ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Lorenzo Forni, docente di Economia politica all’Università di Padova e Segretario Generale dell’Associazione Prometeia, ha trattato con estrema chiarezza e finezza giuridico-economica l’attualissimo tema del mutamento climatico nel suo ultimo libro “Net Zero”, edito da Il Mulino nel maggio 2023. Qui di seguito l’intervista di Pierluigi Mascaro.
1. Perché nel Suo libro utilizza, riguardo l'attuale "crisi climatica", l'immagine di una montagna da scalare?
Non una montagna qualsiasi, ma uno dei picchi del mondo! Diciamo l’Everest. Perché decarbonizzare la nostra economia è un’impresa di portata storica, è un percorso che nel migliore dei casi sarà lungo e pieno di imprevisti, che potremmo anche non essere in grado di portare a termine. E in ogni caso per ora stiamo prevalentemente facendo prove e preparativi, un po' come un gruppo di alpinisti al campo base. Ma come loro, non si può aspettare troppo a cominciare la scalata, perché il tempo stringe, più aspettiamo più sarà difficile, un po' come una spedizione sull’Everest non può aspettare l’autunno per partire.
2. Quale ruolo devono avere i pubblici poteri nell'arginare il cambiamento climatico?
Io sono convinto che le politiche pubbliche siano fondamentali. Gli operatori economici non affronteranno i costi connessi alla decarbonizzazione se questi non vengono imposti a tutti attraverso politiche pubbliche. Lo stato ha anche la capacità di aiutare chi fa più fatica nel processo, o in parte incentivare i privati a fare le scelte giuste al fine di ridurre le emissioni, in questo modo assicurandosi che tutti facciano la loro parte.
3. Cosa possono fare, al medesimo fine, le imprese private?
Le imprese sono produttrici importanti di CO2. In Italia la manifattura, escludendo i settori della produzione energetica, produce circa un quinto di tutte le emissioni del paese. E teniamo conto che il nostro paese non è caratterizzato da una concentrazione di industrie pesanti che tendono ad emettere di più. Le imprese, quindi, devono essere parte del processo. In Europa, l’European Emission Trading System ha già contribuito a ridurre le emissioni delle imprese più energivore costringendole a comprare diritti di emissione per le loro emissioni. Quindi il lavoro più importante ora si deve fare sulle imprese piccole e medie.
4. Quale apporto possiamo dare noi cittadini, singolarmente o riuniti?
Dobbiamo accettare la necessità di ridurre le emissioni, e avviare un percorso per capire come reagire a livello personale e familiare. Bisogna prima di tutto prendere consapevolezza del problema, capire cosa i nostri governi stanno (o non stanno facendo). A livello individuale ci sono tante piccole azioni che possiamo fare, ma nessuna veramente risolutiva. La ragione è che non possiamo non consumare energia (che all’80% viene prodotta con combustibili fossili), mangiare (anche l’agricoltura e la produzione di fertilizzanti sono fonti importanti di emissioni), vivere in una casa (che ha richiesto cemento e acciaio per serre costruita, la cui produzione è fonte importante di emissioni, per essere prodotta) …insomma come ci giriamo emettiamo. Non fa molta differenza se riduciamo il nostro consumo di carne, o se compriamo a km zero, anche se dobbiamo comunque abituarci a farlo. Penso che il nostro ruolo come cittadini sia accettare, e anzi favorire, il fatto che i nostri governi adottino politiche che comportano per noi qualche costo, ma che sono essenziali per ridurre le emissioni.
5. Perché non possiamo porci obiettivi troppo ambiziosi di emissioni Net Zero entro il 2050?
Il Net Zero al 2050 è con ampia probabilità irraggiungibile. Però questo non vuole dire che dobbiamo abbandonare l’obiettivo Net Zero, perché prima o poi dobbiamo arrivarci se vogliamo stabilizzare gli aumenti di temperature e tutti i problemi che questi comportano. Il rischio di fissarci sul 2050 e di fare di tutto per rispettare formalmente le tappe intermedie (ad in Europa -55% di emissioni al 2030) è quello di fare dei passi falsi che poi potremmo pagare dopo, come costruire molte centrali a gas che riducono le emissioni rispetto a quelle a carbone e a petrolio e che però hanno una vita lunga, invece che investire nel solare ed eolico, anche se al momento è più complicato e costoso.
6. Alcuni scienziati molto autorevoli, come ad esempio Franco Prodi, sostengono che non ci siano prove per affermare che i cambiamenti climatici dipendano dall'uomo. Cosa ne pensa?
Non ho mai letto/ascoltato Franco Prodi, ma in generale quelli che vengono considerati “negazionisti” (come ad esempio Carlo Rubbia) in realtà non negano il fatto che le emissioni siano alla base dell’effetto serra e che - soprattutto negli ultimi 40/50 anni – noi le abbiamo aumentate a livello globale enormemente (questo in buona parte per lo sviluppo incredibile della Cina). Di solito sostengono che l’aumento delle temperature che questo comporta è di dimensioni contenute rispetto alle oscillazioni che le temperature hanno avuto nella storia del nostro pianeta. Ma io sono un economista, so che i rapporti dell’IPCC (Intergovernamental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite) sono preparati da centinaia dei migliori esperti a livello mondiale e quindi li ritengo la fonte più affidabile. Per ogni singolo scettico del clima che possiamo contare, ci sono migliaia di esperti che dedicano la vita e che hanno molteplici pubblicazioni che puntano nella direzione opposta. Io mi fido di questi, anche se ammetto con un po' di trepidazione perché è un tema sul quale non ho pieno controllo. È un po' come quando si va in sala operatoria o si sale su un areo, ci si fida del chirurgo e del pilota, con un po' di trepidazione appunto, che sappiano quello che stanno facendo. Di solito sanno quello che stanno facendo, se li abbiamo scelti con un po' di criterio. Per questo ogni volta che mi capita di parlare con un esperto di clima, controllo sempre che quello che ho capito sia corretto. In questo caso poi non è un singolo chirurgo o pilota, ma sono migliaia allo stesso tempo.
7. Che ne dice delle politiche europee sull'efficientamento energetico degli edifici e sullo stop ai motori diesel e benzina? Sono misure necessarie?
Non solo sono necessarie, ma sono solo l’inizio. I trasporti contano per circa un quarto delle emissioni italiane e gli edifici per una quota simile (anche se ci sono varie stime a seconda di quello che si include). Tenete conto, tra l’altro, che l’inquinamento atmosferico delle città (che è un problema diverso dal riscaldamento globale, ma in qualche modo legato) dipende principalmente da riscaldamenti e trasporti, per cui potremmo prendere due piccioni con una fava, meno riscaldamento globale e allo stesso tempo città più vivibili
8. Queste decisioni non rischiano di aumentare le disuguaglianze sociali?
Certo c’è un costo, perché sostituire la caldaia con una pompa di calore o comprare una macchina elettrica ha un costo. Per questo l’intervento pubblico è così importante, per aiutare chi ha redditi più bassi. Ma gli aiuto devono essere molto mirati, non ci possiamo permettere aiuti come alcuni di quelli introdotti contro il caro bollette che in meno di due anni ci sono costati più di 90 miliardi.
9. È giusto che l'Europa prenda dei provvedimenti unitari o sarebbe meglio diversificare gli interventi sulla base delle esigenze dei singoli Stati?
Questa è un’ottima domanda. L’Europa ha preso la leadership sulle questioni climatiche in parte perché gli obiettivi che ci siamo posti all’interno degli Accordi di Parigi riguardano l’Europa nel suo complesso. D’altra parte, ridurre le emissioni degli edifici, per esempio, va fatto da tutti i paesi membri e si tratta di decidere una soglia di efficienza energetica comune per evitare diversità di trattamento, insomma ci devono essere degli standard comuni. Discorso analogo sulle automobili. Su altri aspetti invece immagino che i paesi debbano avere dei margini di flessibilità.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il caso INPS e la pronuncia del Tribunale civile di Roma 24 marzo 2022 - 3. Il caso Rechtbank Midden (CGUE 24 marzo 2022 C – 245/20) - 4. Osservazioni conclusive.
1. Premessa.
Due recenti pronunce del Tribunale civile di Roma e della Corte di giustizia europea consentono di fare il punto sull’attuale regime del trattamento dei dati personali per finalità di pubblico interesse da parte delle pubbliche amministrazioni.
2. Il caso INPS e la pronuncia del Tribunale civile di Roma 24 marzo 2022.
2.1. La prima è stata resa il 24 marzo 2022 dalla XVIII Sezione civile del tribunale di Roma con riferimento alla sanzione adottata dal GPDP nei confronti dell’INPS assumendo che i controlli da quest’ultimo svolti sui sussidi erogati nel pieno dell’emergenza pandemica avessero violato praticamente quasi tutte le regole e i principi esistenti in materia di trattamento dati personali (principi di liceità, correttezza e trasparenza del trattamento di cui all’art 5 par 1 lett. a, del GDPR; principio di minimizzazione di cui all’art 5 par 1 lett c del GDPR; principio di esattezza di cui all’art 5 par 1 lett d del GDPR; protezione dati fin dalla progettazione e per impostazione predefinita di cui all’art 25 GDPR; obbligo di effettuare la valutazione d’impatto sulla protezione dati ai sensi dell’art 33 GDPR; principio di responsabilizzazione di cui agli artt. 5 par. 2 e 24 del GDPR).
Cos’era successo di così grave da giustificare un intervento presso che esemplare dell’Autorità garante? Era accaduto che, nel pieno dell’emergenza determinata dalla prima ondata della pandemia Covid19, nel marzo 2020, il dl.l. 18/2020 aveva previsto la concessione di misure indennitarie per sostenere le categorie di lavoratori e professionisti colpite dalle misure del lockdown, erogabili a condizione che i destinatari non fossero già titolari di pensione o iscritti ad altra forma previdenziale obbligatoria o titolari di un rapporto di lavoro dipendente (cd bonus covid). L’immediata erogazione del sostegno economico è subordinata alla autodichiarazione degli stessi richiedenti della sussistenza della suddetta condizione e l’INPS può pertanto operare unicamente dei controlli successivi per verificare l’esattezza di quanto dichiarato dai richiedenti. Essendo stata diffusa dalla stampa la notizia che i bonus sarebbero stati indebitamente erogati anche a diversi parlamentari e amministratori locali, l’INPS avvia così dei controlli di secondo livello al fine di verificare se il bonus Covid fosse stato effettivamente erogato anche in tali casi, incrociando i codici fiscali indicati dai richiedenti nelle domande presentate con quelli ricavati dai dati aperti disponibili sui siti web delle Camere e degli enti locali e territoriali dei politici eletti nelle rispettive assemblee. A detta dell’Autorità Garante, in questo modo sarebbero state compiute attività non necessarie per lo svolgimento della funzione di vigilanza con grave pregiudizio del diritto al trattamento dei dati personali da parte dei soggetti interessati: il codice fiscale ricavato dalle banche dati aperte non era quello ufficiale e si prestava al rischio di omocodie; l’incrocio dei dati era stato globale e andavano invece espunti i dati di coloro che erano stati già esclusi dal beneficio; al momento di apertura del procedimento di verifica non vi era ancora la certezza che il bonus non fosse dovuto; non erano stati preventivamente calcolati i rischi che il trattamento presentava per i diritti e le libertà degli interessati laddove era invece necessario svolgere una preliminare valutazione d’impatto sulla protezione dei dati. In sostanza, secondo l’Autorità Garante, la funzione ispettiva o di controllo finalizzata ad evitare che le (limitate) risorse non venissero disperse a beneficio di chi non ne aveva diritto, nel pieno dell’emergenza pandemica, avrebbe dovuto seguire tutt’altra procedura o a ben guardare non avrebbe dovuto nemmeno essere iniziata (perché i codici fiscali usati non erano quelli ufficiali rilasciati dal Centro nazionale di elaborazione di dati per l’anagrafe tributaria dell’Agenzia delle Entrate; perché non vi era certezza che i contributi fossero stati percepiti; perché non v’era certezza che i sussidi non potessero essere erogati a politici e parlamentari: adempimenti o pseudo garanzie che nessuna norma di legge ha mai imposto di seguire, ma ritenuti tali da precludere l’esercizio della funzione amministrativa). A detta dell’Autorità Garante, in buona sostanza, l’interesse pubblico poteva e doveva esser curato diversamente o, forse, non richiedeva affatto alcun intervento dell’autorità pubblica. L’attività posta in essere non era cioè necessaria per la cura dell’interesse pubblico nello specifico del caso concreto e aveva fatto correre un rischio “elevato” al trattamento dei dati personali dei soggetti interessati. E qui si tocca forse il punto più delicato delle conseguenze dell’azione dell’Autorità Garante se si considera l’interesse che l’intervento del Garante ha inteso proteggere, dal momento che non è mai emerso un solo nominativo dei soggetti potenzialmente interessati e lo stesso Garante dà atto della “impenetrabilità dei dati” trattati dall’INPS. L’Istituto viene sanzionato ugualmente perché l’attività di vigilanza posta in essere avrebbe avuto “impatto negativo in termini di immagine pubblica e riprovazione sociale sull’intera categoria composta da deputati e amministratori regionali e locali”.
