ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Fabio Saitta, professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università di Catanzaro, è autore del volume Interprete senza spartito? Saggio critico sulla discrezionalità del giudice amministrativo (Napoli, Editoriale Scientifica, 2023). Ne illustra i contenuti nell’intervista curata da Enrico Zampetti, di seguito pubblicata.
(E.Z.) Il volume prende le mosse da quello che si definisce un “fatto sociale indiscusso e incontrovertibile” ossia che, attualmente, il rapporto tra giudice e legge “vede il primo nettamente preponderante” (p. 20). Più precisamente, si richiama l’attenzione sulla sempre “più accentuata giurisdizionalizzazione della produzione delle regole normative, a discapito della produzione naturale delle stesse da parte del legislatore” (p. 17). Come introduzione a questa intervista, può, quindi, essere utile indicare da subito quali siano le ragioni di fondo alla base di questa “fuga verso un diritto sempre più giurisdizionale” (p. 29).
(F.S.) Qui si dovrebbe fare un lungo discorso, perché a questa “fuga”, cioè in definitiva al progressivo indebolimento del potere legislativo, hanno sicuramente contribuito più fattori.
In primis, la complessità giuridica: il diritto riflette la complessità della società, la cui irrefrenabile crescita ha reso indispensabile l’assunzione del momento giurisprudenziale nel processo di formazione ed implementazione della regola giuridica, determinando la fine del dominio giuspositivistico ottocentesco. Il rapporto tra legislatore e giudice è influenzato in modo rilevante dalla complessità: con riguardo all’evoluzione dell’assetto dei centri di produzione normativa; ai mutamenti nella configurazione degli interessi regolati, non più riducibili alle contrapposte figure dell’interesse pubblico e dell’interesse privato; all’evoluzione del sistema delle fonti, sempre più distante dal quadro armonico assicurato dalla costruzione geometrica ed ordinata della gerarchia.
La c.d. “crisi della legge” è frutto dell’acquisita consapevolezza dello sfuggire dell’esperienza quotidiana alle maglie delle leggi vigenti. Il moltiplicarsi delle visioni etiche, che frenano un legislatore opportunista e restio a misurarsi con decisioni critiche, il diffondersi delle “scelte tragiche” su aspetti essenziali della vita umana un tempo affidati alle leggi naturali ed un’evoluzione tecnologica troppo rapida per il legislatore fanno sì che i giudici – sia costituzionali che comuni – siano sempre più spesso destinatari di “deleghe” del legislatore, quindi costretti ad assicurare la tutela dei diritti e degli interessi costituzionalmente protetti mediante decisioni adottate sulla base di principi e scarne indicazioni legislative.
L’ingresso nell’armamentario giuridico di norme generali prive di fattispecie, come quelle costituzionali, ha pure contribuito ad espandere la discrezionalità dell’interprete, che è stato posto di fronte alla necessità di contemperare principi e valori, istanze individuali e collettive. La trasformazione dello Stato costituzionale ha posto, quindi, legislatore e giudici sempre più in posizione paritaria.
Non può essere certo trascurato, poi, il linguaggio del legislatore contemporaneo, spesso di modesta qualità ed in taluni casi volutamente ambiguo, che crea enormi problemi interpretativi ed applicativi. E’ a tutti noto come, non di rado, il legislatore utilizzi consapevolmente termini generici ed espressioni con più significati possibili, rimettendo al giudice il compito di riempirli di contenuto al momento della decisione del caso concreto. Si pensi ai concetti generici o alle clausole generali: conferire a queste ultime un elevato grado di indeterminatezza rappresenta spesso per il nostro legislatore una facile scorciatoia per trovare un compromesso tra forze politiche in disaccordo su questioni scottanti. E’ assai diffusa, dunque, l’impressione che il legislatore tenda ad addossare sempre più spesso ai giudici la soluzione di importanti questioni che imporrebbero scelte politiche da parte sua.
All’esaltazione della giurisdizionalizzazione del diritto ha, poi, sicuramente contribuito la globalizzazione del diritto, che Maria Rosaria Ferrarese ha definito “sconfinato”. Si allude alla diffusione dei soggetti che emanano regole giuridiche: alla legislazione degli Stati nazionali si affiancano ormai da tempo le normative dell’Unione europea, delle organizzazioni internazionali, delle autorità amministrative indipendenti e di soggetti privati, con una moltiplicazione di fonti accentuata dal c.d. soft law, prodotto da organi privi di potere legislativo, ma avente in concreto efficacia normativa.
(E.Z.) Nel volume si afferma che “il ruolo che si ritiene debba essere assegnato al giudice dipende inevitabilmente dalla concezione che si abbia del diritto (in senso oggettivo) e, soprattutto, dalla funzione che quest’ultimo è chiamato ad assolvere” (p. 45). In ragione di questa premessa, nel primo capitolo del libro, il tema viene opportunamente trattato con riferimento alle varie concezioni del diritto, inquadrando la discrezionalità del giudice nell’ambito della teoria generale dell’interpretazione. Per avviarci in questo cammino, quali indicazioni di massima possiamo trarre per il nostro tema dalle concezioni ascrivibili al giuspositivismo, al giusnaturalismo e al giusrealismo?
(F.S.) In estrema sintesi e seguendo, se mi è consentito, un ordine diverso, inizierei ribadendo che il giusnaturalismo, pur avendo fornito talvolta soluzioni astratte o poco convincenti, ha sempre svolto l’importante funzione di evidenziare la necessità che nel diritto positivo siano costantemente integrati i principi del diritto naturale, per garantire l’esigenza di giustizia, tentando di impedire che il diritto positivo venga ridotto a mera espressione dell’arbitrio del sovrano. Come ha efficacemente notato Angelo Falzea, si tratta, quindi, di un movimento di pensiero che sta alla base dell’edificazione di regole giuridiche di ordine superiore in ragione dei valori ai quali le società umane riconoscono una importanza e un peso più elevato rispetto ai valori dei quali è fatto il vivere comune.
Il giusrealismo – che, forse, non può considerarsi una vera e propria corrente dottrinale, limitandosi a raggruppare diverse tendenze accomunate dalla netta ostilità, al contempo, verso il giuspositivismo (inteso come formalismo giuridico) e verso il giusnaturalismo – si caratterizza, sia nel filone americano che in quello scandinavo, per un approccio di tipo “pragmatico-comportamentistico” connesso ad un’idea prettamente sociale del diritto e ad una tendenza alla concretezza anziché alle regole astratte della ragione, nonché – per quanto qui maggiormente interessa – per l’assegnazione ai giudici di un ruolo centrale nella vita giuridica ed una peculiare concezione del problema dell’interpretazione.
Portando a considerare il diritto sul piano della realtà sociale empirica, esso ha contribuito a far in modo che, mentre una volta era considerato addirittura sovversivo credere che i fattori extragiuridici potessero influenzare le decisioni giudiziali, oggi appare addirittura ingenuo dubitarne e, quantomeno per i casi relativamente più importanti o difficili, credere che si possano trovare argomenti giuridici forti per entrambe le parti è divenuto un luogo comune.
Quanto al giuspositivismo, nel libro ho provato a spiegare perché, nella versione “riformata” di Hart, esso esprima – a mio avviso – una posizione equilibrata, articolata e complessa, che apre all’ermeneutica, ritenendo, da un lato, che significato e verità non coincidano e non siano sovrapponibili e, dall’altro, che il diritto sia indeterminato o incompleto, ergo che, per poter essere applicate ai casi concreti, le norme debbano essere interpretate e che tale attività comporti la creazione del diritto entro i limiti comunque stabiliti dal legislatore.
(E.Z.) È un dato che, nel corso del novecento, il giuspositivismo abbia subito un significativo ridimensionamento, anche al di là del contesto del nazismo o della reazione di alcuni giuristi agli orrori del nazismo (v., ad esempio, Radbruch). Come puntualmente rilevato nel libro, soprattutto dopo l’avvento delle costituzioni europee del dopoguerra il giuspositivismo si rende conto (anche) dal suo interno “di come ogni concezione imperativistica e lo stesso formalismo kelseniano siano ormai inadeguati per spiegare i nostri sistemi giuridici” (p. 56). Semplificando al massimo, senza potere in questa sede ripercorrere la ricchezza e l’approfondimento del volume, la domanda - posta volutamente in termini generici - è la seguente: a partire da Hart, passando per Dworkin, fino a giungere al neocostituzionalismo e alle teorie ermeneutiche, come cambia l’approccio all’interpretazione e, più esattamente, quale ruolo assumono nel processo interpretativo del giudice i valori, i principi, la morale?
(F.S.) Costituzionalizzandosi e democratizzandosi mediante l’inclusione di diritti fondamentali azionabili e di principi sostanziali, lo Stato mette in moto un processo di “rimaterializzazione” del diritto positivo. Il ragionamento giuridico non può più essere ridotto ad una deduzione sillogistica da norme e prescindere da un accertamento della ratio e degli scopi dei provvedimenti e delle disposizioni né dal bilanciamento di principi, che a loro volta devono essere riempiti di contenuto mediante concezioni sostanziali di valori. La rigida separazione tra diritto e morale appare adesso come la prescrizione di un ideale e la pretesa di superiorità epistemologica del giuspositivismo rispetto al giusnaturalismo risulta ribaltata: se ne accorgono bene gli stessi giuspositivisti, i quali propongono una giustificazione politica (valorativa) per una teoria del concetto di diritto come dispositivo disconnesso dalla morale.
Com’è noto, nella seconda metà del secolo scorso, si è assistito al passaggio dal tempo dei codici a quello delle costituzioni, dalla legislazione minuta a quella dei principi, dei diritti fondamentali che si affermano per il tramite di una fonte di derivazione legislativa che sottrae alcune posizioni giuridiche del singolo alla disponibilità della maggioranza politica, quindi ad un nuovo modo di essere degli stessi sistemi giuridici democratici, che, attraverso i neonati giudici delle leggi, hanno rotto il tradizionale schema imperniato sulla classica divisione dei poteri. E’ il fenomeno definito “neo-costituzionalizzazione”, consistente nell’avvertita esigenza di valorizzare ed applicare i principi e le regole ricavati dalle costituzioni nazionali, per dirla con le parole del compianto Paolo Grossi, di “cercare e trovare il diritto nel sostrato valoriale di una civiltà storica”, che ha generato un’ampia revisione di interi settori giuridici per effetto degli interventi – interpretazione adeguatrice ed applicazione diretta delle norme costituzionali – ad opera delle corti costituzionali e degli stessi giudici comuni. A partire da un determinato momento, i principi costituzionali sono stati invocati per orientare l’interpretazione di norme generali e per procedere alla concretizzazione delle clausole generali, finendo per favorire la diffusione di una generale propensione a riconsiderare interi istituti, che sono stati letteralmente pervasi nella loro intrinseca natura dai valori espressi dalle carte costituzionali. Ad un certo punto, intorno agli anni ‘70, il processo di alterazione della dinamica classica della relazione tra legge ed interpretazione è apparso ormai irreversibile ed ha determinato una sensibile trasformazione del giudice.
Del resto, i principi espressi dalle norme costituzionali sono valori che, dopo essere stati stabilmente incorporati nel sistema del diritto positivo, esigono una piena giuridicità e, a causa della loro pluralità e coesistenza, nonché per il differente peso che assumono di volta in volta nelle singole fattispecie concrete, devono essere bilanciati dall’interprete al fine di determinare la norma applicabile e la soluzione preferibile sulla scorta di un giudizio dipendente da molteplici caratteri. Va da sé, poi, che l’idea che i principi costituzionali siano sempre da ponderare – piuttosto che da applicare – e che tale ponderazione debba essere effettuata con principi morali inventati dai giudici possa suscitare alcune perplessità. Le operazioni di bilanciamento giudiziale presentano indiscutibilmente un tasso più o meno elevato di creatività, tant’è che gli stessi fautori dell’interpretazione “per principi” non possono far a meno di notare che un bilanciamento senza gerarchia deresponsabilizza il giudice, libero di non pronunciarsi su priorità di valori, con conseguente pericolo di scadimento nel puro decisionismo e nell’arbitrio; da qui la triplice esigenza di: evitare che il giudizio sui valori favorisca l’intolleranza e visioni assolutiste o fondamentaliste della vita; garantire che le argomentazioni giudiziali siano fedeli al testo costituzionale; assicurare una certa continuità nella giurisprudenza.
Se, poi, andiamo al problema principale indagato nel libro, che è quello di stabilire se l’attività interpretativa lato sensuintesa, cioè la scelta della norma applicabile ad un caso, richieda necessariamente oppure solo contingentemente il ricorso a valutazioni morali, la risposta è sicuramente affermativa, nel senso che il giuspositivismo è solito ammettere una siffatta connessione interpretativa, come conferma il ruolo della discrezionalità giudiziale riconosciuto da Kelsen, da Hart e dallo stesso Ferrajoli. Nello Stato costituzionale di diritto, dunque, l’accertamento della validità materiale delle norme giuridiche richiede, oltre alle componenti valutative tipiche di qualsivoglia attività interpretativa, anche una forma di ragionamento morale. Ciò ancorchè sia del tutto ovvio che, una volta che principi morali siano entrati a far parte del diritto, la loro applicazione risenta di tecniche, argomenti e ragioni specificamente giuridiche: la comprensione e l’applicazione di quel principio saranno sempre mediate da forme di ragionamento giuridico, seppur inframmezzate da considerazioni giuridiche, in una fusione che non comporta l’abbandono della tesi positivistica della separazione, ma ne limita la rilevanza alla sola determinazione della validità formale.
Che il giuspositivismo attuale non si ponga necessariamente in contrasto in relazione al tema dei rapporti tra diritto e morale è confermato dal pensiero di Angelo Falzea, che, pur essendo stato un giuspositivista, non è mai stato restio nell’invocare l’etica e nel parlare di valori oltre che di diritti.
(E.Z.) Nel dare atto dei progressivi cambiamenti che hanno variamente caratterizzato il processo interpretativo, il libro, tra i numerosissimi spunti, richiama l’attenzione su alcuni elementi: rottura della logica della fattispecie (p. 75); assunzione del valore degli interessi come criterio di valutazione della prescrittività legale (p. 75); sostituzione del metodo sussuntivo con il criterio del bilanciamento degli interessi e dei valori (p. 111). Di qui due domande tra loro correlate:
a) pur nell’apprezzamento di fondo per questi sviluppi del processo interpretativo (che vanno anche) oltre i canoni previsti dall’articolo 12 delle preleggi, quali sono i limiti invalicabili entro cui l’attività del giudice deve contenersi, per evitare che “lo Stato costituzionale di diritto sia sostituito da uno Stato aristocratico di giurisdizione”? (così Villata, citato nel volume a p. 186);
b) sul piano delle concezioni del diritto, perché l’opzione da preferire, in grado di scongiurare il rischio paventato, sarebbe quella per un “giuspositivismo critico” o “moderato”, la quale, come anche si trae dall’insegnamento della scuola civilistica messinese e in particolare di Angelo Falzea, riuscirebbe ad assicurare un adeguato equilibrio tra “esigenze di certezza del diritto e l’inevitabile dinamismo dell’interpretazione”, tra “apertura ai valori e rigore metodologico”? (p. 207; cfr. anche p. 191 ss.)
