ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. Il carattere necessario della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza. – 3. La motivazione del preavviso di rigetto. -– 4. La mancata comunicazione del preavviso di rigetto ed il suo carattere lesivo. – 5. La novità del d.l. Semplificazioni 2020: il preavviso di rigetto adesso sospende i termini del procedimento. – 6. Osservazioni conclusive sull’orientamento del Consiglio di Stato.
1. Il caso di specie.
La sentenza che si annota è stata pronunziata dal Consiglio di Stato in relazione all’appello presentato avverso la sentenza n. 1288 del 2020, con cui il T.A.R. Campania, Napoli, ha rigettato il ricorso di primo grado, diretto ad ottenere l’annullamento del diniego di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/01 opposto dal Comune di Napoli e riferito ad un intervento di manutenzione straordinaria (realizzazione di una scala in cemento armato) relativo ad un immobile di proprietà della ricorrente.
La ricorrente, difatti, aveva presentato un’istanza di accertamento di conformità, in relazione alla quale il Comune aveva comunicato i motivi ostativi all’accoglimento, riferiti essenzialmente alla mancata dimostrazione della legittimità dell’immobile nella sua modificata consistenza, che, malgrado le osservazioni per controdedurre presentate dalla ricorrente ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, erano stato seguiti dall’adozione del formale diniego del richiesto provvedimento di sanatoria.
Avverso questo provvedimento la ricorrente ha presentato ricorso al T.A.R. Campania, Napoli, deducendo due motivi di censura, riferiti alla violazione dell’art. 10 bis l. n. 241 del 1990, per non avere l’Amministrazione statuito sulle osservazioni fornite in riscontro al preavviso di rigetto, e al difetto di motivazione e istruttoria non avendo l’Amministrazione valutato la ricorrenza del requisito della doppia conformità ed essendosi limitata a valorizzare due ragioni illegittime.
Il giudice amministrativo di primo grado, però, ha recisamente rigettato il ricorso, ritenendo assorbente la legittimità della ratio decidendi, alla base del diniego, riferita all’emersione di un vano insuscettibile di essere qualificato in termini di vano tecnico in ragione delle relative dimensioni e delle possibilità di autonomo utilizzo.
La ricorrente, pertanto, ha impugnato la pronunzia dinnanzi al Consiglio di Stato riproponendo le censure svolte in prime cure non esaminate dal T.A.R., incentrate, in particolar modo, sulla violazione dell’art. 10 bis, avendo l’Amministrazione omesso di rappresentare le ragioni per le quali le puntuali osservazioni svolte dalla parte privata in riscontro al preavviso di rigetto non potessero essere favorevolmente apprezzate, in tale modo rendendo in tal modo, a suo giudizio, l’istituto del preavviso di rigetto un inutile e sterile adempimento formale, invece che uno dei cardini del contraddittorio procedimentale.
Proprio dalla centralità di questo istituto nel complesso prisma delle garanzie procedimentali di cui il privato è titolare nel rapporto con l’Amministrazione occorre partire per compiere alcune riflessioni.
2. Il carattere necessario della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza.
Si è visto come il legislatore della legge n. 241 del 1990 abbia voluto, quantomeno in potenza, porre le basi per una decisione amministrativa che sia il più possibile, se non condivisa, perché gli interessi perseguiti dall’Amministrazione possono essere eterogenei rispetto a quelli dei privati interessati dal procedimento, “partecipata” tra tutte le parti coinvolte.
In quest’ottica si è certamente mossa la novella legislativa del 2005[1] che ha introdotto nel corpo della legge fondamentale sul procedimento amministrativo, all’art. 10-bis, la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda, c.d. preavviso di rigetto.
La disposizione in questione dispone anzitutto che “nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti”.
La norma vuole certamente rafforzare le garanzie difensive del cittadino nei confronti dell’Amministrazione, nell’ottica di realizzare due obiettivi principali che sono stati evidenziati dalla dottrina sin dalla sua introduzione nella legge n. 241 del 1990[2].
Da un lato, è stato correttamente osservato che l'art. 10-bis si pone nell'ottica della realizzazione di un contraddittorio endoprocedimentale necessario e rafforzato[3], che tende in quanto tale al superamento delle asimmetrie che scaturiscono dall'impianto della originaria legge n. 241 del 1990.
Si vorrebbe, quindi, raggiungere non una posizione di piena parità tra cittadino ed Amministrazione nell’assunzione della decisione, perché è inevitabile che questa, pur tenendo conto di tutti gli interessi nella comparazione che compie, scelga unilateralmente la soluzione migliore per il perseguimento dell’interesse pubblico. D’altronde, questa è una delle caratteristiche proprie del provvedimento amministrativo, che, come si sa, non necessita del consenso dell’altra parte per la sua adozione.
Tuttavia, in ogni caso, si vuole che il cittadino sia informato e sia posto effettivamente nella posizione di contraddire con l’Amministrazione, a vantaggio anche di una scelta pubblica che sia la migliore possibile tra tutte quelle astrattamente perseguibili[4].
Da qui il secondo obiettivo del legislatore: la configurazione della decisione amministrativa come “frutto di una dialettica tra le parti interessate”[5].
Si rende in tal modo più pervasivo il dialogo tra Amministrazione e cittadino con conseguente individuazione del proprium del procedimento amministrativo in una relazione di tipo comunicativo fondata sull'idea di uno scambio multipolare di informazioni “contraddistinto dai caratteri della completezza e della continuità”[6].
La grande novità dell’art. 10-bis può essere pertanto rintracciata nell’aver positivizzato un principio di bidirezionalità comunicativa (interno-esterno) all'interno dello schema partecipativo tradizionale, di “visione” e “voce”[7], contenuto e disciplinato dall'art. 10 della l. n. 241 del 1990[8].
Il legislatore è andato oltre alla semplice possibilità per il cittadino di accedere ai documenti amministrativi del procedimento che lo interessano con la conseguente facoltà di presentare memorie al riguardo, prevedendo che l’Amministrazione, laddove sia intenzionata a determinarsi negativamente sull’istanza presentata, sia obbligata, precedentemente all’adozione formale del provvedimento di rigetto, a comunicare quali siano i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, consentendo così al privato di attivarsi affinché l’Amministrazione cambi eventualmente la sua determinazione in senso a lui favorevole.
Certamente, non è stata una novità di poco conto se si riflette sulle difficoltà che si sono avute solo per giungere ad una disciplina generale sul procedimento amministrativo[9].
La previsione astratta del legislatore è importante, se non fondamentale; occorre, però, al fine di comprendere appieno la portata di questa disposizione, verificare la sua applicazione da parte del giudice amministrativo.
L'art. 10 bis, l. n. 241/1990 stabilisce, a carico dell'Amministrazione, un onere procedimentale, propedeutico all'adozione di ogni provvedimento finale reiettivo dell'istanza del privato, allo scopo di consentire allo stesso di dedurre tempestivamente nel procedimento eventuali circostanze idonee ad influire sul contenuto dell'atto finale, così anticipando e prevenendo il contenzioso che potrebbe verificarsi in sede giurisdizionale[10].
La giurisprudenza amministrativa ha dovuto anzitutto chiarire l’ambito di applicazione del c.d. preavviso di rigetto.
L'adempimento partecipativo in questione, difatti, secondo quanto stabilito dall'art. 10 bis, l. n. 241/1990, non si applica alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali.
Tale esclusione non riguarda, però, i procedimenti sorti a seguito dell'istanza del funzionario finalizzata al riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di determinate infermità, in quanto gli stessi non hanno natura previdenziale ma indennitaria e, comunque, non sono gestiti da enti previdenziali ma dall'Amministrazione datrice di lavoro[11].
L'istituto, poi, stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non è stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui all'art. 10-bis, l. n. 241/1990 in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e, dunque, della possibilità di un apporto collaborativo, capace di condurre a una diversa conclusione della vicenda[12].
Analogo discorso vale per il procedimento attivato per il rilascio del permesso di soggiorno, che, malgrado la particolarità della materia, è pur sempre un procedimento ad istanza di parte[13], nonché per il procedimento, regolato dall'art. 87 del d. lgs. n. 259 del 2003, volto all'esame delle domande di autorizzazione alla installazione di infrastrutture di comunicazione elettronica, sebbene si sia in presenza di una disciplina speciale tesa a consentire una decisione in tempi certi e rapidi[14].
Vi sono dei casi, invece, ulteriori rispetto a quelli predeterminati dal legislatore all’art. 10-bis, in cui la giurisprudenza amministrativa esclude l’applicazione dell’istituto.
Si tratta dei procedimenti amministrativi in materia di antimafia, in quanto intrinsecamente caratterizzati da profili del tutto specifici connessi ad attività di indagine, oltre che da finalità, da destinatari e da presupposti incompatibili con le procedure partecipative, nonché da oggettive e intrinseche ragioni di urgenza[15]; delle fasi di screening ambientali quali passaggi intermedi verso la Valutazione di Impatto Ambientale (V.I.A.)[16]; dei procedimenti riguardanti il riconoscimento della causa di servizio, in quanto l'eventuale apporto partecipativo dell'interessato non produrrebbe effetti sul contenuto della determinazione assunta[17]; dei procedimenti selettivi, volti ad individuare il candidato o i candidati che hanno titolo per transitare in una diversa Amministrazione[18]; dei procedimenti che si concludono con un ordine di demolizione di opere edilizie abusive, data la natura vincolante del provvedimento[19]; dei procedimenti ad evidenza pubblica per l’aggiudicazione dei contratti di appalto pubblico[20]; dei provvedimenti di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, disposta a’ sensi dell’art. 159, cod. dei beni culturali, in quanto costituiscono esercizio, entro un termine decadenziale, di un potere che intercorre nell'ambito di un rapporto tra Autorità Pubbliche[21]; dei procedimenti di ammissione a finanziamenti pubblici[22].
Occorre, poi, chiarire i rapporti tra la garanzia partecipativa del c.d. preavviso di rigetto e la segnalazione certificata di inizio attività.
La natura giuridica della SCIA — che non è una vera e propria istanza di parte per l'avvio di un procedimento amministrativo che si conclude in forma tacita, bensì una dichiarazione di volontà privata di intraprendere una determinata attività ammessa direttamente dalla legge[23] — induce ad escludere che l'autorità procedente debba comunicare al segnalante l'avvio del procedimento o il preavviso di rigetto ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 prima dell'esercizio dei relativi poteri di controllo e inibitori[24].
Il denunciante, infatti, in questo caso è titolare di una posizione soggettiva originaria che rinviene il suo fondamento diretto ed immediato nella legge che non ha bisogno di alcun consenso dell’Amministrazione e, pertanto, la segnalazione di inizio attività non instaura alcun procedimento autorizzatorio destinato a culminare in un atto finale di assenso, espresso o tacito, da parte dell'Amministrazione; in assenza di procedimento, non c'è spazio per la comunicazione di avvio, per il preavviso di rigetto o per atti sospensivi da parte dell'Amministrazione[25].
Chiarito l’ambito di applicazione del preavviso di rigetto, per comprendere come in concreto si atteggia il suo carattere necessario occorre soffermarsi su due profili.
Si tratta della motivazione del provvedimento finale di diniego in relazione alle osservazioni presentate dal cittadino a seguito della comunicazione dei motivi ostativi, nonché dell’eventuale sanabilità del provvedimento per la mancanza di questa comunicazione in virtù della dequotazione degli errori formali ovvero dell’eventuale immediata lesività del preavviso di rigetto.
3. La motivazione del preavviso di rigetto.
Si parta dall’aspetto concernente la motivazione.
La giurisprudenza amministrativa si è oramai consolidata nell’affermare che l'Amministrazione non è tenuta a svolgere una puntuale ed analitica confutazione delle singole deduzioni introdotte dai cittadini ai sensi dell'art. 10-bis, essendo sufficiente ai fini della sua giustificazione una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell'atto stesso[26].
La norma prevede che, entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione dei motivi ostativi, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti.
Il d.l. Semplificazioni del 2020 ha modificato la tipologia di risposta che deve essere fornita dall’Amministrazione[27].
Nel testo originario del 2005, difatti, si prevedeva semplicemente che “dell'eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale”.
Si trattava di una formulazione assolutamente sintetica, la cui conseguenza era che l’Amministrazione poteva limitarsi ad una stringata motivazione, anche di poche parole, delle ragioni sottostanti il mancato accoglimento delle osservazioni presentate dal cittadino, persistendo la volontà di determinarsi negativamente sull’istanza che ha dato avvio al procedimento.
Questa prassi, patologica e certamente non tale da implementare il contraddittorio dialogico nel rapporto tra l’Amministrazione ed il cittadino, ha comportato la necessità di un ripensamento nella formulazione della disposizione.
Così, con le modifiche intervenute nel 2020, si dispone ora che, “qualora gli istanti abbiano presentato osservazioni, del loro eventuale mancato accoglimento il responsabile del procedimento o l'autorità competente sono tenuti a dare ragione nella motivazione del provvedimento finale di diniego indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle osservazioni”.
La motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno del provvedimento di diniego[28] richiesta dalla giurisprudenza si riempie finalmente di un contenuto pregnante.
Il mancato accoglimento delle osservazioni non può essere motivato sulla base degli stessi motivi ostativi che stavano alla base del c.d. preavviso di rigetto, ma occorre indicare quali sono i motivi ostativi ulteriori che impediscono alle osservazioni presentate dai privati di superare la determinazione negativa dell’Amministrazione in merito all’istanza che ha dato impulso al procedimento[29].
Se il legislatore, nell’ottica di una partecipazione fattiva nel procedimento amministrativo, ha ritenuto che un provvedimento di diniego debba essere “preannunciato” dai motivi che non consentono l’accoglimento dell’istanza, è evidente che l’Amministrazione debba tenere in considerazione le osservazioni ulteriori presentate dal privato, non necessariamente con una motivazione del provvedimento finale di diniego che argomenti singolarmente sulle specifiche osservazioni presentate[30], ma fornendo comunque una valida ragione della determinazione negativa con l’indicazione degli ulteriori motivi ostativi[31].
Questa novità è da accogliere favorevolmente guardando sia nella prospettiva dei cittadini nel loro rapporto con l’Amministrazione sia con specifico riferimento a quest’ultima: da un lato, difatti, si incrementa l’effettività della partecipazione procedimentale, non fine pertanto a se stessa e coerente con i principi di efficacia e celerità procedimentale[32], dall’altro la stessa attività dell’Amministrazione trova una maggiore tutela in quanto, così operando, si riduce il rischio che il provvedimento finale possa essere illegittimo per difetto o insufficienza della motivazione[33].
Ciò non vuol dire, ovviamente, che deve sussistere un rapporto di perfetta identità tra il preavviso di rigetto e l'atto conclusivo del procedimento[34], né una corrispondenza piena tra i due atti, ben potendo l’Amministrazione meglio precisare nel provvedimento la propria determinazione, sempreché il contenuto del diniego si inscriva nello stesso schema delineato dalla comunicazione ai sensi dell'art. 10-bis[35].
4. La mancata comunicazione del preavviso di rigetto ed il suo carattere lesivo.
Quanto detto ora consente di passare al secondo profilo, ovvero quello concernente l’eventuale illegittimità del provvedimento finale ove sia mancata la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda.
L’orientamento giurisprudenziale maggioritario, oramai consolidato sul punto, ritiene che la mancata comunicazione dei motivi ostativi di cui all'art. 10-bis non determina l'automatica illegittimità del provvedimento finale qualora possa trova applicazione l'art. 21-octies della stessa l. n. 241/1990.
Attraverso la dequotazione dei vizi formali dell'atto[36], la disposizione appena richiamata mira a garantire una maggiore efficienza all'azione amministrativa, risparmiando antieconomiche ed inutili duplicazioni di attività, laddove il riesercizio del potere non potrebbe comunque portare all'attribuzione del bene della vita richiesto dall'interessato[37].
L'art. 10-bis ha la funzione di assicurare un'effettiva partecipazione dell'istante all'esercizio del potere amministrativo, sollecitando un contraddittorio procedimentale in funzione collaborativa e difensiva.
In questo modo, da un lato, si garantisce un apporto collaborativo del privato mediante l'introduzione di elementi istruttori o deduttivi suscettibile di apprezzamento da parte dell'organo procedente, dall'altro si consente l'anticipata acquisizione in sede procedimentale di contestazioni (di natura difensiva) suscettibili di evidenziare eventuali profili di illegittimità delle ragioni ostative preannunciate dall'Amministrazione[38].
L'istituto del c.d. preavviso di rigetto, quindi, ha lo scopo di far conoscere all'Amministrazione procedente le ragioni fattuali e giuridiche dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere una diversa determinazione finale, derivante dalla ponderazione di tutti gli interessi in gioco; tuttavia, tale scopo viene meno ed è di per sé inidoneo a giustificare l'annullamento del provvedimento nei casi in cui il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sia in quanto vincolato, sia in quanto, sebbene discrezionale, sia stata raggiunta la prova della sua concreta e sostanziale non modificabilità[39].
In altri termini, leggendo l'art. 10-bis in combinato disposto con l’art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, così come deve essere fatto per le altre norme in materia di partecipazione procedimentale[40], si deve giungere ad una sua interpretazione non in senso formalistico, ma avendo riguardo all'effettivo e oggettivo pregiudizio che la sua inosservanza ha causato alle ragioni del soggetto privato nello specifico rapporto con l’Amministrazione, sicché il mancato o l'incompleto preavviso di rigetto non comporta l'automatica illegittimità del provvedimento finale[41], allorquando, in ipotesi, possa trovare applicazione l'art. 21-octies della stessa legge, secondo il quale il giudice non può annullare il provvedimento per vizi formali, che non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale di un provvedimento, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato[42].
Le garanzie procedimentali, difatti, sono dettate a tutela di interessi concreti, hanno carattere sostanziale e non devono risolversi in inutili aggravi procedimentali, in contraddizione con i fondamentali canoni di efficienza e speditezza del procedimento amministrativo[43].
Ne consegue, pertanto, che la violazione della garanzia partecipativa dell’art. 10-bis assume rilievo solamente ove la mancata partecipazione del privato abbia impedito al medesimo di apportare utili elementi di valutazione da sottoporre alla valutazione dell'Amministrazione interessata[44].
Occorre segnalare, al riguardo, una novità apportata alla disposizione dell’art. 21-octies dal d.l. semplificazioni del 2020[45].
Si precisa, difatti, che per il provvedimento adottato in violazione dell’art. 10-bis non può trovare applicazione la norma secondo cui “il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Si tratta, come può essere facilmente desunto, di una precisazione non necessaria, perché, se si afferma che la mancanza del c.d. preavviso di rigetto determina l’illegittimità del provvedimento finale solo ove questo abbia precluso una partecipazione attiva del privato all’attività amministrativa, ciò comporta che, in questi casi, possa trovare applicazione solamente il primo periodo del co. 2, art. 21-octies, legge n. 241 del 1990 secondo cui “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”[46].
La conseguenza della dequotazione dei vizi formali è che solamente la violazione sostanziale delle garanzie partecipative può determinare l’annullabilità del provvedimento amministrativo[47].
Quanto detto sinora sulla natura del c.d. preavviso di rigetto permette un approdo sicuro in relazione alla sua lesività ed alla conseguente impugnabilità.
Difatti, si può pervenire alla conclusione che il preavviso di rigetto è un atto endoprocedimentale, privo, per sua stessa natura, di potenzialità lesiva, avente lo scopo di consentire all'interessato di instaurare un vero e proprio contraddittorio con l'Amministrazione, mediante la presentazione delle proprie osservazioni o integrazioni documentali, al fine di aumentare così la possibilità di far modificare la determinazione dell’Amministrazione e ottenere il soddisfacimento dei suoi interessi.
Sulla base delle osservazioni presentate dal soggetto interessato, l’Amministrazione può addivenire ad una conclusione del procedimento diversa rispetto a quella prospettata nel preavviso di rigetto ovvero può confermare la propria posizione nell'atto di diniego che è il solo atto definitivo e, quindi, lesivo della sfera giuridica del destinatario[48].
L’atto impugnabile, in caso di illegittimità, è solo il provvedimento finale di diniego.
5. La novità del d.l. Semplificazioni 2020: il preavviso di rigetto adesso sospende i termini del procedimento.
Uno dei profili più interessanti della previsione dell’art. 10-bis è quello relativo alle conseguenze che la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda produce sui termini di conclusione del procedimento.
Termini che, come noto, sono ordinariamente fissati dall’art. 2 della medesima legge n. 241 del 1990 in trenta giorni o per le Amministrazioni statali in novanta giorni (che in alcuni casi particolari possono giungere sino ad un massimo di centottanta giorni).
Nella previsione originaria del 2005, si prevedeva che la comunicazione del preavviso di rigetto “interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo”, ovvero i dieci giorni successivi alla comunicazione concessi per la presentazione delle osservazioni[49].
La prima conseguenza dell’interruzione dei termini è che la comunicazione dei motivi ostativi rende irrilevante la precedente inerzia dell'Amministrazione e comporta il decorso di un nuovo termine di conclusione del procedimento, alla cui eventuale infruttuosa scadenza maturerà un silenzio assenso o diniego nei casi espressamente previsti dalla legge[50].
La seconda è che la comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento di una domanda interrompe anche i termini per la formazione di un eventuale silenzio assenso, in quei casi in cui l'ordinamento ha inteso assegnare al silenzio serbato dall'Amministrazione su un'istanza il valore di assenso alla richiesta[51].
Del resto, non potrebbe ritenersi logica la formazione di un provvedimento tacito di assenso quando la stessa Amministrazione, sia pure in modo ancora non definitivo, abbia chiaramente indicato (nel preavviso di diniego) le ragioni per le quali la domanda proposta non può essere accolta[52].
Deve essere rilevato che l’interruzione dei termini, dal punto di vista processuale, comporta l'impossibilità di attivazione dei rimedi contro l'inerzia – che non vi è – in caso di mancato invio di osservazioni.
Il richiedente che riceva la comunicazione e decida di non inviare osservazioni riservandosi l'impugnazione diretta del provvedimento finale, si trova senza tutela nel periodo intercorrente fra la riattivazione del termine procedimentale – 10 giorni dalla ricezione della comunicazione ex art. 10-bis — e l'adozione di detto provvedimento finale, non potendo invocare l'inerzia non formatasi per effetto del nuovo termine procedimentale che l'Amministrazione, in virtù della comunicazione, si è auto assegnata (né potendo impugnare il preavviso di diniego per il suo pacifico carattere di atto endoprocedimentale).
Tuttavia, la significativa modifica dell'art. 31 cod. proc. amm. dedicato al giudizio avverso il silenzio inadempimento, intervenuta con il primo correttivo al Codice[53], ha introdotto la locuzione "e negli altri casi previsti dalla legge", cosicché può affermarsi che nell'ipotesi di cui all'art. 10-bis al soggetto destinatario della comunicazione di motivi ostativi spetta quantomeno l'azione volta all'accertamento della fondatezza della pretesa[54], e ciò senza l'intermediazione dell'atto finale[55].
L’interruzione dei termini determinata ad istruttoria conclusa[56], secondo la previsione originaria dell’art. 10-bis, dalla comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza comportava necessariamente, con il nuovo decorso del termine, un allungamento dei tempi procedimentali, anche per quanto concerne, come si è poc’anzi visto, la formazione di un eventuale silenzio amministrativo, allungamento che si poteva ritenere controbilanciato dalla garanzia procedimentale prevista in favore del privato di presentare deduzioni rispetto alla determinazione dell’Amministrazione al fine di conseguire una determinata utilità[57].
Lo svantaggio che si determinava per il privato era però in ogni caso evidente e così il d.l. semplificazioni del 2020[58]è intervenuto anche su questa previsione dell’art. 10-bis.
L’interruzione non è più prevista e, difatti, nella nuova formulazione si prevede che “la comunicazione di cui al primo periodo sospende i termini di conclusione dei procedimenti, che ricominciano a decorrere dieci giorni dopo la presentazione delle osservazioni o, in mancanza delle stesse, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo”.
La novella non è di poco conto perché la comunicazione dei motivi ostativi non interrompe più il termine di conclusione del procedimento ma lo sospende solamente facendolo riprendere dieci giorni dopo la presentazione delle osservazioni.
La conseguenza è lampante: i tempi procedimentali si possono allungare anche con la sospensione del termine, ma non certamente come nel caso dell’interruzione, ove il termine decorreva nuovamente dall’inizio[59].
È una novità da accogliere con favore perché anche il termine di conclusione del procedimento, alla stessa stregua del c.d. preavviso di rigetto, è una garanzia procedimentale per il privato, nonché un incentivo all’efficacia dell’azione amministrativa[60].
6. Osservazioni conclusive sull’orientamento del Consiglio di Stato.
Dato conto dell’imprescindibile ruolo del preavviso di rigetto nel rendere effettive le garanzie partecipative del cittadino nel rapporto con l’Amministrazione, il Consiglio di Stato ha accolto l’appello, riformando la sentenza di primo grado ed annullando quindi il provvedimento di diniego per violazione dell’art. 10 bis, in virtù della mancata considerazione delle osservazioni comunicate dall’istante in riscontro al preavviso di rigetto, avendo l’Amministrazione assunto il provvedimento di diniego sulla base degli stessi rilievi riportati nella comunicazione dei motivi ostativi ex art. 10 bis legge n. 241/90, senza indicare in alcun modo le ragioni per cui le specifiche osservazioni formulate dall’istante, incidenti tanto sulla ricostruzione dei fatti di causa (in specie, in ordine all’esistenza, anziché di un locale tecnico, di un’intercapedine tombata) quanto sulla qualificazione delle opere in contestazione (se collegate o meno ad opere abusive e se qualificabili come volume tecnico), non potessero essere accolte.
Il Consiglio di Stato ha correttamente raggiunto questa conclusione ricordando, sulla base peraltro di orientamenti consolidati, che l'istituto del preavviso di rigetto, attesa la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui all’art. 10 bis, in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque della possibilità di uno apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda[61].
La lesione del contraddittorio procedimentale, difatti, è idonea ad inficiare la legittimità del provvedimento anche nei procedimenti vincolati, quale quello di sanatoria, allorquando il contraddittorio procedimentale con il privato interessato avrebbe potuto fornire all'Amministrazione elementi utili, se non imprescindibili, ai fini della decisione, ad esempio in ordine alla ricostruzione dei fatti o all'esatta interpretazione delle norme da applicare[62].
Perché la violazione dell'art. 10 bis possa comportare l'illegittimità del provvedimento impugnato, il privato non può limitarsi a denunciare la lesione delle proprie garanzie partecipative, ma è tenuto anche ad indicare gli elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti in fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto finale del provvedimento, rendendolo diverso[63].
Ne deriva che la violazione di questa norma è idonea a determinare l’annullamento del diniego di sanatoria, qualora, alla stregua degli elementi deduttivi e istruttori forniti dal cittadino, vi sia il dubbio che, in caso in osservanza delle disposizioni procedimentali in concreto violate, il contenuto dispositivo dell’atto sarebbe stato identico a quello in concreto assunto.
Nel caso di specie, il Consiglio di Stato ha statuito che non soltanto ricorre la violazione dell’art. 10 bis, ma non può ritenersi neppure con certezza che, in caso di corretta applicazione di questa norma, l’Amministrazione sarebbe comunque pervenuta al medesimo esito, di diniego dell’istanza di parte.
In particolare, si deve osservare che un'applicazione corretta dell'art.10 bis comporta, non solo che l'Amministrazione enunci compiutamente nel preavviso di provvedimento negativo le ragioni che intende assumere a fondamento del diniego, ma anche che le integri, nella determinazione conclusiva, se ancora negativa, con le argomentazioni finalizzate a confutare la fondatezza delle osservazioni formulate dall'interessato nell'ambito del contraddittorio predecisorio attivato dall'adempimento procedurale in questione[64].
Solamente perseguendo questa traiettoria è possibile assicurare un effettivo ed utile confronto dialogico con l'interessato prima della formalizzazione dell'atto negativo, evitando che il preavviso di rigetto si traduca in un inutile adempimento formale[65], circostanza che le novità apportate dal d.l. Semplificazioni vogliono assolutamente evitare e che pertanto debbono trovare una piena implementazione[66], anche al fine di una maggiore trasparenza dell’azione amministrativa[67].
[1] Sulle novità introdotte dalla legge n. 15 del 2005 e su come questa abbia, in realtà, alterato la filosofia complessiva della legge n. 241 soprattutto nella parte in cui ha introdotto uno statuto formale del provvedimento cfr. M. Ramajoli, Lo statuto del provvedimento amministrativo a vent’anni dall’approvazione della legge n. 241/90, ovvero del nesso di strumentalità triangolare tra procedimento, atto e processo, in Dir. proc. amm., 2010, 459 ss.
[2] Tra i primi commenti successivi all’introduzione dell’istituto del preavviso di rigetto cfr. L. Ferrara, La comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza (art. 10 bis, legge n. 241/1990) nel riformato quadro delle garanzie procedimentali, in Aa. Vv., Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, Padova, Cedam, 2007, vol. II, 83 ss.; A. Rallo, Comunicazione dei motivi ostativi ex art. 10 bis l. 241/90 e partecipazione post-decisionale: dal contraddittorio oppositivo al dialogo sul possibile, in Aa. Vv., Scritti in onore di V. Spagnuolo Vigorita, Napoli, 2007, II, 1080 ss.; F. Saitta, Preavviso di rigetto ed atti di conferma: l’errore sta nella premessa, in Foro amm. TAR, 2008, 3235 ss.; D. Vaiano, Preavviso di rigetto e principio del contraddittorio nel procedimento amministrativo, in L.R. Perfetti (a cura di), Le riforme della l. 7 agosto 1990 n. 241 tra garanzia della legalità ed amministrazione di risultato, Padova, Cedam, 2008, 47 ss.
[3] Sul punto v. S. Tarullo, L'art. 10-bis della legge n. 241/1990: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, in GiustAmm.
[4] In letteratura è stato rilevato come il passaggio “da un tipo di amministrazione ancora tradizionalmente “separata ed autoritaria” ad un'amministrazione di tipo nuovo, colloquiale e, dunque, “relazionale” sia idonea a determinare un vero e proprio “cambio di paradigma” nell’attività e nell’organizzazione di quest'ultima: così G. Azzariti, Introduzione: la comunicazione come funzione, in G. Arena (a cura di), La funzione di comunicazione nelle pubbliche amministrazioni, Rimini, 2001, 15 ss.
[5] Cfr. V. Cerulli Irelli, Verso un più compiuto assetto della disciplina generale dell'azione amministrativa (un primo commento alla legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante «Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990 n. 241»), in Astrid Rassegna, n. 4 del 2005.
[6] La definizione è ancora di S. Tarullo, L'art. 10-bis della legge n. 241/1990: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, cit.
[7] Queste espressioni sono da ricondurre a M. D’Alberti, La “visione” e la “voce”: le garanzie di partecipazione ai procedimenti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, 22 ss.
[8] In tema cfr. E. Frediani, Partecipazione procedimentale, contraddittorio e comunicazione: dal deposito di memorie scritte e documenti al “preavviso di rigetto”, in Dir. amm., 2005, 1003 ss.
[9] Cfr., ad esempio, S. Licciardello, Diritto amministrativo, Milano, Le Monnier, 2020, 181 ss.
[10] Sul punto v. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VI, 1° giugno 2020, n. 2093, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui “l'introduzione nell'ordinamento, con legge 11 febbraio 2005 n. 15, del preavviso di rigetto ha segnato l'ingresso di una modalità di partecipazione al procedimento, con la quale si è voluta "anticipare" l'esplicitazione delle ragioni del provvedimento sfavorevole alla fase endoprocedimentale, allo scopo di consentire una difesa ancora migliore all'interessato, mirata a rendere possibile il confronto con l'amministrazione sulle ragioni da essa ritenute ostative all'accoglimento della sua istanza, ancor prima della decisione finale”.
[11] Sul punto cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 1° settembre 2020, n. 1628, in www.giustizia-amministrativa.it.
[12] T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 8 ottobre 2020, n. 1067, in www.giustizia-amministrativa.it.
[13] Così Cons. Stato, Sez. III, 5 dicembre 2019, n. 8341, in www.giustizia-amministrativa.it; in ultimo ribadito da T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VI, 4 febbraio 2021, n. 777, in www.giustizia-amministrativa.it.
[14] In materia Cons. Stato, Sez. VI, 10 febbraio 2020, n. 1001, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 7 ottobre 2016, n. 2463, in Foro amm., 2016, 2528 ss.
[15] Ad esempio, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 1° aprile 2021, n. 2230, in www.giustizia-amministrativa.it; id., 10 febbraio 2020, n. 625, in Foro amm., 2020, 338 ss.
[16] Sul punto Cons. Stato, Sez. II, 7 settembre 2020, n. 5379, in www.giustizia-amministrativa.it, da ultimo, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 9 febbraio 2021, n. 840, in Foro amm., 2021, 317 ss.
[17] T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 2 novembre 2020, n. 695, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 20 febbraio 2020, n. 2257, ivi; analogo discorso vale per il procedimento volto al riconoscimento dell’equo indennizzo per infermità dipendente da causa di servizio: T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. III, 25 settembre 2020, n. 2301, in www.giustizia-amministrativa.it.
[18] Ad esempio, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 1° giugno 2020, n. 5841, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Così T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VI, 10 marzo 2020, n. 1100, in www.giustizia-amministrativa.it.
[20] In questo senso T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 3 marzo 2020, n. 2752, in l’Amministrativista, 2020.
[21] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 8 gennaio 2020, n. 131, in www.giustizia-amministrativa.it.
[22] T.A.R. Umbria, Sez. I, 3 gennaio 2020, n. 18, in www.giustizia-amministrativa.it, in quanto rientranti, seppur in termini generali, nella categoria dei procedimenti concorsuali, già espressamente esclusi dall’ambito di applicazione dell’istituto dallo stesso art. 10-bis.