Il Tribunale civile di Roma, con la pronuncia del marzo 2022, ha annullato la sanzione, ritenendo in concreto insussistenti le violazioni contestate dal Garante. La sentenza va salutata senz’altro con favore nella misura in cui mostra di ricondurre entro limiti ragionevoli l’esigenza di rispettare il diritto al trattamento dei personali e la possibilità di sindacato da parte del Garante delle scelte discrezionali effettuate dalle amministrazioni procedenti.
2.2. L’importanza della pronuncia si apprezza però soprattutto se si considera che non si era di fronte ad un caso isolato o eccezionale di controllo oltremodo invasivo del Garante sull’esercizio di poteri discrezionali.
L’intervento del Garante ha a suo tempo determinato l’arresto del procedimento di verifica che non è stato più portato a termine dall’INPS; così come è avvenuto in diversi altri casi in cui l’intervento del Garante ha ritardato o impedito l’esercizio di funzioni amministrative nel periodo dell’emergenza in nome dell’esigenza di assicurare una tutela assoluta e incondizionata al diritto alla protezione dei dati personali, in un momento in cui tutti i diritti fondamentali dell’individuo e della persona, anche di rango senz’altro superiore a quello alla “riservatezza”, sono stati compressi e limitati nel periodo dell’emergenza.
Il caso INPS è esemplare di un certo modo d’intendere la normativa in materia di protezione dei dati personali trattati per finalità di pubblico interesse, che nel periodo dell’emergenza pandemica ha mostrato in maniera evidente tutti i suoi limiti e la sua insostenibilità. Dall’erogazione dei buoni spesa alimentari, alle vaccinazioni, all’uso delle App Immuni o Mitiga Italia; all’uso del green pass per l’accesso ai luoghi di lavoro pubblici e privati, nelle scuole, nei pubblici uffici e nei locali commerciali, l’intervento dell’Autorità Garante si è contraddistinto per una costante sovrapposizione alle Autorità istituzionalmente competenti sulle scelte relative alla possibilità e alle modalità di cura dell’interesse pubblico nel caso concreto, con funzione quasi sempre interdittiva. Il sindacato dell’Autorità Garante ha finito con il riguardare quasi sempre la valutazione della necessità o meno di una data attività per la cura del pubblico interesse e quindi in ultima analisi l’opportunità stessa dell’azione amministrativa. Sindacare la strumentalità del trattamento dei dati personali rispetto alla finalità di cura del pubblico interesse significa infatti sindacare la necessità o meno di una determinata azione per la cura dell’interesse pubblico ed implica muoversi sul crinale del merito delle decisioni amministrative, il cui sindacato è di regola sottratto alla cognizione persino del giudice amministrativo.
Direi che quanto sopra renda giusto aprire una serie d’interrogativi. .
Innanzi tutto come ciò sia potuto accadere in manifesta controtendenza rispetto alle linee evolutive in atto nel nostro Ordinamento, caratterizzate dalla costante e crescente introduzione di misure di semplificazione volte a recuperare l’efficienza amministrativa, che hanno reso disponibili, per le amministrazioni procedenti, interessi pubblici di ben altro spessore, attraverso il continuo aggiustamento della disciplina della conferenza di servizi decisoria o la previsione di meccanismi comunque sostitutivi; o di misure espressamente volte a rimuovere il fenomeno paralizzante dell’amministrazione difensiva o della “paura della firma” del decisore pubblico attraverso la limitazione della responsabilità erariale, con l’esclusione della colpa grave, o della responsabilità penale, con la mitigazione dell’abuso d’ufficio.
Davvero la normativa sulla protezione dei dati personali consente all’Autorità Garante di operare come una sorta di amministrazione di secondo livello in grado di condizionare le scelte del decisore pubblico, assumendo che, in assenza dell’espresso consenso dell’interessato o di una specifica norma di legge che ne consenta il trattamento per finalità di pubblico interesse prevedendone espressamente modi e limiti, il diritto alla protezione dei dati personali non possa essere limitato e condizionato dall’esigenza di protezione del pubblico interesse, come se si fosse in presenza di un super diritto fondamentale, indisponibile da parte della PA ?
E, in ultima analisi, quali interessi si avvantaggiano effettivamente delle cure dell’Autorità Garante ? Quali interessi vengono effettivamente tutelati? Siamo sicuri che alla fine l’azione dell’Autorità Garante nel concreto dei casi di specie tuteli interessi effettivamente meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento?
Per la risposta rinvio alle conclusioni, che formulerò dopo aver esaminato anche il secondo caso che ho segnalato in apertura.
3. Il caso Rechtbank Midden (CGUE 24 marzo 2022 C – 245/20)
3.1. La seconda pronuncia che merita di essere segnalata è CGUE , Prima Sezione, 24 marzo 2022 causa C – 245/20 (Rechtbank Midden – Nederland), la quale ha affermato che “L'articolo 55, paragrafo 3, del regolamento (UE) 2016/679, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento di dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati), deve essere interpretato nel senso che il fatto che un organo giurisdizionale metta temporaneamente a disposizione dei giornalisti documenti di un procedimento giurisdizionale, contenenti dati personali, al fine di consentire loro di riferire in modo più completo sullo svolgimento di tale procedimento rientra nell'esercizio, da parte di tale organo giurisdizionale, delle sue «funzioni giurisdizionali», ai sensi di tale disposizione”, escludendo con ciò la possibilità di un sindacato da parte dell’Autorità garante nazionale.
Cos’era successo nel caso di specie ? Al termine di un’udienza del Raad van State (che in Olanda corrisponde al nostro Consiglio di Stato), la parte e il suo avvocato vengono intervistati da un giornalista che, nel corso della conversazione, mostra di avere dettagliata conoscenza degli atti del fascicolo della causa, compresi gli atti nei quali apparivano nome, indirizzo e il cd numero nazionale di identificazione. Dopo che il giornalista ha spiegato che, di regola, i principali atti del processo vengono messi a disposizione dei giornalisti interessati a partecipare all’udienza pubblica al fine di agevolarne la comprensione, l’avvocato e la parte presentano un reclamo sostenendo che sarebbe avvenuto un trattamento di dati personali al quale non avrebbero prestato il proprio consenso e che sarebbe pertanto avvenuto in violazione del GDPR.
Poiché la questione della sussistenza o meno del potere dell’Autorità garante nazionale di sindacare la decisione di un organo giurisdizionale di mettere a disposizione dei giornalisti i principali atti del fascicolo di causa dipende dall’interpretazione delle norme del GDPR, e in particolare dell’art 55 comma terzo che dispone che “Le autorità di controllo non sono competenti per il controllo dei trattamenti effettuati dalle autorità giurisdizionali nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali”, viene investita la Corte di giustizia. Dopo aver chiarito che l’art 55 paragrafo 3 del Regolamento deve essere letto alla luce del considerando 20, il quale precisa che “Non è opportuno che rientri nella competenza delle autorità di controllo il trattamento di dati personali effettuato dalle autorità giurisdizionali nell'adempimento delle loro funzioni giurisdizionali, al fine di salvaguardare l'indipendenza della magistratura nell'adempimento dei suoi compiti giurisdizionali, compreso il processo decisionale”, la Corte di giustizia ha appunto concluso che “il fatto che un organo giurisdizionale metta temporaneamente a disposizione dei giornalisti documenti di un procedimento giurisdizionale, contenenti dati personali, al fine di consentire loro di riferire in modo più completo sullo svolgimento di tale procedimento rientra nell'esercizio, da parte di tale organo giurisdizionale, delle sue «funzioni giurisdizionali»”.
Secondo la decisione, rimangono dunque insindacabili dall’Autorità garante i trattamenti di dati personali effettuati dalle autorità giurisdizionali nell'ambito della loro politica di comunicazione sulle cause di cui sono investite, come quelli consistenti nel mettere temporaneamente a disposizione dei giornalisti atti di un procedimento giudiziario per consentire loro di assicurarne la copertura mediatica.
Una decisione dunque senz’altro meritevole di segnalazione per il fatto di tutelare l’indipendenza della magistratura da qualsiasi possibilità di condizionamento esterno e per garantire la trasparenza e il controllo democratico sull’esercizio della funzione giurisdizionale.
3.2. A questa decisione, che definirei illuminata, della Corte di giustizia fa da contraltare una inspiegabile timidezza dei nostri giudici nazionali, non consapevoli di rendere oggettivamente l’esercizio della funzione giurisdizionale un fatto riservato ai soli diretti interessati e che nessun altro avrebbe il diritto di conoscere.
Con il chiaro intento di impedire la possibilità di risalire anche indirettamente al caso concreto deciso, anche quando non si è in presenza di quei dati personali particolari o sensibili protetti da un divieto di divulgazione o quando l’oscuramento non sia stato chiesto nemmeno dal diretto interessato, le sentenze spesso e volentieri vengono pubblicate nelle banche dati istituzionali omettendo sempre e comunque nominativo e generalità delle persone fisiche. Non solo. L’omissione si estende spesso al nome delle persone giuridiche, ovvero colpisce indiscriminatamente tutte le parti del giudizio. Diffusa e crescente è anche la prassi di omissare, nei giudizi d’impugnazione, persino la data e gli estremi dei provvedimenti del giudizio di primo grado o, più in generale, degli stessi provvedimenti giurisdizionali citati come precedenti. In alcuni casi finanche del tribunale adito. In altri ancora vengono omissati data ed estremi del provvedimento impugnato o delle stesse autorità pubbliche emananti.
Anche qui mi pare giusto aprire una serie di interrogativi.
Com’è possibile che si arrivi a nascondere i dati identificativi non delle persone, ma delle stesse pronunce giurisdizionali e delle autorità giudicanti ?
Se si è arrivati a questo punto, è evidente che c’è qualche grave distorsione al fondo del sistema, che si è creato un sistema profondamente distorto
La situazione è stata denunciata dall’AIPDA in un apposito appello che ha cercato di richiamare l’attenzione sul grave pregiudizio che viene in tal modo arrecato alla possibilità di controllo democratico da parte della società civile su una delle forme fondamentali di esercizio della sovranità popolare e sul fatto che in tal modo le decisioni giurisdizionali diventano non intellegibili, anche da parte di chi sia provvisto della particolare preparazione culturale e giuridica che potrebbe essere richiesta dalla eventuale complessità della decisione, perché se ne nasconde volutamente il contenuto proprio per evitare che si possa mai individuare il caso al quale si riferisce.
4. Osservazioni conclusive.
4.1. Per trovare una risposta agli interrogativi che si sono aperti si deve muovere dalla considerazione che l’azione dell’Autorità Garante mostra di aver sposato una lettura restrittiva e acritica del GDPR. Oggettivamente, la lettura dell’Autorità priva d’efficacia immediatamente precettiva la previsione recata dall’art. 6 lett. e), secondo la quale “l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento” è una delle possibili basi giuridiche che consentono di ritenere lecito il trattamento; presume l’esistenza di un divieto generalizzato del trattamento di qualsiasi dato personale, laddove il divieto è invece espressamente sancito dall’art. 9 unicamente per i dati particolari o sensibili; applica, infine, indiscriminatamente e allo stesso modo, le regole della minimizzazione, declinate dall’art. 5, ai soggetti tanto privati, quanto pubblici, senza minimamente considerare che le finalità perseguite da una qualsivoglia azione amministrativa sono note ab origine (in quanto connaturate ai compiti istituzionalmente propri dell’ente) e che pertanto, differentemente dai soggetti privati, non sussiste il problema di conoscere la finalità per la quale agisce il titolare.
