luglio 2013 n. 3847; Id., Sez. VI, 14 agosto 2015 n. 3933; Id., Sez. IV, 4 febbraio 2014 n. 1016 che descrive i “casi limite” nei quali l’ingiunzione di demolizione deve essere assistita da un’adeguata motivazione circa l’interesse pubblico ad essa sottesa e, segnatamente: “a) quando il proprietario del bene sia pacificamente persona diversa da quella che ha commesso l’abuso. b) quando l’intervenuta alienazione della res non palesi finalità elusive. c) quando fra il commesso abuso e l’ordine di demolizione sia intercorso un rilevante lasso di tempo, sì da ingenerare nel proprietario uno stato di affidamento in ordine alla desistenza da parte dell’amministrazione dall’adozione di atti pregiudizievoli”.
[87] Cons. Stato, Sez. IV, 15 gennaio 2015 n. 13, che icasticamente parla di sanatoria extra ordinem.
[88] Sul potere di annullamento d’ufficio si veda C. Deodato, L’annullamento d’ufficio in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, cit., 1173 e ss.; M. Sinisi, La nuova azione amministrativa: il "tempo" dell'annullamento d'ufficio e l'esercizio dei poteri inibitori in caso di s.c.i.a.: Certezza del diritto e falsi miti, riflessioni a margine della legge 7 agosto 2015, n. 124, in Federalismi.it, 2015.
[89] Tra le altre cfr. Cons. Stato, Ad. plen.,17 ottobre 2017 n. 8, sull’obbligo di motivazione circa la sussistenza di un interesse pubblico attuale in ipotesi di autotutela caducatoria mentre la sentenza n. 9 affronta la questione dell’obbligo di motivazione circa la sussistenza di un interesse pubblico attuale in ipotesi di intervento sanzionatorio della p.A.
[90] P. Tanda, L’Adunanza Plenaria n. 9/2017 si pronuncia sul ruolo del fattore tempo nell’esercizio del potere repressivo della p.a. in materia urbanistico edilizia, cit., 6 ss., secondo cui “il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto, con la conseguenza che l’ordine di demolizione di opere abusive non richiederebbe una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione”; cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 6 settembre 2017 n. 4243.
[91] Da ultimo cfr. anche Cons. St. Sez. VI, 23 novembre 2022, n. 10340 che si veda anche per l’approfondimento della questione circa i rapporti tra l’ordine di demolizione e il certificato di agibilità precedentemente rilasciato dalla p.a.; Cons. St. Sez. VI, 7 giugno 2021, n. 4319; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 24 gennaio 2022 n. 474. Cfr. C. Agliata, Ordine di demolizione e diritto all’abitazione. Riflessioni sulla perimetrazione del concetto di abuso di necessità (nota a TAR Campania, Napoli, Sez. V, 24 gennaio 2022 n. 474, in Giustiziainsieme.it, 2022: L’abuso edilizio è illecito permanente, pertanto, ogni provvedimento repressivo posto in essere dall’amministrazione, anche a distanza di tempo dalla commissione dello stesso, non è da ritenersi emanato nei riguardi di un illecito esaurito, bensì posto in essere avverso una situazione antigiuridica che perdura sino al momento del venire in essere della sanzione. “L'ordinanza di demolizione, in quanto atto ad adozione e contenuti vincolati, non abbisogna nemmeno della valutazione di un affidamento alla conservazione della situazione di fatto, che il decorso del tempo non potrebbe mai legittimare” (T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 4 gennaio 2021 n. 12; T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 1 ottobre 2020 n. 679); “il lungo tempo trascorso dalla realizzazione dell'opera abusiva non è idoneo a radicare in capo al privato interessato alcun legittimo affidamento in ordine alla conservazione di una situazione di fatto illecita” (Cons. Stato, Sez. V, 26 febbraio 2021, n. 1637). In termini v. anche T.A.R. Campania, Napoli, Sez. II, 9 maggio 2019, n. 2500. Sulla natura del reato urbanistico come reato permanente si v. Cass., Sez. Un., 27 febbraio 2002 n. 17178. La cessazione dell’attività coincide con l’ultimazione dei lavori per il completamento dell’opera, ovvero con la sospensione volontaria o imposta, anche all’esito del sequestro penale o con la sentenza di primo grado se i lavori continuano dopo l’accertamento del reato. Cfr. Cass. pen., Sez. III, 6 maggio 2014 n. 29974, in https://lexambiente.it.
[92] Cons. Stato, Ad. plen., 17 ottobre 2017 n. 9, cit.
[93]La qualificazione del potere di irrogazione di sanzioni in termini di attività vincolata è stata di recente confermata da Cons. Stato, Sez. VI, 1° aprile 2021 n. 2418, che ha ribadito il principio per cui il carattere doveroso dell’ordine di demolizione, così come di tutti gli atti sanzionatori in materia edilizia, rende non necessaria una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati. Quanto al connesso profilo dell’onere motivazionale, il Consiglio di Stato riafferma l’insussistenza della necessità di dimostrare l’esistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione. Si può concludere, dunque, che si esclude la presenza di un affidamento tutelabile di una situazione di fatto abusiva.
[94] Ibidem.
[95] V.C. Contessa, Rassegna di giurisprudenza del Consiglio di Stato, in Giur. it., 2017, 2581 ss.; L. Droghini - G. Strazza, L'ordinanza di demolizione degli abusi edilizi tra tempo, legittimo affidamento e obbligo di motivazione, in questa Rivista, 2018, fasc.1, 113 ss.; M.C. Spena, La repressione degli abusi edilizi tra doverosità dell’operato della pubblica amministrazione e legittimo affidamento del privato, ivi, 2015, 4, 753; V. Mele, Inconsumabilità del potere e affidamento legittimo nella repressione degli abusi edilizi, ivi, 2012, 2, 148.
[96] P. Tanda, L’Adunanza Plenaria…, cit., 14: “Del resto, l’obbligo di una specifica motivazione non deve far pensare necessariamente ad un atto discrezionale, in quanto non è detto che un atto vincolato non possa necessitare di articolata motivazione”.
[97] M.S. Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1988; Id., “Motivazione” dell’atto amministrativo (voce), in Enciclopedia del diritto, Milano, 1977, XXVII; Corte cost. n. 310/2010.
[98] P. Tanda, L’Adunanza Plenaria…, cit., 19 ss., che opportunamente distingue tra due diversi casi: l’ipotesi in cui l’ordine tardivo di demolizione sia adottato a seguito di annullamento di titolo edilizio illegittimo e l’ipotesi in cui l’ordine sia adottato in assenza di preesistente titolo edilizio: se nel primo caso il problema del legittimo affidamento si pone sempre, nel secondo il problema sorge solo nei casi limite esaminati dalla Adunanza plenaria n. 9/2017.
[99] V.A. Auletta, Considerazioni intorno al cd. Affidamento del responsabile dell’abuso ed all’operazione qualificatoria del fatto nel caso di intempestivo esercizio del potere sanzionatorio in materia edilizia (a margine di T.A.R. Umbria, sez. I, 21 gennaio 2010, n. 23, in questa Rivista, 2010, 2, 235, che, invece, distingue i casi in cui la posizione di affidamento del privato poggi su un comportamento omissivo qual è l’inerzia della p.a. per un lasso considerevole di tempo e quello in cui l’affidamento si radichi, invece, oltre che sul decorso temporale, anche sul mancato rispetto del principio di non contraddizione mediante il compimento di atti incompatibili con la volontà di esercizio del dovere repressivo; P. Otranto, Decorso del tempo e tutela della sanzione urbanistica: il Consiglio di Stato arricchisce la casistica, in questa Rivista, 2007, 592 ss., che afferma, ai fini della verifica della sussistenza del legittimo affidamento, la necessità di valutare sia la condotta del privato che della pubblica amministrazione: con riguardo al comportamento di quest’ultima, la protratta inerzia che poggia sulla consapevolezza dell’abuso – nelle forme della conoscenza o conoscibilità – dà senz’altro luogo alla possibilità di riconoscere un affidamento del privato.