(F.S.) a) Come ho evidenziato nel libro, un conto è dire che l’interprete deve valutare gli interessi cristallizzati nella norma e le possibilità di adeguare quest’ultima ai vari momenti dell’evoluzione storica (Pugliatti), oppure osservare che ogni interpretazione esige una presa di coscienza della realtà storico-sociale del sistema e quindi un confronto tra il passato e il presente (Falzea), o anche notare – muovendo dalla nota impostazione gadameriana secondo cui il significato di ogni testo dipende sempre dal senso della domanda a cui esso vuole rispondere – che l’interprete non si deve porre in posizione passiva, ma deve immettere e far valere nel processo ermeneutico tutta l’attualità e contemporaneità del suo concreto e storico esistere (Grossi). Fin qui, ci si limita ad attribuire all’interprete il ruolo di mediatore tra testo e caso, norma e vita, ed a superare la vetusta visione dell’interpretazione come operazione di mera sussunzione o di apodittico sillogismo. Pensare che gli enunciati normativi possano avere un significato univoco, dato dalla somma dei significati delle singole parole, è evidentemente una banalità: il linguaggio è una questione complessa e – come abbiamo detto più volte con riguardo all’art. 12 delle Preleggi – le stesse singole parole possono avere più significati, ragion per cui il significato di una disposizione, per quanto chiara e precisa possa essere, non è mai scontato e il mito delle disposizioni chiare ed univoche è, appunto, un mito.
Acclarato, dunque, che ogni interpretazione è massimamente e resta manifestazione ed esercizio di libertà del pensiero, che però non vuol dire arbitrio, occorre, tuttavia, distinguere tra una creazione quale scelta, da parte del giudice, dell’interpretazione maggiormente sostenibile tra i possibili significati ascrivibili all’enunciato normativo ed una creazione quale introduzione, nel contesto del diritto positivo, di nuove disposizioni normative. Non v’è dubbio, infatti, che, pur essendo la legge, come ogni enunciato linguistico, suscettibile di una pluralità di interpretazioni, la sua naturale incertezza non deve condurre alla conclusione che l’interprete possa trarre da essa qualsiasi significato: esiste un punto di rottura oltre il quale l’interpretazione cessa di essere tale e si converte nella creazione di una nuova disposizione. Insomma, una cosa è interpretare un testo normativo, precisando i confini di una norma (riducendone la vaghezza), altra cosa è formulare una norma nuova: l’interpretazione è sempre interpretazione di qualcosa.
Come evidenzia bene Luigi Ferrajoli, dire che le norme sono “create” dall’interpretazione è come dire che la quinta sinfonia di Beethoven è creata dalla sua esecuzione e dalla sua interpretazione. In queste ultime parole, riecheggia la metafora dell’interprete senza spartito che ha ispirato il titolo del mio libro e che emerge in modo ancora più evidente nell’osservazione secondo cui la discrezionalità nell’applicazione della legge è simile in qualche modo a quella che si riscontra nell’esecuzione di uno spartito musicale: un’opera può essere eseguita in vari modi, ma esiste un limite, superato il quale, ciò che si esegue non è più quello spartito (Ferrua).
L’opera di adeguamento di un testo, dunque, non può essere condotta sino al punto di leggervi quel che non c’è, anche quando la Costituzione vorrebbe che vi fosse. Per individuare il confine oltre il quale si verifica quel superamento patologico dei limiti della discrezionalità interpretativa e si degenera nel creazionismo giudiziario da me criticato, va, allora, tenuto presente che esiste un’alternativa tra applicare in modo meccanico una norma senza inquadrarla sistematicamente e senza guardare alla fattispecie concreta e tranciare in toto il vincolo con il testo legislativo, che dovrebbe continuare ad avere una posizione di centralità nei procedimenti applicativi, facultando così ogni arbitrio interpretativo.
b) Nell’ultimo paragrafo del primo capitolo, ho provato a dimostrare come il giuspositivismo – che ha ormai da tempo apertamente respinto la teoria formalistica dell’interpretazione (si pensi a Kelsen e ad Hart), la quale ha finito per fare capolino, sia pure in termini assai diversi, in alcuni studiosi dichiaratamente antipositivisti (si allude chiaramente alla teoria dell’unica risposta corretta di Dworkin, nella quale è stata sovente rinvenuta una riproposizione di argomenti formalistici), sostanzialmente cambiando i connotati (tanto da essere stato ridefinito “post-positivismo”) – può essere, in alcune versioni recentemente definite “intelligenti e informate”, di persistente utilità.
Innanzitutto, filosofi del calibro di Villa hanno dimostrato in modo convincente che l’avalutatività delle descrizioni non è affatto una componente concettuale del giuspositivismo, ben potendosi sostenere che nelle attività conoscitive degli studiosi del diritto siano presenti giudizi di valore “senza per questo mettere in questione il giuspositivismo a livello del concetto”.
Probabilmente anche perché mi sono laureato a Messina, dove le prime lezioni che ho seguito sono state quelle da lui svolte nell’ambito del corso di Introduzione alle scienze giuridiche, mi è parso fondamentale l’insegnamento di Angelo Falzea, che, contestando radicalmente l’idealità del valore giuridico, in un sol colpo ha chiuso la partita tanto con il giusnaturalismo tradizionale quanto con il positivismo giuridico più formalistico, contrapponendo ad entrambi una concezione del diritto “reale oggettiva”, che vede il diritto come una realtà che l’uomo trova nella sua vita, che si definisce nel suo linguaggio e nella sua cultura e che costituisce la base di valori positivamente validi al di là di qualsivoglia volontà arbitraria e mera soggettività. Pur tenendo ferma la positività del diritto come presupposto irrinunciabile della scienza giuridica, Falzea non l’intende in termini formali né naturali, ponendo a fondamento e garanzia di essa la permanenza di un interesse fondamentale di cui è portatrice la comunità giuridica (che, in antitesi alla Grund-norm kelseniana, lui chiama Grund-Wert). Si tratta di una “positività ermeneutica” che egli rinviene, in definitiva, nella circostanza che la decisione di ogni singolo caso è giusta proprio in quanto è presa dal giudice facendo confluire in essa il complesso dei principi e della storia che costituiscono il tessuto ordinante di una società. Pur essendo pienamente consapevole del primato ontologico del valore, che spiega e rende razionali le scelte normative, Falzea traccia, però, un confine al di là del quale l’interprete non può valicare il dato testuale né disporre dei sensi simbolici e formalizzati. Un giusto dosaggio tra giuspositivismo e valori – condiviso, peraltro, con Rodolfo De Stefano, giusfilosofo che, oltre ad aver insegnato per tanti anni con lui a Messina ed essersi anch’egli formato seguendo l’insegnamento di Pugliatti, ha costantemente affermato che l’interpretazione giuridica deve sì accertare i valori reali e sostanziali, le esigenze di giustizia via via emergenti nella realtà della vita sociale in modo da adeguare ad esse il diritto positivo, ma restando pur sempre confinata entro il limitato raggio delle correzioni ed integrazioni rese logicamente possibili dallo schermo simbolico dei testi di legge e del loro linguaggio – che, non soltanto a mio avviso, è di prepotente attualità, in quanto consente a Falzea di criticare con fermezza gli orientamenti che, muovendo dal carattere disorganico e mutevole della realtà giuridica odierna, “suggeriscono di passare da una regolamentazione per fattispecie […] a una regolamentazione per principi” e “quando riconducono il diritto al fatto – o, che è lo stesso, lo rimettono ai giudici – fanno tornare indietro culturalmente il pensiero giuridico, riportandolo sulla via senza sbocco del realismo giuridico”.
Del resto, è stato dimostrato in modo convincente che difendere il principio di avalutatività non è incompatibile con una seria presa in considerazione dei valori facenti parte del fenomeno sociale oggetto di studio. La circostanza che fra gli strumenti a disposizione del giurista per giudicare sulla validità di una norma vi siano anche i valori incorporati nella Costituzione, infatti, non implica in alcun modo che il giurista li debba necessariamente fare propri, ben potendo i giudizi di valore essere impiegati in funzione conoscitiva, al fine di descrivere l’esistenza di norme effettive ancorchè invalide o la disapplicazione di norme vigenti e valide o, ancora, la vigenza di norme invalide.
E’ per questo che un giuspositivismo critico può svolgere questa importante funzione senza perdere i propri presupposti fondamentali e, in particolare, senza oltrepassare la linea di confine tra i giudizi di valore giuridici interni (ricognitivi), collocabili all’interno della scienza del diritto, e quelli ideologico-politici (creativi), che fanno parte, invece, della politica del diritto.
In conclusione (mi rendo conto che ci sarebbe tanto altro da dire), mantenendo fermi alcuni punti teorici fondamentali, tra i quali la distinzione tra mera “interpretazione” della legge ed “integrazione” dell’ordinamento, gli assunti fondamentali dell’ermeneutica giuridica, ove depurati delle affermazioni più estreme, e quelli di un moderno positivismo critico – che riconosca, cioè, un essenziale ed ineliminabile momento valutativo che caratterizza l’attività di interpretazione ed applicazione del diritto – si possono sicuramente conciliare.
Ritenere che il giudice debba agire in base alle fattispecie astratte presentate dal diritto positivo – e non, ad esempio, a determinati ideali – è, infatti, cosa ben diversa dal ritenere che la sua azione – ad esempio, la qualificazione normativa di un fatto – sia priva di scelte interpretative.
(E.Z.) I tre capitoli centrali del libro sono specificamente dedicati all’attività interpretativa del giudice amministrativo. Complici le “maglie larghe” del codice del processo amministrativo (ma anche della precedente legislazione processuale), tale attività non sempre pare contenersi nei limiti di un’ordinaria attività interpretativa. Il volume esamina numerosissimi istituti processuali propri di ciascuna fase del processo indicandone le evoluzioni e illustrandone le varie interpretazioni offerte dalla giurisprudenza (cap. II: instaurazione, fase cautelare e istruzione probatoria, p. 211 ss.; cap. III direzione del processo, p. 301 ss.; cap. IV decisione e giudizio di ottemperanza, p. 351 ss.). Solo per citarne alcuni: translatio iudicii; astensione facoltativa; intervento iussu iudicis; qualificazione e conversione delle azioni; poteri istruttori officiosi; principio di non contestazione; verificazione e consulenza tecnica; ammissione di nuovi mezzi di prova e nuovi documenti in appello; annullamento con rinvio al primo giudice; modalità del contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio; sospensione del processo; spese di giudizio; condanna al risarcimento del danno; giurisdizione di merito e poteri sostitutivi; modalità di ottemperanza; dichiarazione d’inefficacia del contratto d’appalto e sanzioni alternative. Sarebbe molto interessante soffermarsi su ciascuno degli istituti processuali menzionati nel libro, ma non possiamo farlo in questa sede. Ci può, però, indicare due o tre tra questi istituti che, secondo il suo convincimento, rivelano più di altri una vicenda interpretativa che si pone al di fuori dei limiti fisiologici dell’interpretazione?
(F.S.) Diciamo che c’è l’imbarazzo della scelta.
Se mi è consentito, però, più che evidenziare ipotesi nelle quali è il giudice amministrativo ad esondare, diciamo così, dai limiti fisiologici dell’interpretazione, menzionerei due casi in cui è la legge processuale a lasciargli eccessivi spazi di manovra: la decisione sulle spese di giudizio e la dichiarazione d’inefficacia del contratto d’appalto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione.
Per quanto attiene al primo caso, è noto a tutti come in passato la giurisprudenza amministrativa propendesse nettamente per la compensazione delle spese, che praticava con larghezza talmente eccessiva da invertire quasi il rapporto tra regola ed eccezione delineato dal dettato normativo; prassi fondata sull’anacronistica considerazione che non fosse consentito condannare l’amministrazione alle spese del giudizio perché essa pur essendo formalmente parte del processo non assume mai la veste di parte soccombente, agendo sempre come organo pubblico preposto all’esecuzione e alla salvaguardia della legge. Una politica giurisprudenziale che era evidente manifestazione della concezione, ormai da tempo superata, del processo amministrativo come processo di parti non paritarie.
Dopo l’avvento del codice, è stato applicato più frequentemente il criterio generale della soccombenza, ma si rinvengono tuttora tante sentenze in cui il giudice amministrativo afferma di avere ampi poteri discrezionali in ordine alla statuizione sulle spese e, se del caso, al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione ovvero escluderla. Non mancano, poi, decisioni in cui si torna ad affermare tralatiziamente che la statuizione del giudice assunta in ordine all’assegnazione delle spese di causa (compresa la possibilità di compensarle tra le parti) costituisce una valutazione ampiamente discrezionale di equilibrio processuale, senza che il giudicante sia tenuto a motivare la decisione assunta. E, come segnalo nel libro, la gamma di formule con le quali viene giustificata la compensazione delle spese è assai variegata: “complessità delle questioni trattate”, “natura degli interessi coinvolti”, “definizione transattiva”, “peculiarità della vicenda”, “evoluzione del quadro giurisprudenziale di riferimento”, “margini di opinabilità delle valutazioni oggetto di causa”; e chi più ne ha più ne metta.
Infine, dev’essere – a mio avviso – stigmatizzata la prassi di non applicare il principio della soccombenza nel caso in cui la parte intimata non si sia costituita in giudizio ed il ricorso sia stato accolto, prassi che sembra muovere dalla deprecabile idea di una sorta di superiorità sociale dell’amministrazione intimata rispetto al ricorrente.
Tutto ciò mi ha indotto a concludere polemicamente il paragrafo dedicato a quell’istituto con l’affermazione – evidentemente mutuata da un noto scritto di Mario Nigro – che il giudice amministrativo continua ad essere il… “signore delle spese”.
I poteri giudiziali sull’efficacia del contratto sono evidentemente connotati da un’amplissima discrezionalità. Lasciamo stare se si tratti di giurisdizione estesa al merito, di una valutazione equitativa, ecc. ecc.. Certamente, nella concreta ponderazione dei contrapposti interessi, il giudice chiamato a decidere le sorti del contratto sembra esercitare una discrezionalità più propriamente pertinente all’esercizio del potere amministrativo, anche se un siffatto potere non può ritenersi totalmente “nuovo”, essendoci svariate ipotesi in cui al giudice vengono attribuite valutazioni discrezionali di carattere concreto e specifico, limitate dal solo parametro della ragionevolezza. Parimenti indubbio è che la scelta legislativa di affidare al giudice amministrativo un così delicato bilanciamento di interessi sia quantomeno opinabile, specie ove si consideri l’ampia libertà che era stata lasciata agli Stati membri dal legislatore comunitario: si sarebbero potute prospettare soluzioni diverse, id est individuare il c.d. “organo di ricorso indipendente dall’amministrazione aggiudicatrice” in un organo non giurisdizionale, come ad es. l’A.V.L.P. (oggi A.N.AC.).
Così non è stato, per cui ci troviamo di fronte ancora una volta all’attribuzione al giudice amministrativo del compito di effettuare un bilanciamento di interessi espressi in clausole generali che gli conferiscono grande discrezionalità decisoria, con tutti i pro e i contro che ciò comporta, in particolare in un settore così delicato come quello degli appalti pubblici. Non a caso, d’altronde, anche nell’ambito del Consiglio di Stato non sono mancate perplessità su questa tendenza legislativa a configurare, in modo sempre più frequente, vere e proprie ipotesi di “giudice-amministratore”, quasi a voler confermare il vecchio motto “juger l’administration c’est administrer”, ed un fine giurista come Giovanni Verde si è chiesto fino a che punto sia possibile “caricare sul giudice […] il peso di scelte che spettano in primo luogo a chi ci rappresenta democraticamente”.
(E.Z.) Alla fine del quarto capitolo vengono ancora esaminati alcuni “casi controversi” di quella che “per comodità, preferiamo definire giurisprudenza amministrativa «creativa»” (p. 458 ss.): modulazione degli effetti caducatori della sentenza di annullamento; termine per ricorrere nel rito appalti; appellabilità dl decreto cautelare monocratico; individuazione di una anomala ipotesi di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse; effetto sospensivo automatico del ricorso; onere della prova dell’inutilità della partecipazione al procedimento (art. 21 octies, co. 2, l. 241 del 1990); scia e autotutela; abuso del processo. Non abbiamo il tempo di soffermarci su tutti questi casi controversi (magari potranno essere ripresi nel dibattito successivo all’ intervista). Tuttavia, quali sono i casi in cui è più evidente una forzatura del dato normativo e, soprattutto, in che modo e in base a quali argomentazioni viene giustificata dalla giurisprudenza una così evidente forzatura?