Questa impostazione ha finora consentito all’Autorità Garante di sindacare la stessa sussistenza del potere di provvedere in capo all’Amministrazione procedente in caso di mancanza di una espressa attribuzione del potere di trattamento del dato personale e comunque le concrete modalità di esercizio della funzione amministrativa sotto il profilo della necessarietà rispetto al fine perseguito, operando come un potente fattore di blocco dell’azione amministrativa per proteggere valori a dir poco discutibili.
L’interpretazione restrittiva delle norme che regolano il trattamento dei dati personali per finalità di pubblico interesse, completamente appiattita, senza distinzioni, su quella propria dei rapporti inter privati è già difficilmente spiegabile per il trattamento per finalità di pubblico interesse generalmente considerato, ma nel caso delle pronunce giurisdizionali appare non solo discutibile sul piano valoriale ma chiaramente contra legem.
Lasciamo stare il fatto che il GDPR (art. 6) prevede che il trattamento è lecito se “necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento” o quando è “connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento”. Le sentenze sono espressione di una funzione sovrana e l’obbligo di pubblicazione deriva da norma di legge, ma il rilievo per questa parte è comune a tutti i casi di trattamento per finalità di pubblico interesse.
Il fatto veramente sconcertante è che, nel caso dei provvedimenti giurisdizionali, le norme specificamente dettate dal Codice nazionale (le uniche che sono rimaste sempre ferme anche quando le altre norme del d. lgs. 30 giugno 2003 n. 196 che disciplinavano il trattamento dei dati per finalità di pubblico interesse erano state abrogate dal d. lgs. 101/2018) hanno sempre espressamente previsto che “le sentenze e le altre decisioni dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado depositate in cancelleria o segreteria sono rese accessibili anche attraverso il sistema informativo e il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet (osservando le cautele previste dal presente capo” – v. infra - ) (art. 51, co. 2); che i dati identificati degli interessati riportati sulla sentenza o provvedimento possono essere omissati su richiesta di parte, che spetta però all’autorità giudiziaria accogliere o disporre anche d’ufficio se fondata su “motivi legittimi” o per tutelare la “dignità degli interessati” (art 52, co. 1 e 2); che l’omissione di “generalità, dati identificativi o altri dati anche relativi a terzi dai quali può desumersi anche indirettamente l’identità di minori, oppure delle parti nei procedimenti” è doverosa soltanto se si tratti di “persone offese da atti di violenza sessuale” o se si verta “in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone” (art. 52 co. 5). “Fuori dei casi indicati nel presente articolo”, conclude il comma settimo dell’art. 52 del Codice, “è ammessa la diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali”.
4.2. Se l’auspicio è che le due pronunce, del Tribunale civile di Roma e della Corte di giustizia, non rimangano un caso isolato, lascia ben sperare il fatto che sulla stessa linea è recentemente intervenuto anche il legislatore, per chiarire appunto che, nel sistema disegnato dal DGPR, la previsione recata dalla lett e) dell’art 6 può e deve essere ritenuta di per sé sufficiente a fondare la base giuridica del trattamento, almeno dei dati comuni o ordinari, da parte della pubblica amministrazione, senza che si renda necessaria una successiva disposizione che specifichi ulteriormente le finalità e le modalità del trattamento. Il dl 139/2021, convertito con modificazioni dalla l 205/2021, è espressamente intervenuto per modificare l’art. 2 ter del Codice sulla protezione dati personali, dedicato alla “Base giuridica per il trattamento di dati personali effettuato per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri”, eliminando dalla formulazione normativa del primo comma l’avverbio “esclusivamente” e l’espressione “nei casi previsti dalla legge” al fine appunto di precisare che “la base giuridica prevista dall’art 6 par 3 lett b) del regolamento è costituita da una norma di legge o di regolamento o da atti amministrativi generali”. Oltre ad altre significative modifiche, ha poi introdotto il comma 1 bis al fine di precisare che per le amministrazioni pubbliche e soggetti equiparati il trattamento dei dati personali “è anche consentito se necessario per l'adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l'esercizio di pubblici poteri a essa attribuiti” e che ““la finalità del trattamento, se non espressamente prevista da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento, è indicata dall'amministrazione, dalla società a controllo pubblico in coerenza al compito svolto o al potere esercitato, assicurando adeguata pubblicità all'identità del titolare del trattamento, alle finalità del trattamento e fornendo ogni altra informazione necessaria ad assicurare un trattamento corretto e trasparente con riguardo ai soggetti interessati e ai loro diritti di ottenere conferma e comunicazione di un trattamento di dati personali che li riguardano."
Le disposizioni urgenti in materia di protezione dei dati personali dettate dal d.l. 139/2021 oggi chiariscono senza dubbio alcuno che il trattamento dei dati personali per finalità di pubblico interesse (necessario per l’adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l’esercizio di pubblici poteri) è consentito se ritenuto necessario dall’amministrazione alla quale il compito o potere sia stato attributo dal legislatore, senza che la finalità del trattamento debba essere espressamente specificata dal legislatore medesimo.
Alla riscrittura dell’art 2 ter si accompagna anche la soppressione di altri poteri in precedenza riconosciuti al Garante (per la valutazione dei rischi del trattamento o per la comunicazione e diffusione dei dati strumentali o connesse all’esecuzione di un compito di pubblico interesse o all’esercizio di un funzioni istituzionali), a sottolineare la chiara volontà di sottrarre il trattamento dati per finalità di pubblico interesse a quello stringente controllo che in precedenza ha consentito al Garante d’ingerirsi in maniera molto penetrante nella valutazione delle stesse finalità concretamente perseguite da una data azione amministrativa, sino al punto di valutarne l’effettiva utilità o l’astratta possibilità.
Sotto questo profilo, le disposizioni hanno una valenza interpretativa particolarmente significativa, che impone una lettura necessariamente più elastica dello stesso principio di minimizzazione allorquando esso non si rivolga a rapporti tipicamente privatistici, ma deve essere applicato nei confronti del trattamento dati per finalità di pubblico interesse. In ogni caso, si vuol dire, non è più possibile doppiare le valutazioni discrezionali riservate all’amministrazione procedente per la cura dell’interesse pubblico nel concreto del caso di specie, con valutazioni di merito operate dall’Autorità garante in una maniera che non è consentita nemmeno al giudice amministrativo e che, per gli atti aventi forza e valore di legge, è riservata alla Corte costituzionale.
A maggior ragione, quindi, nel caso della pubblicazione dei provvedimenti giurisdizionali s’impone quella immediata correzione di rotta prefigurata dal legislatore per il trattamento dei dati personali per finalità di pubblico interesse, almeno finché si tratta di dati ordinari e non particolari o sensibili, abbandonando definitivamente quel pregiudizio culturale che porta a presumere che tutti i dati personali siano per ciò solo sensibili e di per sé soggetti a un generale divieto di pubblicazione. L’oscuramento ha un senso ed è possibile unicamente nelle ipotesi contemplate dall’art 52 del Codice.
4.3. Mi sembra chiaro, in conclusione, che la normativa in tema di protezione dei dati personali è stata finora applicata in una maniera acritica che ha accomunato il regime del trattamento per finalità di pubblico interesse a quello proprio dell’uso commerciale tra privati; senza tenere conto del fatto che, nel primo caso, il soggetto pubblico è già di per sé tenuto ad agire secondo finalità predeterminate dalla legge e nel rispetto del principio di proporzionalità; nel secondo no. Ed è quindi logico che, in tal caso, la possibilità di trattare il dato personale sia subordinata al previo consenso del soggetto interessato e che il trattamento sia consentito al limitato fine per il quale il consenso è stato prestato.
Se non si considera questo, si arriva a un risultato assolutamente inaccettabile in termini valoriali; perchè significherebbe che l’evoluzione della disciplina (e del bene tutelato), dalla privacy – riservatezza al trattamento dei dati personali, avrebbe avuto unicamente l’effetto di dare un prezzo al diritto alla riservatezza e di renderlo così disponibile per gli usi commerciali del mercato digitale globale della società moderna; e di renderlo per contro indisponibile proprio laddove i rapporti giuridici devono essere invece istituzionalmente regolati sulla base di un principio di trasparenza e non di riservatezza. Laddove cioè il trattamento è necessario per finalità di pubblico interesse o per l’esercizio di funzioni pubbliche.
Questa evoluzione è evidente e bisogna esserne consapevoli.
Per consuetudine, la nascita del diritto alla riservatezza viene fatta risalire storicamente alla pubblicazione sulla Harward Law review 1890 dell’articolo di Warren and Brandeis "The Right to Privacy". La storia è nota. Warren aveva sposato la figlia di un noto senatore e la Evening Gazette di Boston pubblicava continuamente indiscrezioni sulla vita matrimoniale di Warren e di sua moglie.
L’articolo avrebbe teorizzato per primo l’esistenza del diritto alla privacy come “the right to let be alone”; il diritto cioè ad essere lasciati soli, non spiati nell’intimità personale. Lo schema teorizzato è quello del diritto assoluto, della persona. Si vuole garantita la inviolabilità dello spazio privato della persona, dello spazio domestico che deve essere protetto da invasioni altrui.
La logica proprietaria sottesa alla protezione dell’interesse configura il diritto come jus excludendi alios e impiega la tecnica del divieto: il mio spazio non può essere invaso da terzi senza il mio consenso.
Il tema privacy nasce quindi come questione tipicamente di diritto privato, di tutela di un interesse esclusivamente privato, individuale. Se si esce dalla sfera “proprietaria” individuale, l’interesse non risulta più meritevole di protezione.
Il confine con il diritto pubblico è quindi molto netto. Se si entra nella sfera del pubblico, l’interesse tutelato è esattamente opposto ed è quello alla trasparenza e conoscibilità di un’attività amministrativa che il privato chieda venga posta in essere per soddisfare un proprio interesse personale ovvero della quale esso sia destinatario per ragioni di pubblico interesse.
Se si è destinatari di provvedimenti o decisioni (rese d’ufficio o a domande di parte) con cui si esercitano pubbliche funzioni bisogna conoscere l’identità: quando è in gioco l’interesse pubblico, l’impiego di risorse della collettività, il principio democratico impone di conoscere PERCHÉ si fa una cosa e CHI ne è beneficiario o danneggiato.
E l’ingresso nella sfera pubblica può dipendere da due fattori o meglio avvenire in due modi: o perché, per rievocare il caso Warren, “esco di casa” per chiedere qualcosa alla P.A. o per rivolgermi al giudice; oppure perché la P.A. o un giudice entrano nella mia sfera personale perché c’è una norma di legge che attribuisce a tali Autorità questo potere. Così come del resto avviene per qualsiasi altro diritto.
E il “sacrificio” è condizionato nelle modalità dalla finalità (eccesso di potere) e della proporzionalità.
Nel diritto contemporaneo il concetto di privacy si è evoluto ed ha assunto la forma della protezione dei dati personali. Non si tratta di una mera variazione lessicale. Alla diversità del significante si ricollega anche una diversità di significato.
Il concetto non è più lo stesso, non è identico. Anzi.
La tutela sembra assumere come oggetto una vera e propria identità digitale: l’interesse regolato non è più solo quello al controllo della diffusione di notizie o immagini sulla persona, ma al controllo di tutte le informazioni che consentono di identificare la persona fisica (nascita, età, CF, ecc). La nozione poi si allarga e ricomprende qualsiasi uso del dato personale. “Trattamento” è non solo la pubblicazione, ma anche l’acquisizione del dato o il suo trasferimento ad un soggetto terzo. Tutto questo ha come conseguenza che i dati personali divengono oggetto di un bene giuridico autonomo, diverso dallo spazio privato personale che deve essere protetto da invasioni altrui, che diventa così soggetto alle comuni regole sulla circolazione dei beni giuridici.
Se l’evoluzione della privacy da “right to let be alone” a diritto al trattamento dei dati personali è servita a patrimonializzare il diritto di riservatezza per consentirne l’uso da parte dei big data e a riposizionare il nucleo duro della riservatezza solo laddove ve ne sarebbe minor ragione, e cioè nell’ambito pubblico, dove la regola è quella della trasparenza e della conoscibilità, il risultato sarebbe paradossale. Se l’attuazione del GDPR serve a rendere disponibile il diritto da parte di soggetti privati e imprese, che vengono autorizzati all’uso economico dei dati personali in base ad un consenso che risulta prestato secondo formule di rito standardizzate e non negoziabili, e a rendere per converso indisponibile in ambito pubblico anche il trattamento dei dati comuni e ordinari, il risultato appare francamente inaccettabile.