[23] Sui problemi applicativi di questa dichiarazione cfr. L. Bertonazzi, Scia e tutela del terzo nella sentenza della Corte costituzionale n. 45/2019, in Dir. proc. amm., 2019, 711 ss.; E. Frediani, Scia, tutela del terzo ed esigenze di coerenza, in Giorn. dir. amm., 2019, 579 ss.; G. Greco, SCIA e tutela del terzo al vaglio della Corte costituzionale: è troppo auspicare un ritorno al passato (o quasi), in GiustAmm, 2018; W. Giulietti, A. Giusti, Tutela del terzo nella scia e principio di effettività, ricercando un’interpretazione costituzionalmente conforme del c. 6 ter dell’art. 19 l. proc., in GiustAmm, 2018; E. Boscolo, La SCIA dopo la legge Madia e i decreti attuativi, in Giur. it., 2016, 2799 ss.; P.M. Vipiana, I poteri amministrativi a seguito di SCIA al vaglio della Consulta, in Giur. it., 2016, 2234 ss.; D. Vese, La segnalazione certificata di inizio attività come modello di semplificazione procedimentale, Pisa, Pacini, 2016; F. Volpe, L’annullamento del silenzio assenso e della s.ci.a. Riflessioni di teoria generale a seguito dell’abrogazione dell’art. 21, comma 2, legge 7 agosto 1990, n. 241, in GiustAmm, 2015; G. Greco, Ancora sulla Scia: silenzio e tutela del terzo (alla luce del comma 6-ter dell’art. 19 l. 241/90), in Dir. proc. amm., 2014, 645 ss.; F. Saitta, S.c.i.a. ed autotutela, tra contraddizioni legislative e…giurisprudenza creativa, in GiustAmm, 2014; G. Crepaldi, Le prospettive di tutela del terzo nell’ambito della Scia, in Dir. econ., 2013, 279 ss.; R. Ferrara, La segnalazione certificata di inizio attività e la tutela del terzo: il punto di vista del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 2012, 172 ss.; M. Ramajoli, La S.c.i.a. e la tutela del terzo, in Dir. proc. amm., 2012, 329 ss.; E. Zampetti, D.i.a. e S.c.i.a. dopo l’adunanza plenaria n. 15/2011: la difficile composizione del modello sostanziale con il modello processuale, in Dir. amm., 2011, 811 ss.; M.A. Sandulli, Dalla d.i.a. alla s.c.i.a.: una liberalizzazione “a rischio”, in Riv. giur. edil., 2010, 465 ss.; B.G. Mattarella, La scia, ovvero dell’ostinazione del legislatore pigro, in Giorn. dir. amm., 2010, 1328 ss.
[24] Da ultimo, in questo senso, cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 3 dicembre 2021, n. 7787, in www.giustizia-amministrativa.it; id., Sez. IV, 3 dicembre 2021, n. 7772, ivi.
[25] Così concorde, ad esempio, Cons. Stato, Sez. V, 18 febbraio 2019, n. 1111, in Foro amm., 2019, 227 ss.; T.A.R. Abruzzo, Pescara, Sez. I, 28 ottobre 2019, n. 256, in Foro amm., 2019, 1730 ss.
[26] Così, ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 4 novembre 2020, n. 6815, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Valle d’Aosta, Sez. I, 15 marzo 2021, n. 17, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 15 febbraio 2021, n. 1808, in www.giustizia-amministrativa.it.
[27] Per una più ampia trattazione si consenta il rinvio a M. Ricciardo Calderaro, Il preavviso di rigetto ai tempi della semplificazione amministrativa, in Federalismi, n. 11-2022, 126 ss.
[28] Sul punto v. anche T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 2 marzo 2020, n. 947, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui è legittimo il provvedimento sorretto da una motivazione esaustiva e logica, tale da evidenziare inequivocabilmente le ragioni delle diverse conclusioni raggiunte.
[29] È interessante notare come in alcune pronunzie minoritarie (ad esempio, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. IV, 9 marzo 2020, n. 1041 e T.A.R. Veneto, Sez. III, 21 gennaio 2019, n. 72, in www.giustizia-amministrativa.it), il giudice amministrativo affermi che “non deve sussistere un rapporto di identità, tra il preavviso di rigetto e la determinazione conclusiva del procedimento, né una corrispondenza puntuale e di dettaglio tra il contenuto dei due atti, ben potendo la pubblica amministrazione ritenere, nel provvedimento finale, di dover meglio precisare le proprie posizioni giuridiche, sempre che il contenuto sostanziale del provvedimento conclusivo di diniego si inscriva nello schema delineato dalla comunicazione resa ai sensi dell'art. 10- bis l. n. 241/1990, esclusa ogni possibilità di fondare il diniego definitivo su ragioni del tutto nuove”.
[30] Così anche T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 18 dicembre 2020, n. 6255, in www.giustizia-amministrativa.it; da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 10 gennaio 2022, n. 158, ivi, secondo cui l'onere dell'Amministrazione di illustrare le ragioni per le quali non abbia tenuto conto delle osservazioni dei privati, presentate ai sensi dell'art. 10-bis l. n. 241/1990, non deve essere inteso in senso formalistico.
[31] È evidente che, laddove il provvedimento finale non tenesse conto in alcun modo dell’apporto partecipativo del privato, questo risulterebbe illegittimo per violazione di legge, ed in particolare dell’art. 10-bis, legge n. 241 del 1990: in questo senso T.A.R. Sardegna, Sez. II, 2 luglio 2020, n. 367, in www.giustizia-amministrativa.it.
[32] Secondo, ad esempio, il T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 4 agosto 2020, n. 3500, in www.giustizia-amministrativa.it, le garanzie partecipative e gli obblighi motivazionali ex artt. 3 e 10 bis, l. n. 241/1990 non possono tradursi - a discapito dei principi procedimentali di efficacia e celerità - in un interminabile confronto dialettico con l'interessato e in un'analitica replica agli argomenti da quest'ultimo propugnati, essendo sufficienti, per la loro osservanza, il compiuto apprezzamento e la perspicua esplicazione dei presupposti fattuali e delle ragioni giuridiche che, in positivo, ossia in logica ed insuperata antitesi alle anzidette deduzioni, hanno giustificato la preannunciata determinazione sfavorevole.
[33] In tema, tra gli ultimi scritti, si rinvia a G. Tropea, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto: derive e approdi, in Dir. proc. amm., 2017, 1235 ss.
[34] Tenendo in considerazione, però, che il preavviso di rigetto è un adempimento che “va preso sul serio”: così M. Brocca, Il preavviso di diniego e la costruzione della decisione amministrativa (nota a Tar Campania, Sez. III, 7 gennaio 2021, n. 130), in Giustiziainsieme, 25 febbraio 2021.
[35] Sul punto, da ultimo, v. T.A.R. Puglia, Bari, Sez. II, 4 giugno 2021, n. 973, in www.giustizia-amministrativa.it; ma già Cons. Stato, Sez. IV, 10 dicembre 2007, n. 6325, in Foro amm. CdS, 2007, 3389.
[36] Secondo M.C. Cavallaro, Attività vincolata dell’amministrazione e sindacato giurisdizionale, in Il processo, 2020, 1 ss., “la legge n. 241 del 1990 rappresenta in un certo senso la sintesi delle due visioni contrapposte, dal momento che in essa è possibile cogliere quei profili più garantisti delle tutele del privato, maggiormente legati allo spirito della legalità formale, che si accompagnano alle esigenze di semplificazione ed efficienza dell'azione amministrativa, le quali idealmente rispondono alle istanze della legalità sostanziale o di risultato”.
[37] Così, tra le ultime pronunzie, Cons. giust. amm. Reg. Sicilia, sez. giurisd., 27 ottobre 2020, n. 996, in www.giustizia-amministrativa.it.
[38] Cons. Stato, Sez. VI, 10 febbraio 2020, n. 1001, in www.giustizia-amministrativa.it.
[39] È conforme all’orientamento del giudice amministrazione anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione: in questo senso, ad esempio, Cass. civ., Sez. I, 10 giugno 2020, n. 11083, in Guida dir., 2020, 46, 57 ss.
[40] Qui si deve richiamare quanto scritto da F. Fracchia, M. Occhiena, Teoria dell'invalidità dell'atto amministrativo e art. 21-octies, l. 241/1990: quando il legislatore non può e non deve, in Giustamm, 2005.
[41] Così Cons. Stato, Sez. IV, 13 febbraio 2020, n. 1144, in www.giustizia-amministrativa.it.
[42] In questi termini Cons. Stato, Sez. II, 12 febbraio 2020, n. 1081, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. III, 19 febbraio 2019, n. 1156, in www.giustizia-amministrativa.it; id., Sez. IV, 11 gennaio 2019, n. 256, in Foro amm., 2019, 62 ss.
[43] Sul punto, ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 28 marzo 2019, n. 2052, in www.giustizia-amministrativa.it.
[44] In giurisprudenza v., ad esempio, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 11 febbraio 2020, n. 1805, in Foro amm., 2020, 305 ss.
[45] Su cui si v. R. Fusco, Il necessario contraddittorio col privato nell’esercizio dei poteri discrezionali: l’efficacia invalidante del preavviso di rigetto (nota a Cons. St., Sez. II, 14 marzo 2022, n. 1790), in GiustiziaInsieme, 6 luglio 2022.
[46] Così, da ultimo, Cons. Stato, Sez. II, 2 agosto 2021, n. 5676, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. II, 22 dicembre 2020, n. 8230, ivi.
[47] Riprendendo le parole di A. Falzea, Forma e sostanza nel sistema culturale del diritto, in Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, vol. I, Milano, 1999, 178, “la condizione ottimale di ogni società giuridicamente organizzata sta nell'equilibrata presenza e nel corretto temperamento della componente sostanziale e della componente formale del diritto”.
[48] Così, ad esempio, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 17 marzo 2020, n. 1173, in www.giustizia-amministrativa.it; ma già Cons. Stato, Sez. VI, 9 giugno 2005, n. 3043, in Foro amm. CdS, 2005, 1833 ss.
[49] T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 9 maggio 2012, n. 2137, in Riv. giur. edil., 2012, 822 ss.
[50] Sul punto v., ad esempio, T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. II, 8 agosto 2019, n. 2074, in www.giustizia-amministrativa.it.
[51] La bibliografia in tema di silenzio dell’Amministrazione è molto vasta. Al riguardo, tra i tanti, cfr. M. Andreis, La conclusione inespressa del procedimento, Milano, Giuffrè, 2006; B. Tonoletti, Silenzio della pubblica amministrazione, in Dig. disc. pubbl., 1999, p. 179 ss.; V. Parisio, I silenzi della pubblica amministrazione. La rinuncia alla garanzia dell’atto scritto, Milano, Giuffrè, 1996; Id., Il silenzio della pubblica amministrazione tra prospettive attizie e fattuali, alla luce delle novità introdotte dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15 e dalla l. 14 maggio 2005, n. 80, in Foro amm. TAR, 2006, 2798 ss.; A. Cioffi, Dovere di provvedere e silenzio-assenso della pubblica amministrazione dopo la legge 14 maggio 2005, n. 80, in Dir. amm., 2006, 99 ss.; C.E. Gallo, Silenzio e comportamento della p.a. tra giudice amministrativo e giudice ordinario, in Urb. e app., 2005, 171 ss.; A. Romeo, Brevi note in tema di silenzio della p.a. e obbligo di provvedere, in Foro amm. CdS, 2003, 3481 ss.; C.E. Gallo, Il silenzio della p.a.: profili sostanziali e processuali, in S. Raimondi, R. Ursi (a cura di), La riforma della giustizia amministrativa in Italia ed in Spagna: atti del convegno di studi italo-spagnolo (Palermo, 19-23 marzo 2001), Torino, Giappichelli, 2002, 85 ss.; F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del suo nuovo trattamento processuale, in Dir. proc. amm., 2002, 261 ss.; A. Travi, Silenzio-assenso, denuncia di inizio attività e tutela dei terzi controinteressati, in Dir. proc. amm., 2002, 16 ss.; G.B. Garrone, Silenzio della p.a. (Ricorso giurisd. amm.), in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1999, vol. XIV, 191 ss.; F.G. Scoca, M. D’Orsogna, Silenzio, clamori di novità, in Dir. proc. amm., 1995, 393 ss.; A. Travi, Silenzio assenso ed esercizio della funzione amministrativa, Padova, Cedam, 1985; A.M. Sandulli, Il silenzio della pubblica amministrazione oggi: aspetti sostanziali e processuali, in Dir. e soc., 1982, p. 715 ss.; F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, Giuffrè, 1971; dal punto di vista processuale, in particolare, v. A. Scognamiglio, Rito speciale per l’accertamento del silenzio e possibili contenuti della sentenza di condanna, in Dir. proc. amm., 2017, 450 ss.; M. Ramajoli, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Dir. proc. amm., 2014, 709 ss.; C. Benetazzo, Il potere del giudice amministrativo di “conoscere della fondatezza dell’istanza” nel giudizio avverso il silenzio-rifiuto della P.A., in Foro amm. TAR, 2010, 501 ss.; più di recente, ancora sull’istituto del silenzio, cfr. M.A. Sandulli, Silenzio assenso e termine a provvedere. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, in Il processo, 2022, 11 ss.; M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere: le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in Federalismi, n. 10-2020, 21 ss.; P. Otranto, Silenzio e interesse pubblico nell’attività amministrativa, Bari, Cacucci, 2018.
[52] In tema v. T.A.R. Valle d’Aosta, Sez. I, 11 giugno 2015, n. 41, in Foro amm., 2015, 1735 ss.
[53] Su cui v., ad esempio, C.E. Gallo, Il decreto correttivo al codice del processo amministrativo, in Urb. e app., 2012, 23 ss.
[54] Ovviamente, come ricordato ad esempio da T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 22 febbraio 2021, n. 2173, in www.giustizia-amministrativa.it, il giudice, a’ sensi dell'art. 31, co. 3, in caso di ricorso avverso il silenzio-inadempimento della Amministrazione, può pronunciare sulla fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio solamente nel caso in cui si tratti di attività vincolata, oppure quando risulti che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori da parte dell'Amministrazione.
[55] Sul punto v. T.A.R. Veneto, Sez. III, 28 marzo 2012, n. 426, in Foro amm. TAR, 2012, 745 ss.
[56] T.A.R. Veneto, Sez. III, 24 aprile 2007, n. 1299, in Foro amm. TAR, 2007, 1280 ss.
[57] Così T.A.R. Veneto, Sez. III, 7 maggio 2008, n. 1256, in Foro amm. TAR, 2008, 1248 ss.
[58] Su cui in generale v. il volume di S. Foà, A. Camaiani (a cura di), Gestione nazionale della pandemia, misure giuridiche tra Costituzione e Cedu. Profili critici, Torino, Giappichelli, 2022.
[59] In realtà, come osservato da G. Crepaldi, La sospensione del termine per la conclusione del procedimento amministrativo, in Foro amm. CdS, 2007, 108 ss., la disposizione originaria, pur parlando espressamente di interruzione del termine, si prestava ad interpretazioni equivoche, che potevano far ritenere che il legislatore si riferisse alla mera sospensione del termine; sul punto v. altresì C. Videtta, Note a margine del nuovo art. 10 bis, l. n. 241 del 1990, in Foro amm. Tar, 2006, 837 ss.; G. Bottino, La comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza di parte: considerazioni su di una prima applicazione giurisprudenziale del nuovo art. 10 bis, l. n. 241 del 1990, nota a Tar Lazio, sez. II, 18 maggio 2005 n. 3921, in Foro amm. Tar, 2005, 1554 ss.
[60] Al riguardo, per esemplificare il ritmo sollecito che deve scandire il procedimento amministrativo, si può richiamare l’efficace espressione “ansia di provvedere” di E. Casetta, La difficoltà di semplificare, in Dir. amm., 1998, 345; in tempi più recenti v. anche F. Fracchia, P. Pantalone, La fatica di semplificare: procedimenti a geometria variabile, amministrazione difensiva, contratti pubblici ed esigenze di collaborazione del privato “responsabilizzato”, in Federalismi, fasc. n. 36-2020, 33 ss.
[61] In tema v., ad esempio, Cons. Stato, Sez. VI, 5 agosto 2019, n. 5537, in www.giustizia-amministrativa.it.
[62] Cons. Stato, Sez. VI, 1° marzo 2018, n. 1269, in Riv. giur. edil., 2018, 3, I, 752 ss.
[63] Cons. Stato, Sez. VI, 16 settembre 2022, n. 8043, in www.giustizia-amministrativa.it.
[64] Cons. Stato, Sez. VI, 27 settembre 2018, n. 5557, in Foro amm., 2018, 1469 ss.
[65] V. al riguardo le riflessioni di A. Cauduro, Gli obblighi dell’amministrazione pubblica per la partecipazione procedimentale, Napoli, Jovene, 2023, spec. 122 ss.
[66] Concorde è la posizione di M.R. Spasiano, Nuovi approdi della partecipazione procedimentale nel prisma del novellato preavviso di rigetto, in M. Andreis, G. Crepaldi, S. Foà, R. Morzenti Pellegrini, M. Ricciardo Calderaro (a cura di), Studi in onore di Carlo Emanuele Gallo, Torino, Giappichelli, 2023, Vol. I, 523 ss.
[67] Su cui v. S. Foà, La nuova trasparenza amministrativa, in Dir. amm., 2017, 65 ss.
Sommario: 1. Premessa. - 2. L’applicabilità del rinvio pregiudiziale nel processo tributario. - 3. Il rinvio pregiudiziale e la questione di giurisdizione. - 4. Conclusioni.
1. Premessa.
L’ordinanza n. 428 del 31 marzo 2023 della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Agrigento e il successivo provvedimento della Prima Presidente della Corte di Cassazione del 18 aprile 2023 offrono l’opportunità di soffermarsi sul rinvio pregiudiziale alla Corte Suprema nel giudizio tributario.
Al riguardo, il disegno di legge governativo n. 2636 del 1° giugno 2022, che ha condotto alla L. n. 130/2022 sulla riforma del processo tributario, prevedeva (all’art. 2, comma 1) l’introduzione nel c.p.c. dell’art. 363-bis, che avrebbe contemplato la richiesta da parte del Procuratore Generale presso la Cassazione dell’enunciazione, ad opera della Suprema Corte, del principio di diritto in materia tributaria, nonché [all’art. 2, comma 2, lett. g)] l’inserimento nel D.L.vo n. 546/1992 dell’art. 62-ter sul rinvio pregiudiziale alla Cassazione da parte dei giudici tributari di merito.
Come noto, queste disposizioni non sono state approvate dal Parlamento.
Pertanto, può farsi solo riferimento alle norme, per così dire, “generali” contenute nel c.p.c., ossia agli artt. 363 e 363-bis[1].
Mentre l’applicabilità dell’art. 363 in ambito tributario non ha sollevato particolari dubbi[2], una parte della dottrina ha avanzato delle perplessità sulla possibilità per i giudici tributari di avvalersi del rinvio pregiudiziale[3].
La Corte agrigentina – che per prima si è avvalsa dell’art. 363-bis in materia tributaria – sostiene, invece, che detto rinvio possa operare nel giudizio tributario e ne ha chiesto conferma alla Corte Suprema proprio avvalendosi del relativo istituto.
La Prima Presidente, ritenuta la questione ammissibile poiché controversa e suscettibile di ripetersi in una pluralità di giudizi tributari, ha rimesso la decisione in proposito alle Sezioni Unite della Cassazione, unitamente a quella sull’altro profilo evocato nell’ordinanza di rimessione, riguardante una questione giuridica in tema di giurisdizione, su cui mi soffermerò in seguito.
2. L’applicabilità del rinvio pregiudiziale nel processo tributario.
Viene in rilievo, anzitutto, l’utilizzabilità nel processo tributario del rinvio pregiudiziale.
Il convincimento espresso dalla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Agrigento è pienamente condivisibile ed è perciò auspicabile che le Sezioni Unite della Cassazione lo confermino quanto prima poiché l’art. 363-bis può operare nel giudizio tributario grazie alla clausola generale di applicabilità delle norme del c.p.c., in quanto compatibili, recata dall’art. 1, comma 2, del D.L.vo n. 546[4].
Non v’è dubbio, infatti, sulla compatibilità dell’art. 363-bis con la disciplina del processo tributario.
In particolare, non è di ostacolo il fatto che l’art. 363-bis, comma 1, n. 1) prescriva che la questione sia necessaria alla definizione “anche parziale” della lite.
Vero è che in materia tributaria non sono ammesse sentenze parziali (dall’art. 35, comma 3, del D.L.vo n. 546), ma ben può porsi la necessità di risolvere – attraverso il rinvio pregiudiziale – una questione di diritto occorrente per decidere una delle molteplici domande avanzate dalle parti al giudice tributario.
Né crea ostacoli l’espressione “giudice di merito”, che si rinviene nell’art. 363-bis, comma 1: ad essa non può assegnarsi il significato di “giudice ordinario di merito”, sì da escluderne la riferibilità ai giudici tributari. Il legislatore ha solo inteso prevedere che di questo istituto possano avvalersi i giudici – “di merito” appunto – diversi dalla Cassazione, ma da ciò non può desumersi l’inibizione al relativo impiego per i giudici speciali, quali quelli tributari, che ordinariamente applicano le norme del c.p.c. nell’espletamento della loro funzione giurisdizionale, per quanto non disposto dal D.L.vo n. 546 e con esso compatibili.
D’altronde, opinando diversamente, si verrebbe a legittimare una disparità di regime assolutamente irragionevole in quanto i giudici tributari, pur facendo impiego delle norme sul processo civile e vedendo impugnate le loro pronunce di appello dinanzi alla Cassazione civile, non potrebbero invocare l’intervento della Corte Suprema per dirimere i dubbi sussistenti su questioni esclusivamente di diritto. Regime vieppiù irragionevole, oltretutto, se si considera quanto è cospicua la mole delle cause fiscali pendenti di fronte alla Cassazione e come il rinvio possa concorrere a ridurla.
Per altro verso, non rileva che, secondo l’art. 363-bis, ultimo comma, il principio di diritto enunciato dalla Corte Suprema mantenga la propria efficacia vincolante, in caso di estinzione del giudizio, “anche nel nuovo processo in cui è proposta la medesima domanda tra le stesse parti”.
La circostanza per cui l’estinzione del processo tributario sorto a seguito dell’impugnazione di un atto impositivo ne determini l’irretrattabilità e inibisca la riproposizione delle domande svolte nel giudizio estinto non può addursi per escludere l’operatività del rinvio pregiudiziale dinanzi alle Corti di Giustizia Tributaria.
Il precetto recato nell’ultimo comma dell’art. 363-bis può comunque spiegare effetti nel giudizio tributario di rimborso: la relativa estinzione non preclude la riproposizione della stessa domanda nei confronti della medesima parte, nel rispetto del termine di prescrizione del diritto di restituzione azionato.
Ancora, l’art. 363-bis, comma 2 prevede che “Il procedimento è sospeso dal giorno in cui è depositata l’ordinanza, salvo il compimento degli atti urgenti e delle attività istruttorie non dipendenti dalla soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale”.
Anche questo precetto non contraddice l’assetto del processo tributario. A seguito del rinvio pregiudiziale, la riscossione provvisoria della pretesa impositiva e/o sanzionatoria si presta comunque a essere inibita – pur essendo il giudizio sospeso – poiché il comma 2 in esame rende esperibile, da parte del giudice a quo, la tutela cautelare, riconducibile com’è alla nozione degli “atti urgenti” ivi menzionati.
Non si vedono, dunque, ragioni per negare la compatibilità dell’art. 363-bis con il regime processualtributario.
Ma quel che più conta, come anticipato, è che il rinvio pregiudiziale può assolvere una funzione tanto rilevante quanto positiva nel giudizio tributario.
Sebbene sia innegabile che in ambito tributario più che in altri comparti dell’ordinamento la questione giuridica risulti spesso strettamente connessa a quella fattuale, sì da renderne difficile l’enucleazione, è parimenti incontestabile la ricorrenza di casi nei quali a lungo si discute, con alterne vicende, nelle fasi di merito di temi prettamente giuridici senza che sussista alcun contrasto fra le parti sulla ricostruzione dei fatti di causa, che si presentano perfettamente analoghi in ciascuna controversia.
Si pensi, per esempio, all’applicazione della cosiddetta “cedolare secca”[5] ai contratti di locazione di immobili a uso abitativo a imprese che li mettono a disposizione dei propri dipendenti. Sul punto, in presenza di dati fattuali del tutto pacifici, si registrano prese di posizioni contraddittorie nella giurisprudenza di merito[6]. Oppure si considerino le recenti rimessioni alle Sezioni Unite sul diritto a detrarre l’IVA assolta su immobili di proprietà di terzi dei quali si abbia la detenzione[7] o sulla distinzione fra le nozioni di crediti d’imposta non spettanti e crediti d’imposta inesistenti (cui si correla un diverso termine decadenziale di recupero e un diverso regime sanzionatorio, sia amministrativo che penale)[8], che ben avrebbero potuto formare oggetto di rinvio pregiudiziale.
Sono consapevole che non saranno numerosi i casi nei quali, a fronte di una ricostruzione incontrovertibile dei fatti, emerga “una questione esclusivamente di diritto” controversa.
Però, quando ciò accada, il rinvio pregiudiziale può consentire la formazione in tempi più rapidi rispetto al passato dell’orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità. Ed è ragionevole immaginare che ne possa discendere una significativa riduzione del contenzioso sia nelle fasi di merito che dinanzi alla Corte Suprema, soprattutto ove si tenga presente la spiccata serialità di molte controversie tributarie.
Fra l’altro, l’Agenzia delle Entrate non potrà sottrarsi dal favorire detto rinvio, in ragione della funzione che essa assolve, ex art. 5, comma 1, della L. n. 212/2000, di diffondere la corretta conoscenza delle norme tributarie, al fine di agevolarne il rispetto da parte dei contribuenti. Anzi, è lecito aspettarsi che sia proprio l’Amministrazione finanziaria a promuovere il rinvio pregiudiziale allo scopo di pervenire sollecitamente alla soluzione di questioni giuridiche che la vedono contrapposta ai privati.
Nulla, invero, vieta che siano le parti a chiedere al giudice di ricorrere all’istituto in esame, pur restando poi rimessa solamente all’organo giudicante la determinazione se disporre o meno il rinvio pregiudiziale.
Inoltre, come giustamente evidenzia l’ordinanza della Corte agrigentina, l’istituzionalizzazione normativa, grazie all’art. 3, comma 1, della L. n. 130/2022, della sezione tributaria presso la Corte di Cassazione ne ribadisce e rafforza il fine di assicurare l’uniformità interpretativa del diritto tributario, in attuazione dell’art. 65, comma 1, del R.D. n. 12/1941. Talché il rinvio pregiudiziale rappresenta uno strumento per garantire “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”, come appunto prescrive l’art. 65, comma 1, di cui sarebbe davvero irragionevole negare la fruizione ai giudici tributari.
Tutto induce, quindi, a ritenere operante l’art. 363-bis nel giudizio tributario, sì che non v’è da dolersi della mancata approvazione di una norma ad hoc caratterizzata da diversi presupposti applicativi, così come prospettata nel disegno di legge n. 2636, anche perché il processo civile dinanzi alla Cassazione non può che essere unitario e non v’è alcuna necessità di un regime “speciale” per la materia tributaria[9]. Ed è stata probabilmente quest’ultima, corretta, valutazione che ha spinto il legislatore a stralciare la norma sul rinvio pregiudiziale contenuta nel disegno di legge n. 2636. Difatti, l’imminente introduzione dell’art. 363-bis, con il D.L.vo n. 149/2022 in attuazione della L. n. 206/2021 sulla riforma del processo civile (sviluppatasi parallelamente a quella sul giudizio tributario), l’avrebbe resa del tutto inutile e distonica, ben potendo i giudici tributari avvalersi della disposizione processualcivilistica.
3. Il rinvio pregiudiziale e la questione di giurisdizione.
Come accennato, l’ordinanza della Corte di Agrigento pone alla Cassazione un’ulteriore questione oltre a quella attinente all’applicabilità del rinvio pregiudiziale nel giudizio tributario.
Essa scaturisce da un contrasto di indirizzi interpretativi dei giudici tributari circa la sussistenza o meno della giurisdizione delle Corti di Giustizia Tributaria per le cause nascenti dall’impugnazione degli atti di scarto telematici del contributo a fondo perduto contemplato dall’art. 25 del D.L. n. 34/2020, poi convertito dalla L. n. 77/2020, tra le misure di sostegno all’economia introdotte nell’ambito dell’emergenza pandemica.
Il punto controverso è rappresentato dal comma 12 dell’art. 25, secondo cui, per un verso, l’Agenzia delle Entrate recupera il contributo non spettante, irrogando le sanzioni previste dall’art. 13, comma 5, del D.L.vo n. 471/1997, e, per l’altro, per “le controversie relative all’atto di recupero si applicano le disposizioni previste da decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546”.
Ci si può, pertanto, chiedere se anche le cause – qual è quella interessata dall’ordinanza della Corte agrigentina – aventi ad oggetto (non l’atto di recupero, ma) l’accertamento del diritto del privato a ottenere il contributo possano rientrare nella giurisdizione tributaria.
Non solo, come correttamente segnala la Corte remittente, si pone addirittura il dubbio se il contributo controverso abbia natura tributaria, ossia se possa considerarsi alla stregua di un credito d’imposta, e quindi se possa ritenersi lecitamente individuata dal legislatore la giurisdizione tributaria per le cause relative all’atto di recupero o se, invece, sussista in ogni caso la giurisdizione del giudice ordinario allorché una lite verta sul menzionato contributo.
Peraltro, v’è ancor prima da chiedersi “se l’art. 363-bis c.p.c. vada inteso nel senso che il sindacato riservato alla Corte in sede di esame della questione di diritto che concerne l’individuazione della giurisdizione rispetto alla controversia pendente sia o non compatibile con la richiesta adottata in sede di rinvio pregiudiziale”, come si legge nell’ordinanza.
Anche in questo caso, il convincimento espresso dai giudici agrigentini è condivisibile.
Sebbene sia indubbio che – come riconosce la giurisprudenza ricordata dalla Corte di Agrigento[10] e il successivo provvedimento della Prima Presidente della Cassazione – le Sezioni Unite, quando sono chiamate a individuare la giurisdizione in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, possono e devono esaminare i fatti di causa, ciò non esclude che il rinvio pregiudiziale possa essere impiegato per risolvere la questione, “esclusivamente di diritto”, concernente la giurisdizione, quando – come nel caso – occorra solamente interpretare una norma, non essendovi controversia sui profili fattuali.
D’altronde, né il regolamento preventivo di giurisdizione rimesso all’esclusiva iniziativa delle parti, né la rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione con l’indicazione del giudice munito di giurisdizione, né il potere di quest’ultimo di sollevare il conflitto di giurisdizione possono indurre a negare il ricorso al rinvio pregiudiziale per chiarire la questione di giurisdizione.
Infatti, indipendentemente dai ricordati strumenti che l’ordinamento processuale pone a disposizione delle parti e del giudice per sollevare e risolvere le questioni di giurisdizione, nulla impedisce che – quando i fatti siano pacifici e debba solo interpretarsi una norma che potrebbe porsi in numerosi altri casi – l’organo giudicante possa, grazie al rinvio pregiudiziale, chiedere l’intervento chiarificatore della Corte Suprema per stabilire quale sia il giudice tenuto ad attribuire il torto e la ragione.
Del resto, ciò non collide con la disciplina contenuta nell’art. 59 della L. n. 69/2009, rammentata nel provvedimento della Prima Presidente della Cassazione.
Ivi si evidenzia, giustamente, che la norma testé indicata “tende ad evitare soluzioni di continuità nel processo” e la “finalità acceleratoria si completa con il formarsi del cd. giudicato implicito sulla giurisdizione ove il potere officioso non sia esercitato entro il primo grado di giudizio e non vi sia impugnazione sul punto”.
Tuttavia, il rinvio pregiudiziale ben può contemperarsi con tale disposizione.
Infatti, ne è senz’altro precluso l’impiego laddove il giudice sia convinto del proprio difetto di giurisdizione o, al contrario, non abbia dubbi in proposito e si pronunci in primo grado sul merito della causa.
Ma qualora, come nella vicenda che ci occupa, il giudice – in presenza di un quadro fattuale non controverso – abbia un dubbio, destinato a ripresentarsi in altre controversie, corroborato da contrastanti prese di posizione da parte della giurisprudenza di merito o della dottrina perché non dovrebbe avvalersi del rinvio pregiudiziale per risolvere la questione di giurisdizione?
Così, può ottenersi più rapidamente certezza sulla questione di giurisdizione rispetto al caso in cui il giudice la neghi e altrettanto faccia il giudice dal primo indicato.
Vero è che il rinvio pregiudiziale determina la sospensione del processo, come precisa il provvedimento della Prima Presidente della Corte Suprema, ma altrettanto accade se le parti accedono al regolamento preventivo di giurisdizione (a meno che il giudice ritenga l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata, come stabilisce l’art. 367, comma 1, c.p.c.) o se il secondo giudice solleva il conflitto di giurisdizione.
In sintesi, il rinvio pregiudiziale può attivare l’intervento delle Sezioni Unite in termini anticipati rispetto a quanto potrebbero fare le parti o il secondo giudice, consentendo di risolvere più celermente la questione di giurisdizione.
Inoltre, anche la perplessità enunciata nel provvedimento della Prima Presidente in ordine al fatto che gli “effetti della pronuncia sul rinvio pregiudiziale sul giudizio a quo possono non essere rilevanti se sganciati dal collegamento con la fattispecie concreta” si presta ad essere superata.