(F.S.) Anche qui c’è l’imbarazzo della scelta, ma siccome il tempo a nostra disposizione continua a diminuire mi limito anche stavolta ad indicare soltanto due casi.
Un’opzione interpretativa quantomeno ardita – non a caso definita da Enrico Follieri vera e propria “ingegneria processuale” e da Michele Fornaciari “ultimo parto di una fantasia […] veramente inesausta” – è quella, oggi al centro dell’attenzione per la vicenda delle cc.dd. “concessioni balneari”, attinente alla modulazione degli effetti caducatori della sentenza di annullamento.
Tra le tante osservazioni critiche che sono state rivolte a questo indirizzo sin dal 2011, mi sembra particolarmente efficace quella secondo cui, quando utilizza il potere di modulare gli effetti dell’annullamento che si è autoproclamato, il giudice si sostituisce arbitrariamente alla pubblica amministrazione valutando in sua vece l’opportunità o meno del mantenimento di tali effetti per tutelare un interesse pubblico e svolge un ruolo ben diverso da quello che gli è stato assegnato nell’ambito della giurisdizione di legittimità (R. Dipace). La manipolazione della pronuncia (tipica) di annullamento, infatti, viene posta in essere a seguito di una chiara ponderazione tra gli interessi presenti in giudizio, con evidente superamento del confine tra giudicare ed amministrare (A. De Siano).
Francesco Caringella, a cui va tutta la mia stima, rivendica la “signoria” del giudice amministrativo sugli effetti delle proprie pronunce, assumendo che serve ad assolvere al non agevole compito di “calibrare la misura della tutela, necessaria e sufficiente, onde placare l’ansia di protezione che anima il ricorso”. Mi sia consentito garbatamente dissentire, condividendo l’auspicio che l’attività lato sensu creativa del giudice si svolga sempre all’interno di un processo conoscitivo basato su un metodo dialettico, in cui la creazione giudiziale sia la sintesi delle contrapposte opinioni delle parti e non il frutto di intuizioni solitarie del giudice, per quanto ispirate dal nobile intento di assicurare una giustizia effettiva (A. Cassatella).
Un rapido cenno, poi, ad una questione che mi è sempre stata a cuore (anche se devo confessarvi che ormai mi sono rassegnato): l’interpretazione dell’art. 21-octies, comma 2, della legge sul procedimento.
Risale a più di quindici anni fa l’affermazione del Consiglio di Stato secondo cui, ancorchè tale disposizione ponga in capo all’amministrazione (e non al privato) l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che l’esito del procedimento non poteva essere diverso, onde evitare di gravare la pubblica amministrazione di una probatio diabolica (quale sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento), è preferibile interpretare la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Secondo tale giurisprudenza, dunque, solo dopo che il ricorrente ha adempiuto quest’onere di allegazione (che la norma implicitamente porrebbe a suo carico), la pubblica amministrazione sarà gravata del ben più consistente onere di dimostrare che, anche se quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato.
Di fronte ad una simile affermazione, che subordina gli oneri di allegazione e prova incombenti sull’amministrazione resistente all’adempimento, da parte del ricorrente, di un onere di allegazione di cui nella norma, sinceramente, non v’è proprio traccia, non ho potuto far altro che constatare amaramente quanto sia errata l’affermazione condensata nel noto brocardo “in claris non fit interpretatio”. Il giudice amministrativo, infatti, ha riscritto a proprio piacimento una norma giuridica che non generava alcun dubbio interpretativo.
(E.Z.) Riprendendo concetti che percorrono tutto il libro, nell’ultimo capitolo si evoca l’esigenza di tornare a un diritto calcolabile, prevedibile, dove il rapporto tra giudice e legislatore sia correttamente equilibrato (p. 533). Tuttavia, vi è la consapevolezza che l’incertezza non possa essere del tutto eliminata, ma che la si debba attenuare attraverso un uso accorto della funzione legislativa e, soprattutto, attraverso un controllo della decisione giurisdizionale che ne sappia dimostrare la “correttezza della soluzione raggiunta, la sua razionalità, persuasività, efficienza (anche economica)” (p. 145). Più precisamente, i percorsi giurisprudenziali dovrebbero rendersi “prevedibili” attraverso l’argomentazione (motivazione) della decisione, l’esperimento dei rimedi impugnatori, un uso equilibrato del precedente giudiziale, il ruolo critico e di controllo della dottrina. L’ultima domanda è, allora, riservata proprio alla dottrina, che, come anche si evidenzia nel volume, avrebbe ormai perso molta della sua capacità di influire sui giudici e sull’evoluzione giurisprudenziale (p. 160). Ad oggi quale compito dovrebbe svolgere la dottrina perché il suo apporto assuma uno specifico rilievo e una reale utilità sia per l’attività (interpretativa) del giudice che per l’attività legislativa?
(F.S.) E’ opinione diffusa che l’interpretazione manifesti oggi un bisogno di correttezza che, non potendo più essere soddisfatto dal giuspositivismo, richieda l’apporto della dottrina, chiamata a mettere in pratica con rigorosi ragionamenti il principio per cui, tra le possibili interpretazioni di una norma, la più corretta è quella sostenuta dalla migliore giustificazione argomentativa, idonea a confutare e superare ogni argomento contrario. Come magistralmente evidenziato da Luigi Mengoni, in presenza di un diritto positivo spesso assai difficile da decifrare, la dogmatica dovrebbe assicurare una “recezione controllata” delle valutazioni sociali dell’ordinamento positivo mediante la loro trasformazione in categorie sistematiche e, lungi dall’imbrigliare l’interprete, offrire una base di partenza per esplorare la possibilità di nuove soluzioni in luogo di quelle già sperimentate.
Purtroppo, la dottrina è venuta meno al proprio compito principale, che oggi dovrebbe essere quello di approfondire la discussione razionale sul contenuto dei principi, molti dei quali sono continuamente affermati, ma in modo approssimativo o grossolano, il che contribuisce a rendere arbitrarie molte decisioni giudiziarie dichiaratamente ispirate ai principi stessi. Sempre secondo Mengoni, ciò è dovuto, innanzitutto, al crescente fiorire di un filone di letteratura giuridica di tipo descrittivo, rappresentata da raccolte più o meno ordinate di aforismi giurisprudenziali, registrati acriticamente come basi di previsione dei futuri comportamenti dei giudici. Ma, come riferisco nel libro, vi sono varie altre ragioni pratiche che, verosimilmente, fanno sì che il peso della dottrina sia oggi assai modesto proprio nell’evoluzione del diritto amministrativo.
Sta di fatto che siffatta tendenza è tutt’altro che rassicurante, nella misura in cui, quanto più s’indebolisce il ruolo della scienza giuridica, tanto più aumenta la possibilità che si formi un residuo irrazionale proveniente dalla precomprensione soggettiva del giudice: va, quindi, accettato senza indugio l’invito rivolto alla dottrina da Riccardo Villata a non perdere mai “la consapevolezza del proprio ruolo” ed evitare il rischio di apparire o risultare “compiacente” o “dormiente”.
Nel mio piccolo, ci ho provato.
1. Non gode di buona stampa la riforma Cartabia del processo penale.
Tra i magistrati c’è chi ne aveva proposto l’immediata abrogazione già prima dell’entrata in vigore. Ma la sua demolizione è diventata ormai un luogo comune, una moda.
Dall’accademia vengono persino interpretazioni complottistiche delle effettive finalità della riforma.
A proposito della disciplina dei collegamenti a distanza si è sostenuto che la previsione del previo consenso delle parti quale condizione ordinaria di ammissibilità, sia solo una strategica e temporanea astuzia del legislatore, intenzionato in realtà a porre le premesse di una graduale evoluzione verso una giustizia stabilmente amministrata a mezzo di interfacce elettroniche, fino alla riduzione del contraddittorio a un confronto tra avatar.
Quanto alla previsione della videoregistrazione come modalità privilegiata di documentazione, si è sostenuto che gli obiettivi «malcelati o forse fin troppo palesi» del legislatore siano quelli di annientare la centralità del dibattimento come sede per la formazione della prova, quando si tratti di documentare atti delle indagini preliminari, o di attentare al principio di immediatezza, quando si tratti di acquisire prove formate in altro dibattimento o prima del mutamento della composizione del collegio giudicante. Sicché il rafforzamento delle garanzie sarebbe soltanto apparente; e si ipotizza addirittura un dolo del legislatore.
Anche prescindendo da questi eccessi, comunque, è generalizzata l’accusa di tradimento dei principi in nome del «pragmatismo efficientista» imposto dal PNRR: come se non fosse possibile, e dunque necessario, distinguere tra l’etica della giurisdizione e l’economia dell’organizzazione giudiziaria.
2. Questa ostilità spesso preconcetta verso la riforma si può spiegare solo movendo dalla distinzione tra politica e propaganda, che sono senza dubbio attivate entrambe da problemi reali: con la determinante differenza, però, che la politica propone soluzioni, la propaganda usa i problemi senza nemmeno affrontarli.
Un esempio può rendere icasticamente chiara questa distinzione.
L’immigrazione è ovviamente un problema grave e complesso. Ma allontanare le ONG dal canale di Sicilia significa usare il problema senza nemmeno affrontarlo.
Come ha scritto Massimo Donini, la riforma Cartabia propone appunto soluzioni, non si limita a usare i problemi, a differenza di quanto troppo spesso è accaduto in passato. E qualunque critica si possa muovere al disegno riformatore, l’interprete dovrebbe farsi carico della tenuta del sistema.
Il giurista non è un legislatore mancato; e non può rimanere intrappolato nel cantiere sempre aperto della propaganda. Anche quando non sia stato chiamato a far parte delle commissioni istituite per le riforme, ha il compito istituzionale di ricondurre a sistema persino norme discutibili.
Chi deve scrivere una sentenza o un ricorso, chi deve difendersi in un processo penale, attende da dottrina e giurisprudenza risposte sul significato delle norme, non rimpianti per ciò che non è stato, e sarebbe potuto essere, né immagini dal metaverso.
Occorrerebbe dunque ricostruire il sistema della riforma Cartabia per chiarire quali problemi ha inteso risolvere e in quale prospettiva, in modo da disporre di un’attendibile chiave di lettura delle diverse disposizioni.
3. Non v’è dubbio che seri problemi della nostra giustizia penale nascano in particolare da una crescente autoreferenzialità dei magistrati del pubblico ministero.
E’ l’obbligatorietà dell’azione penale che viene frequentemente esibita a giustificazione del plateale fallimento di alcune iniziative processuali, benché l’art. 112 cost. non imponga certo di prescindere da una valutazione del fondamento delle notizie di reato. Tuttavia questo approccio, inteso a giustificare iniziative inutili (se non dannose) in quanto “dovute”, trovava una sua legittimazione nell’art. 125 disp. att., che qualificava come non infondata la notizia di reato quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari fossero idonei a sostenere l’accusa in giudizio.
Abolito ora l’art. 125 disp. att., il nuovo testo dell’art. 408 comma 1 prevede che «quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca, il pubblico ministero presenta al giudice richiesta di archiviazione». Sicché la nuova formulazione non è più unilaterale, non è più attenta alla sola prospettiva del pubblico ministero; assume dichiaratamente la prospettiva del giudice chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione secondo una regola di giudizio inevitabilmente orientata alla fase processuale, che presuppone invece l’esercizio dell’azione penale.
Il pubblico ministero è tenuto a chiedere l’archiviazione quando la condanna non sia il prevedibile esito del giudizio, esattamente come è tenuto a esercitare l’azione penale quando una condanna sia prevedibile. Sarebbe un azzardo l’esercizio dell’azione penale senza ragionevole prevedibilità della condanna; e un’identica regola di giudizio è dettata anche per il giudice dell’udienza preliminare, appunto perché questa udienza è destinata a fungere da «filtro delle imputazioni azzardate».
Vero è che secondo C. cost. n. 88/1991, richiamata poi anche da C. cost. n. 478/1993, «il principio di obbligatorietà dell'azione penale esige che nulla venga sottratto al controllo di legalità effettuato dal giudice: ed in esso è insito, perciò, quello che in dottrina viene definito favor actionis»; con la conseguenza che nei casi dubbi l'azione andrebbe esercitata e non omessa. Ma la finalità di evitare un processo superfluo, riconosciuta in entrambe le sentenze, presuppone che sia il legislatore ordinario a definire le condizioni dell’archiviazione, salva l’esclusione «dell’opposto principio di opportunità che consente alla pubblica accusa di agire o meno anche in base a valutazioni estranee alla fondatezza della 'notitia criminis'». E il legislatore impone oggi come criterio di giudizio la prevedibilità della condanna. Sicché occorre fare riferimento all’articolo 533 c.p.p., che della condanna definisce i presupposti, esigendo che venga pronunciata solo se «l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio». Il dubbio dunque, come non può giustificare la condanna, così non può giustificare né l’esercizio dell’azione penale né il decreto che dispone il giudizio, perché legittimamente il legislatore ordinario ha ora riposto in soffitta il favor actionis. Se ne facciano una ragione coloro che ancora lo considerano implicito nel principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale.
L'art. 112 Cost. non esige affatto che il pubblico ministero si determini in base a una regola di decisione diversa da quella prevista per il giudice. Al contrario, estende all'azione penale lo schema argomentativo che la tradizione liberale prescrive per la giurisdizione, escludendo così che le determinazioni concernenti l'esercizio dell'azione penale possano essere giustificate in ragione della funzionalità al perseguimento di risultati di controllo sociale. Infatti la giurisdizione è un sistema di giustizia legale, le cui decisioni devono essere giustificate sempre e soltanto in ragione della loro conformità a un sistema di norme e di valori, che si assume precostituito all'intervento del giudice.
Contrariamente a quanto si sostiene, dunque, l’art. 112 Cost. esclude che l’etica del pubblico ministero possa essere diversa dall’etica del giudice. Il principio di legalità vale per il pubblico ministero come vale per il giudice.
Nella giurisdizione l’argomentazione utilitaristica può giustificare solo la definizione della norma cui la decisione si proponga di essere conforme (utilitarismo della norma), non la singola decisione (utilitarismo dell’atto); e l’art. 112 Cost. estende questa logica anche alle determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale.
Nel momento in cui assume le proprie determinazioni sull’esercizio dell’azione penale il pubblico ministero deve “mettersi nei panni del giudice” che pronuncerebbe la sentenza: come qualsiasi attore, che promuova il giudizio, deve assumere la prospettiva del giudice per poter preconizzare l’accoglimento della sua domanda.
L’orizzonte del pubblico ministero non è più quello di una dignitosa partecipazione al giudizio, ma quello di una piena assunzione di responsabilità per il suo esito. E questo è certamente un formidabile contributo a superare la cultura autoreferenziale dell’accusa, benché la soluzione sembri contraddire la logica della separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, che pure la stessa riforma Cartabia dell'ordinamento giudiziario ha in qualche misura avallato, riducendo fino ai limiti della compatibilità costituzionale il possibile passaggio dall’una all’altra funzione.
Si è sostenuto, sulla base anche di un risalente parere del CSM, che questa nuova regola di giudizio sia incompatibile con i principi del processo accusatorio e con la centralità del dibattimento. Ma il principio del contraddittorio esige una centralità non statistica bensì metodologica del dibattimento. L’accusatorietà del sistema non dipende dal numero dei dibattimenti. Né l’immotivato decreto che dispone il giudizio potrebbe pesare in senso sfavorevole all’imputato sul convincimento di un giudice del dibattimento che partecipa direttamente alla formazione della prova. Mentre è ragionevole che non debba essere l’accusa a confidare su sviluppi dibattimentali eventualmente favorevoli.
Del resto anche nel processo nordamericano l'organo dell'accusa deve dimostrare nell'udienza preliminare che sussiste «una prova sufficiente a far sì che una persona "media" concluda che l'imputato sia colpevole del reato addebitatogli». E nel processo inglese il giudice, per disporre il rinvio a giudizio, deve accertare che vi sono «prove tali che, se non fossero inficiate o contraddette in dibattimento, una giuria potrebbe ragionevolmente condannare su di esse». Ma nessuno ne ha mai posto in discussione la compatibilità con i principi del processo accusatorio.