*L’articolo riproduce il testo della relazione al convegno dell’Associazione Italiana Professori Diritto Amministrativo - AIPDA tenuto a Roma il 29 aprile 2022 sul tema “Trattamento dei dati personali e documenti amministrativi: le frontiere della discrezionalità”.
Sommario: 1. Il contesto - 2. Il consolidamento dell’interpretazione più recente - 3. L’uso secondario dei dati di traffico.
Con la sentenza 7 settembre 2023 la Corte di giustizia dell’Unione europea, consolidando il suo indirizzo più recente sulla data retention, precisa le condizioni e i presupposti di legittimità dell’uso secondario dei tabulati. Ribadendo la distinzione (e la correlativa gerarchia di rilevanza) tra sicurezza nazionale, contrasto della “criminalità grave” e della “criminalità in generale” la Corte esclude, in particolare, l’utilizzabilità di tabulati telefonici nell’ambito di “indagini per condotte illecite di natura corruttiva”.
1. Il contesto
Un altro, importante tassello si aggiunge alla disciplina pretoria (europea) della data retention. A meno di un anno da due sentenze con cui sono stati fissati principi nettissimi sulla natura di questo strumento investigativo, la Corte di giustizia, con la sentenza 7 settembre 2023 nella causa C-162/22, torna sulla materia, focalizzandosi sul tema dell’utilizzo extrapenale dei tabulati telefonici (e telematici).
La questione pregiudiziale è sorta nell’ambito della decisione sull'impugnazione del provvedimento di revoca delle funzioni giudiziarie a un procuratore, sulla base di elementi tesi a provarne la condotta corruttiva, desunti dall’acquisizione, in sede penale, dei suoi tabulati telefonici, utilizzati poi anche nell’ambito del procedimento disciplinare. In quella sede il giudice ha sottoposto alla Corte un quesito in ordine alla corretta interpretazione dell’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58 (sulle eccezioni applicabili agli obblighi di garanzia della riservatezza), letto alla luce degli articoli 7, 8 e 11 nonché dell’articolo 52, paragrafo 1, della CDFUE. Il giudice chiede, in particolare, alla Corte se tale norma debba essere interpretata nel senso dell’inutilizzabilità - nell’ambito di “indagini per condotte illecite di natura corruttiva” di dati di traffico telefonico o telematico “messi a disposizione (…) delle autorità competenti a fini di lotta alla criminalità grave”.
Prima di affrontare il tema dell’ammissibilità dell’ uso secondario (in particolare, in sede extrapenale) dei tabulati la Corte, riprendendo le conclusioni dell’indirizzo più recente (sentenza del 20 settembre 2022, SpaceNet e Telekom Deutschland, C-793/19 e C-794/19, EU:C:2022:702, punti 74 e 131), ha ricordato (punto 31) che l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58/CE come modificata dalla direttiva 2009/136/CE non consente, a fini di contrasto della “criminalità grave e di prevenzione delle minacce gravi alla sicurezza pubblica” la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, ma ammette:
– la conservazione mirata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione che sia delimitata, sulla base di elementi oggettivi e non discriminatori, in funzione delle categorie di persone interessate o mediante un criterio geografico, per un periodo temporalmente limitato allo stretto necessario, ma rinnovabile;
– la conservazione generalizzata e indifferenziata degli indirizzi IP attribuiti all’origine di una connessione, per un periodo temporalmente limitato allo stretto necessario;
– la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi all’identità civile degli utenti di mezzi di comunicazione elettronica, e
– il ricorso a un’ingiunzione rivolta ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica, mediante una decisione dell’autorità competente soggetta a un controllo giurisdizionale effettivo, di procedere, per un periodo determinato, alla conservazione rapida dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione di cui dispongono tali fornitori di servizi,
sempre che tali misure garantiscano, “mediante norme chiare e precise, che la conservazione dei dati di cui trattasi sia subordinata al rispetto delle relative condizioni sostanziali e procedurali e che le persone interessate dispongano di garanzie effettive contro il rischio di abusi”.
La Corte richiama inoltre, nell’ambito della “gerarchia di importanza” imposta dal principio di proporzionalità, la superiorità dell’esigenza di salvaguardia della sicurezza nazionale rispetto a quella degli altri obiettivi di cui all’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58 e, in particolare, del contrasto della criminalità in generale, anche grave, e di salvaguardia della sicurezza pubblica.
Nella giurisprudenza precedente, la Corte aveva peraltro avuto modo di chiarire – a proposito della distinzione tra contrasto della “criminalità particolarmente grave” e salvaguardia della “ sicurezza nazionale”- che quest’ultima corrisponde “all’interesse primario di tutelare le funzioni essenziali dello Stato e gli interessi fondamentali della società, mediante la prevenzione e la repressione delle attività tali da destabilizzare gravemente le strutture costituzionali, politiche, economiche o sociali fondamentali di un paese, e in particolare da minacciare direttamente la società, la popolazione o lo Stato in quanto tale, quali le attività di terrorismo” (sentenza del 20 settembre 2022, SpaceNet punti 92-94).
Essa aveva inoltre rilevato come, diversamente dalla criminalità, anche particolarmente grave, una minaccia per la sicurezza nazionale debba caratterizzarsi per requisiti di concretezza ed attualità o, quantomeno, prevedibilità, desumibili dalla ricorrenza di “circostanze sufficientemente concrete da poter giustificare una misura di conservazione generalizzata e indiscriminata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, per un periodo limitato”. Tali diversità avevano indotto la Corte a rigettare, allora, la tesi della Commissione volta ad equiparare la criminalità particolarmente grave alle minacce per la sicurezza nazionale e ad introdurre una categoria intermedia tra la sicurezza nazionale e la pubblica sicurezza, cui applicare i requisiti inerenti alla prima.
Sotto questo aspetto, dunque, la sentenza del 7 settembre conferma – consolidandolo ulteriormente – l’indirizzo recente della Corte di giustizia europea, che consente la conservazione dei dati di traffico a fini di “giustizia”, solo per fini di contrasto di gravi reati e minacce alla sicurezza pubblica, se:
- in misura generalizzata e preventiva per gli indirizzi IP attribuiti all’origine di una connessione (per un periodo temporalmente limitato allo stretto necessario) e i dati relativi all’identità anagrafica degli utenti di mezzi di comunicazione elettronica;
- in forma “mirata” rispetto ai dati di traffico ed ubicazione, nel rispetto di criteri selettivi obiettivi e non discriminatori, di ordine soggettivo o geografico (tali cioè da evidenziare un nesso funzionale tra i dati e il reato da accertare), per un periodo temporalmente commisurato secondo stretta necessità;
- nella forma del “quick freeze” dei dati di traffico e di ubicazione.
La lettura restrittiva della direttiva sulle comunicazioni elettroniche si fonda, in particolare, sulla convinzione, qui ribadita dalla Corte, secondo cui “la deroga all’obbligo di principio di garantire la riservatezza delle comunicazioni elettroniche e dei dati a queste correlati e, in particolare, al divieto di memorizzare tali dati, espressamente previsto all’articolo 5 di detta direttiva" non possa divenire 'la regola, salvo privare quest’ultima norma di gran parte della sua portata” (punto 33).
2. Il consolidamento dell’interpretazione più recente
Come si è avuto modo di rilevare anche su questa Rivista, tale indirizzo giurisprudenziale segna una distanza significativa con la disciplina interna della data retention, riguardo il criterio di selettività della conservazione. La disciplina nazionale riferisce, infatti, il criterio selettivo al solo momento acquisitivo, concependo il criterio della gravità del reato come idoneo a modulare diversamente la profondità cronologica dell’acquisizione processuale, senza tuttavia incidere ex ante sulla conservazione. Si tratta di una soluzione certamente coerente con la natura “retrospettiva” di questo mezzo di ricerca della prova, che presuppone una conservazione indistinta in vista di un’acquisizione solo eventuale. Inoltre, essa rispecchia la posizione tenuta dalla Corte costituzionale in relazione alla diversa ingerenza, sulla privacy, della data retention, rispetto a quella propria delle intercettazioni, tale da giustificarne in quella prospettiva la differente disciplina (cfr., in particolare, sent. 81 del 1993, che ravvisava nell’acquisizione dei tabulati un’incidenza solo marginale sul diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni di cui all’art. 15 Cost.; posizione che, certo, si inseriva in un contesto sociale assai diverso da quello attuale e si riferiva a ben altre tecnologie).
La posizione della Corte di giustizia è, tuttavia, profondamente diversa e accentua l’impatto significativo della data retention sulla riservatezza di tutti i cittadini (nell’ipotesi, appunto, di una conservazione generalizzata, preventiva e indifferenziata) a prescindere da alcuna connessione con possibili reati.
La disciplina interna sembra, dunque, da rivedere, nella parte in cui, pur a fronte di una differenziazione per titolo di reato in fase acquisitiva presuppone, comunque, la conservazione preventiva e generalizzata dei dati di traffico relativi alla generalità indistinta dei cittadini, a fini di “giustizia”.
Si dovrà, dunque, ipotizzare una distinzione fondata sulla categoria dei dati, con un regime differenziato e meno rigido (tale dunque da ammettere, anche a fini di giustizia, la conservazione preventiva, sia pur per un tempo proporzionato) per quelli relativi all’identità anagrafica degli utenti e agli indirizzi IP.
Dovranno, poi, essere introdotti parametri di ordine soggettivo, spaziale e se del caso di altra natura (purché, appunto, oggettiva e non discriminatoria) tali da far presumere un nesso funzionale del dato con le esigenze investigative, sulla base dei quali procedere alla conservazione mirata dei dati di traffico e relativi all’ubicazione, da utilizzare a fini di contrasto di reati gravi (categoria da definire sempre secondo il principio di proporzionalità).
Si dovrà, inoltre, disciplinare la conservazione rapida e il relativo accesso con la previsione dei presupposti legittimanti e delle relative garanzie, ivi inclusi, probabilmente, procedimenti di convalida di provvedimenti urgenti, adottati per impedire che il decorso del periodo massimo di memorizzazione a fini commerciali vanifichi elementi probatori.
Rientra, invece, nella sfera di legittimità delineata dalla Corte la conservazione dei tabulati ai sensi dell’art. 4 d.l. 144 del 2005, convertito con modificazioni dalla l. 155 del 2005, in quanto funzionale a fini di sicurezza nazionale.
3. L’uso secondario dei dati di traffico
Al consolidamento dell’indirizzo precedente, la sentenza del 7 settembre affianca, tuttavia, anche nuove considerazioni. In particolare, la Corte precisa che l’accesso, così come l’utilizzo – successivo alla messa a disposizione alle autorità competenti per il contrasto della criminalità grave – dei tabulati non possa che avvenire per le stesse finalità e alle stesse condizioni che ne legittimano la conservazione. Una soluzione diversa, ricorda la Corte, può aversi soltanto in presenza di un accesso motivato da obiettivi di rango superiore a quello sotteso alla conservazione dei dati di traffico.
Pertanto, essi “non possono, dopo essere stati conservati e messi a disposizione delle autorità competenti ai fini della lotta alla criminalità grave, essere trasmessi ad altre autorità e utilizzati al fine di realizzare obiettivi, quali, come nel caso di specie, la lotta a una condotta illecita di natura corruttiva, che sono di importanza minore, nella gerarchia degli obiettivi di interesse generale, rispetto a quello della lotta alla criminalità grave e della prevenzione delle minacce gravi alla sicurezza pubblica”.
La Corte ricorda, al proposito, il carattere tassativo degli obiettivi di cui all’articolo 15, paragrafo 1, primo periodo, della direttiva (salvaguardia della sicurezza nazionale, della difesa, della sicurezza pubblica; prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento dei reati, ovvero dell'uso non autorizzato del sistema di comunicazione elettronica), idonei a giustificare una limitazione dei diritti (tra cui quello alla riservatezza) ivi sanciti. Tali limitazioni devono, tuttavia, conformarsi a un criterio di proporzionalità tale per cui solo le ingerenze che non presentano un carattere grave possono essere giustificate dall’obiettivo di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di reati in generale, dal momento che appunto quelle più significative (come la conservazione dei dati di traffico telefonico e telematico) possono legittimarsi solo in ragione dell’esigenza di contrasto della criminalità grave e, per la conservazione generalizzata, della salvaguardia della sicurezza nazionale.