Il rinvio pregiudiziale può legittimamente essere avviato solo quando il giudice si è reso conto che i profili fattuali non sono controversi o sono già stati accertati.
Cosicché se ne può prospettare l’impiego per risolvere la questione di giurisdizione solo quando “non verrebbe in alcun modo rimessa alla Corte” di Cassazione “alcuna questione di fatto, ma unicamente l’interpretazione della regola astratta di diritto ai fatti come rappresentati dal giudice a quo”, come ben ha evidenziato la Corte di Agrigento.
Ancora, è convincente l’argomento impiegato dall’ordinanza di rimessione sulla irragionevolezza che si registrerebbe qualora si negasse al giudice di fruire del rinvio pregiudiziale sulla questione di giurisdizione quando costui può, d’ufficio, affermare il proprio difetto di giurisdizione. Detto altrimenti, se il giudice può negare la propria giurisdizione, perché non può – in un’ipotesi dubbia e in presenza di tutti i requisiti posti dall’art. 363-bis – chiedere l’intervento della Cassazione per risolvere la relativa questione?
Prima di terminare sul punto, sia concesso a chi scrive esprimere la propria impressione sulla sussistenza o meno nella specie della giurisdizione tributaria.
Come hanno osservato i giudici agrigentini, l’unico collegamento fra il contributo regolato dall’art. 25 e la materia tributaria è rappresentato dal criterio per la relativa quantificazione, ancorato com’è alla redditività del richiedente. A ciò possono aggiungersi le circostanze che i beneficiari sono individuati rinviando alla disciplina fiscale degli esercenti le attività d’impresa e professionali e l’organo preposto all’erogazione del contributo e al controllo circa la relativa spettanza è l’Agenzia delle Entrate.
Questi elementi, però, non consentono di conferire natura tributaria alla prestazione.
Difatti, non siamo in presenza di un credito tributario, utilizzabile in compensazione a fronte delle imposte dovute, ma di un “contributo a fondo perduto” corrisposto dall’Agenzia delle Entrate “mediante accreditamento diretto in conto corrente bancario o postale intestato al soggetto beneficiario”, come si legge nell’art. 25, comma 11. Siamo, cioè, dinanzi a un’erogazione straordinaria volta a compensare i minori ricavi o proventi degli esercenti le attività indicate nell’art. 25, comma 1, che nulla ha a che vedere con le obbligazioni d’imposta gravanti su costoro.
Viene, perciò, da pensare che ci si trovi al cospetto di una fattispecie assimilabile a quella dell’attribuzione ai giudici tributari della giurisdizione sulle liti riguardanti violazioni di natura non tributaria, ancorché le correlate sanzioni fossero inflitte dall’Agenzia delle Entrate. E, come sempre osservano i giudici di Agrigento, la Corte Costituzionale – con la sentenza n. 130 del 14 maggio 2008 – ha riconosciuto l’illegittimità dell’art. 2, comma 1, del D.L.vo n. 546 nella parte in cui prevedeva la giurisdizione tributaria per siffatte controversie.
In conclusione, è ragionevole ritenere che competano al giudice ordinario le cause relative al contributo in discussione, stante la sua natura “non tributaria” e l’assenza di ogni profilo di discrezionalità nella relativa erogazione. Aspetto, quest’ultimo, che consente di escludere la giurisdizione del giudice amministrativo, come correttamente afferma l’ordinanza in commento.
4. Conclusioni.
Le considerazioni che precedono evidenziano quanta fiducia merita riporre nel rinvio pregiudiziale, quale utile strumento per ridurre il contenzioso tributario.
Peraltro, nella nostra materia, l’art. 363-bis non risponde alla sola finalità, costituzionalmente garantita dall’art. 111, comma 2, di assicurare la ragionevole durata del processo, ma può anche rappresentare un decisivo stimolo per gli Enti impositori all’esercizio dell’autotutela, dando attuazione al principio di buon andamento ex art. 97, comma 2, Cost. Infatti, allorché il principio di diritto enunciato a seguito di rinvio smentisca l’interpretazione fatta valere a conforto delle pretese impositive e/o sanzionatorie, queste ultime potranno essere ritirate, con evidente beneficio per i contribuenti e consentendo altresì agli Enti suddetti di evitare la soccombenza in giudizio.
Si aggiunga che il rinvio pregiudiziale è rispettoso del principio del contraddittorio perché le parti devono essere sentite prima che il giudice disponga il rinvio e possono presentare “brevi memorie” prima della pubblica udienza dinanzi alla Cassazione ex art. 363-bis, comma 4.
Né appare violato l’art. 101, comma 2 Cost. poiché il vincolo per il giudice di merito è analogo a quello che discende dall’enunciazione del principio di diritto in caso di cassazione della sentenza con rinvio ex art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c.[11] o a quello che discende, per il giudice che ha promosso il rinvio pregiudiziale, dall’interpretazione di una norma unionale affermata dalla Corte di Giustizia Europea.
Anzi, è proprio alla prospettiva del “dialogo fra le Corti”, cui fa riferimento pure l’ordinanza della Corte agrigentina, che in ultima istanza si ispira l’art. 363-bis, che evidentemente si fonda sulla cooperazione e sulla reciproca fiducia che deve contraddistinguere le relazioni fra i giudici di merito e di legittimità.
Si è sostenuto, peraltro, che l’istituto “più che volto a rispettare un principio di nomofilachia, … sembra finalizzato ad introdurre surrettiziamente un principio di vincolatività dei precedenti”[12].
Non penso, però, che questa prospettiva possa realizzarsi, essenzialmente perché il giudice di merito non vincolato dal principio di diritto si uniformerà ad esso solo se troverà convincente la pronuncia della Cassazione che lo ha enunciato. Ciò in termini analoghi a quel che da sempre accade quando tale giudice decide se condividere o meno l’indirizzo interpretativo espresso dalla Corte Suprema.
Né mi sembra concretamente prospettabile l’eventualità che il rinvio pregiudiziale permetta al giudice di merito di sottrarsi dal decidere la questione di diritto sottopostagli dai contraddittori.
Quello in esame è, comunque, un istituto “eccezionale”, cui può ricorrersi soltanto quando i profili fattuali non siano controversi o siano stati già accertati ed emergano “gravi difficoltà interpretative”, che – di regola – possono verificarsi quando vi è un contrasto nella giurisprudenza di merito o, per quanto in specie attiene all’ambito tributario, fra la giurisprudenza di merito e la consolidata prassi amministrativa: tant’è vero che il giudice remittente deve specificamente indicare le “diverse interpretazioni possibili”.
Non solo, occorre anche che la questione sia “suscettibile di porsi in numerosi giudizi”, di modo che il giudice, al cospetto di una quaestio iuris complessa ma presumibilmente non ricorrente, è tenuto a deciderla.
Parimenti, il rinvio pregiudiziale non è ammesso laddove esista anche un solo precedente della Cassazione sulla questione giuridica sollevata: ne discende che questo istituto non può impiegarsi per invocare la revisione dell’indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità, non condivisa dal giudice di merito.
In ogni caso, non v’è da dubitare che il Primo Presidente della Cassazione eserciterà un adeguato “filtro” delle questioni oggetto di rinvio pregiudiziale, come previsto dall’art. 363-bis, comma 3, sanzionando come inammissibili quelle che non rispettino le condizioni enunciate dal precedente comma 1.
Da un altro punto di vista, non mi pare che si possa addurre l’eventuale scarso ricorso all’istituto per criticarne l’introduzione. Se la Cassazione risolvesse anche poche questioni giuridiche controverse in materia tributaria, l’innovazione avrebbe comunque conseguito un effetto decisamente positivo, concorrendo a rafforzare la stabilità e la certezza dei rapporti giuridici in una materia di così significativa rilevanza economica e sociale qual è quella tributaria, evitando i relativi contenziosi e consentendo risparmi di denari e risorse sia per gli Enti impositori che per i privati. Ciò, essenzialmente, in ragione della ricordata spiccata serialità delle cause fiscali.
Insomma, va espresso il fermo auspicio che le Sezioni Unite confermino l’operatività del rinvio pregiudiziale nel processo tributario e ne riconoscano altresì l’applicabilità alle questioni di giurisdizione.
Ne risulterà valorizzata la funzione nomofilattica, consentendone una maggiore tempestività – grazie anche al celere procedimento disciplinato dall’art. 363-bis, comma 3[13] – e quindi una più significativa incidenza, da cui potrà discendere la riduzione del contenzioso di merito e anche di quello (decisamente eccessivo) pendente dinanzi alla Suprema Corte[14].
Attualmente, possono occorrere vari anni perché le cause fiscali vengano decise dal giudice di legittimità e si formino quindi gli indirizzi interpretativi suscettibili di orientare le condotte degli Enti impositori e dei contribuenti, nonché le decisioni dei giudici di merito.
Il ritardo con cui si pronuncia la Cassazione si riverbera così sul processo di merito, finendo per incentivarne l’introduzione o la prosecuzione.
L’enunciazione del principio di diritto a seguito del rinvio pregiudiziale potrà, pertanto, assolvere un utile ruolo deflattivo sul contenzioso tributario, forse consentendo anche di evitare il troppo frequente ricorso a misure normative di definizione agevolata delle liti tributarie pendenti cui abbiamo assistito negli ultimi anni.
[1] L’art. 363-bis è stato inserito nel c.p.c. dal D.L.vo n. 149/2022.
[2] In tal senso, v. L. Salvato, Verso la riforma del processo tributario: il “rinvio pregiudiziale” ed il ricorso nell’interesse della legge, in Giustizia Insieme, 19 luglio 2021, par. 4. Con ogni probabilità, l’intento del disegno di legge n. 2636, nel prospettare una norma ad hoc sull’iniziativa del Procuratore Generale per conseguire il principio di diritto in materia tributaria, era quello di favorirne e incrementarne la concreta operatività. Comunque, ben ha fatto il legislatore a non ratificare sul punto il disegno di legge. Difatti, sarebbero risultate innovate rispetto all’art. 363 le condizioni di ammissibilità del cosiddetto “ricorso nell’interesse della legge” e ciò avrebbe creato una discutibile disparità di regime fra la materia civile e quella tributaria.
[3] Cfr., in particolare, C. Glendi, Rinvio pregiudiziale nel processo tributario? Antinomie ai vertici, da risolvere presto e bene, in Dir. prat. trib., n. 6/2022, pp. 2196 ss.
[4] Analogamente, v. R. D’Angiolella, Riflessioni sulla riforma del processo tributario in Cassazione. La nuova Sezione Tributaria della Cassazione, la pace fiscale ed il rinvio pregiudiziale, in Giustizia Insieme, 15 dicembre 2022, par. 3. Così si è espresso, seppure in termini dubitativi, anche l’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Cassazione nella relazione n. 96 del 6 ottobre 2022.
[5] Disciplinata dall’art. 3 del D.L.vo n. 23/2011, secondo cui il locatore dell’immobile ad uso abitativo può optare, in luogo dell’ordinario regime impositivo, per un’imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle relative addizionali e delle imposte di registro e di bollo sul contratto di locazione.
[6] V., per tutte, Comm. Trib. Reg. Toscana, sez. 1, 13 giugno 2022, n. 791 (per la tesi contraria all’operatività del regime della “cedolare secca” nel caso descritto nel testo) e Corte Giust. Trib. II grado Veneto, sez. 5, 16 gennaio 2023, n. 53 (per l’impostazione opposta).
[7] V. Cass., sez. trib., 29 maggio 2023, n. 14975.
[8] V. Cass., sez. trib., 8 febbraio 2023, n. 3784.
[9] Nello stesso senso, v. E. Manzon, La Cassazione civile-tributaria alla sfida del PNRR, in sintesi ed in prospettiva, in Giustizia Insieme, 23 novembre 2022, par. 3, nonché R. D’Angiolella, Riflessioni sulla riforma del processo tributario, cit., par. 3.
[10] V., ad esempio, Cass., sez. un., 9 gennaio 2020, n. 156.
[11] Di contrario avviso è G. Scarselli, Note sul rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione di una questione di diritto da parte del giudice di merito, in Giustizia Insieme, 5 luglio 2021, par. 8, che evidenzia come “giudice del merito e giudice del rinvio non possono essere messi sullo stesso piano, poiché mentre il giudice del rinvio opera quale giudice che completa, in fase rescissoria, la stessa impugnazione rescindente affidata alla Corte di cassazione, il giudice del merito non ha questo legame con la cassazione, non è giudice dell’impugnazione, ed opera in un processo che è aperto a tutte le novità che non siano già precluse dallo stato di avanzamento del processo stesso”. Sebbene sia fuor di dubbio la diversità delle funzioni assolte del giudice nei due casi in esame, sembra del tutto ragionevole che il principio di diritto enunciato dalla Cassazione sia sempre vincolante perché, nella prima ipotesi, discende dal naturale svolgimento dell’impugnazione per cassazione della sentenza e dalla separazione fra la fase rescindente e quella rescissoria e, nell’altra, dalla responsabilità che il giudice di merito assume, in piena libertà e in spirito di cooperazione con la Corte Suprema, quando ritiene di rivolgersi a quest’ultima per risolvere una quaestio iuris.
[12] Cfr. G. Scarselli, I punti salienti dell’attuazione della riforma del processo civile di cui al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, in Giustizia Insieme, 15 novembre 2022, par. 6.
[13] Secondo l’art. 363-bis, comma 3, il Primo Presidente della Corte di Cassazione, ricevuta l’ordinanza che dispone il rinvio pregiudiziale e ravvisate le condizioni di ammissibilità dettate dal precedente comma 1, “entro novanta giorni assegna la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice per l’enunciazione del principio di diritto”.
[14] Pure E. Manzon, La Cassazione civile-tributaria alla sfida del PNRR, cit., par. 3 si esprime in termini analoghi. Meno ottimistiche, invece, sono le previsioni di successo del rinvio pregiudiziale espresse da R. D’Angiolella, Riflessioni sulla riforma del processo tributario, cit., par. 3. Sull’argomento, v. anche A.-M. Perrino, Il giudizio di legittimità in materia tributaria, in AA.VV., Il giudizio tributario, a cura di C. Consolo, G. Melis, A.-M. Perrino, Milano, 2022, pp. 544 ss., secondo cui – a seguito dell’introduzione del rinvio pregiudiziale (della cui operatività in materia tributaria, peraltro, l’Autrice non dubita) – prevalgono le considerazioni negative rispetto a quelle positive.
Sommario: 1. L’integrazione tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale e il rapporto tra gli artt. 10 e 117 Cost. – 2. L’efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU nell’ordinamento italiano nei confronti delle parti in causa. – 3. L’efficacia generale per il diritto nazionale dei principi affermati nelle “sentenze-pilota” della Corte EDU. – 4. Il “Caso Contrada contro Italia” e l’efficacia immediatamente precettiva delle decisioni della Corte EDU nei confronti delle parti in causa. – 4.1. L’inapplicabilità dei principi affermati dalla Corte EDU nel “Caso Contrada contro Italia” al di fuori degli obblighi di cui all’art. 46 CEDU e la “Sentenza Genco”. – 5. Il “Caso Scoppola contro Italia” e l’efficacia generale per il diritto nazionale delle “sentenze-pilota” della Corte EDU. – 6. Il tertium genus: l’interpretazione adeguatrice, il dialogo tra la CEDU e la Corte di cassazione in materia di tutela dei diritti dei detenuti e la “Sentenza Commisso”. – 7. Le decisioni della CEDU e il ruolo di supporto ermeneutico svolto dalla Corte costituzionale: la costituzione di un sistema normativo integrato in materia di tutela dei diritti fondamentali delle persone.
1. L’integrazione tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale e il rapporto tra gli artt. 10 e 117 Cost.
Per affrontare i problemi ermeneutici oggetto del mio intervento, occorre muovere dalle previsioni costituzionali degli artt. 10 e 117 Cost., che si pongono in stretta correlazione tra loro, la cui portata sistematica, in conseguenza dei rapporti sempre più intensi tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale, ha assunto una crescente importanza nel sistema costituzionale, assumendo connotazioni assolutamente pregnanti.
Di queste peculiari connotazioni sistematiche ci si occuperà nel corso di questo intervento, che si concentrerà soprattutto sull’influenza che l’applicazione di tali disposizioni costituzionali comporta nei rapporti tra la Convenzione EDU e il sistema penale italiano, i cui sviluppi sono fortemente caratterizzati dalle correlazioni ermeneutiche esistenti tra le norme convenzionali e gli artt. 10 e 117 Cost., che sono stati chiariti da alcuni mirabili decisioni della Corte costituzionali, su cui ci si soffermerà nella parte conclusiva di questa relazione[1].
Com’è noto, la Convenzione EDU è un trattato internazionale, sottoscritto in seno al Consiglio d’Europa, a Roma, il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, che mira a tutelare i diritti umani e le libertà fondamentali nei paesi che compongono il Consiglio d’Europa, una parte dei quali sono membri dell’Unione Europea. Per raggiungere questi obiettivi la Convenzione ha istituito la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, volta a tutelare la persona dalla violazione dei diritti umani.
In questa cornice, occorre richiamare preliminarmente la disciplina dell’art. 10 Cost., dalla quale deriva la necessità di adeguare l’ordinamento giuridico interno all’ordinamento sovranazionale, che, nella materia penale, assume un rilievo decisivo nel regolamentare i rapporti tra il sistema nazionale italiano e quello prefigurato dalla Convenzione EDU.
Dispone, in particolare, il primo comma dell’art. 10 Cost., che è la norma di cui ci si occuperà nel prosieguo dell’esposizione: «L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Tale disposizione si integra con il secondo comma della stessa norma, a tenore della quale: «La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali».
A tale previsione, quindi, si collega il terzo comma dell’art. 10 Cost., secondo cui: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge».
Infine, la disposizione dell’art. 10 Cost. si completa con la previsione contenuta nel suo quarto comma, che recita: «Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici».
Come si è evidenziato in apertura di questo paragrafo, per ricostruire il sistema integrato in materia di tutela dei diritti fondamentali delle persone realizzato nel nostro ordinamento, la norma costituzionale dell’art. 10 Cost., nei quattro commi che la compongono, deve essere correlata alla previsione dell’art. 117 Cost., del quale, ai presenti fini, assumono rilievo solo il primo e il terzo comma di tale disposizione.
Della norma costituzionale dell’art. 117 Cost., innanzitutto, occorre richiamare, nella sua interezza, il primo comma, che recita: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».
La disposizione del primo comma dell’art. 117 Cost., a sua volta, deve essere correlata al terzo comma della stessa norma, laddove afferma che sono sono materie di legislazione concorrente quelle relative a «rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni […]».
2. L’efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU nell’ordinamento italiano nei confronti delle parti in causa
Dopo esserci soffermati brevemente sulla rilevanza sistematica dell’art. 10 Cost., occorre affrontare la questione dell’obbligo del giudice italiano di conformarsi alle decisioni della Corte EDU previsto dall’art. 46 CEDU, che è collegata al tema dell’applicazione dei principi affermati dalle pronunzie sovranazionali nel diritto interno.
Alla prima questione, che sarà esaminata in questo paragrafo, relativa alla sussistenza di un obbligo dei giudici italiani di conformarsi alle decisioni della Corte EDU, relativamente alla vicenda processuale oggetto di vaglio, occorre fornire risposta positiva.
Occorre, innanzitutto, evidenziare che costituisce dato ermeneutico ormai definitivamente consolidato[2] quello dell’efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU, nonostante a tali disposizioni non possa direttamente riconoscersi rango costituzionale, come è stato, più volte, ribadito dalla Corte costituzionale[3].
Sul piano applicativo, l’efficacia precettiva delle norme della Convenzione EDU è garantita dalla previsione dell’art. 19 del testo convenzionale che prevede l’istituzione della Corte EDU, allo scopo di «assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte parti contraenti dalla presente Convenzione e dai suoi Protocolli […]», riconoscendo a tale organo sovranazionale una competenza estesa a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della predetta normativa.
In questo contesto sistematico, si inserisce la previsione dell’art. 46 CEDU, secondo il cui primo paragrafo le «Alte Parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono Parti».
La stessa disposizione precisa, nel suo secondo paragrafo, che «la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione».
L’obbligo del giudice italiano di conformarsi alle sentenze della Corte EDU limitatamente al caso controverso, è ulteriormente ribadito dal terzo paragrafo dell’art. 46 CEDU, a tenore del quale se «il Comitato dei Ministri ritiene che il controllo dell’esecuzione di una sentenza definitiva sia ostacolato da una difficoltà di interpretazione di tale sentenza, esso può adire la Corte affinché questa si pronunci su tale questione di interpretazione […]».
Né il singolo Stato membro può sottrarsi ai doveri di conformazione, atteso quanto espressamente previsto dal quarto paragrafo dell’art. 46 CEDU, secondo cui laddove «un’Alta Parte contraente rifiuti di attenersi ad una sentenza definitiva in una controversia di cui è parte, esso può, dopo aver messo in mora questa Parte […], investire la Corte della questione dell’osservanza di questa Parte degli obblighi relativi al paragrafo 1».
L’obbligo previsto dall’art. 46 CEDU, dunque, non può essere messo in discussione e ogni opzione ermeneutica di segno contrario non può essere in alcun modo condivisa.
Tale assunto, infatti, presuppone un margine di discrezionalità nell’esecuzione delle decisioni della Corte EDU che – limitatamente allo specifico caso coinvolto dalla pronuncia in esame e a differenza dei casi analoghi, per i quali occorre verificare se la pronunzia sovranazionale possa ritenersi una “sentenza-pilota”[4] – non può essere riconosciuto al giudice nazionale per effetto della previsione dell’art. 46 CEDU.
Basti, in proposito, richiamare ulteriormente l’orientamento ermeneutico[5] secondo cui le decisioni della Corte EDU sono immediatamente produttive di diritti e obblighi nei confronti delle parti in causa, con la conseguenza che lo Stato è tenuto a conformarsi a tali pronunzie e a eliminare, fin dove è possibile, le conseguenze pregiudizievoli della violazione riscontrata.
Ne deriva che la previsione dell’art. 46 CEDU, nelle ipotesi di violazioni delle norme del testo convenzionale, impone al giudice italiano, limitatamente al caso di cui si controverte, di conformarsi alle sentenze della Corte EDU, i cui effetti si estendono sia allo Stato sia alle altre parti coinvolte dalla decisione che tale violazione ha censurato.
Ne discende, ulteriormente, che, a norma dell’art. 46 CEDU, gli Stati membri si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte EDU nelle controversie nelle quali sono coinvolte, la cui osservanza e affidata al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, al quale è assegnato il compito di vigilare sull’esecuzione delle pronunzie sovranazionali. Da questo obbligo di conformazione discende che lo Stato convenuto ha il dovere di adottare, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure, generali e individuali, indispensabili per porre fine alla violazione di norme convenzionali, eliminandone le conseguenze e scongiurando ulteriori pregiudizi dei diritti umani.
3. L’efficacia generale per il diritto nazionale dei principi affermati nelle “sentenze-pilota” della Corte EDU
Sgomberato il campo da ogni possibile equivoco in ordine all’efficacia precettiva delle norme CEDU, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, e chiarito quali effetti vincolanti discendano, per l’ordinamento interno, in relazione allo specifico caso esaminato, dalle decisioni con cui lo Stato italiano viene condannato per la violazione di norme convenzionali, occorre affrontare l’ulteriore questione, concernente l’applicazione dei principi affermati dalle pronunzie sovranazionali nel diritto interno.
In questa cornice, occorre affrontare la questione, correlata a quella esaminata nel paragrafo precedente, della rilevanza che nell’ordinamento giuridico italiano assumono, anche in deroga a eventuali giudicati, le violazioni accertate dalla Corte EDU, riguardanti le norme del testo convenzionale.
Per inquadrare tale questione, occorre richiamare ulteriormente l’obbligo di conformazione previsto dall’art. 46 CEDU, dal quale discende che lo Stato convenuto, ferma restando l’efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU nell’ordinamento italiano nei confronti delle parti in causa, ha il dovere giuridico di adottare, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure, generali e individuali, indispensabili per porre fine alla violazione di norme convenzionali, eliminandone le conseguenze e scongiurando ulteriori pregiudizi.
Pertanto, quando la Corte EDU, alla quale è affidato il compito istituzionale di interpretare e applicare il Testo convenzionale, ai sensi dell’art. 32 CEDU, accerta la commissione di violazioni dei diritti umani connesse a disfunzioni, sistematiche o strutturali, dell’ordinamento nazionale, attiva un meccanismo procedurale che – mediante le “sentenze-pilota” – si propone di aiutare gli Stati membri a risolvere a livello interno le discrasie normative rilevate. Attraverso questo meccanismo nomofilattico, la Corte EDU riconosce alle persone interessate, che versano nella stessa condizione del soggetto il cui caso è stato risolto positivamente, la tutela degli stessi diritti umani e delle stesse libertà convenzionali, in linea con quanto affermato dall’art. 1 CEDU, offrendo la soluzione applicativa più efficiente e alleggerendo, al contempo, il carico della Corte di Strasburgo, che, diversamente, si troverebbe costretta a esaminare inutilmente ricorsi con un contenuto similare o addirittura processualmente sovrapponibile[6].
Si impone, a questo punto, una precisazione, evidenziando che la giurisprudenza della CEDU, originariamente indirizzata alla risoluzione di controversie specifiche, relative a casi concreti, si è andata sempre più caratterizzando, soprattutto nel corso dell’ultimo decennio, per la valorizzazione di una funzione paracostituzionale – o, meglio, costituzionale sovranazionale – di tutela dell’interesse generale al rispetto del diritto oggettivo. Di questa, inarrestabile, evoluzione sistematica costituiscono una dimostrazione esemplare i rapporti tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale, modellato attorno alla Convenzione EDU., in materia di diritto penitenziario, dalla quale è derivata la costituzione di un vero e proprio sistema integrato, finalizzato alla tutela dei diritti dei detenuti garantita dall’art. 3 del Testo convenzionale, che, com’è noto, recita: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti»[7].
Infatti, sempre più frequentemente, le pronunzie della CEDU, nel rilevare la contrarietà alle norme convenzionali di situazioni interne di portata generale, forniscono allo Stato responsabile della violazione, attraverso lo strumento delle “sentenze-pilota”, indicazioni sui rimedi da adottare per rimuovere la disfunzione sistematica rilevata nel proprio ordinamento interno. Lo strumento delle “sentenze-pilota”, peraltro, dapprima affidata alla prassi, in difetto di un’esplicita piattaforma normativa, è stata definitivamente formalizzata nel regolamento di procedura della CEDU, che, dopo essere stato emendato, è entrato in vigore il 10 aprile 2011.
L’effettività dell’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo, inoltre, è stata accresciuta, sul piano convenzionale, dall’approvazione del Protocollo n. 14 della Corte EDU, reso esecutivo con la legge 15 dicembre 2005, n. 280, che, novellando l’art. 46 del Testo convenzionale, ha introdotto una procedura di infrazione, che giurisdizionalizza il meccanismo di controllo sull’attuazione delle decisioni sovranazionali, attivabile anche nel caso di inosservanza di una “sentenza-pilota”.
Si consideri, infine, che la necessità degli ordinamenti interni di assicurare, anche a prescindere da un intervento della Corte di Strasburgo sul caso concreto, il rispetto degli obblighi convenzionali, così come prefigurati dalla Convenzione EDU, allo scopo di porre fine a persistenti violazioni, prevenendo ulteriori trasgressioni, pone delicati problemi giuridici sulla tenuta di situazioni già definite con sentenze passate in giudicato, ma in palese contrasto con i diritti fondamentali tutelati convenzionalmente.
4. Il “Caso Contrada contro Italia” e l’efficacia immediatamente precettiva delle decisioni della Corte EDU nei confronti delle parti in causa
Nella cornice ermeneutica che si è descritta nei paragrafi precedenti, occorre passare in rassegna un’ipotesi esemplare di efficacia immediatamente precettiva delle decisioni della Corte EDU nei confronti delle parti in causa, rappresentata dalla sentenza con cui veniva concluso nel nostro ordinamento il “Caso Contrada contro Italia”.
Il “Caso Contrada contro Italia”, ai presenti fini, traeva origine, dal passaggio in giudicato della sentenza emessa il 25 febbraio 2006, con cui la Corte di appello di Palermo confermava la decisione del Tribunale di Palermo del Tribunale di Palermo, deliberata il 5 aprile 1996, con cui Bruno Contrada era stato condannato alla pena di dieci anni di reclusione per il reato di cui agli artt. 110, 416 e 416-bis cod. pen. Il passaggio in giudicato, in particolare, derivava dalla sentenza emessa dalla Corte di cassazione il 10 maggio 2007, con la quale il ricorso proposto dall’imputato veniva rigettato.
Dopo il passaggio in giudicato della sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006, Contrada adiva la Corte EDU, dando origine al ricorso che si concludeva con la decisione emessa il 14 aprile 2015[8], della cui rilevanza nell’ordinamento italiano si controverte in questa sede.
La Corte EDU, in particolare, condannava lo Stato italiano per violazione dell’art. 7 CEDU, ritenendo che la fattispecie del concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso fosse chiara e prevedibile solo a partire dal 1994 – ovvero dal momento in cui interveniva la prima delle sentenze chiarificatrici deliberate delle Sezioni Unite in questo contesto ermeneutico[9] – riconoscendo, per il periodo successivo, la corretta configurazione dell’istituto in questione, così come elaborata dalle Sezioni Unite[10].
In particolare, la Corte EDU censurava la condanna emessa nei confronti di Contrada esclusivamente sotto il profilo della conoscibilità temporale del reato per il quale l’imputato era stato condannato, osservando, nel paragrafo 72 della sentenza, che la Corte di appello di Palermo «pronunciandosi sull’applicabilità della legge penale in materia di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, si è basata sulle sentenze Demitry […], Carnevale […], Mannino […], tutte posteriori ai fatti ascritti al ricorrente»[11].
Dopo la decisione della Corte EDU, da ultimo richiamata, Bruno Contrada proponeva un incidente di esecuzione dinanzi alla Corte di appello di Palermo, che si concludeva con l’ordinanza emessa l’11 ottobre 2016, avverso la quale veniva proposto ricorso per cassazione, che, a sua volta, veniva deciso dalla Prima Sezione penale della Corte di cassazione il 6 luglio 2017. Con tale ultima pronunzia veniva dichiarata ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza emessa nei confronti del ricorrente dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006, divenuta irrevocabile il 10 maggio 2007.
Occorre, a questo punto, precisare che davanti alla Corte di cassazione, investita della decisione sull’incidente di esecuzione proposto da Contrada dopo la pronunzia della Corte EDU, veniva posta una questione centrale, riguardante la verifica del rispetto da parte del giudice dell’esecuzione – rappresentato, in quel caso, dalla Corte di appello di Palermo – dell’obbligo di conformazione previsto dall’art. 46 CEDU.
A tale quesito ermeneutico la Corte di cassazione forniva una risposta negativa[12].
Quanto agli strumenti processuali con cui dare esecuzione all’obbligo di conformazione previsto dall’art. 46 CEDU, la Corte di legittimità, citando la giurisprudenza consolidata delle Sezioni Unite[13], li individuava negli ampi poteri di intervento sul giudicato penale, che venivano riconosciuti al giudice dell’esecuzione ex art. 670 cod. proc. pen.
Si evidenziava, in proposito, nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 9 della decisione in esame, che l’ampiezza degli ambiti di intervento della giurisdizione esecutiva trovava il proprio fondamento nei poteri di cui agli artt. 666 e 670 cod. proc. pen., che erano stati riconosciuti dalla Corte costituzionale nella sentenza 18 luglio 2013, n. 210[14], secondo cui il giudice dell’esecuzione «non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso […]»[15].
Questa opzione ermeneutica, del resto, era già stata recepita nell’intervento delle Sezioni Unite, da ultimo richiamato, in cui si era affermato che al giudice dell’esecuzione deve essere riconosciuto un ampio potere di intervento sul giudicato, atteso che lo strumento previsto dall’art. 670 cod. proc. pen. è un mezzo per far valere tutte le questioni relative all’esecutività e all’eseguibilità del titolo[16].
Sulla scorta di tale percorso argomentativo, la Corte di cassazione annullava senza rinvio l’ordinanza emessa dalla Corte di appello di Palermo l’11 ottobre 2016 e dichiarava ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza emessa nei confronti di Bruno Contrada dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006, divenuta irrevocabile il 10 maggio 2007.
4.1. L’inapplicabilità dei principi affermati dalla Corte EDU nel “Caso Contrada contro Italia” al di fuori degli obblighi di cui all’art. 46 CEDU e la “Sentenza Genco”
Dopo la decisione della Corte di cassazione esaminata nel paragrafo precedente, si è posto, fin da subito, il problema dell’applicazione dei principi affermati dalla Corte EDU nel “Caso Contrada contro Italia”, sul piano della configurazione del concorso esterno in associazione mafiosa, al di fuori degli obblighi di conformazione imposti dall’art. 46 CEDU.
Per risolvere tale questione occorre muovere dalla definizione di fattispecie di “creazione giurisprudenziale” del concorso esterno in associazione mafiosa, utilizzata dalla Corte EDU nel paragrafo 57 della decisione in argomento, in cui si evidenziava che «il concorso esterno in associazione di tipo mafioso è una creazione della giurisprudenza avviata in decisioni che risalgono alla fine degli anni ottanta, ossia posteriore ai fatti per i quali il ricorrente è stato condannato e che si è consolidata con la sentenza della Corte di cassazione Demitry […]»[17].
Deve, in proposito, rilevarsi che, fermi restando gli obblighi di conformazione previsti di cui si è già detto, l’affermazione della Corte EDU si pone in termini alquanto problematici rispetto al modello di legalità formale al quale è ispirato il nostro sistema penale, in cui non solo non è ammissibile alcun reato di “creazione giurisprudenziale”, ma la punibilità delle condotte illecite trova il suo fondamento nei principi di legalità e di tassatività.