Certo, se si celebrassero moltissimi giudizi con metodo inquisitorio indipendentemente dalle scelte dell’imputato, si potrebbe a ragione parlare di tradimento dei principi del processo accusatorio. Ma se le indagini preliminari valgono a escludere che un qualsiasi giudizio sia aperto, significa solo che il pubblico ministero ha fatto bene il suo mestiere.
Com’è noto, l'art. 358 prevede che nel corso delle indagini preliminari il pubblico ministero deve compiere tutti gli atti necessari ai fini delle determinazioni concernenti l'esercizio dell'azione penale (art. 326) e deve svolgere «altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini».
Questa norma, che attua una specifica direttiva della legge delega, aveva suscitato qualche riserva da parte di coloro che vi avevano visto il residuo di una concezione inquisitoria e paternalistica del ruolo del pubblico ministero. Altri la interpreta invece come un segno dell'esigenza di obbiettività e di imparzialità del pubblico ministero, ricollegabile all'art. 97 comma 1 della Costituzione.
Ma è sufficiente considerare come il dovere del pubblico ministero di acquisire tutti gli elementi necessari all'accertamento dei fatti, e quindi anche dell'eventuale innocenza della persona sottoposta alle indagini, derivi già autonomamente dalla prima parte dello stesso art. 358, laddove richiama l'art. 326. Se infatti lo scopo delle indagini preliminari è di consentire le determinazioni in ordine all'esercizio dell'azione penale (art. 326), ne consegue che il pubblico ministero dovrà, comunque, accertare tutti i fatti necessari a verificare se la notizia di reato è «infondata», essendo noto che la conferma di un'ipotesi di accusa dipende principalmente dal fallimento dei tentativi di dimostrarne l'inattendibilità.
Sicché è del tutto ragionevole che la notizia di reato sia qualificata infondata quando non sia prevedibile una condanna.
4. In questa prospettiva sistematica si può comprendere perché la riforma ha introdotto controlli giurisdizionali sia sull’effettiva decorrenza dei termini delle indagini preliminari sia sulla tempestività della loro conclusione. Infatti, se il rispetto del termine di deposito degli atti delle indagini è garantito dal procuratore generale, vale a dire da un organo della stessa accusa, il rispetto del termine per le determinazioni del pubblico ministero è garantito dal giudice su eventuale iniziativa della persona sottoposta alle indagini o della persona offesa. Sicché, fin dalla fase procedimentale, i parametri di riferimento del pubblico ministero dovranno essere quelli del giudice chiamato a valutarne l’azione, perché è stata finalmente eliminata quella sorta di extrafunzionalità ritagliata per il pubblico ministero dalla giurisprudenza sulla sindacabilità solo disciplinare delle scelte circa i tempi delle indagini preliminari.
Gli interventi del giudice nel corso delle indagini preliminari rimangono solo incidentali, ma il controllo sul rispetto dei tempi del procedimento è costante ed è aperto alle istanze degli interessati. È un controllo ab estrinseco, che non attiene ovviamente al merito delle strategie investigative del pubblico ministero, ma è destinato a garantirne la legalità attraverso un possibile sindacato sui tempi imposti dal legislatore.
5. Peraltro a una analoga finalità di responsabile esercizio delle funzioni di accusa può essere ricondotta anche la nuova disciplina dei criteri di priorità.
L’art. 3 bis disp. att. prevede che, «nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale il pubblico ministero si conforma ai criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio».
Si tende così a rendere in qualche misura prevedibile e trasparente l’inevitabile discrezionalità di molte scelte del pubblico ministero, perché, nel predisporre il progetto organizzativo dell'ufficio in conformità ai principi generali definiti dal Consiglio superiore della magistratura, il procuratore della Repubblica è tenuto a determinare «i criteri di priorità finalizzati a selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre e definiti, nell'ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, tenendo conto del numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale e dell'utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili» (art. 1 comma 6, d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106). È ragionevole dubitare tuttavia che le indicazioni di carattere generali provenienti dal legislatore e dal C.S.M., come le stesse direttive del progetto organizzativo dell’ufficio, possano esprimere più che generici criteri di ragionevolezza, la cui applicazione concreta sarà comunque condizionata dai connotati della singola specifica notizia di reato. Sarebbe comunque auspicabile tuttavia che questa selezione non lasciasse nondimeno pendenti in un limbo indefinito le notizie di reato non prioritarie, in attesa della prescrizione dei reati ipotizzabili, ma comportasse più seriamente l’archiviazione delle notizie che non si prevede possano essere trattate in tempi ragionevoli, in modo da rendere possibile il sindacato del giudice sulle scelte pur sempre discrezionali del pubblico ministero e in eventuale via incidentale anche il sindacato della Corte costituzionale sulla legge che definisce i criteri generali di priorità.
È infatti ragionevole sostenere che, scaduti i termini prescritti per le indagini, il pubblico ministero debba tempestivamente chiedere l’archiviazione, perché da un canto «gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca» (art. 408 comma 1), dall’altro canto i criteri di priorità precludono ulteriori indagini. E questa conclusione non contrasterebbe affatto con l’art. 112 Cost. (obbligatorietà dell’azione penale), perché a determinare l’archiviazione non sarebbe una valutazione di opportunità di quello specifico provvedimento, bensì l’applicazione della norma che preclude l’espletamento di indagini in difformità dei criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio. La decisione risponde dunque a un utilitarismo della norma non del singolo atto. E il giudice chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione sarà legittimato a due verifiche: che allo stato degli atti non sia davvero prevedibile una condanna; che i criteri di priorità precludano effettivamente l’espletamento di ulteriori indagini.
Questa ricostruzione del funzionamento dei criteri di priorità può così raccordarsi alla improcedibilità dell’azione penale per eccessiva durata dei giudizi di impugnazione, benché in questa sopravviva l’impropria sovrapposizione tra i temi della prescrizione del reato e della ragionevole durata del processo.
Sono certo incompatibili con la logica della durata ragionevole del processo infatti sia la previsione che la violazione dei termini massimi di durata non rileva, e dunque «la declaratoria di improcedibilità non ha luogo quando l'imputato chiede la prosecuzione del processo» anche oltre il prescritto termine (art. 344 bis comma 7); sia la previsione che l’improcedibilità per durata irragionevole del processo non opera per i delitti puniti con l'ergastolo, indipendentemente dalla complessità dell’accertamento (art. 344 bis comma 9). Tuttavia l’equilibrio politico così faticosamente raggiunto ha una sua pur residuale coerenza, perché nella disciplina della proroga del termine di durata dei giudizi di impugnazione si recupera in qualche misura la logica della durata ragionevole del processo, ancorata alla complessità del caso piuttosto che alla gravità del reato.
6. E’ dunque possibile una lettura coordinata dei nuovi art. 3 bis disp. att., 408 comma 1 e 344 bis c.p.p. che concili il pragmatismo efficientista della riforma con un’etica della giurisdizione fondata sui principi costituzionali.
Il filo conduttore della riforma, nella prospettiva qui esaminata, è dunque nella responsabilizzazione del pubblico ministero, in piena coerenza con l’impostazione originaria del codice del 1988, che impose l'alternatività tra esercizio dell'azione penale e richiesta di archiviazione, troncando un'antica disputa dottrinale. L’azione penale è la domanda rivolta dal pubblico ministero al giudice di decidere conformemente all'ipotesi di colpevolezza sintetizzata nell'imputazione, non è la richiesta di aprire comunque il processo indipendentemente da qualsiasi assunzione di responsabilità per il suo prevedibile esito.
Questa possibile ricostruzione del nuovo status assegnato al pubblico ministero dalla riforma Cartabia lascia comunque da chiarire se permanga l’esigenza della cosiddetta separazione delle carriere anche oltre il limite dell’unico passaggio da una funzione all’altra oggi ammesso nella vita professionale dei magistrati.
Per tornare all’esempio di esordio, occorre in conclusione domandarsi se oggi la prospettiva di allontanare il pubblico ministero dal giudice finisca per essere equiparabile all’allontanamento delle ONG dal canale di Sicilia.
Tuttavia non autorizzano alla fiducia talune preannunciate iniziative legislative, intese a eliminare l’appello contro le sentenza del giudice monocratico, mantenendolo solo contro le sentenze collegiali, nello stesso momento in cui si propone di sostituire un giudice collegiale al giudice monocratico per le decisioni cautelari che già prevedono il riesame da parte di un giudice collegiale.
La propaganda continua!
La Proposta di Direttiva UE in materia di regolazione dell’insolvenza, la terza in ordine di tempo dopo il Regolamento 848/2015 e la Direttiva restructuring 1023/2019, impatta sul quadro generale dell’insolvenza societaria con alcune norme mirate (sulla responsabilità degli amministratori) ed altre, in apparenza distinte perché relative ad istituti nuovi della liquidazione (per le microimprese), in realtà di possibile portata vastissima, data la coincidenza d’ingresso con presupposti soggettivi di assoluta maggioranza nella struttura economica degli imprenditori, non solo italiani. Il nuovo strumento, inoltre, imporrà un generale aggiornamento, negli ordinamenti degli Stati, sul modo con cui le disposizioni rispettivamente dettate per soggetti in situazione di insolvenza o di solo potenziale insolvenza sono state finora attuate[1].
Sommario: 1. Il contesto della proposta di Direttiva COM (2022) 702 del 7 dicembre 2022 sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto in materia di insolvenza - 2. L’impatto della Proposta di Direttiva sul diritto societario della crisi e dell’insolvenza - 3.Gli obblighi e le responsabilità degli amministratori - 4. La tipizzazione della procedura concorsuale in presenza dell’insolvenza del soggetto collettivo - 5. Gli effetti indiretti della Proposta di direttiva sul diritto concorsuale societario dell’insolvenza: a) gli istituti opzionabili dalle società (segue) - 6. b) il trattamento dei soci e dei detentori di strumenti di capitale.
1. Il contesto della proposta di Direttiva COM (2022) 702 del 7 dicembre 2022 sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto in materia di insolvenza
L’iniziativa, annunciata nel settembre del 2020, si propone di promuovere l’integrazione finanziaria ed economica dell’UE, riconoscendo che discipline statuali non armonizzate in materia di insolvenza sono ostacoli alla libera circolazione dei capitali e allontanano la integrazione dei mercati[2]. Obiettivi di dettaglio sono la certezza degli investimenti, la riduzione dei costi per quelli transfrontalieri, l’attrattiva incrementale del capitale di rischio per le imprese. Base di partenza è il convincimento che i diversi gradi di efficienza dei sistemi nazionali si scaricano di per sé in tempi lunghi di liquidazione, bassi livelli di recupero dei crediti, incertezza sui quadri giuridici nazionali, costi elevati di informazione.
La coerenza con altre disposizioni unionali si è posta in termini di completamento. Il regolamento UE 2015/848 è infatti attuazione della cooperazione giudiziaria in materia civile e commerciale posta dall’art. 81 TFUE[3], dunque con esso vengono essenzialmente regolati potenziali conflitti fra Stati in tema di apertura delle procedure d’insolvenza e di determinazione della legge applicabile, nonché riconoscimento ed esecuzione in tutto lo spazio UE delle decisioni adottate dagli organi giurisdizionali (e amministrativi) competenti, senza impatto diretto sugli ordinamenti domestici. La Direttiva 2019/1023 si occupa a sua volta di quadri di ristrutturazione preventiva (rispetto all’insolvenza), esdebitazione e misure di rafforzamento delle stesse procedure, cioè di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione[4]. L’iniziativa dell’UE con la Proposta, dunque la terza azione legislativa, mira espressamente a colmare un vuoto regolatorio, disciplinando cioè in modo più diretto e con principi uniformi – nel presupposto che non sia stato fatto prima – le procedure di insolvenza o, meglio, aspetti salienti dei rispettivi istituti nazionali. Detto altrimenti: dove tali istituti esistono già, s’imporranno su di essi le nuove disposizioni, dove mancano il conio domestico dovrà esordire applicando la direttiva. Quest’ultima, infatti, appare avviata ad applicarsi a situazioni con elementi sia di transnazionalità sia di diritto interno.
Le interferenze tra la Direttiva del 2019 e la Proposta oggetto di negoziato, nonostante la separazione programmatica, sono tuttavia endemiche e, ad oggi, problematizzano (per temporaneo difetto di coordinamento integrativo o soppressivo reciproco dei due testi) o non chiariscono importanti punti necessariamente strategici e necessari ad entrambi gli strumenti, come ad esempio la nozione di insolvenza. Così, la Direttiva 1023/2019 in parte la rimette ai sistemi adottati dagli Stati (come nelle definizioni, all’art.2 par. 2 lett. a), in altra parte, nella sostanza, ne fornisce una nozione originaria come negli artt. artt.17-18 (ove vengono protette dalle azioni di inefficacia o di responsabilità ovvero tutelate le priorità di pagamento dei finanziamenti nuovi e temporanei ovvero strumentali alla ristrutturazione quando sopravvenga l’insolvenza o anche quando essi siano concessi all’insolvente)[5].
A sua volta la Proposta non rimette in modo esplicito agli Stati la definizione di insolvenza, ma più disinvoltamente talora dà per presupposto che, trattandosi di un requisito alla base dell’apertura, esso continui ad essere rimesso nella fissazione agli ordinamenti nazionali: così, nell’art.23 sulla sospensione delle azioni esecutive individuali della fase preparatoria del pre-pack, il beneficio andrà previsto per chi si trovi in una situazione di probabile insolvenza o sia già insolvente conformemente al diritto nazionale. Altre volte il testo attuale riprende lo stesso lessico della Direttiva 1023/2019 ovvero detta espliciti rinvii all’uno o all’altro strumento comunitario: ad es. l’art.12, a chiusura del titolo II sulle azioni revocatorie e di inefficacia, salvaguarda gli art.17 e 18 della Direttiva 1023/2019 così accettando l’esenzione da revocatoria ivi prevista. Un esempio del secondo tipo è peraltro immanente al sistema, poiché con la Proposta e quanto alle revocatorie la efficacia di un’armonizzazione minima dipenderà dallo sblocco della potestà dei singoli Stati membri (prevista nel Reg. 848/2015) di precludere tali azioni di inefficacia ove si riferiscano ad un atto che, per il diritto nazionale, vi sarebbe esente, così però pregiudicando anche in futuro il funzionamento dell’intero titolo III della Proposta[6].
In altri casi ancora la Proposta inaugura una sua definizione, con parziale valore sistematico, come nell’art.38 con riguardo alla liquidazione delle microimprese, la cui insolvenza si dà quando esse generalmente non sono in grado di pagare i propri debiti alla scadenza. La precisazione, all’art.38 par.2 primo periodo, è però ambiguamente completata rimettendo agli Stati di definire le condizioni in presenza delle quali la microimpresa versi in tale situazione, prescrivendo che esse siano chiare, semplici e di facile riconoscibilità.
La scelta dello strumento normativo, ai sensi dell’art.114 TFUE[7], è stata così giustificata, superando l’atto giuridico della raccomandazione (ritenuto poco efficiente) ed escludendo il regolamento (per la sua rigidità, ostativa all’adattamento delle norme processuali interne), con il ricorso ad una direttiva di armonizzazione. Ciò significa, nei propositi della Commissione, prescrizioni minime valevoli per tutti, intervento in settori mirati dell’insolvenza (quelli a più forte impatto di accelerazione ed efficienza sulle procedure), possibilità di misure supplementari domestiche nuove o conservazione di assetti esistenti se, definito l’ambito di tutela individuato nella Proposta, gli stessi interessi vengono perseguiti anche con maggiore intensità.