La possibilità per gli Stati membri di giustificare le misure limitative della riservatezza deve essere valutata – ricorda la Corte – considerando l’adeguatezza dell’obiettivo perseguito rispetto alla gravità dell’ingerenza determinata dalla misura limitativa.
La minore importanza dell’esigenza di contrasto di “condotte illecite di natura corruttiva” rispetto a quella di contrasto della criminalità “grave” osta, dunque, ad avviso della Corte, ad ammettere nel caso di specie l’utilizzo secondario di tabulati conservati per fini di contrasto, appunto, di serious crimes.
Tale argomento si affianca, poi, a quello, sviluppato in conclusione nella sentenza, secondo cui “se è vero che le indagini amministrative vertenti su illeciti disciplinari o condotte illecite di natura corruttiva possono svolgere un ruolo importante nella lotta contro tali atti, una misura legislativa che prevede siffatte indagini non risponde in modo effettivo e rigoroso all’obiettivo del perseguimento e della sanzione dei reati, di cui all’articolo 15, paragrafo 1, prima frase, della direttiva 2002/58, il quale riguarda solo azioni penali”.
Tale ultimo rilievo esclude, in linea generale, l’ammissibilità di un uso secondario dei tabulati in procedimenti che non siano penali, così come il precedente la limita – rispetto a dati di traffico, acquisiti dunque in virtù di una misura fortemente incisiva sulla riservatezza - ai procedimenti per “reati gravi”.
Le implicazioni sul diritto interno non sono, anche in questo caso, irrilevanti. La disciplina vigente- art. 132 d.lgs. 196 del 2003, come riformato con il d.l. 132 del 2021- ammette l’acquisizione di tabulati frutto di data retention generalizzata per i soli reati puniti con pene non inferiori, nel massimo, a tre anni e ad alcune specifiche fattispecie, espressive di particolare gravità. Ma alla già indicata esigenza di un ripensamento di questa disciplina sul punto della selettività della conservazione si aggiunge, oggi, l’opportunità di una riflessione estesa al profilo della compatibilità con la gerarchia di interessi sancita dalla Corte e delle condizioni per l’utilizzo secondario dei tabulati.
L’occasione potrebbe essere, forse, la discussione al Senato del disegno di legge, d’iniziativa governativa, recante Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all'ordinamento giudiziario e al codice dell'ordinamento militare (AS 808), nella parte in cui innova la disciplina delle intercettazioni nel segno della garanzia di una maggiore riservatezza delle parti e dei terzi. Forse anche rispetto al tema, non meno complesso, della data retention, sarà possibile coniugare in maniera conforme alle indicazioni europee esigenze investigative e privacy, secondo quella sinergia che caratterizza il rapporto tra libertà e sicurezza nell’art. 6 della Carta di Nizza.
*L’articolo riflettere opinioni personali dell'autrice che non impegnano l'Autorità di appartenenza.
Sommario: I. Introduzione - II. Vicenda processuale - III. Conclusioni.
I. Introduzione
La sentenza del Tribunale di Ivrea potrebbe segnare l’inizio di una serie di provvedimenti, non omogenei, riguardanti la dibattuta questione sul decreto ingiuntivo e la tutela del consumatore contro eventuali clausole abusive e la loro rilevabilità d’ufficio in sede esecutiva. Tale sentenza si discosta nettamente dall’interpretazione fornita dal giudice di legittimità e cioè la Terza sezione, la quale, con ordinanza 29 marzo 2023 n. 8911[1] – pochi giorni prima della nota sentenza delle Sezioni Unite – tentava di delimitare il più possibile i poteri del giudice dell’esecuzione, al fine di ripristinare una sorta di “certezza del diritto” limitando possibili strumentalizzazioni dei principi di diritto sanciti dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, trasformando così il processo esecutivo in un processo di (ulteriore) cognizione[2].
Al contrario, il giudice dell’esecuzione di Ivrea sembra aver adottato un’interpretazione opposta, non solo rispetto all’ordinanza poc’anzi menzionata, ma anche rispetto alla sentenza 6 aprile 2023 n. 9479 delle Sezioni Unite[3].
Infatti, il giudice di merito di Ivrea ha stabilito che il consumatore può utilizzare lo strumento dell’opposizione tardiva anche qualora il decreto ingiuntivo sia stato opposto ex art. 645 c.p.c. (sic!), ma senza che sia stata dedotta alcuna clausola abusiva, assegnando al debitore un termine per proporre opposizione tardiva: così estendendo a tale fattispecie ai principi di diritto contenuti nella sentenza delle Sezioni Unite.
II. Vicenda processuale
A seguito del rigetto dell’opposizione a decreto ingiuntivo, il debitore esecutato depositava, nell’ambito della procedura esecutiva, una memoria chiedendo la concessione di un termine di 40 giorni per proporre opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c., deducendo l’abusività, e la conseguente nullità, della clausola derogatoria dell’art. 1957 c.c. contenuta nel contratto di fideiussione posto a sostegno dell’azione monitoria.
La parte, con la memoria, chiedeva al giudice dell’esecuzione: «1) provvedere, nelle forme proprie del processo esecutivo, ad una sommaria istruttoria funzionale in ordine all’assenza della motivazione del decreto ingiuntivo in riferimento al profilo dell’abusività delle clausole che abbiano effetti sull’esistenza e/o sull’entità del credito appetto del decreto ingiuntivo; 2) qualora la presenza di quanto sopra esposto risulti già evidente in base agli elementi di diritto e fatto già in atti – all’esito di tale controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole – informare le parti e avvisare il debitore esecutato che entro 40 giorni potrà proporre opposizione a decreto ingiuntivo ex art. 650 c.p.c. per far accertare (solo ed esclusivamente) l’eventuale abusività delle clausole, con effetti sull’emesso decreto ingiuntivo; 3) non procedere alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito sino alle determinazioni del Giudice dell’opposizione tardiva sull’istanza ex art. 649 c.p.c. del debitore consumatore. Si insta, pertanto, affinché l’esperimento di vendita fissato per il giorno 27 giugno 2023 così come da avviso emesso dal Professionista Delegato venga sospeso in attesa dei provvedimenti che saranno adottati nell’ambito del giudizio di opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. dal Giudice dell’opposizione su richiesta ex art . 649 c.p.c. il cui eventuale provvedimento di sospensione avrà effetti sulla presente procedura esecutiva ai sensi dell’art. 623 c.p.c. considerato come la parte debitrice, a sostegno dell’istanza formulata, abbia dedotto la nullità della clausola contenuta al punto 5) del contratto di fideiussione posto a sostegno dell’azione monitoria, laddove prevede la deroga al disposto dell’art. 1957 c.c. In quanto si porrebbe “in contrasto con le disposizioni di cui agli artt. 33 e 34 comma quarto del Codice del Consumo”, richiedendo l’assegnazione del termine per proporre opposizione ex art. 650 c.p.c. al fine di dedurre la predetta nullità e conseguentemente eccepire la decadenza per non aver proposto entro il termine di sei mesi le azioni nei confronti della società debitrice principale».
Il giudice, accogliendo la richiesta del debitore esecutato, osserva come la Suprema Corte «nel dare seguito (…) a pronunce della Corte di Giustizia, abbia affermato che nel contratto di fideiussione, i requisiti soggettivi per l’applicazione della disciplina consumeristica devono essere valutati con riferimento alle parti di esso, senza considerare il contratto principale, come affermato dalla giurisprudenza unionale (CGUE, 19 novembre 2015, in causa C-74/15, Tarcau, e 14 settembre 2016, in causa C-534/15, D.), dovendo pertanto ritenersi consumatore il fideiussore persona fisica che, pur svolgendo una propria attività professionale (o anche più attività professionali), stipuli il contratto di garanzia per finalità estranee alla stessa, nel senso che la prestazione della fideiussione non deve costituire atto espressivo di tale attività, né essere strettamente funzionale al suo svolgimento (cd. atti strumentali in senso proprio)».
Considerato, quindi, che alla luce dei principi stabiliti sia dalla CGUE che dalle Sezioni Unite, pur riservando al giudice della cognizione ex art. 650 c.p.c. ogni valutazione sull’applicabilità dei «predetti principi anche all’ipotesi di giudicato formatosi a cognizione piena a seguito di opposizione avverso il decreto ingiuntivo laddove la nullità non sia stata dedotta dalla parte e/o rilevata dal giudice, nonché ogni valutazione correlata alla specifica natura della censura svolta e alla conseguente ipotetica decadenza del creditore» ex art. 1957 c.c., deve essere concesso alla parte istante il termine per proporre opposizione tardiva al decreto ingiuntivo (sebbene già opposto in sede monitoria).
III. Conclusioni
Le Sezioni Unite, non hanno affrontato esplicitamente il problema affrontato dal Tribunale di Ivrea, ovvero, se il superamento del giudicato recato da un provvedimento giurisdizionale divenuto definitivo si imponga, al fine di proteggere la parte più debole del rapporto, anche all’esito del giudizio a cognizione piena, oltreché «nel caso del decreto ingiuntivo non opposto (in cui a venire in rilievo, come giustamente rilevato dalla dottrina, non è tanto un problema di giudicato quanto il sistema di accertamento basato su preclusioni proprio di questo rito con prevalente funzione esecutiva)»[4].
Esistono opinioni contrastati sull’argomento. Un’opinione sostiene che l’interpretazione della CGUE sulla Direttiva 93/13/CEE debba essere applicata non solo ai decreti ingiuntivi non opposti, ma anche alle decisioni emesse nel contesto di un processo a cognizione piena, coerentemente con l’orientamento secondo cui il giudice nazionale deve sempre rilevare d’ufficio l’applicabilità di detta direttiva ad un determinato contratto, anche in caso di contumacia del consumatore[5]. La seconda, ritiene invece che il controllo officioso sull’abusività delle clausole in sede esecutiva non sia più possibile a seguito del processo a cognizione piena, anche in caso di contumacia del consumatore, dovendosi applicare la giurisprudenza secondo cui il giudice non può e non deve supplire alla completa inerzia del consumatore[6].
A prima lettura, la soluzione prospettata dal giudice dell’esecuzione di Ivrea può sollevare alcune preoccupazioni soprattutto per il possibile abuso da parte di avvocati, consumatori e finanche giudici dell’esecuzione, che, data la generale “incertezza del diritto” potrebbero cercare – a ragion veduta per i consumatori e i loro difensori (non per i giudici) – di rimettere in discussione rapporti che, precedentemente al 17 maggio 2022, sarebbero stati considerati definitivi. Se la CGUE afferma che il giudice dell’esecuzione, in quanto giudice, può rilevare le nullità di protezione a vantaggio del consumatore, le Sezioni Unite hanno fatto riferimento alle sole ipotesi del decreto ingiuntivo non opposto, individuando una sorta di compromesso con la CGUE, ma comunque prevedendo l’opposizione tardiva solo nei casi in cui l’opposizione non sia già stata esperita e rigettata[7].
La sentenza del Tribunale di Ivrea non prospetta un futuro tranquillo e senza interrogativi per i Tribunali italiani e per la Suprema Corte, che inevitabilmente si troverà nuovamente a pronunciarsi sulla questione, con nuovi contrasti giurisprudenziali, tanto fra i giudici di merito nazionali quanto tra le singole Sezioni in Cassazione. Inoltre, la sentenza evidenzia un susseguirsi di «errori» interpretativi che, a nostro avviso, derivano – non tanto dalla domanda di rinvio pregiudiziale del g.e. di Milano che ha dato luogo alla sentenza della CGUE – quanto piuttosto dalla decisione della Corte di cassazione che ha consolidato con la sua giurisprudenza pluridecennale il fatto che il decreto ingiuntivo non opposto fosse dotato della stabilità di giudicato, non solo formale, ma anche quella sostanziale prevista dall’art. 2909 c.c.[8]. Sempre più evidente sembra essere la correttezza della tesi, del tutto minoritaria, di Enrico Redenti sulla preclusione pro iudicato[9], che nient’altro significa se non che la stabilità della prestazione oggetto del decreto ingiuntivo non copre l’intero rapporto contrattuale, poiché il giudice in sede monitoria non effettua alcun accertamento sul rapporto contrattuale ma si limita a verificare i requisiti dell’art. 633 c.p.c.