Questi profili di problematicità appaiono ulteriormente accentuati dal fatto che il modello di punibilità del concorso esterno in associazione mafiosa prefigurato dalle Sezioni Unite[18], più volte, anche se non del tutto propriamente, richiamato dalla Corte EDU, non consente alcun equivoco interpretativo sulle ragioni che legittimano nel nostro ordinamento l’applicazione dell’istituto concorsuale alla fattispecie prevista dall’art. 416-bis cod. pen.
Si consideri che le Sezioni Unite[19] non hanno dato vita a una nuova fattispecie incriminatrice, ma si sono limitate a fornire una ricostruzione sistematica armonica con il nostro ordinamento, ribadendo che la responsabilità penale per il contributo fornito dal concorrente esterno a un’associazione mafiosa trae origine dalla sua consapevolezza di contribuire con il suo apporto a un’attività illecita svolta in forma associata, di cui il soggetto attivo del reato conosce gli obiettivi generali e la struttura consortile, pur senza aderirvi. Ne consegue che, attraverso la clausola prevista dell’art. 110 cod. pen., si attribuisce alle fattispecie associative una responsabilità di carattere generale per l’apporto concorsuale che l’agente fornisce al gruppo criminale, senza esserne affiliato e nella consapevolezza di tale estraneità.
Ne discende che, ferma restando l’assenza di discrezionalità del giudice dell’esecuzione nel conformarsi alle decisioni della Corte EDU imposta dalla Convenzione CEDU per le parti in causa, tali richiami, come detto impropri, non possono essere utilizzati – quantomeno in una prospettiva de jure condito – e non risultano esportabili nell’ordinamento italiano, il quale non contempla la possibilità di fattispecie di “creazione giurisprudenziale”.
A conferma di quanto si sta affermando, si ritiene utile richiamare il passaggio della decisione di legittimità, esaminata nel paragrafo 4, in cui si affermava che «il nostro ordinamento non conosce la creazione di matrice giurisprudenziale di fattispecie incriminatrici […]»[20].
Deve, infine, rilevarsi che l’orientamento ermeneutico consolidatosi in seno alla giurisprudenza di legittimità[21], che escludeva l’estensibilità dei principi affermati dalla Corte EDU nella decisione del “Caso Contrada contro Italia”, veniva definitivamente ribadito dalle Sezioni Unite, che evidenziavano come le statuizioni contenute in tale pronuncia non potevano essere estese a casi analoghi a quelli esaminati dalla Corte sovranazionale[22].
Le Sezioni Unite, in particolare, chiamate a verificare la possibilità di estendere i principi affermati dalla Corte EDU nel “Caso Contrada”, risolvevano negativamente il quesito sottoposto al suo vaglio, affermando il seguente principio di diritto: «In tema di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, i principi enunciati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, non si estendono a coloro che, pur trovandosi nella medesima posizione, non abbiano proposto ricorso in sede europea, in quanto la richiamata decisione del giudice sovranazionale non è una sentenza pilota e non può neppure ritenersi espressione di un orientamento consolidato della giurisprudenza europea»[23].
5. Il “Caso Scoppola contro Italia” e l’efficacia generale per il diritto nazionale delle “sentenze-pilota” della Corte EDU
Il sistema normativo integrato che si sta considerando, sul piano dei principi generali, ha subito un impulso decisivo con la sentenza pronunziata dalla CEDU nel “Caso Scoppola contro Italia” del 17 settembre 2009, che interveniva in materia di conversione della pena dell’ergastolo in quella di trent’anni di reclusione[24].
Questa pronunzia, infatti, presenta i connotati tipici di una “sentenza-pilota”, atteso che la Corte EDU, pur astenendosi dal fornire specifiche indicazioni sulle misure generali da adottare, evidenziava l’esistenza, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, di una discrasia normativa dovuta alla difformità rispetto alle norme convenzionali dell’art. 7 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4.
In questo contesto, la Corte EDU evidenziava che, in forza dell’art. 46 CEDU, gli Stati membri si impegnano a rispettare le sentenze definitive della Corte di Strasburgo nelle ipotesi in cui sono direttamente coinvolte. Ne consegue che, come evidenziato dalle Sezioni Unite penali, chiamate a pronunciarsi sull’estensibilità dei principi affermati nella decisione del “Caso Scoppola contro Italia”, una pronunzia nella quale la Corte EDU ha individuato una violazione delle norme convenzionali impone allo Stato membro resistente di individuare, sotto il controllo del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, le misure, generali e individuali, da adottare nell’ordinamento giuridico interno, per «porre fine alla violazione accertata dalla Corte e per eliminare per quanto possibile gli effetti […]»[25].
Ne deriva ulteriormente che eventuali effetti sistematici, perduranti nel tempo dell’accertata violazione, determinati da un’illegittima applicazione di una norma del diritto interno, laddove interpretata in senso non convenzionalmente conforme, devono essere immediatamente rimossi anche nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso davanti alla Corte EDU, si trovano in una situazione identica – ovvero processualmente sovrapponibile – a quella oggetto della decisione adottata dal Giudice strasburghese nel “Caso Scoppola contro Italia”.
Occorre, a questo punto, precisare che l’intervento della Corte EDU nel “Caso Scoppola contro Italia” era giustificato dal fatto che, nel caso in esame, si erano succedute tre diverse disposizioni, che, in materia di accesso al giudizio abbreviato per gli imputati di delitti punibili con la pena dell’ergastolo, avevano dato vita a un sistema normativo stratificato.
Ci si riferisce, innanzitutto, all’art. 30, comma 1, lett. b), della legge 16 dicembre 1999, n. 479, entrata in vigore il 2 gennaio 2000, che, novellando l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., introduceva, nelle ipotesi di giudizio abbreviato, la previsione della sostituzione della pena dell’ergastolo con quella della reclusione di trent’anni.
Ci si riferisce, inoltre, all’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, che, in via di interpretazione autentica, stabiliva: «Nell’articolo 442, comma 2, ultimo periodo, del codice di procedura penale, l’espressione “pena dell’ergastolo” deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno»; aggiungendo, in chiusura del comma 2, il periodo: «Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo».
Ci si riferisce, infine, all’art. 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, così come sostituito in sede di conversione, che, in via transitoria, consentiva ai soggetti che avevano formulato istanza di giudizio abbreviato nella vigenza della legge n. 479 del 1999, entrata in vigore il 2 gennaio 2020, di revocare «la richiesta nel termine di trenta giorni dalla data di entrata in vigore […]» dello stesso decreto-legge, che scadeva il 28 dicembre 2020.
In questo, stratificato, quadro normativo, la Corte EDU, escludeva il carattere di norma interpretativa dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000 e riteneva che gli imputati che erano stato ammessi al rito abbreviato nel vigore dell’art. 30, comma 1, lett. b), della legge n. 479 del 1999, avrebbe avuto diritto, ai sensi dell’art. 7 CEDU, di vedersi inflitta la pena di trent’anni di reclusione – più mite rispetto alla pena dell’ergastolo quella prevista dall’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., novellato dal decreto-legge n. 341 del 2000 –, prevista dalla stessa legge n. 479, fino a quando tale normativa era stata vigente.
In altri termini, la Corte EDU, censurando il meccanismo processuale con il quale si attribuiva efficacia retroattiva all’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000 – che veniva qualificato come norma d’interpretazione autentica dal testo dell’art. 442 cod. proc. pen., così come novellato dalla legge n. 479 del 1999 – enunciava, in linea di principio, una regola di giudizio di portata generale, che, in quanto tale, era astrattamente applicabile a tutte le fattispecie identiche a quella esaminata[26].
Ne discende conclusivamente che, per effetto della decisione della Corte EDU nel “Caso Scoppola contro Italia”, che, come detto costituisce una “sentenza-pilota”, la conversione della pena dell’ergastolo in quella di trent’anni di reclusione – conseguente alle modifiche dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., che si sono richiamate – veniva ammessa quando il rito abbreviato era stato chiesto e ammesso nell’arco temporale compreso tra il 2 gennaio 2000 e il 24 novembre 2000, nella vigenza dell’art. 30, comma 1, lett. b), della legge n. 479 del 1999, prima della sua modifica da parte dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000[27].
6. Il tertium genus: l’interpretazione adeguatrice, il dialogo tra la CEDU e la Corte di cassazione in materia di tutela dei diritti dei detenuti e la “Sentenza Commisso”
Occorre, a questo punto, introdurre un ulteriore elemento di riflessione, evidenziando che, negli ultimi anni, la giurisprudenza di legittimità ha rappresentato il terminale insostituibile del dialogo tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale in materia di tutela dei diritti dei detenuti, intervenendo con alcune importanti pronunzie in tema di trattamenti inumani e degradanti, sanzionati ex art. 3 CEDU. L’ultima di queste pronunzie è rappresentata dalla sentenza delle Sezioni Unite penali pronunciata nel “Caso Commisso”[28], che costituisce, almeno a fino a questo momento, la punta più avanzata di questo complesso confronto ermeneutico.
Con la pronuncia in esame le Sezioni Unite penali intervenivano sul tema del trattamento penitenziario inumano o degradante, inquadrato nell’art. 3 CEDU, che, in termini generali, deve essere definito alla luce della giurisprudenza sovranazionale consolidatasi sulla base delle decisioni del “Caso Torreggiani contro Italia”[29] e del “Caso Mursic contro Croazia”[30]. Queste pronunzie, a loro volta, si inserivano in un più ampio contesto ermeneutico, la cui elaborazione consentiva di individuare i parametri necessari per ritenere il trattamento penitenziario patito dal detenuto rispettoso dei canoni di umanità stabiliti dall’art. 3 CEDU[31].
Le Sezioni Unite penali, in particolare, chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale insorto sui criteri ai quali attenersi per determinare lo spazio minimo individuale di cui deve potere usufruire il detenuto nelle ipotesi di allocazione con più soggetti all’interno di una stessa cella, affermavano che, ferma restando la misura di tre metri quadrati, per la relativa valutazione si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento dei soggetti ristretti, indispensabile per garantire un trattamento penitenziario rispettoso dei parametri umanitari stabiliti dall’art. 3 CEDU[32].
Ne discende che, nella determinazione di tale spazio minimo individuale, allo scopo di garantire al detenuto un trattamento penitenziario rispettoso dei canoni di umanità della pena, si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento del detenuto, con la conseguenza di dovere detrarre da tale computo gli arredi tendenzialmente fissi al suolo della cella.
Occorre, al contempo, fare integrativamente riferimento al complesso dei fattori, positivi e negativi, che connotano l’offerta trattamentale censurata dal detenuto con il rimedio previsto dall’art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ord. pen.), tenendo conto della necessità di garantire, per quanto possibile, una condizione di vivibilità carceraria dignitosa del detenuto, nel rispetto dei parametri affermati dall’art. 3 CEDU.
Ne deriva ulteriormente che il riconoscimento di trattamenti disumani e degradanti, rilevanti ex art. 3 CEDU, laddove sollecitato con il rimedio giurisdizionale previsto dall’art. 35-ter Ord. pen., costituisce la conseguenza di una valutazione multifattoriale dell’offerta trattamentale proposta al singolo detenuto. Di conseguenza, nel caso di restrizione del condannato in una cella collettiva in cui lo spazio è superiore a tre metri quadrati, ma inferiore a quattro metri quadrati, occorre tenere necessariamente conto di tutti i fattori idonei a qualificare le condizioni di detenzione e funzionali a esprimere un giudizio positivo o negativo sul trattamento carcerario patito[33].
In questa cornice, deve osservarsi che, su questo tema, i rapporti tra la giurisprudenza nazionale e quella strasburghese costituiscono una rappresentazione esemplare del sistema stratificato di fonti normative, che discende dall’inserimento del nostro Paese nella comunità sovranazionale e che in materia di diritto penitenziario assume connotazioni peculiari. Questa stratificazione assume un rilievo peculiare nella materia della tutela dei diritti del detenuto, rilevanti ex art. 3 CEDU, che è la conseguenza dell’impianto dogmatico “flessibile” del diritto penitenziario[34] – collocato in un ambito sistematico ancipite, che lambisce sia le scienze criminali sia il diritto amministrativo –, che lo rende, probabilmente meno lineare sul piano dei principi, ma certamente più adattabile alla soddisfazione delle istanze di garanzia provenienti da aree del continente, geografiche e culturali, molto diverse.
Sotto questo aspetto, tra i molteplici profili di interesse che la “Sentenza Commisso” presenta, nell’ottica del riferimento ai parametri giurisprudenziali europei e nel più ampio contesto del dialogo tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale, non può non rilevarsi che la decisione di legittimità che si commenta rappresenta uno sforzo, riuscito, di coniugare le istanze di garanzia dei diritti del detenuto provenienti dalla Corte EDU con la situazione di grave sovraffollamento che il sistema penitenziario italiano presenta[35].
Tali questioni ermeneutiche, nel nostro ordinamento giuridico, sono state eminentemente affrontate in relazione all’applicazione del rimedio riparatorio previsto dall’art. 35-ter Ord. pen., su cui la giurisprudenza di legittimità si è confrontata a partire dalla decisione del “Caso Torreggiani contro Italia”, in alcuni interventi chiarificatori che costituiscono la piattaforma ermeneutica su cui la “Sentenza Commisso” si è innestata[36].
Le Sezioni Unite penali, dunque, si sono mosse su una base interpretativa già fortemente avvertita dei ripetuti richiami della CEDU, nella piena consapevolezza dell’imprescindibilità del dialogo ermeneutico tra i due organismi giurisdizionali nella materia penitenziaria, che costituisce una rappresentazione esemplare del sistema integrato in materia di tutela dei diritti fondamentali delle persone di cui ci stiamo occupando.
Pertanto, nelle ipotesi in cui lo spazio individuale della cella sia inferiore alla misura di tre metri quadrati – misura che la CEDU non ritiene ex se sufficiente a garantire adeguati livelli di vivibilità carceraria –, si è confermato, anche alla luce della “Sentenza Commisso”, che ci si trova di fronte a un’elevata presunzione di violazione dei parametri dell’art. 3 CEDU, superabile solo attraverso l’accertamento di adeguati fattori compensativi. Questi fattori, a loro volta, devono essere valutati attraverso una verifica concreta, di natura multifattoriale, delle condizioni detentive patite dal soggetto ristretto all’interno dell’istituto penitenziario, su cui si devono incentrare le doglianze proposte ai sensi dell’art. 35-ter Ord. pen.
Si è ribadito, in questo modo, che le decisioni sovranazionali intervenute nel “Caso Torreggiani contro Italia” e nel “Caso Mursic contro Croazia”, nel cui solco si sono mosse le Sezioni Unite penali, rappresentano il punto di riferimento convenzionale indispensabile per inquadrare le ipotesi di trattamenti penitenziari degradanti, atteso che, prima di esse, la Corte EDU non aveva fornito indicazioni univoche per definire le violazioni dell’art. 3 CEDU, con specifico riferimento allo spazio minimo individuale di cui i detenuti devono usufruire durante la loro carcerazione.
A questi parametri ermeneutici, dunque, la giurisprudenza nazionale, ulteriormente ribadita con l’intervento della “Sentenza Commisso”, si è conformata, elaborando criteri articolati e correlando tali indici alle condizioni complessive di vivibilità della struttura penitenziaria di volta in volta esaminata, allo scopo di verificare la possibilità di applicare fattori compensativi che consentono di ritenere il trattamento penitenziario rispettoso della previsione dell’art. 3 CEDU[37].
7. Le decisioni della CEDU e il ruolo di supporto ermeneutico svolto dalla Corte costituzionale: la costituzione di un sistema normativo integrato in materia di tutela dei diritti fondamentali delle persone
Nella cornice descritta nei paragrafi precedenti, infine, si ritiene utile esaminare l’impulso decisivo alla costituzione di un sistema integrato tra ordinamento nazionale e ordinamento sovranazionale fornito dalla Corte costituzionale, che è intervenuta ripetutamente sul tema dei rapporti tra le due fonti normative, dapprima, con le sentenze 3 luglio 2007, n. 348 e 3 luglio 2007, n. 349[38]; successivamente, con le sentenze 3 novembre 2009, n. 311 e 3 novembre 2009, n. 317[39]; infine, con le sentenze 25 gennaio 2011, n. 80 e 9 febbraio 2011, n. 113[40].
Attraverso queste pronunzie, che si sviluppavano lungo un arco pluriennale, la Corte costituzionale ha chiarito quali sono gli effetti prodotti dalle decisioni del giudice sovranazionale nel nostro ordinamento giuridico, affermando la maggiore resistenza delle norme della Corte EDU rispetto alle leggi ordinarie interne, che devono essere interpretate, laddove possibile, in modo conforme alle norme extranazionali, rispetto alle quali si pongono in una condizione ermeneutica recessiva.
Secondo la Corte costituzionale, di fronte a eventuali violazioni di norme convenzionali, oggettive e generali, censurate in sede sovranazionale, il mancato esperimento del rimedio di cui all’art. 34 CEDU e l’assenza, nel caso concreto, di una decisione della Corte EDU alla quale dare esecuzione non possono essere di ostacolo a un intervento dell’ordinamento giuridico italiano, attraverso i rimedi giurisdizionali ordinari[41].
L’intervento di adeguamento interno dell’ordinamento giuridico, quindi, è insostituibile, se necessario per eliminare una situazione di illegalità convenzionale, per la quale è possibile sacrificare il valore della certezza del giudicato, che deve ritenersi recessivo rispetto a possibili pregiudizi di diritti fondamentali della persona.
La giurisprudenza costituzionale, dunque, a partire dalle richiamate sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 – che sono le prime a essere intervenute sul tema in questione –, ha costantemente affermato che le norme della Convenzione EDU, nel significato loro attribuito dalla Corte di Strasburgo, specificamente istituita per dare corretta applicazione a tali disposizioni, integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espressamente previsto dal combinato disposto degli artt. 10 e 117 Cost.; tale ultima disposizione, a sua volta, impone la conformazione della legislazione nazionale ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, rendendo evidente, sotto tale profilo, il percorso che deve essere seguito per dare concreta attuazione ai principi convenzionali nell’ordinamento giuridico italiano[42].
La Corte costituzionale ha anche chiarito che «l’art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l’espressione “obblighi internazionali” in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost. […]»[43]. Interpretata in questo modo, la norma dell’art. 117, primo comma, Cost. ha finto per «colmare la lacuna prima esistente rispetto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l’osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.»[44].
In altri termini, nelle ipotesi di contrasto tra una norma interna e una norma convenzionale, afferente alla tutela dei diritti fondamentali della persona, contemplati dalla Convenzione EDU, il giudice nazionale deve verificare preventivamente la possibilità di un’interpretazione della disposizione interna conforme al sistema sovranazionale, ricorrendo a tutti gli strumenti ordinari di ermeneutica giuridica[45].
Pertanto, l’esito negativo di tale verifica preliminare e il contrasto non componibile in via interpretativa della vicenda giurisdizionale sottoposta al suo vaglio impongono al giudice ordinario di sottoporre alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117, comma primo, Cost., attraverso un rinvio pregiudiziale.
Ne consegue che l’operatività della norma convenzionale, così come interpretata dalla Corte EDU, deve necessariamente passare attraverso una declaratoria di incostituzionalità della normativa interna di riferimento o, eventualmente, attraverso l’adozione di una sentenza interpretativa o additiva della Corte costituzionale.
* Questo intervento, con alcune integrazioni, costituisce la rielaborazione della relazione svolta l’1 febbraio 2023, nell’incontro di studi organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura a Scandicci, dal 30 gennaio all’1 febbraio 2023, intitolato “Il ruolo della giurisprudenza e il principio di legalità”.
[1] Su questi temi si rinvia al successivo paragrafo 7.
[2] Si veda Cass. pen., Sez. I, 1 febbraio 2006, Dorigo, n. 2800, in Cass. C.E.D., n. 235447-01; sulla stessa linea interpretativa si colloca la più recente Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, in Cass. C.E.D., n. 273906-01.
[3] Si vedano C. cost., 12 gennaio 1993, n. 10; C. cost., 13 ottobre 1999, n. 388 del 1999.
[4] Si rinvia al successivo paragrafo 3.
[5] Si vedano Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, cit.; Cass. pen., Sez. I, 1 febbraio 2006, Dorigo, n. 2800, cit.
[6] Si veda Corte EDU, G.C., 22 giugno 2004, Broniowski c. Polonia, n. 31443/96.
[7] In questa direzione ermeneutica, soprattutto, si vedano Corte EDU, G.C., 12 marzo 2015, Mursic c. Croazia, n. 7334/13; Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, n. 43517/09.
Su questi temi si rinvia al successivo paragrafo 5.1.
[8] Si veda Corte EDU, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, n. 66655/13; su questa pronuncia si veda il commento di F. Palazzo, La sentenza “Contrada” e i cortocircuiti della legalità, in Dir. pen. proc., 2015, 9, pp. 1061 ss.
[9] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 5 ottobre 1994, Demitry, n. 16, in Cass. C.E.D., n. 199386-01; su questa sentenza si veda il commento di F.M. Iacoviello, Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere, in Cass. pen., 1995, 4, pp. 842 ss.
[10] Si veda, soprattutto, Cass. pen., Sez. Un., 12 luglio 2005, Mannino, n. 33478, in Cass. C.E.D., n. 231671-01; per un commento a questa pronuncia si rinvia a P. Morosini, La difficile tipizzazione giurisprudenziale del “concorso esterno” in associazione, in Dir. pen. proc., 2006, 5, pp. 585 ss.
[11] Si veda Corte EDU, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, cit.
[12] Si veda Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, cit.
[13] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 29 maggio 2014, Gatto, n. 42858, in Cass. C.E.D., n. 260700-01.
[14] Si veda C. cost. 18 luglio 2013, n. 210.
[15] Si veda Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, cit.
[16] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 29 maggio 2014, Gatto, cit.
[17] Si veda Corte EDU, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, cit.
[18] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 12 luglio 2005, Mannino, n. 33478, cit.
[19] Ibidem.
[20] Si veda Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, cit.
[21] Nella stessa linea ermeneutica della sentenza Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, cit., in particolare, si collocano Cass. pen., Sez. I, 10 aprile 2019, Marino, 26686, in Cass. C.E.D., n. 273615-01; Cass. pen., Sez. I, 12 gennaio 2018, Esti, n. 8661, in Cass. C.E.D., n. 272797-01.
[22] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 24 ottobre 2020, Genco, n. 8544, in Cass. C.E.D., n. 278054-01.
[23] Ibidem.
[24] Si veda Corte EDU, G.C., 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, n. 10249/03; per un commento a questa pronuncia si rinvia a F. Viganò, Una prima pronuncia delle Sezioni Unite sui “fratelli minori” di Scoppola: resta fermo l’ergastolo per chi abbia chiesto il rito abbreviato dopo il 24 novembre 2000, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 10 settembre 2012, pp. 1 ss.
[25] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 24 ottobre 2013, Ercolano, n. 34472, in Cass. C.E.D., n. 252933-01; per un commento alla pronuncia in questione si rinvia a M. Gambardella-C. Musio, Ovverruling favorevole della Corte Europea e revoca del giudicato di condanna: a proposito dei casi analoghi alla sentenza “Scoppola”, in Cass. pen., 2012, 12, pp. 1125 ss.
[26] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 24 ottobre 2013, Ercolano, n. 34472, cit.
[27] Ibidem.
[28] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 21 settembre 2020, Commisso, n. 6551; su questa pronuncia si vedano i commenti di C. Cattaneo, Le Sezioni unite si pronunciano sui criteri di calcolo dello “spazio minimo disponibile’ per ciascun detenuto e sul ruolo dei fattori compensativi nell’escludere la violazione dell’art. 3 CEDU, in www.sistemapenale.it, 23 marzo 2021, pp. 1 ss.; A. Centonze, Le Sezioni unite penali intervengono sui criteri di calcolo dello spazio individuale minimo del detenuto e sulla rilevanza dei fattori compensativi dell’offerta trattamentale, in IDV, 2021, 1, pp. 96 ss.
[29] Si veda Corte EDU, G.C., 12 marzo 2015, Mursic c. Croazia, cit.
[30] Si veda Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, n. 43517/09.
[31] Sul punto, si vedano Corte EDU, 20 ottobre 2020, Badulescu c. Portogallo, n. 33729/18; Corte EDU, 16 luglio 2019, Sulejmanovic c. Italia, n. 22635/03; Corte EDU, 15 luglio 2002, 21 Kalachnikov c. Russia, n. 47095/99; Corte EDU, G.C., 15 luglio 2002, Scadi c. Italia, n. 47095/99; Corte EDU, 21 febbraio 1975, Golder c. Regno Unito, n. 4451/70.
[32] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 21 settembre 2020, Commisso, n. 6551, cit.
[33] Ibidem.
[34] Sulla natura dogmatica “flessibile” del diritto penitenziario, si rinvia a F. Fiorentin, Il vaso di Pandora scoperchiato: la violazione dell’art. 3 CEDU per (mal)trattamenti detentivi tra accertamento “multifattoriale” e giurisprudenza europea. Appunti a margine della sentenza Corte EDU, 12 marzo 2015, Mursic c. Croazia, in Arch. Pen., n. 3/2015; F. Gianfilippi, La fase decisionale, in La tutela preventiva e compensativa per i diritti dei detenuti, a cura di F. Fiorentin, Giappichelli, Torino, 2019, pp. 483 ss.; G. Giostra, Art. 35-ter ord. pen., in Ordinamento penitenziario commentato, a cura di F. Della Casa e G. Giostra, CEDAM, Padova, VI ed., 2019, pp. 489 ss.
[35] Si veda A. Centonze, Le Sezioni unite penale intervengono sui criteri di calcolo dello spazio individuale minimo del detenuto e sulla rilevanza dei fattori compensativi dell’offerta trattamentale, cit., pp. 101-102.
[36] Sul punto, si vedano Cass. pen., Sez., Sez. I, 11 settembre 2020, Adinolfi, n. 30030, in Cass. C.E.D., n. 279793-01; Cass. pen., Sez. I, 23 giugno 2020, Biondino, n. 20985, in Cass. C.E.D., n. 279220-01; Cass. pen., Sez. I, 26 maggio 2017, Gobbi, n. 41211, in Cass. C.E.D.. n. 271087-01.
[37] Sul punto, si vedano Cass. pen., Sez. I, 9 settembre 2016, Sciuto, n. 52819, in Cass. C.E.D., n. 268831-01; Cass. pen., Sez. I, 17 novembre 2016, Morello, n. 13124, in Cass. C.E.D., n. 269514-01; Cass. pen., Sez. I, 19 dicembre 2013, Berni, n. 5728, in Cass. C.E.D., n. 257924-01.
[38] Si vedano C. cost. 3 luglio 2007, n. 348; C. cost. 3 luglio 2007, n. 349.
[39] Si vedano C. cost. 3 novembre 2009, n. 311; C. cost. 3 novembre 2009, n. 317.
[40] Si vedano C. cost. 25 gennaio 2011, n. 80; C. cost. 9 febbraio 2011, n. 113.
[41] Si vedano C. cost. 3 novembre 2009, n. 311, cit.; C. cost. 3 novembre 2009, n. 317, cit.
[42] Sul punto, si vedano C. cost. 3 luglio 2007, n. 348, cit.; C. cost. 3 luglio 2007, n. 349, cit.
[43] Si veda C. cost. 3 novembre 2009, n. 311, cit.
[44] Ibidem.
[45] Ibidem.
Sommario: 1. Lo stato di diritto. Un impegno senza fine. – 2. Magistratura e giustizia costituzionale nel sistema polacco. – 3. La crisi costituzionale e le tappe dello “svuotamento” dell’indipendenza della magistratura. – 4. La risposta dell’Unione europea. – 5. Rule of law, indipendenza della magistratura e identità nazionali: la distanza crescente tra Varsavia e Bruxelles. – 6. Perché le corti? Alcune note conclusive.
Abstract: The paper examines the crisis of the independence of the judiciary in Poland and its impact on the rule of law. The reforms adopted since 2015 have created a system in which executive interference in the administration of justice is deep, continuous, and alarming. The article also analyzes the evolution of the situation regarding judicial independence in Poland identifying key stages and causes of the constitutional erosion. The response of the European Union to this crisis is also examined. The author argues that while there have been some progresses as per EU mechanisms of enforcement, there is still a significant distance between Warsaw and Brussels on issues related to rule of law and judicial independence. Finally, the author reflects on the current role of the courts in modern legal systems emphasizing that it is essential to defend judicial independence as a cornerstone of democratic governance.
1. Lo stato di diritto. Un impegno senza fine
«Preserving liberty, democracy and the rule of law is not overnight achievement, it is rather an endless business» osservava M. Cartabia a proposito della regressione delle garanzie della magistratura in atto in Polonia e Ungheria[1].
Le riforme polacche sull’ordinamento giudiziario ed il Tribunale costituzionale approvate a partire dal 2015 hanno dato l’avvio ad un’aspra contrapposizione frontale con le istituzioni dell’Unione europea sul terreno dello Stato di diritto[2], o rule of law[3], portando altresì un coro nutrito di voci dottrinali ed istituzionali ad annoverare il paese dell’Europa centrale, accanto alla stessa Ungheria, tra le c.d. democrazie illiberali[4].
Il termine “democrazia illiberale” non è espressione nuova ma utilizzata già nel 1997 dal giornalista e politologo Fareed Zakaria 1997[5] per descrivere un fenomeno particolarmente esteso ma altrettanto eterogeneo di transizioni democratiche incomplete[6].
Né la Polonia né l’Ungheria[7], nondimeno, venivano ricomprese da Zakaria in quell’originaria categorizzazione, diversamente da altre esperienze europee derivanti dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia ovvero dal caso della Slovacchia[8]. Per i paesi dal passato sovietico, di contro, l’impressione dei commentatori del periodo era quella di una transizione costituzionale completata con successo[9].
Per il caso ungherese, a contraddire questa visione positiva prevalente tra gli osservatori è stato del resto lo stesso Orban che ha recentemente ripreso con malcelato orgoglio il concetto di democrazia illiberale in un discorso fiero del 2014 in cui affermava che «il nuovo Stato che costruiremo in Ungheria non sarà uno Stato liberale, sarà uno Stato democratico non liberale»[10].
Il risultato dell’attuale complessa situazione in Polonia pare frutto sia di cause più risalenti attribuibili, tra l’altro, ad una transizione democratica forse viziata da imperfezioni latenti sia di una più recente e decisa metamorfosi in direzione opposta alle garanzie presenti nei sistemi che si rifanno ai principi dello stato costituzionale di diritto[11].
Significativamente, questo processo di allontanamento della Polonia dalla rule of law si è giocato sin dall’inizio sul campo dell’indipendenza della magistratura e della giustizia costituzionale. Le riforme approvate dalla coalizione risultata vincitrice a seguito delle elezioni del 2015 hanno interessato l’intero sistema giudiziario ed il Tribunale costituzionale, realizzando un sistema in cui le interferenze dell’esecutivo nell’amministrazione della giustizia sono profonde, continue ed allarmanti[12].
Nell’osservare il progressivo svuotamento di significato di quel principio di separazione dei poteri affermato dall’art. 10 della Costituzione polacca, non si può fare a meno di chiedersi come si sia arrivati ad un tale risultato proprio nel cuore dell’Europa e, diversamente dal caso ungherese, a costituzione formale invariata. Lo sguardo su questo processo, a tratti portato avanti con meticolosità quasi scientifica nel caso ungherese[13] e forse ancora di più in quello polacco, restituisce una sensazione di straniamento che mette in dubbio certezze quasi assodate del costituzionalismo liberale democratico contemporaneo. Uno “strappo nel cielo di carta” della rule of law – per usare una fortunata espressione[14] – che ci paralizza e ci restituisce l’idea della fragilità di garanzie date per certe e invece agganciate ad un delicato gioco di pesi e contrappesi tra organi costituzionali.
Nelle pagine seguenti si tenterà di approfondire per sommi capi la vicenda polacca mettendo a fuoco le tappe dello svuotamento delle garanzie costituzionali sull’indipendenza della magistratura, l’esito della “giurisdizionalizzazione”[15] della conflittualità politica apertasi con l’Unione europea sul terreno della rule of law, secondo alcuni suscettibile di rappresentare una prima tappa per una “POLEXIT” e l’uso dell’argomento identitario da parte delle istituzioni polacche per giustificare la regressione democratica e l’attacco alla magistratura. In conclusione, si formuleranno alcune considerazioni per contestualizzare il caso polacco rispetto al ruolo attuale delle Corti nel contesto europeo.
2. Magistratura e giustizia costituzionale nel sistema polacco
Per comprendere la portata dello stravolgimento dell’assetto costituzionale e dell’attacco frontale alle garanzie della magistratura intervenuto in Polonia, pare utile muovere ricordando le principali tappe storico-evolutive nell’organizzazione della magistratura nell’ambito del costituzionalismo polacco[16].
Nel contesto degli ordinamenti socialisti est-europei l'esercizio della funzione giurisdizionale si fondava, di norma, su meccanismi di elezione dei magistrati. In Polonia il principio dell’elettività è stato tuttavia declinato con alcune non trascurabili peculiarità. L’art. 60 della Costituzione polacca del 1952[17] e l’art. 32 della legge sull'ordinamento giudiziario del 1964 prevedevano un meccanismo di designazione dei magistrati basato sulla chiamata ad opera del Consiglio di Stato con indicazione del Ministro della Giustizia. L’art. 48 della Costituzione conferiva altresì alla Corte Suprema il ruolo di custode del sistema[18]. Inoltre, nel periodo socialista, il sistema polacco sottoponeva la valutazione della responsabilità disciplinare dei magistrati ad un organismo specifico, il Consiglio di disciplina. Questa previsione marcava le distanze rispetto al trattamento previsto in altri paesi socialisti, nei quali le ipotesi di revoca e destituzione dei magistrati erano spesso previste direttamente per legge[19].