[100] Secondo P. Tanda, L’Adunanza Plenaria…, cit., e M.A. Sandulli, Edilizia (voce), cit., osserva criticamente, contrariamente a quanto affermato in sentenza che “sembrano sussistere spazi per arrivare ad ammettere anche la tutela dell’affidamento del privato nei confronti della p.a. nelle eccezionali ipotesi in cui il proprietario dell’opera interessata dal tardivo provvedimento di demolizione non sia il responsabile dell’abuso edilizio e non abbia posto in essere alcunché per eludere l’esercizio dei poteri repressivi dell’amministrazione”. Come, poi, osservato da L. Droghini, G. Strazza, L’ordinanza di demolizione degli abusi edilizi tra tempo, legittimo affidamento e obbligo di motivazione, in Riv. giur. edil., , 2018, cit., 1. una diversa modulazione – in senso rafforzativo – dell’onere motivazionale non determinerebbe il mutamento del potere sanzionatorio da vincolato a discrezionale posto che anche l’esercizio di attività autoritativa può coinvolgere l’apprezzamento del fatto “così definibile perché risolventesi in un’operazione complessa e dall’esito opinabile”.
[101] Lo rilevano L. Droghini, G. Strazza, L’ordinanza di demolizione, cit., con riguardo T.A.R. Calabria Catanzaro, Sez II, 11 gennaio 2016 n. 8 e T.A.R. Molise, Sez. I, 17 febbraio 2014 n. 114.
[102] Si tratta di Cons. Stato, Ad. plen., 19 maggio 1983 n. 12, che era stata chiamata a dirimere il contrasto giurisprudenziale in ordine alla rilevanza del decorso del tempo sull’ordine di demolizione e sulla consistenza del relativo obbligo motivazionale. La Plenaria era giunta a conclusioni del tutto opposte rispetto alla più recente Ad. plen. n. 9/2017, in quanto aveva affermato che il consistente lasso temporale era idoneo ad attenuare il principio secondo cui, a fronte dell’obbligatorietà del potere repressivo, non si riteneva generalmente necessaria una valutazione circa i motivi del suo esercizio posto che la constatazione dell’abuso era elemento sufficiente all’emanazione del provvedimento demolitorio. Secondo la Corte infatti, “è noto che, su un piano puramente astratto, è sempre ipotizzabile l’applicazione della sanzione amministrativa, attesa la mancanza, nella previsione legislativa del limite temporale di esercizio del potere repressivo dell’abuso edilizio. Ma il lunghissimo decorso del tempo, senza che l’amministrazione si sia comunque preoccupata di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto violata, si di per sé non è sufficiente per poter ritenere definitivamente precluso tale adeguamento, impone che l’eventuale iniziativa demolitoria abbisogni di essere sorretta da motivazioni più adeguate, rispetto a quella che si riferisce alla semplice constatazione dell’abusività dell’opera”.
[103] Lo rilevano P. Tanda, L’Adunanza Plenaria…, cit. e M.A. Sandulli, Edilizia (voce), cit., 43.
[104] Invero, secondo l’esegesi in esame, non è necessario motivare un provvedimento con il quale sia ordinata la demolizione di un’opera abusiva a prescindere dal fattore temporale posto che l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica solo laddove presenta un carattere incolpevole: la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza, al contrario, in un’attività del trasgressore volontariamente realizzata contra legem.
[105] Cfr. F. Armenante, Il regime pluriarticolato e disorganico delle sanzioni in materia di abusi edilizi, cit.
[106] Ibidem: “Secondo la plenaria, la disposizione appena richiamata chiarisce che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva l’amministrazione del potere di adottare l’ordine di demolizione, configurando piuttosto, specifiche e diverse conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell’omissione o del ritardo nell’adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo”.
[107] Secondo Cons. Stato, Ad. plen., 17 ottobre 2017 n. 9, cit., “se l’amministrazione (…) avesse comunicato l’avvio del procedimento in parola, essi avrebbero potuto rappresentare: i) la risalenza nel tempo degli abusi realizzati dalla loro comune dante causa; ii) il legittimo affidamento riposto nella mancata adozione di provvedimenti repressivi da parte dell’autorità iii) il contegno contraddittorio serbato dal Comune di Fiumicino, il quale aveva continuato nel corso degli anni ad introitare i tributi locali per l’immobile in parola, in tal modo rafforzando il convincimento circa la mancata attivazione dei poteri repressivi”.
[108] A sostegno della tesi della necessità dell’avviso di avvio al procedimento per l’accertamento della sussistenza della lottizzazione abusiva si veda T.A.R. Sicilia, Sez II, 19 gennaio 2021 n. 194: “il procedimento volto a dichiarare che è in atto una lottizzazione abusiva non si sottrae all’obbligo di consentire la partecipazione procedimentale ai soggetti sui cui interessi l’eventuale accertamento della lottizzazione abusiva è destinato ad incidere, e quindi all’inoltro, a tali soggetti, dell’avviso di avvio del procedimento previsto dall’art. 7 della legge 241/1990. Invero, seppur l’accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva comporta, per la P.A., il compimento di attività vincolata, la complessità della valutazione che può talvolta richiedere tale accertamento e la gravità delle conseguenze che ne derivano – immediata perdita dei terreni coinvolti – connotano il relativo procedimento di caratteristiche diverse rispetto a quelle proprie di un procedimento volto all’adozione di un ordine di demolizione di un’opera abusiva, per il quale, sulla base di consolidata e condivisibile giurisprudenza amministrativa, non è necessario il previo invio dell’avviso di avvio del relativo procedimento”. Tale sentenza, dunque, afferma la necessità dell’avviso di cui all’art. 7 l. 241/1990 per l’ordine di demolizione per gli abusi edilizi diversi dalla lottizzazione.
[109]Cons. Stato, Sez. VI, 11 maggio 2022, n. 3707; Cons. Stato, Sez. II, 1° settembre 2021 n. 6181; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VI, 1 marzo 2021 n. 1305; Id., Sez. III, 7 settembre 2015 n. 4392.
[110] Cons. Stato, Sez. III, 14 settembre 2021 n. 6288, in www.lavoripubblici.it.
[111] M. Galdi, Buon andamento, imparzialità e discrezionalità amministrativa, Napoli, 1996, 6-9; Id., Contributo allo studio dell’interesse a rilevanza costituzionale, Salerno, 2003, 68 ss.
[112] Per un esame del fondamento costituzionale del diritto di abitazione si v. A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali, parte generale, Padova, 1990; F. Modugno, I “nuovi diritti” nella Giurisprudenza Costituzionale, Torino, 1995. V. anche Corte cost., nn. 169/1994 e 444/1988, dove si afferma che il diritto di abitazione trova fondamento nel riconoscimento di tale diritto come diritto sociale, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost, quale norma a fattispecie aperta (ma anche art. 25 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, e art. 11 Patto internazionale dei diritti economici, sociali e culturali, che “esprimendo il dovere di solidarietà sociale, connota la forma costituzionale dello Stato Sociale”.
[113] L’art. 8 CEDU afferma che “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
[114]Corte EDU, Sez. V, 21 aprile 2016 n. 46577/15, par. 51, in www.lexambiente.it.
[115]Corte EDU, Sez. V, cit., par. 68: whether or not the home was established unlawfully, whether or not the persons concerned did so knowingly, what is the nature and degree of the illegality at issue, what is the precise nature of the interest sought to be protected by the demolition, and whether suitable alternative accommodation is available to the persons affected by the demolition (see Chapman, cited above, §§ 102-04). Another factor could be whether there are less severe ways of dealing with the case; the list is not exhaustive.
[116] Per una rigorosa puntualizzazione del principio di proporzionalità nella giurisprudenza della Corte EDU si v. Corte EDU, 4 agosto 2020, Kaminskas c. Lituania e Corte EDU, 21 aprile 2016, Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria.
[117] Corte EDU, Sez. V, cit., par. 73.
[118] Significativa è, a tal proposito, la sentenza della Corte EDU, Sez. II, 4 agosto 2020, Kaminskas c. Lituania, che ha escluso la violazione del diritto all’abitazione nel caso presentato da una persona di età avanzata e in condizioni di salute e reddituali precarie. In tal caso, infatti, la Corte ha ritenuto prevalente l’interesse pubblico a preservare l’ordine ambientale soprattutto in quanto, nonostante le difficili condizioni personali sopramenzionate, l’autore del fatto aveva consapevolmente costruito l’abitazione in area protetta senza il titolo abilitativo necessario.
[119] A. Scarcella, Compatibile con la C.e.d.u. l’ordine di demolizione? Nota a Corte eur. Dir. Uomo. Sez V 21 aprile 2016 (Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria), in Urb. e app., 2016, 12, 1318-1327.
[120] Cass. pen., Sez III, 6 luglio 2022 n. 32869 in Ilsole24ore.it.