La questione, insomma, è ancora aperta, e soggetta ad evoluzioni insospettabili.
[1] Si v., se si vuole, la breve segnalazione Latini Vaccarella, La Terza sezione e la rilevabilità d’ufficio delle clausole abusive a tutela del consumatore (a proposito di ord. 29 marzo 2023 n. 8911 e di Sez. Un. 6 aprile 2023 n. 9479), in www.judicium.it, 2023.
[2] Si segnalano le Sezioni Unite del 2019 che sul punto erano chiarissime, Cass., S.U., 23 luglio 2019, n. 19889: «La contestazione del diritto ad agire in via esecutiva non integra, in senso tecnico, un'impugnazione del titolo posta a base del precetto e, così dell'esecuzione che sull'uno e sull'altro si minaccia. Nel caso di titolo esecutivo giudiziale, infatti, con l’opposizione non si può giammai addurre alcuna contestazione su fatti anteriori alla sua formazione o alla sua definitività, poiché quelle avrebbero dovuto dedursi esclusivamente coi mezzi di impugnazione previsti dall'ordinamento contro di quello, mentre quelle per fatti posteriori alla definitività o alla maturazione delle preclusioni per farli valere in quella sede non integrano, a stretto rigore, un'impugnazione del titolo, ma appunto l'articolazione di fatti di cui quello non ha legittimamente potuto tener conto e per la cui omessa considerazione non potrebbe mai considerarsi inficiato: ed in entrambi i casi non può tecnicamente impugnarsi un titolo per un vizio non suo proprio». In dottrina si v. i commenti di: Conte, Sezioni unite e reclamabilità dell’ordinanza ex art. 615, 1 comma, c.p.c., in Giur. it., 2019, 2411-2416; Felloni, Reclamabilità della decisione sulla sospensiva in sede di opposizione a precetto, in Giur. it., 2019, 2416-2420.
[3] Si v. Capponi, Il G.E. e la Cass., SS.UU., 6 aprile 2023, n. 9479, in www.judicium.it, 2023; Id., Primissime considerazioni su SS.UU 6 aprile 2023 n. 9479, in www.giustiziainsieme.it, 2023; Consolo, Istruttoria monitoria “ricarburata” e, residualmente, opposizione tardiva consumeristica “rimaneggiata” (specie) su invito del g.e., in Giur. it., V, 2023, 1054-1060; D’Alessandro, Dir. 93/13/CEE e decreto ingiuntivo non opposto: le Sez. un. Cercano di salvare l’armonia (e l’autonomia) del sistema processuale nazionale attraverso una lettura creativa dell’art. 650 c.p.c., in Giur. it., V, 1060-1068; Morotti, Nullità di protezione e decreto ingiuntivo: poteri del giudice e (assenza di) giudicato, in Il Quotidiano Giuridico, 2023.
[4] Morotti, Nullità di protezione rilevabile anche dopo il rigetto dell’opposizione a d.i., in Il Quotidiano Giuridico, 2023. Tra le primissime segnalazioni De Santis, L’opposizione tardiva “consumeristica” dopo – e oltre – i dicta delle Sezioni Unite n. 9479/2023 (Tribunale Ivrea, 16 Maggio 2023), in www.judidium.it, 2023.
[5] Si v. Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza del 17 maggio 2018, Karel de Grote – Hogeschool Katholieke Hogeschool Antwerpen VZW v. Susan Romy Jozef Kuijpiers, C-147/16, ECLI:EU:C:2018:320. In dottrina Rasia, Giudicato, tutela del consumatore, ruolo del giudice in sede monitoria ed esecutiva, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2023, 63 ss.
[6] D’Alessandro, Una proposta per ricondurre a sistema le conclusioni dell’avv. Gen. Tanchev, in Giur. it., 2022, 541 ss. A tale proposito si deve segnalare lo scritto di De Stefano, in www.giustiziainsieme.it, 2023 al punto 6.13 che qui si riporta integralmente: «può così ribadirsi che, qualora a base di una qualunque azione esecutiva sia posto un titolo esecutivo giudiziale, il giudice dell’esecuzione non può effettuare alcun controllo intrinseco sul titolo, diretto cioè ad invalidarne l’efficacia in base ad eccezioni o difese che andavano dedotte nel giudizio nel cui corso è stato pronunziato il titolo medesimo, potendo controllare soltanto la persistenza della validità di quest’ultimo e quindi attribuire rilevanza solamente a fatti posteriori alla sua formazione o, se successiva, al conseguimento della definitività (salvo il caso dell’incolpevole impossibilità, per il debitore, di farli valere in quella unica competente sede)”».
[7] Ad esempio, le recenti Sezioni Unite del 13 gennaio 2022 n. 927 avevano statuito che l’opposizione prevista dall’art. 645 c.p.c. è un ordinario giudizio sulla domanda del creditore che si svolge in prosecuzione del procedimento monitorio, non quale giudizio autonomo, ma come fase ulteriore – anche se eventuale – del procedimento iniziato con il ricorso per ottenere il decreto ingiuntivo. Non si tratta di un actio nullitatis o un’azione di impugnativa nei confronti dell’emessa ingiunzione.
[8] In dottrina Valitutti e De Stefano, Il decreto ingiuntivo e l’opposizione, Padova, 2013. Tra i più recenti arresti della Suprema Corte si vedano: Cass. civ., Sez. I, sent. 27 gennaio 2014 n. 1650: « In assenza di opposizione, il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato formale e sostanziale solo nel momento in cui il giudice, dopo averne controllato la notificazione, lo dichiari esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c.; tale funzione si differenzia dalla verifica affidata al cancelliere dall’art. 124 o dall’art. 153 disp. att. c.p.c. e consiste in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all’interno del processo d’ingiunzione e a cui non può surrogarsi il giudice delegato in sede di accertamento del passivo»; Cass. civ., Sez. II, ord. 24 marzo 2021 n. 8299: «L’efficacia di giudicato del decreto ingiuntivo non opposto non viene meno di per sé a seguito dell’opposizione tardivamente proposta, così come il passaggio in giudicato dello stesso non è impedito – o revocato – dalla sua impugnazione con la revocazione straordinaria o l’opposizione di terzo (art. 656 c.p.c.), rimedi straordinari per loro natura proponibili avverso sentenze passate in giudicato, l’assoggettamento ai quali del decreto ingiuntivo in tanto ha ragione di esistere in quanto l’esaurimento della esperibilità di quelli ordinari ha già dato luogo al giudicato, che non è inciso, in definitiva, dalla mera opposizione tardiva»; Cass. civ., Sez. II, sent. 4 novembre 2021, n. 31636: «Il decreto ingiuntivo divenuto inoppugnabile, che abbia ad oggetto la condanna al pagamento di prestazioni fondate su un contratto a monte, preclude all'intimato la possibilità di invocare, in un diverso giudizio, la nullità del contratto o di specifiche sue clausole, atteso che il giudicato, coprendo il dedotto e il deducibile, si estende anche all’insussistenza di cause di invalidità (c.d. giudicato per implicazione discendente), ancorché diverse da quelle fatte valere nel processo definito con sentenza irrevocabile». Si v. anche la giurisprudenza sul giudicato civile: Cass. civ., Sez. lavoro, sent. 16 agosto 2012 n. 14535, Cass. civ., Sez. lavoro, sent. 23 febbraio 2016 n. 3488 e Cass. civ., Sez. lavoro, ord. 30 ottobre 2017 n. 25745: «Il giudicato copre il dedotto e il deducibile in relazione al medesimo oggetto e, pertanto, riguarda non solo le ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio ma anche tutte le possibili questioni, proponibili in via di azione o eccezione, che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari, della pronuncia»; Cass. civ. Sez. I, ord. 9 novembre 2022 n. 33021: «L’ambito di operatività del giudicato, in virtù del principio secondo il quale esso copre il dedotto e il deducibile, è correlato all'oggetto del processo e colpisce, perciò, tutto quanto rientri nel suo perimetro, incidendo, da un punto di vista sostanziale, non soltanto sull'esistenza del diritto azionato, ma anche sull'inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi, ancorché non dedotti, senza estendersi a fatti ad esso successivi e a quelli comportanti un mutamento del “petitum” e della “causa petendi”, fermo restando il requisito dell'identità delle persone». In dottrina si v. anche Luiso, Contro il giudicato implicito, in www.judicium.it, 2019.
[9] Redenti, Profili pratici del diritto processuale civile, Milano, 1938, 135-137; Id., Diritto processuale civile, Milano, 1999, spec. 91-92. Contra Garbagnati, Preclusione pro iudicato e titolo ingiuntivo, in Studi in onore di Enrico Redenti, I, Milano, 1951, 467-483 così anche A. A. Romano, Il procedimento europeo di ingiunzione di pagamento. Regolamento (CE) N. 1896/2006, del 12 dicembre 2006, Milano, 2009, spec. 161-173.
Sommario: 1. La vicenda. – 2. L’accertamento incidentale dell’illegittimità a soli fini risarcitori. – 3. Della responsabilità della p.a. da provvedimento illegittimo e dei presupposti costitutivi. – 4. Del danno ingiusto e del danno-conseguenza. – 5. Dell’onere della prova gravante sul danneggiato. – 6. Brevi considerazioni conclusive.
1. La vicenda.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza del 27 marzo 2023, n. 3094 torna nuovamente a occuparsi della responsabilità civile della p.a., ribadendone la natura extracontrattuale e chiarendo presupposti e limiti dell’azione di risarcimento del danno da illegittimo esercizio della funzione pubblica, per lesione di interesse legittimo.
La questione verte su una vicenda risarcitoria intentata dai genitori esercenti la potestà sul figlio minorenne, in particolari condizioni di salute, per il mancato superamento dell’esame conclusivo del primo ciclo d’istruzione per la sessione 2019-2020.
Nel ricorso introduttivo di primo grado, i genitori avevano domandato l’annullamento del provvedimento di mancato superamento dell’esame di Stato conclusivo del primo ciclo d’istruzione da parte del figlio minore, studente privatista, lamentandone l’illegittimità per molteplici motivi, quali: la mancata predisposizione da parte dell’Istituto scolastico di un piano didattico a misura dello studente, che avrebbe al medesimo consentito di prepararsi adeguatamente all’esame, nonché le modalità di svolgimento della prova, in quanto non confacenti alle particolari e delicate condizioni di salute dell’alunno.
Il T.A.R. adito, con decreto cautelare ordinava all’Istituto scolastico resistente di organizzare una nuova prova d’esame per il minore, tenendo in debita considerazione le condizioni di salute dello studente. Quest’ultima veniva superata con esito positivo.
Pertanto, preso atto di ciò, il T.A.R. in camera di consiglio, si pronunciava con sentenza in forma semplificata ex art. 60 c.p.a. dichiarando il ricorso improcedibile in ragione dell’avvenuto superamento dell’esame di Stato da parte del minore.
I genitori presentavano appello avverso la sentenza di prime cure per omessa pronuncia su alcuni motivi d’illegittimità del provvedimento dedotti in primo grado e sulla domanda di risarcimento del danno conseguente, proposta assieme alla principale domanda di annullamento dell’impugnato provvedimento e non esaminata in primo grado.
Pertanto, in sede d’appello, si domandava l’accertamento delle dedotte illegittimità degli atti impugnati al solo fine di conseguire il richiesto risarcimento del danno, avendo, il giudice di primo grado, erroneamente definito il giudizio con pronuncia d’improcedibilità del ricorso.
2. L’accertamento incidentale dell’illegittimità a soli fini risarcitori.
La prima questione d’interesse affrontata nella pronuncia in esame è quella dell’accertamento incidentale dell’illegittimità del provvedimento impugnato a soli fini risarcitori, ai sensi e per gli effetti dell’art. 34, comma 3, c.p.a.
Il Consiglio di Stato, richiamando l’orientamento espresso in una recente sentenza emessa in Adunanza Plenaria[1], ha reputato fondati i motivi d’appello, così come dedotti, in quanto, per procedere all’accertamento dell’illegittimità di un provvedimento, ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a. sarebbe sufficiente aver dichiarato di avervi interesse ai fini risarcitori, nelle forme e nei termini previsti dall’art. 73 c.p.a., non essendo invece necessario specificare i presupposti dell’eventuale domanda risarcitoria, né averla proposta nel medesimo giudizio d’impugnazione.