Una seconda fase si apriva con la c.d. Terza Repubblica di Polonia a seguito dell’approvazione della legge di revisione costituzionale del 1989[20]. Si avvia in questo momento una lunga stagione di riforme costituzionali che arriverà sino al 1997. La legge 20 dicembre 1989[21] attribuiva la nomina dei magistrati al Presidente della Repubblica e istituiva il Consiglio Nazionale della Magistratura[22], organo di rilevanza costituzionale ma il cui funzionamento è già da questa fase quasi interamente rimandato alla legislazione ordinaria[23].
La successiva revisione costituzionale del 29 dicembre 1989 innovava ulteriormente l'ordinamento giudiziario, specialmente con riguardo al ruolo del pubblico ministero. Sopravvivono tuttavia in questa fase rilevanti connessioni istituzionali tra gli organi requirenti ed il governo, come testimoniato dalla coincidenza tra Procuratore Generale e Ministro della Giustizia, successivamente venuta meno nel 2010, per poi essere nuovamente ripristinata nel 2016[24].
Il tentativo parziale di epurazione di elementi di stampo sovietico venne proseguito dapprima dalla c.d. «piccola Costituzione» del 1992[25] ed in seguito dalla Legge fondamentale del 2 aprile 1997[26], attuale punto di riferimento costituzionale e frutto di accordi compromissori tra forze provenienti dall’esperienza di Solidarność e componenti ex comuniste[27]. Ai sensi dell’art. 173 Cost. i tribunali sono indipendenti dagli altri poteri statali e i giudici risultano soggetti solo alla Costituzione e alla legge in ottemperanza al successivo art. 195 Cost. La loro nomina spetta invece al Presidente della Repubblica su proposta del Consiglio Nazionale della Magistratura (Krajowa Rada Sądownictwa)[28].
In base alla Costituzione del 1997[29], tale organo è chiamato a farsi garante dell’indipendenza della magistratura (art. 186) ed ha la possibilità di ricorrere d’innanzi al Tribunale costituzionale in relazione ad atti normativi su di essa incidenti. L’ultimo comma dell’art. 187 della Costituzione conferma la previsione di una riserva di legge molto ampia con riguardo a struttura, scopi, attività e procedure interne del Consiglio, incluse le modalità di elezione della componente togata[30]. Il Consiglio include anche una componente laica eletta dalla Dieta, o Sejm, (4 membri) e dal Senato (2 membri). La riserva di legge sull’organizzazione e le attività del Consiglio è stata attuata dalla legge Krajowej Radzie Sądownictwa (Law on the National Council of the Judiciary) del 12 maggio 2011, sulla quale è successivamente intervenuto il controverso “pacchetto giustizia” nella stagione di riforme iniziata nel 2015-2016.
La composizione del Consiglio risultante dalla Costituzione in vigore dal 1997 accosta alla componente laica e ai quindici membri togati alcuni membri di diritto. Si tratta del Primo Presidente della Corte Suprema, del Presidente dell'Alta Corte Amministrativa, del Ministro della Giustizia e di un membro nominato dal Presidente della Repubblica[31].
Quanto al Tribunale costituzionale (Trybunał Konstytucyjny), gli artt. da 188 a 197 della Suprema Carta polacca del 1997 delineano un controllo di legittimità costituzionale di tipo accentrato attribuito ad un Tribunale funzionalmente indipendente, distinto da altri organi giudiziari e composto da quindici membri con mandato novennale e col divieto di rielezione. Le attribuzioni del Tribunale costituzionale consentono un controllo di legittimità a spettro piuttosto ampio, coprendo sia atti legislativi sia, in genere, gli atti di organi centrali dello Stato ed anche gli accordi internazionali di cui, in base all’art. 188 c. 2, valuta la compatibilità a Costituzione[32]. Dal punto di vista dei canali del giudizio di costituzionalità, l’art. 79.1 prevede, tra l’altro, l’accesso diretto al Tribunale costituzionale da parte di individui che lamentino la lesione di libertà costituzionali ritenute infrante da provvedimenti di corti e organi dell’amministrazione[33]. È inoltre previsto l’accesso diretto da parte di diversi soggetti istituzionali quali il Presidente della Repubblica, il Primo Ministro, il Procuratore generale e del Consiglio nazionale della magistratura nell’ambito della funzione di garante dell’indipendenza della magistratura affidata dalla Costituzione.
3. La crisi costituzionale e le tappe dello “svuotamento” dell’indipendenza della magistratura
L’assetto dell’organizzazione della giustizia così delineato dalla Costituzione del 1997, già caratterizzato da alcune criticità sul piano della separazione tra sistema di autogoverno e potere esecutivo quali la presenza del Ministro della giustizia nell’organo di autogoverno, ha iniziato a subire decise deviazioni a partire dal 2015.
Le elezioni per il rinnovo del Parlamento di tale anno segnavano la vittoria della coalizione di destra e del Prawo i Sprawiedliwość – PiS (Diritto e giustizia), che conseguì un’inedita maggioranza assoluta.
Il partito veniva da una fase di iniziale autoesclusione dalla vita pubblica seguita ad una breve parentesi al governo tra il 2005 e il 2007 ed una nuova perdita di centralità, almeno fino al tragico incidente dell’aereo presidenziale del 10 aprile 2010, che segnava la morte del Presidente Lech Kaczyński e di alti personaggi pubblici della sua amministrazione[34].
Sin dall’inizio della legislatura avviata dal successo elettorale del 2015, il governo sostenuto dalla maggioranza guidata da PiS ha adottato ripetuti interventi che hanno profondamente rivoluzionato il Tribunale costituzionale, l’NCJ e, in generale, l’intero ordinamento giudiziario, inclusa la Corte Suprema e la Procura generale[35].
La prima mossa del nuovo governo è stata diretta proprio nei confronti del Tribunale costituzionale e si è accompagnata ad una vera e propria crisi costituzionale[36]. In prossimità delle elezioni, la precedente coalizione facente capo alla Platforma Obywatelska (Piattaforma civica - PO) aveva favorito l’elezione alla Sejm di 5 dei membri elettivi del Tribunale costituzionale, anticipando, con prassi costituzionale scorretta e censurabile, anche l’elezione di due membri che avrebbero dovuto prendere funzioni solo nel dicembre, a seguito dell’insediamento del nuovo Sejm nel novembre 2015[37].
Il Presidente Duda si è opposto all’elezione, ritenendola illegittima e rifiutando il giuramento dei giudici costituzionali. A seguito dell’insediamento alla Sejm, il 25 novembre 2015, la maggioranza guidata dal PiS ha eletto un diverso gruppo di cinque giudici, i quali hanno subito prestato giuramento. Lo stesso Tribunale costituzionale interveniva in seguito con la sentenza K 34/15 del 3 dicembre 2015, censurando l’illegittimità della nomina di 2 dei 5 giudici eletti prima delle elezioni nell’ottobre 2015[38]. Con una successiva decisione del 9 dicembre 2015[39], il giudice costituzionale riteneva ancora illegittima la nomina di 3 su 5 giudici eletti il 2 dicembre 2015 dalla Sejm a maggioranza PiS[40].
A questo punto, il PiS interveniva ripetutamente sulle disposizioni relative al funzionamento del Tribunale costituzionale, a partire dalla legge 22 dicembre 2015[41]. Le modifiche così approvate introducevano una maggioranza qualificata di 13 giudici su 15 per le decisioni sull’illegittimità costituzionale e ponevano così il Tribunale costituzionale in uno stato di sostanziale empasse[42]. Il Tribunale costituzionale si è comunque pronunciato sulla questione, censurando le modifiche apportate dal governo nella sentenza K 47/15 del 9 marzo 2016. Per tutta risposta, la sentenza non è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale polacca, innescando le critiche anche della Commissione di Venezia[43].
Gli interventi della maggioranza nei confronti del Tribunale costituzionale proseguivano nel corso del 2016 e degli anni seguenti interessando profondamente l’intero funzionamento dell’organo, sia per quanto riguarda lo status dei giudici, sia in relazione agli stessi procedimenti costituzionali, approfittando dell’ampia riserva di legge prevista dalla Costituzione[44]. Il risultato, secondo molti commentatori, è un sostanziale mutamento in senso maggioritario dell’organo che, negli ordinamenti democratici, rappresenta la garanzia massima delle posizioni antimaggioritarie ed il custode della Costituzione[45].
Parallelamente alla “cattura” dell’organo di garanzia costituzionale, la compagine governativa guidata da Diritto e Giustizia si assicurava di ristabilire la precedente coincidenza tra Ministero della Giustizia e Procuratore generale, venuta meno nel 2010 e ripristinata con la legge 28 gennaio 2016[46]. Si tratta di un elemento già presente nella tradizione costituzionale polacca che pare ulteriormente confermare quell’incompletezza del processo di piena transizione democratica di cui si è detto. È al contempo un profilo estremamente problematico per via della sua incidenza sulla separazione e l’equilibrio dei poteri oltre che sull’indipendenza dell’ordinamento giudiziario[47]. Si deve infatti considerare che sussistono nell’ordinamento polacco poteri di supervisione del Procuratore generale sull’operato delle procure, oltre alla possibilità di impartire istruzioni sulla conduzione dei processi[48]. A ciò si aggiunge che, in base alla Costituzione, il Ministro della Giustizia – Procuratore generale siede anche nell’organo di autogoverno della magistratura polacca, come membro di diritto.
Altre istituzioni di rilievo del sistema politico sono state interessate dai tentativi di estensione dell’influenza del PiS sulla vita pubblica. Il riferimento è alla legge 15 gennaio 2016 che interviene sulla disciplina della polizia e dell’ordine pubblico ampliando le facoltà di sorveglianza online[49] e le misure antiterrorismo[50]. Ma anche alla stampa, interessata ad esempio dalla legge 22 giugno 2016 relativa al Consiglio Nazionale dei media.
L’attacco all’ordine giudiziario è stato però trasversale e forse il più massiccio. La motivazione politica ufficiale di un tale accanimento è stata individuata nella presunta corruzione e inefficienza del sistema giudiziario, visto dalla maggioranza come asserita istanza di resistenza corporativa al rinnovamento necessario alla Polonia[51].
Nel 2017, veniva adottato un pacchetto di riforma generale dell’intero sistema giudiziario, accompagnato da un coro di critiche e preoccupazioni da parte dell’Unione europea e degli osservatori, che ha interessato tutti i settori della magistratura, inclusa la formazione dei giudici[52]. Tra le modifiche più rilevanti, vi sono alcune misure riferite al procedimento disciplinare e alla Corte suprema. Presso tale organo vengono introdotte due nuove Camere di cui una disciplinare (Izba Dyscyplinarna), competente a decidere, anche in appello, sull’irrogazione di provvedimenti disciplinari ai magistrati[53] ed una competente in materia di controllo straordinario degli affari pubblici[54]. Le modifiche sul procedimento disciplinare sono consistenti e critiche. La nomina dei componenti della Camera disciplinare spetta al Presidente della Repubblica, il quale dopo la riforma ha altresì la possibilità di nominare il procuratore disciplinare e, se entro trenta giorni non provvede in tal senso, il Ministro della Giustizia può comunicare al Presidente la propria intenzione di procedere e, in caso di nuova inerzia di quest’ultimo, è il Ministro della giustizia a nominare il procuratore disciplinare[55].
Si tratta di profili che hanno attirato anche le censure di un rapporto del GRECO - Gruppo degli Stati contro la corruzione, organo di monitoraggio del Consiglio d’Europa, che ha rilevato un eccessivo coinvolgimento dell’esecutivo all’interno del procedimento disciplinare a seguito delle modifiche legislative[56].
La legge del 20 dicembre 2017 sulla Corte Suprema, inoltre, abbassava l’età pensionabile dei giudici della Corte Suprema di cinque anni. Ciò ha portato alla sostituzione di una percentuale intorno al 40% dei componenti della Corte[57], con la nomina dei nuovi giudici da parte del Presidente della Repubblica su proposta del Consiglio Nazionale della Magistratura[58]. Di fatto una “purga” giudiziaria alla quale i giudici della Corte Suprema potevano sottrarsi solo richiedendo una proroga al Presidente della Repubblica che, in via del tutto discrezionale, poteva concederla o meno[59].
Oltre ai giudici della Suprema Corte, le riforme non hanno risparmiato anche i magistrati ordinari. Anche per loro l’abbassamento repentino dell’età pensionabile è stato lo strumento per innovare le fila del giudiziario selezionando i giudici da far permanere, su richiesta di proroga quest’ultimi e con valutazione discrezionale e insindacabile del Ministro della Giustizia[60]. Considerato che lo stesso Ministro della giustizia (già anche procuratore generale e membro dell’organo di autogoverno) è inoltre titolare della nomina dei presidenti dei tribunali, si apprezza la totale pervasività dell’azione dell’esecutivo nei confronti di tutta la magistratura polacca.
Anche il Consiglio Nazionale della Magistratura non è stato risparmiato da profonde modifiche operate dalla compagine governativa guidata dal PiS. La legge del 20 dicembre 2017 ha infatti previsto la cessazione dei membri del Consiglio entro tre mesi per azzerare eventuali membri avversi della precedente consiliatura ed ha innovato le modalità d’elezione dei membri togati, prima eletti dalla magistratura ed oggi dalla Sejm. Ciò ha ovviamente affidato alla scelta della maggioranza guidata dal PiS l’elezione dei membri togati del Consiglio, a sua volta responsabile della proposizione delle nomine dei giudici al Presidente.
Posto che il Presidente Duda (riconfermato alle ultime elezioni del 2020) è esponente del PiS, allo stato attuale, il partito di maggioranza ha di fatto la possibilità di incidere sull’elezione di 22 su 25 consiglieri dell’organo di autogoverno polacco. La separazione dei poteri, pur affermata dall’art. 10 della Costituzione, risulta in questo contesto meramente virtuale e poco più che una clausola di stile[61].
4. La risposta dell’Unione europea
A seguito della stagione di riforme avviata dal “Pacchetto giustizia” e della regressione delle garanzie del giudiziario, le istituzioni eurounitarie sono intervenute azionando tutti gli «anticorpi esterni»[62] messi a disposizione dal diritto dell’Unione. In primo luogo, con il mezzo più “tradizionale” della procedura di infrazione di cui all’art. 258 TFUE[63], ottenendo sentenze di condanna della Polonia da parte della Corte di giustizia rimaste, per la maggior parte, ignorate nella sostanza dalle istituzioni polacche[64]. Il riferimento è, tra le altre, alla sentenza del 24 giugno 2019 sull’indipendenza della Corte Suprema polacca[65], alla sentenza del 5 novembre 2019, causa C-192/18 avente ad oggetto l’indipendenza dei tribunali ordinari ed alle decisioni relative alle modifiche al procedimento disciplinare, con l’ordinanza dell’8 aprile 2020[66] e la sentenza del 15 luglio 2021[67].
Accanto a questa risposta esterna, si devono ricordare anche le reazioni interne alla Polonia[68]. Oltre a mobilitazioni di piazza spontanee e coordinate dall’opposizione, alla marcia delle toghe di Varsavia del gennaio 2020, alle prese di posizione della stampa contraria alla svolta illiberale, di alcune università e di organizzazioni non governative nazionali, si può richiamare anche la reazione “giudiziaria” di diversi giudici polacchi che hanno visto nella Corte di Giustizia un interlocutore naturale a cui rivolgersi. Ne è un esempio il caso A.K. e a., deciso con sentenza del 19 novembre 2019 e originato da rinvii pregiudiziali proveniente dalla stessa Corte Suprema polacca, sezione lavoro e previdenza, nell’ambito di giudizi instaurati da giudici della Corte Suprema e della Corte Suprema amministrativa rimasti vittima del pensionamento anticipato e del diniego alla successiva richiesta di proroga[69]. In tale occasione, la Grande Sezione della Corte di Giustizia ha tra l’altro stabilito che l'articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e la direttiva 2000/78[70] ostano alla sottoposizione di controversie aventi ad oggetto l’applicazione del diritto dell'Unione alla competenza esclusiva di un organo non indipendente e imparziale[71].
Le autorità polacche hanno per la verità adottato alcuni limitati interventi di revisione a seguito delle indicazioni provenienti dalle istituzioni unionali ma si è trattato per lo più di limature di facciata, del tutto inidonee a far rientrare il paese sui binari dell’indipendenza complessiva del sistema giudiziario[72].
Questa risposta insufficiente della Polonia ha spinto l’Unione a valutare “unprecedented measures” nel quadro dei meccanismi preventivi di salvaguardia dello stato di diritto concessi dai trattati[73]. Si tratta dell’ulteriore procedura – complementare a quella di infrazione[74] – prevista dall’art. 7 comma 1 TUE, che consente di reagire a rischi di violazione dei valori fondanti dell’Unione di cui all’art. 2 TUE. Tra questi, infatti, figura anche il rispetto dello stato di diritto[75].
Il procedimento è pensato per assicurare il rispetto dei valori eurounitari da parte degli Stati che sono già membri dell’Unione. Mentre per gli aspiranti Stati membri sono infatti presenti rigorosi meccanismi di condizionalità in entrata che consentono un vaglio scrupoloso sul rispetto dei valori fondanti, tra cui la rule of law, più difficile è l’accertamento di violazioni sopravvenute da parte di Stati membri che partecipano (e votano) già ai lavori delle istituzioni europee[76].
Anche per tali ragioni e sulla scorta delle esperienze di Polonia e Ungheria[77], si è registrata negli ultimi anni la tendenza ad una maggiore precisazione dei contenuti del principio dello Stato di diritto all’interno del diritto derivato dell’UE, come dimostra l’approvazione del Regolamento 2020/2092 del 16 dicembre 2020. Tale regolamento introduce un sistema generale di condizionalità a protezione del bilancio dell'Unione che comprende, tra l’altro, il rispetto dei principi di legalità, certezza del diritto, divieto di arbitrarietà del potere esecutivo, tutela giurisdizionale effettiva, compreso «l’accesso alla giustizia, da parte di organi giurisdizionali indipendenti e imparziali, anche per quanto riguarda i diritti fondamentali» e la separazione dei poteri[78]. L’indipendenza del giudiziario è del resto un tratto fondamentale della rule of law oltre che un elemento strettamente riconnesso ai principi cardine del costituzionalismo, quali la tutela dei diritti[79].
Nell’attivare la misura dell’art. 7 TUE, peraltro, l’Unione si è orientata sul meccanismo più moderato previsto dal comma 1 ed è stata per questa scelta oggetto di critica da chi avrebbe voluto una reazione più decisa, ad esempio sulla base della diversa procedura di cui al comma secondo dell’art. 7. Quest’ultima consente di far fronte ad una violazione grave e persistente dei valori fondanti e di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro dall’applicazione dei trattati, tra cui i diritti di voto del rappresentante nel Consiglio[80].
Il problema di questa diversa procedura è che richiede per la sua dichiarazione l’unanimità del Consiglio Europeo su proposta di un terzo degli Stati membri. Di contro, la necessità dell’unanimità si scontrava con l’annunciata opposizione dell’Ungheria, orientata su posizioni di veto reciproco con la Polonia e ciò ha probabilmente contribuito a far accantonare l’ipotesi[81].
Significative sono state anche le reazioni di altre istituzioni del contesto europeo e dei giudici di altri Stati membri. Riguardo al primo aspetto, l’ENCJ – dopo aver rivolto plurimi moniti al governo e al parlamento della Polonia con riguardo al venir meno delle fondamentali garanzie di indipendenza del giudiziario – è stata tra le prime istituzioni ad agire energicamente, sospendendo il Consiglio Nazionale del giudiziario polacco dalla rete europea dei Consigli di Giustizia[82].
Quanto al secondo profilo, in pendenza della procedura ex art. 7 TUE, i Tribunali di alcuni Stati membri hanno ritenuto opportuno inoltrare rinvii pregiudiziali ex art. 267 TFUE per evitare “complicità involontarie” nella violazione dei principi di indipendenza del giudiziario alla base della rule of law in caso di cooperazione giudiziaria con autorità giurisdizionali polacche.
Emblematico, nella sua peculiarità, è il caso LM, originato da un rinvio pregiudiziale della Corte Suprema irlandese alla Corte di Giustizia[83]. Destinataria di un ordine di esecuzione per un MAE (mandato d’arresto europeo) su richiesta della Polonia, la Corte irlandese domandava alla Corte di Lussemburgo se fosse in effetti tenuta a dar seguito a tale ordine e disporre l’estradizione dell’imputato in favore della Polonia. Atteso che verso quest’ultima era già infatti stata attivata la procedura di cui all’art. 7 c. 1 TUE, la Corte irlandese si chiede se il trasferimento dell’imputato in Polonia non esponesse al rischio di violazioni ai principi del giusto processo, vista la situazione delle corti in atto in Polonia[84].
La Corte di Giustizia conferma l’impostazione del giudice rimettente e dei propri precedenti[85], ribadendo l’obbligo di tutti i giudici degli Stati membri di rispettare i valori comuni europei e affermando che è proprio il giudice nazionale a dover valutare, in concreto, la sussistenza di una violazione dello Stato di diritto[86]. Questa valutazione avviene da un lato, accertando l’esistenza di violazioni sistemiche della rule of law e, dall’altro, verificando se l’esecuzione della condanna dell’imputato nello Stato richiedente non esponga a sua volta ad una violazione della rule of law[87]. Per la Corte, in particolare, il giudice deve verificare «l’esistenza di un rischio reale di violazione del diritto fondamentale a un equo processo, connesso a una mancanza di indipendenza dei giudici di detto Stato membro, a causa di carenze sistemiche o generalizzate in quest’ultimo Stato»[88].
L’orientamento della Corte di Giustizia è stato salutato da commenti molteplici in dottrina[89]. Le diverse posizioni si polarizzano tra letture più caute che tendono a far prevalere l’esigenza di mantenere la fiducia tra autorità giurisdizionale come valore fondamentale della cooperazione giudiziaria europea (almeno fino alla conclusione della procedura ex art. 7 TUE)[90] e commenti di plauso al richiamo del ruolo dei giudici degli Stati membri[91]. La scelta della Corte ha in effetti il pregio di contribuire a realizzare un controllo allargato nel contesto europeo dell’operato di autorità giudiziarie “malate” di uno Stato membro. Se la valutazione della violazione dello Stato di diritto viene posta in capo ai diversi giudici nazionali, infatti, si moltiplicano le occasioni per portare alla luce mancanze strutturali nelle garanzie dei valori fondanti dell’Unione. In un contesto in cui le Corti diventano sempre più soggette ad ingerenze degli altri poteri, del resto, il rischio è che risultino più rari i rinvii pregiudiziali di autorità giudiziarie polacche alla Corte di Giustizia. D’altro canto, va considerato anche l’ulteriore rischio derivante da orientamenti difformi tra giudici degli Stati membri sulla valutazione del rispetto dello Stato di diritto oltre che delle possibili “ritorsioni” sul piano della collaborazione giudiziaria ad opera delle autorità giudiziarie di realtà illiberali[92]. Una soluzione intermedia, con una limitazione della discrezionalità favorita da indici oggettivi fissati dalla Corte di Giustizia e non ancorati solo a valutazioni politiche della Commissione, potrebbe forse orientare la valutazione sul grado di indipendenza delle autorità giudiziarie degli altri Stati membri, riducendo il rischio di letture difformi[93].
5. Rule of law, indipendenza della magistratura e identità nazionali: la distanza crescente tra Varsavia e Bruxelles
Diversamente dall’Ungheria, in Polonia il PiS non ha ottenuto una maggioranza tale da poter consentire un programma a colpi di riforme costituzionali. L’assetto delle garanzie costituzionali sulla magistratura, così, è stato semplicemente svuotato o «degradato al rango di un documento politico privo di valore vincolante, come lo era stata nei decenni del socialismo reale»[94].
Non dissimile, in questa prospettiva, è anche il tentativo di svuotare di significato principi fondamentali dell’Unione europea come quello del primato del diritto eurounitario sul diritto nazionale[95]. Tale processo è avvenuto attraverso un'interpretazione illiberale della Costituzione polacca[96] fondata su un’enfatizzazione dell’identità nazionale che ha raggiunto il proprio culmine[97] con la decisione del 7 ottobre 2021 del Tribunale Costituzionale (di seguito anche “TC”)[98]. La decisione origina da un articolato ricorso al giudice costituzionale proposto dal Primo ministro oltre che dal Presidente della Repubblica, il Sejm ed altre figure istituzionali[99].
Nel dispositivo[100], il TC dichiarava alcune disposizioni del TUE incompatibili con la Costituzione polacca, affermando la prevalenza di quest’ultima. Si tratta di un vero e proprio ribaltamento del principio del primato del diritto eurounitario e non già di una semplice rivendicazione dei c.d. controlimiti[101]. Non si contesta infatti la presenza di un’antinomia irrisolvibile tra singole disposizioni unionali e la Costituzione ma si denuncia l’avvio di una presunta «nuova fase» dell’Unione tra popoli europei che esorbiterebbe dalle competenze attribuite dalla Polonia in virtù dei trattati e si porrebbe radicalmente in contrasto con la Costituzione polacca[102].
Per il giudice costituzionale questa nuova fase sarebbe in conflitto con gli articoli 1 commi 1 e 2 e 4.3. del TUE, offuscando la supremazia della Costituzione polacca e facendo perdere alla Polonia la possibilità di agire alla stregua di uno stato sovrano democratico[103].
Inoltre, la Costituzione polacca sarebbe ulteriormente incompatibile con l’art. 19, par. 2, c. 2 del TUE, anche in combinato disposto con l’art. 2 TUE, permettendo ai giudici nazionali comuni e di legittimità di aggirare le disposizioni costituzionali ed emettere decisioni sulla base di disposizioni da ritenersi non vincolanti siccome abrogate ad opera del Sejm ovvero dichiarate incostituzionali dal TC[104].
Da ultimo, il punto 3 del dispositivo censura ancora gli artt. 2 e 19 del TUE nella parte in cui attribuiscono ai giudici nazionali la competenza a controllare la legalità delle procedure di nomina dei giudici da parte del Presidente della Repubblica e verificare la legittimità delle delibere del Consiglio nazionale della magistratura ed eventualmente rifiutare di accettare una nomina a giudice avvenuta nelle forme della Costituzione[105].
La decisione presenta numerose anomalie, a partire dai soggetti promotori, con il lungo ricorso promosso da attori istituzionali di primo piano già definito «un trattato di diritto “sovranista”»[106], passando per le modalità di comunicazione (dispositivo e successivo comunicato stampa). La frattura con il diritto eurounitario è radicale e, tuttavia, la sentenza sembra porsi in contraddizione con le disposizioni costituzionali oltre che con i precedenti dello stesso TC[107] e le posizioni espresse nell’ambito dell’integrazione europea. Oltre al fatto che la Costituzione del 1997 era già da tempo in vigore all’epoca della versione attuale dei Trattati, la clausola di limitazione internazionale di sovranità di cui all’art. 90 della Suprema Carta polacca consente la delega ad organizzazioni internazionali[108]. In questo quadro, non appare casuale lo sforzo del TC di sostenere che alla base dell’attuale situazione di frizione vi sia non già un difetto genetico dei trattati bensì una loro interpretazione a traiettorie sghembe da parte della Corte di Giustizia[109].
Le contraddizioni già menzionate sono state evidenziate e contestate in un comunicato redatto dai giudici del TC in regime di pensionamento[110]. Il comunicato denuncia innanzitutto la contrarietà della decisione con la Costituzione[111] e contesta l’esistenza di un’incompatibilità tra l’applicazione del diritto dell’Unione da parte delle corti polacche e della Costituzione nei termini indicati dal TC[112]. Di particolare interesse appare anche la lettura sulla vera finalità della decisione: quest’ultima non sarebbe di fatto destinata a sortire altro effetto legale se non esercitare una forma di pressione sui giudici polacchi minacciandoli con la spada di Damocle del procedimento disciplinare[113].
La Costituzione polacca, svuotata della sostanza delle sue garanzie per quanto riguarda l’indipendenza della magistratura e la separazione dei poteri[114], viene in questa fase utilizzata dal TC, in accoglimento della prospettazione di esponenti della maggioranza del PiS, come grimaldello per forzare le resistenze provenienti dall’ordinamento eurounitario in nome di una presunta identità costituzionale nazionale da far prevalere[115].
L’enfasi sull’argomento identitario di cui all’art. 4 TUE, comune in parte anche al caso ungherese, omette convenientemente di considerare che l’indipendenza delle corti e dei singoli giudici nazionali costituisce un valore comune dell’Unione europea da tenere in considerazione anche nell’interpretazione e applicazione del principio del primato del diritto unionale[116]. I giudici degli Stati membri, infatti, facendosi garanti dell’applicazione del diritto unionale agiscono anche nell’interesse dell’Unione europea, la quale deve poter contare su un corpus giudiziario indipendente. Di contro, l’identità nazionale non può rappresentare una «clausola di esonero» del diritto dei trattati da invocare a mo’ di exemption culturale a fronte di previsioni poco gradite agli ordinamenti nazionali[117].
6. Perché le corti? Alcune note conclusive
Il caso polacco rientra in una tendenza più generale in atto in alcuni ordinamenti nell’area dell’est europeo che, ormai da diversi anni, si sono posizionati «in una zona grigia, dove i principi del costituzionalismo sembrano essere messi decisamente alla prova, minando in questo modo l’ubi consistam dell’integrazione sovranazionale europea»[118].
Se è vero che già nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino si affermava che «Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione»[119], si apprezza la profondità della lesione all’ordinamento costituzionale polacco derivante dalla completa erosione delle garanzie del giudiziario e dell’autonomia di questo dagli altri poteri[120].
Tra le molte riflessioni che lo strappo in atto in Polonia suggerisce, pare interessante soffermarsi sulle ragioni che hanno indotto ad orientare la compagine governativa guidata dal PiS ad un attacco così pervicacemente condotto nei confronti della magistratura e del Tribunale costituzionale. Sebbene non si tratti certo di un disegno nuovo[121], il tentativo portato avanti in Polonia e Ungheria pare indicativo del ruolo assunto dalle corti nei sistemi giuridici contemporanei, specialmente nel contesto europeo.
In un quadro giuridico contemporaneo in cui le corti hanno da tempo svestito i panni di quella bouche de la loi evocata da Montesquieu, di fronte alla crisi del parlamentarismo i tribunali ordinari e costituzionali diventano sempre più interlocutori primari e motore dell’evoluzione dell’ordinamento in una pluralità di settore quali i nuovi diritti, la bioetica[122] e le sfide derivanti dall’innovazione tecnologica. Si tratta infatti di argomenti che spesso mal si coniugano con i tempi delle assemblee parlamentari o con le difficoltà ad individuare soluzioni normative generali condivise su temi divisivi[123].
Dall’altra parte, si apprezza anche un’esacerbazione della tendenza a spostare sul piano giudiziario i conflitti politici. Basti pensare al ruolo delle corti sul tema Brexit[124], in materia di verifica delle elezioni e con riguardo alle istanze separatiste[125].
L’integrazione sovranazionale e il ruolo dei giudici nazionali nel sistema eurounitario e nell’applicazione del diritto dell’Unione hanno ulteriormente arricchito la funzione del giudice e le ipotesi in cui quest’ultimo può discostarsi dalla legge nazionale, consentendo la disapplicazione del diritto interno contrario a quello unionale.
Tutto ciò non fa che contribuire ad un’accresciuta presenza del giudiziario sulla scena pubblica che si accompagna, tuttavia, ad una maggiore esposizione della magistratura. Quest’ultima, infatti, non può più vedersi come un potere nullo o, per quanto riguarda il giudice costituzionale, come un mero legislatore negativo, ma assume una centralità crescente che la rende anche un bersaglio naturale per un regime illiberale[126].
È dunque in questo contesto che deve leggersi l’attacco alle radici dell’indipendenza della magistratura nel cuore del continente europeo e si deve riflettere sulle condizioni (e le carenze) che lo hanno reso possibile, oltre che sulle contromisure da adottare. L’attuazione delle garanzie di indipendenza della magistratura dagli atri poteri, nella maggior parte delle costituzioni affidata alla legislazione ordinaria con lo strumento della riserva di legge, deve essere circondata da cautele e meccanismi di controllo. I casi di Polonia e Ungheria suggeriscono infatti che sono molti gli strumenti di pressione ed i meccanismi di interferenza che maggioranze illiberali possono utilizzare per minare l’indipendenza dei giudici, a partire da temi sensibili quali l’età pensionabile, le condizioni e i carichi di lavoro fino ad arrivare alla disciplina degli incarichi direttivi, dei trasferimenti, del trattamento economico, oltre che delle stesse caratteristiche dei procedimenti di nomina.
Riserve di legge troppo ampie, come sembra suggerire il caso polacco, possono sottrarre importanti aspetti dell’organizzazione del giudiziario dalle garanzie della rigidità costituzionale e finanche arrivare a paralizzare gli organi di controllo costituzionale, primi custodi delle carte. Ma anche un inadeguato sistema di pesi e contrappesi può rischiare di consegnare a forze illiberali margini di azione tali da stravolgere il sistema e svuotare di significato le conquiste dello stato di diritto.
In questo contesto, l’integrazione sovranazionale ha consentito di affiancare alle garanzie interne altri organismi di controllo esterni, custodi ultimi di valori facenti parte del patrimonio comune europeo. Non sorprendono allora risposte come la sentenza K 3/21 che tentano di sterilizzare il principio del primato e dissuadere i giudici nazionali dall’utilizzare uno degli ultimi strumenti rimasti per sindacare le scelte del legislatore. Neppure sorprende l’accusa rivolta alla Corte di Giustizia di aver dato avvio ad una nuova fase “imprevista”, nella misura in cui quest’ultima è venuta a propria volta ad assumere il ruolo (inedito) di possibile garante dell’indipendenza dei giudici nazionali.
