ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Riportiamo l’intervento del professore Roberto Romboli a introduzione delle sedute di stage presso il Consiglio Superiore della Magistratura da parte dei magistrati ordinari in tirocinio nominati con D.M. 23.11.2022. Lo stage si è svolto dal 15 al 19 maggio scorso. Nell’attuale composizione del CSM il professor Romboli è direttore dell’Ufficio studi e documentazione nonché componente della Sesta commissione.
1. È con grande piacere che saluto tutte e tutti i partecipanti a questo primo seminario, organizzato dal Consiglio superiore della magistratura e dalla Scuola superiore della magistratura per i Mot nominati con dm 23 novembre 2022, ai quali do il benvenuto nella sede del Consiglio.
Gli interventi che seguiranno avranno un oggetto assai ampio e riguarderanno in particolare struttura, funzioni e attività internazionale del Csm, mobilità e valutazioni di professionalità, le tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti, i programmi di gestione e di organizzazione degli uffici requirenti, le incompatibilità e gli incarichi extragiudiziari ed infine la responsabilità disciplinare.
Il mio intervento si limiterà quindi ad una introduzione sul significato ed il ruolo attribuito all’organo che vi ospita, con qualche valutazione conclusiva sull’attualità.
Nella classica distinzione tra le costituzioni-bilancio e le costituzioni-programma, la nostra appartiene senza dubbio alle seconde nel senso che intende segnare una chiara rottura con il passato e specificamente che il ventennio appena concluso, attraverso l’affermazione di principi e valori nuovi, per molti aspetti opposti a quelli che avevano caratterizzato il regime precedente e con la precisa intenzione di segnare una discontinuità con lo stesso.
Per questo appaiono del tutto prive di significato, sotto l’aspetto storico ed interpretativo, le recenti polemiche circa la presenza o meno nel testo della Costituzione della parola “antifascismo”.
La volontà di evitare il possibile ripetersi della precedente esperienza consigliò ai nostri costituenti di porre nella Costituzione tutta una serie di istituti di garanzia, nuovi rispetto all’ordinamento passato.
Innanzi tutto, a seguito del risultato del referendum istituzionale del 1946 a favore della repubblica, la figura del Presidente della repubblica, situata al di fuori dei tre tradizionali poteri dello Stato a tutela di un ordinato equilibrio tra gli stessi, nonché la Corte costituzionale, quale giudice della conformità delle leggi e degli atti con forza di legge alla Costituzione e quindi quale garanzia della rigidità della stessa ed ancora il Consiglio superiore della magistratura, istituito per garantire i valori di autonomia, indipendenza ed imparzialità dei magistrati.
Se è vero che un organo con lo stesso nome era già stato previsto con la legge Orlando del 1907 è altresì vero che si trattava di un soggetto con composizione e funzioni assolutamente diverse e quindi il Consiglio previsto dalla Costituzione repubblicana può senza dubbio essere considerato un organo “nuovo” nel senso anzidetto.
Essendo chiara ed evidente la ragione della previsione del Presidente della repubblica, nonché della Corte costituzionale, potremmo chiederci quale sia la ragione della istituzione del Csm.
Questa deve essere collegata al diverso modo di concepire il ruolo della magistratura, non più soggetta all’indirizzo ed alla vigilanza del potere politico, ma appunto quale soggetto di garanzia per i diritti dei cittadini e per il rispetto della legge anche da parte della politica e dei soggetti esercenti il potere (una delle conseguenze del passaggio dallo stato di diritto allo stato costituzionale).
Da ciò ne discende logicamente una diversa collocazione della magistratura nel sistema istituzionale, sia sotto l’aspetto strutturale che sotto quello funzionale, rispetto a quella realizzatasi nel periodo precedente e formalizzata nell’ordinamento giudiziario del 1941, non a caso ritenuto contrario ai “nuovi” principi costituzionali dalla VII disposizione transitoria che chiede al legislatore ordinario di approvare una “nuova legge sull’ordinamento giudiziario in conformità con la Costituzione”.
Riguardo all’aspetto strutturale il riferimento riguarda il necessario superamento della struttura gerarchica della magistratura e quindi della distinzione tra “capi degli uffici” e “magistrati in sottordine”, espresso chiaramente dall’art. 107, 4° comma, Cost. (“i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”) a favore della definizione, utilizzata dalla Corte costituzionale a proposito dei conflitti tra poteri dello Stato, di una magistratura come “potere diffuso”. Ogni magistrato, nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, può ritenersi espressivo del potere giudiziario e quindi legittimato ad essere parte attiva o passiva di un conflitto tra poteri.
Sotto l’aspetto funzionale una vera rivoluzione, per la posizione istituzionale e l’attività interpretativa del giudice, è rappresentata dalla realizzazione di un sistema di giustizia costituzionale, che assegna al giudice un ruolo di fondamentale importanza, dal momento che, specie nei primi anni di funzionamento, l’accesso alla Corte costituzionale si riduce al giudizio in via incidentale.
Il funzionamento e l’efficacia del controllo di costituzionalità delle leggi passa quindi inevitabilmente dalla sensibilità dei giudici ai nuovi valori costituzionali.
Viene di conseguenza integrato il fondamentale principio di soggezione del giudice alla legge, nel senso che lo stesso vale solamente a condizione che la legge sia rispettosa dei principi costituzionali, in quanto, in caso contrario, il giudice è legittimato a non applicare la legge ed a chiedere l’intervento chiarificatore della Corte costituzionale.
La previsione di una fonte superiore, organizzata soprattutto per principi anziché per regole, determina un inevitabile ampliamento dei poteri interpretativi del giudice e di conseguenza della possibilità di incidere sulla decisione.
Per questo la necessità di garantire la sua autonomia e indipendenza soprattutto ed in particolare dal potere politico e dagli indirizzi della maggioranza governativa di turno (la c.d. indipendenza esterna), nonché da indebite influenze che possano derivare dalla stessa magistratura (la c.d. indipendenza interna).
2. Il carattere di costituzione-programma comporta di necessità che alla entrata in vigore della stessa deve seguire una fase di attuazione, in quanto al momento grandissima parte delle previsioni costituzionali, come istituti o come principi, non esistono o debbono essere realizzati.
La fase storica che segue il 1948 è stata definita, come noto, del “congelamento costituzionale” ad indicare una certa ritrosia della maggioranza “centrista” a dare attuazione ad alcune previsioni della Carta costituzionale (attraverso quello che Piero Calamandrei chiamerà l’“ostruzionismo di maggioranza”).
Ciò ha riguardato anche il Consiglio superiore della magistratura, attuato come sapete dopo dieci anni. La legge del 1958 ebbe dunque il merito di dare attuazione alle previsioni costituzionali, anche se lo fece in una maniera che potremmo definire assai prudente o timida per l’autonomia e indipendenza della magistratura.
Impossibile entrare nei particolari del testo originario della legge, ma credo che valga molto bene a dare un’idea di quanto appena detto la previsione contenuta nell’art. 11 della stessa, il quale subordinava alla richiesta del ministro della giustizia qualsiasi deliberazione del Csm nelle materie ad esso assegnate.
Questa norma è stata, dopo cinque anni dall’entrata in vigore della legge, dichiarata incostituzionale in quanto ritenuta concretizzare una “lesione della autonomia del medesimo [Csm], in contrasto perciò con i precetti della Costituzione” (sent. n. 168 del 1963).
L’importanza che il Costituente ha inteso riconoscere al Consiglio superiore della magistratura pare del resto testimoniata dal fatto che dei dieci articoli del titolo IV, sezione I, della Costituzione, ben cinque di essi fanno riferimento a tale organo (artt. 104, 105, 106, 107, 110).
Se ci chiediamo quale sia stato il ruolo che il Csm ha svolto dal 1958 ad oggi per la realizzazione dei valori di autonomia e indipendenza della magistratura, credo che nessuno potrebbe disconoscere l’importanza e l’apporto decisivo derivante dall’azione del Consiglio per la realizzazione di quella che è stata ritenuta la magistratura più autonoma ed indipendente d’Europa e per il raggiungimento di certi risultati per la tutela dei diritti ed il rispetto delle regole da parte di soggetti politici, attraverso indagini un tempo assolutamente inimmaginabili.
Il Consiglio è caratterizzato, come noto, da una composizione mista, due terzi magistrati eletti da magistrati ed un terzo di “laici” eletti dal parlamento in seduta comune.
La composizione “togata” e i criteri da seguire per la elezione hanno determinato un inevitabile collegamento con l’associazionismo all’interno della magistratura e la conseguente – del tutto legittima – creazione delle c.d. correnti, espressione del pluralismo culturale ed anche del diverso modo di intendere da parte dei magistrati il ruolo della giurisdizione (ricordo a voi, giovani magistrati, l’importanza del Congresso di Gardone del 1965 e delle tesi approvate al termine del medesimo).
Conseguente il succedersi di diverse leggi elettorali fino a quella attualmente vigente, tutte espressione di una determinata volontà politica.
In estrema sintesi la legge 195/1958 si fondava su un sistema di tipo maggioritario puro a collegio uninominale ed a turno unico e poteva ritenersi espressiva di una visione riduttiva del Csm e di una concezione piramidale della magistratura; la legge 1198/1967 prevedeva invece una doppia consultazione, la prima delle quali con la funzione simile alle primarie, alla quale seguiva poi una votazione con sistema maggioritario secco in collegi uninominali; il paradossale risultato delle elezioni del 1972 nelle quali una sola corrente ottenne tutti i seggi disponibili, determinò l’approvazione di una nuova legge (la 695/1975) la quale determinò un cambiamento radicale attraverso la introduzione di un sistema proporzionale a liste concorrenti che portava alla luce il ruolo esercitato dalla Anm e dalle correnti; la successiva legge 74/1990 si pose nella logica di limitare il peso delle correnti attraverso alcune modifiche alla legge del 1975; il mancato raggiungimento della suddetta finalità condusse alla approvazione della legge 44/2002, votata in un clima di forte contrapposizione fra la magistratura ed il governo Berlusconi, la quale pure non riuscì ad ottenere lo scopo che si era prefisso. Si giunge così alla legge attualmente in vigore, certamente a tutti nota.
3. Molti e diversi tra loro i problemi emersi in questi anni di funzionamento del Csm, tali quindi da non potersi ricordare neppure per sintesi, potendo solo fare qualche esempio, del resto credo abbastanza noto.
Così il tema della natura (assoluta o relativa) della riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario e della sua compatibilità con la c.d. funzione paranormativa ed integrativa del Csm.
Di sicura rilevanza, stante la finalità sopra richiamata del Consiglio, le relazioni tra quest’ultimo ed il ministro della giustizia, che ha visto contrapporsi una lettura riduttiva ed un’altra estensiva delle funzioni che la Costituzione assegna al primo (“assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”) (art. 105). Al ministro della giustizia è invece riconosciuta la competenza in materia di “organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia” (art. 110).
A fronte della sicura spettanza ai due summenzionati soggetti delle competenze specificamente indicate, il problema maggiormente discusso è stato quello di individuare la competenza dell’uno o dell’altro nelle materie rientranti in quella che è stata definita la “zona grigia”, cioè collocabili fuori da quelle esplicitamente indicate, procedendo ad attribuire quella che potremmo chiamare la “competenza residuale”.
Per questo, accanto ad una lettura estensiva e finalistica dell’art. 105 (secondo cui spetta al Csm qualsiasi iniziativa e attività tendente a garantire l’autonomia e indipendenza della magistratura), è stata presentata anche una interpretazione riduttiva, che si è espressa attraverso il riconoscimento al Consiglio delle sole funzioni ad esso espressamente assegnate, da ritenersi quindi tassative.
La Corte costituzionale, in varie occasioni, ha escluso una lettura riduttiva delle competenze dell’uno o dell’altro (specie del ministro della giustizia), sostenendo che dalle disposizioni costituzionali non deriva una netta separazione di compiti e che se l’autonomia del Csm esclude ogni intervento del potere esecutivo nelle deliberazioni concernenti lo status dei magistrati, non esclude che fra i due organi, nel rispetto delle competenze a ciascuno attribuite, possa sussistere un rapporto di collaborazione.
La Corte ha fatto applicazione di questo principio nei due casi, assai conosciuti, del conflitto di attribuzione tra il ministro della giustizia ed il Csm in ordine al “concerto” per la nomina degli uffici direttivi.
Il Giudice costituzionale, nel definire il controverso significato del termine “concerto”, ha infatti escluso le due tesi estreme – che si tratti cioè di parere necessario, ma non vincolante o di un necessario accordo tra le parti – ed ha ritenuto che il “concerto” implichi non tanto un vincolo di risultato, bensì di metodo che i due soggetti costituzionali in questione debbono seguire per giungere legittimamente al conferimento di uffici direttivi. In maniera estremamente specifica e concreta la Corte ha sostenuto che il confronto deve risultare “serio, approfondito, esauriente e costruttivo”, deve articolarsi “nello schema proposta-risposta, replica-controreplica” e le parti “non possono dar luogo ad atteggiamenti dilatori, pretestuosi, ambigui, incongrui o insufficientemente motivati” (sentt. n. 379/1992 e n. 380/2003).
4. Stante il ruolo assolutamente centrale svolto in questi anni dal Csm, non può stupire che qualsiasi riforma relativa alla magistratura, sia stata essa prospettata a livello di revisione costituzionale oppure di legislazione ordinaria, abbia sempre in qualche misura coinvolto il Consiglio superiore.
Anche in questo caso supera certamente i limiti di questa introduzione il ripercorrere, seppure in maniera sommaria, le molte ipotesi di riforma, più o meno recenti.
Gli ultimi interventi normativi sono, almeno in parte, caratterizzati dalla volontà di superare la “degenerazione correntizia” all’interno del Csm, resasi evidente (per quanto certo già prima non sconosciuta) dal tristemente noto “caso Palamara”.
Le vicende ad esso connesse hanno portato all’attenzione generale un comportamento certamente deprecabile dei rapporti tra le correnti, con spartizione dei posti a vantaggio ora dell’una ora dell’altra e con implicazioni anche di personaggi politicamente attivi.
Certamente il caso Palamara ha prodotto un effetto molto grave per la credibilità della magistratura la quale, a differenza degli organi rappresentativi, fonda la propria legittimazione proprio sulla fiducia dei cittadini nella giustizia.
Mentre questi ultimi trovano la legittimazione del loro operato nel rapporto di rappresentanza che viene a determinarsi a seguito del voto dei cittadini e sono quindi politicamente responsabili nei loro confronti, il magistrato non è eletto e non trova quindi la propria legittimazione nella volontà popolare e non deve pertanto attenersi alla stessa, essendo al contrario subordinato solamente alla legge.
La legge, anche se non condivisa, si rispetta in quanto votata dalla maggioranza dei nostri rappresentanti, al contrario una sentenza, anche se non condivisa, la si rispetta a condizione che provenga da un soggetto autonomo, indipendente, imparziale e professionalmente preparato.
Per questo tutto ciò che va ad incidere sulla fiducia e credibilità dell’attività giurisdizionale determina un danno enorme alla giustizia, alla legittimazione dell’azione del giudice ed alla accettazione delle sue decisioni.
Il caso Palamara nella sua indubbia rilevanza deve portare a riflettere – e non sembra che sempre ciò accada – sul tema più generale dei rapporti tra l’attività ed il ruolo del Csm ed il mondo della politica, e sugli effetti derivanti di una possibile, eccessiva, “politicizzazione” del primo.
La presenza dei membri “laici” ha inteso, come noto, evitare la separatezza ed autoreferenzialità che avrebbe potuto caratterizzare un organo composto da soli magistrati, mentre il sistema elettorale dei membri “togati” ha comportato comunque una organizzazione per dare una rappresentatività – che non si pone in contrasto con la funzione di garanzia – al pluralismo presente nella magistratura.
L’aspetto più pericoloso ritengo sia rappresentato dalla vicinanza dei membri “togati” alla politica, se non addirittura alla maggioranza politica di turno. Questo infatti realizzerebbe una sorta di corto circuito per un organo la cui principale finalità è quella di garantire la indipendenza “esterna” della magistratura, vale a dire principalmente dall’indirizzo politico e dal governo in particolare.
Esperienze vicine come quella spagnola, la cui Costituzione – approvata nel 1978 – si è ispirata chiaramente alla nostra nel prevedere il Consejo general del poder judicial, mostrano come la politicizzazione dell’organo di c.d. autogoverno della magistratura determina un effetto disastroso sul ruolo del medesimo, non a caso collocato in Spagna dall’opinione pubblica e pure dagli specialisti ed addetti ai lavori tra le istituzioni di minor prestigio e considerazione fra quelle previste dalla Costituzione.
Sommario: 1. Un ricordo, l’umanesimo del XV secolo. - 2. La monografia di Giovanni Gallone, Riserva di umanità e funzioni amministrative. - 3. La centralità dell’uomo nella nostra Costituzione. - 4. Le ambiguità esistenti tra la posizione della dottrina e dei codici etici di utilizzo dell’intelligenza artificiale da una parte, e i progetti politici in corso dall’altra parte; tre esempi di digitalizzazione massiva in materia di scuola, salute e giustizia. - 5. La riserva di umanità quale limite all’uso dell’intelligenza artificiale e della digitalizzazione massiva. - 6. La necessità di un ritorno all’umanesimo, che oggi può declinarsi quale umanesimo digitale.
“Di tutte le cose misura è l’uomo, di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono”
(PROTAGORA, V secolo a.C.)
1. Un ricordo, l’umanesimo del XV secolo
Vorrei iniziare con un ricordo.
L’insegnante di lettere ci spiegava l’umanesimo.
Diceva che l’umanesimo era stato un vasto movimento culturale nato alla fine del XIV secolo, il quale, caratterizzato da un rinnovato fervore per lo studio dell’antichità, poneva l’uomo al centro dell’universo, artefice della propria vita.
Questa era la grande novità dell’umanesimo: mentre la società medioevale era teocentrica, ovvero metteva Dio al centro dell’Universo, l’umanesimo era antropocentrico, ovvero metteva l’uomo al centro dell’universo, con la sua libertà e la sua individualità.
Non che gli umanisti fossero atei; tutto al contrario essi credevano in Dio; ma credevano ad un Dio che voleva gli uomini liberi.
L’insegnante diceva che andava considerato il precursore dell’umanesimo Francesco Petrarca, il quale, insofferente verso il sapere medioevale, si mise a studiare i classici latini e greci quale strumento di rinascita culturale, così peraltro ponendo le basi della moderna filologia.
Egli per primo, in quel contestò, affermò la dignità dell’uomo per le sue sole e proprie capacità intrinseche.
Poi, tutti gli umanisti arrivarono alle stesse conclusioni, avvalendosi delle riflessioni dei filosofi greci, delle opere del teatro ellenico, della letteratura romana, primi fra tutti Cicerone e Seneca.
Di nuovo l’uomo, per tutti questi studiosi, doveva stare al centro del mondo, al di sopra della natura, una macchina perfetta creata da Dio a sua immagine e somiglianza.
L’insegnante, per far meglio comprendere a noi ragazzi questo messaggio, quasi emozionata, riferiva dei passi degli stessi umanisti.