[121] Cass. pen., Sez. III, 10 marzo 2016 n. 18949, C.; Id., 11 settembre 2019 n. 48021, G.
[122] Cons. Stato, Sez. VI, 6 luglio 2022 n. 5620, secondo cui “l’ordine di demolizione non viola in astratto il diritto individuale a vivere nel proprio legittimo domicilio ma afferma in concreto il diritto alla collettività a rimuovere la lesione di un bene o interesse costituzionalmente tutelato ed a ripristinare l’equilibrio urbanistico-edilizio violato. Cfr. Cass. pen., Sez. III, 18 febbraio n. 5822, in www.ambientediritto.it; Id., 24 novembre 2017 n. 15134, ivi.
[123] Cass. pen., Sez. III, 18 gennaio 2002 n. 5822, cit., in cui il giudice delle leggi stabilisce che ai fini della valutazione del rispetto del principio di proporzionalità, la Corte EDU ha valorizzato essenzialmente 1) la possibilità di far valere le proprie ragioni davanti ad un tribunale indipendente 2) la disponibilità di un tempo sufficiente per “legalizzare” la situazione, se giuridicamente possibile, o per trovare un'altra soluzione alle proprie esigenze abitative agendo con diligenza; 3) l'esigenza di evitare l'esecuzione in momenti in cui verrebbero compromessi altri diritti fondamentali, come, cc esempio, quello dei minori a frequentare la scuola. Inoltre, ai medesimi fini, un ruolo estremamente rilevante è stato attribuito alla consapevolezza della illegalità della costruzione da parte degli interessati al momento dell'edificazione e aia natura ed al grado della illegalità realizzata”.
[124] Cons. Stato, Sez VI, 6 luglio 2022 n. 5620, in www.giustizia-amministrativa.it.
[125] A.M. Sandulli, Giurisdizione e amministrazione in materia di edilizia urbanistica, Relazione tenuta il 3 luglio 1958, in Roma, al Corso di perfezionamento per uditori giudiziari, pubblicato in Il Diritto dell’Economia, 1958, 10, inserito nella raccolta Scritti giuridici. Vol. VI. Diritto urbanistico, Napoli, 1990, 5, ripubblicati sul sito www.diritto-amministrativo.org in occasione della celebrazione per il centenario dalla nascita di A.M. Sandulli.
[126] Ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 22 maggio 2013 n. 964, in www.giustizia-amministrativa.it.
[127] Osservatorio Nazionale Ambiente e Legalità di Legambiente, Ecomafia, Le storie e i numeri della criminalità ambientale, Milano 2009.
[128] S. Settis, Paesaggio. Costituzione. Cemento, Milano, 2010.
Sommario: 1. Premessa. - 2. «La distinzione fra atti preparatori e atti esecutivi non ha più cittadinanza»: è davvero così? – 3. Lo svuotamento della nozione di univocità. – 3.1. Le teorie sull’inizio di esecuzione. – 3.2. Le soluzioni giurisprudenziali. – 3.3. L’interpretazione minoritaria. – 4. Lo svuotamento della nozione di idoneità. – 5. Spunti conclusivi.
1. Premessa.
C’è ancora spazio per un dialogo tra dottrina e giurisprudenza? È ancora proponibile un confronto fra la teoria e il c.d. diritto vivente? Ha senso proporre una nuova rimeditazione su temi che, dopo avere a lungo inquietato le coscienze dei giuristi, oggi sembrano pervenuti a soluzioni appaganti, comunque uscite dal dibattito pubblico?
Mi pongo questi interrogativi all’esito di un’analisi, svolta in preparazione di un commentario, dell’elaborazione del delitto tentato da parte della Suprema corte. In conseguenza di questo studio avverto la necessità di levare umilmente la voce per chiedere ai giudici di legittimità un deciso mutamento di rotta, sia nel metodo argomentativo che nei contenuti delle loro pronunce in tema di tentativo.
La lettura delle sentenze – questa è stata la mia netta sensazione – rivela infatti la stanca ripetizione di formule che si sono andate sovrapponendo nel tempo, nonostante la loro contraddittorietà, con un’inutile prolissità espositiva. Sul piano dei contenuti, inoltre, le consolidate definizioni dei criteri dell’univocità e dell’idoneità hanno perduto di significato, sì che la loro enunciazione obbedisce più a un rito che all’esigenza di una reale motivazione.
Con sincera umiltà provo ora a dimostrare quanto appena anticipato, nella speranza che il mio scritto possa stimolare una riflessione e avviare un costruttivo e pacato confronto. In particolare, è mia intenzione soffermarmi su tre punti nodali della disciplina del tentativo: il primo riguarda la ricorrente affermazione del superamento della distinzione tra atti preparatori ed esecutivi con la conseguente attuale punibilità anche degli atti preparatori; il secondo e il terzo riguardano l’univocità e l’idoneità degli atti.
2. «La distinzione fra atti preparatori e atti esecutivi non ha più cittadinanza»: è davvero così?
«La distinzione fra atti preparatori e atti esecutivi non ha più cittadinanza nell’attuale previsione codicistica»: così si legge in una recentissima sentenza[1], che a sua volta riprende tale principio da centinaia di precedenti pronunce. Si tratta però di un assunto che, sebbene mutuato dalle dichiarazioni del legislatore storico[2], risulta privo di ogni fondamento logico e giuridico.
L’idea di sopprimere la contrapposizione fra atti preparatori ed esecutivi vale quanto quella di abolire mediante legge ogni categoria logica: se gli atti esecutivi sono quelli che fondano il tentativo e si caratterizzano dunque in base alla loro punibilità, è evidente che prima di essi si porranno sempre altri atti che, in quanto non punibili, possono essere designati come preparatori.
Senza andare lontano, l’art. 115 c.p. esclude dalla sfera del tentativo punibile l’istigazione, anche se accolta, e l’accordo, per entrambi rendendo applicabile una misura di sicurezza. Può negarsi che istigazione e accordo costituiscano atti preparatori? Non solo. Come più volte affermato in dottrina, istigazione e accordo comprendono al proprio interno altri atti che possono precederli o possono immediatamente seguirli e nondimeno restare nell’ambito della non punibilità: si pensi alla raccolta di informazioni e al procacciamento di armi o strumenti necessari per la realizzazione del reato, la cui non punibilità appare “garantita” proprio dall’art. 115 c.p.
Occorre allora riconoscere che l’affermazione del ministro Guardasigilli Rocco di avere soppresso la distinzione tra atti preparatori ed esecutivi costituiva nulla più che uno slogan[3], con il quale voleva annunciarsi che il principio di esecuzione, accolto dal codice del 1889, era sostituito dai criteri dell’univocità e dell’idoneità, il cui scopo ultimo consisteva in un avanzamento della soglia di punibilità. Sul piano logico e concettuale, comunque, era chiaro che la categoria degli atti preparatori non poteva essere eliminata e appare sorprendente che, a distanza di quasi un secolo, la giurisprudenza dimostri ancora questa fideistica adesione alle dichiarazioni del legislatore.
A dimostrare definitivamente che l’assunto criticato potrebbe senza rimpianti essere abbandonato sta, sul piano argomentativo, la sua assoluta inutilità: in qualsiasi sentenza che lo riporta, la sua eliminazione in nulla altererebbe il senso del ragionamento e il risultato finale.
3. Lo svuotamento della nozione di univocità.
Trattando dell’univocità, entriamo nella sostanza del tentativo punibile e si impone una particolare cautela, perché la forma espressiva dà sostanza ai pensieri e davvero le parole diventano pietre.
Partiamo dall’ovvia considerazione che il requisito dell’univocità individua la soglia del tentativo punibile, mentre il requisito dell’idoneità adempie alla funzione di selezionare, tra gli atti univoci, quelli capaci di realizzare il fine perseguito dall’agente. Univocità e idoneità operano dunque su piani differenziati e, potrebbe aggiungersi, cronologicamente successivi: prima viene l’accertamento dell’univocità e poi quello dell’idoneità dell’atto.
Tuttavia, numerose pronunce affermano che anche gli atti preparatori sono punibili se l’azione «abbia la rilevante probabilità di conseguire l’obiettivo programmato»[4]. L’assunto appare due volte errato: una volta perché converte l’univocità in idoneità, così cancellando uno dei due requisiti caratterizzanti l’istituto, un’altra volta per la valenza ossimorica del concetto di atti preparatori univoci, laddove al contrario proprio l’univocità vale ad attribuire natura esecutiva all’atto, negando che esso possa essere qualificato come preparatorio.