L’inasprimento della conflittualità tra Polonia, Ungheria e Unione europea ha comunque avuto il merito, secondo alcuni commentatori, di promuovere un affinamento degli strumenti di garanzia dell’acquis europeo in materia di rule of law, oltre che delle misure di enforcement[127]. Se per il momento alla punta del conflitto rappresentata dalla sentenza K 3/21 non è seguito un subitaneo e serio sviluppo dell’opzione POLEXIT[128], costante è stato l’orientamento seguito dalla Corte di Giustizia nell’ambito della c.d. condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione europea di cui al regolamento 2020/2092 e ferma la volontà di ancorare l’accesso ai fondi europei alla garanzia della rule of law[129].
Le misure senza precedenti adottate dall’Unione, in questo senso, sembrano volte a far passare l’idea che, contrariamente da quanto rivendicato dalle democrazie illiberali, l’identità nazionale non può porsi in antitesi con l’indipendenza della magistratura perché proprio quest’ultima, nel sistema valoriale europeo, «concorre a creare l’identità nazionale quale fondamento della ‘struttura costituzionale’ di cui parla l’art 4, paragrafo 2, TUE»[130].
[1] M. CARTABIA, The rule of law and the role of courts, in Italian Journal of Public Law, 1, 2018, 2.
[2] «Si può riconoscere la qualità di Stato di diritto quando i poteri pubblici siano soggetti alla legge e siano previste ed efficaci la difesa e la promozione dei diritti dell’uomo (diritti civili, politici, sociali) e delle libertà fondamentali, nonché la indipendenza dei giudici (strumentale rispetto alla garanzia dei diritti). Nel corso del tempo, la libertà di stampa ha acquisito una importanza centrale e riconosciuta, come condizione del controllo sulla correttezza della azione dei poteri pubblici (e privati)». V. ZAGREBELSKY, L’Unione Europea e lo Stato di diritto. Fondamento, problemi, crisi, in Giustizia Insieme, 28 maggio 2021.
[3] Valore fondante dell’Unione in base all’art. 2 TUE, che gli Stati membri si impegnano a promuovere nel resto del mondo.
[4] Si vedano ex multis J. SAWICKI, Democrazie illiberali? L’Europa centro-orientale tra continuità apparente della forma di governo e mutazione possibile della forma di Stato, Milano, 2018; M.A. ORLANDI, La “democrazia illiberale”. Ungheria e Polonia a confronto, in Dir. pubbl. comp. eur., 2019, 167. M. BÁNKUTI, G. HALMAI, K.L. SCHEPPELE, Hungary’s Illiberal Turn: Disabling the Constitution, in Journal of Democracy, 2012, 138 ss.; R. UITZ, Can you tell when an illiberal democracy is in the making? An appeal to comparative constitutional scholarship from Hungary, in International Journal of Constitutional Law, 2015, spec. 296 ss. Tra gli studi più recenti al momento della scrittura del presente saggio, menziona un cosciente e diffuso “contesto ideologico illiberale” E. CUKANI, "Polish Gate" e il rafforzamento del diritto dell'UE, in DPCE online, 2022 fasc. 1, pp. 29 – 50.
[5] F. ZAKARIA, The rise of illiberal Democracy, in Foreign Affairs, Nov/Dec 1997.
[6] Termine vicino, sebbene non sovrapponibile, a quello di “democratura” di P. HASSNER, Démocrature” et “Réfolution” ou la transition bouleversée, in P. GREMION, P. HASSNER (a cura di), Vents d’Est. Vers l’Europe des États de droit?, Paris, 1990 che indica un sistema formalmente strutturato con modalità democratiche ma sostanzialmente autoritario. Occorre rilevare in dottrina una varietà di ricostruzioni e definizioni del processo di decadimento democratico che, alle più diffuse espressioni di “democrazia illiberale” e “democrature”, ne accosta altre come “costituzionalismo autoritario o populista”. Osserva al riguardo A. DI GREGORIO, I fenomeni di degenerazione delle democrazie contemporanee: qualche spunto di riflessione sullo sfondo delle contrapposizioni dottrinali, in Nad-Nuovi Autoritarismi e democrazie: Diritto, Istituzioni, Società, 2, 2019, 2 ss. come siano stati contate sino a 80 termini per definire i fenomeni di decadimento democratico. Sulla categoria del costituzionalismo illiberale si veda ancora T. DRINÒCZI, A. BIEŃ, Illiberal Constitutionalism: The Case of Hungary and Poland, in German Law Jurnal, 20, 2019.
[7] Ormai definite “usual suspects” tra le democrazie illiberali, cfr. L. PIERDOMINICI, La riforma della giustizia israeliana: cronache dall’ultima frontiera costituzionale, in Giustizia Insieme, 31.3.2023.
[8] G. DELLEDONNE, Ungheria e Polonia: punte avanzate del dibattito sulle democrazie illiberali all’interno dell’Unione Europea, in DPCE Online, 3, 2020, 3999 ss. Si veda anche R. TARCHI, Le “democrazie illiberali” nella prospettiva comparata: verso una nuova forma di stato? Alcune riflessioni di sintesi, in DPCE online, n. 3, 2020.
[9] F. ZAKARIA, cit., 29 ss. Sulle transizioni democratiche si vedano anche S. GAMBINO, Costituzionalismo europeo e transizioni democratiche, Giuffrè, 2003, E. CECCHERINI, G. ROLLA, Scritti di diritto costituzionale comparato, Genova, 2005, 11 ss. e, per quanto riguarda le transizioni degli stati ex URSS, M. GANINO, Dall’URSS alla Comunità di Stati Indipendenti, Milano, 1992 e S. BARTOLE, P. GRILLI DI CORTONA (a cura di), Transizione e consolidamento democratico nell'Europa centro-orientale, edito da Torino, 1997.
[10] Discorso riportato da M.A. ORLANDI, La “democrazia illiberale”. Ungheria e Polonia a confronto, in Dir. pubbl. comp. eur., 2019, 167.
[11] Ricorda ancora V. ZAGREBELSKY, cit., al riguardo, come «La forma di stato che va sotto il nome di Stato di diritto ha alle spalle eventi storici diversi: dalla Rivoluzione inglese (1688-89) alla Rivoluzione americana (1776), dalla Rivoluzione francese (1789) alle Rivoluzioni europee del 1848 e poi lo sviluppo dello Stato costituzionale di diritto. Il risultato ha contenuti che possono ritenersi acquisiti, anche se i loro contorni possono apparire non definiti. Si tratta infatti di una nozione storica e politica, che può assumere caratteri diversi, più o meno marcati. (…) Si può riconoscere la qualità di Stato di diritto quando i poteri pubblici siano soggetti alla legge e siano previste ed efficaci la difesa e la promozione dei diritti dell’uomo (diritti civili, politici, sociali) e delle libertà fondamentali, nonché la indipendenza dei giudici (strumentale rispetto alla garanzia dei diritti). Nel corso del tempo, la libertà di stampa ha acquisito una importanza centrale e riconosciuta, come condizione del controllo sulla correttezza della azione dei poteri pubblici (e privati)». Sulle garanzie fondamentali della magistratura si veda ancora R. GUASTINI, A. PIZZORUSSO, La Magistratura, tomo I (artt. 101-103), in Commentario alla Costituzione, Bologna, 1994.
[12] M. BASILICO, Dopo la marcia delle mille toghe a Varsavia «per noi giudici polacchi un futuro ancora a rischio», in Giustizia Insieme, 17.02.2020.
[13] Cfr. S. BENVENUTI, Dodici anni di riforme della giustizia in Ungheria, in Giustizia Insieme, 29.04.2023.
[14] L. PIRANDELLO, Il Fu Mattia Pascal, Milano, 1919, capitolo xii.
[15] S. TROILLO, Controlimiti versus Stato di diritto? Gli esiti della giurisdizionalizzazione dello scontro fra Unione europea e Polonia sull’indipendenza della magistratura, in Consulta Online, 1, 2022, 115 ss.
[16] Per un inquadramento, S. CECCANTI, Il costituzionalismo polacco dal 1791 ad oggi, in federalismi.it, 10/2006.
[17] Costituzione della Repubblica Popolare Polacca, nota anche come “Costituzione di luglio”.
[18] E. CUKANI, Condizionalità europea e giustizia illiberale: from outside to inside?, Napoli, 2021, 131.
[19] M. MAZZA, Le garanzie istituzionali della magistratura in Polonia: un presente difficile, un futuro incerto, in DPCE Online, 4, 2020, 4970 ss.
[20] L. 7 aprile 1989. In argomento M. MIŻEJEWSKI, La crisi della democrazia in Polonia, in Federalismi, 21 novembre 2018.
[21] Legge 20 dicembre 1989 (Dz. U. 73, 436).
[22] Di seguito “NCJ”.
[23] E. CUKANI, Condizionalità europea e giustizia illiberale: from outside to inside?, Napoli, 2021, 189 ss. Per un inquadramento, si veda anche M. VOLPI, I Consigli della magistratura in Europa, in Cosmopolis, 1, 2009.
[24] Cfr. M. MAZZA, cit., 4970.
[25] La quale non rappresentò però un significativo avanzamento nelle garanzie di indipendenza della magistratura come osserva E. CUKANI, Condizionalità europea e giustizia illiberale: from outside to inside?, Napoli, 2021.
[26] In argomento, C. FILIPPINI, Polonia, Bologna, 2013, 48-53.
[27] La rigidità della Costituzione, prima garanzia formale dell’autonomia del giudiziario ivi affermata, è garantita dal procedimento aggravato di revisione costituzionale previsto dall’art. 235 Cost.
[28] Disciplinato agli artt. 186 e 187 della Costituzione.
[29] Ma la stessa previsione era già presente nella legge sul Consiglio Nazionale della Magistratura del 20 dicembre 1989.
[30] In base all’art. 187, sono 15 i membri togati, scelti tra i giudici della Corte Suprema, dei tribunali comuni, dei tribunali amministrativi ed anche tra i giudici dei tribunali militari.
[31] M. MAZZA, cit., 4971.
[32] Nel dettaglio, l’art. 88 attribuisce in particolare la competenza a decidere sulla conformità della legge e degli accordi internazionali alla Costituzione; sulla compatibilità tra una legge e gli accordi internazionali ratificati dalla Polonia; della conformità a Costituzione di altre fonti emanate dagli organi centrali dello Stato; la compatibilità dei partiti con il sistema costituzionale. Accanto alle funzioni di legittimità, il Tribunale è anche competente a dirimere le controversie insorte tra organi dello Stato.
[33] F. FEDE, Il Tribunale costituzionale nella nuova Costituzione polacca, in Quaderni costituzionali, 1, 1999, 169-182.
[34] Cfr. A. DI GREGORIO, A. ANGELI, J. SAWICKI, Il costituzionalismo “malato” in Ungheria e Polonia, in A. DI GREGORIO (cur.), I sistemi costituzionali dei paesi dell’Europa centro-orientale, baltica e balcanica, Padova, 2019, 378 ss.
[35] S. MORETTI, La riforma del sistema giudiziario polacco e le risposte del Consiglio d’Europa: un quadro dal 2015 ad oggi, in Questione Giustizia, 15/05/2021.
[36] M. BASILICO, Dopo la marcia delle mille toghe a Varsavia «per noi giudici polacchi un futuro ancora a rischio», intervista a Monika Frackowiak, giudice distrettuale di Poznan, in Giustizia Insieme, 17 febbraio 2020, M. DICOSOLA, La crisi costituzionale del 2015-16 in Polonia: il fallimento della transizione al costituzionalismo liberale?, in Osservatorio AIC, n. 1, 2016.
[37] La legislatura uscente aveva anche approvato una nuova legge sul Tribunale costituzionale il 25 giugno 2015.
[38] Č. PIŠTAN, Giustizia costituzionale e potere giudiziario. Il ruolo delle corti costituzionali nei processi di democratizzazione ed europeizzazione, in A. DI GREGORIO (a cura di), I sistemi costituzionali dei paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica (Trattato di diritto pubblico comparato, fondato e diretto da G.F. Ferrari), Walters Kluwer, Milano, 2019, 357 ss.
[39] Sentenza K 35/15 del 9 dicembre 2015.
[40] Cfr. B. BANASZAK, The Changes to the Act on the Constitutional Tribunal and the Changes in the Make-up of the Constitutional Tribunal in Poland, in Osteuropa Recht, 2016, 94 ss., J. SAWICKI, La conquista della Corte costituzionale ad opera della maggioranza che non si riconosce nella Costituzione, in Nomos, 3, 2016.
[41] Tale vicinanza è stata ulteriormente favorita dall’elezione di Julia Przyłębska quale presidente del Tribunale Costituzionale, a partire dal dicembre 2016. Cfr. M. BASILICO, cit., passim.
[42] Č. PIŠTAN, cit., 359.
[43] Cfr. parere n. 833/2015.
[44] Cfr. legge del 30 novembre 2016 sullo status dei giudici della Tribunale costituzionale; legge del 30 novembre 2016 sull'organizzazione e le procedure di fronte al Tribunale costituzionale e legge del 13 dicembre 2016 recante previsioni introduttive sull'organizzazione e le procedure davanti al Tribunale costituzionale.
[45] Nell’ordine, si è verificato il ritiro anticipato di due mesi del vicepresidente uscente Stanisław Biernat con posizioni lontane dalla maggioranza e, in seguito, i tre giudici costituzionali nominati prima della vittoria elettorale del PiS sono stati esclusi dalle loro funzioni.
[46] M. MAZZA, cit., 4971 ss.
[47]In argomento, P. PASQUINO, Uno e trino – Indipendenza della magistratura e separazione dei poteri. Perché le maggioranze democratiche possono rappresentare una minaccia per la libertà, Milano, 1994.
[48] M. MAZZA, cit., 4973.
[49] Anch’essa censurata dalla Commissione di Venezia come osservano A. DI GREGORIO, A. ANGELI, J. SAWICKI, Il costituzionalismo “malato” in Ungheria e Polonia, cit., 381.
[50] Cfr. legge 10 giugno 2016.
[51] A. DI GREGORIO, A. ANGELI, J. SAWICKI, Il costituzionalismo “malato” in Ungheria e Polonia, cit., 382 ss.
[52] È stata emendata la disciplina della Scuola nazionale della magistratura con la legge dell’11 maggio 2017.
[53] La legge istituiva presso la Sąd Najwyższy (Corte suprema) la Sezione disciplinare presieduta dal Presidente della Corte Suprema. In base all’articolo 73, paragrafo 1, della legge sulla Corte suprema i giudici disciplinari nelle cause disciplinari relative a giudici della Corte suprema sono giudici della stessa Corte Suprema riuniti, in primo grado, in un Collegio composto da due giudici della Sezione disciplinare e da un giurato e in grado d’appello in un collegio composto da tre giudici della Sezione disciplinare e da due giurati.
[54] Camera per il controllo straordinario degli affari pubblici. Cfr. Legge 8 dicembre 2017 sulla Corte Suprema (Sadzie Najwoszym z dnia).
[55] E. CUKANI, Condizionalità europea, cit., 150.
[56] Relazione del giugno 2018 “Ad hoc report on Poland”.
[57] Č. PIŠTAN, cit., 361.
[58] Si veda amplius in argomento L. PECH, P. WCHOWIEC, D. MAZUR, Poland’s Rule of Law Breakdown: A Five-Year Assessment of EU’s (In)Action, in Hague J. Rule of Law, 2021.
[59] Ciò ha rappresentato un ulteriore strumento a disposizione del Presidente (esponente del PiS) per selezionare i giudici da mantenere presso la Suprema Corte. Da notare che l’utilizzo del pensionamento anticipato per promuovere una forzata sostituzione dei giudizi sembra rappresentare «uno strumento ricorrente per poter dare forma alle cosiddette democrazie illiberali», come osserva E. CECCHERINI, L’indipendenza del potere giudiziario come elemento essenziale dello stato di diritto. La Corte di giustizia dell’Unione europea esprime un severo monito alla Polonia, in DPCE Online, 3, 2019, 2207 ss. Infatti, anche in Ungheria si è registrato un intervento simile sull’età di quiescenza dei giudici con l’abbassamento da 70 a 62 anni ed il conseguente pensionamento di circa un terzo di magistrati interessati. Sul punto si è pronunciata con toni censori la Corte di Giustizia in Commissione v. Ungheria, 6 novembre 2011, C-286/12.
[60] E. CUKANI, Condizionalità europea, cit., 153.
[61] G. RAGONE, La Polonia sotto accusa. Brevi note sulle circostanze che hanno indotto l’Unione europea ad avviare la c.d. opzione nucleare, in Osservatorio costituzionale, 1, 2018, 4. È questa, del resto, la percezione degli stessi magistrati polacchi come si osserva fra l’altro in M. BASILICO, cit., passim e M. KALISZ, The time of trial. How do changes in justice system affect Polish Judges, Warsaw, 2019.
[62] A. DI GREGORIO, A. ANGELI, J. SAWICKI, Il costituzionalismo “malato” in Ungheria e Polonia, cit., 386 ss.
[63] Per un inquadramento dello strumento anche nel quadro della vicenda polacca si veda E. ALBANESI, Pluralismo costituzionale e procedura d’infrazione dell’Unione Europea, Torino, 2018.
[64] Lo stesso è accaduto del resto con l’ordinamento ungherese.
[65] Causa C-619/18.
[66] Causa C-791/19 R.
[67] Causa C-791/19. Tra le sentenze più recenti si vedano ancora ordinanza del 14 luglio 2021 e del 6 ottobre 2021, causa C-204/21 R, Commissione c. Polonia; ordinanza del 21 maggio. Tra gli interventi più recenti, si segnala l’avvio della procedura di infrazione con l’inoltro avvenuto lo scorso 26 gennaio 2023 di una nuova lettera di messa in mora alla Polonia (INFR(2021)2001).
[68] [68] A. DI GREGORIO, A. ANGELI, J. SAWICKI, Il costituzionalismo “malato” in Ungheria e Polonia, cit., 385 ss.
[69] Cause riunite C 585/18, C 624/18 e C 625/18.
[70] Era stata postulata infatti una questione relativa alla violazione del divieto di discriminazione sulla base dell’età.
[71] Ad avviso della Corte, ciò si verifica se l'organo è soggetto a influenze esterne, ad opera del potere legislativo ed esecutivo e, in generale, se non attua in una posizione di neutralità rispetto agli interessi contrapposti. Compatibilmente con i limiti che contraddistinguono il controllo della Corte di Lussemburgo, la valutazione sull’indipendenza della Sezione disciplinare della Corte suprema polacca, rispetto ai criteri enucleati, viene lasciata al giudice del rinvio. La Corte precisa che, in caso di ritenuto difetto di indipendenza, «il principio del primato del diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che esso impone al giudice del rinvio di disapplicare la disposizione di diritto nazionale che riservi a detto organo la competenza a conoscere delle controversie di cui ai procedimenti principali, di modo che esse possano essere esaminate da un giudice che soddisfi i summenzionati requisiti di indipendenza e di imparzialità e che sarebbe competente nella materia interessata se la suddetta disposizione non vi ostasse». Cfr. punto 172 della sentenza.
[72] A seguito all'ordinanza provvisoria del 19 ottobre 2019 e della successiva sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia del 17 dicembre 2018, è stata emendata la legge sulla Corte suprema con l’abrogazione degli artt. 37, commi 1-4 e 111, c. 1, con conseguente reintegro di parte dei giudici della Corte suprema, tra cui il primo presidente, vittime del precedente pensionamento anticipato. Cfr. A. DI GREGORIO, A. ANGELI, J. SAWICKI, Il costituzionalismo “malato” in Ungheria e Polonia, cit., 389 ss.
[73] G. RAGONE, cit., passim.
[74] Cfr. E. ALBANESI, Pluralismo costituzionale e procedura di infrazione dell’Unione Europea, Torino, 2018, 178 ss.
[75] Secondo cui, su proposta di un terzo degli Stati membri, del Parlamento europeo o della Commissione europea, il Consiglio, a maggioranza dei quattro quinti dei membri e con l’approvazione del Parlamento europeo, può constatare l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave dei valori fondanti di cui all’articolo 2 TUE da parte di uno Stato membro e rivolgere a questo delle raccomandazioni. In argomento vedasi anche M. ARANCI, La reazione dell’Unione europea alla crisi polacca: la Commissione attiva l’art. 7 TUE, in Federalismi, 18 luglio 2018 e G. RAGONE, cit., passim. Cfr. anche M.A. ORLANDI, La Polonia di Kaczyński: l’approvazione del “pacchetto giustizia” e l’avvio della procedura dell’art. 7 TUE, in DPCE Online, 4, 2017.
[76] I c.d. Criteri di Copenaghen, oggi menzionati all’art. 49 TUE, sono stati oggetto di evoluzione proprio a seguito della vicenda polacca e, soprattutto, della precedente esperienza ungherese. A fronte di un’iniziale presenza di soli 5 capitoli all’epoca del quinto allargamento dell’Unione del 2004, con l’ingresso di Bulgaria e Romania, il numero dei capitoli sui quali si incentra la condizionalità del rispetto dei valori fondanti di cui all’art. 2 TUE è salito a 35. Il capitolo 23, inoltre, è espressamente dedicato al rapporto tra stato di diritto e riforme della giustizia. E. CUKANI, cit., 11 ss.
[77] Si vedano in particolare sul caso ungherese S. BENVENUTI, Dodici anni di riforme della giustizia in Ungheria, in Giustizia Insieme, 29.04.2023 e, per quanto riguarda in generale il tema dell’accesso alla magistratura, A. MADARASI, Percorsi di accesso alla magistratura in Ungheria, in Giustizia Insieme, 28.04.2023.
[78] V. ZAGREBELSKY, cit., passim.
[79] E. CUKANI, Il “Polish Gate” e il rafforzamento del diritto dell’UE, in DPCE Online, 1, 2022, 11. Si tratta tuttavia di uno dei settori ove si registra la maggiore distanza tra gli Stati membri oltre che la mancanza di un modello univoco, anche in ragione del fatto che gli Stati sono storicamente piuttosto restii ad accettare l’adeguamento a parametri comuni nell’ambito della giustizia. È in questo senso che ci si esprime con riguardo al «Dilemma di Copenhagen», su cui si vedano F. PALERMO, J. WOELK, L’indipendenza della magistratura e le sue garanzie negli ordinamenti dei Balcani occidentali, in M. CALAMO SPECCHIA, M. CARLI, G. DI PLINIO, R. TONIATTI, (a cura di), I Balcani occidentali. Le costituzioni della transizione, Torino, 2008, 202 ss. Sul legame tra indipendenza della magistratura e rule of law si veda ancora J.M. CASTELLA ANDREU, Judicial Independence and the Rule of Law According to the Venice Commission, in T. GROPPI, V. CARLINO, G. MILANI, Framing and Diagnosing Constitutional Degradation, Genova, 2022, 225 ss.
[80] Sul punto cfr. E. CUKANI, Condizionalità europea, cit., 197 ss.
[81] E. CUKANI, Condizionalità europea, cit., 198.
[82] Ciò è avvenuto con deliberazione del 17 settembre 2018 dell’Assemblea Generale dell’ENCJ.
[83] C-216/18 PPU, sentenza (Grande sezione) 25 luglio 2018.
[84] E. CUKANI, Condizionalità europea, cit., 201 e C. PINELLI, Violazioni sistemiche dei diritti fondamentali e crisi di fiducia tra Stati membri in un rinvio pregiudiziale della High Court d’Irlanda, in Quad. cost., 2, 2018, 510 ss.
[85] Cfr. ad esempio il caso C-404/15, sentenza del 5 aprile 2016, Aranyosi e Caldararu.
[86] Il principio è stato poi ripreso anche nella sopra citata sentenza A.K.
[87] In argomento, S. BARTOLE, La crisi della giustizia polacca davanti alla Corte di giustizia: il caso Celmer, in Quaderni costituzionali, 4, 2018, 921-923.
[88] Cfr. punto 89 della sentenza LM, C- 216/18.
[89] Per una ricostruzione più approfondita, cfr. E. CUKANI, Condizionalità europea, cit., 202-203.
[90] S. BARTOLE, cit., 922 ss.
[91] A. VON BOGDANDY et al., Un possibile «momento costituzionale» per lo Stato di diritto europeo. L’importanza delle linee rosse, in Forum Quaderni Costituzionali, 12 luglio 2018, 865 ss.
[92] È questo il rischio che sembra paventato da S. BARTOLE, cit., 922 ss., il quale rileva altresì che non può essere sufficiente a fondare la valutazione del giudice nazionale la raccomandazione di un organo (la Commissione) che non ha l’ultima parola sull’esito della procedura dell’art. 7 c. 1 TUE, spettante al Consiglio.
[93] Peraltro, anche in S. BARTOLE, cit., 922 ss., si aggiungeva che diverso sarebbe il caso di una precedente affermazione della violazione dei principi di indipendenza e della rule of law da parte di un organo terzo come la Corte di Giustizia.
[94] A. ANGELI, A. DI GREGORIO, J. SAWICKI, La controversa approvazione del “pacchetto giustizia” nella Polonia di “Diritto e Giustizia”: ulteriori riflessioni sulla crisi del costituzionalismo polacco alla luce del contesto europeo, in DPCE Online, 3, 2017, 788 ss.
[95] Ma anche di altri trattati internazionali come la Cedu. In argomento si veda la sentenza Xero Flor, caso n. 4907/18 del 7 maggio 2021 della Corte europea dei diritti dell’Uomo.
[96] Cfr. J. SAWICKI, La nuova interpretazione illiberale della Costituzione come base per dichiararne l’incompatibilità con il diritto primario dell’Unione europea, nonché per affrontare in modo innovativo la crisi umanitaria al confine con la Bielorussia, in Nomos, 3, 2021, 4 ss.
[97] Il percorso poteva già dirsi intrapreso con la precedente sentenza del 14 luglio 2021, Causa P 7/20 del 14.07.2021 con la quale il Tribunale costituzionale aveva già in sostanza affermato l’incompatibilità con la Costituzione delle decisioni emesse in via provvisoria dalla Corte di giustizia ex art. 279 TFUE. In argomento, C. SANNA, Dalla violazione dello Stato di diritto alla negazione del primato del diritto dell’Unione sul diritto interno: le derive della “questione polacca”, in Eurojus, 31.12.2021.
[98] Sentenza K 3/21 del 7 ottobre 2021 del Tribunale costituzionale. In argomento M. COLI, Sfida al primato del diritto dell’Unione europea o alla giurisprudenza della Corte di giustizia sulla "rule of law"? Riflessioni a margine della sentenza del Tribunale costituzionale polacco del 7 ottobre 2021. In Osservatorio sulle fonti, 3, 2021, 1083, P. MANZINI, Verso un recesso "de facto" della Polonia dall’Unione europea? in Eurojus, 2021 fasc. 4, pp. 1 – 8, A. FESTA, Indipendenza della magistratura e non-regressione nella garanzia dei valori comuni europei. Dal caso "Repubblika" alla sentenza K 3/21 del Tribunale costituzionale polacco in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies, 2021 fasc. 3, pp. 72 – 94, G. CURTI, In cammino verso la "Polexit"? Prime considerazioni sulla sentenza del Tribunale costituzionale polacco del 7 ottobre 2021, in federalismi.it, 2021 fasc. 24, pp. 4 – 29.
[99] Si tratta del Ministero degli esteri, del Procuratore generale e dell’Ombudsman. E. CUKANI, Il “Polish Gate”, cit., 7.
[100] Le motivazioni complete non sono disponibili sebbene il dispositivo sia stato accompagnato da un comunicato stampa che offre qualche elemento ulteriore, reperibile al sito https://trybunal.gov.pl/en/news/press-releases/after-the-hearing/art/11664-ocena-zgodnosci-z-konstytucja-rp-wybranych-przePiSow-traktatu-o-unii-europejskiej. In base alla Costituzione polacca, in assenza delle motivazioni, il dispositivo è considerato comunque vincolante e produttivo di effetti.
[101] E. CUKANI, Il “Polish Gate”, cit., 6 ss. Parzialmente diversa sembra la lettura di S. TROILO, Controlimiti versus Stato di diritto, cit., passim, la quale riconduce la decisione nel quadro della teoria dei controlimiti, pur osservando il distacco della Corte polacca dalla giurisprudenza di altre Corti sugli atti c.d. ultra vires.
[102] Segnatamente con gli articoli gli articoli 2, 8 e 90, paragrafo 1, della Costituzione della Repubblica di Polonia.
[103] E. CUKANI, Il “Polish Gate”, cit., 7 ss.
[104] Con conseguente presunta violazione degli artt. 2, 7, 8, paragrafo 1, 90, paragrafo 1, e 178, paragrafo 1, e 190 par. 1 della Costituzione polacca.
[105] Per asserita violazione degli artt. 2, 8, paragrafo 1, 90, paragrafo 1, e 186, paragrafo 1, della Costituzione polacca.
[106] J. SAWICKI, La collisione insanabile tra diritto europeo primario e diritto costituzionale interno come prodotto della manomissione ermeneutica di quest’ultimo, in DPCE Online, 4, 2021.
[107] Su tutte, stride il confronto con la sentenza K 32/09 del 24 novembre del 2010 con la quale il TC aveva affermato la compatibilità tra i valori del Trattato di Lisbona e quelli della Repubblica di Polonia.
[108] Verbatim «The Republic of Poland may, by virtue of international agreements, delegate to an international organization or international institution the competence of organs of State authority in relation to certain matters». Cfr. E. CUKANI, Il “Polish Gate”, cit., 10-11.
[109] Che potrebbe strumentalmente giustificare l’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia da parte del TC, peraltro chiesto dall’Ombudsman. Cfr. J. SAWICKI, cit.
[110] I firmatari sono i giudici Stanisław Biernat, Teresa Dębowska-Romanowska, Kazimierz Działocha, Lech Garlicki, Mirosław Granat, Wojciech Hermeliński, Adam Jamróz, Stefan Jaworski, Leon Kieres, Biruta Lewaszkiewicz-Petrykowska, Wojciech Łączkowski, Ewa Łętowska, Marek Mazurkiewicz, Andrzej Mączyński, Janusz Niemcewicz, Małgorzata Pyziak-Szafnicka, Stanisław Rymar, Ferdynand Rymarz, Andrzej Rzepliński, Jerzy Stępień, Piotr Tuleja, Sławomira Wronkowska-Jaśkiewicz, Mirosław Wyrzykowski, Bohdan Zdziennicki, Andrzej Zoll, Marek Zubiki. Il comunicato è reperibile al seguente indirizzi Statement of Retired Judges of the Polish Constitutional Tribunal, VerfBlog, 2021/10/11, https://verfassungsblog.de/statement-of-retired-judges-of-the-polish-constitutional-tribunal.
[111] “It is not true that the judgment of the Constitutional Tribunal of 7 October 2021 itself falls within the competence of the Tribunal and is consistent with the Constitution”.
[112] “It is not true that the application of EU law by Polish courts cannot be reconciled with their application of the Constitution”.
[113] Verbatim, ancora dal comunicato “it is not true that the judgment of the Constitutional Tribunal of 7 October 2021 will be able to produce legal effects other than exerting pressure on the judicial activity of Polish judges and threatening them with disciplinary proceedings”.
[114] Anche grazie alla sostanziale cattura dei suoi custodi.
[115] Quella stessa identità nazionale menzionata dall’art. 4.2 del Tue. Anche in questo caso, peraltro, vi è un ulteriore svuotamento di significato delle disposizioni costituzionali che hanno consentito l’integrazione sovranazionale della Polonia, operato dallo stesso organo tenuto a salvaguardarle.
[116] S. SCIARRA, Identità nazionale e corti costituzionali. il valore comune dell’indipendenza, in AA.VV., Identità nazionale degli stati membri, primato del diritto dell’unione europea, stato di diritto e indipendenza dei giudici nazionali, 6 ss., reperibile al sito web https://cortecostituzionale.it/jsp/consulta/convegni/5_sett_2022/Giornata-Studio-Cc-Cgeu-Def.pdf. Il nesso è evidente anche nella sentenza Repubblika, del 20.3.2021, causa C-869/16.
[117] Ancora S. SCIARRA, cit., 6, citando le conclusioni dell’Avv. Generale Emiliou dell’8 marzo 2022 nella causa Boriss Cilevičs e a. contro Latvijas Republikas Saeima, C- 391/20 (punto 86).
[118] E. CECCHERINI, L’indipendenza del potere giudiziario, cit., 2207.
[119] Art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789.
[120] Occorre considerare altresì che questo processo in Polonia è stato inoltre realizzato con l’acquiescenza degli organi rappresentativi. La limitazione dell’indipendenza della magistratura e del Tribunale costituzionale incide così anche sul piano dell’equilibrio tra poteri laddove viene meno una forma fondamentale di controllo dell’operato della maggioranza.
[121] Celebre è il «The First Thing we Do, Let's Kill All Lawyers», qui intesi come giuristi, o esperti di diritto più che avvocati presente nell’Enrico VI di Shakespeare, parte 2, atto IV, scena 2. Si tratta di un passaggio che si presta a interpretazioni non univoche ma, come affermato nell’interpretazione del giudice Stevens della Corte Suprema statunitense, «Shakespeare insightfully realized that disposing of lawyers is a step in the direction of a totalitarian form of government». Cfr. Walters v. Nat’l Ass’n of Radiation Survivors, 473 U.S. 305, 371 n. 24 (1985) (Stevens, J., dissenting).
[122] Il dato è particolarmente evidente nell’ordinamento italiano come dimostrato, fra gli altri, dal caso Cappato. Si apprezza però la stessa tendenza anche in altri settori come quello dei diritti delle persone LGBTQ+, a partire dalla sentenza n. 138/2010 della Corte Costituzionale.