Tra questi, Coluccio Salutati, considerato il filosofo della libertà e del primato delle scienze pratiche su quelle teoretiche “La vita attiva, in quanto si distingue dalla speculativa, è da preferirsi in ogni modo”; Giannozzo Manetti, che scrisse il saggio De dignitate et excellentia homines: “Non c’è atto umano, dal quale l’uomo non tragga almeno un piacere trascurabile…..In tal modo, tutte le opinioni e le sentenze sulla fragilità appariranno frivole, vane, inconsistenti”; Marsilio Ficino, che con la sua Theologia platonica esaltò l’uomo e lo elogiò per la sua capacità di piegare la natura al proprio volere, rendendosi autosufficiente: “l’uomo di per se stesso, cioè con il suo senno e la sua abilità, governa se stesso, per nulla circoscritto entro i limiti della natura corporea, ed emula le singole opere della natura superiore”; e soprattutto Giovanni Pico della Mirandola, con la sua celeberrima Oratio de hominis dignitate, del 1486, il manifesto dell’umanesimo, e per la quale: “Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu potessi scorgere tutto quello che è nel mondo, perché di tu stesso, libero e sovrano artefice, ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto”.
L’insegnante ci spiegava che Pico della Mirandola, considerato eretico, fu costretto a riparare in Francia per sfuggire all’inquisizione; rientrò a Firenze nel 1487 e si avvicinò a Savonarola, e nel 1494, poco più che trentenne, morì avvelenato in circostanze ancora oggi non chiare.
2. La monografia di Giovanni Gallone, Riserva di umanità e funzioni amministrative
E un piacere per me recensire la monografia di Giovanni Gallone, Riserva di umanità e funzioni amministrative, Cedam, 2023, pagg. 223.
2.1. L’oggetto dello studio è chiarissimo e Giovanni Gallone lo precisa fin dalla introduzione: si tratta del rapporto tra essere umano e intelligenza artificiale nelle funzioni amministrative; si tratta quindi di un tema attualissimo, di primissima importanza.
V’è da chiedersi, scrive subito Giovanni Gallone “con un occhio anche al futuro” quale sia la posizione che l’essere umano deve tenere a fronte della prospettiva, ormai realtà, di far funzionare la pubblica amministrazione con algoritmi e altri strumenti informatici; v’è da chiedersi, in sostanza, se possiamo cedere a delle macchine, anche integralmente, l’adempimento di compiti e la soluzione di questioni che fino ad ieri erano nostro personale e esclusivo appannaggio, oppure se è necessario che qualcosa resti pur sempre nelle nostre mani, e ciò al di là di ogni scoperta tecnico/scientifica, al di là di ogni possibilità robotica.
2.2. Il libro, che tratta questa tematica e risponde a questa domanda, è diviso in tre parti e in sette capitoli.
Nella prima parte l’A. affronta il fondamento del principio di riserva di umanità in ambito generale; lo analizza in base alle sue radici culturali (capitolo primo), con l’esegesi delle disposizioni che si trovano nella nostra Costituzione e nelle fonti sovranazionali (capitolo secondo), e l’analizza infine sotto il profilo più propriamente dottrinale (capitolo terzo).
Segue poi la parte seconda, ove l’A. approfondisce gli aspetti più propriamente legati al diritto amministrativo: esamina le basi del diritto positivo tra diritto interno e diritto eurounitario (primo capitolo), approfondisce le modalità dello svolgimento delle funzioni amministrative automatizzate (capitolo secondo) e analizza infine le possibili conseguenze della violazione del principio di riserva di umanità, ovvero si chiede quali possano essere le conseguenze giuridiche di un atto della pubblica amministrazione interamente dato da una macchina (capitolo terzo).
Infine si arriva alla parte terza ed ultima del volume, nel quale l’A., in un unico capitolo, cerca conferma delle sue tesi svolgendo lo sguardo al processo, ovvero rilevando come soprattutto l’attività giurisdizionale debba rispondere al principio di riserva di umanità, e non sia possibile rendere giustizia con l’uso massivo di macchine e/o algoritmi e/o intelligenza artificiale.
L’idea di fondo dell’A. è la seguente: “la tutela e la promozione della persona umana devono rappresentare misura e fine dello sviluppo tecnologico. Ciò esclude in radice che la macchina possa assumere un rilievo diverso da quello di mero instrumentum al servizio dell’uomo: essa deve assolvere ad una funzione, appunto, servente, di supporto e non sostitutiva dell’umanità” (pag. 35).
2.3. Per l’A. questa posizione è quella della nostra Costituzione.
In verità, l’A. ha ben chiaro che la nostra Costituzione non ha affrontato l’argomento, essendo evidente che alla fine della seconda guerra mondiale problemi di questo genere non vi erano; tuttavia egli avverte parimenti che la nostra carta costituzionale ha “dimostrato, in oltre settanta anni di storia, di essere capace di offrire risposte anche ai quesiti inediti che pone la modernità” (pag. 41), e certamente essa ha fatto della dignità umana il principio fondante della nuova Repubblica.
La dignità umana, poi, è stata assunta a “pietra angolare anche dei cataloghi sovranazionali di diritti umani essendo posta in apertura tanto della Dichiarazione universale dei Diritti Umani del 1948, quanto della Carta di Nizza” (pag. 53). E poi la si trova ancora, a parere dell’A., nell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: “L’art. 6 C.E.D.U., nel suo applicarsi, richiedere in via mediata che l’Amministrazione conservi un volto umano, risultando, quindi, inaccettabile, anche nella prospettiva convenzionale, la sottoposizione della persona a decisioni totalmente automatizzate” (pag. 63).
E ancora: “Queste sollecitazioni e riflessioni sono state, da ultimo, raccolte, a livello unionale, nella Dichiarazione europea sui diritti e i principi digitali per il decennio digitale, comunicazione adottata dalla Commissione Europea il 26 gennaio 2022, che reca la proposta al Parlamento europeo e al Consiglio di sottoscrivere una dichiarazione sui diritti e i principi che guideranno la trasformazione digitale nell’U.E.. Essa ruota attorno all’obiettivo di “mettere le persone al centro della trasformazione digitale”, e di garantire la “libertà di scelta” della persona” (pag. 68).
2.4. Il problema, infatti, per l’A., è che l’intelligenza artificiale ha tre punti critici, che devono essere ben chiari: a) “Il primo è rappresentato dalla tracciabilità dei processi decisionali”, ed esattamente, nei moderni sistemi di intelligenza artificiale: “la sequenza delle istruzioni non è predeterminata ma si ridefinisce in base ai dati esperienziali che li alimentano. Ne consegue che, pur conoscendo per intero la sequenza base, non è possibile stabilire (neppure da parte dello sviluppatore del software) quale sarà il percorso logico seguito dall’elaboratore: una parte di esso rimarrà in ombra e sfuggirà al dominio (e al controllo) del destinatario della decisione adottata sulla base del risultato computazionale finale” (pag. 28/29). b) “Il secondo punto critico è rappresentato dalla gestione dei big data”, poiché essi “pongono inediti problemi in tema di protezione dei dati personali” c) “In ultimo, l’impiego di forme di intelligenza artificiale resta esposto al rischio di bias cognitivi non dissimili da quelli che possono inficiare i processi valutativi umani”, poiché la macchina “può restare vittima di forma di distorsione della valutazione causata dal pregiudizio, giungendo, inconsapevolmente, a conclusioni fallaci”(pag. 31).
2.5. V’è quindi “l’esigenza di tracciare il perimetro di una riserva di umanità” (pag. 27), e deve essere chiara la contrapposizione tra intelligenza artificiale e coscienza: “La coscienza, intesa come consapevolezza della propria e altrui esistenza e delle conseguenze del proprio operato, resta così l’ultimo tratto davvero caratterizzante l’io e l’umano, che lo rende irriducibile ad una macchina. E la coscienza è il presupposto ineliminabile per il rapportarsi secondo morale ed etica in qualsiasi decisione………Ne discende che non è ammissibile che un’entità morale sia sottoposta al giudizio ed alla decisione di un’entità non morale o, comunque, incapace, come la macchina dotata di forme di intelligenza artificiale, di formulare giudizi morali” (pag. 35/6).
Peraltro la posizione sembra corrispondente a quella già indicata dal Consiglio di Stato ”con la nota pronuncia n. 8472 del 13 dicembre 2019”, che fissa i tre principi di “conoscibilità”, di “non discriminazione algoritmica”, e di “non esclusività della decisione algoritmica” (pag. 115/6), in quanto, afferma il Consiglio di Stato: “deve comunque esistere nel processo decisionale un contributo umano capace di controllare, validare ovvero smentire la decisione automatica” (pag. 117). E infine: “Sul piano globale queste riflessioni si sono concretizzate con l’adozione, il 24 novembre 2021, da parte della Conferenza Generale dell’U.N.E.S.C.O. di una Raccomandazione sull’etica dell’Intelligenza Artificiale”, ovvero “I sistemi robotici e le AI devono essere complementari ai professionisti e non sostituirli” e gli stessi “non devono contraffare l’umanità” (pag. 38).
2.6. Ciò premesso, desidero porre poi fin d’ora un’ultima precisazione tra intelligenza artificiale e digitalizzazione, e ciò anche in funzione di quanto mi permetterò di aggiungere.
L’A. volge la sua attenzione soprattutto all’intelligenza artificiale, ma è ovvio che il discorso coinvolge necessariamente anche la digitalizzazione, trattandosi, l’uno e l’altro, di fenomeni strettamente connessi fra loro.
Sotto questo profilo, direi, se non si vuole ritenere che l’intelligenza artificiale altro non è se non un sotto-fenomeno della digitalizzazione, e quindi che tra i due debba darsi una relazione di contenente a contenuto, può affermarsi che mentre l’intelligenza artificiale procede a realizzare un ragionamento che in realtà poteva esser fatto dall’uomo, la digitalizzazione, al contrario, non sostituisce l’uomo in un ragionamento, ma consente allo stesso di porre in essere certe attività senza contatti diretti con gli altri essere umani, ovvero a distanza, con l’ausilio del computer.
E’ evidente, però, non solo che le due cose possano contestualizzarsi, nel senso che ad un’attività digitalizzata può seguire un ragionamento fatto da un robot o viceversa, ma anche che entrambi questi aspetti interferiscono con il principio di riserva di umanità: - nel caso dell’intelligenza artificiale perché il ragionamento non è dell’uomo ma della macchina; - nel caso della digitalizzazione perché l’attività è spersonalizzata e posta in essere senza contatto umano.
Va da sè, allora, che la dimensione giuridica dell’intelligenza artificiale non può prescindere da quella della digitalizzazione, e quindi d’ora in avanti le tratterò congiuntamente.
3. La centralità dell’uomo nella nostra Costituzione
Ora, premesso tutto ciò, vorrei in primo luogo condividere il pensiero dell’A. in ordine alla centralità della dignità umana in base alla nostra Costituzione.
La dignità umana è certamente il valore primo e assoluto di tutti gli altri diritti inalienabili della persona, voluto fortemente dai nostri costituenti dopo il periodo tragico del fascismo e della seconda guerra mondiale.
L’A. ha quindi ragione a ritenere che la riserva di umanità, che si potrebbe anche indicare come centralità dell’uomo o dell’essere umano, costituisce uno spazio costituzionale intoccabile, il primo fra tutti gli altri, assoluto.
E’ vero che i nostri costituenti non si occuparono del rapporto uomo-macchina: “i Costituenti del 1947 avevano di fronte a sé un mondo ben diverso da quello attuale” (pag. 41); tuttavia l’idea di mettere la persona al centro del sistema costituzionale era ben chiaro a tutta l’Assemblea Costituente, e trovò infatti unanimità in tutte le forze politiche di allora.
Scrive l’A. che: “Non v’è, in particolare, dubbio che si possa scorgere, lungo tutto il dettato della Costituzione, un’assoluta centralità della persona umana, portato diretto del compromesso raggiunto, in sede di adozione, tra le tradizioni politiche e costituzionali delle sinistre, del pensiero liberale e democratico e di quello cattolico” (pag. 42).
Ovviamente, la centralità della persona non veniva affermata in contrasto all’intelligenza artificiale o alla digitalizzazione; l’esigenza scaturiva dalla volontà di chiudere con il fascismo, che per venti anni aveva negato ogni diritto naturale della persona.
Tuttavia penso si possa essere d’accordo che non è rilevante valutare le ragioni politiche per le quali, tra il 1946 e il 1948, fu costituzionalizzato il principio della centralità dell’uomo, poiché par evidente che questa anteriorità della persona, fortemente segnata nella nostra carta costituzionale, non muta, ne’ assume diversi connotati, se mutano le ragioni contingenti che, a seconda dei momenti storici, le si pongano a fronte.
In ogni caso l’A. sottolinea come: “la proposta inziale a firma di Giorgio La Pira” fu poi “il prodotto di due emendamenti identici a cura di esponenti di spicco dei due principali partiti, Fanfani per la Democrazia Cristiana e Amendola per il Partito Comunista” (pag. 52).
Orbene, poiché ritengo questo aspetto fondamentale, mi sia consentito qui richiamare, senza alcuna pretesa di completezza, gli interventi che i nostri costituenti tennero nel corso di quei lavori, e per come essi risultano dagli stessi verbali.
- Giorgio La Pira, sottocommissione del 75, 9 settembre 1946: “E’ necessario che alla costituzione sia premessa una dichiarazione dei diritti dell’uomo……..deve essere ammessa soprattutto come affermazione solenne della diversa concessione dello Stato democratico, che riconosce i diritti sacri, inalienabili, naturali del cittadino, in opposizione allo Stato fascista”. Premesso questo La Pira: “illustra l’articolazione proposta, facendo presente che nel primo articolo viene determinato il fine della Costituzione: tutela dei diritti originari ed imprescrittibili della persona e delle comunità naturali…..diritto alla libertà personale, ai giudici naturali, alla libertà di circolazione, alla libera espressione del proprio pensiero, ecc……..”.
La posizione veniva condivisa da tutta la Commissione, e qui ricordo ulteriori interventi:
- Ottavio Mastrojanni: “Ha seguito con compiacimento la dotta relazione del collega La Pira e non ho nulla da obiettare in ordine alla necessità di creare una netta antitesi tra la concezione dello Stato fascista e quella dello Stato democratico. L’affermazione dei diritti dell’individuo, secondo la tradizione del 1789, è stata esattamente posta in evidenza e logicamente deve costituire il preambolo della nuova Costituzione”.
- Giuseppe Dossetti: “Si vuole o non si vuole affermare l’anteriorità della persona…….? Questo concetto fondamentale dell’anteriorità della persona, che dovrebbe essere gradito alle correnti progressiste qui rappresentate, può essere affermato con il consenso di tutti”.
- Palmiro Togliatti: “E’ d’accordo che un regime politico, economico e sociale, è tanto più progredito, quanto più garantisce lo sviluppo della personalità umana”
- Roberto Lucifero: “La costituente deve dar vita ad uno Stato nel quale non si possa ripetere la tragedia del fascismo. Quindi un’affermazione chiara di quelle che sono le libertà dell’uomo, dirette o derivate, è necessaria”.
- Aldo Moro: “Uno Stato non è pienamente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità”.
Non è questa la sede per una disamina più approfondita.
Possiamo però convenire, oltre ogni ragionevole dubbio, che i nostri costituenti considerarono la persona come il centro ineludibile del sistema giuridico, e quindi possiamo di nuovo condividere l’A. quando afferma che “L’uomo è, nella sua irriducibile unicità, il protagonista assoluto della Carta” (pag. 52).
4. Le ambiguità esistenti tra la posizione della dottrina e dei codici etici di utilizzo dell’intelligenza artificiale da una parte, e i progetti politici in corso dall’altra parte; tre esempi di digitalizzazione massiva in materia di scuola, salute e giustizia
Ora, dato ciò, e premesso che la centralità dell’essere umano è confermata non solo dalla nostra Carta Costituzionale bensì anche, in vario modo e a vario titolo, dalla Dichiarazione universale dei Diritti Umani del 1948, dalla Carta di Nizza, dall’art. 6 CEDU, dalla Comunicazione adottata dalla Commissione Europea il 26 gennaio 2022, e infine dalla raccomandazione della Conferenza Generale dell’UNESCO del 24 novembre 2021 sull’etica dell’intelligenza artificiale, io credo si possa tutti convenire che l’idea dell’A. di ritenere la riserva d’umanità un’esigenza irrinunciabile a fronte della intelligenza artificiale sia senz’altro corretta.
Peraltro, direi, la posizione è altresì del tutto corrispondente a quella del Codice etico dell'Unione Europea dell' 8 aprile del 2019, che contiene le linee guida sull’utilizzo e lo sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale.
Il documento asserisce che l'intelligenza artificiale deve rispettare la dignità dell'uomo, le libertà individuali, la democrazia, la giustizia, l’eguaglianza e la non discriminazione, ovvero deve rispettare quei principi che l’A. ha ricompreso nel concetto di riserva di umanità.
Ed ancora, direi, questa posizione mi sembra trovi consenso pressoché unanime nella dottrina, visto che tutti (o quasi tutti) asseriscono infatti che "le applicazioni della giustizia digitale non possono sostituire il giudizio dell’uomo, ma solo essere serventi …………. Non sono quindi devolvibili alla macchina l’attività interpretativa, né tutte quelle valutazioni che presuppongono l'applicazione di concetti elastici o di clausole generali o ancora che impongono il ricorso a un giudizio per valori. ………. Non è, in definitiva, devolvibile ad una macchina la decisione del caso specifico” (così S. Silvestri, nell’intervento conclusivo del convegno Intelligenza artificiale, giustizia e diritti umani organizzato il 20 settembre 2022 da Magistratura democratica, www.questione giustizia.it).
Il problema, però, a me sembra, che a fronte di queste posizioni, vi sia invece una precisa e determinata volontà politica, italiana come europea, che spinge al contrario verso una forte digitalizzazione e ad un uso massivo della intelligenza artificiale; e trovo, pertanto, una divergenza, una contrapposizione, a volte anche molto marcata, tra quello che teoricamente viene affermato, e quello che in concreto si va a fare, o si ha intenzione di fare di qui a breve.
Per meglio comprendere questa sfaldatura vorrei fornire qui qualche esempio, e lo farei con riferimento a tre ambiti che credo, insieme alla pubblica amministrazione ampiamente trattata dall’A., costituiscono le fondamenta della nostra convivenza sociale; questi sono: scuola, sanità e giustizia.
4.1. In ambito scolastico abbiamo oggi il c.d. piano scuola 4.0., ovvero un programma di ampia e massiva digitalizzazione della scuola.
Il Piano Scuola 4.0. è diviso in quattro sezioni: la prima sezione Bachground, definisce il contesto dell’intervento; la seconda e la terza, Framework, hanno ad oggetto la progettazione degli ambienti di apprendimento innovativi (Next Generation Classrooms) e dei laboratori per le professioni digitali del futuro (Next Generation Labs); infine la quarta Roadmap, illustra e sintetizza gli step di attuazione della linea di investimento.
Verranno digitalizzate le aule scolastiche, e a tal fine il progetto Next Generation Classrooms intende adattare centomila aule ai nuovi “ecosistemi di apprendimento”, ovvero avvalersi “delle pedagogie innovative quali apprendimento ibrido, pensiero computazionale, apprendimento esperienziale, insegnamento delle multiliteracies e debate, gamificatione” e ciò lungo tutto il corso dell’anno scolastico “trasformando la classe in un ecosistema di interazione, condivisione, cooperazione, capace di integrare l’utilizzo proattivo delle tecnologie per il miglioramento dell’efficacia didattica e dei risultati di apprendimento”.