Andiamo avanti. Un orientamento assolutamente dominante accoglie una nozione di univocità legata alla presenza di elementi fattuali – di luogo, di tempo, di mezzi –, in base ai quali possa affermarsi che la condotta era diretta alla commissione del reato[5]. Altre volte, ma si tratta di una riproposizione del medesimo assunto, l’univocità viene riferita alle caratteristiche della condotta, al fine di individuare le sue finalità attraverso l’apprezzamento, secondo le regole di comune esperienza, della natura e dell’essenza degli atti compiuti e del contesto in cui si inseriscono: «è necessario che gli atti, in sé stessi, per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura ed essenza, rivelino, secondo le norme di esperienza e l’id quod plerumque accidit, il fine perseguito dall’agente»[6].
Questa, ovviamente, non è la tesi sostenuta dalla dottrina che intende l’univocità come ratio essendi del tentativo: per i giudici di legittimità, infatti, la direzione univoca degli atti è desumibile da qualsiasi elemento di prova, che renda manifesta «la direzione teleologica della volontà dell’agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira»[7].
La definizione del criterio in esame come ratio cognoscendi del tentativo è assai pericolosa, perché vale a privare l’istituto di qualsiasi contenuto intrinseco, legandone la sussistenza a fattori esterni. Addirittura, una siffatta concezione va oltre le indicazioni del legislatore storico, che nella Relazione a S.M. il Re del Ministro Guardasigilli, n. 39, osservava che l’atto «deve rivelare per sé l’intenzione dell’agente: tale intenzione non può essere desunta esclusivamente aliunde (ad esempio, dalla confessione), ma nulla vieta che sia desunta, insieme, dall’atto e da altri elementi. Fra i sintomi rivelatori ci dev’essere anche l’atto»[8].
Fin qui, dunque, emerge un palese disaccordo fra il diritto vivente e il diritto dei libri, che dimostra come la giurisprudenza sia ancora impregnata dello spirito repressivo del 1930, aderendo alla concezione più esasperatamente soggettiva del tentativo.
Sulla teoria soggettiva del tentativo si dirà qualcosa più avanti. Al momento conviene invece insistere sull’avvenuto svuotamento del concetto di univocità, attestato dal frequente rilievo che «l’unico criterio di ordine generale, che può essere di valido ausilio nel riconoscimento dell’univocità, è costituito dall’imprevedibilità della non consumazione, ovvero da quella complessiva situazione di fatto in cui tutto fa supporre che il reato sarà commesso»[9]. Come si vede, ci troviamo dinanzi a una confusa sovrapposizione di piani, in cui la direzione degli atti si converte in direzione della volontà e questa si risolve nel dolo, che a sua volta può essere dimostrato attraverso gli atti o con altro qualsiasi mezzo. In sostanza, l’essenza del delitto tentato si fonda semplicemente sulla manifestazione esterna della volontà criminosa.
Un ulteriore e connesso profilo qualificante l’esperienza giurisprudenziale va rinvenuto nell’assunto in base al quale l’univocità degli atti dimostra che «l’agente si trovi ormai ad un punto di non ritorno dall’imminente, progettato, delitto»[10]. Invero, qui sembra annidarsi un significativo errore concettuale, che conviene dipanare subito.
3.1. Le teorie sull’inizio di esecuzione.
Quando si afferma che la figura del tentativo costituisce il banco di prova dell’alternativa tra oggettivismo e soggettivismo nel diritto penale, si dice una cosa fin troppo ovvia: in un istituto che si caratterizza alla luce di una tensione volitiva non sfociata nella produzione del risultato voluto, è troppo facile assecondare una costruzione soggettiva, appunto incentrata sulla volontà mentre, al contrario, non è agevole procedere a una costruzione in senso oggettivo, che affermi cioè il primato del fatto e della sua offensività.
A guardare l’evoluzione storica degli ultimi due secoli, per un lungo periodo ha regnato un contrasto fra le teorie oggettive e quelle soggettive: le prime vincolavano l’inizio dell’esecuzione punibile ad atti tipici della fattispecie, le seconde si limitavano a richiedere una volontà colpevole. Nell’esperienza vissuta da entrambe le concezioni, emerse presto che le teorie oggettive spingevano troppo indietro la soglia della punibilità e, al fine di evitare tale risultato, vi fu chi auspicò (verosimilmente fondandosi sulla fitta trama di aggravanti previste per il furto e la rapina) che il requisito della tipicità potesse essere riferito anche all’integrazione di elementi circostanziali; è evidente però che tale dilatazione attenuava il fondamento della stessa teoria e, comunque, nessuna convincente soluzione poteva essere rinvenuta per i delitti causali a forma libera. Sul fronte opposto, i fautori delle teorie soggettive si trovarono presto costretti a riconoscere che oggetto della sanzione penale, quantomeno per ragioni probatorie, non è la volontà criminosa ma la sua manifestazione esterna, sicché il delitto tentato va comunque legato ad atti esecutivi dell’intento criminoso; tale ammissione ebbe l’effetto di proiettare l’esecuzione non sulla fattispecie astratta ma sul piano concretamente predisposto dall’agente[11].
Nell’interpretazione oggi più accreditata a livello internazionale, il dissidio si è ricomposto attraverso la teoria materiale-oggettiva, in base alla quale il delitto tentato ha inizio con atti tipici o che questi immediatamente precedono su un piano logico e cronologico (c.d. pre-tipici), tali cioè che il loro compimento, senza soluzione di continuità, conduce all’esecuzione del fatto sulla base del concreto programma di azione.
Come si vede, si tratta di una soluzione mista, che dalla teoria formale riprende il vincolo della fattispecie sebbene ampliandolo agli atti pre-tipici e dalla teoria soggettiva desume la centralità dell’attuazione della volontà criminosa sulla base della concreta rappresentazione del soggetto agente.
3.2. Le soluzioni giurisprudenziali.
Può ritenersi che la giurisprudenza accolga la teoria materiale-oggettiva? Invero, talvolta essa è richiamata insieme ad altre che la contraddicono[12], ma la soluzione dominante è quella che ravvisa il tentativo punibile già nella fase antecedente al “via” dell’intrapresa criminosa, così privilegiando un’impostazione decisamente soggettiva.
Qui non è questione di parole, ma di scelte precise che trovano espressione nel ricorrente assunto che, come l’idoneità, anche l’univocità è «da apprezzarsi con valutazione ex ante in rapporto alle circostanze di fatto ed alle modalità della condotta», giacché «la non imminenza del colpo non costituisce l’unico parametro di riferimento, a fronte di indici univoci di un’azione diretta alla consumazione del delitto»[13]. Nella stessa direzione, d’altra parte, si muove la frequente affermazione che «la prova del requisito dell’univocità dell’atto (da considerare quale parametro probatorio) può essere raggiunta non solo sulla base dell’atto in sé considerato, ma anche aliunde, quindi anche sulla base di semplici atti preparatori, che rivelino la finalità dell’agente e addirittura l’imminente passaggio alla fase esecutiva del delitto, ma non me postulino necessariamente l’avvio»[14].
In sostanza, la giurisprudenza lega il tentativo a una possibilità di esecuzione, non certo a un’esecuzione già iniziata sulla base del piano predisposto dall’agente attraverso atti tipici o pre-tipici.
Come si giustifica allora il frequentissimo passo in base al quale «il tentativo è punibile (...) anche quando l’agente ha compiuto uno o più atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volontà di voler compiere un determinato delitto; ovvero, in tutti quei casi in cui l’agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo, pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria»[15] ?
È come se i giudici dicessero che, ai fini della punibilità del tentativo, trovano riconoscimento tutte le teorie finora formulate. Considerando però che tali teorie, costruite in chiave di reciproca incompatibilità, tracciano differenti spazi per la configurabilità del delitto tentato, l’espresso accoglimento della concezione soggettiva esclude ogni altra soluzione. L’unica conclusione consentita è che la dominante giurisprudenza accoglie – unica in Europa – la teoria soggettiva del tentativo.