[123] Sul punto, ex multis, E. CECCHERINI, L'integrazione fra ordinamenti e il ruolo del giudice, in Dir. pubbl. comp. eur., fasc. 2, 2013, 470 ss.; V. BARSOTTI, Tra il dialogo e la cooperazione. Il nuovo ruolo delle Corti nell'ordine globale, in L. ANTONIOLLI, A BENACCHIO, R. TONIATTI (a cura di), Le nuove frontiere della comparazione, Trento, 2012 e M. CARTABIA, cit., 3 ss.
[124] Il riferimento è in particolare al caso Miller della Supreme Court del Regno Unito. In argomento, Tra i contributi più recenti E. PARISI, Recesso dall'Unione (procedimento ex art. 50 TUE - diritto costituzionale britannico - "Crown's prerogative" - "sovereignty of the Parliament") Nota a High Court of Justice, Queen's Division, R (Miller) c. Secretary of State for Exiting the European Union 3 novembre 2016, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2016, fasc. 6, 1647-1649; C. MARTINELLI, La Brexit come vaso di Pandora della Costituzione britannica, in DPCE online, 3, 2019, XVIII; F. SGRÒ, Il caso” Brexit”: qualche considerazione sulla sovranità parlamentare e sul sistema delle fonti nell’ordinamento costituzionale britannico dopo la sentenza della Supreme Court of the United Kingdom, in www.federalismi.it., 8 marzo 2017.
[125] Sul punto si può richiamare ad esempio la vicenda catalana.
[126] M. CARTABIA, cit., 4, la quale considera che non vale più in questa fase l’idea di Hamilton di una magistratura come «least dangerous branch».
[127] E. CUKANI, Il “Polish Gate”, cit., 14 ss. Si vedano al riguardo anche le considerazioni più generali di A. PIN, Il rule of law come problema, Napoli, 2021.
[128] Le cause sono complesse e vanno dalla necessità di disporre di un consenso politico non sufficiente per l’attuale maggioranza, anche a seguito delle ultime elezioni del 2019 e alle criticità della situazione geopolitica seguita alla deflagrazione del conflitto in Ucraina.
[129] Si vedano in particolare le sentenze della Corte di Lussemburgo 16 febbraio 2022, causa C-157/21, Polonia/ Parlamento e Consiglio e 16 febbraio 2022, cause C-156/21, Ungheria / Parlamento e Consiglio. In argomento, B. NASCIMBENE, Il rispetto della rule of law e lo strumento finanziario. La condizionalità, in Eurojus, 2021, 171 ss.
[130] S. SCIARRA, cit., 17.
ἄνδρες γὰρ πόλις, καὶ οὐ τείχη
gli uomini sono la città, e non le mura
Tucidide, VII, 77, 7
Sommario: 1. Comunità in un momento critico. - 2. Il giudizio civile di cassazione e il PNRR. - 3. Il riformato perimetro dell’esame del ricorso e del controricorso. - 4. Il nuovo filtro di ammissibilità: la soppressione della Sezione sesta civile e il rito camerale 2023. - 5. Il ruolo dell’Ufficio spoglio e dell’Ufficio per il processo. - 6. Il sindacato preliminare sul ricorso: 6.1. L’inammissibilità, 6.2. L’improcedibilità, 6.3. La manifesta infondatezza. - 7. La tecnica redazionale del ricorso secondo il nuovo protocollo d’intesa 1.3.2023. - 8. Il vaglio sul controricorso alla luce del nuovo processo civile telematico di legittimità. - 9. Conclusioni.[2]
1. Comunità in un momento critico.
In un momento molto critico per la democrazia ateniese, durante una delle fasi peggiori della guerra del Peloponneso e della spedizione ateniese in Sicilia, Tucidide mette sulle labbra di Nicia, comandante della spedizione, queste parole di incoraggiamento: “gli uomini e non le mura costituiscono la città”. Di fronte ad ogni grande nuova sfida, come membri di una comunità ci è dato scegliere, se ritirarci dietro alle mura esistenti in una logica di retroguardia limitando al massimo l’impatto previsto e temuto, o accettare a viso aperto il confronto, collaborare e contribuirne agli esiti. Nel caso che oggi ci occupa, la comunità è composta da oltre 50 mila avvocati cassazionisti in Italia e da alcune centinaia di magistrati presso la Corte di Cassazione e la Procura Generale, cancellieri e membri dell’ufficio per il processo, oltre ad Avvocati dello Stato. A noi tutti non è dato scegliere se vivere la grande prova dell’applicazione del PNRR e della riforma del processo di legittimità, in un momento assai critico per la Corte come per il Paese. Possiamo però scegliere come viverla, se cercare di rifugiarci dietro diritti quesiti e rendite di posizione o se provare a far funzionare la riforma, nel rispetto dei diritti costituzionali e fondamentali, nonostante le criticità che sono emerse da tempo e verosimilmente ulteriormente emergeranno[3].
2. Il giudizio civile di cassazione e il PNRR.
Una nitida e recente immagine delle condizioni in cui opera questa complessa comunità è data dalla relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario, offerta dal Primo Presidente della Corte suprema di Cassazione il 26 gennaio 2023, la quale ha posto sotto i riflettori gli obiettivi concordati dalla Repubblica Italiana con la Commissione Europea nell’ambito del PNRR[4], da raggiungere entro giugno 2026, i quali riguardano per la giustizia civile la riduzione del “disposition time” complessivo (baseline 2019) nella misura del 40%, pari a 1.507 giorni (-40% di 2.512, di cui ben 1.302 giorni dovuti alle pendenze in Cassazione)[5], oltre all’abbattimento dell’arretrato. Non si tratta di un’endiadi in quanto - il diavolo soprattutto nel diritto si annida nei dettagli - l’indicatore anglicizzato “disposition time” fornisce una stima del tempo medio atteso di definizione dei procedimenti, mettendo a confronto il numero dei pendenti alla fine del periodo di riferimento con il flusso dei definiti nel periodo e, dunque, non coincide con quanto giace negli armadi e non viene deciso.
Si apprende dalla Relazione che nell’anno giudiziario 2021-22 risultano pendenti in Corte 106.763 processi civili, di cui una buona metà (oltre 50.000 nel 2020) costituiti da ricorsi in materia tributaria, cui si aggiungono per la sola materia tributaria circa 10.000 ricorsi ogni anno, dato che a sua volta costituisce un terzo dei 30.459 complessivi nuovi ricorsi civili iscritti nell’anno giudiziario 2021-22[6].
Già sulla base di queste sintetiche, ma ineludibili premesse fattuali, si può apprezzare l’enorme sforzo svolto negli ultimi anni, che ha portato la Corte e le difese a definire nel solo anno giudiziario 2021-22 ben 42.574 ricorsi, a fronte dei 34.550 dell’anno precedente, il che ha determinato una cospicua diminuzione delle pendenze in Cassazione del 10,2% sul solo versante civile. E’ stato condivisibilmente osservato che i risultati quantitativi raggiunti non devono indurre alla conclusione che questi ritmi di lavoro siano ottimali o anche soltanto sostenibili. Al contrario, la qualità del giudizio di legittimità e del suo prodotto sono inconciliabili con la quantità abnorme di provvedimenti continuamente sollecitati alla Corte suprema[7].
3. Il riformato perimetro dell’esame del ricorso e del controricorso.
E’ in questo contesto che è intervenuta la riforma processuale che sinteticamente chiamiamo “Cartabia” la quale, avuto riguardo per il solo rito civile avanti alla Corte di Cassazione, è originata dalla legge n.206/2021, con cui il Parlamento ha conferito delega al Governo, tra l’altro, per l'efficientamento del processo civile.
Sia consentito in questa sede brevemente ricordare che il d.lgs. n.149/2022 ha dato attuazione delle previsioni della legge delega, introducendo numerose novità, tra l’altro in tema di impugnazioni avanti al giudice di legittimità e regolando all’art.35 la disciplina transitoria.
Successivamente, la legge di Bilancio di previsione dello Stato, n.197/2022 ha modificato la disciplina transitoria dettata dal citato art.35. Inoltre, il cd. decreto Milleproroghe, d.l. n 198/2022, convertito con modificazioni in l. n.14/2023, ha prorogato la vigenza di determinate disposizioni normative introdotte durante l'emergenza pandemica.
E’ poi intervenuta la l. n.41/2023, legge di conversione del cd. decreto PNRR3, d.l. n.41/2023, il quale ha introdotto, tra l’altro e per quanto qui interessa, disposizioni in materia di digitalizzazione del processo civile e degli atti processuali.
Oggi ogni sindacato sull’ammissibilità di un ricorso e di un controricorso in cassazione deve tener conto che, con riferimento ai novellati artt.360, 362, 366, 369, 370, 371 cod. proc. civ., relativi rispettivamente ai motivi del ricorso, altri casi di ricorso, contenuto del ricorso, deposito del ricorso, controricorso e ricorso incidentale la riforma trova applicazione dal 1° gennaio 2023 ai giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere da tale data, in applicazione dell’art.35 comma 5 del d.lgs. n.149/2022, come modificato dalla l. n.197/2022.
Come vedremo, compone il quadro in misura rilevante anche il nuovo protocollo di intesa siglato a quattro mani il 1° marzo 2023 dalla Corte di Cassazione, Procura Generale, Ordine Forense, Avvocatura dello Stato sul contenuto del ricorso e del controricorso e immediatamente entrato in vigore[8].
4. Il nuovo filtro di ammissibilità: la soppressione della Sezione sesta civile e il rito camerale 2023.
Il legislatore ha introdotto strumenti specifici per tentare di fronteggiare la sempre più allarmante situazione del numero dei ricorsi pendenti avanti alla Corte, un’eccezione assoluta nel novero di ciascuna Corte suprema, a Costituzione invariata dal momento che l’art.111 comma 7 Cost. prevede: “Contro le sentenze e conto i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge”. Qui l’aspetto organizzativo si rivela decisivo.
L’intervento riformatore è consistito innanzitutto nella semplificazione dei riti camerali attraverso l’unificazione dei riti preesistenti presso la sezione sesta civile, nell’adunanza camerale della corrispondente sezione semplice e presso le Sezioni Unite, disciplina infusa nel nuovo testo dell’art.380 bis.1 cod. proc. civ. e nel suo adeguamento al processo telematico, per effetto del quale gli atti di parte successivi al ricorso sono depositati nel fascicolo informatico ex art.36 disp. att. cod. proc. civ.[9], che equivale a quello d’ufficio e, dunque, sono noti al giudice e alla controparte, con conseguente non necessità della loro notifica.
La riforma è stata condotta attraverso la soppressione della sesta sezione stessa di cui agli artt.376 e 380 bis cod. proc. civ., introdotta con la legge 18 giugno 2009, n. 69 per svolgere la funzione di “filtro” dei ricorsi e scremarne un congruo numero con alterne fortune[10], e l’importazione della funzione di filtro di ammissibilità dei ricorsi all’interno della sezione semplice. Sempre quanto al rito, per quanto qui interessa, sono stati riformati gli artt.372, 375, 376, 377, 378, 379, 380, 380 bis, 380 bis 1, 380 ter, 390, 391 bis cod. proc. civ., rispettivamente relativi alla produzione di altri documenti, pronuncia in udienza pubblica o in camera di consiglio, assegnazione dei ricorsi alle sezioni, fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio e decreto preliminare del presidente, deposito di memorie, discussione del ricorso, deliberazione della sentenza, procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, procedimento per la decisione in camera di consiglio, procedimento per la decisione sulle istanze di regolamento di giurisdizione e di competenza, rinuncia al ricorso, correzione degli errori materiali e revocazione delle sentenze della Corte di cassazione. La novella trova applicazione dal 1° gennaio 2023 ai giudizi introdotti con ricorso già notificato a tale data per i quali non è stata ancora fissata udienza o camera di consiglio, per effetto dell’art. 35 comma 6 del d.lgs. n.149/2022, come modificato dalla l. n.197/22[11].
In quest’ottica, è stata recepita e codificata una prassi ormai radicata in Corte, secondo la quale l’udienza pubblica è ormai riservata ad ipotesi residuali, individuate dal nuovo testo dell’art.375 cod. proc. civ.[12] nella trattazione di ricorsi che sollevino questioni di diritto di particolare rilevanza, oltre ai casi di cui all’art.391 quater cod. proc. civ.. Con riferimento alla pubblica udienza la Corte di Cassazione ha già affrontato problemi di diritto intertemporale, soprattutto per l’udienza c.d. cartolare “pandemica” fissata entro il 30.6.2023: al proposito le Sezioni Unite hanno affermato che in tema di udienza disciplinata dall'art. 23, comma 8 bis, del d.l. n. 137 del 2020[13], in caso di tardiva richiesta di discussione orale, l'omessa indicazione della trattazione cartolare "pandemica" nell'avviso di fissazione dell'udienza assume rilievo ai fini dell'accoglimento dell'istanza di rimessione in termini, in ragione dell'esigenza di salvaguardare l'affidamento riposto nella celebrazione dell'udienza[14] e degli interessi da considerare, posto che la prorogata trattazione cartolare - attualmente rispondente, prevalentemente, ad esigenze di carattere organizzativo - è sostenuta da una finalità meno pregnante rispetto al valore che si compendia nella pubblicità dell'udienza in presenza[15].
Quanto alle adunanze camerali, sul versante quantitativo dei ricorsi trattati, va menzionato il fatto che per controbilanciare la diminuzione delle decisioni conseguente alla soppressione della sezione sesta, all’interno di ciascuna sezione semplice a partire dal mese di marzo 2023 sono stati previsti a scadenze periodiche c.d. “cameroni” in cui vengono portati in decisione anche dodici ricorsi per ciascun relatore, processi che l’Ufficio spoglio sezionale reputa di agile definizione.
5. Il ruolo dell’Ufficio spoglio e dell’Ufficio per il processo.
Nel quadro organizzativo attuale della Corte, successivo alla soppressione della Sezione sesta e all’adozione del “Programma di gestione per il 2023”[16], il modello adottato per lo spoglio del singolo ricorso è unicamente accentrato nell’ufficio spoglio sezionale, che è stato nei primi mesi del 2023 potenziato ed è attualmente composto, oltre che dal presidente titolare della sezione e dai coordinatori delle aree specialistiche interne, da consiglieri esperti e da membri dell’ufficio per il processo.
Prima della riforma, la vita di un ricorso era piuttosto complessa e, in una certa misura, lo spoglio era diffuso tra i magistrati anche se in modo non molto funzionale. Dopo l’iscrizione a ruolo presso la Cancelleria centrale civile il ricorso veniva lavorato e traslato presso la sezione sesta, spogliato sommariamente dal coordinatore di ciascuna delle cinque sottosezioni presso la sezione “filtro”, corrispondenti alle cinque sezioni semplici civili, e da questi immediatamente devoluto alla sezione semplice dopo aver verificato “se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio” ex art. 376 cod. proc. civ., oppure attribuito ad un relatore in forza presso la sottosezione perché ritenuto passibile di essere “filtrato”, ad es. per il numero ridotto di motivi di impugnazione e la presenza di precedenti sulla questione. Il consigliere delegato effettuava un secondo spoglio del ricorso, più approfondito, valutando in concreto se si trattava di una causa di pronta soluzione da “filtrare”[17] per la quale fare una proposta di decisione da comunicare alle parti o, in difetto dei presupposti, rimetteva il fascicolo alla sezione semplice. Ivi il ricorso veniva recuperato dall’ufficio spoglio interno alla sezione, talvolta interveniva una sommaria schedatura scritta ad opera di un magistrato del Massimario e, quindi, su indicazione dell’ufficio spoglio, veniva inserito in un cluster destinato ad una udienza pubblica o adunanza camerale con designazione di un nuovo relatore, il quale, infine, compiva lo spoglio finale e formulava la bozza di decisione da sottoporre al collegio.
La soppressione della Sezione filtro in Cassazione ha perseguito innanzitutto la logica di ridurre il numero degli spogli del medesimo ricorso da parte di più consiglieri, ma ha mantenuto la funzione di “filtro” che viene ora svolto all’interno delle sezioni semplici, in primo luogo attraverso il nuovo meccanismo della proposta di decisione accelerata, predisposta da un magistrato esperto delegato dal Presidente titolare della sezione, in senso all’ufficio spoglio sezionale, nel caso il delegato ravvisi l’inammissibilità, improcedibilità, manifesta infondatezza del ricorso[18].
Secondo il nuovo modulo di lavoro l’Ufficio per il processo svolge un ruolo importante in Corte, nonostante una prima “dimenticanza” del legislatore non ne avesse fatto una priorità per la Cassazione. Fortunatamente, la legge delega n. 206/21 sull’efficienza del processo civile - come l’omologa l. n. 134/21 relativa all’efficienza del processo penale - è andata oltre il d.l. n. 80/2021, prevedendo l’istituzione dell’UPP anche presso la Corte Suprema[19]. I membri dell’ufficio per il processo sono, tra le altre attività, addetti alla schedatura dell’imponente arretrato (il c.d. “magazzino”), ciascuno sotto la supervisione di uno o più consiglieri e, dall’altro, lavorano alla schedatura dei nuovi ricorsi iscritti a ruolo e aiutano i consiglieri addetti allo spoglio nell’individuazione dei ricorsi da destinare alla definizione accelerata; la scrittura della proposta di decisione è invece rimessa ai Consiglieri addetti all’ufficio spoglio.
E’ chiaro l’intento di abbreviazione dei tempi di definizione del giudizio mediante la pronta definizione dei ricorsi aventi facile soluzione, attraverso un particolare meccanismo decisionale, sostanzialmente monocratico, sull’ammissibilità del ricorso che, per la prima volta, introduce anche presso la Corte di cassazione la possibilità che sia un giudice unico a formulare il contenuto decisorio su ricorsi allorquando per una pluralità di ragioni macroscopicamente non hanno prospettive di successo[20].
Diversa era la proposta di sesta prevista dal rito di cui all’art. 380 bis cod. proc. civ. oggi soppresso, innanzitutto perché aveva potenzialmente ad oggetto non solo il ricorso ritenuto inammissibile o manifestamente infondato, ma anche quello manifestamente fondato. Inoltre, attraverso la notifica del decreto contenente la proposta almeno 20 giorni prima dell’adunanza e la facoltà delle parti di presentare memorie almeno 5 giorni prima, si salvaguardava il diritto al contraddittorio e la proposta decisione contenente la “concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia” ex art. 380-bis cod. proc. civ. vecchio testo era comunque destinata ad essere vagliata da un collegio di 5 consiglieri e, va detto, di regola confermata nonostante l’interlocuzione con le difese, attraverso un’ordinanza succintamente motivata ex art. 134 cod. proc. civ.. Al contrario, la proposta di definizione accelerata del giudizio di cui all’art. 380-bis cod. proc. civ. nuovo testo, se non opposta, diviene definitiva e il ricorso si intende rinunciato sulla base di quanto stabilito da un unico consigliere[21].
Non si vedono per ciò solo particolari lesioni del diritto costituzionale di difesa delle parti, né frizioni insanabili con i diritti fondamentali, come del resto non lo sarebbe la rimodulazione dei collegi, attualmente sempre composti da cinque giudici, in collegi ridotti di due consiglieri ed un presidente. La stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel 2009, per far fronte all’enorme mole di ricorsi pendenti ritenuta non più sostenibile, ha d’urgenza adottato il Protocollo n. 14-bis alla Convenzione, unitamente a un accordo sull'applicazione provvisoria di alcune disposizioni del Protocollo n. 14 relativamente alle competenze del giudice unico (single judge) e dei collegi di tre giudici (three judges panels), soluzione che ha dato grande impulso al “filtro” di inammissibilità dei ricorsi presso la Corte EDU e che, unitamente ad altri rimedi, ha gradualmente recuperato efficienza e tempestività delle decisioni presso il giudice di Strasburgo[22].
L’incentivo all’adesione alla proposta è dato dal venir meno in tal caso del raddoppio del contributo unificato, mentre, in caso di conferma da parte del collegio all’esito della adunanza camerale ex art.380 bis.1 cod. proc. civ., instaurata per effetto della richiesta della parte ex art.380 bis secondo comma cod. proc. civ.[23] entro 40 giorni dalla comunicazione della proposta, è prevista l’applicazione del terzo e quarto comma dell’art.96 cod. proc. civ..
Vi sarà dunque la possibilità molto concreta di una condanna della parte soccombente al pagamento, a favore di controparte, di una somma equitativamente determinata: la misura dell’importo non è indicata, ma l’interpretazione condivisa della norma sia da parte della Corte costituzionale[24] che della Corte di Cassazione[25] è nel senso che la quantificazione va ragionevolmente calibrata sulla misura del rimborso spese riconosciuto, o su di un suo multiplo, affinché sia proporzionata.
Inoltre, novità introdotta dalla riforma, è prevista la condanna al pagamento di una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5000 a favore della cassa delle ammende. Benché la relazione governativa al nuovo testo dell’art.380 bis cod. proc. civ. specifichi che “la previsione non risponde ad un intento punitivo o sanzionatorio, ma è la realistica presa d'atto del fatto che la giurisdizione è una risorsa limitata”, la previsione ha destato critiche da parte della dottrina[26]. A tutto questo si aggiunge la soccombenza circa le spese di lite, liquidate sulla base delle nuove tabelle parametriche di cui al D.M. n. 147/2022. Le pesanti conseguenze che si profilano per la parte che non aderisca alla proposta sono alla base della ragione per cui è previsto che la richiesta di decisione camerale sia sottoscritta dalla difesa della parte costituita munita di una nuova procura speciale, in modo che sia resa edotta del rischio attuale che si profila.
Vi sono margini per interpretare la previsione: in particolare non è chiaro se l’espressione “in conformità alla proposta” si riferisca alla traiettoria decisoria o alle ragioni alla base dell’esito sfavorevole al destinatario della proposta e, a parere di chi scrive, è preferibile evitare eccessi di rigidità nell’applicare le sanzioni processuali che potrebbero anche rimettere in discussione la costituzionalità del meccanismo di decisione accelerato, con grave incertezza per le parti e nocumento del principio di effettività del diritto.
Inoltre, la giurisprudenza dovrà valutare se all’applicazione della condanna di cui all’art.96 terzo comma cod. proc. civ. debba far necessariamente seguito anche l’applicazione della condanna ai sensi del quarto comma o se, piuttosto, la duplice condanna richieda un aggiuntivo vaglio e apprezzamento da parte della Corte.
6. Il sindacato preliminare sul ricorso: inammissibilità, improcedibilità, manifesta infondatezza.
Parlare del vaglio preliminare di ammissibilità del ricorso significa inevitabilmente anche ripercorrere brevemente e senza alcuna pretesa di esaustività delle categorie note, senza dimenticare l’adagio caro ad Hegel secondo il quale ciò che è noto, proprio perché noto, non è affatto conosciuto.
Il sindacato preliminare sul ricorso previsto dal nuovo 380 bis cod. proc. civ., entrato in vigore dal primo gennaio 2023 alla luce dell’anticipazione disposta dalla Legge di Bilancio 2023 volta a rassicurare la Commissione Europea circa l’effettivo impegno del Paese verso il raggiungimento degli obiettivi stabiliti dal PNRR[27], prevede che “quando non sia stata ancora fissata la data della decisione” al 1° gennaio 2023, un consigliere delegato dal Presidente titolare della sezione possa “formulare una sintetica proposta di definizione del giudizio”, nei casi di “inammissibilità, improcedibilità, manifesta infondatezza” del ricorso principale o incidentale, “comunicata ai difensori delle parti”.
6.1. L’inammissibilità.
L’inammissibilità, come sanzione processuale al vizio in cui è incorso il ricorso, può innanzitutto essere espressamente prevista dalla legge, come ad esempio nel caso della mancata esecuzione dell’ordine di integrazione del contraddittorio in presenza dei presupposti di cui all’art.331 cod. proc. civ..
In altri casi, la sanzione opera in ragione della nullità originaria insanabile del ricorso, come ad esempio allorquando il ricorso è proposto da un soggetto privo della capacità processuale, o la carenza del presupposto processuale non è sanata, come nel caso di notifica nulla in assenza della costituzione della controparte e del raggiungimento dello scopo ex art.156 cod. proc. civ. e, a maggior ragione, in caso di inesistenza come nel caso in cui il ricorso non abbia neppure i requisiti minimi di legge per la sua individuazione (contenuto-forma) e di violazione delle regole sul contenuto essenziale del ricorso[28].
Per effetto della riforma il ricorso, tendenzialmente in formato nativo digitale, dev’essere notificato telematicamente dai difensori o, in alternativa, tramite il ricorso all’ufficiale giudiziario nei casi in cui la prima opzione non sia possibile, ad es. per la tipologia di destinatario, notifica che deve comunque essere provata dopo il 1.1.2023 esclusivamente attraverso il deposito telematico in busta presso la Cancelleria della Corte e il mancato rispetto della regola fa scattare la sanzione processuale.
Il principio di autosufficienza è poi uno snodo delicato ai fini della valutazione dell’ammissibilità del ricorso civile in Cassazione[29], ed ha conosciuto una significativa evoluzione nella giurisprudenza della Corte, anche alla luce degli insegnamenti della Corte EDU, che ha portato alla ridefinizione del principio secondo specificazione e quindi, ultima evoluzione, di localizzazione della deduzione negli atti del giudizio, ai fini del superamento del vaglio di ammissibilità. Molto rilevante in materia è la giurisprudenza di Strasburgo Succi[30] la quale ha riconosciuto la legittimità di filtri o meccanismi articolati su requisiti di accesso anche rigorosi, purché applicati in modo non eccessivamente formalistico, al punto di precludere il diritto di accesso al giudice ex art.6 § 1 CEDU, essendo richiesto allo Stato responsabile di garantire che le procedure per le impugnazioni siano chiare, prevedibili e proporzionate.
In applicazione di questo insegnamento la Corte a Sezioni Unite ha precisato la portata del principio di autosufficienza e specificità, escludendo che possa essere applicato in modo da incidere sulla sostanza stessa del diritto in contesa, e statuendo che non può tradursi in un ineluttabile onere di integrale trascrizione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, insussistente laddove nel ricorso sia puntualmente indicato il contenuto degli atti richiamati all'interno delle censure, e sia specificamente segnalata la loro presenza negli atti del giudizio di merito[31].
Resta da valutare anche se e come l’obbligatorietà del deposito telematico degli atti a partire dal 1.1.2023 e la stipula di convenzioni con altre giurisdizioni per l’accesso ai rispettivi processi telematici - si pensi al caso della Cassazione come giudice regolatore della giurisdizione o al caso della Corte come giudice tributario di ultima istanza non essendo il giudice tributario di merito giudice ordinario - modificheranno approdi in costante evoluzione in materia di autosufficienza, specificazione e localizzazione. Attualmente, con riferimento al processo telematico amministrativo (PAT), della corte dei conti (GIU.DI.CO), del giudice tributario (PTT), non è possibile avere un accesso immediato al fascicolo del merito attraverso il Desk del Consigliere, ossia il PCT di legittimità, trattandosi di applicativi diversi e in un caso, il PTT, realizzato sulla base di tecnologie diverse non omogenee[32].
L’inammissibilità può poi trarre origine da altre ragioni processuali, come per violazione delle regole sui termini per impugnare, erronea ricognizione della materia giustiziabile[33] o assenza di legittimazione o, ancora, assenza di interesse alla decisione ex art.100 cod. proc. civ., profili rilevabili d’ufficio e, quest’ultimo, anche configurabile come causa di inammissibilità sopravvenuta[34].
Un ulteriore caso frequente di causa di inammissibilità del ricorso riguarda la mancata impugnazione di tutte le rationes decidendi che concorrono a determinare l’esito della sentenza impugnata, rationes tra loro distinte ed autonome e singolarmente idonee a reggerla sul piano logico e giuridico[35]. Ciò è conseguenza del fatto che il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall'ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti[36]. Si badi che la causa di inammissibilità del ricorso in parola può anche sopravvenire in conseguenza del precedente rigetto dei motivi attinenti ad una delle concorrenti rationes che, da sola, resta idonea alla conferma della sentenza impugnata.
L’inammissibilità può di frequente anche derivare dal fatto che il ricorso pone questioni in fatto non ammissibili in sede di legittimità e che non sia sussumibile neppure sotto la categoria della falsa applicazione di legge ai fini dell’art.360 primo comma n.3 cod. proc. civ.. Ad esempio, Cass. n.2220/2000 in parte motiva puntualizza che “la sussistenza di un’attività pericolosa forma oggetto di una quaestio iuris solo quando si sostenga che tale qualificazione derivi da una valutazione normativa, mentre negli altri casi può costituire l’oggetto di una quaestio facti”[37].
In altri casi il ricorso, prima facie, non si rivela riconducibile ad alcuno dei paradigmi processuali previsti dall’art. 360 cod. proc. civ. e da questo deriva l’inammissibilità, mentre, più spesso, viene prospettato un vizio motivazionale al di fuori del rigoroso perimetro di censura del n.5 del primo comma del citato articolo. E’ ormai principio tralaticio quello secondo il quale la riformulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione[38].
Altra classica causa di inammissibilità riguarda la valutazione della prova, specie se presuntiva. Al proposito va innanzitutto rammentato il corretto procedimento logico che il giudice di merito deve seguire nella valutazione degli indizi ai fini della disamina della fondatezza delle riprese: la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno desunti dal loro esame complessivo, in un giudizio non atomistico di essi (ben potendo ciascuno di essi essere insufficiente da solo), sebbene preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perché è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza ed ad un tempo trae vigore dall'altro in vicendevole completamento[39]. Ciò che rileva è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, fermo restando il diritto del contribuente a fornire la prova contraria.
Infine, quanto alla valutazione della prova contraria, per consolidata interpretazione della Corte[40], l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie offerte dalle parti.
Va quindi ricordato che, mentre i requisiti, statuiti a pena di inammissibilità, ai punti nn.1, 2 e 5 dell’art.366 cod. proc. civ. (“indicazione delle parti”, “indicazione della sentenza o della decisione impugnata” e “indicazione della procura, se conferita con atto separato e, nel caso di ammissione al gratuito patrocinio, del relativo decreto”) sono rimasti invariati, la riforma ha modificato i numeri 3, 4 e 6 dell’articolo, insistendo sulla necessità della chiarezza, sinteticità ed essenzialità dell’esposizione dei fatti della causa e dei motivi per i quali si chiede la cassazione. Nel dettaglio, al punto n.3, in luogo dell’”esposizione sommaria dei fatti di causa” è stata inserita la “chiara esposizione dei fatti della causa essenziali alla illustrazione dei motivi di ricorso”. Al punto 4, la locuzione “motivi per i quali si chiede la cassazione, con indicazione delle norme di diritto su cui si fondano”, è sostituita con la “chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione, con indicazione delle norme di diritto su cui si fondano”. Al punto n.6 al posto della “specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” vi è ora la “specifica indicazione, per ciascuno dei motivi, degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il motivo si fonda, illustrando il contenuto rilevante degli stessi”[41].
La riformulazione dell’articolo 366 cit. ha di fatto recepito istituti pretori enucleati o confermati dalla giurisprudenza sovranazionale, non solo quanto all’autosufficienza, profilo già sopra considerato, ma anche ad esempio in materia declaratoria di inammissibilità per mancata formulazione di sintetico quesito di diritto. A questo proposito, la Corte EDU ha statuito che chiedere al ricorrente di concludere il proprio motivo di ricorso con un paragrafo di sintesi, che riassuma il ragionamento seguito ed espliciti il principio di diritto che egli ritiene sia stato violato, non comporta alcuno sforzo particolare supplementare da parte di quest’ultimo. Pertanto, la decisione di inammissibilità da parte della Corte di Cassazione non è stata considerata, alla luce della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo una interpretazione troppo formalistica della legalità ordinaria che impedisce, effettivamente, l’esame sul merito del ricorso esercitato dall’interessato[42].
Infine, la riforma “Cartabia” ha ristretto gli spazi per la declaratoria di inammissibilità per “doppia conforme”. L’abrogazione dell’art. 348-ter cod. proc. civ., già prevista dalla legge delega, ha comportato il collocamento all’interno dell’art. 360 cod. proc. civ. di un terzo comma, con il connesso adeguamento dei richiami, il quale ripropone la disposizione dei commi quarto e quinto dell’articolo abrogato e prevede l’inammissibilità del ricorso per cassazione per il motivo previsto dal n. 5 dell’art. 360 citato, ossia per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Superando alcune incertezze interpretative, con la riforma il perimetro dell’inammissibilità in questo ambito è stato ridefinito e ristretto, dal momento che il vizio motivazionale è ora precluso in tutti i casi in cui la sentenza del giudice di prime cure sia confermata dal giudice d’appello per le “stesse ragioni”, inerenti ai “medesimi fatti”, fatta eccezione per le cause di cui all’art. 70, primo comma, cod. proc. civ. in cui è obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero.
6.2. L’improcedibilità.
Anche il riformato art.369 cod. proc. civ. prevede, come in precedenza, l’improcedibilità del ricorso che non venga depositato entro il termine di venti giorni dall’ultima notificazione alle parti contro il quale è proposto.
Identica sanzione processuale è riservata al mancato deposito, unitamente al ricorso, del decreto di concessione del gratuito patrocinio, della copia autentica della sentenza impugnata, della procura speciale conferita con atto separato, e degli atti processuali documenti contratti o accordi collettivi su cui il ricorso si fonda. E’ stata eliminata la richiesta del fascicolo d’ufficio, in diretta conseguenza dell’operatività del PCT.