Si interverrà altresì sui laboratori già presenti nelle scuole per adeguarle alle professioni digitali del futuro, con spazi espressamente dedicati a: “robotica e automazione; intelligenza artificiale; cloud computing; cybersicurezza; internet delle cose; making e modellazione e stampa 3D/4D; creazione di prodotti e servizi digitali; creazione e fruizione di servizi in realtà virtuale; comunicazione digitale; elaborazione, analisi e studio dei big data; economia digitale e-commerce e blockchain”.
Infine, alla luce del principio della Didattica digitale, i docenti dovranno essere divisi in sei livelli di competenza digitale: “A1 Novizio; A2 Esploratore; B1 Sperimentatore; B2 Esperto; C1 Leader; C2 Pioniere”.
Dunque, questo progetto di digitalizzazione della scuola non può non esser analizzato a fronte del principio di riserva di umanità.
In particolare v’è da chiedersi se esso non si ponga in contrasto con il principio di libertà d’insegnamento, in quanto tutte le scuole e tutti gli insegnanti dovranno condividere questo piano e ritenere sia la cosa migliore per la scuola del futuro: “Ciascuna istituzione scolastica adotta il documento Strategia Scuola 4.0., che declina il programma e i processi che la scuola seguirà”; ed inoltre il programma potrebbe porsi in contrasto con il diritto costituzionale dei nostri ragazzi a ricevere dalla scuola pubblica lo sviluppo della persona umana, attraverso una libera e ragionata formazione culturale, attraverso relazioni umane dirette e personali, e attraverso un programma di studi che favorisca la crescita spirituale degli allievi e non la neghi a profitto di apprendimenti meramente pratici e mnemonici e ricevuti a distanza.
4.2. In ambito sanitario v’è da realizzare il programma c.d. piano salute, e ciò entro il 2026.
Al momento non si conoscono i dettagli di detto piano; tuttavia fin d’ora si sa che anch’esso sfrutterà le nuove possibilità date dall’intelligenza artificiale e dalla digitalizzazione; infatti già fin d’ora si parla di telemedicina, di fascicolo sanitario elettronico, di teleassistenza, e infine di telemonitoraggio.
Ad esempio, esiste già un progetto c.d. wearable, il quale, grazie a particolari sensori del quale è fornito, ha la possibilità di svolgere il ruolo di un vero e proprio dispositivo medico per il controllo dei parametri del paziente e per la somministrazione di cure a distanza, e quindi ha la possibilità di esercitare e mettere in atto nuove forme di terapie digitali.
Con riguardo alla c.d. telemedicina, inoltre, si immagina un ricorso alla televisita, al teleconsulto e alla telerefertazione, e in questo contesto si inserisce il c.d. fascicolo sanitario elettronico, ovvero un strumento di raccolta on line di dati e informazioni sanitarie dei cittadino, realizzato dai medici che li hanno in cura nell’ambito del servizio sanitario nazionale.
Ebbene, se si analizzano i neologismi utilizzati per indicare la medicina del futuro, si vede che ogni parola è anticipata da un tele, tutto è tele, telemedicina, televisita, teleassistenza, telemonitoraggio, ecc…….quindi tutto si immagina a distanza, ovvero in assenza di relazioni umane dirette, o meglio con le sole relazioni umane strettamente necessarie.
Ma la conseguenza abbastanza evidente dell’uso delle macchine digitali nell’attività medica sarà quella della degradazione della funzione del medico, poiché con la telemedicina, probabilmente, più che un medico, sarà sufficiente avere un semplice assistente sanitario.
In questi termini, il rapporto duale medico/paziente, si potrebbe trasformare in un rapporto triale professionista-sanitario/macchina/paziente/; e conseguentemente il rapporto personale e diretto con il proprio medico, la riservatezza in ordine alla propria salute, il diritto alla libertà di cura, intesa sia nella libertà del medico di stabilirla, sia nel diritto del paziente di sceglierla, potrebbero entrare in crisi a fronte della nuova digitalizzazione del mondo sanitario.
4.3. Discorso non diverso può esser fatto per la giustizia.
E’ chiaro che il nuovo processo telematico è sostanzialmente rispettoso del principio di riserva di umanità, in quanto ha ad oggetto, per lo più, la digitalizzazione di attività materiali.
Tuttavia, anche per la giustizia, sussiste un programma di digitalizzazione e di uso dell’intelligenza artificiale che certo, al contrario, può suscitare perplessità.
Si tratta del piano europeo c.d. Action Plan European e-Justice, che ha come obiettivi, tra i tanti, quelli di: a) sviluppare strumenti utilizzando tecnologie di intelligenza artificiale per anonimizzare o pseudonimizzare automaticamente le decisioni giudiziarie ai fini del riutilizzo; b) sviluppare uno strumento di intelligenza artificiale per l’analisi delle decisioni giudiziarie; c) sviluppare un chatbot in grado di aiutare gli utenti ed indirizzarli verso le informazioni che cercano; d) scambiare informazioni, buone pratiche e tecnologie per rendere possibile la videoconferenza transfrontaliera;
Il Ministero della Giustizia precisa che: “Nel rispetto del ruolo di servizio assegnatogli dalla Costituzione, i progetti di ricerca già avviati dal Ministero sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale applicata alla giustizia non mirano a realizzare processi decisionali alternativi (giudice robot) a quelli, costituzionalmente vincolati, basati sull’autonomia ed indipendenza del giudice umano”; però da altra parte si rileva parimenti che “per una giustizia più rapida ed efficiente si sta inoltre lavorando alla costituzione di aule virtuali, con dotazione di adeguati strumenti software e hardware che permettano la celebrazione di udienze virtuali, in modalità online ed ibrida, integrati con la Consolle del Magistrato onde agevolare la successiva trasmissione e pubblicazione all’interno del fascicolo informatico”.
La posizione non sembra pertanto lineare, poiché, di nuovo, se da un lato si riconosce il principio di riserva di umanità studiato dall’A., dall’altra tuttavia si prospettano nuovi strumenti che difficilmente potranno considerarsi rispettosi di detta riserva, e certo si arrivasse ad immaginare delle macchine che pongono in essere i primi controlli di ammissibilità degli atti giudiziari, o ancora delle macchine che aiutino il giudice nella stesura della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, o si pensasse all’integrale abolizione, o forte riduzione, delle udienze in presenza per sostituirle con udienze da svolgersi in aule virtuali, lì è evidente che la centralità dell’uomo nelle attività giudiziarie potrebbe perdersi.
Al riguardo, credo che ancor oggi possa essere illuminante la contrapposizione che posero i nostri costituenti con l’art. 110 Cost., tra servizi relativi alla giustizia, che potevano essere gestiti dal Ministero della Giustizia come attività meramente materiali, e attività invece appartenenti più propriamente all’esercizio della funzione giurisdizionale.
Oggi diremmo, le prime più facilmente digitalizzabili, le seconde da non digitalizzare.
5. La riserva di umanità quale limite all’uso dell’intelligenza artificiale e della digitalizzazione massiva
Ora dunque, ciò posto, non possiamo far finta di non essersi accorti che vi è un progetto politico ben preciso di digitalizzazione massiva di ampi ambiti delle relazioni umane (scuola, sanità, giustizia sono stati solo degli esempi).
Si tratta di un progetto che non può non preoccuparci, anche perché, come detto, in contrasto sia con il pensiero della dottrina, sia, soprattutto, con la raccomandazione UNESCO e con il Codice etico europeo sull’utilizzo e lo sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale.
Di nuovo, si tratta di studiare il tutto alla luce del principio di riserva di umanità.
Per l’A., abbiamo visto, riserva di umanità significa “assoluta centralità della persona umana” (pag. 42).
Egli rivolge soprattutto lo sguardo agli atti della pubblica amministrazione, visto che deve restare: “sempre ferma ed inderogabile la necessità che sia garantito un minimum di umanità nello svolgimento della funzione amministrativa” (v. ancora pag. 146); però, al tempo stesso, l’A. asserisce altresì che: “Si impone una lettura allargata della riserva di umanità tra procedimento e processo amministrativo, piani da sempre tra loro intercomunicanti” (pag. 204), e quindi che il limite di riserva di umanità non è strumento che governa necessariamente il solo compimento degli atti amministrativi, ma è principio generale dell’ordinamento che può imporsi anche in altri ambiti.
E allora, io credo, il principio di riserva di umanità può essere analizzato sotto diversi punti di vista, i quali semplicemente costituiscono aspetti integranti della medesima regola costituzionale e comunitaria della centralità dell’uomo.
In questo ambito mi permetto di indicare almeno quattro sotto-dimensioni nelle quali il principio di riserva di umanità può, a mio sommesso parere, articolarsi.
5.1. La prima è che il principio è incompatibile con l’idea di una possibile calcolabilità del diritto secondo la tesi per primo proposta da Max Weber.
La calcolabilità del diritto è prospettiva, a mio parere, del tutto incostituzionale, poiché il diritto non può procedere secondo gli schemi della matematica.
Direi che avverso la teoria della calcolabilità del diritto dovrebbe ancora oggi suonare forte il monito di Salvatore Satta, il quale diceva: “Se la forza della matematica è quella di non essere un’opinione, la forza del diritto è invece proprio quella di essere un’opinione”.
Credo che questa contrapposizione tra matematica e diritto debba mantenersi, come pure debba mantenersi l’idea che il diritto costituisce in molti momenti un’opinione.
Peraltro, vorrei che fosse chiaro che la contrapposta idea della certezza del diritto è un valore solo se non portato alle estreme conseguenze, poiché, al contrario, ove le conseguenze dovessero essere assolute, la certezza del diritto si renderebbe invece un fatto pregiudizievole.
E’ infatti connaturato al concetto di giustizia un margine di umana opinabilità, senza la quale, altrimenti, la giurisprudenza non potrebbe evolversi, i cittadini, con i loro difensori, non potrebbero liberamente esprimersi, gli aspetti umani e/o di semplice equità non potrebbero più essere portati all’attenzione del giudice, il pensiero dottrinale si perderebbe, e i diritti soggettivi si trasformerebbero in meri interessi di soggetti tutti eguali e obbedienti.
Ove, per ipotesi, tutto fosse davvero matematico, lì non avremmo solo compromesso il principio di riserva di umanità, lì avremmo compromesso la nostra stessa libertà, che ha la necessità, per esistere, non solo dell’ordine, ma anche dell’opinabilità di quell’ordine.
5.2. La seconda precisazione attiene alla necessità che le macchine non creino eccessiva distanza tra uomo e uomo, ovvero non alterino in modo rilevante quella che è l’essenza delle relazioni umane.
E’ evidente che l’uso della macchina di per sé crea una frattura della relazione umana; il principio di riserva di umanità deve però porsi quale limite oltre il quale questa frattura non è più accettabile, deve porsi quale criterio di misurazione di ciò che non può essere oltrepassato.
Ad esempio, una udienza può essere fatta a distanza, ma sarebbe contrario al principio di riserva di umanità fare un intero processo a distanza, in un meccanismo digitale che impedisca alle parti di conoscere la persona del giudice; egualmente, una visita medica può farsi a distanza, ma sarebbe contrario ad un principio di riserva di umanità immaginare che il paziente non abbia conoscenza personale del suo medico, o addirittura ignori chi sia perché sempre integralmente sostituito da una macchina; ed ancora una lezione si può fare a distanza, ma sarebbe contrario ad un principio di riserva di umanità immaginare che l’istruzione nel suo insieme possa darsi a distanza e con l’uso di intelligenza artificiale, e tanto più la cosa si porrebbe in contrasto con la necessità della personalizzazione delle relazioni umane, quanto più si pretenda che questa digitalizzazione coinvolga, come nella scuola, soggetti minori, se non addirittura piccoli bambini, che evidentemente hanno l’inviolabile necessità di incontrarsi fisicamente tra loro per crescere in modo equilibrato e corretto.
Dunque, il principio di riserva di umanità non contrasta con l’uso della macchina e/o con la digitalizzazione del compimento di attività umane; costituisce tuttavia un limite invalicabile quando questa digitalizzazione dovesse assumere misure eccessive, se non addirittura assolute, poiché resta imprescindibile “il rispetto del principio personalistico come valore fondante del nostro ordinamento” (pag. 223).
5.3. La terza precisazione, ancora, attiene alla necessità che le macchine non danneggino l’uomo, ovvero non ne compromettano la struttura sua propria, le capacità, la personalità.
Anche in questo caso credo che degli esempi siano necessari per comprendere il limite dato dal principio di riserva di umanità.
Ad esempio, se io uso l’intelligenza artificiale per risolvere una questione, evidentemente non uso più la mia personale intelligenza per risolvere quella medesima questione; questa prassi, inevitabilmente, comporterà una riduzione dell’uso dell’intelligenza umana, sostituita in sempre più occasioni da quella artificiale; ciò ancora, comporterà lo svilupparsi di una pigrizia dell’uso dell’intelligenza umana; col tempo, il rischio è che il ridotto uso dell’intelligenza umana incida sulle stesse capacità cognitive e intellettuali delle persone, ovvero comporti un rimbambimento generalizzato, in grado di pregiudicare la personalità degli esseri umani.
Il principio di riserva di umanità deve dare l’equilibrio di queste due contrapposte situazioni.
Altro esempio: se io ho una macchina che è in grado di darmi ogni tipo di informazione, diventerà allora superfluo in molti casi studiare, assimilare nozioni, formarsi, acculturarsi.
Ci si chiederà: che necessità vi è di studiare e faticare per sapere questo e quest’altro, quando tutto, in un attimo, mi può essere riferito ed elaborato da una macchina?
E’ evidente che in una società interamente digitalizzata il valore della cultura cadrebbe in secondo piano, ed anzi probabilmente sarebbe visto di mal occhio, in quanto sapere che si contrappone al sapere della macchina.
Ai giovani non si chiederebbe più di studiare, le scuole e le università potrebbero considerarsi in parte superflue, e in ogni caso interamente da rivedere.
E’ ovvio che il venir meno del concetto di cultura potrebbe compromettere la personalità degli esseri umani, la loro possibilità di differenziarsi gli uni dagli altri, di avere delle idee e delle nozioni proprie che non necessariamente coincidano con quelle della macchina; e la distruzione della cultura potrebbe, a mio sommesso parere, porsi quindi in contrasto con il principio di riserva di umanità.
Ultimo esempio: la macchina, date certe informazioni, produce normalmente, e come regola, il medesimo risultato: “partendo dagli stessi dati in input, si ottengono i medesimi risultati in output” (pag. 18); un essere umano, al contrario, non necessariamente, dati certi dati, perviene a eguali risultati, poiché l’essere umano, evidentemente, ha delle caratteristiche individuali e personali che consentono elaborazioni differenti degli stessi elementi sui quali si pone il percorso logico.
Potremmo dire così che la sostituzione sempre più massiva dell’uso dell’intelligenza artificiale a quella umana comporta il progredire dell’idea che, dato un problema, la soluzione di quel problema non è che uno.
In questi termini, si comprende, l’uso massivo dell’intelligenza artificiale tende a compromettere il pluralismo delle idee, e tanto più si farà uso delle macchine, tanto più si affermerà il concetto che su una questione, solo quella, e non altre, può essere la risoluzione; parimenti l’uso della macchina tenderà a rendere oggettivo, e non più soggettivo, l’opinione che su una questione si possa avere.
Questi meccanismi comprometteranno il pluralismo, la diversità di idee, la stessa libera manifestazione del pensiero, e tenderanno al contrario a fortificare il c.d. pensiero unico/oggettivo.
Anche questo percorso potrà, a mio parere, considerarsi in contrasto con il principio di riserva di umanità ove dovesse assumere dimensioni di una certa rilevanza; e la cosa, addirittura, potrebbe avere altresì una ricaduta macrosociale, in quanto la contrazione del pluralismo delle idee potrebbe pregiudicare la stessa democrazia di un paese.
5.4. E qui arriviamo, così, all’ultima sotto-categoria, che attiene al rapporto tra pubblico e privato.
E’ di tutta evidenza che l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione possono essere strumenti a disposizione dei pubblici poteri; ciò non è necessariamente un male, poiché anzi, tutto al contrario, la digitalizzazione è strumento assai efficace per contenere la commissione di delitti e per imporre il rispetto della legge.
Però è evidente che al tempo stesso la digitalizzazione consente un’invadenza della sfera pubblica nella vita privata che fino ad ieri era del tutto impensabile.
V’è da chiedersi, allora, fino a che punto questa invadenza può darsi, e a qual punto invece essa deve arrestarsi poiché contraria al principio di riserva di umanità.
Con i nuovi strumenti digitali si potrebbe arrivare presto a tracciare interamente la vita delle persone; esagerando con un esempio si potrebbe dire che, se fino ad oggi il braccialetto elettronico era una misura di punizione penale, domani l‘idea che ogni movimento umano debba essere tracciato e controllato potrebbe diventare la regola fuori da ogni dimensione di diritto penale.
In ipotesi di questo genere, certo, la possibilità di commettere reati e di compiere altre attività vietate dalla legge si ridurrebbe fortemente, ma al tempo stesso anche tradire il coniuge, mangiare troppa carne, svegliarsi tardi la mattina, attraversare la strada fuori dalle strisce pedonali, lavorare poco o molto, fare o non fare sport, seguire o non seguire certi programmi televisivi, frequentare o non frequentare certe persone, manifestare o non manifestare certe idee ecc…. sarebbero tutte cose la cui conoscenza ai pubblici poteri sarebbe consentita.
Vorrei sottolineare che a questo fine sussiste ampia discussione in dottrina tra intelligenza artificiale e privacy, ma si tratta, a mio sommesso avviso, di un dibattito incompleto poiché il controllo delle libertà individuali è questione di privacy solo nei rapporti tra privati, mentre se il controllo è in mano ai pubblici uffici, lì la questione non è di privacy, ma attiene allo stesso diritto inviolabile della libertà personale.
Dunque, il principio di riserva di umanità deve costituire altresì un limite a questa invadenza, poiché tutti noi abbiamo il diritto di non essere controllati o tracciati nelle attività della nostra vita quotidiana.
Peraltro, ciò corrispondente esattamente al Codice etico dell'Unione Europea dell' 8 aprile del 2019, il quale asserisce che l'intelligenza artificiale deve rispettare la dignità dell'uomo, le libertà individuali, la democrazia.
6. La necessità di un ritorno all’umanesimo, che oggi può declinarsi quale umanesimo digitale
Qualche appunto conclusivo.
6.1. Né l’A. né io mettiamo in dubbio i vantaggi che provengono dall’uso dell’intelligenza artificiale: “Non v’è, quindi, dubbio che l’intelligenza artificiale rappresenti per la pubblica amministrazione una risorsa irrinunciabile per la realizzazione degli obiettivi di buon andamento, economicità, efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa” (pag. 26).
E, direi, nell’ottica più ampia con la quale ho voluto impostare questa mia recensione, l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione rappresentano una risorsa irrinunciabile non solo per il buon andamento della pubblica amministrazione bensì in tutti gli ambiti di relazioni umane.
Tuttavia sarebbe miope limitarsi a lodare, se non addirittura esaltare, questi nuovi strumenti tecnologici senza al contempo sottolinearne i rischi e i pericoli.
Guillaume Pitron, nel suo volume su l’Enfer numérique, Paris, 2023, sintetizzava la sua ricerca sulle moderne digitalizzazioni con una frase secondo la quale “Il nostro avvenire è una gara tra la potenza crescente della nostra tecnologia e la saggezza con la quale la utilizzeremo”; e direi che su questa stessa posizione si trova il nostro Giovanni Gallone, per il quale è necessario rilanciare “un approccio antropocentrico al futuro, che inauguri una nuova stagione di umanesimo digitale, come inedita declinazione dell’umanesimo giuridico” (pag. 34).