Pertanto, il giudice di primo grado avrebbe errato nel dichiarare l’improcedibilità del ricorso permanendo l’interesse risarcitorio dei ricorrenti, avendo essi non semplicemente manifestato un interesse risarcitorio nelle forme e nei termini previsti dall’art. 73 c.p.a., bensì espressamente domandato, nel medesimo giudizio, la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni cagionati in conseguenza del suo illegittimo agire.
Deve ritenersi, infatti, che nel caso di improcedibilità della domanda di annullamento per sopravvenuto difetto di interesse perduri ciononostante l’interesse all’accertamento dell’illegittimità del provvedimento al fine della tutela risarcitoria per equivalente quando il danno sia ascrivibile al provvedimento amministrativo stesso, purché l’interesse risarcitorio sia stato debitamente manifestato, con apposita domanda, presentata nel medesimo giudizio impugnatorio, oppure anche in via autonoma.
E invero, la peculiare fattispecie di cui all’art. 34, comma 3, c.p.a. riconosce al Giudice amministrativo, la possibilità di procedere a un mero accertamento incidentale dell’illegittimità del provvedimento impugnato, ancorché sia venuto meno l’interesse alla pronuncia di merito, ove permanga il differente e conseguente interesse alla condanna della p.a. a fini risarcitori.
L’accertamento incidentale dell’illegittimità del provvedimento previamente impugnato è, infatti, meramente strumentale alla condanna risarcitoria della p.a., senza costituire oggetto di un autonomo giudizio.
Il che è diretta conseguenza del riconoscimento della questione di legittimità come mera pregiudiziale logica[2], o sostanziale[3], se si preferisce, ai fini della condanna risarcitoria, essendosi ormai superata, con il codice del processo amministrativo, quella concezione rigorosa della pregiudiziale amministrativa, almeno per il profilo processuale, avendo il legislatore adottato una soluzione c.d. temperata che consente, con determinati limiti, di rendere autonoma l’azione risarcitoria rispetto a quella caducatoria (artt. 30 e 34, comma 3, c.p.a.).
E invero, l’azione di condanna prevista dall’art. 30 c.p.a. pone una regola di carattere generale: l’azione di condanna è proposta contestualmente ad altra azione e, in via d’eccezione, anche in via autonoma «nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo»[4].
L’azione di condanna, dunque, pur nella sua configurazione autonoma, assume una connotazione normalmente sussidiaria rispetto a quella di annullamento[5].
Pertanto, non si può escludere che un accertamento mero dell’illegittimità del provvedimento amministrativo sia ammissibile quandanche – come accaduto nel caso di specie – il ricorrente abbia ottenuto una tutela in forma specifica in conseguenza di un nuovo esercizio della funzione amministrativa che, sebbene conseguente all’adozione della misura cautelare con cui il G.A. di prime cure abbia ordinato all’amministrazione resistente in giudizio di riesaminare la situazione sulla base di parametri e criteri dallo stesso indicati, si sia poi rivelata essere satisfattiva dell’interesse legittimo pretensivo vantato dal ricorrente medesimo.
In tali casi, infatti, non è da escludere la permanenza di un interesse a fini risarcitori, purché manifestato con apposita domanda, potendo residuare in capo al ricorrente la possibilità di vedersi risarcire il danno ingiusto, cagionato in conseguenza del ritardo con cui si è ottenuto il provvedimento favorevole[6], oppure l’eventuale perdita di chance, nella diversa ipotesi in cui non sia possibile accertare con certezza la spettanza del bene della vita in capo al ricorrente, potendo il danno patrimoniale liquidarsi previo accertamento di una probabilità seria e concreta o di una elevata probabilità di conseguire il bene anelato[7].
Presupposto per il riconoscimento della risarcibilità del danno conseguente all’illegittimo esercizio della funzione amministrativa è dato, chiaramente, dal previo accertamento della responsabilità in capo alla p.a., «non [essendo] possibile far valere in giudizio un debito o un credito senza sottoporre contestualmente a decisione l’intero rapporto»[8].
3. Della responsabilità della p.a. da provvedimento illegittimo e dei presupposti costitutivi.
Affinché il giudice amministrativo possa procedere nell’azione di risarcimento dei danni, il medesimo dovrà accertare la presenza degli elementi richiesti dalla fattispecie risarcitoria in via diretta ed autonoma, senza poter acquisire fatti rilevanti ai fini (della prova) dell’illecito, utilizzando il procedimento amministrativo[9].
Ciò sarebbe innanzitutto una diretta conseguenza della qualificazione del processo amministrativo come processo di parti, in ragione dell’ormai prevalente concezione soggettiva del processo amministrativo, che porta a ritenere inammissibile una verifica d’ufficio di qualsivoglia interesse di parte[10].
Di poi, essendo il processo amministrativo ispirato al principio dispositivo (art. 63, comma 1 c.p.a.), pur contemperato dal metodo acquisitivo (art. 64, comma 1, c.p.a.), non potrà non ritenersi, come regola generale, che ai fini dell’accertamento dei fatti incerti gravi sulle parti l’assolvimento dell’onere della prova.
Ciò vale, a maggior ragione nell’ipotesi di azione risarcitoria nei confronti della p.a. per cui è pacificamente ritenuto che incomba sulle parti un onere probatorio pieno, ai sensi dell’art. 2697 c.c., e più in particolare, che competa alla parte lesa l’onere di allegare e provare i fatti oggetto di prova, essendo essi ritenuti nella disponibilità del ricorrente, in ragione del principio della vicinanza della prova.
Pertanto, se ai fini della prosecuzione del giudizio per finalità risarcitorie, divenuta inutile la tutela demolitoria a causa di sopravvenienze di fatto o di diritto, potrà reputarsi sufficiente l’avvenuta manifestazione dell’interesse risarcitorio da parte del ricorrente, previa proposizione di specifica domanda, finanche in via autonoma e in un successivo giudizio, purché ciò avvenga nel rispetto del termine di centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di mera improcedibilità del ricorso, non potrà certamente escludersi, ai fini del riconoscimento effettivo della tutela risarcitoria, che il giudice amministrativo accerti positivamente l’esistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie in esame.
Di conseguenza, il Consiglio di Stato, nel caso di specie, ai fini dell’accertamento nel merito della fondatezza o dell’infondatezza della pretesa risarcitoria, ha sentito nuovamente l’esigenza di ripercorrere le tesi prospettate dalla giurisprudenza sulla natura della responsabilità della p.a.[11], per ribadirne la natura extracontrattuale e scolpirne i tratti e gli elementi costitutivi.
In particolare, il Consiglio di Stato è ritornato sulle ragioni poste a fondamento della qualificazione extracontrattuale, o da fatto illecito ex art. 2043 c.c., della responsabilità civile della pubblica amministrazione, ribadendo che sia da escludere la possibilità di configurare un rapporto obbligatorio nell’ambito di un procedimento amministrativo, per due fondamentali ragioni: la prima, che nel procedimento amministrativo, a differenza del rapporto obbligatorio, sussisterebbero due situazioni attive, il potere della P.A. e l’interesse legittimo del privato; la seconda, che il rapporto tra le parti non è paritario, ma di supremazia della P.A[12].
A tali ragioni, basterebbe certamente aggiungerne un’altra dirimente, ossia che il potere amministrativo è un potere discrezionale, e come tale, non consentirebbe di ricondurre l’attività autoritativa della p.a. a una obbligazione, perché quandanche l’esercizio del potere amministrativo possa dirsi doveroso, l’Amministrazione non potrà mai esser “obbligata”, alla stregua di un debitore, ad eseguire una determinata e specifica obbligazione. Pertanto, non sarebbe configurabile un vincolo obbligatorio a carico della p.a. che agisce nell’esercizio della propria funzione.
Portando avanti il ragionamento e considerando sempre le caratteristiche del potere amministrativo – in particolare l’unilateralità – si dovrebbe convenire che una delle principali ragioni che giustificherebbe il risarcimento del danno ingiusto al privato per esercizio illegittimo della funzione amministrativa, sarebbe quella per cui l’azione della p.a. sia per definizione predisposta ad arrecare un pregiudizio alla situazione soggettiva del privato, posto che la sua essenza è data dalla possibilità di incidere unilateralmente su di essa, senza il consenso del privato. Il perseguimento (legittimo) dell’interesse pubblico, infatti, giustifica sul piano giuridico il sacrificio della posizione del privato; cosa che non sarebbe concepibile in un rapporto paritario. In tale ottica, pertanto, solamente la presenza di un’azione legittima consentirebbe di escludere l’illiceità (ma non la dannosità, se si vuole) dell’azione amministrativa per il privato, fosse anche solo per le conseguenze patrimoniali che ne sono derivate.
La qualificazione della responsabilità della p.a. da esercizio illegittimo della funzione amministrativa in termini extracontrattuali, come noto, è risalente alla celeberrima sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unte n. 500 del 22 luglio 1999, che ne ha sancito la costruzione teorica fondata sul riconoscimento del carattere primario della norma di cui al 2043 c.c., e dunque, su una nozione ampia di «danno ingiusto» che ha consentito il riconoscimento della risarcibilità anche degli interessi legittimi, alla stregua dei diritti soggettivi[13].
Questa ricostruzione, come è stato più volte ribadito dalla dottrina, anche recente[14], appare certamente preferibile rispetto alla diversa qualificazione della responsabilità della p.a. in termini di illecito contrattuale, o da contatto qualificato, non solo per l’evidente forzatura con cui il rapporto giuridico amministrativo sarebbe da ricondurre a un rapporto obbligatorio, piuttosto anche per l’inutilità di tale costruzione teorica ai fini dell’ampliamento dei margini di effettività della tutela da riconoscere al privato nei confronti dell’amministrazione.
Infatti, è stato chiaramente evidenziato[15] come lo sforzo profuso, soprattutto dalla recente giurisprudenza, nella riconduzione della responsabilità della p.a. al modello della responsabilità contrattuale, finanche nell’ambito del rapporto di diritto pubblico, non gioverebbe comunque al privato, che vedrebbe oltremodo ridotti i margini di tutela essendo, ad esempio, esclusa la risarcibilità dei danni imprevedibili, ai sensi e per l’effetto dell’applicazione dell’art. 1225 c.c., bensì anche perché tale ricostruzione teorica richiederebbe un maggior rigore nell’apprezzamento dei danni, o meglio nella quantificazione del pregiudizio risarcibile.
Infine, nel rispetto del principio della certezza del diritto, e dunque del principio di legalità, non dovrebbe trascurarsi il dato normativo che, sebbene posto nella disciplina del codice del processo amministrativo, appare abbastanza chiaro nel richiamare concetti impiegati nel codice civile in materia di responsabilità extracontrattuale, oltre che porre un formale rinvio all’art. 2058 c.c. per il risarcimento in forma specifica. Si allude, evidentemente, agli artt. 7 e 30 c.p.a.
Di conseguenza, la riconduzione della responsabilità della p.a. da esercizio illegittimo della funzione al modello della responsabilità extracontrattuale, imporrebbe l’accertamento di tutti gli elementi costitutivi la fattispecie dell’illecito aquiliano, ossia: fatto causativo del danno ingiusto (consistente nel provvedimento illegittimo o nel mancato doveroso esercizio della funzione pubblica), il nesso di causalità c.d. materiale (da accertarsi ai sensi degli artt. 40 e ss. c.p.), il danno ingiusto, l’elemento soggettivo, il nesso di causalità c.d. giuridica (con applicazione degli artt. 1223 c.c. e ss.) e, infine, il danno conseguenza, sia esso patrimoniale o non patrimoniale.
È ben evidente, pertanto, che l’applicazione del 2043 c.c. all’esercizio dell’attività funzionale della p.a. non avvenga automaticamente, imponendo l’accertamento del fatto giuridicamente rilevante la conoscenza da parte dell’organo giudicante del tratto autoritativo dell’azione amministrativa.
Pertanto, come detto, il riconoscimento della responsabilità della p.a., ai sensi dell’art. 2043 c.c., passa per il sindacato, anche in via incidentale, sulla funzione amministrativa, necessario per poter ascrivere l’operato della p.a. all’attributo di «fatto causativo di un danno ingiusto».