Gli ambiti della Proposta, oltre le definizioni e l’oggetto, sono le azioni revocatorie o di inefficacia (titolo II, artt.4-12), il rintracciamento dei beni della massa fallimentare (e di terzi) utili alle azioni recuperatorie (titolo III, artt.13-18), la procedura di insolvenza del pre-pack (titolo IV, artt.19-35), gli obblighi degli amministratori (titolo V, artt.36-37), la liquidazione delle microimprese insolventi (titolo VI, artt.38-57), il comitato dei creditori (titolo VII, artt.58-67), le misure incentivanti la trasparenza delle procedure d’insolvenza nazionali (titolo VIII, art. 68) e le disposizioni finali (titolo IX, artt.-69-73).
2. L’impatto della Proposta di Direttiva sul diritto societario della crisi e dell’insolvenza
La Proposta affronta il comparto societario in due modi: uno, diretto e dedicato, in tema di responsabilità procedimentale e civilistica degli amministratori; l’altro, indiretto, per gli effetti a valle di un investimento normativo su figure d’interesse per il soggetto collettivo e dunque con impatto tanto più ricorrente quanto più diffusa sia questa la veste assunta dall’imprenditore destinatario dell’introduzione o innovazione di taluni istituti di diritto comune.
L’elemento di congiunzione delle due scelte, oltre la diversa tecnica normativa, può essere visualizzato in un’ottica di funzionalizzazione ad un campo di doveri cooperativi verso i grandi obiettivi della Proposta: accelerazione delle procedure di insolvenza, diminuzione dei costi, ottimizzazione del risultato distribuibile, semplificazione di alcuni mirati conflitti d’interesse.
Un ulteriore effetto indiretto del testo si connette poi alla attitudine della Proposta di completare il quadro regolatorio, così incidendo sugli altri due strumenti ed in particolare integrando aspetti ambigui della Direttiva 1023/2019. Il primo punto, posto dall’art.36 Proposta, impatta infatti in modo frontale sui quadri di ristrutturazione preventiva, per più ordini di ragioni: l’obbligo di chiedere l’apertura della procedura d’insolvenza, almeno programmaticamente, si giustappone - senza confondersi - agli strumenti di emersione anticipata della crisi o insolvenza, scolpendo in modo netto l’area di operatività, con tale precetto, delle rispettive discipline. La Proposta è tendenzialmente destinata a regolare l’insolvenza e così detta norme per la sua più sollecita organizzazione concorsuale, fissando un termine di 3 mesi dalla relativa conoscenza – storica o presumibile – per far iniziare la correlata procedura. La Direttiva 1023/2019, invece, viene per contrapposto confinata in una zona che il suo art.4 par.1 intitola, assieme alla prevenzione, a tutte quelle situazioni di mera probabilità di insolvenza, da affrontare per impedire la insolvenza e assicurare la sostenibilità economica dell’impresa. Se tale linea di demarcazione sarà destinata a consolidarsi, va ipotizzata una ragionevole riflessione urgente sulla compatibilità di tutti quegli istituti domestici che hanno applicato a soggetti già insolventi principi e tutele somministrati nella Direttiva del 2019 a soggetti non ancora insolventi.
3. Gli obblighi e le responsabilità degli amministratori
L’art.36 pone uno specifico obbligo di iniziativa a carico degli amministratori di un soggetto giuridico, locuzione ampia, che nel corrispondente provvisorio considerando evoca (seguendo le linee UNCITRAL) chi è incaricato di adottare o di fatto adotta o dovrebbe adottare decisioni fondamentali in merito alla gestione di un’impresa. Ne deriva che la disposizione, pur estendendosi anche a chi è titolare di un‘impresa monosoggettiva, nel campo delle organizzazioni economiche a struttura collettiva rinvia ad una nozione sostanziale di gestione: inclusiva, in prima approssimazione, di chi ricopre incarichi di conduzione e di assunzione delle scelte dell’impresa, cioè per suo conto, in suo nome, per investitura formale o anche in via di fatto. Lo stesso considerando si affretta a precisare che tutte le norme del titolo V sono norme minime di armonizzazione: i singoli Stati ben possono dunque conservare o implementare regimi di maggiore severità per quanto concerne tutti i segmenti che definiscono le complesse fonti di obbligazioni e responsabilità degli artt.36-37 Proposta. Ma, corrispondentemente, non potranno più arretrare le tutele, nel titolo V chiaramente individuate per la massa dei creditori (che aspira a formarsi nel più breve tempo possibile, data l’insolvenza conclamata) e tutti gli stakeholders (che da una gestione liquidatoria tempestiva possono conservare o non peggiorare l’interesse contrattuale o comunque la relazione con l’impresa).
È difficile ipotizzare se il plurale (amministratori) impiegato nella disposizione debba essere letto come l’indizio di un dovere di iniziativa così intenso da configurarsi altresì come obbligazione individuale, ove ci sia un organo plurimo o anche solo più cogestori dell’impresa o se invece sia compatibile con la Proposta dimostrare, da parte del singolo, di aver fatto tutto il possibile per provocare un atto collegiale o di maggioranza idoneo ad impegnare, con gli amministratori, la sorte del soggetto giuridico amministrato. Se un ordinamento lo prevedesse, l’ottica della armonizzazione minima probabilmente accetterebbe anche un dovere di azione individuale, presumibilmente declinabile in modo diretto, come la norma prescrive, cioè esercitando la legittimazione ove consentita. Se però un singolo Stato permetta la istanza giudiziale solo nelle forme in cui la volontà dell’organo collegiale sia per statuto o codice organizzata secondo un procedimento deliberativo o di raccolta qualificata dei consensi, diventa dubbio poter scriminare tali condotte omissive sol perché al riparo di una regola tecnica di manifestazione della funzione. Il precetto dell’art.36 è infatti saldamente ispirato, con l’emersione tempestiva dell’insolvenza, alla sua più pronta declinazione concorsuale, tanto volendo significare la presentazione al giudice di una richiesta di apertura della procedura al più entro tre mesi dalla conoscenza della decozione[8]. Si può tuttavia azzardare la compatibilità di un sistema che, senza scardinare le regole di formalizzazione della volontà di un organo amministrativo collegiale, canalizzi le conoscenze dell’insolvenza in un flusso di allerta diretto, se non al giudice, almeno ai soggetti titolari di un potere di iniziativa analogo, come ad esempio per l’Italia il pubblico ministero[9]. È invece in possibile rotta di collisione con il titolo V un contesto normativo che vincoli i singoli coamministratori o cogestori delle società ed enti collettivi ad omettere in modo assoluto la manifestazione verso l’autorità giudiziale della propria individuale conoscenza dell’insolvenza in nome della riservatezza della situazione patrimoniale e soprattutto finanziaria e dei relativi movimenti e valori reali[10].
Il principale dovere di iniziativa è, per l’amministratore, provocare dunque con propria richiesta l’apertura di una procedura di insolvenza in presenza di due condizioni: a) quando viene a conoscenza dell’insolvenza o quando è presumibile in via ragionevole che lo sia; b) entro tre mesi dalla citata conoscenza, storica o presunta. Per strutturare tale dovere è prospettabile che il legislatore nazionale declini attraverso esemplificazioni o casi tassativi le condizioni in presenza delle quali la conoscenza dell’insolvenza è presunta. Mentre per la conoscenza diretta, il rinvio è alla nozione domestica della stessa, apparendo meno esigibile che la Proposta tolleri una specificazione normativa di conoscenza della insolvenza, entrambe le situazioni soggettive, peraltro, ben potrebbero essere recepite come tali, cioè nella propria originaria costruzione sintattica, dal legislatore nazionale, prestandosi esse già come clausole generali a concretizzarsi nella giurisprudenza e grazie all’alimentazione dottrinale. D’altronde l’art.38 par.2 secondo periodo (in materia di insolvenza della microimpresa) dopo averla definita (al primo periodo del par.) devolve agli Stati la scrittura delle condizioni di incapacità in generale di pagare i debiti alla scadenza, con ciò dimostrando che ove una proposizione non rimandi ad una esplicazione ben può essere trasposta come tale nell’ordinamento concorsuale nazionale.
Ci si può interrogare sul significato del trimestre dato all’amministratore per attivarsi. Fermo che tale dilazione è fissata nel massimo, potendo perciò gli Stati anticiparla o comunque rendere più severi i presupposti da cui scaturisce l’obbligo di iniziativa (così l’art.37 par.2), la sua violazione di per sé non integra una responsabilità civile ipso jure, almeno non nell’ambito dell’art.37, che infatti la collega alla produzione di danni, dunque ad un nesso causale per cui il pregiudizio ai creditori sia stato determinato proprio dall’inosservanza del citato dovere, così che appare difficile eludere il primo precetto. La sua previsione, tuttavia, potrebbe assumere un doppio significato: irrigidire i margini temporali di manovra degli amministratori del soggetto insolvente rispetto alle iniziative concorsuali assumibili e rendere problematica la scelta rispetto a strumenti domestici alternativi alle procedure di insolvenza e però fondati proprio su tale presupposto, come in Italia – tra gli altri – dai tradizionali concordati preventivi e accordi di ristrutturazione dei debiti[11].
Si potrebbe sostenere che, entro il trimestre, l’amministratore ha ancora la facoltà di esperire altre soluzioni compositive o preventive rispetto ad una procedura d’insolvenza, ma con obbligo di ricorrere a quest’ultima ove la decozione non sia stata nel frattempo rimossa, cioè nei tre mesi dalla sua conoscenza. Analogamente, andrebbe affrontata la compatibilità di quelle procedure (come concordati preventivi, accordi di ristrutturazione, piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, concordato semplificato) che, ipoteticamente fondate sullo stato di insolvenza, siano allestite in funzione liquidatoria. Ma con ogni rischio di conflitto tra la chiara disposizione dell’art.37 Proposta (che collega i danni al mancato rispetto dell’obbligo) e la solo apparente tolleranza assoluta ed astratta dell’esaurimento del trimestre, cioè anche quando nel frattempo la insolvenza (già nota) si aggravi. In realtà, è sostenibile che, proprio in virtù della armonizzazione minima cui volge l’istituto, nessuna norma nazionale che sanzioni il ritardo dell’amministratore dal procedere d’iniziativa subirà deroghe in relazione alla previsione di detto trimestre, che funge piuttosto da limite temporale massimo per gli ordinamenti che ne siano privi o comunque da norma regolatrice dei casi dubbi circa lo scrutinio di tempestività o ritardo nell’agire.
4. La tipizzazione della procedura concorsuale in presenza dell’insolvenza del soggetto collettivo
Un altro significato che si potrebbe arguire dalle due disposizioni implica allora, più radicalmente, che, in presenza di insolvenza conclamata e nota o conoscibile, l’accesso ad altri istituti di regolazione concorsuale non diverrebbe più praticabile oltre il trimestre, dovendo promuoversi – come anticipato – proprio e solo l’apertura di una procedura di insolvenza.
Qui va probabilmente inaugurata una riflessione che conduca a riconoscere nelle procedure di insolvenza semplicemente quelle che si fondino su tale situazione oggettiva di elevata difficoltà o crisi, ma senza impedimenti a trovare nel modello concorsuale conseguentemente aperto la salvaguardia degli stessi valori (come la continuità aziendale) più ordinariamente perseguiti con i quadri di ristrutturazione preventiva. Ciò che muta nel profondo, con possibile alterazione dello strumentario italiano, è la consuetudine ad assegnare allo stesso debitore la prerogativa (potestativa) di accedere a soluzioni alternative a procedure d’insolvenza benché insolvente. Nell’ottica della separazione tra le due Direttive (1023/19 e Proposta) il titolo V sembra avere il significato di dissociare almeno parzialmente (e comunque oltre un certo e breve termine) il potere di condizionamento del debitore, se insolvente, dalla determinazione unilaterale del percorso concorsuale. Anche se l’affermazione, in realtà, suona innovativa solo per il nostro sistema, posto che nella stessa Proposta, con la procedura di pre-pack, il debitore insolvente può segnare egli stesso la sorte della liquidazione, così condizionandone non solo la nascita ma anche i contenuti[12]. E pur tuttavia non è dubbio che, come precisato dall’art.20 Proposta, si tratta di una procedura di insolvenza, anche ai sensi dell’elenco di cui al Regolamento 2015/848. Per converso, la liquidazione semplificata delle microimprese non può essere aperta se non per chi è insolvente, ai sensi dell’art.38 par.2[13].
5. Gli effetti indiretti della Proposta di direttiva sul diritto concorsuale societario dell’insolvenza: a) gli istituti opzionabili dalle società (segue)
Come anticipato, un parallelo impatto di sistema potrà scaturire sul diritto societario dell’insolvenza per effetto di altri istituti, per i quali sia ipotizzabile un coinvolgimento tipologico elettivo ovvero l’inserimento di qualche meccanismo di normazione speciale per gli ordinari attori delle relazioni proprie dei soggetti collettivi.
Una prima questione concerne le microimprese, per la cui insolvenza il titolo VI detta un regime di accesso privilegiato ad una procedura liquidatoria grandemente semplificata. La definizione di cui all’art.2 lett. j), mutuata in prima stesura dalla Raccomandazione del 6 maggio 2003/361/CE della Commissione, rinvia ad una proposizione descrittiva eccessivamente ampia, nella considerazione critica che osserva i sistemi economici fondati sulla diffusione del modello organizzativo, posto che l’art.2 par.3 dell’Allegato ha riguardo ad un’impresa che occupa meno di 10 persone e realizza un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiori a 2 milioni di EUR[14]. La scelta di due parametri, pur valevoli congiuntamente, rischia invero di esercitare una forza attrattiva ingente, specie per la consuetudine di piccola occupazione di larga parte di operatori di filiere e distretti caratterizzanti l’economia di molti Paesi. Il dato è replicabile non solo per imprese a bassa valenza tecnologica ma anche per quelle a più forte processo innovativo di digitalizzazione o centrate su reti contrattuali prevalenti rispetto ad una più strutturale patrimonializzazione o base occupazionale diretta.
In un‘ottica di vantaggio per tali imprenditori, l’offerta di norme di semplificazione procedurale, contrazione dei costi e compressione delle fasi temporali di accertamento dei crediti e gestione degli attivi, dovrebbe peraltro essere salutata con favore. Guardando alle relazioni conflittuali con i creditori, per i sacrifici che possono subire, sono comprensibili in realtà gli interrogativi esprimibili già per la dimensione massiva che tale liquidazione potrebbe assumere, fino a diventare la procedura elettiva di interi sistemi. Che si tratti di una scelta di favor debitoris non si dubita troppo, come desumibile anche dalla generalizzazione che la procedura parrebbe destinata ad assumere, non potendo trovare ostacoli, ai sensi dell’art.38 par.3, nemmeno quando non ci sono attivi o essi non sono sufficienti a coprire i costi della liquidazione semplificata: il legislatore comunitario vuole dunque con forza la concorsualizzazione della insolvenza minore, anche a prescindere da uno scenario liquidatorio-distributivo effettivamente proficuo, nell’evidente prospettiva di liberazione di risorse che potrebbero al limite coincidere anche solo con gli apporti organizzativi dell’imprenditore più che con capitali investiti. Se la microimpresa è una società, a prescindere se di persone o di capitali, occorre infatti fare i conti con il risultato finale voluto, che è la esdebitazione[15]: essa è un obiettivo all’apparenza indefettibile ai sensi dell’art.56, al punto da risultare estesa anche a fondatori, proprietari e soci della microimpresa a responsabilità illimitata che siano personalmente responsabili dei debiti[16]. Viene dunque riproposta una visione di continuità dell’organizzazione-società, da proteggere anche nella prospettiva della più radicale liquidazione e nella perdurante scommessa che tale misura sia preferibile all’estinzione del soggetto. Appare allora evidente che, nell’intento della Proposta, è confermata un’idea di perpetuità dei soggetti collettivi, scommettendo sulla loro personalità o addirittura reputazione economica destinate a sopravvivere alla decozione. Di contro, parrebbero entrare in collisione gli ordinamenti nazionali che invece, optando per una valorizzazione maggiore della società-contratto, hanno invece investito di più sul legame relativo degli enti collettivi con l’impresa, fino ad indulgere ad un’opposta idea di impresa-iniziativa. Gli obiettivi della Commissione, pertanto, sembrano rafforzare il valore attribuibile all’organizzazione anche elementare dell’impresa, in un’ottica ottimistica che declina decisivamente l’esdebitazione routinaria a strumento più effettivo di ripartenza[17].