3.3. L’interpretazione minoritaria.
Talvolta, come un fiume carsico, emerge alla superficie un orientamento contrario a quello esposto, ove il concetto di atti univoci viene fatto coincidere con la loro tipicità. «Poiché – questa è la premessa del ragionamento – la prova del fine criminoso è necessaria a prescindere dal requisito dell’univocità degli atti, la concezione soggettiva, incentrata sulla ricostruzione probatoria del presunto dolo (...), con parallela svalutazione del dato obiettivo (...), finisce per legittimare una non consentita interpretatio abrogans dell’art. 56 c.p. e per sanzionare penalmente intenzioni criminose non ancora estrinsecatesi in un’iniziale, effettiva aggressione di un bene giuridico»[16].
Della correttezza di tale assunto non può dubitarsi; il suo approdo è però quanto di più estremo possa immaginarsi, ritenendosi che «la necessaria valorizzazione del principio di legalità nel delitto tentato esige che la rilevanza penale della condotta venga riconosciuta quando gli atti posti in essere rivelino oggettivamente l’intenzione dell’agente di commettere il delitto, integrando, sia pur in minima parte, il fatto tipico descritto dalla singola fattispecie incriminatrice tentata»[17]. In altri termini, «gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono (...) essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte – come inizio di esecuzione – alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o a forma vincolata. (...) La “direzione non equivoca” indica, infatti, non un parametro probatorio, bensì un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per sé rivelare l’intenzione dell’agente. L’univocità, intesa come criterio di essenza, non esclude che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, ma impone soltanto che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura e per la loro essenza, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e secondo l’id quod plerumque accidit, l’intenzione, il fine perseguito dall’agente»[18].
L’orientamento ora esposto non convince. La decisa inversione di rotta rispetto al processo di svuotamento dell’art. 56 c.p. risolve infatti il requisito dell’univocità in quello della tipicità, trascurando per un verso che anche un atto tipico può manifestare la sua pluridirezionalità, per altro verso che la nozione di tipicità nulla dice in ordine alla prossimità spaziale e temporale dell’atto alla consumazione del reato. In tal modo, alla teoria puramente soggettiva dell’orientamento maggioritario fa riscontro una teoria esclusivamente oggettiva del tentativo, già bocciata dall’evoluzione storica del diritto penale[19].
In conformità a quanto prima osservato, la soluzione oggi più diffusa a livello internazionale consiste in una combinazione dei due profili appena evidenziati, che per il tentativo punibile richiede atti tipici o pre-tipici tali da esprimere, nella rappresentazione del reo e in conformità al suo piano criminoso, l’avvenuto inizio dell’esecuzione del reato.
4. La nozione di idoneità.
L’approssimazione concettuale, che ha reso assai fluido il requisito dell’univocità, caratterizza anche l’elaborazione del requisito dell’idoneità.
In particolare, come a proposito dell’univocità è stata prima rilevata una tendenza interpretativa che vi comprende il criterio dell’idoneità, ora può constatarsi il risultato inverso, in conseguenza dell’assunto che il requisito dell’idoneità «deve essere valutato in termini oggettivi, nel senso che gli atti considerati, esaminati nella loro oggettività e nel contesto in cui si inseriscono, devono possedere l’intrinseca attitudine a denotare il proposito criminoso perseguito, rivelando la sua attuazione»[20]; ovvero, come affermano altre pronunce, i criteri dell’idoneità e dell’univocità esprimono l’esigenza «che il fatto commesso abbia raggiunto la soglia del pericolo attuale e concreto e, dunque, la sua ideazione sia stata seguita da una condotta che risulti dotata di sufficienza causale in rapporto alla lesione del bene protetto»[21].
È vero che tale esito era preconizzabile fin dall’inizio: la teoria della c.d. prognosi postuma, affermatasi fin dagli ultimi decenni dell’800, che lega l’accertamento dell’idoneità non al pericolo reale per il bene, bensì alla situazione che si rappresentava l’agente al momento dell’azione[22], si traduce in un apprezzamento del requisito in esame in negativo, nel senso che esso assume rilievo solo nel caso di assoluta impossibilità di consumazione stabilita ex ante[23]. Da qui muove l’ammissione che il criterio in esame non è «particolarmente selettivo, nella misura in cui esclude i comportamenti innocui, privi di pericolosità, ma non caratterizza i segmenti della condotta nella loro connessione dinamica e funzionale. Il giudizio di idoneità, in concreto ed ex ante, è focalizzato sulla consumazione di uno specifico delitto, qualificato da un determinato evento, sicché l’individuazione degli atti punibili va compiuta grazie al più pregnante criterio dell’univocità»[24].
In altre parole: il requisito dell’idoneità vale a escludere la punibilità del tentativo solo quando si tratti di condotte manifestamente innocue, che solo per stupidità o per crassa ignoranza l’agente ha ritenuto potessero cagionare l’evento. Se inizialmente parlavamo della funzione selettiva, svolta da tale requisito all’interno degli atti considerati univoci, occorre ammettere che si tratta di un ben modesto risultato.
5. Spunti conclusivi.
La conclusione è che la scomposizione della formula dell’art. 56 in atti univoci e idonei ha consegnato al giudice un illimitato arbitrio, poiché il requisito dell’univocità si manifesta irrimediabilmente oscuro e in grado di asservire le interpretazioni più disparate, mentre quello dell’idoneità è in grado di svolgere un ruolo assai limitato. In una siffatta prospettiva, ove pericolosamente vacilla il principio di legalità, sono necessarie regole interpretative nitide e chiaramente percepibili, anche nella loro conformità alle indicazioni offerte dalla Costituzione.
L’auspicio è che i giudici della Corte di Cassazione, abbandonando ogni richiamo alla volontà del legislatore storico, esercitino la loro funzione nomofilattica, restituendo alla disciplina del tentativo una razionalità di argomentazioni e di contenuti. Sarebbe di conforto, nell’attuale momento storico di grande confusione, pensare che giudici, docenti e avvocati possano trovare occasioni per una comune riflessione sui temi della punibilità.
[1] Cass., sez. V, 14 settembre 2022, n. 33938.
[2] È sufficiente citare la Relazione del Guardasigilli al Progetto definitivo di un nuovo codice penale, n. 70, ove la trattazione del tentativo così esordisce: «Innovazioni radicali sono state introdotte nella disciplina del tentativo, sopprimendo la distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi».
[3] Slogan peraltro assai confuso: la Relazione a S.M. il Re del Ministro Guardasigilli, n. 39, affermava che «si è voluto bensì abolire la distinzione, spesso inafferrabile in pratica, tra atti preparatori e atti esecutivi (...), ma se viene compiuto uno di quegli atti che, vigente il Codice del 1889, dicevansi preparatori, e se esso non appare idoneo (capace di produrre l’evento delittuoso), ovvero se non risulta diretto in modo non equivoco a commettere un determinato delitto, l’atto medesimo non è punibile come tentativo».
[4] Cass., sez. V, 28 ottobre 2022, n. 40888; conf. Id., sez. II, 12 luglio 2022, n. 26859; Id., sez. V, 30 marzo 2021, n. 12045.
[5] Per tutte Id., sez. V, 30 marzo 2021, n. 12045.
[6] Cass., sez. V, 28 ottobre 2022, n. 40888; Id., sez. I, 17 aprile 2020, n. 12407; Id., sez. I, 3 luglio 2019, n. 29101.
[7] Cass., sez. V, 14 settembre 2022, n. 33938.
[8] Ancor più restrittiva suona la definizione contenuta nella menzionata Relazione al Progetto definitivo di un nuovo codice penale, n. 70, ove si afferma che la formula utilizzata «rende chiara la necessità della obbiettiva direzione degli atti all’evento, ossia stabilisce che non sarebbe bastevole a far ricorrere il requisito della univocità la conoscenza aliunde della intenzione dell’agente, ma occorre che gli atti la rivelino per sé, per quello che sono, per il modo come sono compiuti».
[9] Cass., sez. II, 12 luglio 2022, n. 26859; Id., sez. II, 17 ottobre 2018, n. 47295; Id., sez. II, 16 maggio 2017, n. 24302.
[10] Cass., sez. V, 28 ottobre 2022, n. 40888.
[11] Sia consentito, per una volta soltanto, rinviare al mio Il delitto tentato, Milano, 2012, 297 ss.
[12] Ad es. Cass., sez. V, 14 settembre 2022, n. 33938; Id., sez. II, 12 luglio 2022, n. 26859.
[13] Cass., sez. V, 28 ottobre 2022, n. 40888; conf. Id., sez. II, 12 luglio 2022, n. 26859; Id., sez. I, 3 febbraio 2020, n. 4373; Id., sez. II, 17 ottobre 2018, n. 47295; Id., sez. V, 17 luglio 2018, n. 33100.