Già prima della riforma Cartabia, in relazione alla “proposta di sesta”, in via interpretativa e in assenza di esplicita previsione dell’art.380 bis vecchio testo cod. proc. civ. si era ritenuto che anche le cause di improcedibilità fossero passibili di proposta, nei casi previsti dall’art. 369 cod. proc. civ., anche per lo stretto collegamento con l’art. 366, n. 6 cod. proc. civ.. Tale interpretazione aveva raccolto il plauso solo di parte della dottrina, in particolare di chi seguiva quell’opinione abbastanza accreditata secondo la quale l’improcedibilità sarebbe una sottospecie di inammissibilità[43], mentre era criticata da quanti la rigettavano, sia per la diversa ratio dal momento che l’inammissibilità attiene al momento genetico dell’impugnazione mentre l’improcedibilità ne contrassegna il momento funzionale, sia per essere idonea a confondere le categorie, sia per le diverse sanzioni processuali da un punto di vista storico[44].
Oggi il testo dell’art.380 bis cod. proc. civ. è esplicito a riguardo e, tuttavia, esiste un difetto di coordinamento tra il riformato art.380 bis cod. proc. civ. e la disciplina delle comunicazioni alle parti da parte della Cancelleria della Cassazione che incide, tra l’altro, su un nutrito numero di casi di improcedibilità del ricorso.
Si pensi al caso, che è già capitato in sede di spoglio e di formulazione della proposta ex art.380 bis cod. proc. civ. post Cartabia, di un ricorso iscritto a ruolo nel 2022 che, dopo la sua notifica non sia stato depositato nel termine di 20 giorni. Il ricorso è improcedibile, è una delle cause tipiche di improcedibilità, il principio di diritto che governa la fattispecie è stato ribadito dalla Corte molte volte[45]. Tuttavia, pur essendo questa una classica ipotesi di improcedibilità, non può essere oggetto di proposta di decisione accelerata ex art.380 bis cod. proc. civ., perché non è disciplinata la comunicazione della proposta alla parte non costituita.
Nel caso descritto, è stato attribuito un numero di iscrizione a ruolo su impulso del controricorrente che, ricevuta la notifica del ricorso e accortosi del mancato tempestivo deposito dello stesso, ha sollevato la questione per ottenere il regolamento delle spese di lite a proprio favore, ma parte ricorrente non si è costituita. In ultima analisi, una classica ipotesi di definibilità in rito del ricorso per improcedibilità non può in concreto essere oggetto di proposta di decisione accelerata, allo stato dell’evoluzione normativa.
6.3. La manifesta infondatezza.
Più incerta dal punto di vista dogmatico e pratico è la categoria della manifesta infondatezza, dove la valutazione idonea al rigetto del ricorso è accompagnata dal rafforzativo che rivela il fatto che l’esito emerge “ictu oculi”. L’incertezza semantica ha generato talvolta anche qualche dubbio in giurisprudenza, se è vero che la stessa Corte di legittimità ha negli anni ricondotto le conseguenze della presenza di giurisprudenza consolidata, cui si è adeguata la sentenza impugnata, oggetto di un ricorso in Cassazione che non abbia offerto elementi validi a modificare i suddetti orientamenti, vuoi alla categoria della pronuncia nel merito vuoi, più spesso e condivisibilmente, a quella della pronuncia in rito di inammissibilità per manifesta infondatezza[46]. La differenza non è irrilevante ai fini delle conseguenze pratiche per la parte, anche ai fini dell’art.13, comma 1-quater, d.P.R. n.115/2002 per quanto riguarda il raddoppio del contributo unificato[47].
7. La tecnica redazionale del ricorso secondo il nuovo protocollo d’intesa 1.3.2023.
La riforma ha reso necessario aggiornare e ricalibrare i vari Protocolli d’intesa già intercorsi tra la Corte di cassazione, la Procura Generale, l’Avvocatura Generale dello Stato e il Consiglio Nazionale Forense, i quali hanno cessato di avere validità il 1° marzo 2023, sostituiti dal nuovo “Protocollo d’intesa sul processo civile in cassazione”[48].
Tra l’altro, nell’innovativo protocollo sono individuati anche dei criteri quantitativi idonei alla confezione degli atti funzionali all’ottimale utilizzo del nuovo PCT obbligatorio in legittimità. E’ stato tra l’altro previsto che, di regola, in ricorso l’esposizione dello svolgimento del processo debba estendersi per un massimo di 5 pagine e che i motivi di impugnazione contenenti gli argomenti a sostegno delle censure siano contenuti in 30 pagine di regola. Si tratta di un intervento di soft-law, dal momento che le “Note a chiarimento del protocollo”[49] specificano come il mancato rispetto dei criteri dimensionali degli atti e delle indicazioni contenute nel protocollo stesso non comporti l’inammissibilità o l’improcedibilità del ricorso, salvo che non sia stato espressamente previsto dalla legge. Il riferimento va operato in primo luogo al riformato art.366 cod. proc. civ., da cui scaturisce un ridisegnato contenuto del ricorso imperniato sui requisiti di chiarezza, sinteticità e completezza[50].
Tanto i fatti processuali quanto i motivi devono essere esposti con precisa sintesi e particolare cura alla chiarezza espositiva, affinché tutte le ragioni, ma solo queste, a fondamento dell’impugnazione risultino esplicitate e riferite con chiarezza ad uno o più motivi e sorrette dall’esposizione mai necessariamente testuale, bensì ragionata e critica, del contenuto di atti processuali o documenti - come contratti e accordi collettivi menzionati dal nuovo n.6, ma anche, in via interpretativa, atti impositivi ed amministrativi - su cui ciascuno dei mezzi di ricorso si fonda. E’ evidente che richiede maggiore sforzo la ragionata sintesi rispetto al copia-incolla dagli atti e provvedimenti dei gradi di merito, ma questo non deve essere inteso come un nuovo ostacolo all’impugnazione, aggiuntivo rispetto alla già notevole fatica della difesa tecnica in sede di legittimità ma, all’opposto, è il vero strumento per rendere maggiormente celere e prevedibile la decisione della Cassazione e per prepararsi alle ardue sfide dell’applicazione dell’intelligenza artificiale al processo.
Non va sottovalutata affatto l’importanza del metodo condiviso e l’utilità pratica dell’intervenuto nuovo Protocollo d’intesa, il quale concretizza la volontà comune di costruire una prassi organizzativa e un’interpretazione condivisa di alcune delle modifiche normative, nella convinzione che il modo più efficace per produrre il cambiamento culturale richiesto dalla riforma sia quello del pieno e fattivo coinvolgimento di tutti i soggetti del processo sui quali ricade la comune responsabilità di farlo funzionare, e che nessuna significativa modifica del modo di essere e funzionare può prescindere dal consenso e dal contributo delle difese[51].
Va dunque ribadita l’importanza dei protocolli stipulati dalla Corte e dalla Procura con gli Avvocati e l’Avvocatura, tenuto anche conto che in tal modo si evita il rischio dell’applicazione di buone prassi a macchia di leopardo sul territorio nazionale, senza che la temuta inammissibilità o, al contrario, la presenza di una norma minus quam perfecta siano il fattoretoglie dirimente. Ciò che è importante è che la nuova scrittura si coniughi con l’informatizzazione, realizzando quella puntuale esposizione dei motivi di diritto e chiarezza finalizzata ad ottenere una decisione più celere e succinta da parte della Corte.
Speculare sforzo di sintesi e chiarezza è richiesto al giudice, obiettivo però raggiungibile solo a partire da atti difensivi di nuova concezione, in linea con il Protocollo. A chi scrive, negli anni di servizio presso la Corte, è capitata la decisione come relatore di ricorsi anche molto lunghi, in un caso di oltre 640 pagine per 45 motivi complessivi, e il lavoro dell’estensore della decisione non può che coprire, sia pure succintamente ciascun motivo pena l’omessa pronuncia. Per quanto complessa possa essere la materia del contendere, una simile prolissità non è compatibile con una decisione lineare, concisa e prevedibile quale quella da cui dipenderà il successo della riforma e il raggiungimento di obiettivi almeno vicini a quelli fin troppo ambiziosi posti dal PNRR.
Ecco allora che, se rispettato, il Protocollo può contribuire, con l’elasticità tipica della soft-law, a individuare criteri predeterminati idonei a ridurre non tanto la libertà della di espressione e comprimere la possibilità di difesa, quanto, piuttosto, la discrezionalità di chi decide: vi è un interesse comune alle parti più attente dell’Avvocatura e della Magistratura a far funzionare la riforma in punto di semplificazione. Questo metodo può dare frutti importanti, idonei anche a ridurre gli spazi per l’applicazione dell’inammissibilità per difetto di autosufficienza/specificità/localizzazione, ove venga fatto un utilizzo non meccanico ma virtuoso del deposito telematico obbligatorio, che in prospettiva può rendere immediatamente disponibile il materiale del processo di merito. Anche in questo ambito “tecnico”, protocolli di intesa possono fornire elementi conoscitivi ulteriori alle difese e ai giudici per rendere consultabili in concreto atti e documenti, dal momento che un file pdf immagine depositato rispetta i requisiti minimi del PCT, ma è scarsamente leggibile e, talvolta, per la sua stessa pesantezza, non si riesce neppure a tenere aperto al video-terminale. Al contrario, un file “searchable pdf” consente una ragionata ricerca nel documento di parole chiave, e ciò in potenza toglie in radice il fondamento alla critica di mancata localizzazione di una deduzione, domanda o difesa. E’ auspicabile che protocolli evolutivi introducano maggiori indicazioni “tecniche” concordate, e che ne venga fatta ampia diffusione conoscitiva tra i 50.000 avvocati cassazionisti, perché è comune interesse attuare i principi di chiarezza e sinteticità degli atti e di collaborazione tra le parti e il giudice.
8. Il vaglio sul controricorso alla luce del nuovo processo civile telematico di legittimità.
Buona parte delle categorie dell’inammissibilità già esaminate con riferimento al ricorso valgono anche per il controricorso, con i necessari adattamenti, come ad esempio l’applicazione del principio di specialità e localizzazione, non alle domande bensì alle eccezioni, intese quali fatti giuridici introdotti nel processo estintivi, modificativi o impeditivi dei fatti sui quali si fonda la domanda di chi ha esercitato l’azione.
Vi è poi l’elemento distintivo secondo il quale il controricorso non è il primo atto introduttivo del giudizio e su di esso il nuovo PCT di legittimità, esteso e rafforzato dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, gioca un ruolo importante perché consente di individuare il deposito in luogo della notificazione quale adempimento che dev’essere compiuto entro il termine perentorio, a pena di inammissibilità.
Va rammentato che l’estensione della telematizzazione non si è spinta ad assicurare il mantenimento di una delle innovazioni maggiormente vistose e discusse conseguenti alla pandemia Covid-19, ossia la facoltà di celebrare le adunanze camerali da remoto[52] che, al momento, in concreto è sostanzialmente venuta meno ed è riservata essenzialmente alle riconvocazioni del collegio per emendare decisioni già prese. Le camere di consiglio, e dunque anche le adunanze camerali, secondo il riformato art.140 bis disp. att. cod. proc. civ. da gennaio 2023 si svolgono di regola in presenza e solo eccezionalmente il Presidente del collegio per motivate “esigenze di tipo organizzativo” può autorizzare la celebrazione da remoto. Laicamente, non vanno sottovalutati i rischi di un eccesso di utilizzo dello strumento e l’importanza della presenza costante in Ufficio per assicurare il servizio giustizia. D’altro canto, è importante ad avviso di chi scrive conservare un certo margine di flessibilità e lasciare aperta nei fatti questa valvola, alla luce della composizione della Corte in cui si esprimono Consiglieri provenienti da tutta Italia, elemento essenziale per una reale giurisdizione nazionale e per perseguire una logica di duttile efficienza vista la pluralità degli adempimenti da compiere per giungere tempestivamente alla decisione di un singolo ricorso, moltiplicato per il loro numero, senza del resto che si profili alcuna lesione dei diritti fondamentali, incluso il diritto di difesa[53], poiché lo strumento è riservato alla camera di consiglio.
Proseguendo per punti con concisione, all’obbligatorietà del deposito telematico degli atti processuali e dei documenti, ivi compresa la nota di iscrizione a ruolo, anche nel giudizio avanti alla Corte di Cassazione[54], ha fatto da contraltare l’introduzione nel 2023 anche per i Consiglieri della Corte l’obbligo di deposito telematico di ogni provvedimento decisorio, a chiusura di una lunga fase sperimentale iniziata ad aprile 2021. Di conseguenza, la giurisprudenza della Corte ha già statuito che, ai sensi e per gli effetti dell'art. 369 cod. proc. civ., in tutti i procedimenti civili pendenti in Cassazione a decorrere dal 1° gennaio 2023 è ormai improcedibile il ricorso che, al di fuori dei casi tassativi in cui è consentito, sia depositato con modalità non telematiche[55].
Per effetto della riforma, il controricorso diretto contro il ricorrente va semplicemente depositato telematicamente e non più notificato, entro il termine di quaranta giorni dalla notifica del ricorso, termine ormai unificato. Entro il medesimo termine può essere proposto anche ricorso incidentale, il quale, a sua volta, va unicamente depositato e non notificato, secondo quanto disposto dall’art.371 cod. proc. civ.[56].
Tuttavia, un problema di litis denuntiatio si può porre nei casi in cui il ricorso incidentale sia proposto nei confronti di una parte non ancora costituita. L’incidentale non costituisce un atto distinto dal controricorso in applicazione del principio di unità delle impugnazioni e, quando presente, sia esso un ricorso incidentale condizionato o autonomo, è un tutt’uno con il controricorso. Quindi, data l’unitarietà dell’atto, nel caso suddetto, infrequente ma non estremamente raro, ad avviso di chi scrive per una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata[57] della previsione normativa, dovrà ragionevolmente essere notificato l’atto contenente il ricorso incidentale, perché diretto contro soggetto diverso dalla parte costituita, che altrimenti potrebbe non averne tempestiva conoscenza, con nocumento del proprio diritto di difesa.
Inoltre, nell’art.371 cod. proc. civ., vi è probabilmente un difetto di coordinamento con riferimento al controricorso che eventualmente venga depositato in risposta al ricorso incidentale, nella parte in cui sfugge l’espressione “a norma dell’articolo precedente”. L’espressione rimasta fa riferimento alla notificazione, ma come visto il ricorso incidentale di regola non viene più notificato e, dunque, ragionevolmente e in attesa di un intervento da parte di decreti correttivi, in via interpretativa pare preferibile ad avviso di chi scrive ritenere che il controricorso debba essere depositato entro quaranta giorni dal deposito e non dalla notificazione dell’atto, per non gravare la difesa di un irragionevole onere di controllo quotidiano dell’adempimento di controparte.
9. Conclusioni.
Ci si può chiedere se e come la qualità del servizio giustizia per il cittadino - al di là delle moltiplicazioni statistiche che non sempre corrispondono ad una prestazione efficace a lungo attesa - e il rispetto dei diritti fondamentali, a partire da quelli di difesa, siano coniugabili con gli obbiettivi quantitativi concretamente perseguiti attraverso gli strumenti processuali e materiali assegnati alla Corte sulla base del PNRR e della riforma.
L’eliminazione della sezione sesta civile, divenuta in parte separata dalle sezioni semplici, soprattutto in una materia specialistica come quella tributaria, pare una cosa positiva, dal momento che le assegnazioni di Consiglieri talvolta non erano promiscue ma esclusive né la rotazione era automatica, e questo modulo organizzativo contribuiva a generare una certa ripetitività di sotto-filoni giurisprudenziali, tra l’altro proprio in materia di inammissibilità dei ricorsi che, non di rado, venivano esaminati e decisi prima in sesta piuttosto che nella sezione semplice per il meccanismo cronologico di plurimo spoglio descritto, costituendo di fatto precedenti involontari non sempre funzionali alla nomofilachia. Inoltre, la riduzione del numero degli spogli del medesimo ricorso, effettuati alla ricerca soprattutto, anche se non solo, dell’inammissibilità è una cosa positiva.
E’ ora molto importante che il “filtro” riformato e ricondotto nell’alveo della sezione semplice, affidato all’ufficio spoglio sezionale per scelta organizzativa dei vertici lavori nel senso di diventare laboratorio tematico per le adunanze camerali, cosa possibile solo attraverso un attento studio del fascicolo. Ai Consiglieri della sezione cui l’ufficio spoglio assegna i ricorsi è certo richiesto un aggiuntivo requisito di sintesi per la confezione delle sentenze e delle ordinanze, e del resto le tabelle della Cassazione individuano la sinteticità come un parametro rilevante per l’individuazione dei consiglieri da destinare alle Sezioni Unite.
E’ inutile nascondersi però che la realizzazione dei grandi numeri richiesti dal PNRR è affidata dal legislatore in misura considerevole ai magistrati dell’ufficio spoglio, attraverso il modulo decisorio della proposta accelerata. Vi sono ostacoli al funzionamento del rito monocratico accelerato nei ricorsi tributari, ossia nella buona metà del contenzioso civile pendente, per un difetto di coordinamento con la disciplina sostanziale che regola la definizione agevolata prevista dalla legge n.197/2022. Il ricorso tributario è ormai di regola soggetto a sospendibilità dei termini per la definizione agevolata, essendo disposto: “le controversie definibili non sono sospese, salvo che il contribuente faccia apposita richiesta al giudice, dichiarando di volersi avvalere della definizione agevolata”[58]. I termini sono stati da ultimo differiti sino a fine ottobre 2023 dal d.l. n.51/2023 e, nel momento in cui venga formulata e comunicata la proposta da parte della Corte, di contenuto necessariamente sfavorevole al ricorrente, c’è una ragionevole possibilità che questi immediatamente depositati un’istanza di sospensione del processo, precludendo così sia il funzionamento della proposta, sia la decisione camerale.
Inoltre, per tutti i ricorsi civili vale il criterio secondo il quale, sino a quando non è depositato il controricorso o scaduto il termine per il deposito, è sempre possibile la proposizione di un ricorso incidentale e, dunque, una proposta di decisione formulata anteriormente potrebbe non tener conto dell’intera materia del contendere.
A ciò si aggiunge che aggravi processuali consistenti al funzionamento della proposta sono da mettere in conto nei casi in cui in seno al medesimo processo siano state formulate più domande giudiziali provenienti da una pluralità di parti, elementi che depongono nel senso di un cauto utilizzo della procedura accelerata in tali fattispecie.
In conclusione, il rito monocratico della proposta di inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza dev’essere riconosciuto come mezzo per recuperare efficienza alla Corte ed omogeneità giurisprudenziale, ma evitando che diventi un fine, con grave compressione del diritto di difesa, in violazione degli artt.111, 25 Cost. e 6 CEDU. In questa prospettiva, saranno importanti anche le determinazioni organizzative che la Corte adotterà su chi dovrà decidere in caso di mancata quiescenza alla proposta e richiesta di decisione collegiale, ossia se il magistrato proponente potrà comporre il collegio in camera di consiglio e, in caso affermativo, se potrà essere nominato anche relatore o meno sul fascicolo.
Vorrei riprendere in conclusione il pensiero iniziale: sono sicuro che la Corte farà il possibile per non richiudersi dietro le mura e per affrontare insieme alla Procura Generale, all’Avvocatura dello Stato e all’Ordine forense in modo costruttivo il confronto con una riforma che, tra elementi positivi, presenta molte incognite. Noi, insieme, siamo la città di cui parla Tucidide e sta a noi deciderne le sorti, senza vuoti proclami, astratte petizioni di principio sugli obiettivi, ricerca di capri espiatori, con il nostro concreto e sostenibile impegno quotidiano. Questo decreterà il successo o il fallimento della riforma, a partire dal vaglio di ammissibilità delle impugnazioni.
Dev’essere chiaro che i numeri con cui ci si confronta ogni giorno in Corte da anni, e cui ho fatto cenno all’inizio, non sono sostenibili, nonostante tutta la cura e l’impegno profusi da colleghi di grande valore. Ritengo che non tanto la proposta monocratica di definizione accelerata, quanto piuttosto il PCT obbligatorio in legittimità, operativo dal 2023, con tutti i suoi limiti, oggi ci dia alcune nuove carte da giocare.
E’ essenziale che alla luce della telematizzazione del processo civile venga ripensata la scrittura dei ricorsi e dei controricorsi, anche nella prospettiva della sfida che pone al processo l’intelligenza artificiale, e che, senza attesa, vengano organizzati capillari incontri di formazione sul tema, se possibile in composizione mista per favorire l’orizzontale circolazione delle esperienze.
Anche per questo ringrazio il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano, per aver organizzato questo importante incontro di studi interdisciplinare, confermando anche nell’occasione la nota e apprezzata lungimiranza e collaborazione con la Magistratura per il buon funzionamento della giustizia.
[1] Consigliere della Corte di Cassazione. Le opinioni espresse nell’articolo sono personali e non impegnano in alcun modo la Corte.
[2] Il presente contributo raccoglie alcune riflessioni svolte nella relazione presentata all’incontro di studi organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Milano il 30.5.2023 sul tema “La riforma Cartabia del Processo Civile: Il nuovo Giudizio di Cassazione”, e cui hanno partecipato il Prof. Avv. Alberto Tedoldi, il Prof. Avv. Francesco Paolo Luiso, e la Prof. Simona Caporusso; l’incontro è stato organizzato a cura del Pres. del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano Avv. Antonino La Lumia, del Vice Pres. Avv. Francesca Zanasi, della Coordinatrice Avv. Valentina Masi e dell’Avv. Silvia Toffoletto.
[3] Per una recente ragionata e organica lettura degli apparati che compongono la riforma, cfr. F. P. Luiso, Il nuovo processo civile (Commentario breve agli articoli riformati del codice di procedura civile), Giuffré, Milano, 2023; AA.VV. (a cura di A. Didone e F. De Santis), Il processo civile dopo la riforma Cartabia, Cedam, Padova, aprile 2023; per un’interessante contestualizzazione comparativa, con uno sguardo alla riforma Cartabia, si veda anche R. Caponi, Processo civile: modelli europei, riforma Cartabia, interessi corporativi, politica, in https://questionegiustizia.it, ultimo accesso 30.5.2023.
[4] Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, approvato nel 2021, fa parte del programma dell'Unione europea “Next Generation EU”, un dotato di 750 miliardi di euro per la ripresa europea (recovery fund), di cui all'Italia sono stati assegnati 191,5 miliardi, parte in sovvenzioni a fondo perduto e parte in prestiti, da cui dipende una frazione molto consistente della crescita pluriennale del Paese dopo la pandemia Covid-19 e in vista della sua transizione energetica e digitale. Le tranches di erogazione dei finanziamenti sono legate al progresso delle riforme concordate con l’Unione Europea al momento dell’approvazione del PNRR.
[5] Cfr. la Circolare 12 novembre 2021 - Piano Nazionale di ripresa e resilienza – Indicatori di raggiungimento degli obiettivi previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), documento M_dg_DOG.12/11/2021.0238068.U, disponibile su https://www.giustizia.it/, ultimo accesso 26.5.2023.
[6] Il Ministero della Giustizia ha messo a disposizione i dati statistici generali sulla giustizia civile per il periodo 1° luglio 2021 - 30 giugno 2022, e a tale arco temporale la citata Relazione 2023 fa riferimento anche per la Corte di cassazione, allorché occorre prendere in considerazione le complessive iscrizioni, definizioni e pendenze del settore civile della giustizia. Il flusso dei ricorsi e il lavoro della Corte di cassazione viene esaminato in dettaglio dalla Relazione del Primo Presidente, con riguardo all’anno solare, utilizzando i dati dell’ufficio di statistica della Corte, cfr. pp.21. 26 e 39 relazione cit., disponibile su https://www.cortedicassazione.it ultimo accesso 26.5.2023.
[7] Così F. De Stefano, La riforma del processo civile in Cassazione, Note a prima lettura, disponibile su https://www.giustiziainsieme.it/ultimo accesso 25.5.2023.
[8] L’apparato è disponibile su https://www.consiglionazionaleforense.it/ unitamente all’elenco dei codici materia integralmente revisionato ai fini di una razionale iscrizione a ruolo e agli atti di parte ed allegati certificati.
[9] Le disposizioni hanno effetto e decorrono dal 28.2.2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data, ai sensi dell’art.35 comma 1 del d.lgs. n.149/2022.
[10] Cfr. P. Curzio, Il ricorso per cassazione. Viaggio all’interno della Corte, in AA.VV. (a cura di M. Acierno, P. Curzio, A. Giusti), La Cassazione Civile, 3ed, Cacucci Bari, 2020, pp.34 e ss..
[11] In particolare, l’art.8 comma 8 del d.l. n.198/2022, c.d. Milleproroghe 2023, ha previsto che anche in deroga alle disposizioni di cui al d.lgs. n.149/2022 continua ad applicarsi alle udienze e alle camere di consiglio da svolgere fino al 30 giugno 2023 la disposizione di cui all’art.23 comma 8 bis primo, secondo, terzo e quarto periodo, del d.l. n.137/2020 conv. in legge n.176/2020. La l. n.14/2023, che ha convertito il d.l. n.198/2022 e ha disposto che le parole “e alle camere di consiglio” siano soppresse. La disposizione è stata interpretata dalla Corte, attraverso un decreto del Primo Presidente nel senso che la pubblica udienza cartolare “pandemica” trova applicazione sino al 30.6.2023 e, conseguentemente, almeno 25 giorni prima della fissata PU le parti devono fare richiesta di discussione orale della controversia, altrimenti questa resta cartolare secondo la normativa della pandemia.
[12] L’articolo 375 cod. proc. civ. riformato ha significativamente invertito l’ordine “camera di consiglio”/“pubblica udienza” adoperato dalla precedente versione.
[13] Conv., con modif., dalla l. n. 176 del 2020, prorogato ex art. 8, comma 8, del d.l. n. 198 del 2022, conv., con modif., dalla l. n. 14 del 2023.
[14] Nel caso di specie ciò era stato indotto da un atto proveniente dalla cancelleria del giudice procedente.
[15] Cfr. Cass. SS.UU., sentenza n. 8034 del 21/03/2023.
[16] Il programma è redatto ai sensi dell’art.37 del d.l. n.98/2011, convertito in legge n.111/2021.
[17] Ossia dichiarare l’inammissibilità del ricorso principale (e di quello incidentale eventualmente proposto) ex art. 375, n. 1 cod. proc. civ. oppure accogliere o rigettare il ricorso principale (e l’eventuale ricorso incidentale) per manifesta fondatezza o infondatezza ex art. 375, n. 5 cod. proc. civ..
[18] Cfr. Relazione illustrativa al d.lgs. n.149/2022, Supplemento straordinario n.5 alla G.U. 19 ottobre 2022, Serie Generale n.245, p.44.
[19] Al contrario, in precedenza era previsto sulla base del d.l. da ultimo citato, piuttosto genericamente, che 400 del 16.500 nuovi reclutati fossero destinati alla Corte di cassazione “con l'obiettivo prioritario del contenimento della pendenza nel settore civile e del contenzioso tributario”.
[20] Si veda B. Capponi, Il giudice monocratico in Cassazione, in Foro it., 2023, II, 1.
[21] Conseguentemente, seguirà provvedimento di estinzione con decreto del Presidente ex art.391 primo comma cod. proc. civ., non essendo ancora stata fissata la data della decisione.
[22] Le pendenze avanti alla Corte EDU sono così passate da oltre 150.000 a metà del 2012, a 54.350 al 30 giugno 2018; per una interpretazione delle cause di tale risultato, sia consentito il rinvio a P. Gori, Organizzazione del lavoro nella Corte Edu, riforme e buone prassi per l’Italia, in AA.VV., La Corte di Strasburgo, Key Editore, ISBN 978-88-279-0390-2, Milano, 2019.
[23] Si consideri che la richiesta di udienza è facoltà della parte che non dev’essere motivata in alcun modo, non essendo ciò richiesto esplicitamente dalla novella.
[24] Corte cost. 6 giugno 2019, n. 139.
[25] Cfr. Cass. SS.UU. 16601/2017; Cass. 25177/2018.
[26] B. Capponi, 2023: Odissea nel Palazzaccio, su https://www.giustiziainsieme.it/, ultimo accesso 28.5.2023; F.M. Giorgi, Riforma del processo civile in Cassazione: unificazione dei riti camerali e procedimento accelerato (focus sulle controversie lavoristiche), in https://giustiziacivile.com/, ultimo accesso 28.5.2023.
[27] F. Troncone, Riforma processo civile: le novità del giudizio per cassazione, disponibile su https://www.altalex.com, ultimo accesso 26.5.2023.
[28] Per una ragionata casistica giurisprudenziale e sistemazione dogmatica, cfr. R. Frasca, Ricorso, controricorso, ricorso incidentale, in AA.VV., La Cassazione Civile, cit., pp.103 e ss..
[29] Cfr. A. Giusti, L’autosufficienza del ricorso, in AA.VV., La Cassazione Civile, cit., pp.213 e ss..
[30] Corte EDU 28 ottobre 2021, Succi e altri c. Italia, Nos. 55064/11, 37781/13, 26049/14.
[31] Cfr. Cass. SS.UU., Ordinanza n. 8950 del 18/03/2022.
[32] Eventualmente, si rinvia a P. Gori, Processo telematico in Cassazione, a che punto siamo?, in https://www.questionegiustizia.it/, ultimo accesso 28.5.2023.
[33] Cass. SS. UU, Sentenza n. 27435 del 2017.
[34] A. Proto Pisani, Violazione di norme processuali, sanatoria ex nunc o ex tunc e rimessione in termini, in Foro it., 1992, I, 1721.
[35] Ex plurimis, Cass. SS. UU. 29 marzo 2013 n. 7931; Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 16314 del 18/06/2019.
[36] Tra le tante, si veda Cass. Sentenza n. 4293 del 04/03/2016.
[37] Cfr. P. D’Ascola, Falsa applicazione di norme di diritto, in AA.VV., La Cassazione Civile, cit., pp.293-294.
[38] Resta il riferimento Cass. SS. UU., Sentenza n. 8053 del 07/04/2014.
[39] Cass. n. 12002 del 2017; Cass. n. 5374 del 2017.
[40] Cfr. Cass. SS. UU., Sentenza n. 8053/2014 cit., giurisprudenza mai successivamente superata sul punto.
[41] Anche la soppressione dell’art. 366 ultimo comma cod. proc. civ. sulle comunicazioni della cancelleria alle parti è conseguenza dell’introduzione del processo civile telematico ex artt. 36, ultimo comma, e 196-bis - 196-duodecies disp. att. cod. proc. civ..
[42] Cfr. Corte EDU 15 settembre 2016 Trevisanato c. Italia, No. 32610/07, §§ 42-44 e, a contrario, 24 aprile 2008, Kemp e altri c. Lussemburgo, No. 17140/05, § 59; Corte EDU, RTBF c. Belgio, No. 50084/06, § 71.
[43] A. Lugo, (voce) Inammissibilità (dir. proc. civ.), in Noviss. dig. it., vol. VIII, Torino, 1962, pp. 483-485.
[44] G.F. Ricci, Il giudizio civile di cassazione, Giappichelli, Torino, 2016, pp.611-12 e dottrina ivi citata.
[45] Cfr., da ultimo, Cass. n. 29889 del 12/10/2022, secondo cui l'omesso o tardivo deposito del ricorso per Cassazione dopo la scadenza del ventesimo giorno dalla notifica del gravame comporta l'improcedibilità dello stesso, rilevabile anche d'ufficio e non esclusa dalla costituzione del resistente, salva la possibilità di rimessione in termini, ai sensi dell'art. 153, comma 2, cod. proc. civ., ove il mancato tempestivo deposito sia dipeso da causa non imputabile al ricorrente.
[46] Cfr. Cass. SS. UU., Sentenza n. 8923 del 19/04/2011; Cass. SS. UU., Sentenza n. 7155 del 21/03/2017.
[47] Il profilo può porsi anche in rapporto alla declaratoria di improcedibilità, questione sulla quale è intervenuta la remissione alle Sezioni Unite ad opera di Cass. 11 novembre 2022 n.33270 e ancora al vaglio alla data del 31.5.2023.
[48] Cfr. nota 8; il documento è disponibile anche sul sito della Corte, https://www.cortedicassazione.it, ultimo accesso 25.5.2023.
[49] Cfr. il paragrafo 1.6 del Protocollo.
[50] F. De Stefano, La riforma del processo civile in Cassazione, cit..
[51] Cfr. Comunicato stampa adottato dalla Corte di cassazione il 1.3.2023 in accompagnamento all’adozione del Protocollo d’intesa in pari data, disponibile su https://www.cortedicassazione.it/, ultimo accesso 26.5.2023.
[52] Volendo, P. Gori, Covid-19: la Cassazione apre alle udienze da remoto, 2020, in https://www.questionegiustizia.it/, ultimo accesso 26.5.2023.
[53] P. Gori – A. Pahladsingh, Fundamental rights under Covid-19: an European perspective on videoconferencing in court, in ERA Forum (2021) 21:561–577, https://link.springer.com/article/10.1007/s12027-020-00643-5, ultimo accesso 26.5.2023.
[54] In base all'art. 196 quater, comma 1, disp. att. cod. proc. civ., applicabile, ai sensi dell'art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 149 del 2022, a tutti i procedimenti civili pendenti davanti alla Corte di Cassazione a decorrere dall'1° gennaio 2023, tale deposito da parte dei difensori, ha luogo esclusivamente con modalità telematiche, salvi i casi eccezionali previsti dall'art. 196 quater, comma 4, disp. att. cod. proc. civ..
[55] Cfr. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 10689 del 20/04/2023.
[56] Ciò vale anche nel caso in cui proviene da una parte nei cui confronti è stato notificato il ricorso per integrazione a norma degli artt. 331 e 332 cod. proc. civ. e, per interpretazione sistematica, si può ritenere valga anche per quello proposto dalla parte nei cui confronti è rinnovata la notificazione ai sensi dell’art. 291 cod. proc. civ..
[57] Cfr. gli artt.111, 25 Cost. e 6 § 1 CEDU.
[58] Così l’art.1 comma 197 della l. n.197/2022.
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