La procedura semplificata per le microimprese, va sottolineato, non è un’opzione lasciata agli Stati ma compone decisivamente il pacchetto dell’armonizzazione minima, divenendo pertanto scelta obbligata. Le rispettive norme fondamentali appaiono seguire l’obiettivo della celerità della liquidazione, della responsabilizzazione del debitore (non spossessato e cui di regola resta affidata l’amministrazione dei beni[18], salvo richiesta dei creditori e spesabilità dei costi per la massa ex art.39 par.1 lett. b), della complessiva semplificazione procedimentale (dalla richiesta, compilata su un modulo standard, art.41 par.3 fino alla formazione da parte del debitore stesso dell’elenco dei crediti, suscettibile di divenire lo stato passivo, in difetto di opposizioni o interventi dei creditori, art.45 par. 2 lett. c) e salvo i poteri dell’autorità investita della liquidazione o dell’eventuale amministratore di ammissione o diniego, art. 46 par.4), dell’accesso a sistemi di asta elettronica per la vendita dei beni (art.50).
Sulla vendita nella liquidazione semplificata, va qui segnalato che l’art.54 par.3 esplicitamente rimuove ogni limite alla possibile partecipazione ai sistemi di asta, tra gli interessati, anche degli azionisti o degli amministratori del debitore[19].
L’accesso all’esdebitazione, come anticipato, pone poi la questione del trattamento delle garanzie personali prestate per i debiti dell’impresa in liquidazione semplificata: nel presupposto che esse sono spesso richieste, per le esigenze aziendali, al fondatore (founder), al proprietario o detentore del capitale (owner) o comunque al socio (member) di una persona giuridica, l’art.57 detta la regola della relazione tra la procedura (di insolvenza o esecutiva individuale) a carico del garante e la liquidazione semplificata nei termini di coordinamento o consolidamento.
6. b) il trattamento dei soci e dei detentori di strumenti di capitale
Nella Proposta non ricorre una disciplina autonoma che inquadri ordinatamente diritti, prerogative di partecipazione, limiti in vario modo riconducibili allo statuto dei soci. Tuttavia, è possibile una riunificazione di differenti precetti che sembrano dettati per lo più dallo scrupolo di evitare un abuso di posizione rispetto ai terzi, per la vicinanza alle informazioni dell’impresa e alla sua gestione, dunque in un’ottica generalmente funzionale a risolvere conflitti. La conseguente scelta è tuttavia solo in parte quella di tutelare i terzi, in particolare la massa dei creditori, assicurando di più la Proposta, con alcuni congegni prudenziali, la fruttuosità della liquidazione, anche se coinvolgente come interessati le descritte figure.
Una preliminare definizione, quella di parti correlate (art.2 lett. q), trova per le persone giuridiche (legal entity) a sua volta quattro ulteriori distinzioni. Nel testo, la nozione è quella di parte strettamente correlata al debitore, con separata indicazione delle ricorrenze per le persone fisiche e nella comune accezione di persone con un accesso preferenziale ad informazioni non pubbliche sugli affari del debitore. Nello specifico, poi, si danno i) i membri degli organi di amministrazione, direzione o vigilanza del debitore; ii) i detentori di strumenti di capitale con una partecipazione di controllo; iii) le persone che svolgono funzioni analoghe alle prime del punto i); iv) le persone strettamente correlate alle prime tre categorie, rispetto a quelle specificate in relazione alle persone fisiche.
Inoltre, quando il debitore è persona fisica, la parte correlata include (come punto v) le persone giuridiche in cui, rispetto al debitore, anche parenti o conviventi o occupati nella stessa struttura abbiano accesso alle informazioni non pubbliche, compresi i consulenti.
La nozione di parti correlate emerge, nel sistema delle revocatorie delle preferences (atti satisfattivi o costitutivi di garanzia, colpiti per il periodo sospetto di tre mesi dalla domanda di apertura della procedura e con debitore insolvente o dopo tale richiesta), già all’art.6 par. 2 secondo periodo: per esse risulta presunta la conoscenza dell’incapacità del debitore di pagare i debiti scaduti o della richiesta di apertura della procedura di insolvenza (lett. b) par. 2 dell’art.6), dunque operando la condizione descritta in termini di facilitazione della prova in capo agli amministratori delle procedure d’insolvenza. La stessa presunzione è ripetuta all’art.8, par. 1, secondo periodo, per gli atti intenzionalmente pregiudizievoli per i creditori (intentional detrimental to creditors, per i quali vige un periodo sospetto molto più lungo, quattro anni nella prima stesura del testo, sempre rispetto all’iniziativa per aprire la procedura o dopo tale richiesta).
Ancora per le revocatorie, l’art.11 affronta la responsabilità di terzi, cioè dei successori della parte che ha beneficiato dell’atto giuridico colpito da detta azione: in caso di successori a titolo particolare, la conseguenza restitutoria è prevista se il terzo ha goduto di un acquisto a titolo gratuito o per corrispettivo manifestamente inadeguato oppure, alternativamente, era o sarebbe dovuto essere a conoscenza delle circostanze su cui si fonda l’azione revocatoria. Per questa seconda evenienza la responsabilità della parte correlata, cioè strettamente definita nella citata relazione questa volta con la parte che ha beneficiato in prima battuta dell’atto giuridico colpito dall’azione, può basarsi sulla conoscenza presunta, secondo l’art.11 par.2 secondo periodo che dichiara tale la circostanza psicologica della lett. b).
Nel sistema del pre-pack (titolo IV, artt.19-35), a sua volta, il richiamo al diritto societario della crisi trova alcuni elementi di specificità nelle disposizioni comuni alle due fasi (la preparazione e la liquidazione), precisamente in tema di tutela degli interessi dei creditori. La procedura, una delle innovazioni più avanzate della Proposta, promuove una fase preconcorsuale, a richiesta del debitore e con nomina di un commissario (monitor) che, per conto del giudice, segue ed aiuta il debitore (che resta nel possesso dei beni e nella gestione corrente, art.22 par.4) a trovare un acquirente adeguato per l’impresa (art. 19, debtor’s business or part thereof), durante ‘un primo tempo’ in cui vi è possibile protezione dalle azioni esecutive (art.23)[20]. Pervenuti alla raccolta di offerte, il pre-pack entra nella seconda fase (la liquidazione) confermando alla guida della procedura il commissario che diventa così amministratore (insolvency pratictioner) (art.25): se il giudice non autorizza la vendita all’acquirente proposto dal commissario, la procedura di insolvenza procede in modo ordinario disponendo un’asta pubblica, partendo però dall’offerta selezionata dal commissario (art.26). L’acquirente finale in questa procedura non subentra in debiti e passività (art.28), salvo suo consenso (anche su una parte dell’esposizione).
L’art.32 dedica alle parti strettamente correlate al debitore norme ad hoc per la vendita, secondo un principio di espressa possibilità di acquisizione dell’azienda o di sue parti, a date condizioni: piena informazione agli organi della relazione con il debitore, analoga disclosure verso le altre parti del processo di vendita, previsione di un tempo congruo per le seconde per organizzare la presentazione di un’offerta propria e alternativa. Se poi l’offerta della parte correlata resta l’unica, vanno disposte ulteriori misure di salvaguardia, incluso l’obbligo dell’organo concorsuale di respingere l’offerta se non soddisfa il miglior soddisfacimento dei creditori. Al netto di tali cautele, ciò che viene sdoganato è dunque un principio di favor per la circolazione aziendale, per effetto della ristrutturazione liquidatoria, sino a contemplare anche soggetti in conflitto d’interesse: sulla tradizionale preclusione all’acquisto prevale la vantaggiosità (per la massa) di un processo di vendita effettivamente trasparente e la verifica del best interest of creditors test. È allora immaginabile che il pre-pack possa essere utilizzato per operazioni di consolidamento dei debiti e di razionalizzazione produttiva fra soggetti societari non solo collegati o cooperanti contrattualmente ma a forte intersecazione per capitale, comunanza di gestione e investimenti, tali essendo le parti correlate. Posto che il pre-pack, a differenza della liquidazione semplificata, non ha limiti soggettivi o dimensionali verso il basso, il suo utilizzo appare potenzialmente largo, trascorrendo da ipotesi minori sino a conglomerati societari.
Un limite generale di applicazione si rinviene nell’art. 19 par. 2 ove è evocato il rispetto del diritto dell’Unione, dunque in primo luogo la nascente Direttiva e quella n. 1023/2019, potendo per ogni altro aspetto gli Stati organizzare la procedura secondo le proprie comuni procedure di liquidazione, se compatibili. Che però lo strumento possa essere utilizzato nelle ristrutturazioni interne ai gruppi è confermato dalle potenzialità che la fase di liquidazione assume, ai sensi dell’art.20 par.3, per la disapplicazione delle tutele occupazionali di cui alla Direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001[21]: l’art.5 par.1 di questa lo consente a trasferimento di imprese, stabilimenti o parti di imprese o di stabilimenti nel caso in cui il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso e che si svolgono sotto il controllo di un'autorità pubblica competente, esattamente il caso del pre-pack.
Anche l’art.33, a sua volta, può interessare il tema societario perché, nel proteggere i finanziatori, non introduce limiti ai rimborsi anche di priorità per la particolare categoria dei soci che eventualmente abbiano sovvenzionato l’impresa con finanziamenti temporanei (par. a), b) e c) o intermedi (lett. d), dunque al pari di terzi estranei. La necessità dei primi è collegata (solo implicitamente) al successo del progetto, rimettendo a commissario o amministratore (dunque ad entrambe le fasi) curare che l’indebitamento avvenga al minor costo possibile (lett. a); la lettera b) assicura il pagamento prioritario (prededuzione) nell’ambito di successive procedure d’insolvenza (dunque nell’implicito presupposto che il pre-pack non decolli dalla prima alla seconda fase o si arresti ancora all’inizio); la lettera c) prefigura il rafforzamento della posizione del finanziatore mediante apposite garanzie sul ricavato della vendita. L’interferenza allora, in termini di trattamento concorsuale del credito di rimborso, delle distinzioni fra finanziatori-terzi e finanziatori-soci ben potrebbe collocarsi essenzialmente nel sistema delle revocatorie, come esemplificato nelle preferences dell’art.6, per quanto già detto della presunzione di conoscenza dell’insolvenza e ove l’atto sia nel trimestre anteriore alla richiesta o successivo ad essa. Il pre-pack, infatti, costituisce a tutti gli effetti – come premesso - una procedura d’insolvenza (art.20 par.1)
D’interesse, infine, la nozione di finanziamenti intermedi (in realtà sottotipo di interim financing) che per la lettera d) del par.1 art.33 sono ipotizzati quali provenienti dagli offerenti interessati, ammessi in compensazione del prezzo dell’azienda in caso di aggiudicazione in loro favore. In questi casi, infatti, il credito di rimborso che tali finanziatori-acquirenti debbono ricevere può essere scomputato così da generare compensazione a favore del creditore-acquirente, se però i crediti siano significativamente inferiori al valore di mercato dell’impresa (credit bidding). L’art. 33 al par.2 vieta tuttavia la costituzione di diritti di prelazione diretta agli stessi offerenti, cioè ove essi già sono autori del finanziamento e al contempo si propongano per l’acquisto aziendale.
Un particolare ambito di tutela, in termini di contraddittorio prodromico all’autorizzazione o all’esecuzione della vendita è assicurato, nel medesimo contesto della considerazione riservata ai creditori, altresì ai detentori di strumenti di capitale dell’impresa del debitore (les détenteurs de capital de l’entreprise du débiteur; holders of equity of the debtor’s business): anch’essi hanno diritto di essere sentiti dal giudice (art.34 par.1). Sono però stabilite delle deroghe a tale principio: in particolare, se gli aventi diritto non riceverebbero nulla dalla liquidazione (lett. a) par.2) gli Stati possono escluderli dal contraddittorio preventivo.
[1] Tratto dalla relazione tenuta in Catania 9-10 giugno 2023 (convegno OCI, Osservatorio sulle crisi d’impresa, Il nuovo diritto societario della crisi).
[2] Sin dall’inizio del secondo decennio vi era stata un’iniziativa specifica in ambito UE con la Risoluzione del Parlamento europeo del 15 novembre 2011 sulle raccomandazioni alla Commissione sulle procedure d'insolvenza nel contesto del diritto societario dell'UE (2011/2006(INI))
[3] L'Unione sviluppa una cooperazione giudiziaria nelle materie civili con implicazioni transnazionali, fondata sul principio di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziali. Tale cooperazione può includere l'adozione di misure intese a ravvicinare le disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri.
[4] Le norme minime di armonizzazione della direttiva (UE) 2019/1023 sui quadri di ristrutturazione preventiva si applicano solo alle imprese che non sono ancora insolventi e perseguono l'obiettivo di evitare le procedure di insolvenza per le imprese di cui è ancora possibile ripristinare la sostenibilità economica. Esse non si occupano della situazione in cui un'impresa diventa insolvente e deve essere sottoposta a una procedura di insolvenza. (Relazione alla proposta di Dir. Insolvency III, § 1.2.)
[5] Definito all’art.17 par.3 Dir. 1023/2019 quale debitore divenuto incapace di pagare i propri debiti alla scadenza, con replica all’art.18 par.3 che parimenti facoltizza gli Stati ad escludere dall’esonero dalle azioni di inefficacia e di responsabilità del terzo le operazioni connesse alla ristrutturazione effettuate dopo che il debitore sia incorso in detta incapacità.
[6] La immunità sovrana dalle revocatorie può essere superata pertanto solo se si inciderà sull’art.16 Reg. 2015/848 ai sensi del quale, quanto agli atti pregiudizievoli, è stabilito che l'art.7, par 2, lett. m) (che rimette alla legge dello Stato di apertura le disposizioni relative alla nullità, all'annullamento o all'inopponibilità degli atti pregiudizievoli per la massa dei creditori), non si applica quando chi ha beneficiato di un atto pregiudizievole per la massa dei creditori prova che: a) l'atto è soggetto alla legge di uno Stato contraente diverso dallo Stato di apertura, e b) la legge di tale Stato membro non consente, nella fattispecie, di impugnare tale atto con alcun mezzo. La frequenza con cui clausole contrattuali dispongono l’applicazione di una legge di riferimento che blinda il rapporto negoziale e le sue conseguenze in caso di insolvenza transnazionale di una delle parti è all’origine della previsione citata: l’esigenza di superamento o chiarificazione si raccorda alle finalità della Proposta di scongiurare ulteriori fenomeni di forum shopping e rafforzare una lex concursus unionale, a tutto vantaggio della gestione efficace delle procedure di insolvenza.
[7] Al comma 1: Salvo che i trattati non dispongano diversamente, si applicano le disposizioni seguenti per la realizzazione degli obiettivi dell'articolo 26. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adottano le misure relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che hanno per oggetto l'instaurazione ed il funzionamento del mercato interno.
[8] La citata Risoluzione del Parlamento UE proponeva di aprire una procedura di insolvenza nei confronti di debitori che siano persone fisiche, persone giuridiche o associazioni non riconosciute; le procedure ... siano avviate tempestivamente in modo da consentire il salvataggio di un'impresa in difficoltà; ... obbligo del debitore di presentare istanza di fallimento, la procedura deve essere aperta in un lasso di tempo compreso fra uno e due mesi dalla cessazione dei pagamenti, a meno che il giudice non abbia già avviato un procedimento preliminare ovvero abbia adottato opportuni provvedimenti a tutela dell'attivo e a condizione che gli attivi siano sufficienti a coprire i costi della procedura di insolvenza; gli Stati membri sono tenuti a stabilire norme che introducano la responsabilità del debitore in caso di mancata o inadeguata domanda e a prevedere sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive (All., Parte 1.1.).