[14] Cass., sez. I, 17 aprile 2020, n. 12407; Id., sez. II, 16 maggio 2017, n. 24302; analogamente Id., sez. II, 15 giugno 2010, n. 28213.
[15] Cass., sez. V, 28 ottobre 2022, n. 40888; Id., sez. II, 12 luglio 2022, n. 26859; Id., sez. II, 22 luglio 2021, n. 28567; Id., sez. VI, 10 luglio 2020, n. 20712; Id., sez. I, 17 aprile 2020, n. 12407; Id., sez. V, 17 luglio 2018, n. 33100; Id., sez. II, 16 maggio 2017, n. 24302.
[16] Cass., sez. I, 28 ottobre 2008, n. 40058; curiosamente, la medesima critica viene mossa alla teoria ora in esame da Cass., sez. V, 14 settembre 2022, n. 33938.
[17] Cass., sez. III, 22 aprile 2022, n. 15656; conf. Id., sez. I, 9 marzo 2010, n. 9411; Id., sez. I, 28 ottobre 2008, n. 40058.
[18] Cass., sez. I, 9 marzo 2010, n. 9411; Id., sez. I, 28 ottobre 2008, n. 40058; conf. Cass., sez. III, 22 aprile 2022, n. 15656. Un remoto precedente delle sentenze in esame è in Corte cost., 22 dicembre 1980, n. 177: «“atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto” possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto se l’idoneità di un atto può denotare al più la potenzialità dell’atto a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall’inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell’atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall’agente».
[19] Nel senso che «la tesi da tempo remoto non riscuote più credito, sia per l’obiettiva difficoltà di individuare la condotta tipica nei reati a forma libera, sia perché riecheggia la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi, che la disciplina codicistica si è proposta espressamente di superare», Cass., sez. II, 12 maggio 2010, n. 17988.
[20] Cass., sez. V, 28 ottobre 2022, n. 40888; Id., sez. II, 12 luglio 2022, n. 26859; Id., sez. II, 17 ottobre 2018, n. 47295.
[21] Cass., sez. VI, 19 ottobre 2018, n. 47854.
[22] Cass., sez. V, 14 settembre 2022, n. 33938; Id., sez. V, 30 marzo 2021, n. 12045; Id., sez. I, 17 aprile 2020, n. 12407; Id., sez. I, 3 febbraio 2020, n. 4373; Id., sez. V, 19 aprile 2019, n. 17363.
[23] Per tutte Cass., sez. V, 19 aprile 2019, n. 17363; Id., sez. II, 16 maggio 2017, n. 24302.
[24] Cass., sez. V, 12 novembre 2009, n. 43255.
Sommario: 1.Le linee guida della prossima “riforma Nordio” in tema di collegialità del giudice della cautela. 2. Le ragioni tecniche. 3. Le ragioni politiche. 4. Conclusioni.
1.Le linee guida della prossima “riforma Nordio” in tema di collegialità del giudice della cautela
In questi ultimi giorni si sono moltiplicati lanci di agenzia, interviste e dichiarazioni di parlamentari che annunciano una ormai imminente “riforma Nordio” del processo penale.
La notizia non sorprende gli operatori del diritto, ormai assuefatti alla ineluttabilità di un piccolo o grande tsunami delle norme del codice di procedura penale ad ogni cambio del titolare di via Arenula.
Può apparire singolare commentare una proposta di riforma che sulla carta ancora non esiste: tuttavia, dalle predette dichiarazioni di parlamentari e dello stesso Ministro è possibile farsi un’idea molto chiara delle linee programmatiche del futuro provvedimento, che sin da ora appare meritevole di qualche riflessione.
In questa sede si approfondirà in particolare la ventilata proposta di affidare ad un giudice collegiale l’emissione dei provvedimenti di misura cautelare personale.
In merito, una conferma ufficiale è giunta proprio pochi giorni fa: rispondendo a un’interrogazione parlamentare, il viceministro della Giustizia Paolo Sisto ha preannunciato “iniziative normative atte a garantire il principio di non colpevolezza di cui all’articolo 27 della Costituzione, rafforzando il controllo giurisdizionale in quei contesti” (Il Dubbio, 4 maggio 2023).
Il consigliere giuridico del Ministro, professor Bartolomeo Romano, ha specificato che il rafforzamento del controllo giurisdizionale sulle misure cautelari avverrà prevedendo che l’interrogatorio di garanzia preceda l’adozione della misura cautelare e che questa sia adottata non più dal GIP ma dal Tribunale per il Riesame (con spostamento della competenza a decidere delle impugnazioni da quest’ultimo alla Corte di Appello), in modo da consentire che la decisione sulla richiesta del Pubblico Ministero sia collegiale e non monocratica.
La modifica riprenderebbe dunque un’iniziativa legislativa avanzata nella scorsa legislatura dall’onorevole Costa; questo aggancio ad un disegno di legge esistente consente di argomentare su qualcosa di concreto, salve ovviamente le modifiche che dovessero intervenire nel corso dell’iter legislativo.
Lo stesso Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha parlato delle modifiche sulle norme in tema di misure cautelari in termini identici.
2. Le ragioni tecnico giuridiche dell’attribuzione al Tribunale in composizione collegiale: criticità
Le argomentazioni spese dai tecnici del diritto a sostegno dell’attribuzione della competenza a decidere sulle richieste di misure cautelari ad un organo collegiale poggiano su un unico assunto, riassumibile nei seguenti termini: la decisione presa da tre giudici è necessariamente più meditata di quella presa da uno solo; e maggiore meditazione vuol dire meno possibilità di errori. Trattandosi di decidere sulla libertà personale degli individui, l’attenzione ad evitare errori deve essere massima.
Può senza dubbio concordarsi con il terzo degli assunti ora esposti: nessuno può dubitare della assoluta necessità di evitare errori laddove è in gioco un diritto fondamentale come la libertà personale, perché il danno provocato anche da un solo giorno di custodia cautelare ingiustificata è gravissimo e potenzialmente irreparabile, da molteplici punti di vista.
Non è invece assiomatica come può sembrare l’equivalenza tra maggior numero di decidenti e migliore resa della decisione.
In merito, sembrano particolarmente calzanti le riflessioni espresse da Franco Cordero nella sua notissima “Guida alla procedura penale”, laddove a proposito dell’organo giudicante collegiale ha affermato che esso “stimola un metabolismo dialettico molto utile, quale antidoto agli errori, ma talvolta abbassa l’impegno intuitivo e raziocinante dei singoli componenti”, specificando altresì che “il rischio è più alto dove le premesse della decisione, emessa sulle carte, non emergano da avvenimenti vissuti nel dibattimento; al relatore compete una leadership talvolta acriticamente subita”.
Per altro verso, ammoniva ancora l’insigne giurista a proposito del giudice monocratico, “implica dei rischi l’atto nato dal lavoro solitario, ma impegna l’autore o, almeno, esclude una spenta presenza fisica” per concludere che “laddove l’apparato conti su teste idonee, ne basta una, almeno in primo grado” (Cordero, op. cit. pag, 109).
Nello stesso senso si è recentemente espresso il Consigliere della Corte di Cassazione Marco Dell’Utri: intervenendo in un simposio di questa rivista, l’alto magistrato ha descritto la proposta di modifica in esame come espressione dello “spirito geometrico e misurativo tipico del nostro tempo”, aggiungendo che “per rendere migliori le decisioni sulla libertà personale (quanto di più delicato e sacro ancora ci rimane) si aumenta il numero delle teste. E si dimentica di migliorare la qualità di quell’unica di cui ancora disponiamo”.
Queste considerazioni appaiono sufficienti quantomeno per escludere che l’equazione tra quantità dei decidenti e qualità delle decisioni sia così scontata e possa fungere da argomento indiscutibile per giustificare la necessità di procedere alla modifica del codice di procedura penale nel senso proposto.
Ma accanto a queste, pur acute e condivisibili, considerazioni di carattere generale ve ne sono altre, ancora più stringenti in quanto discendenti dalla peculiare natura delle misure cautelari personali.
Questo strumento è connotato ontologicamente dal carattere di urgenza, essendo stato pensato quale intervento di reazione al pericolo di un accadimento irreparabile che interviene, vanificandolo, nelle more del processo penale (periculum in mora).