Penso anch’io, come loro, in conclusione, che sia infatti necessario un nuovo umanesimo, un nuovo umanesimo giuridico, un umanesimo digitale.
Deve essere chiaro che non possiamo inevitabilmente seguire ogni sorta di nuova scoperta tecnologica e farla necessariamente entrare nella nostra vita senza alcuna riflessione, senza alcun approccio critico, senza alcuna autodeterminazione di ciò che vogliamo e di ciò che non vogliamo.
E’, e deve restare, l’uomo, la misura di tutto; niente si antepone all’uomo, neanche la scienza, neanche la tecnica; è l’uomo, con le parole di un umanista immortale che libero e sovrano artefice, determina la forma prescelta, e stabilisce ciò che vuole e ciò che non vuole.
La digitalizzazione deve rimanere un mezzo e non un fine, uno strumento e non un obiettivo, altrimenti v’è il rischio: “che il genere umano, nel coltivare l’antica ambizione di dominare il mondo e proseguire sulla via dello sviluppo sociale ed economico, possa finire col rendere superfluo sé stesso” (pag. 33).
Non dobbiamo, così, aver paura di difendere la nostra cultura e le nostre tradizioni; non dobbiamo aver paura a metter noi stessi avanti tutto.
E’ una conclusione necessaria poiché, par evidente, l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione potrebbero altrimenti ben costituire in un prossimo futuro i perfetti strumenti di negazione e alterazione della individualità nonché soppressione e smantellamento di ogni libertà costituzionale..
Ricordiamoci di Immanuel Kant, che, nel suo breve saggio Che cos’è l’illuminismo, scriveva: “Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza”.
Serviamoci, dunque, della nostra intelligenza prima di adoperare quella artificiale; non facciamoci rendere minoritari dalle macchine.
6.2. Ciò dato, si tratta infine di sintetizzare in concreto quali possano essere i limiti di utilizzo dell’intelligenza artificiale e della digitalizzazione alla luce del principio di riserva di umanità.
E’ importante offrite queste indicazioni in un momento nel quale ancora, direi, non esistono normative specifiche, ne’ italiane ne’ europee, che regolino questi fenomeni.
Io credo che le osservazioni da porre stiano su due piani, uno più generale e uno più specifico.
6.3. Sul piano generale, a me sembra, di nuovo, che debba essere vietato:
a) adottare, in futuro, strumenti o tecniche volte a trasformare la risoluzione di questioni di diritto in operazioni di calcolo matematico;
b) alterare in modo rilevante le relazioni personali tra le persone;
c) compromettere, oltre una certa misura, le capacità intellettuali, la personalità dell’essere umano e la sua cultura;
d) consentire che la digitalizzazione possa trasformarsi in uno strumento a disposizione dei pubblici poteri per il tracciamento e il controllo della vita personale dei cittadini.
Quest’ultimo punto lo ritengo il più importante; ricordo al riguardo un passo di Kate Crawford, Ne’ intelligente ne’ artificiale, Il Mulino, 2023, 256/8: “L’intelligenza artificiale è inevitabilmente progettata per amplificare e riprodurre le forme di potere che deve ottimizzare” E’ necessaria: “una rinnovata politica di rifiuto al –se si può fare sarà fatto-…… Sfidiamo le strutture che l’intelligenza artificiale attualmente rafforza e creiamo le basi per una società diversa”.
6.4. Per quanto invece concerni più specificatamente l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, credo si possa solo ribadire, semmai trasformando in principio generale quello che l’A. ha affermato con più specifico riferimento alla pubblica amministrazione, che: “Il rispetto della riserva di umanità impone che il provvedimento finale sia adottato dal funzionario persona fisica, secondo le regole generali, anche ove si sia optato per l’automazione della funzione amministrativa e venga in rilievo un’attività tout court vincolata” (pag. 165).
Dunque, niente può esser fatto senza la presenza dell’uomo e l’apporto dell’essere umano, e di questa posizione, ancora, è lo stesso Conseil Constituitionnel, il quale “ha escluso la possibilità di utilizzare, come fondamento unico di una decisione amministrativa, algoritmi in grado di rivedere da soli le regole che applicano, senza il controllo e la convalida del responsabile del trattamento” (pag. 130).
Ma, oltre, ciò, e sempre muovendo all’analisi dell’A., io credo si possa altresì individuare due diversi modi di agire della stessa intelligenza artificiale.
Precisamente, seppur, di base, l’intelligenza artificiale ragiona calcolando, e ciò “vale a fondare la nozione teorica della calcolabilità” (pag. 18), v’è però da aggiungere che: “mentre la sequenza algoritmica è predefinita, i software di intelligenza artificiale non si limitano ad eseguire regole predeterminate ma sono in grado di eseguire taluni compiti con modalità che imitano, sotto taluni profili, percorsi logici propri dell’intelligenza umana……..La macchina apprende dalle operazioni svolte in precedenza in maniera non dissimile da come l’intelligenza umana apprende dalla realtà” (pag. 20). Ed inoltre: “Una particolare forma di approccio al Machine Learning è, poi, costituita dal Deep Learning (il c.d. apprendimento profondo). Esso si basa su diversi livelli di rappresentazione, corrispondenti a gerarchie di caratteristiche di fattori o concetti, dove i concetti di alto livello sono definiti sulla base di quello di basso, sicché il software, operando a cascata, utilizza, al livello successivo, come input, l’uscita (output) del livello precedente” (pag. 21).
Esattamente, così, allora a me sembra che:
a) in un primo ambito possiamo ricomprendere le ipotesi nelle quali l’intelligenza artificiale provvede a dare dei risultati di mero calcolo, obiettivi, privi di valutazioni discrezionali o di scelta per l’intelligenza umana, e quindi di basso livello.
A titolo di esempio in questo ambito possono essere ricomprese le attività di mero calcolo matematico, di analisi di transazioni bancarie o finanziarie, di determinazione dell’ammontare del premio per una polizza assicurativa, ecc….
b) Accanto a questo utilizzo dell’intelligenza artificiale v’è però un’utilizzazione più elevata, o più profonda che dir si voglia, e in questi casi essa dà invece un risultato che è frutto di una scelta discrezionale, e lo fa elaborando concetti di più lato livello, che presentano, a confronto dell’intelligenza umana, margini di scelta.
Ad esempio se la macchina procede alla determinazione dell’esito di una lite o all’esito di una cura medica, o valuta il rischio di una recidiva o della pericolosità sociale di una persona, o infine valuta l’ammissibilità o meno di una azione giudiziaria, ecc………
Nelle prime ipotesi, così, la macchina offre un’operazione che per l’intelligenza umana non potrebbe che essere quella; nell’altro caso la macchina offre invece un risultato che viceversa per l’intelligenza umana ha una certa discrezionalità; e questa distinzione, se si vuole, può considerarsi un semplice rinvio alla contrapposizione che la filosofia della scienza pone tra discorsi dimostrativi (matematica, fisica) e discorsi argomentativi (diritto, politica).
Credo che la legislazione futura debba dare regole sull’uso dell’intelligenza artificiale tenendo conto di questa differenza: nel primi casi, ovviamente, l’uso dell’intelligenza artificiale può essere libero e senz’altro ammesso; nei secondi casi, al contrario, esso deve essere escluso oppure ponderatamente limitato, e in ogni caso assistito imprescindibilmente dall’intervento umano.
Care colleghe e cari colleghi,
siamo oggi qui su sollecitazione di tre assemblee sezionali che hanno chiesto, come da Statuto, l’indizione dell’Assemblea generale, all’indomani della iniziativa disciplinare nei confronti dei magistrati della Corte di appello di Milano che hanno trattato il procedimento di estradizione nei confronti del cittadino russo Artem Uss.
Prima di entrare nel vivo dei lavori assembleari, è per me un dovere, che sento in maniera convinta e commossa, ricordare, in segno di particolare vicinanza, le popolazioni dell’Emilia-Romagna, che hanno vissuto e vivono giorni difficilissimi per gli eccezionali eventi climatici che hanno devastato quelle bellissime terre.
A loro rivolgo il mio pensiero, certo di interpretare i sentimenti dell’intera Assemblea.
Siamo vicini ai colleghi che operano in quei territori, siamo allo stesso modo vicini a tutti i concittadini che ora devono trovare la forza, con il sostegno della nostra intera comunità, per ripartire, per ricostruire, per risollevarsi da una spaventosa tragedia.
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Dai distretti giudiziari, ora assemblee ora giunte sezionali hanno fatto seguire un coro di voci preoccupate, hanno espresso tutte il bisogno di una discussione aperta sull’iniziativa ministeriale, che coinvolga anche estranei all’ordine giudiziario, nella radicata convinzione che quell’atto del Ministro incide su una materia che non è affare esclusivo dei magistrati.
Quella iniziativa tocca alcuni colleghi, a cui esprimo la mia personale solidarietà, ma attiene a interessi che trascendono quelli dei singoli e del Corpo professionale a cui appartengono.
In gioco è un bene collettivo, di cui al più i magistrati possono essere custodi, attenti custodi che avvertono il dovere di lanciare l’allarme ove si avvedano che quel bene viene messo in pericolo.
Il bene a cui alludo, lo si è ben compreso, è l’indipendenza dei magistrati, come singoli e come ordine, dal Potere politico, e ciò senza disconoscere o voler noi mettere in discussione le attribuzioni costituzionali che conferiscono al Ministro della giustizia il potere disciplinare nei confronti dei magistrati stessi.
La nostra indipendenza vive e si innesta in un quadro di responsabilità a cui nessuno intende sottrarsi.
Siamo consapevoli che l’indipendenza è tributaria del principio di responsabilità e che è impensabile che possa affermarsi se non in stretto raccordo con una adeguata disciplina che sappia individuare e punire le carenze e le violazioni dei doveri del ruolo.
Con la stessa ferma e incondizionata adesione al disegno della legge fondamentale, che prende forma proprio dall’intreccio tra indipendenza e responsabilità, ci confermiamo nella consapevolezza di quanto sia fragile, e perciò bisognoso di costante attenzione, l’equilibrio fissato dal Costituente, che fa sì che l’una non mortifichi l’altra.
Un equilibrio fatto di norme, di principi e di regole, ma anche di sensibilità istituzionali e culturali, senza le quali le norme faticano un po' di più ad imporsi.
Siamo oggi riuniti a discutere di una vicenda che ha immediata rifrazione costituzionale: come è stato autorevolmente detto (ROMBOLI), il problema della responsabilità del giudice non è solo un problema di ordinamento giudiziario, quanto piuttosto un problema di ordinamento costituzionale, perché coinvolge il tema delle garanzie di indipendenza e il ruolo che la Costituzione assegna al giudice.
Una ragione in più per aprire, come abbiamo fatto, l’assemblea all’intervento di autorevoli giuristi, ai quali abbiamo chiesto di prendere la parola per aiutarci, esprimendo il loro punto di vista esterno all’ordine giudiziario, ad orientare e indirizzare il nostro dibattito in modo da non cedere ad atteggiamenti di chiusura difensiva di fronte ad un atteggiamento ministeriale che non abbiamo compreso, che non siamo riusciti a ricondurre entro le categorie rassicuranti che sanno nettamente distinguere tra responsabilità per comportamenti negligenti e dovere inderogabile dell’autonomia e dell’indipendenza della decisione giudiziale.
Interverranno l’avvocata Valentina Alberta, presidente della Camera penale di Milano che all’indomani della iniziativa ministeriale ha elaborato un documento di forte critica verso quella decisione;
e il prof. Mario Serio, insigne giurista ed intellettuale tra i più attenti nello studio dei fenomeni che attraversano, agitano e vivificano il mondo della giustizia.
É invece assente per impedimenti sopravvenuti, e ce ne rammarichiamo, il prof. Sandro Staiano, presidente dell’Associazione dei costituzionalisti italiani.
Abbiamo anche invitato il presidente dell’Unione delle Camere penali, ma l’avv.to Caiazza non potrà raggiungerci perché impegnato altrove in altra interessante iniziativa. Ci ha fatto pervenire però una bella lettera che, tra le altre cose, sottolinea l’evidente inopportunità di una iniziativa che potrebbe costituire un pericoloso precedente nel delicato equilibrio tra i Poteri dello Stato.
Ringrazio di cuore i nostri ospiti e allo stesso modo quanti non hanno potuto esserci, e mi affido al Presidente dell’assemblea perché dia ai nostri ospiti la parola quando sceglieranno di farlo.
La loro presenza è segno tangibile, oltre che della generosa disponibilità con cui hanno risposto al nostro invito, della volontà dell’ANM di condividere la riflessione sulla giustizia e sulla giurisdizione con gli altri attori del sistema giudiziario, di interpellare sulle questioni centrali l’intero ceto dei giuristi, di cui ci sentiamo partecipi.
Abbiamo esteso l’invito anche ai rappresentanti delle altre Magistrature e dell’Avvocatura dello Stato, ancora una volta perché la premessa di questo confronto assembleare è di dare corso ad una discussione di ampio respiro sui rapporti tra giurisdizione e Politica, tra organi di garanzia e organi di Governo, ovviamente non perdendo di vista la vicenda che ne è l’occasione e ne costituisce il centro tematico.
I magistrati della Corte dei conti si stanno misurando in questi giorni con scelte della maggioranza governativa – di limitazione delle loro funzioni di controllo e dei loro poteri di accertamento – e hanno avvertito, come noi oggi, il bisogno di riunirsi in un’assemblea straordinaria per manifestare preoccupazione e per rendere ancor più avvertita la Politica dei motivi della loro preoccupazione.
Ogni discorso di impronta costituzionale, come il nostro di oggi, non può essere confinato nell’ambito di un confronto tra tecnici, per l’insopprimibile matrice politica che lo qualifica con immediata evidenza.
Ciò non significa che gli altri settori dell’ordinamento siano politicamente muti, tutt’altro: ma la materia costituzionale è quella in cui si esprimono con maggiore intensità di toni le scelte politiche.
Ed anche per questa ovvia considerazione abbiamo ritenuto di invitare alla nostra assemblea il Ministro della giustizia, on. Nordio.
Vogliamo parlare di politica costituzionale della giustizia e sarebbe stato un errore non coinvolgere il Ministro della giustizia che ne è protagonista.
Ma non è soltanto questa la ragione per la quale lo abbiamo invitato.
Abbiamo inteso dare un segno concreto di quanto sia lontano da noi il desiderio di contrapposizione specie preconcetta, di polemica esibita per segnare una presenza sulla scena pubblica.
I tempi e la diffidenza da cui siamo circondati ne fanno avvertire tutta la necessità.
L’ho già detto tante altre volte e lo ripeto: l’Associazione nazionale magistrati non cerca e anzi rifugge lo scontro, ma chiede, con ferma volontà, attenzione.
Proprio perché siamo convintamente rispettosi dei poteri e degli spazi di azione del Ministro, chiediamo che la giurisdizione sia riconosciuta per quello che è e deve essere per conformità alla Costituzione, un potere che non può essere gravato di pesi ulteriori a quello, già di per sé consistente, di rendere giustizia.
Può anche apparire, in determinati frangenti, un potere scomodo agli occhi di chi ha compiti di amministrazione e di governo e ha responsabilità anche sul piano internazionale della relazione tra Stati, ma questo è l’in sé del gioco democratico e non il frutto di un capriccio dei magistrati che si dilettano nel creare ostacoli al governante di turno.
È sbagliato attendersi dalla giurisdizione quel che non può dare per sua fisionomia, e cioè percorrere le stesse rotte che la Politica ciclicamente individua per il perseguimento degli scopi di governo della cosa pubblica.
La ricerca del bene comune è fuori discussione ed è ciò a cui tutti naturalmente guardiamo: ma le rotte in cui la giurisdizione rema non sono e non possono essere le stesse che seguono gli organi degli altri Poteri dello Stato.
La giurisdizione non rema contro, semplicemente segue un’altra direzione, che è quella non di comporre interessi ma di rendere giustizia.
Ed è proprio seguendo questa diversa direzione che realizza la sua missione nell’interesse dello Stato, della sua comunità, degli individui che la compongono o che con essa vengono in contatto.
Chiediamo – anche su questo credo di essere buon interprete del sentire diffuso in quest’Aula e nell’intera Associazione – che l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione siano affermate a parole e nei fatti, nelle dichiarazioni ufficiali e negli atti che traducono l’esercizio di un qualsivoglia potere.
Con queste premesse mi è facile mettere in chiaro altre due coordinate entro cui, a mio giudizio, deve collocarsi e svilupparsi la nostra discussione.
L’Assemblea non si tiene per imbastire un processo al processo disciplinare che è stato promosso;
e non può essere neanche il luogo in cui si anticipa il processo disciplinare che ha il suo giudice naturale nella sezione disciplinare del Csm.
Non è dunque il merito di quella vicenda che possiamo affrontare, per dire se quel collegio della Corte di appello di Milano abbia fatto bene o male.
Lo dirà il Csm, e nutriamo fiducia nel suo giudizio.
Quello che invece ha destato diffusa preoccupazione tra i magistrati è il non essere riusciti a collocare l’iniziativa del Ministro, l’incolpazione che ha elevato, entro gli ambiti che le sono propri, e ciò al di là della fondatezza\infondatezza.
Non siamo in allarme perché riteniamo l’azione del Ministro infondata; ovviamente, se fosse solo questo, non ci ritroveremmo una domenica di giugno in un’assemblea generale.
Siamo in allarme per qualcosa di più radicale, perché dalla lettura per quanto attenta della iniziativa ministeriale – in uno con il provvedimento cautelare oggetto della incolpazione – non abbiamo rinvenuto, nella prospettazione dei fatti sì come articolata nell’addebito, gli indici che possano ricondurla, quanto meno in astratto, sul terreno della rimproverabilità dei comportamenti dei magistrati.
Quell’azione si situa invece, per il modo stesso in cui si prospetta e non già perché se ne debbano approfondire i contenuti, nel giardino proibito della valutazione delle prove e della interpretazione delle norme.
Giardino a cui l’accesso è inibito al Ministro perché errori di interpretazione ed errori di valutazione dei fatti e delle prove, ammesso in ipotesi che ci siano, sono sì censurabili, ma dentro il processo e nei suoi gradi di giudizio.
Non in sede disciplinare, salvo che attingano la soglia della macroscopicità conseguente a grave negligenza, sciatteria, trascuratezza grossolana o si avventurino lungo interpretazioni strampalate, talmente strampalate da essere abnormi.
Non va allora dimenticato, senza aggiungere altro, che l’ordinanza collegiale incriminata non ha negato le esigenze cautelari, non ha scarcerato l’estradando, tutt’altro!
Ha sostituito la misura della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, misura collocata a stretto ridosso della carceraria.
E tutti i tecnici del diritto sanno che il legislatore vuole che la misura carceraria, se proprio deve essere perché ogni altra si palesa inadeguata, sia applicata indicando le specifiche ragioni per cui si ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura prossima degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico.
Il Ministro della giustizia ha avuto occasione, di recente, di affermare che la Politica non può sindacare il merito dei provvedimenti giudiziari, aggiungendo che allo stesso modo i magistrati non possono sindacare il merito delle leggi.
Non mi soffermo su questa ultima parte, ma la prima, l’insindacabilità politica del merito dei provvedimenti è ciò che ci attendiamo quando si discorre di responsabilità disciplinare.