[9] Si può ipotizzare l’attualità del rinvio all’ampia latitudine soggettiva dell’iniziativa di accesso di cui all’art.37 co. 2 CCII, dunque agli organi e autorità amministrative che hanno funzioni di controllo e vigilanza sull’impresa.
[10] Entra in zona di osservazione, in apparenza, ogni istituto che valorizzi le cause di esonero da responsabilità per il singolo amministratore che abbia fatto constatare, all’interno della società, il suo dissenso rispetto ad atti ovvero, come qui rileva, omissioni dell’organo (cfr. l’art.2392 c.c.); la prospettiva da cui muove la Proposta pare infatti superare il catalogo dei limiti alla responsabilità ed estendersi ad un dovere di iniziativa, se non di azione, verso l’autorità giudiziaria.
[11] Prevedibilmente, comunque, la prevista cogenza in direttiva orienterà anche il dibattito interno sui potenziali conflitti d’interesse o abusi nei rapporti tra soci ed amministratori ove i secondi assumano l’iniziativa ai sensi dell’art.120-bis CCII.
[12] L’art.23, in realtà, facoltizza alle richieste di misure protettive anche chi, durante la fase di preparazione, sia in una situazione di probabile insolvenza, un’ambiguità problematica del testo proposto, specie per il rapporto con il titolo V e tutte le premesse che descrivono il pre-pack quale procedura di liquidazione dedicata all’insolvente.
[13] L’art.42 par.1 lett. b) lo elenca tra i casi in cui l’apertura può dal giudice essere rifiutata, ma l’apparente discrezionalità parrebbe invero solo regolare il perimetro dell’istituto, in una nozione di inammissibilità, ove si osservino le altre circostanze (difetto di microimpresa, incompetenza dell’autorità adita, mancanza di giurisdizione dello Stato in cui è stata presentata).
[14] I primi due par. definiscono le PMI e la piccola impresa, come assets e soglie finanziarie integranti le tre categorie: 1. La categoria delle microimprese delle piccole imprese e delle medie imprese (PMI) è costituita da imprese che occupano meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di EUR oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di EUR. 2. Nella categoria delle PMI si definisce piccola impresa un'impresa che occupa meno di 50 persone e realizza un fatturato annuo o un totale di bilancio annuo non superiori a 10 milioni di EUR.
[15] Entrano allora in zona critica o comunque di innovativo coordinamento, in apparenza, le disposizioni (come nel CCII gli artt.233-234) che segnano uno scenario di cancellazione delle società dal registro delle imprese all’esito della chiusura della procedura.
[16] Il rinvio è addirittura in blocco all’intero titolo III della Direttiva 1023/2019 (artt.20-24).
[17] Appare infatti evidente il raccordo con il titolo III della Direttiva 1023/2019, in particolare gli impegni assunti agli artt.20, 22.
[18] Lo scenario potrebbe prevedere: il pieno controllo di beni e gestione; la nomina di un amministratore, con trasferimento dei poteri e della stessa liquidazione, anche parzialmente; la perdita integrale di controllo e gestione, senza nomina di un amministratore e dunque la centralità delle approvazioni dell’autorità competente (art.43 par.4).
[19] La formula dell’art. 54 par.3 impegna gli Stati a che tali persone siano ‘autorizzate’, nozione tuttavia residualmente compatibile sia con la mancanza di barriere all’ingresso alle piattaforme di asta, sia con atti che, di volta in volta, rimuovano il limite e dunque frapponendo considerazioni di esclusione in ipotesi prevalenti.
[20] Il rinvio è espresso agli artt.6 e 7 della Direttiva 1023/2019, è strumentale all’efficacia del progetto e, singolarmente, accomuna la sorte dell’insolvente a quella di chi si trovi anche solo in una situazione di probabile insolvenza.
[21] Come noto la tendenziale automatica traslazione del rapporto di lavoro in capo al cessionario aziendale è fissata dagli artt. 3 e 4 Dir. 2001/23/CE che rispettivamente stabiliscono che diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento sono, in conseguenza di tale trasferimento, trasferiti al cessionario e che il trasferimento di un'impresa, di uno stabilimento o di una parte di impresa o di stabilimento non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario.
1. Premessa
Mi è stato chiesto di scrivere quest’articolo (per la rivista giustiziainsieme.it) non nella mia veste professionale di magistrato o, più in generale, di studioso del diritto, ma in relazione alle pubblicazioni relative a raccolte di mie poesie.
Infatti, nel corso del 2021 ho pubblicato due raccolte: Oblio (edizioni La Bussola, Roma), che include anche poesie scritte in gioventù, e Lenzuola bianche (edizioni La Bussola, Roma), raccolte che sono state presentate in un pubblico incontro il 6 ottobre 2022 presso la Biblioteca del Comune di Caserta.
Da ultimo, nel 2023, ho pubblicato una terza raccolta di poesie dal titolo Sogni brevi (edita da Pendragon, Bologna) presentata a Capua il 19 maggio 2023 su invito del prof. Domenico Proietti dell'Università della Campania "Luigi Vanvitelli"[i] nell’ambito della diciottesima edizione di Capua il luogo della lingua Festival[ii].
Già il termine “poesia” riferito a queste pubblicazioni richiede una doverosa precisazione. È evidente che attribuire o riconoscere, a determinati scritti, la qualificazione di essi come “poesie” è un’operazione che sfugge all’autore: solo alla critica letteraria e al pubblico, cui tali versi sono destinati (grazie alle aspettative dell’editore), compete infatti il giudizio circa la natura o meglio lo spessore “poetico” di essi. E questa precisazione vale tanto più nel mio caso di scrittore che invade un campo non proprio, diverso essendo il mio mestiere di magistrato.
Insomma, sentire parlare di me come “poeta” è qualcosa che (senza falsa modestia) in fondo mi imbarazza, nel dovuto rispetto cioè di coloro che, appartenendo al mondo letterario, hanno dedicato la propria esistenza alla letteratura e, segnatamente, alla poesia.
Ma proprio la mia estraneità al mondo letterario e in particolare la mia professione di magistrato sono gli elementi che hanno incuriosito, fin dal primo incontro del 6 ottobre 2022, il prof. Proietti, che ha posto il tema delle possibili connessioni tra l’attività del magistrato e l’attività del “poeta”.
In effetti nel primo incontro del 6 ottobre 2022, alla domanda del prof. Proietti al riguardo, ho quasi negato che vi fosse un legame tra i due mondi (quello professionale e quello della mia poesia), basandomi sulla mera constatazione del fatto che ho cominciato a scrivere versi quando ero adolescente, e quindi prima degli studi di legge e, poi, dell’ingresso in magistratura.
E tuttavia in vista del successivo incontro del 19 maggio 2023 ho riflettuto sul tema, arrivando a dare una risposta più articolata sulle possibili connessioni tra attività di magistrato e attività di scrittore di versi.
2. Il piano linguistico
La funzione del magistrato è quella di interprete della legge, da applicare al caso concreto. L’interpretazione della legge, o anche di un negozio giuridico, è quindi attività propria del magistrato, la quale necessariamente gli impone di analizzare il significato proprio delle parole (interpretazione testuale) al fine di definire un istituto giuridico o una fattispecie ovvero per distinguere un caso da un altro (interpretazione logica).
È dunque evidente come un’attività professionale di questo tipo, svolta in concreto per lunghi anni, possa acuire l’abitudine alla precisione del linguaggio da usare, diventare un habitus mentale (o più genericamente culturale) che, evidentemente, non può non influenzare ambiti diversi da quelli prettamente giuridici o professionali. Invero in una decisione non si può usare un termine per un altro (non sono equivalenti “proprietà” e “possesso”, “furto” e “rapina”, e così via).
Se dunque l’esercizio della professione di magistrato può aver affinato l’attenzione alla parola usata e quindi la precisione logica e linguistica, nella ricerca cioè del termine che meglio rappresenti una fattispecie sottoposta al suo esame, è difficile pensare che ciò, specie in una poesia che vuole essere evocativa, non abbia influito sull’esattezza della parola o dell’aggettivo che meglio esprima in versi un’emozione o anche una situazione, che sia o no metafora di un sentimento provato e da comunicare.
3. Il piano dell’espressione
La letteratura (prosa o poesia) esprime “storie” o comunque “momenti” (emozioni) di vita vissuta o immaginata come reale.
In oltre quarant’anni di esercizio delle funzioni di magistrato, nel settore penale e nel settore civile, ho conosciuto migliaia di vicende umane, sia pure nella loro patologia (tanto da richiedere l’intervento dell’autorità giudiziaria) o comunque nella loro (spesso contrastante) rappresentazione o ricostruzione (essendo come giudice chiamato a decidere sulle stesse, nella ricerca della verità o comunque della soluzione più “giusta”). Si trattava di vicende, come ho detto, spesso traumatiche, di sofferenza o di morte.
Come negare una qualche influenza di tali vicende nelle poesie che ho scritto, le più dolenti o drammatiche?
Penso agli incidenti sul lavoro, alle perizie psicologiche o di psichiatria infantile in tema di affidamento di minori, alle interdizioni o inabilitazioni, a sofferte separazioni o divorzio di coniugi, alla valutazione dei danni alla persona nelle cause di accertamento delle responsabilità (civile o penale), alle autopsie (nei casi di omicidio o di decesso per malattie professionali o più in generale per colpa) … e così via.
Ecco, quindi, un secondo punto di contatto (quello che si esprime sul piano dell’espressione o dei contenuti, cioè delle “storie” o dei “momenti” evocati nelle poesie) tra l’essere magistrato e l’essere “poeta”.
4. Il ruolo sociale
Può esservi infine un terzo punto di contatto, più profondo o di non immediata percezione, tra l’attività giudiziaria e la letteratura, e quindi la poesia.
In tutte le funzioni da me svolte come magistrato, nell’applicazione della legge ho sempre cercato di interpretare la singola norma alla luce dei principi affermati nella Costituzione, e quindi nell’ambito dei valori che tali principi esprimono: eguaglianza, tutela dei diritti e dei legami familiari, protezione del cittadino dall’arroganza del potere, ecc.
Quanto all’attività di poeta, chi ha approfondito il tema del ruolo svolto dalla letteratura (e quindi, in essa, dalla poesia) nel contesto sociale in un determinato momento storico, dall’antica Grecia fino ai giorni nostri, è giunto ad affermare, con riferimento ovviamente ai grandi Autori, come la letteratura abbia assunto il ruolo di indicare alla società del loro tempo valori da affermare e perseguire.[iii]
Come ho scritto nella mia introduzione a Sogni brevi e come ha notato il prof. Tiozzo nella prefazione (intitolata Una riapertura alla vita), in quest’ultima opera (Sogni brevi) è più chiara in me, sia pure con il senno di poi, la percezione che i miei versi non siano solo come una fotografia di un momento della mia esistenza, ma che essi possano essere letti come la riaffermazione o anche la mera indicazione di valori da difendere o da portare avanti.
In effetti, l’ispirazione di alcuni versi, in modo più esplicito rispetto alle precedenti raccolte, mi ha spinto a toccare temi sociali, problematici se non tragici, così facendo, anche solo rilevando che c’è un problema, la mia poesia in tal caso ha, in fondo, finito con l’indicare al lettore quei nobili valori di eguaglianza, di rispetto degli altri e della natura e dell’ambiente. Anche i versi più semplici, relativi ad emozioni nei rapporti familiari, non sono forse l’affermazione dell’importanza di tali legami? Oppure, il rispetto dell’altro non si esprime anche con il semplice saluto (si vedano i versi sotto il titolo “Il saluto”)? Un semplice saluto non indica un valore apposto all’arroganza, alla supponenza cui spesso veniamo in contatto?
Ed allora ecco il legame (profondo) che ha unito o unisce l’attività di magistrato, da me svolta nel corso di tanti anni nell’affermazione dei valori e dei principi costituzionali, a quella del “poeta”, là dove essa – non importa se in modo consapevole o meno da parte dell’autore - esprima i più alti valori che dovrebbero guidare la società civile nel rispetto di ciascuno e della vita umana.
[i] Domenico Proietti, professore associato di Linguistica italiana, Dipartimento di lettere e beni culturali dell'Università della Campania "Luigi Vanvitelli".
[ii] All’incontro ha partecipato anche Daniela Carmosino, Ricercatrice T.D.A. e docente di Critica letteraria e letterature comparate presso il Dipartimento di lettere e beni culturali (DiLBeC)), Università della Campania "Luigi Vanvitelli", Santa Maria Capua Vetere (CE), nonché l’attore Bernardo Casertano, che ha letto e interpretato alcune poesie tratte dalla raccolta Sogni brevi.
[iii] Si veda l’illuminante saggio di Umberto Apice, Una musa per temi. Diritto e processi in letteratura, edito da Lastoria, 2022, Vignate – MI.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il parere di compatibilità paesaggistica nella disciplina dell’art. 146 l. 42/2004 - 2.1. (segue) Natura e funzione del parere. Il punto del Consiglio di Stato - 3. Sindacabilità delle valutazioni espresse nel procedimento autorizzativo - 3.1. (segue) il punto del Consiglio di Stato.
1. Premessa.
La pronuncia in commento offre un quadro di sintesi delle questioni che vengono in rilievo nell’ambito del complesso procedimento finalizzato al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, come disciplinato dal Codice dei beni culturali e del paesaggio [1].
La vicenda trae origine dal progetto presentato da una società agricola al Comune di Capestrano per la realizzazione di una struttura di produzione e trasformazione vitivinicola. Il Comune, in prima battuta, esprimeva parere favorevole sotto il profilo paesaggistico e trasmetteva lo stesso alla Soprintendenza, la quale - dopo aver richiesto e ottenuto l’attivazione del tavolo al Direttore Generale - esprimeva parere negativo ed a questo seguiva poi il diniego definitivo al rilascio del permesso di costruire.
Gli atti venivano impugnati dinanzi al Tar Abruzzo n. 365/2020 che, accertando la legittimità dell’operato delle amministrazioni coinvolte, lo respingeva. Il Consiglio di Stato, investito della questione confermava le statuizioni del Tar, richiamando principi ormai pacificamente riconosciuti dalla giurisprudenza.
In particolare, nella decisione in commento il Consiglio di Stato rinvia alla casistica relativa: al silenzio assenso, al parere tardivo, all’ambito delle valutazioni da parte della Soprintendenza (limitatamente agli aspetti paesaggistici e archeologici), ai rapporti coi titoli edilizi, alla tutela delle identità tradizionali e culturali delle popolazioni locali [2].
Delineando, così, un quadro generale della disciplina e della giurisprudenza afferenti il procedimento di autorizzazione paesaggistica, la sentenza offre interessanti spunti di riflessione, tra gli altri, sulla natura e valenza del parere espresso dalla Soprintendenza, sulla discrezionalità che contraddistingue l’esercizio dei suoi poteri in tale ambito e sulla conseguente sindacabilità di detti poteri e più in generale degli atti che afferiscono la tutela ambientale.
Ed è proprio su tale aspetto che nel presente scritto ci si concentrerà, tentando di delineare, seppur sinteticamente, la disciplina del procedimento autorizzativo con particolare riguardo alla natura e funzione del parere di compatibilità paesaggistica e alla sua sindacabilità in sede giudiziale, attraverso i richiami operati dal Consiglio di Stato e gli arresti della giurisprudenza precedente, alla quale la pronuncia in commento mostra di conformarsi.