La privazione della libertà personale disposta dall’autorità giudiziaria è normalmente effetto dell’affermazione della responsabilità per un reato, e presuppone l’accertamento incontrovertibile della violazione di un precetto penale e l’attribuibilità di tale violazione all’imputato da parte del giudice competente.
Incidere sopprimendolo, sia pur temporalmente, sul più sacro dei diritti costituzionali o anche semplicemente comprimere tale diritto, in assenza della certezza processuale di avere di fronte il colpevole del reato sembra dunque un controsenso.
Tuttavia, è altrettanto vero che la proclamazione della responsabilità penale non può prescindere da un accertamento serio, approfondito e in cui sia garantito il pieno rispetto del contraddittorio.
Questo tipo di processo comporta l’impiego di un notevole lasso di tempo: la formazione della prova richiede la massima attenzione e, nonostante i principi di oralità ed immediatezza che teoricamente informano il nostro sistema processuale penale, un’attenta ponderazione sia nella fase delle indagini che in quella del dibattimento.
Prima ancora della formazione in contraddittorio e della valutazione, le prove devono essere raccolte, ed in un momento ancora anteriore individuate e cercate, in quella fase delicata e importante del processo denominata nel nostro attuale sistema processuale penale “indagini preliminari”: un esito insoddisfacente o incompleto delle stesse porta inevitabilmente all’assoluzione, secondo il principio fondamentale del sistema accusatorio.
E’ pertanto fondamentale preservare tutta la fase delle indagini, e quella successiva del dibattimento, dal pericolo che le prove siano occultate, nascoste, manipolate, distrutte, distorte: ed è inevitabile e naturale che sia proprio chi ha commesso il reato ad essere interessato ad un accertamento incompleto o distorto.
Sorge dunque la necessità di “proteggere” (cautelare) il procedimento penale dalle aggressioni del suo attore principale: l’indagato/imputato.
E’ inoltre inevitabile che, man mano che si acquisisca la ragionevole certezza della colpevolezza di taluno, anche se questa certezza non è ancora sacralizzata in una sentenza di condanna definitiva, il fatto stesso che il colpevole continui a circolare libero crea allarme sociale, soprattutto in relazione a determinati reati.
Laddove, in casi siffatti, si raccolgano elementi consistenti sulla persistente attività delinquenziale dello stesso soggetto lo Stato è chiamato ad intervenire, con la massima urgenza possibile, per evitare che il tempo occorrente per lo svolgimento del giusto processo comporti un prezzo eccessivamente alto per la collettività e l’ordine pubblico.
Anche la funzione general-preventiva della pena, oltre che quella strettamente sanzionatoria, è dunque “cautelata” dal nostro sistema processuale.
Infine, è intuitivo che l’imputato, man mano che si rende conto che l’accertamento processuale procede verso l’acquisizione di un compendio probatorio pieno ed inoppugnabile e che dovrà dunque essere assoggettato alla privazione della libertà in risposta alla violazione del precetto da lui compiuta, possa considerare la fuga come strumento per sottrarsi alle conseguenze penali della sua azione: per impedire che il tempo di accertamento processuale del responsabilità comporti la frustrazione in concreto dello scopo principale del processo stesso (assoggettare a sanzione il responsabile della violazione del precetto) è dunque possibile, ancora una volta, intervenire in via preventiva impedendo che l’imputato fuggendo si sottragga alle sue responsabilità.
La prima ragione dell’esistenza delle misure cautelari è dunque data dalla necessaria protrazione temporale del momento di accertamento della verità processuale, che comporta l’esistenza di un sensibile periodo in cui taluno, pur sospettato o gravemente indiziato di essere l’autore di un reato, non è ancora formalmente etichettabile come “colpevole”: “se il processo fosse un punto e non una retta non occorrerebbero le misure cautelari” (la citazione è di Giovanni Conso).
Da quanto detto deriva che il requisito più importante per assicurare l’efficacia dell’intervento cautelare è senza dubbio la tempestività: un intervento tardivo rispetto alla verifica della sussistenza delle situazioni di pericolo rischia di essere del tutto vano, e risolversi nella mera anticipazione degli effetti della pena che l’articolo 274 del codice di procedura penale intendeva, come si è visto, scongiurare.
La conciliazione tra l’esigenza di tempestività e quella di ponderazione costituisce la sfida cui il legislatore è da sempre chiamato nel dettare le regole in tema di misure cautelari: più si impone ponderazione più si rinuncia alla tempestività, e viceversa.
Si è già detto in principio che sacrificare eccessivamente l’esigenza di ponderazione in relazione alla necessità di agire tempestivamente aumenta il rischio di errore.
Ma uno sbilanciamento in favore dell’esigenza di ponderazione, con compressione eccessiva di quella della tempestività rischia di fare della decisione cautelare un inutile doppione della sentenza di merito, sovrapponendo lo standard cautelare a quello probatorio e in definitiva abdicando al compito di cautela.
Il pericolo paventato assume connotati ancora più allarmanti laddove si consideri che nella proposta di legge in esame, accanto alla competenza collegiale del decidente, è previsto l’obbligo di procedere all’interrogatorio di garanzia prima dell’adozione della misura cautelare.
La totale elisione dell’effetto sorpresa, l’instaurazione del contraddittorio, la ponderazione del materiale raccolto dal richiedente e l’allungamento dei tempi configurano la misura cautelare ipotizzata come una sorta di dibattimento anticipato, dove i pericula in mora hanno perso ogni valore e sbiadiscono sulla sfondo della decisione del collegio, ridotta ad una valutazione quasi del tutto sbilanciata sull’analisi della sussistenza dei gravi indizi.
Di più: appare impossibile emettere un’ordinanza motivata sul periculum in mora, perché l’intervento pensato per scongiurare i suddetti pericula è vanificato dalle regole di azione del giudice della cautela, che è chiamato ad agire, paradossalmente, senza alcuna cautela ma anzi con modalità tale da avvertire l’indagato del pericolo per la sua libertà, effetto contrario a quello proprio delle misure cautelari.
Un esempio, tra i tanti, di applicazione delle nuove ipotizzate regole ai procedimenti che i Pubblici Ministeri gestiscono quotidianamente: nel corso di un’indagine per una serie di rapine compiute negli istituti di credito di una zona gli inquirenti individuano alcuni degli indagati e scoprono, attraverso intercettazione di alcuni indagati, che gli stessi si apprestano a compiere un’altra rapina. Il Pubblico Ministero avanza dunque richiesta di applicazione di misura cautelare motivata – oltre che dai gravi indizi di colpevolezza delle rapine precedenti – dal concreto ed attuale pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie.
Il Collegio decidente dovrebbe, secondo le regole della paventata riforma, convocare gli indagati e chiedere loro, alla presenza dei difensori, di fornire la loro versione sui delitti di cui sono accusati nonché convincere i giudici della insussistenza del pericolo di reiterazione, dopo essere stati avvertiti che se non saranno convincenti potrebbero essere privati della libertà personale.
E’ evidente che la tutela delle vittime, della sicurezza, dell’ordine pubblico e tutte le ragioni che sono connaturate all’intervento cautelare (cioè, letteralmente: “a cautela”) scompaiono del tutto in favore del principio di non colpevolezza, trascurando la circostanza che quando si agisce in via di urgenza l’articolo 272 del codice di procedura penale impone già un severo vaglio della sussistenza dei gravi indizi.
Di fatto, si sta proponendo di abolire le misure cautelari e procedere ad una sorta di incidente probatorio del tutto eccentrico in quanto avente ad oggetto non l’assunzione di una singola prova ma il giudizio di colpevolezza dell’indagato (non ancora imputato); un innesto nel procedimento penale sostanzialmente inutile e al contempo una pericolosa abdicazione del presidio d’urgenza del processo e della sicurezza pubblica.
3.Le ragioni politiche
L’analisi fin qui condotta lascia la sensazione di essere di fronte ad un provvedimento del tutto incoerente non solo con il sistema processuale ma persino con la ratio indicata di restituire maggiore efficacia alle misure cautelari.
Probabilmente il motivo è che alle motivazioni tecnico-giuridiche fin qui esaminate si aggiungono ragioni di politica giudiziaria che sono esposte dagli ideatori della riforma con maggior convinzione e che disvelano dunque il vero intento del provvedimento in esame.
Esamineremo dunque anche queste ulteriori e più pregnanti rationes legis.
Come si è detto, le modifiche ventilate dallo staff del Ministro della Giustizia Nordio ricalcano un disegno di legge presentato nella scorsa legislatura dall’onorevole Costa.