Il confine tra merito delle scelte giudiziarie e modi, comportamenti con cui ad esse si giunge non può essere alterato, e non solo per non violare la legge ordinaria – nonostante ciò sia già sufficiente per pretendere che non avvenga – quanto per non intaccare l’equilibrio costituzionale nelle relazioni tra politica e giurisdizione.
Poco più di un anno fa ci riunimmo in assemblea per illustrare i nostri buoni argomenti nel richiedere alla Politica una correzione di tiro nell’allora disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario.
Gran parte delle nostre preoccupazioni si concentrarono proprio sulle innovazioni in materia disciplinare, tra le altre sulla previsione di illecito anche per i casi di violazione (grave e reiterata) delle direttive, delle direttive non meglio specificate, senza quindi che venisse e venga chiarito di quali direttive possa trattarsi, in quale settore, su quale materia, da chi impartite.
Il timore di allora, come quello di oggi, è che si creino spazi per penetrare, con la leva disciplinare, negli ambiti delle valutazioni soggette soltanto alla legge e al riparo dalla minaccia della punizione disciplinare.
E allora – qui la preoccupazione – c’è continuità culturale tra la vaghezza di quella norma, inserita con quel suo deficit di tassatività nel nostro sistema, e il modo con cui, almeno in questo caso, è stato interpretato il ruolo del titolare dell’azione disciplinare?
Quella modifica normativa e l’iniziativa del ministro sono i tratti di una stessa parabola la cui traiettoria sembra perdere di vista il nucleo della relazione tra responsabilità e indipendenza del magistrato?
Queste alcune delle domande che ci interpellano con inquietudine e che si inscrivono in una più ampia cornice problematica.
La direzione in cui da anni si incamminano le riforme sulla magistratura ci sta allontanando progressivamente dal disegno della Costituzione.
La prospettiva che prende sempre più consistenza è che la successiva tappa di questa continua esperienza riformatrice segni un ulteriore distacco da quella complessiva, essenziale, architettura.
Non possiamo allora non alzare lo sguardo dalla vicenda disciplinare di cui oggi ci occupiamo; non ci faccia velo che l’ordine del giorno di questa assemblea ha ad oggetto solo e soltanto quella iniziativa.
Siamo tenuti a farlo se vogliamo restare fedeli agli impegni di militanza e di rappresentanza associativa e soprattutto se vogliamo mostraci all’altezza del patrimonio ideale di difesa attenta e generosa dei valori costituzionali di una giurisdizione democratica che nei decenni passati la nostra Associazione, spesso ferita, a volte non solo dall’esterno, ha costruito con l’impegno, la dedizione, l’intelligenza, la generosità di chi ci ha preceduto.
E appena lo facciamo non possiamo non scorgere che il prossimo futuro chiamerà l’Associazione ad una presenza nel dibattito pubblico sulla giustizia ancora più attiva e ancora più difficile.
L’annuncio per fine anno o giù di lì di una poderosa riforma costituzionale, con separazione delle carriere, con l’estromissione del pubblico ministero dal nostro unico ordine, ci chiama ad un rinnovato sforzo per spiegare, per argomentare, per illustrare quel che ci induce ad essere contrari e che merita attenzione.
Non ci sgomenta il monito del Ministro, di cui abbiamo letto qualche giorno fa, e che qualche commentatore ha interpretato come diretto alla ANM anzitutto.
Ha detto il Ministro, a proposito dei prossimi progetti di riforma, che saranno ascoltati i contributi di magistratura e avvocatura, perché tutti degni di essere ascoltati, ma che nessuno potrà condizionare la volontà sovrana, la maggioranza espressa dal popolo con un programma definito.
Non abbiamo dubbi a tal proposito.
Nessuno, meno che mai i magistrati, pensa di condizionare nessuno, meno che mai il Parlamento espressione della sovranità popolare.
Abbiamo però una speranza: che la determinazione con cui i programmi della maggioranza governativa saranno portati avanti non impedirà un ascolto che non si risolva in uno stanco e vuoto rituale, utile solo a poter dire “abbiamo ascoltato tutti”.
Abbiamo infine una convinzione, che sosterrà il nostro impegno nello spiegare le contrarietà: le battaglie ideali per i valori più alti vanno combattute anche se tutto fa pensare che le idee portate avanti soccomberanno, perché più del risultato importa non farsi preda del disincanto che apre la strada al rassegnato realismo.
Le democrazie vivono anche del dovere della testimonianza di idee e di valori e non bisogna dimenticare che quel dovere sociale, direi politico se ciò non esponesse a malevole polemiche e che allora appello come dovere per la comunità, se adempiuto fino in fondo, può rendere in un più ampio ma non indefinito orizzonte temporale quella testimonianza, la nostra testimonianza, inaspettatamente feconda.
A tutti noi un proficuo lavoro.
Sommario: 1. Premessa introduttiva e delimitazione dell’ambito dell’indagine. – 2. I principi (generali e non) del diritto dei contratti pubblici prima dell’ultima codificazione: linee di sviluppo. – 3. Il ruolo dei principi nell’attività contrattuale della pubblica amministrazione ed il loro difficile bilanciamento. – 4. I principi generali nel decreto legislativo n. 36 del 2023: conferme e novità. – 5. Segue: in particolare, i tre principi cardine (risultato, fiducia ed accesso al mercato) e la loro funzione di criteri interpretativi ed applicativi. – 6. Conclusioni (inevitabilmente problematiche): può davvero parlarsi di un «cambio di paradigma»?
1. Premessa introduttiva e delimitazione dell’ambito dell’indagine
Com’è stato notato da acuta dottrina, con riguardo alla formulazione dei principi, sin dai primi anni di questo secolo si è registrata un’inversione di tendenza nel rapporto tra legislatore, da un lato, e giurisprudenza e (seppure con un apporto limitato rispetto al passato) dottrina[1]. Taluno ha ritenuto «un atto di orgoglio» l’enunciazione, da parte del legislatore, dei principi, che in fondo «costituiscono il tentativo di positivizzare quel che [per lungo tempo] si era considerato appannaggio del diritto naturale»[2]; tal’altro, l’ha definito, invece, «un atto di umiltà» compiuto dal «vecchio sovrano esautorato – in parte – dalla stessa dinamica storica» come «eloquente atto di abdicazione da parte del legislatore alla propria – fino a ieri orgogliosa - autosufficienza»[3].
Si può convenire con l’una o con l’altra affermazione, così com’è del tutto legittimo chiedersi se con quest’opera di positivizzazione davvero «si riequilibra in modo irreversibile il rapporto tra diritto scritto e diritto giurisprudenziale»[4].
Ai fini della presente indagine, tuttavia, è più utile notare come l’opera legislativa di catalogazione dei principi sia avvenuta su due piani: uno generale, come nella legge sul procedimento amministrativo o nel codice del processo amministrativo, ed uno settoriale, come nei codici dell’ambiente, dell’amministrazione digitale e, appunto, dei contratti pubblici[5]. Ed osservare, subito dopo, come sia inevitabile che i principi “catalogati” dalla normativa settoriale entrino in contatto con altri principi generali dell’azione amministrativa, costringendo spesso il giudice a stabilire l’esito di tale confronto, che finisce evidentemente per condizionare o integrare l’applicazione degli stessi principi di settore[6]. Per restare alla materia dei contratti pubblici, basti pensare a come il principio di certezza del diritto, considerato una sorta di “superprincipio” e comunque un principio generale del diritto dell’Unione, sia stato talora ritenuto cedevole dai giudici europei[7] e come financo il principio di concorrenza, per lungo tempo vero e proprio totem del diritto europeo degli appalti, abbia subito – come dirò meglio a breve – un deciso ridimensionamento a causa dell’emersione di altri valori.
Si tratta di spunti che cercherò di riprendere compatibilmente con il tempo assegnatomi per la mia relazione, che, ovviamente, non potrà occuparsi che dei principi generali contenuti nei primi dodici articoli – in sostanza, il Titolo I della Parte I del Libro I – del nuovo codice (com’è noto, nonostante la Commissione ambisse alla massima concentrazione, principi affiorano anche in altri punti dell’articolato normativo), soffermandosi soltanto su quelli “cardine”, a cui sono dedicati i primi tre articoli.
2. I principi (generali e non) del diritto dei contratti pubblici prima dell’ultima codificazione: linee di sviluppo
Com’è a tutti noto, originariamente l’interesse pubblico che orientava l’attività contrattuale della pubblica amministrazione era spendere meno possibile e farlo nel migliore dei modi, tant’è che la disciplina di tale attività, considerata una branca della contabilità pubblica, era contenuta nella legge di contabilità del 1923 e nel relativo regolamento di attuazione[8].
Anche se il definitivo superamento della c.d. concezione contabilistica non si è avuto nemmeno con l’attuazione delle direttive comunitarie cc.dd. di prima generazione[9], ma soltanto grazie al primo codice dei contratti pubblici del 2006[10], già a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, con il progressivo aumento dell’influenza comunitaria sui sistemi nazionali, il principio di libera concorrenza, che per lungo tempo era stato strumentale all’interesse finanziario delle stazioni appaltanti, ha iniziato a rappresentare anche un presidio dell’interesse dei singoli operatori economici a competere in condizioni di parità[11].
Da allora in poi, per almeno tre generazioni di direttive, la libera concorrenza, unitamente agli altri principi “mercatisti” ad essa strumentali (come quelli di economicità, efficienza, parità di trattamento, non discriminazione, proporzionalità, flessibilità e semplificazione), è stata tutelata sempre più intensamente dall’Unione europea, assumendo un ruolo pervasivo, come «principio generale che va a caratterizzare tutte le politiche economiche degli stati membri»[12] ed a «plasma[re] tutte le regole dei contratti pubblici»[13]. Ciò fino a quando, a seguito della recessione economica mondiale conseguente alla crisi finanziaria del 2007/2008, tutte le contraddizioni del modello economico dominante a livello globale sono venute a galla, inducendo il legislatore europeo a rivedere il catalogo delle sue priorità[14]. Da qui il deciso ridimensionamento del dogma della tutela della concorrenza e la collocazione della contrattualistica pubblica in un contesto multivaloriale che la vede ormai funzionalizzata al perseguimento di obiettivi una volta ritenuti esterni rispetto alla disciplina di settore, come il sostegno all’occupazione, la riduzione della povertà, l’efficientamento energetico, e via dicendo[15]. Secondo una condivisibile lettura di tale evoluzione normativa, l’art. 18 della direttiva 2014/24/UE, rubricato «Principi per l’aggiudicazione degli appalti» e poi trasposto nell’art. 30 del codice dei contratti pubblici del 2016, ha dato vita ad un contesto nel quale il principio di concorrenza svolge «una funzione meramente evocativa», consistente nel richiamare sinteticamente gli altri principi ispiratori senza aggiungere loro alcuna ulteriore valenza prescrittiva: in sostanza, la concorrenza non è altro che «la ricaduta pratica dell’applicazione dei principi di imparzialità e di parità di trattamento, di pubblicità e di trasparenza al singolo atto di scambio»[16].
Il suddescritto arretramento della tutela della concorrenza e del mercato nella gerarchia dei valori perseguito dalla disciplina – europea e, quindi, nazionale – della contrattualistica pubblica, l’affiancamento alla tradizionale anima “mercatista” di ulteriori, sempre più rilevanti, esigenze[17], tra cui di recente anche la prevenzione della corruzione, ci ha consegnato un codice – quello attualmente vigente, anche se per un solo trimestre ancora – sviluppato fra tre «poli concettuali», cioè tre esigenze diverse: tutela del mercato, salvaguardia della finanza pubblica e soddisfacimento delle istanze di matrice ambientale e sociale[18]. Un codice nel quale, non a caso, il principio di libera concorrenza non è messo al primo posto dall’art. 30 (che sostanzialmente conferma l’elencazione dei principi contenuta nell’art. 2 del codice del 2006, aggiungendo alcune prescrizioni intese a dar attuazione alle direttive di ultima generazione[19]), ma – in coerenza con l’art. 18 della direttiva europea - «relegato tra quei principi che le stazioni appaltanti devono “altresì” rispettare, quasi che il legislatore intendesse evidenziarne la minore pregnanza rispetto ai principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza»[20]. Coglie probabilmente nel segno, allora, la dottrina che, muovendo dalla premessa che elementi di contaminazione tra regole pro-concorrenziali e obiettivi di politiche pubbliche o di bilanciamento si rinvengono ormai da tempo nel diritto europeo (basti pensare alla rilevanza del criterio di aggiudicazione fondato sul miglior rapporto qualità-prezzo, dichiaratamente inteso ad privilegiare la qualità degli appalti pubblici), afferma che «il codice del 2016 sembra in realtà tenere in conto soprattutto la “sana” concorrenza, quella cioè che risulta inverata proprio attraverso i molteplici profili sotto i quali è trattata dal codice stesso la qualità delle prestazioni all’interno di relazioni contrattuali affidabili e sostenibili»[21].
Non mancano, peraltro, letture marcatamente critiche di un fenomeno significativamente definito di «sovraccaricamento assiologico», consistente nel fatto che, con le direttive di ultima generazione, le esigenze sociali, ambientali, di sviluppo sostenibile e di tutela della legalità hanno assunto un ruolo centrale, finendo per rendere la materia dei contratti pubblici «ricca, forse addirittura strabordante, di principi»[22].
I bilanci proveremo a farli alla fine; per il momento, come premessa dell’analisi del nuovo codice, ci limitiamo a constatare che il precedente aveva innegabilmente previsto, come quello del 2006, un significativo – probabilmente, financo eccessivo[23] e, sotto certi aspetti, controproducente[24] – ricorso ai principi (generali e non[25]), affidandone la definizione all’A.N.AC.[26].
3. Il ruolo dei principi nell’attività contrattuale della pubblica amministrazione ed il loro difficile bilanciamento
La relazione al nuovo Codice evidenzia che «[i] principi generali di un settore esprimono […] valori e criteri di valutazione immanenti all'ordine giuridico, che hanno una “memoria del tutto” che le singole e specifiche disposizioni non possono avere, pur essendo ad esso riconducibili. I principi sono, inoltre, caratterizzati da una prevalenza di contenuto deontologico in confronto con le singole norme, anche ricostruite nel loro sistema, con la conseguenza che essi, quali criteri di valutazione che costituiscono il fondamento giuridico della disciplina considerata, hanno anche una funzione genetica (“nomogenetica”) rispetto alle singole norme. Il ricorso ai principi assolve, inoltre, a una funzione di completezza dell’ordinamento giuridico e di garanzia della tutela di interessi che altrimenti non troverebbero adeguata sistemazione nelle singole disposizioni».
Nell’ambito della contrattualistica pubblica, i principi hanno invero svolto molteplici ruoli, sui quali in questa sede non è possibile dilungarsi. Ci si limita, pertanto, a ricordare che, a parte la funzione stabilizzatrice che, rimanendo immutati pur al verificarsi di un eccesso di normazione, essi possono svolgere[27], i principi, grazie alla loro «forza espansiva», hanno, innanzitutto, contribuito a far sì che l’ordinamento sovranazionale, pur in mancanza di disposizioni specificamente rivolte al diritto dei contratti pubblici nei Trattati, avesse una forte incidenza sulla materia, “europeizzandola” intensamente[28].
Ai fini della nostra indagine, preme piuttosto evidenziare come i principi, che dovrebbero ordinare la materia[29] e «costituire il faro nella nebbia se c’è incertezza»[30] e per questo vengono sovente preferiti dai giudici all’interpretazione sistematica, siano sovente in potenziale conflitto tra loro, tanto da indurre la dottrina, anche recente, ad auspicare una loro gerarchizzazione ad opera del legislatore[31]. Da qui l’inevitabile ricorso a tecniche di bilanciamento, con tutti i problemi che ne derivano[32].
Un’esigenza di bilanciamento si può porre, in primis, all’interno degli stessi principi catalogati nel codice dei contratti pubblici. Ciò è costantemente accaduto, ad es., quando la stazione appaltante ha dovuto scegliere tra l’applicazione delle prescrizioni che prescrivono adempimenti formali a carico dei partecipanti alla gara, a garanzia della par condicio tra gli stessi, e del principio di massima partecipazione. In siffatte ipotesi, la prevalenza di un principio rispetto ad un altro con esso incompatibile è stata valutata in ragione della portata e della rilevanza che ciascuno di essi assume nel caso concreto, verificando, inoltre, se taluno dei principi in contrasto risulti rafforzato nell’applicazione da altro principio in materia[33]. Ad esempio, a fronte della violazione di oneri formali imposti a pena di esclusione dalla lex specialis, il giudice amministrativo ha affermato la prevalenza del principio di formalità, in quanto accompagnato dalla garanzia della par condicio, su quello del favor partecipationis[34]. In altri casi, lo stesso giudice amministrativo ha fatto prevalere il principio della massima partecipazione su quello di parità di trattamento, privilegiando la soluzione favorevole all’ammissione alla gara in luogo di quella che tende all’esclusione di un concorrente: ciò, ad esempio, in presenza di una clausola di gara ambigua, incerta o comunque non univoca[35] o nel caso in cui la violazione delle singole clausole che comminano l’esclusione non comporti la lesione di un interesse pubblico effettivo e rilevante[36]. E’ il principio di proporzionalità, in definitiva, a costituire il parametro di riferimento per operare un bilanciamento tra le esigenze di massima partecipazione, da un lato, e quelle di par condicio, dall’altro, consentendo di «garantire l’effettiva concorrenza nel caso di specie, ossia la contendibilità dell’appalto non in astratto, ma in concreto, ossia con riguardo agli operatori economici del settore che, per un verso siano in grado di offrire i beni richiesti dalla stazione appaltante e, per altro verso, siano in possesso dei requisiti necessari alla partecipazione alla procedura»[37].
Analoghi problemi di bilanciamento si pongono sovente con il vigente art. 30 del decreto legislativo n. 50 del 2016: si pensi al criterio privilegiato di aggiudicazione dei contratti sopra-soglia, cioè l’offerta economicamente più vantaggiosa, che vede i principi di economicità e di efficienza potenzialmente sacrificati alla qualità ed all’efficacia (anche sociale) dell’intervento, in una tensione dialettica che viene sciolta nella scelta di aggiudicazione attraverso, appunto, l’intermediazione del rispetto dei principi di trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione, dalla cui applicazione vengono tratte una serie di regole più dettagliate in ordine alle relative modalità organizzative e funzionali, come ad es. quelle sulla commissione di gara e sui criteri di valutazione delle offerte[38].
La tensione fra principi è palpabile, in particolare, laddove l’economicità si confronta con le esigenze sociali ed altri interessi collettivi assunti come obiettivi di politiche pubbliche, condizionando il rispetto del principio di concorrenza. Si pensi al campo degli appalti e delle concessioni dei servizi sociali, dov’è evidente la difficoltà di comporre elementi inerenti ad un’ispirazione solidaristico-fiduciaria con elementi inerenti ad una logica economico-concorrenziale[39].
È inevitabile, poi, che principi settoriali, id est specificamente contemplati dalla normativa in materia di appalti pubblici, entrino in contatto con altri principi generali dell’attività amministrativa, che ne possano condizionare ovvero integrare l’applicazione: si pensi, ad es., al principio del contraddittorio in sede di formulazione del giudizio di anomalia delle offerte[40].
Un problema di bilanciamento (rectius: gradualità), infine, può venire in rilievo persino nell’applicazione dello stesso principio: si pensi, ad es., al principio di trasparenza-concorrenza, la cui generalizzata applicazione, avvalorata dalla sua dimensione costituzionale, può incentivare il fenomeno della collusione tacita tra gli operatori economici, ciò che ha indotto taluno a ritenere opportuno calibrare i livelli di trasparenza sulle caratteristiche del mercato rilevante nel quale si colloca il contratto[41].