2. Il parere di compatibilità paesaggistica nella disciplina dell’art. 146 l. 42/2004.
Il Codice dei Beni culturali e del paesaggio, nel disciplinare il procedimento finalizzato al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, stabilisce - all’art. 146, comma 5 - che “sull’istanza di autorizzazione paesaggistica si pronuncia la regione, dopo avere acquisito il parere vincolante del soprintendente in relazione agli interventi da eseguirsi su immobili ed aree sottoposti a tutela dalla legge o in base alla legge”, specificando che tale parere, reso all’esito dell’approvazione delle prescrizioni d’uso dei beni paesaggistici tutelati, predisposte secondo quanto disposto dalla normativa di riferimento, nonché della positiva verifica da parte del Ministero, su richiesta della regione interessata, dell’avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici, assume natura obbligatoria non vincolante ed è reso nel rispetto delle previsioni e delle prescrizioni del piano paesaggistico, entro il termine di 45 giorni decorrente dalla ricezione degli atti.
Al fine di delineare l’oggetto di valutazione sul quale la Soprintendenza deve esprimere parere il legislatore, al comma 8 del Codice, chiarisce che questo è limitato alla compatibilità paesaggistica del progettato intervento nel suo complesso ed alla conformità dello stesso alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico ovvero alla specifica disciplina di cui all’articolo 140, comma 2.
Si tratta, dunque, di un atto a contenuto decisorio e di un giudizio di merito tecnico-discrezionale.
L’amministrazione procedente non può disattenderlo, salva l’ipotesi in cui risulti che il parere sia stato reso sulla base di atti o fatti palesemente erronei o travisati, quindi, è stato notato come, in buona sostanza, l’atto autorizzativo venga deciso sostanzialmente nel suo contenuto dalla Soprintendenza ma formalmente imputato all’ente subdelegato, solitamente il Comune [3].
Al comma 9 si afferma che “decorsi inutilmente sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente senza che questi abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione”[4].
2.1 (segue) Natura e funzione del parere. Il punto del Consiglio di Stato.
La Soprintendenza, nell’ambito del procedimento autorizzativo in analisi, svolge una funzione consultiva. È lo stesso legislatore a definire il parere di compatibilità paesaggistica “obbligatorio non vincolante”.
Come è noto, l’attività consultiva della pubblica amministrazione, che si caratterizza per l’essere esercitata da organi amministrativi cui è stata attribuita la relativa funzione di rendere consulenza ad altri organi o enti pubblici [5], ha valenza eminentemente preparatoria della decisione finale [6].
In ragione di ciò, generalmente l’atto consultivo consegue ad una espressa richiesta da parte dell’organo decidente, connotandosi così quale «attività su impulso, che non si mette in moto da sola» [7].
Questo particolare tipo di attività amministrativa si concretizza con l’adozione di pareri [8] che ne costituiscono il proprium [9].
Essendone la manifestazione concreta i pareri sono caratterizzati dalle medesime peculiarità proprie dell’attività consultiva, ovvero sono resi in sede endoprocedimentale, su richiesta, hanno natura preparatoria ed, in linea generale, sono carenti di autonomia funzionale [10] e quindi non direttamente lesivi.
I pareri sono generalmente classificati [11] dal punto di vista dell’oggetto in pareri di legittimità, di opportunità e tecnici; del regime giuridico in relazione alla loro acquisizione in obbligatori e facoltativi [12]; dell’efficacia in: conformi, quando l’organo di amministrazione attiva ha il dovere di richiederli, potendo però decidere se provvedere o meno, ma se sceglie di provvedere deve farlo uniformandosi al contenuto del parere; vincolanti, ovvero i parere obbligatori cui l’amministrazione decidente deve uniformarsi, a meno di motivarne l’illegittimità; semivincolanti, ovvero quando l’organo di amministrazione attiva può adottare un provvedimento difforme solo in una determinata direzione o con un determinato procedimento [13].
Il parere di compatibilità paesaggistica rientra, come è agevole comprendere, tra i pareri a contenuto tecnico, in ragione della specificità della materia su cui deve esprimersi. Ed è qualificato dallo stesso legislatore obbligatorio non vincolante.
La sua acquisizione è prescritta dalla legge a pena di illegittimità del provvedimento finale. Una volta ottenuto il parere, la pubblica amministrazione che ha dovuto richiederlo può essere o meno costretta a conformarsi al contenuto dell’atto consultivo, anche se la possibilità di discostarsene costituisce – invero - un’eccezione, infatti, in tal caso l’ente sarà tenuto a motivare in ordine alle ragioni che hanno determinato la decisione non conforme. Nello specifico, il parere di cui sopra rientra tra quelli non vincolanti, il che significa – come detto – che non vincola l’amministrazione alla decisione conforme.
La giurisprudenza ha sottolineato più volte che, con l’entrata in vigore nel 2010 dell’art. 146 cit., la Soprintendenza esercita, non più un sindacato di legittimità ex post sulla autorizzazione già rilasciata dalla regione o dall’ente delegato, con il correlativo potere di annullamento, ma un potere che consente di effettuare ex ante valutazioni di merito amministrativo, con poteri di cogestione del vincolo paesaggistico [14]. Per tale via, la sua funzione, benché consultiva, assume valenza, in sostanza, di tipo co-decisionale regionale e statale della tutela paesaggistica delle aree soggetta a tutela [15].
Nella pronuncia in commento il Consiglio di Stato, richiamando un orientamento consolidato ed in linea con le definizioni generali proprie dell’attività consultiva della pubblica amministrazione, ci dice che il parere in questione costituisce un atto endoprocedimentale emanato nell’ambito di quella sequenza di atti ed attività preordinata al rilascio del provvedimento di autorizzazione paesaggistica (o del suo diniego) e che le valutazioni in esso espresse sono finalizzate all’apprezzamento dei profili di tutela paesaggistica che si consolideranno, all’esito del procedimento, nel provvedimento di autorizzazione o di diniego di autorizzazione paesaggistica.
In merito alla sua efficacia, i Giudici di Palazzo Spada specificano che, nell’ipotesi di decorso del termine stabilito dalla legge senza che la Soprintendenza abbia espresso il parere di che trattasi, non può escludersi in radice la possibilità per l’organo statale di rendere comunque un parere in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’intervento, fermo restando che, nei casi in cui vi sia stato il superamento del termine, il parere perde il suo carattere di vincolatività e deve essere autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione deputata all’adozione dell’atto autorizzatorio finale [16].
3. Sindacabilità delle valutazione espresse nel procedimento autorizzativo.
L’attività consultiva che svolge la Soprintendenza nell’ambito del procedimento autorizzativo, si caratterizza per essere - come del resto tutta l’attività consultiva della pubblica amministrazione - ausiliaria rispetto ad altre attività amministrative volte all’assunzione di decisioni [17].
Nel caso specifico, come detto, si tratta valutazioni tecniche che incidono sul principio, oggi costituzionalmente garantito in modo espresso, della tutela ambientale. Dunque, la sua funzione, che - come in tutti gli altri casi in cui si esprimono organi consultivi - è strumentale a salvaguardare la qualità delle decisioni amministrative [18], assume nel procedimento autorizzativo una pregnanza particolare, soprattutto con riguardo al bilanciamento degli interessi in gioco.
Si è già detto che, nel procedimento di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, la Soprintendenza effettua ex antevalutazioni di “merito amministrativo”, con poteri di cogestione del vincolo paesaggistico. Si tratta, pertanto, di un giudizio connotato da un'ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l'applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie dei vari settori scientifici di riferimento [19].
In generale l’attività tecnico discrezionale è stata considerata come un’attività di valutazione della sussistenza in concreto dell'interesse pubblico tutelato dalla norma, che si traduce in una valutazione sul merito dell'azione amministrativa o cui si correlano situazioni soggettive tutelate come interessi legittimi [20].
L'apprezzamento così compiuto dall’amministrazione competente è quindi sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l'aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell'ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell'amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile [21].
Del resto, non sarebbe ammissibile la surrogazione delle valutazioni tecniche spettanti alle amministrazioni preposte alla tutela dell'ambiente, del patrimonio paesaggistico e territoriale, nonché della salute dei cittadini [22].
3.1. (segue) il punto del Consiglio di Stato.
Nella decisione in commento il Consiglio di Stato ribadisce che la Soprintendenza esercita un potere discrezionale nell’elaborazione del parere di compatibilità paesaggistica, che non può dunque essere sindacato nel merito.
Nell’affermare questo principio, i Giudici colgono l’occasione per rammentare che nel caso di valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (e quindi nelle ipotesi in cui i poteri dell’amministrazione siano caratterizzati dalla c.d. «discrezionalità tecnica»), difettando parametri normativi a priori che possano fungere da premessa del ragionamento sillogistico, il giudice “non ‘deduce’ ma ‘valuta’” se la decisione pubblica rientri o meno nella gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto.
Per tale via, concludono che, ove l’interessato non ottemperi all’onere di mettere in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica della valutazione amministrativa e si fronteggino, quindi, opinioni divergenti parimenti plausibili, il giudice dovrà far prevalere la posizione espressa dall’organo istituzionalmente competente ad adottare la decisione collettiva, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato.
Nell’affermare ciò, il Consiglio di Stato richiama il contenuto di una sua recente pronuncia [23], nell’ambito della quale viene affermato che la necessità del bilanciamento degli interessi in gioco diviene maggiore quando confligge l’interesse alla tutela dell’ambiente con quello alla tutela del paesaggio, soprattutto in ragione del fatto che, ad oggi, non può più essere sottovalutato che il nuovo testo dell’art. 9 Cost., come novellato dalla legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, depone nel senso della maggiore, e non minore, tutela dei valori ambientali e paesaggistici nell’ottica della salvaguardia delle generazioni future e dello sviluppo sostenibile.
In particolare, è stato anche in precedenza affermato che alla funzione di tutela del paesaggio è estranea ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione. L’intervento progettato, infatti, viene messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della sua compatibilità con il tutelato interesse pubblico paesaggistico, valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto [24].
A confutazione di qualunque dubbio possa sorgere in merito al suddetto orientamento che afferma, allo stato, una sorta di prevalenza dell’opinione dell’amministrazione nel caso in cui venga in rilievo la materia della tutela ambientale è lo stesso Giudice a specificare che “non si tratta di garantire all’Amministrazione un privilegio di insindacabilità (che sarebbe contrastante con il principio del giusto processo), ma di dare seguito, sul piano del processo, alla scelta legislativa di non disciplinare il conflitto di interessi ma di apprestare solo i modi e i procedimenti per la sua risoluzione”.
[1] Per un inquadramento generale della materia si veda: Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, 2019, 1161 ss.; P. Marzaro, La “cura” ovvero “l’Amministrazione del paesaggio”: livelli, poteri e rapporti tra Enti nella riforma del 2008 del Codice Urbani (dalla concorrenza dei poteri alla paralisi dei poteri?), in Riv. giur. urb., 2008, 4, 416 ss.; G. Mastronardo, Valore del paesaggio, in A. Angiuli, V. Caputi Iambrenghi (a cura di), Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, 2005, 344 ss.;
[2] Cons. Stato, sez. IV, n. 563 del 2022, n. 181 del 2022, n. 941 del 2021, n. 4765 del 2020, n. 3170 del 2020. Nello specifico sulla questione del silenzio assenso si veda da ultimo: S. SPERANZA, “Silenzio assenso tra P.A. e autorizzazione paesaggistica. Le prospettive del Consiglio di Stato (nota a Consiglio di Stato, Sezione Sesta, n. 4098 del 24 maggio 2022)”, in giustiziainsieme.it, Diritto e Processo Amministrativo, 3.11.2022; precedente: G. DELLE CAVE, Autorizzazione paesaggistica e silenzio assenso tra P.A.: un connubio (im)possibile? competenze procedimentali e portata applicativa dell’art. 17 bis l. n. 241/1990 (nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2640), in giustiziainsieme.it, Diritto e processo amministrativo, 06.07.2021.
[3] A. Berlucchi, Il parere tardivo espresso dalla soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici ex art. 146 d. lgs. n. 2004/42: spunti di riflessione, in Riv. giur. ed., 2017, 1, 130 ss.
[4] Articolo così modificato dal D.L. 133/2014, c.d. “Sblocca Italia”. La versione antecedente prevedeva la possibilità per l’amministrazione competente di indire una conferenza di servizi che avrebbe dovuto pronunciarsi nel termine “perentorio” di quindici giorni. In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del Soprintendente, l’amministrazione competente provvedeva sulla domanda di autorizzazione.
[5] Si veda in tal senso, per tutti, V. Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, Torino, 2018, 335.
[6] In questo senso si esprime, a proposito dei pareri, A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, I, 63919.
[7] C. Barbati, L’attività consultiva nelle trasformazioni amministrative, Bologna, 2002, 20 ss.
[8] Per una ricostruzione storica della categoria dei pareri: Sandulli, Il procedimento, in Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo generale, a cura di S. Cassese, Milano, II, 2000, 1015 ss; A. Travi, voce Parere nel diritto amministrativo, in Dig. disc. pubbl., X, Torino, 1995, 615 ss.
[9] M. Occhiena, N. Posteraro, “Pareri e attività consultiva della pubblica amministrazione: dalla decisione migliore alla decisione tempestiva”, ne “Il diritto dell’economia» issn 1123-3036, anno 65, n. 100 (3 2019), pp. 27-62.
[10] Su questo aspetto si veda A. Corsaro, L’attività consultiva e le valutazioni tecniche, in Le nuove regole dell’azione amministrativa. Atti del Convegno di Catania dell’11-12 novembre 2005, Catania, 2006, 113 e ss.
[11] M. Occhiena, N. Posteraro, “Pareri e attività consultiva della pubblica amministrazione: dalla decisione migliore alla decisione tempestiva op. cit.
[12] Classificazione espressamente contemplata dal legislatore ai primi due commi dell’art. 16, legge 241/1990,come modificati dall’art. 8, della legge 18 giugno 2009, n. 69
[13] P. Virga, Diritto amministrativo. 2. Atti e ricorsi, Milano, 1999, 29. Invero a tale categoria, abrogata dalla l. 69/2009, veniva ricondotta sono l’ipotesi di cui all’art. 14, comma 1, d.p.r. 24 novembre 1971, n. 1199, relativa al parere del Consiglio di Stato nel procedimento di decisione dei ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica, che poteva essere disatteso mediante deliberazione del Consiglio dei Ministri.
[14] cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10 giugno 2019, n. 3870.
[15] In tal senso Cons. Stato, sez. VI, 04 giugno 2015, n. 2751, in Riv. giur. ed., 2015, 4, 768 ss.
[16] in linea con questo principio il Consiglio di Stato richiama giurisprudenza precedente: ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, n. 2136 del 27 aprile 2015; n. 4927 del 28 ottobre 2015; in termini da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 2 febbraio 2021, n. 941
[17] D. Sorace, Diritto delle amministrazioni pubbliche, Bologna, 2005, 193
[18] V. Parisio, La funzione consultiva nella dinamica procedimentale, in Codice dell’azione amministrativa, a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2017, 804. In giurisprudenza, così si esprimono, tra gli altri: T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 4 giugno 2015 n. 1261, T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 2 febbraio 2011, n. 224, T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 18 marzo 2011 n. 440 e T.A.R. Abruzzo, Pescara, sez. I, 20 giugno 2009 n. 448
[19] In proposito si veda G. Sigismondi, Valutazione paesaggistica e discrezionalità tecnica: il Consiglio di Stato pone alcuni punti fermi, in Aedon.it, n. 3, 2016, issn 1127-1345
[20] In questo senso F. Volpe, Discrezionalità tecnica e presupposti dell'atto amministrativo, in Dir. Amm., 2008, pag. 791.
[21] T.R.G.A. Trentino-Alto Adige, Bolzano, 24 dicembre 2007 n. 398
[22] Tar Calabria - Catanzaro, 05 settembre 2022 n. 1497.
[23] CdS sez VI 23.09.2022 n. 8167. Per un’analisi critica si veda: G. Severini e P. Carpentieri, Sull’inutile, anzi dannosa modifica dell’articolo 9 della Costituzione, in giustiziainsieme.it, 22 settembre 2021.
[24] In questo senso già Consiglio di Stato, Sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2640.
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