E’ dunque non privo di significato ricordare che, secondo le parole dell’originario proponente la trasformazione del giudice della cautela in organo collegiale, avrebbe come scopo di contrastare la “burocratizzazione del ruolo del GIP”, ridotto secondo alcuni “ad una sorta di passacarte dei pm”[1].
Ancora l’onorevole Costa, nel descrivere la ratio del disegno di legge ha evocato l’esigenza di contrastare l’eccessiva percentuale di ordinanza di accoglimento delle richieste cautelari, a suo avviso così spiegabile: “l’adeguamento del gip alle richieste del pm (…) dipende (…) anche purtroppo da una sorta di sudditanza nei confronti della Procura”.
Lo stesso Ministro Carlo Nordio ha chiaramente esplicitato che “il fatto che il giudice collegiale possa essere distaccato dal luogo dove si trova il pubblico ministero e quello per cui tre giudici possono sentirsi meno deboli rispetto alle richieste dei pm assicurano una maggiore ponderazione delle decisioni e pertanto accordano al cittadino un livello di tutela maggiore di quello che attualmente assicura la decisione del giudice monocratico”.
La riforma nasce dunque, secondo le stesse parole di chi l’ha ideata, per allontanare i giudici dai pubblici ministeri; si tratta, a ben vedere, dell’ennesima declinazione del tema della separazione delle carriere.
L’argomento è noto, così come noto che una parte della politica consideri la necessità di separare le carriere della magistratura inquirente da quella dei giudici l’urgenza prioritaria in materia penale, mentre la stragrande maggioranza dei magistrati è di parere contrario (e tenta da tempo di indicare come priorità aumenti di organico e risorse per restituire efficienza alla giustizia).
In questa sede il tema non può che essere trattato incidentalmente ( si rinvia agli articoli pubblicati su questa Rivista: La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum di Paola Filippi, Separazione delle carriere a Costituzione invariata. Problemi applicativi dell’art. 12 della legge n. 71 del 2022 di Pasquale Serrao d’Aquino)
non può tacersi però che ad avviso di chi scrive ne è indimostrato il presupposto (cioè che i PM siano tutti e ontologicamente privi di equilibrio) e in ogni caso sbagliata la soluzione.
Se infatti il problema è la carenza di senso della giurisdizione della magistratura inquirente, la soluzione logica dovrebbe essere il maggiore coinvolgimento dei pubblici ministeri nella cultura del processo al fine di far acquisire ai rappresentanti delle procure, nello svolgimento delle indagini e della funzione di accusa, una mentalità “da giudice” imparziale e terzo; non il contrario.
Separare i pubblici ministeri dai giudici per farne dei professionisti dell’accusa vuol dire avvicinarli al modello della polizia giudiziaria, chiedere loro di sostenere una tesi anche senza essere convinti, cercare sempre e comunque di trasformare l’indagato in imputato e questi in condannato, tendere ad un unico risultato: la conferma della notizia di reato, senza più la libertà di determinarsi nel senso migliore per lo Stato che rappresentano, anche se questo vuol dire chiedere l’assoluzione della persona su cui si erano svolte indagini.
Ad occhio e croce, questa soluzione non risolve i problemi di mancanza di equilibrio della magistratura requirente ma li esalta e li aggrava.
Maggiori prospettive nel recupero dell’equilibrio potrebbero venire invece dall’esaltare l’unicità della cultura della giurisdizione tra tutti i protagonisti del processo, coinvolgendo gli avvocati in un percorso di formazione comune: l’inclusività, non la ghettizzazione dovrebbe essere la linea ispiratrice delle riforme.
4.Conclusioni
Occorre un ultimo sforzo interpretativo per comprendere appieno il significato ed il contesto della riforma in esame, perché questa si inserisce in una sorta di linea invisibile di coerenza che supera steccati ideologici e cambi di maggioranza parlamentare.
E’ infatti in atto da qualche anno una rimodulazione delle regole di azione dei GIP, che ha per presupposto una sorta di tracimazione della sfiducia congenita nei PM da parte del legislatore in una sfiducia acquisita nei confronti dei giudici che per compito principale hanno quello di vagliarne le richieste, come se l’asserita mancanza di equilibrio che affligge la magistratura requirente si fosse loro trasmessa per contatto.
E’ ancora l’onorevole Costa a rendere palese questo pensiero affermando “a questo si è cercato di rimediare con la nuova regola di giudizio e anni fa con la riforma che rafforzava gli obblighi di motivazione a carico del giudice sulla custodia in carcere. Ma tutto questo non è bastato, non è cambiato nulla”.
Ed invero, sin dalla riforma della legge 47 del 2015 (seguita poi dalla cosiddetta “riforma Orlando”) sono stati introdotti obblighi di motivazione dei provvedimenti di intercettazione e delle sentenze e criteri di adozione delle misure cautelari sempre più stringenti.
Con le riforme all’orizzonte dunque si assiste a un cambio di passo: la ormai radicata malattia dei GIP sarà curata allontanando da loro la fonte del contagio e rafforzando le resistenze alla nefasta influenza dei Pubblici Ministeri con il triplicare gli effettivi della cittadella assediata dei giudici.
Si è già detto che la soluzione proposta non convince da un punto di vista tecnico e sembra profondamente errata da quello di politica giudiziaria.
A ciò va aggiunto un formidabile ostacolo di carattere organizzativo, che qui si tratta per ultimo perché va evitata la tentazione di non entrare nel merito della riforma semplicemente affermando che essa è irrealizzabile, ma che non può comunque essere trascurato: con l’attuale organico dei magistrati è impossibile pensare di destinare il triplo delle risorse umane all’organo che decide le misure cautelari.
Prevedere l’intervento di tre magistrati in luogo di uno implicherebbe necessariamente un forte rafforzamento degli organici dell’organo giudicante designato, sia esso l’ufficio GIP o il Tribunale per il Riesame (ipotesi che, trasferendo alla Corte di Appello la funzione di giudice dell’impugnazione cautelare porterebbe alla paralisi di quest’ultimo organo, notoriamente già in cronica difficoltà quasi in tutti i circondari italiani).
Teoricamente si potrebbe ovviare al problema prevedendo forti aumenti di organico: ma si tratta di una soluzione che richiede uno sforzo insostenibile dal punto di vista finanziario ed in forte contrasto con gli obiettivi del PNRR.
In ogni caso ci vorrebbero anni prima che una modifica di questo tenore possa realizzarsi ed entrare a regime, senza contare che eventuali immissioni di nuovi magistrati destinate ai soli organi sopra menzionati, ignorando i decennali problemi di carenza di organico che affliggono tutti gli altri (a cominciare dal civile) sarebbe soluzione eccentrica e prevedibilmente poco popolare.
Occorrerebbe ancora occuparsi delle incompatibilità a catena che si creerebbero coinvolgendo nella fase cautelare un numero triplo di magistrati rispetto a quello attualmente previsto.
Bati pensare che l’eventuale coinvolgimento di tre giudici della corte di appello in sede di impugnazione cautelare implicherebbe la necessità di ricorrere ad altri tre giudici della stessa corte di appello per giudicare il merito del medesimo processo dopo il primo grado, con ulteriore moltiplicazione in caso di impugnazioni cautelari plurime o con misure cautelari con più indagati (evento tutt’altro che raro).
Un utilizzo di risorse che appare del tutto incompatibile con le attuali forze della magistratura, alle prese con un arretrato cronico.
Rimane imprescindibile non abbassare la guardia nei confronti di eventuali scivolamenti di attenzione e qualità nella trattazione della libertà personale, bene su cui non possono farsi sconti.
Ma forse un aumento dell’organico dei GIP in modo da evitare che gli stessi siano sommersi dalla gestione dei carichi di lavoro e possano aumentare il tempo di meditazione ed approfondimento di ognuno dei preziosi fascicoli loro dati in gestione potrebbe raggiungere, in modo assai più veloce e senza minare il sistema processuale, gli obiettivi prefissati dal legislatore.
Oltre naturalmente ad un’attenzione continua per evitare cadute ed errori, con attività di formazione e, laddove si verifichino casi dovuti a dolo o colpa grave, con interventi disciplinari ad hoc e non “per categorie”.
In definitiva, far funzionare al meglio le teste esistenti e non moltiplicarle: l’insegnamento di Cordero sembra più vivo ed attuale che mai.
[1] Il Dubbio, cit.
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