4. I principi generali nel decreto legislativo n. 36 del 2023: conferme e novità
Vedremo poi se a torto o a ragione, la Parte I, dedicata ai principi generali, è ritenuta, pressochè unanimemente, la novità più significativa del nuovo Codice, che dichiaratamente ambisce ad enunciare principi guida per l’interpretazione ed applicazione degli istituti. Nella relazione, il legislatore assume che, «nella consapevolezza dei rischi che sono talvolta correlati a un uso inappropriato dei principi generali (e in particolare alla frequente commistione tra principi e regole), ha inteso affidare alla Parte I del Libro I il compito di codificare solo principi con funzione ordinante e nomofilattica», dando «un contenuto concreto e operativo a clausole generali altrimenti eccessivamente elastiche» oppure utilizzando «la norma-principio per risolvere incertezze interpretative […] o per recepire indirizzi giurisprudenziali ormai divenuti “diritto vivente”». Attraverso la codificazione dei principi, il nuovo Codice mira dichiaratamente a «favorire una più ampia libertà di iniziativa e di auto-responsabilità delle stazioni appaltanti, valorizzandone autonomia e discrezionalità (amministrativa e tecnica) in un settore in cui spesso la presenza di una disciplina rigida e dettagliata ha creato incertezze, ritardi, inefficienze». L’idea sarebbe «quella non tanto di richiamare i principi “generalissimi” dell’azione amministrativa (già desumibili dalla Costituzione e dalla legge n. 241/1990), ma di fornire una più puntuale base normativa anche a una serie di principi “precettivi”, dotati di immediata valenza operativa», al fine di «realizzare, fra gli altri, i seguenti obiettivi: a) ribadire che la concorrenza è uno strumento il cui fine è realizzare al meglio l’obiettivo di un appalto aggiudicato ed eseguito in funzione del preminente interesse della committenza (e della collettività) (cfr. art. 1, comma 2); b) accentuare e incoraggiare lo spazio valutativo e i poteri di iniziativa delle stazioni appaltanti, per contrastare, in un quadro di rinnovata fiducia verso l’azione dell’amministrazione, il fenomeno della cd. “burocrazia difensiva”, che può generare ritardi o inefficienze nell’affidamento e nell’esecuzione dei contratti (cfr. art. 2, comma 2)».
Principi generali, dunque, intesi «non solo come affermazioni generali e astratte, ma come indicazioni concrete per gli esecutori, per gli operatori, per gli interpreti»[42], il cui pregio – secondo uno dei primi commentatori – non sarebbe soltanto quello di «dare ordine ed equilibrio ad una disciplina ricca di tensioni significative all’interno dei singoli istituti», ma anche quello di «colloca[re] opportunamente il contratto pubblico nella teoria generale del contratto in generale, mettendo a disposizione dell’applicazione e dell’interpretazione sistematica altri sistemi di principi – quelli del contratto – destinati – pur nella loro applicabilità solo parziale – a tracciare con ancora maggiore certezza le linee di un discorso sistematico»[43].
Già nel commentare lo schema di codice, si è parlato di radicale innovazione dell’impostazione di fondo della contrattualistica pubblica, di «sistema ispirato a principi nuovi» e, con specifico riguardo ai principi generali contenuti nei primi dodici articoli, si è detto che «[s]ono tutti principi importantissimi e palesemente innovativi»[44].
Sia consentito un garbato, parziale dissenso.
Indubbiamente, la funzione dei principi in esame – come descritta nella relazione – appare diversa da quella dei principi dei precedenti codici, che in sostanza «servivano a perimetrare l’ambito di applicazione del testo normativo e le definizioni dei lemmi utilizzati nel testo» stesso[45].
Parimenti innovativa è l’ambizione del nuovo Codice – che in tal senso è andato ben oltre la stessa legge delega, che chiedeva al legislatore semplicemente di recepire i più recenti approdi giurisprudenziali in tema di contratti pubblici – di dettare «una sorta di scala assiologica» idonea a generare principi giuridici ed indirizzi ermeneutici in materia[46].
Coerenti con tale ambizioso proposito sono la collocazione e la consistenza dei principi generali del nuovo Codice, che testimoniano l’importanza che viene ad essi riconnessa dal legislatore[47].
Quanto al primo profilo, la scelta è stata significativamente diversa da quella fatta dal codice vigente – nel quale, come si è detto, i principi sono enunciati nell’art. 30 – e più simile a quella del primo codice, in cui i principi erano pure posti all’inizio (art. 2); quanto al secondo aspetto, il Codice che esaminiamo oggi si distingue da entrambi i precedenti perché dedica ai soli principi generali (altri principi s’incontrano in diverse parti del testo, come ad es. quello di digitalizzazione, al quale verrà dedicata la prossima relazione[48]) ben dodici articoli, peraltro composti da più commi contenenti indicazioni oltremodo dettagliate[49].
Andando ai singoli principi, tuttavia, è probabilmente un’esagerazione dire che siano tutti «palesemente innovativi»: tali – a nostro avviso – possono ritenersi soltanto alcuni di essi, che in certa misura indirizzano l’impostazione di fondo del nuovo Codice (e verranno perciò esaminati separatamente[50]), mentre molti altri – tra i quali quelli che possono definirsi «nuovi» soltanto perché non comparivano tra i principi dei precedenti codici – si limitano in realtà a recepire espressamente nello specifico ambito della contrattualistica pubblica, magari declinandoli in modo più esaustivo,principi generali dell’attività amministrativa o principi individuati dalla giurisprudenza in materia di contratti pubblici già applicabili a tale ambito[51]. Si pensi, ad es., ai principi di buona fede e di tutela dell’affidamento (art. 5), già recepiti dalla legge sul procedimento (art. 1, comma 2-bis)[52] e, non certo da ultimo[53], dalla giurisprudenza amministrativa e da tempo immemorabile applicati all’attività contrattuale della pubblica amministrazione e, segnatamente, alle gare d’appalto[54].
5. Segue: in particolare, i tre principi cardine (risultato, fiducia ed accesso al mercato) e la loro funzione di criteri interpretativi ed applicativi
La relazione al Codice non esita a definire «[f]ondamentale, in questo rinnovato quadro normativo, […] l’innovativa introduzione dei principi del risultato, della fiducia e dell’accesso al mercato (la cui pregnanza è corroborata dalla stessa scelta sistematica di collocarli all’inizio dell’articolato) i quali, oltre a cercare un cambio di passo rispetto al passato, vengono espressamente richiamati come criteri di interpretazione delle altre norme del codice e sono ulteriormente declinati in specifiche disposizioni di dettaglio (ad esempio, in tema di assicurazioni)».
In considerazione di ciò, nel ristretto tempo a disposizione, mi soffermerò esclusivamente su questi tre principi cardine e sulla funzione loro attribuita dall’art. 4.
Il principio del risultato, enunciato all’art. 1, comma 1, è definito nella relazione «l’interesse pubblico primario del codice», la «finalità principale che stazioni appaltanti ed enti concedenti devono sempre assumere nell’esercizio delle loro attività», e sintetizzato nel-«l’affidamento del contratto e la sua esecuzione con la massima tempestività e il miglior rapporto possibile tra qualità e prezzo, sempre nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza e concorrenza».
Esso rappresenta, dunque, «una sorta di grundnorm di tutto il Titolo I»[55], la «stella polare» che deve guidare l’interprete nella lettura del nuovo Codice[56], il quale – secondo un’accreditata opinione – deve ritenersi fondato sulla dichiarata priorità del c.d. «principio realizzativo», che in tal modo finisce per rappresentare «il fine (pubblico) per il quale l’amministrazione contrae», a cui tutti i restanti profili di pubblico interesse (dalla trasparenza alla concorrenza, passando financo per la legalità) sono da ritenere subordinati[57].
Secondo una condivisibile lettura, il riconoscimento del necessario primato logico della funzione di committenza pubblica insito nell’affermazione del principio del risultato determina un ribaltamento della gerarchia degli interessi affermatasi negli ultimi quindici anni a causa del recepimento del diritto europeo, interessato a tutelare la concorrenza e le libertà di circolazione e per nulla al buon andamento delle pubbliche amministrazioni nazionali: sembra che il nostro legislatore si sia finalmente reso conto che «la gara, per quanto doverosa per il diritto europeo e quindi italiano, è un mezzo, non un fine e che lo Stato banditore dovrebbe operare al servizio dello Stato committente»[58]. Già prima dell’avvento del nuovo Codice, del resto, avveduta dottrina aveva sostenuto con dovizia di argomentazioni che tutela della concorrenza e prevenzione della corruzione non possono sacrificare l’interesse principale: quello di eseguire gli appalti[59]. Oggi, in tempi di P.N.R.R., il mercato dei contratti pubblici e tutta l’azione che lo contorna dev’essere a fortiori necessariamente goal-oriented, dovendo il risultato rappresentare lo scopo primario dell’attività contrattuale della pubblica amministrazione, «parte della legittimità stessa dell’atto amministrativo»[60]. Assai opportunamente, pertanto, «si vuole adesso ricordare ai destinatari del codice che questo non è uno strumento per assicurare il trasparente gioco della concorrenza nelle gare d’appalto, ma per fare in modo che queste rendano possibile la realizzazione delle opere e l’acquisizione di beni e servizi nel più breve tempo, con il miglior rapporto qualità e prezzo, rispettando la legge nonché gli stessi principi della libera concorrenza e della trasparenza»: in pratica, il codice «esiste per declinare i precetti costituzionali di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione – non a caso richiamati nel successivo terzo comma dell’articolo – quale fonte di legittimazione del principio del risultato adesso reso esplicito»[61].
Discutendo di questo principio, riecheggiano inevitabilmente i dibattiti sulla c.d. amministrazione «di risultato», anche se la configurazione concreta del risultato in termini di interesse pubblico alla realizzazione dell’opera, all’espletamento del servizio e/o al conseguimento della fornitura, unitamente alla precisazione che lo stesso dev’essere conseguito «con la massima tempestività e il migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo» (art. 1, comma 1), contribuiscono a dare un contorno ben definito al principio stesso[62]. La disposizione codicistica, in altri termini, identifica il risultato in un quid ben preciso, facendogli assumere il significato di «efficienza economica»[63].
Come evidenziato nella relazione, il risultato dev’essere pur sempre conseguito «nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza e concorrenza».
Il ruolo svolto in questo contesto dal principio di legalità ha invero suscitato talune perplessità, nella misura in cui esso avrebbe meritato un richiamo più evidente anzichè essere pariordinato ai principi di trasparenza e concorrenza quale mero parametro da rispettare per raggiungere il risultato[64]: in tal modo, da un lato, si corre il rischio di «porre il tema della legalità, sia pure nell’accezione formale, in contrapposizione a quello del risultato»; dall’altro, si trascura di considerare che trasparenza e concorrenza sono a loro volta strumentali alla legalità e «serventi rispetto alla democraticità, all’imparzialità e all’efficienza dell’amministrazione»[65].
Sul principio di trasparenza c’è poco da dire, essendo evidente che lo stesso è uno strumento fondamentale per garantire procedure conoscibili ed accessibili, ergo scongiurare rischi di favoritismi ed arbitri da parte delle stazioni appaltanti[66]. Quanto alla concorrenza, è parimenti palese che essa, per quanto subordinata e funzionale al risultato, mantiene con esso un forte legame: se il primo – come si è detto – rappresenta l’obiettivo primario, la seconda costituisce pur sempre il metodo per conseguirlo, rilevando quindi il risultato «virtuoso», cioè che accresca la qualità, diminuisca i costi, aumenti la produttività, ma sempre nel rispetto delle regole concorrenziali[67]. La concorrenza, in sostanza, dev’essere rispettata in quanto è funzionale al conseguimento del miglior risultato possibile nell’affidamento e nell’esecuzione dei contratti: essa, infatti, aumenta, da un lato, la possibilità di ottenere la migliore prestazione al miglior prezzo e, dall’altro, il numero degli operatori economici ai quali è consentito partecipare alle gare, quindi aggiudicarsi l’appalto[68].
Nonostante sia ormai pacifico che essa non è più un principio “tiranno”, potendo in alcuni casi risultare recessiva rispetto ad altri principi e valori, la concorrenza finisce comunque per risultare rafforzata dal nuovo Codice, che innovativamente la presenta nella veste di principio giuridico e ne specifica connotati e funzioni[69].
Al comma 3, dopo una menzione «del principio del buon andamento e dei correlati principi di efficienza, efficacia ed economicità», dei quali il principio del risultato costituisce attuazione, si aggiunge che quest’ultimo «è perseguito nell’interesse della comunità e per il raggiungimento degli obiettivi dell’Unione europea», introducendo in tal modo un ulteriore temperamento al principio in esame, che – com’è stato segnalato sin dai primissimi commenti – andrà tenuto presente anche nella lettura del comma 4, che stabilisce che «[i]l principio del risultato costituisce criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale»[70]. Sotto quest’ultimo aspetto, il risultato assume anche il valore di fine e di principio: il riferimento alla comunità ed all’Unione europea, intesi come ordinamenti originari e non particolari, potrebbe voler dire che il risultato è «il valore che viene alla comunità dalla scelta del miglior contraente, quello idoneo a garantire il miglior lavoro o servizio in termini di fruibilità collettiva»[71].
Come già riferito[72], l’introduzione dei principi generali in esame mira, tra l’altro, ad «accentuare e incoraggiare lo spazio valutativo e i poteri di iniziativa delle stazioni appaltanti, per contrastare, in un quadro di rinnovata fiducia verso l’azione dell’amministrazione, il fenomeno della cd. “burocrazia difensiva”, che può generare ritardi o inefficienze nell’affidamento e nell’esecuzione dei contratti»[73].
A tale obiettivo tende, in particolare, il principio di fiducia, da intendersi come «reciproca fiducia nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici» (art. 2, comma 1); correttezza che, d’altronde, costituisce da sempre la “stella polare” dell’azione amministrativa, specie in materia di appalti[74].
La relazione parla al riguardo di «un segno di svolta rispetto alla logica fondata sulla sfiducia (se non sul “sospetto”) per l’azione dei pubblici funzionari, che si è sviluppata negli ultimi anni […] e che si è caratterizzata da un lato per una normazione di estremo dettaglio, che mortificava l’esercizio della discrezionalità, dall’altro per il crescente rischio di avvio automatico di procedure di accertamento di responsabilità amministrative, civili, contabili e penali che potevano alla fine rivelarsi prive di effettivo fondamento», le quali hanno generato «“paura della firma” e “burocrazia difensiva”», a loro volta «fonte di inefficienza e immobilismo e, quindi, un ostacolo al rilancio economico, che richiede, al contrario, una pubblica amministrazione dinamica ed efficiente».
Si tratta di un fenomeno ben noto, ampiamente analizzato in dottrina[75], al quale – stando sempre alla relazione – il nuovo Codice vorrebbe porre rimedio dando, «sin dalle sue disposizioni di principio, il segnale di un cambiamento profondo, che – fermo restando ovviamente il perseguimento convinto di ogni forma di irregolarità – miri a valorizzare lo spirito di iniziativa e la discrezionalità degli amministratori pubblici, introducendo una “rete di protezione” rispetto all’alto rischio che accompagna il loro operato».
Il principio è strettamente correlato a quanto detto dal comma 4 dell’art. 1 in ordine al principio del risultato quale «criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto»[76].
Significativa mi pare l’espressa connotazione in termini di reciprocità della fiducia, che conferma quello che, a nostro avviso, costituisce un corollario del procedimento amministrativo «paritario» agognato da Feliciano Benvenuti[77]: la reciprocità degli obblighi procedimentali gravanti su amministrazione e cittadino. Ed infatti, come in passato abbiamo cercato di dimostrare, ad un’amministrazione trasparente e corretta deve rapportarsi un cittadino – nella specie, un operatore economico – altrettanto trasparente e corretto[78]. A nostro avviso, non è accettabile che il privato possa invocare la parità delle armi solo quando gli fa comodo, pretendendo l’applicazione unilaterale del principio di buona fede/correttezza nei rapporti giuridici esclusivamente a suo favore[79]. Trattasi di un’impostazione condivisa sia dalla dottrina – che ha in più occasioni evidenziato che la costruzione di un rapporto di cittadinanza impone il comune impegno e le reciproche responsabilità del cittadino e delle istituzioni[80], sicchè i doveri di correttezza e di buona fede nello svolgimento del procedimento gravano non solo sulla pubblica amministrazione, ma anche sul cittadino[81] – che dalla giurisprudenza, secondo cui la relazione che si instaura tra amministrazione e privato non può essere fonte in via esclusiva della tutela dell’affidamento di quest’ultimo, ma «deve produrre necessariamente effetti su di un piano di reciprocità»[82].
Definito il principio della reciproca fiducia e chiaritane la funzione, i successivi commi 3 e 4 dell’art. 2, onde evitare che quanto affermato «abbia valore puramente ottativo o inutilmente retorico»[83], quasi a volere «tranquillizzare gli animi», dettano, rispettivamente, ulteriori criteri di valutazione della responsabilità e regole per la promozione della fiducia nell’azione legittima: la prima disposizione, in particolare, mira a «rasserenare coloro che, all’interno delle pubbliche amministrazioni, per necessità spesso si trovano, soprattutto nelle realtà meno strutturate, a dover svolgere compiti oggettivamente superiori alle proprie competenze, dall’altro ricordare comunque la regola del “caso concreto” che sempre deve guidare ogni valutazione del comportamento tenuto dall’agente»[84].
Poche righe sono dedicate dall’art. 3 al principio dell’accesso al mercato, che del resto svolge una funzione complementare rispetto agli altri principi cardine: lo stesso utilizzo del verbo «favoriscono» in luogo di altri maggiormente assertivi è indicativo del ruolo ancillare del principio in esame, che – come quello di concorrenza[85] – rappresenta uno strumento per raggiungere il miglior risultato possibile e non un valore in sé[86]. Invero, ancorchè sia indubbio che l’accesso alle gare del maggior numero di imprese in condizioni di parità non può che favorire la selezione della migliore offerta per la realizzazione dell’opera o per l’espletamento del servizio o della fornitura[87], il legislatore italiano avrebbe, forse, dovuto valorizzare maggiormente il principio in esame, non foss’altro perché lo stesso diritto primario dell’Unione europea prevede che devono essere assicurate alle PMI tutte le potenzialità del mercato unico, tra cui espressamente «l’apertura degli appalti pubblici nazionali» (art. 179, comma 2, T.F.U.E.)[88].
Trattasi, sostanzialmente, della funzionalizzazione dei principi classici di concorrenza, imparzialità, non discriminazione, pubblicità e trasparenza, proporzionalità enumerati dalla stessa disposizione codicistica, tant’è che nella relazione si afferma chiaramente che «il principio dell’accesso al mercato rappresenta a sua volta un risultato che le stazioni appaltanti e gli enti concedenti devono perseguire attraverso la funzionalizzazione dei principi più generali richiamati».
Detto questo dei singoli principi cardine, va dedicato un cenno all’art. 4, che codifica la «forza ordinante dei principi» e, secondo un avveduto commentatore, rappresenta la novità positiva del nuovo Codice[89].
Si tratta di una disposizione sicuramente rilevante nella sistematica codicistica, nella misura in cui evidenzia le aspettative di rinnovamento radicale sottese al nuovo articolato normativo, anche se la scelta di non elevare a criteri interpretativi ed applicativi anche i principi enunciati nei successivi articoli dello stesso Titolo I al fine di evidenziare maggiormente i tre principi fondanti non è stata unanimemente condivisa[90].
Ciò premesso, è solo per esemplificare che si segnalano alcune disposizioni codicistiche che in futuro dovrebbero essere lette attraverso la lente dei principi anzidetti.
Tra i singoli istituti che, d’ora in poi, andranno interpretati ed applicati in base al principio del risultato (ed al correlato principio di economicità) può annoverarsi il soccorso istruttorio, che svolge una vera e propria funzione economica e va considerato, pertanto, «entro una logica proattiva rispetto alla necessità del perseguimento di quello che è qualificabile in termini di risultato economico “migliore”»[91]. Recente giurisprudenza ha, infatti, riconosciuto che, nelle procedure ad evidenza pubblica, tale istituto è strumentale alla realizzazione del principio di massima partecipazione (ora consacrato nell’art. 10 del nuovo Codice), che costituisce una precondizione necessaria per assicurare alla stazione appaltante la più ampia concorrenza tra imprese, cioè appunto «il miglior risultato economico»[92], inteso come «miglior risultato sostanziale» dell’operazione contrattuale[93].
Soccorso istruttorio la cui interpretazione, peraltro, potrà essere orientata anche dal principio della fiducia, a conferma delle persistenti, ineliminabili esigenze di bilanciamento tra i vari principi generali.
Il principio della fiducia, poi, potrà a sua volta fungere da criterio interpretativo ed applicativo anche di altri istituti chiave, come il conflitto di interessi, le cause di esclusione e – perché no? – il contratto di avvalimento. Nell’ottica della fiducia riposta dalla stazione appaltante nell’azione degli operatori economici, infatti, può essere letta – a nostro avviso – la recente affermazione giurisprudenziale secondo cui ««[l]a certificazione di qualità, in quanto finalizzata ad assicurare l'espletamento del servizio o della fornitura da una impresa secondo il livello qualitativo accertato dall’apposito organismo e sulla base di parametri rigorosi delineati a livello internazionale – che danno rilievo all'organizzazione complessiva della relativa attività ed all'intero svolgimento delle diverse fasi di lavoro –, non può essere oggetto di avvalimento senza la messa a disposizione di tutto o di quella parte del complesso aziendale del soggetto al quale è stato riconosciuto il sistema di qualità, occorrente per l’effettuazione del servizio o della fornitura. Occorre infatti che il requisito di ammissione dimostrato dall'impresa partecipante mediante l’avvalimento rassicuri la stazione appaltante circa l'affidabilità della futura offerta allo stesso modo in cui ciò avverrebbe se il requisito fosse posseduto in via diretta dalla partecipante alla gara»[94].
Quanto, infine, al principio dell’accesso al mercato, la sua funzione di criterio interpretativo ed applicativo si concretizzerà attraverso i principi classici che dovranno essere rispettati per favorirlo, tra cui in particolare il principio di proporzionalità, che – come rimarcato dalla relazione - «obbliga le stazioni appaltanti e gli enti concedenti a predisporre la documentazione di gara in modo tale da permettere la maggiore partecipazione possibile tra gli operatori economici, soprattutto di piccola e media dimensione». Esso orienterà quindi, soprattutto, l’interpretazione e l’applicazione della lex specialis di gara.
6. Conclusioni (inevitabilmente problematiche): può davvero parlarsi di un «cambio di paradigma»?
Solo una decina di giorni fa, in un convegno dell’A.I.D.U. dedicato, tra l’altro, al governo del territorio tra Stato e regioni, un collega lamentava la mancanza di una puntuale fissazione, da parte del testo unico dell’edilizia, dei principi fondamentali della materia. Omissione che, in quell’ambito, ha costretto la Corte costituzionale ad intervenire frequentemente per garantire uniformità di disciplina su tutto il territorio nazionale in alcuni profili specifici dell’attività edilizia: in primis, i titoli abilitativi ed il regime a cui assoggettare i singoli interventi edilizi.
Non è, dunque, in discussione l’utilità della fissazione, in un codice di settore (nella specie, dei contratti pubblici), dei principi generali della materia, ma tutt’al più, nel merito, l’individuazione dei singoli principi, la loro effettiva natura di principi generali[95], la gerarchia fra essi e – se si vuole – la loro portata più o meno innovativa.
Il poco tempo a disposizione impedisce di rispondere a tutti gli interrogativi, ma non possiamo far a meno di dubitare dell’utilità stessa di alcuni principi.
Mentre può convenirsi, ad es., sull’utilità dell’art. 7, che se non altro serve a «riequilibrare il peso del principio di auto-organizzazione delle pp.aa. rispetto a quello della tutela della concorrenza»[96], e dell’art. 9, che nel sancire il «diritto alla rinegoziazione secondo buona fede delle condizioni contrattuali» sembra aprire «la breccia di una giustizia contrattuale solidale»[97], vien da chiedersi: l’art. 6 era proprio necessario? In presenza di un quadro normativo ed interpretativo reso finalmente chiaro dal legislatore e dalla giurisprudenza costituzionale[98], c’era davvero bisogno di ribadire che i rapporti giuridici tra pubbliche amministrazioni e soggetti non lucrativi si possono fondare anche sui modelli non concorrenziali, peraltro anche creando confusione in ordine ai casi («attività a spiccata valenza sociale», concetto giuridico oltremodo indeterminato) in cui si dovrebbe applicare il codice del Terzo settore?
Come si è visto, quasi tutti i primi commentatori del nuovo Codice hanno definito fortemente innovativa l’introduzione, all’inizio dello stesso, di numerosi principi generali ed in un recente convegno sul tema si è parlato di «cambio di paradigma».
Per quanto concerne il primo aspetto, ho già detto che – a mio avviso – buona parte dei principi generali (ad es., buona fede e tutela dell’affidamento, tassatività delle cause di esclusione, massima partecipazione) non possono ritenersi effettivamente innovativi e non manca chi dubita che siano tali anche i cc.dd. principi cardine.
Andando a ritroso, a dubitare dell’innovatività del principio dell’accesso al mercato è, innanzitutto, chi vi parla.
L’art. 3, infatti, non fa altro che compendiare sotto tale onnicomprensiva locuzione alcuni dei fondamentali principi della materia dei contratti pubblici (concorrenza, imparzialità, non discriminazione, pubblicità e trasparenza, proporzionalità) che il nostro ordinamento, anche sulla spinta del diritto europeo, ha da tempo recepito. La stessa relazione – laddove afferma che «[i]l principio in questione risponde all’esigenza di garantire la conservazione e l'implementazione di un mercato concorrenziale, idoneo ad assicurare agli operatori economici pari opportunità di partecipazione e, quindi, di accesso alle procedure ad evidenza pubblica destinate all’affidamento di contratti pubblici» - conferma che non s’introduce nulla di veramente nuovo.
Induce a dubitare della portata innovativa del principio della fiducia la condivisibile osservazione che una sua declinazione si trova già nell’art. 1, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990, che menziona la buona fede quale principio cui devono essere improntati i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione[99].
La medesima dottrina, infine, ha osservato che lo stesso principio del risultato – che a detta di tutti è quello che dovrebbe rappresentare la “svolta”, la «nuova principale bussola della disciplina dei contratti pubblici» – è in fondo espressione della c.d. amministrazione «di risultato», che non rappresenta certo una novità per il diritto amministrativo, al pari dei correlati criteri dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità, di cui parlavano già i precedenti codici dei contratti pubblici e, prim’ancora, la legge n. 241 del 1990: tale principio poteva, pertanto, già ritenersi implicitamente sotteso alla disciplina della contrattualistica pubblica[100]. In definitiva, salvo che non si voglia pensare – come maliziosamente adombrato, ma immediatamente escluso, da Giuliano Grüner giovedì scorso[101] – che la norma intenda dire più di quello che dice[102], cioè che in nome del risultato verrà esercitato un sindacato giurisdizionale più flebile nei confronti dell’operato delle stazioni appaltanti che abbiano comunque “portato a casa” il c.d. «risultato», l’art. 1 non fa altro che ribadire che concorrenza e legalità non bastano perchè si possa parlare di «buona amministrazione».
Anche quest’ultima osservazione è di per sé esatta, ma la novità – quella sì innegabile – non sta tanto nel principio di risultato astrattamente considerato, quanto nella priorità allo stesso attribuita rispetto alla garanzia delle procedure: in quella nuova gerarchia tra principi che – come ha ben notato Giulio Napolitano[103] – emerge chiaramente dalla formula «criterio prioritario» contenuta nel comma 4 dell’art. 1, è stata salutata con favore, per non dire con entusiasmo, da Luca Perfetti, non riscontrata, invece, dalla dottrina appena citata[104] e che noi auspichiamo trovi concreta applicazione nel convincimento che essa valga a limitare la discrezionalità degli interpreti delle disposizioni codistiche. Com’è stato recentemente ribadito, infatti, «[f]ino a quando non si chiarirà a quale principio è necessario dare prevalenza, se non ci sarà, in sostanza un ordine di priorità dei principi da perseguire e applicare, nell’impianto normativo ci saranno sempre zone d’ombra, contraddizioni e complicazioni conseguenza non dell’incapacità del legislatore di fare chiarezza, bensì della necessità di far convivere aspetti non sempre coniugabili e dunque “semplificabili” dalla normativa»[105].
Per quanto concerne il cambio di paradigma, infine, è ancora troppo presto per dire se ci sarà davvero.
A prescindere dall’autentica originalità ed innovatività di alcuni principi generali, è, infatti, di tutta evidenza che, per renderci conto della loro effettiva portata applicativa, cioè di quanto riescano ad incidere sull’interpretazione ed applicazione delle disposizioni codicistiche, dovremo attendere un po’[106].
Non dimentichiamo, in primo luogo, che nel 2024 verranno pubblicate le nuove direttive europee in materia di appalti, che dovranno essere recepite anche in Italia e potranno incidere sul nuovo Codice, che siamo stati costretti ad approvare prima per rispettare gli impegni assunti all’atto di presentazione del P.N.R.R..
A prescindere da questo, per un vero cambio di passo occorre ben altro che il semplice «orientamento al risultato». Ne è perfettamente consapevole lo stesso legislatore, che nella relazione ricorda che «la legge, anche se riordinata e semplificata grazie a un codice, è un elemento necessario ma non sufficiente per una riforma di successo, giacché tutte le riforme iniziano “dopo” la loro pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e si realizzano soltanto se le norme sono effettivamente attuate “in concreto”. Emblematico in questa prospettiva è il caso dei contratti pubblici, per la cui reale riforma occorre avverare, attraverso una intensa attività operativa, almeno tre condizioni essenziali “non legislative”, che costituiscono peraltro l’oggetto di impegni in sede di PNRR: i) una adeguata formazione dei funzionari pubblici che saranno chiamati ad applicare il nuovo codice; ii) una selettiva riqualificazione delle stazioni appaltanti; iii) l’effettiva attuazione della digitalizzazione, consentendo, pur nel rispetto di tutte le regole di sicurezza, una piena interoperabilità delle banche dati pubbliche»[107].
Solo in presenza di queste ulteriori condizioni il rafforzato ruolo dei principi in materia di contratti pubblici, attraverso l’equilibrata interpretazione giurisprudenziale[108], potrà favorire la piena attuazione del principio di buon andamento e condurre verso un’amministrazione moderna, la cui compiuta realizzazione non può essere affidata – com’è ormai da tempo evidente – ad un ordinamento fatto di sole regole, frammentate e dettagliate[109].
*(Relazione al Seminario di studi su: «Il diritto dei contratti pubblici alla luce del nuovo Codice» - Cosenza, 16 maggio 2023).
[1] A. Massera, I principi generali, in Dir. amm., 2017, 438.
[2] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, 155.
[3] P. Grossi, Sull’odierna ‘incertezza’ del diritto, in Associazione Italiana dei Professori di Diritto Amministrativo, Annuario 2014, Napoli, 2015, 21.
[4] M.P. Chiti, I principi, in M.A. Sandulli – R. De Nictolis (diretto da), Trattato sui contratti pubblici, Milano, 2019, I, 290.
[5] A. Massera, ibidem.
[6] A. Massera, op. cit., 440.
[7] Corte giust. UE, Sez. X, 14 novembre 2013, in causa C-221/12, Belgacom NV, in https://eur-lex.europa.eu.
[8] A. Barettoni Arleri, Linee evolutive della contabilità dello Stato e degli enti pubblici, Milano, 1980, 177: «i contratti, per la connessa erogazione di spesa e acquisizione di entrate che necessariamente comportano – donde la loro classificazione nell’ordinamento contabile in contratti passivi ed attivi – rilevano per la consistenza del patrimonio dei soggetti pubblici e, quindi, trovano la loro corretta disciplina in quel settore dell’ordinamento positivo che delinea il regime giuridico della gestione finanziaria e patrimoniale pubblica».
[9] Per intendersi, quelle recepite in Italia dalla l. n. 584/1977.
[10] F. Mastragostino – E. Trenti, La disciplina dei contratti pubblici fra diritto interno e normativa comunitaria, in F. Mastragostino (a cura di), Diritto dei contratti pubblici, 3ª ed., Torino, 2021, 3.
[11] M. Giustiniani, Art. 30, in Codice dei contratti pubblici, diretto da F. Caringella, Milano, 2022, 260.
[12] G. Morbidelli, Il project financing: considerazioni introduttive, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2005, 1795.
[13] A. Bartolini, I contratti pubblici nel pensiero di Giuseppe Morbidelli, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2019, 164. Il principio di concorrenza è stato, peraltro, interpretato in chiave accrescitiva degli obblighi di carattere formale della pubblica amministrazione, nell’ottica di prevenzione di possibili distorsioni ed abusi e di controllo della discrezionalità amministrativa (c.d. spill over effect): D.U. Galetta, Il diritto ad una buona amministrazione europea come fonte di essenziali garanzie procedimentali nei confronti della pubblica amministrazione, ivi, 2004, 851 ss.
[14] M. Giustiniani, ibidem.
[15] M. Giustiniani, op. cit., 261.
[16] M. Clarich, Contratti pubblici e concorrenza (Relazione al 61° Convegno di Studi amministrativi su: «La nuova disciplina dei contratti pubblici fra esigenze di semplificazione, rilancio dell’economia e contrasto alla corruzione» - Varenna, 17-19 settembre 2015), in www.astrid-online.it, n. 19/2015, 12-13.
[17] M. Cafagno – A. Farì, I principi e il complesso ruolo dell’amministrazione nella disciplina dei contratti per il perseguimento degli interessi pubblici (artt. 29, 30, 34, 50, 51), in M. Clarich (a cura di), Commentario al codice dei contratti pubblici, 2ª ed., Torino, 2019, 202.
[18] M. Giustiniani, op. cit., 262.
[19] Anche se, incomprensibilmente, non menziona il principio di parità di trattamento: S. Dettori, Art. 30, in Codice dei contratti pubblici commentato, a cura di L.R. Perfetti, 2ª ed., Milano, 2017, 293, il quale, tuttavia, osserva che tale principio «rimane comunque immanente nella materia degli appalti pubblici, sia in quanto immediatamente discendente dal principio di concorrenza, di cui è corollario, sia in quanto comunque esso si ritrova in una serie di ulteriori disposizioni del Codice relative sia all’affidamento sia all’esecuzione dell’appalto».
[20] M. Giustiniani, ibidem; in termini analoghi, M.P. Chiti, op. cit., 312, ad avviso del quale una delle maggiori svolte delle ultime direttive consiste proprio nel fatto che «la concorrenza diviene uno degli interessi che le amministrazioni aggiudicatrici devono difendere, non l’unico e neanche quello in posizione di primazia rispetto agli altri».
[21] A. Massera, Principi procedimentali, in M.A. Sandulli – R. De Nictolis (diretto da), op. cit., 341.
[22] D. Capotorto, Lo Stato “consumatore” e la ricerca dei suoi principi, in Dir. amm., 2021, 161-167.
[23] S. Dettori, Il ruolo dei principi nella disciplina dei contratti pubblici, in Nuove autonomie, 2012, 89 ss.
[24] Nella misura in cui, «[a] fronte di previsioni legislative che tendono alla litania ritualistica, con elencazione – talora disordinata – di molti principi, si è tentati di non prenderle molto sul serio. In tal modo, si rischia di perdere l’impatto a tutto spettro dei principi, dato che non sempre la normativa di settore li riprende direttamente»: M.P. Chiti, op. cit., 289.
[25] Come ben notato da M.P. Chiti, op. cit., 287, «[i]l termine “principi” è polisemico anche nel linguaggio giuridico e variamente utilizzato nella normativa e nella giurisprudenza. Per di più, è usato senza particolare precisione e talora con l’aggettivo qualificativo “generale/i”». Ad es., l’art. 1 l. n. 241/1990 è rubricato «Principi generali dell’attività amministrativa», mentre l’art. 2 d.lgs. n. 163/2006 è rubricato «Principi».
[26] Linee Guida n. 4, approvate con delib. 26 ottobre 2016, n. 1097, in www.anticorruzione.it.
[27] G. De Vinci, I principi, in Appalti e contratti pubblici. Commentario sistematico, a cura di F. Saitta, Milano, 2016 (e-book), cap. III, § 2.
[28] A. Massera, Principi, cit., 331, che nel prosieguo osserva che soltanto i principi di non discriminazione (sulla base della nazionalità) e di proporzionalità trovano posto nei Trattati e si connotano, quindi, come veri e propri principi fondamentali del diritto europeo, mentre altri principi – come, in particolare, quelli di parità di trattamento e di trasparenza – hanno origine nel diritto derivato e si connotano, quindi, come principi generali del diritto amministrativo (ivi, 345).
[29] La «forza ordinante del principio sulla materia codificata», la quale viene da quella forza non soltanto determinata, ma spiegata ed orientata nei suoi sviluppi successivi, quanto a validità ed interpretazione, è stata recentemente posta in risalto da A. Cioffi, Prima lettura del nuovo Codice dei contratti e dei suoi tre principi fondamentali, in www.apertacontrada.it, 16 gennaio 2023, § 1.
[30] L. Carbone, La scommessa del “Codice dei contratti pubblici” e il suo futuro (Relazione al Convegno su: «Il nuovo codice degli appalti – La scommessa di un cambio di paradigma: dal codice guardiano al codice volano?» - Roma, 27 gennaio 2023), in www.giustizia-amministrativa.it, 12.
[31] L.R. Perfetti, Sul nuovo Codice dei contratti pubblici. In principio, in Urb. e app., 2023, 5 ss.
[32] Il tema è immenso e non può essere qui nemmeno accennato; per più puntuali indicazioni, sia consentito rinviare a F. Saitta, Interprete senza spartito? Saggio critico sulla discrezionalità del giudice amministrativo, Napoli, 2023, 97 ss.
[33] G. De Vinci, ibidem, che segnala a tal proposito un’autorevole pronuncia che, dovendo decidere in merito al rinnovo degli atti di gara nelle procedure da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, a fronte della giurisprudenza prevalente che, per tali procedure, riteneva necessaria la rinnovazione della gara a partire dalla ripresentazione delle offerte, a garanzia del rispetto dei principi di segretezza e di imparzialità nella valutazione delle offerte medesime, ha ritenuto, invece, che, anche per tale categoria di procedure, il rinnovo degli atti debba limitarsi alla sola valutazione dell’offerta illegittimamente pretermessa, da effettuarsi ad opera della medesima commissione preposta alla gara (Cons. Stato, Ad. plen., 26 luglio 2012, n. 31, in www.giustizia-amministrativa.it). Secondo tale decisione, «a tale conclusione […] si perviene non in base ad una valutazione di prevalenza dell’uno o l’altro dei principi ricordati, valutazione che non si sottrae comunque ad una certa opinabilità, bensì alla stregua dei principi di fondo, espressione del “giusto processo”, nella giustizia amministrativa»; principi che vengono individuati nella rilevanza della situazione soggettiva azionata, che racchiude la pretesa di concorrere a quella specifica gara, e nell’effettività della tutela che dev’essere garantita. Appare, dunque, evidente l’intento del giudice amministrativo di risolvere il conflitto tra due principi (quello della segretezza, dunque dell’imparzialità, e quello dell’economicità e dell’efficienza, declinato nel senso della conservazione degli atti giuridici) attraverso il ricorso ad un terzo principio (quello del giusto processo), declinato in modo da risultare prevalente rispetto a quelli in conflitto.
[34] Anche prima della positivizzazione (ad opera del d.l. n. 70/2011, convertito con l. n. 106/2011, c.d. «Decreto Sviluppo») del principio di tassatività delle clausole di esclusione nell’ambito delle pubbliche gare, la giurisprudenza ha fissato il principio secondo cui le clausole della lex specialis, ancorché contenenti comminatorie di esclusione, non possono essere applicate meccanicamente, ma secondo il principio di ragionevolezza, e devono essere valutate alla stregua dell’interesse che la norma violata è destinata a presidiare, per cui, ove non sia ravvisabile la lesione di un interesse pubblico effettivo e rilevante, dev’essere accordata la preferenza al favor partecipationis (in tal senso, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 19 ottobre 2012, n. 5389, in www.lexitalia.it, n. 10/2012).
[35] T.A.R. Toscana, Sez. I, 3 febbraio 2010, n. 184, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio-Roma, Sez. I, 1 febbraio 2007, n. 763, ibidem; Cons. Stato, Sez. V, 18 gennaio 2006, n. 127, ibidem.
[36] T.A.R. Campania-Napoli, Sez. V, 15 maggio 2008, n. 4511, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio-Roma, Sez. I, 27 luglio 2006, n. 6583, ibidem; Cons. Stato, Sez. V, 10 novembre 2003, n. 7134, ibidem.
[37] S. Dettori, Art. 30, cit., 298.
[38] A. Massera, op. ult. cit., 382-385.
[39] A. Massera, op. ult. cit., 343; amplius, D. Caldirola, Stato, mercato e Terzo settore nel decreto legislativo n. 117/2017: per una nuova governance della solidarietà, in www.federalismi.it, n. 3/2018; Id., Servizi sociali, riforma del Terzo settore e nuova disciplina degli appalti, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2016, 733 ss.
[40] A. Massera, op. ult. cit., 347 ss., con interessanti indicazioni di pertinenti pronunce del giudice europeo.
[41] R. Caranta, Transparence et concurrence, in Comparative Law on Public Contracts, a cura di R. Noguellou e U. Stelkens, Bruxelles, 2010, 145 ss.
[42] L. Carbone, ibidem.
[43] L.R. Perfetti, op. cit., 9.
[44] Così S. Perongini, Il principio del risultato e il principio di concorrenza nello schema definitivo di codice dei contratti pubblici, in www.lamministrativista.it, 2 gennaio 2013, § 1.
[45] A. Saitta, I criteri interpretativi: risultato, fiducia e accesso al mercato (scritto in corso di pubblicazione in un commentario al nuovo Codice a cura de Il Sole 24 Ore, gentilmente concessomi in visione dall’A.).
[46] A. Saitta, op. cit.. Si allude qui, in particolare, ai primi tre articoli, letti alla luce del quarto, su cui v. infra, § 5.
[47] A.M. Chiariello, Una nuova cornice di principi per i contratti pubblici, in Dir. econ., 2023, 144.
[48] Come riferito nella relazione, «[p]iù nel dettaglio, la codificazione dei principi si articola in due titoli distinti: il Titolo I, dedicato ai principi generali veri e propri (risultato, fiducia, accesso al mercato, buona fede e tutela dell’affidamento, solidarietà e sussidiarietà orizzontale, auto-organizzazione amministrativa, autonomia negoziale, conservazione dell’equilibrio contrattuale, tassatività delle cause di esclusione, applicazione dei contratti collettivi di lavoro), e il Titolo II, che invece codifica principi comuni a tutti i Libri del codice in materia di campo di applicazione, di responsabile unico dell’intervento e di fasi della procedura di affidamento».
[49] La differenza d’impostazione è evidenziata da G. Carlotti, I principi nel Codice dei contratti pubblici: la digitalizzazione(Relazione al Convegno su: «I principi nel Codice dei contratti pubblici» - Firenze, 14 aprile 2023), in www.giustizia-amministrativa.it, 1-2, il quale peraltro, pur ritenendo «adeguate» la collocazione e la rilevanza date ai principi nel disegno codicistico, reputa maggiormente significativa la circostanza «che ai principi stessi sia stata assegnata la finalità di esprimere, con potenti valenze nomogenetiche, i fondamentali valori giuridici della specifica disciplina di settore».
[50] Infra, § 5.
[51] A.M. Chiariello, ibidem.
[52] Cfr. G. Tulumello, La tutela dell’affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione fra ideologia e dogmatica, in www.giustamm.it, n. 5/2022.
[53] Non bisogna attendere, infatti, Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 21, in www.giustiziainsieme.it, 17 marzo 2022, con nota di M. Baldari, Ultimi approdi in materia di responsabilità precontrattuale della p.a. (Nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 21); l’affermazione che i canoni della buona fede e dell’affidamento non risultano confinati ai soli rapporti tra privati, ma assurgono a vero e proprio principio dell’ordinamento, è ben più risalente (già T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 26 luglio 1999, n. 903, in Trib. amm. reg., 1999, I, 3943).
[54] A. Crosetti, Principio di buona fede e contrattazione pubblica, in Studi in onore di C.E. Gallo, a cura di M. Andreis, G. Crepaldi, S. Foà, R. Morzenti Pellegrini e M. Ricciardo Calderaro, Torino, 2023, I, 246 ss.
[55] A. Saitta, op. cit.
[56] S. Perongini, ibidem.
[57] Così L.R. Perfetti, op. cit., passim, ma spec. 11.
[58] G. Napolitano, Committenza pubblica e principio del risultato (Relazione al Convegno su: «Il nuovo codice degli appalti – La scommessa di un cambio di paradigma: dal codice guardiano al codice volano?» - Roma, 27 gennaio 2023), in www.astrid-online.it, § 2, il quale osserva come ciò sia, invece, da tempo ben presente al legislatore francese, che nel 2019 ha recepito la normativa europea in un articolato normativo significativamente intitolato Code de la commande publique (su cui N. Gabayet, Les principles du droit des contrats publics en France, in www.ius-publicum.com, 2019).
[59] F. Cintioli, Per qualche gara in più. Il labirinto degli appalti pubblici e la ripresa economica, Soveria Mannelli, 2020.
[60] L. Carbone, op. cit., 13.
[61] A. Saitta, op. cit.. Principio di buon andamento di cui del resto – come evidenziato nella relazione – «il “principio del risultato” rappresenta una derivazione “evoluta”».
[62] S. Perongini, op. cit., §§ 4 e 5, al quale si rinvia per l’indicazione della copiosissima letteratura sull’amministrazione «di risultato».
[63] A. Cioffi, op. cit., § 2.1.
[64] Non solo. A ben guardare, mentre in relazione alla trasparenza ed alla concorrenza il comma 2 dell’art. 1 chiarisce per quali moitivi essi siano necessari ai fini della piena soddisfazione del principio del risultato, analoga esplicazione non viene fatta per il principio di legalità: secondo A.M. Chiariello, op. cit., 148, «perché troppo ovvio».
[65] A. Saitta, op. cit.. Di diverso avviso è S. Perongini, op. cit., § 7, ad avviso del quale, avendo l’art. 1 del nuovo Codice «inglobato nel perimetro della legalità il risultato amministrativo», l’antinomia tra i due principi viene risolta dalla legge.
[66] A.M. Chiariello, op. cit., 149.
[67] F. Vetrò – G. Lombardo – M. Petrachi, L’avvio del nuovo Codice tra concorrenza, legalità e istanze di semplificazione: l’equilibrio instabile dei contratti pubblici, in Dir. econ., 2023, 55.
[68] A.M. Chiariello, op. cit., 148.
[69] S. Perongini, op. cit., § 8.
[70] M.A. Sandulli, Prime considerazioni sullo Schema del nuovo Codice dei contratti pubblici, in www.giustiziainsieme.it, 21 dicembre 2022, § 2.
[71] A. Cioffi, op. cit., § 2.1.
[72] Retro, § 4.
[73] Così, testualmente, nella relazione.
[74] Da ultimo, T.A.R. Liguria, Sez. I, 3 marzo 2023, n. 280, in www.giustamm.it, n. 3/2023.
[75] Ex plurimis, M. Dell’Atti, La burocrazia difensiva: fenomeno astratto o minaccia concreta? Cosa ne pensano gli operatori economici e le stazioni appaltanti, in A. La Spina – B.G. Mattarella (a cura di), Il codice dei contratti pubblici secondo gli operatori. Un’indagine sul campo, Roma, 2022, 73 ss.; A. Battaglia – S. Battini – A. Blasini – V. Bontempi – M.P. Chiti – F. Decarolis – S. Mento – A. Pincini – A. Pirri Valentini – G. Sabato, «Burocrazia difensiva»: cause, indicatori e rimedi, in Riv. trim. dir. pubbl., 2021, 1295 ss.; M. Cafagno, Risorse decisionali e amministrazione difensiva. Il caso delle procedure contrattuali, in Dir. amm., 2020, 35 ss.; G. Bottino, La burocrazia «difensiva» e la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti pubblici, in Analisi giur. econ., n. 1/2020, 117 ss.; S. Battini – F. Decarolis, Indagine sull’amministrazione difensiva, in Riv. it. public management, n. 2/2020, 342 ss.
[76] A. Saitta, op. cit.
[77] Cfr. si vis, F. Saitta, Il procedimento amministrativo «paritario» nel pensiero di Feliciano Benvenuti, in Amministrare, 2011, 466-468.
[78] F. Saitta, Del dovere del cittadino di informare la pubblica amministrazione e delle sue possibili implicazioni, in F. Manganaro – A. Romano Tassone (a cura di), I nuovi diritti di cittadinanza: il diritto d’informazione (Atti del Convegno di Copanello, 25-26 giugno 2004), Torino, 2005, 111 ss..
[79] Sul carattere bilaterale del principio di leale collaborazione tra cittadino e pubblica amministrazione, cfr. G. Taccogna, Il principio di leale collaborazione nella recente giurisprudenza amministrativa, in Foro amm. – CdS, 2008, 1313 ss.
[80] V. Antonelli, Contatto e rapporto nell’agire amministrativo, Padova, 2007, 235.
[81] S. Confortin, Principio di completezza dell’istruttoria ed onere di cooperazione privata nel procedimento amministrativo, in Foro amm. – TAR, 2007, 459 ss.; S. Tarullo, Il principio di collaborazione procedimentale. Solidarietà e correttezza nella dinamica del potere amministrativo, Torino, 2008, spec. 510-523; M. Monteduro, Sul processo come schema di interpretazione del procedimento: l’obbligo di provvedere su domande «inammissibili» o «manifestamente infondate» (Intervento al Convegno su: «Procedura, procedimento e processo» - Urbino, 15 giugno 2007), in Dir. amm., 2010, 176-179.
[82] T.A.R. Puglia-Bari, Sez. II, 1 luglio 2010, n. 2817, in Foro amm. – TAR, 2010, 2610.
[83] A. Saitta, op. cit.
[84] P. Conio, Codice dei contratti pubblici: i nuovi principi del procurement, in www.forumpa.it, 14 aprile 2023, la quale, peraltro, non può far a meno di notare che le parole utilizzate sembrano presentare imperfezioni linguistiche – non essendo chiaro a quale tipo di norma si contrapponga la norma «di diritto» (norma tecnica? norma di rango secondario?) né a quali «auto-vincoli amministrativi» si faccia riferimento (quelli nei bandi di gara?) – che potrebbero generare criticità applicative.
[85] A. Cioffi, ibidem, ad avviso del quale, peraltro, sarebbe necessario un coordinamento tra l’art. 3 e l’art. 1, comma 2, che, così come sono formulati, sono fonte di potenziali contrasti e antinomie in quanto, ai sensi del successivo art. 4, fungono entrambi da criteri interpretativi ed applicativi.
[86] P. Conio, op. cit.
[87] A. Saitta, op. cit.
[88] In argomento, amplius, A. Coiante, L’accesso delle PMI al mercato dei contratti pubblici tra la concorrenza per il mercato e la discrezionalità amministrativa: lo strumento della suddivisione in lotti quale “chiave di volta” che non risolve, in Dir. e soc., 2021, 795 ss.
[89] Così A. Cioffi, op. cit., § 3.
[90] Cfr., ad es., A. Saitta, op. cit., e A.M. Chiariello, op. cit., 159-160.
[91] E. Frediani, Il soccorso della stazione appaltante tra fairness contrattuale e logica del risultato economico, in Dir. amm., 2018, 627.
[92] Cons. Stato, Sez. V, 24 luglio 2017, n. 3641, in www.giustizia-amministrativa.it.
[93] Cons. Stato, Sez. V, 11 settembre 2015, n. 4249, in www.giustizia-amministrativa.it.
[94] Cons. Stato, Sez. IV, 16 gennaio 2023, n. 502, in www.giustizia-amministrativa.it.
[95] Come ha opportunamente ricordato M.P. Chiti, op. cit., 327, se «i principi sono diffusi, puntuali e di carattere non omogeneo, viene meno la loro funzione caratterizzante […] di “aliquid a quo aliud sequitur”».
[96] Così, nel commentare recente giurisprudenza formatasi prima dell’avvento del nuovo Codice, C.P. Guarini, Il principio eurounitario di «libera amministrazione delle autorità pubbliche» nelle direttive UE nn. 23 e 24 del 2014 su contratti e appalti pubblici e l’impatto sulla normativa interna di recepimento in tema di in house providing, in Euro-Balkan Law and Economics Review, n. 1/2019, 78 ss.
[97] A. Giordano, In tema di rinegoziazione delle concessioni pubbliche. Profili giuscontabili nel prisma dello schema di codice dei contratti pubblici, in Riv. C. conti, 2023, 1, 97.
[98] In argomento, da ultimo, M. Carrer, Terzo settore e principio di sussidiarietà. Profili problematici nella sistematizzazione costituzionale, in Società e diritti, 15 (2023), 30 ss.; A.I. Arena, Su alcuni aspetti dell’autonomia del Terzo settore. Controllo, promozione, modelli di relazione con il potere pubblico, in Riv. AIC, n. 3/2022, 36 ss.
[99] A.M. Chiariello, op. cit., 155; contra, A. Cioffi, op. cit., § 2, secondo cui «[i]l principio è nuovo».
[100] A.M. Chiariello, op. cit., 152.
[101] I principi generali del nuovo Codice dei contratti pubblici (Relazione alla Giornata di studi su: «Il nuovo codice degli appalti» - Roma, 11 maggio 2023).
[102] M. Sbisà, Detto non detto. Le forme della comunicazione implicita, Roma-Bari (2007), rist. 2010.
[103] Op. cit., § 3.
[104] Secondo A.M. Chiariello, op. cit., 160, il nuovo Codice, infatti, «non appare necessariamente affermare una gerarchia tra i principi. […] non indica una maggiore dignità di taluni principi rispetto ad altri, ma esplicita meramente, con riferimento a taluni, la natura di criteri interpretativi e applicativi del Codice per rimarcare come le norme di questo devono in ogni caso essere infine ricondotte ai principi di cui agli artt. 1, 2 e 3. […] Sembrebbe dunque che – non diversamente da quanto accaduto fino a ora nelle esperienze delle precedenti edizioni del Codice, in cui tra i principi non vi è gerarchia – possa spettare all’eventuale interprete desumere la maggiore dignità di uno o di un altro principio a seconda dei casi, sulla base di una valutazione in concreto, che tenga in considerazione anche la fonte di provenienza nazionale o comunitaria dei principi da applicare».
[105] F.F. Guzzi, Il regime delle esclusioni non automatiche alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, in www.ambientediritto.it, n. 2/2023, 17.
[106] A.M. Chiariello, op. cit., 160.
[107] Sul punto si è recentemente soffermato G. Montedoro, Intervento dello Stato e trasformazioni dell’amministrazione, in www.giustiziainsieme.it, 4 maggio 2023.
[108] A. Saitta, op. cit.
[109] L. Torchia, La nuova direttiva europea in materia di appalti servizi e forniture nei settori ordinari (Relazione al 61° Convegno di Studi amministrativi su: «La nuova disciplina dei contratti pubblici fra esigenze di semplificazione, rilancio dell’economia e contrasto alla corruzione» - Varenna, 17-19 settembre 2015), in www.astrid-online.it.
La Corte di Giustizia, con la sentenza del 5 giugno 2023, nella causa C-204/21 - Commissione c. Polonia, ha deciso un ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione europea nei confronti della Polonia avente ad oggetto l’ultima riforma della giustizia polacca adottata nel dicembre 2019.
Aderendo alla prospettazione della Commissione ed ai propri precedenti, il giudice europeo ha ritenuto in primo luogo che la verifica sul rispetto da parte di uno Stato membro del principio dello Stato di diritto, all’interno del quale rientra l’effettività della tutela giurisdizionale e l’indipendenza della magistratura, ricada nella competenza della Corte. In un sistema a competenze attribuite quale l’Unione europea, gli Stati membri sono tenuti a conformarsi agli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione ed evitare regressioni nella garanzia dell’indipendenza della magistratura e, più in generale, della rule of law. Il principio dello Stato di diritto, infatti, costituisce parte dell’identità stessa dell’Unione europea come ordinamento giuridico e gli Stati membri non si possono sottrarre al rispetto di tale principio neppure in virtù di disposizioni
costituzionali.
Riguardo al merito delle misure, la Corte ha ribadito che la sezione disciplinare istituita presso la Corte Suprema polacca non soddisfa i requisiti di imparzialità e indipendenza della magistratura. In particolare, nel prevedere la possibilità dei giudici nazionali di essere sottoposti a un procedimento penale ovvero soffrire ripercussioni in relazione al proprio regime di lavoro e previdenza in caso di applicazione del diritto eurounitario, il diritto nazionale determina un pregiudizio all’indipendenza dei magistrati polacchi.
Sotto altro profilo, la Polonia ha ulteriormente pregiudicato l’indipendenza dei magistrati adottando e mantenendo in vigore disposizioni che vietano ai giudici nazionali di verificare il rispetto dei requisiti stabiliti dal diritto unionale per garantire la tutela giurisdizionale effettiva da parte di un tribunale indipendente e imparziale precostituito per legge, anche previo eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
Da ultimo, la Corte ha censurato le disposizioni polacche che richiedono ai giudici nazionali di dichiarare la propria eventuale appartenenza ad associazioni o partiti e prevedono la pubblicazione di tali informazioni on-line. Tali previsioni si sostanziano infatti in una violazione della disciplina in materia di protezione dei dati di cui al Regolamento 678/2016 UE e del diritto al rispetto della vita privata, tutelato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla Cedu.
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