Tutti questi elementi, compete al ricorrente danneggiato allegarli e provarli, sebbene con alcuni contemperamenti e accorgimenti che la stessa giurisprudenza ha elaborato nel corso del tempo al fine di evitare che l’onus probandi gravante sul ricorrente possa trasformarsi in una probatio diabolica[16].
L’interesse risarcitorio, dunque, sussisterebbe solo se il giudice amministrativo accerti positivamente l’esistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito con la conseguenza che il giudice potrebbe anche non esaminare i profili di illegittimità del provvedimento in caso di accertata mancanza anche di uno solo degli elementi dell’illecito, posto che ognuno di essi assumerebbe valore assorbente[17].
4. Del danno ingiusto e del danno-conseguenza.
La ricostruzione della responsabilità civile della p.a. in termini di illecito aquiliano pone, come problema centrale, quello dell’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio, diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui la valutazione sull’ingiustizia del danno sarebbe assorbita dalla violazione della regola contrattuale.
E invero, seguendo il consolidato orientamento giurisprudenziale, il Consiglio di Stato si è soffermato sul requisito dell’ingiustizia del danno, ribadendo che l’ingiustizia che fonda la responsabilità della p.a. da esercizio illegittimo della funzione si correli alla dimensione sostanzialistica dell’interesse legittimo, per cui ferma la qualificazione della fattispecie risarcitoria di cui all’art. 2043 c.c. come previsione aperta alla tutela di qualsiasi interesse protetto dall’ordinamento, trattandosi di norma primaria, non sarebbe possibile una indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale, dovendo piuttosto accertarsi che dall’illegittimo esercizio della funzione pubblica sia derivata al privato una lesione della propria sfera giuridica.
Il danno ingiusto, dunque, andrebbe inteso come danno non iure e contra ius che consentirebbe la risarcibilità di un interesse legittimo solo qualora l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, bene che quest’ultimo avrebbe dovuto mantenere o ottenere, secondo la dicotomia esistente fra interessi legittimi oppositivi e pretensivi.
Questa concezione riecheggia la costruzione del modello di responsabilità extracontrattuale operata dalla storica sentenza della Cassazione a sezioni unite n. 500/1999, in virtù della quale potrebbe pervenirsi al risarcimento del danno soltanto se l’attività illegittima della P.A. abbia determinato la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, bene che risulta meritevole di protezione alla stregua dell’ordinamento.
Pertanto, stando a questa ricostruzione teorica, la lesione dell’interesse legittimo sarebbe condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorrerebbe altresì che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima (e colpevole) della P.A., l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo.
Di conseguenza, per quanto concerne gli interessi legittimi oppositivi, potrà ravvisarsi danno ingiusto nel sacrificio dell’interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio conseguente all’illegittimo esercizio del potere; per ciò che attiene agli interessi pretensivi dovrà, invece, vagliarsi la consistenza della protezione che l’ordinamento riserva alle istanze di ampliamento della sfera giuridica del pretendente. Valutazione che implica un giudizio prognostico sulla fondatezza o meno della istanza, per stabilire se il ricorrente sia titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione meritevole di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva.
Pertanto, ancora una volta, punctum prueris della questione è la relazione intercorrente fra bene della vita perseguito dal cittadino e interesse legittimo, ai fini dell’individuazione del danno risarcibile.
Come noto, questa impostazione non mette d’accordo la dottrina amministrativistica[18], in quanto la ricostruzione della responsabilità della p.a. per attività provvedimentale illegittima dipende dalla concezione stessa di interesse legittimo[19].
Infatti, per i sostenitori della tesi sostanziale[20], l’interesse legittimo consisterebbe in quella situazione giuridica soggettiva correlata all’esercizio del potere della pubblica amministrazione e tutelata in maniera diretta dalla stessa norma attributiva del potere medesimo, che attribuirebbe al privato una serie di poteri e facoltà volti a influire, per quanto possibile, sull’esercizio del potere amministrativo allo scopo di conservare o acquisire un bene della vita. Ragion per cui, configurando l’interesse legittimo come quella posizione di vantaggio riservata ad un determinato soggetto in relazione a un determinato bene della vita interessato dal potere pubblicistico[21], il baricentro per la ricostruzione dell’interesse legittimo si sposterebbe dal collegamento con l’interesse pubblico, a quello con l’utilità finale o “bene della vita” che il soggetto mira a conservare o a conseguire[22].
Diversamente, secondo autorevole dottrina[23], dell’interesse legittimo dovrebbe perpetrarsi una concezione strumentale, posto che lo stesso andrebbe definito come quella situazione giuridica soggettiva, manifestazione dell’interesse all’esito favorevole del esercizio del potere precettivo della p.a., tutelato mediante facoltà di collaborazione dialettica, dirette a influire sul merito della decisione amministrativa ed esperibili lungo tutto il corso dell’esercizio del potere e dello svolgimento della funzione amministrativa.
Pertanto, secondo questa diversa teorica, la ricostruzione dell’ingiustizia del danno basata sulla lesione del bene della vita, non farebbe che negare ciò che in nuce vorrebbe affermare, ossia la risarcibilità dell’interesse legittimo[24].
Stando alla ricostruzione della giurisprudenza amministrativa prevalente, tuttavia, la lesione dell’interesse legittimo non sarebbe da sola sufficiente (danno contra ius) essendo essenziale, ai fini della configurazione della responsabilità, che l’evento dannoso leda ingiustamente una situazione giuridica soggettiva protetta dall’ordinamento (danno non iure datum); pertanto, occorrerebbe verificare che sia leso, per effetto dell’attività illegittima e colpevole della p.a., il bene della vita cui il soggetto aspirava.
Di conseguenza, sarebbe la lesione del bene della vita a qualificare, in termini d’ingiustizia, il danno derivante da provvedimento illegittimo[25].
E quindi, il nodo della questione si sposta necessariamente più a valle, dovendo il giudice amministrativo, ai fini della risarcibilità del danno, compiere un giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita.
Prognosi che impone di verificare la sussistenza di conseguenze dannose, da accertare secondo il distinto regime di causalità giuridica, che prefigura la risarcibilità del danno soltanto quando tali conseguenze si atteggino, secondo un canone di normalità e adeguatezza causale, quale esito immediato e diretto della lesione del bene della vita ai sensi degli artt. 1223 e 2056 c.c.[26].
Giudizio, dunque, di tipo ipotetico e controfattuale, possibile in caso di provvedimenti a bassa discrezionalità o a discrezionalità conformata, invece, altamente opinabile nel caso di attività amministrativa discrezionale.
Non a caso, come ricorda lo stesso Consiglio di Stato, nelle ipotesi in cui non sia possibile accertare con certezza la spettanza del bene della vita in capo al ricorrente, residuerebbe eventualmente la possibilità di risarcire il danno da perdita di chance, previo accertamento di una probabilità seria e concreta o di una elevata probabilità di conseguire il bene sperato, poiché «il danno, per essere risarcibile, deve essere certo e non meramente probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità del risultato utile», livello probatorio minimo, quest’ultimo, che consente di «distingue(re) la chance risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile» (orientamento consolidato a partire da: Consiglio di Stato, sez. V, 2 febbraio 2008 n. 490).
Infine, il risarcimento del danno andrebbe comunque escluso nell’ipotesi in cui, per effetto dell’annullamento del provvedimento amministrativo, non derivi altresì l’accertamento della fondatezza della pretesa, bensì un vincolo conformativo a carico della p.a. a rideterminarsi, senza esaurimento però della discrezionalità ad essa spettante.
5. Dell’onere della prova gravante sul danneggiato.
Scolpiti gli elementi costitutivi dell’illecito, il Consiglio di Stato si sofferma sull’onere della prova gravante sul danneggiato.
In particolare, il danneggiato è chiamato a provare:
- sul piano oggettivo, la presenza di un provvedimento illegittimo causa di un danno ingiusto, con la necessità di distinguere l’evento dannoso, derivante dalla condotta, che coincide con la lesione o compromissione di un interesse qualificato e differenziato, meritevole di tutela nella vita di relazione, e il conseguente pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale scaturitone, suscettibile di riparazione in via risarcitoria;
- sul piano soggettivo, l’integrazione del coefficiente di colpevolezza, con la precisazione che l’accertata illegittimità del provvedimento amministrativo, l’ingiustificata o illegittima inerzia dell’amministrazione o il ritardato esercizio della funzione amministrativa non integrano la colpa dell’Amministrazione.
I maggiori dubbi sorgono proprio in relazione alla ricostruzione dell’onus probandi gravante sul ricorrente circa la sussistenza dell’elemento soggettivo.
E invero, vera l’affermazione di principio per cui, la colpevolezza della p.a. non possa presumersi per la sola illegittimità del provvedimento impugnato, potendo l’illegittimità del provvedimento essere utilizzata come indice presuntivo della colpa della p.a., ai sensi e per gli effetti dell’art. 1227 c.c., il Consiglio di Stato, nel declinare il proprio ragionamento sembra spingersi oltre rispetto a quello che è il prevalente e consolidato orientamento giurisprudenziale, ponendo, a carico del ricorrente, un criterio probatorio più rigoroso ai fini della prova dell’elemento soggettivo.
È noto, infatti, che il giudice amministrativo col tempo, si è in parte discostato dalla tesi posta dalla Cassazione nella storica pronuncia n. 500/1999[27], semplificando in parte il regime probatorio gravante sul ricorrente, relativo all’elemento soggettivo, con lo scopo di contemperare l’asimmetria fra le parti processuali che caratterizza il processo amministrativo[28].
E, infatti, le critiche mosse dalla dottrina[29] al concetto di colpa di apparato, così come configurato dalla Cassazione, percepito come grimaldello per arginare la responsabilità dell’amministrazione, ha portato la giurisprudenza a riconoscere una inversione dell’onere probatorio tale per cui, l’illegittimità dell’atto configurerebbe presunzione semplice di colpa, spettando invece alla p.a. dimostrare di esser incorsa in errore scusabile.
Errore scusabile, configurabile, ad esempio, nelle ipotesi d’incertezza normativa, di novità o di rilevante complessità della questione affrontata, oppure ancora, in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma di riferimento e, infine, nel caso di illegittimità sopravvenuta, derivante da successiva dichiarazione d’incostituzionalità della disposizione normativa applicata[30].
Si deve dare atto, invece, che parte minoritaria della giurisprudenza, cui è da ricondurre la sentenza che si commenta, sembra adottare un criterio interpretativo più rigoroso ai fini della prova della colpa della p.a. a carico del danneggiato e, dunque, ai fini del suo positivo accertamento[31], che sembra di fatto riecheggiare l’orientamento espresso dalla cassazione.
E invero, stando a questo filone giurisprudenziale, per poter affermare la responsabilità extracontrattuale della P.A. derivante dall'adozione di un provvedimento illegittimo, sarebbe necessario che il danneggiato dimostri, ex art. 2969 c.c., la sussistenza di tutti gli elementi previsti dall’art. 2043 c.c. Per quanto riguarda più propriamente la dimostrazione della colpa, sebbene si ammetta che il danneggiato possa avvalersi della prova presuntiva ai sensi degli artt. 2727 c.c. e 2729 c.c., si ritiene non sufficiente per quest’ultimo, al fine di considerare assolto il suo onere, l’allegazione e la dimostrazione dell’illegittimità del provvedimento causativo del danno, reputandosi invece necessaria la verifica della violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede, cui l'esercizio della funzione pubblica si deve costantemente attenere.
Violazione di regole di condotta che competerebbe al ricorrente provare.
Di conseguenza, al ricorrente non basterebbe far affidamento, ai fini della prova, sull’accertata illegittimità del provvedimento, dovendo invece positivamente provare che il comportamento negligente tenuto dalla pubblica amministrazione sia in palese contrasto con i canoni di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa[32].
Un quid pluris, dunque, che aggraverebbe l’onere probatorio della parte.
Orbene, se così fosse, si compirebbe un passo indietro nel sistema di contemperamento dei contrappesi che faticosamente si è certato di raggiungere per superare le asimmetrie processuali fra le parti, perché ciò significherebbe gravare il ricorrente di una probatio diabolica o, quantomeno, cancellare la prassi consolidata dell’inversione dell’onere della prova, basata sulla dimostrazione dell’errore scusabile, o ridurla a mera fictio, non potendo il ricorrente, nel fornire la prova di tale negligenza con efficacia cogente, che ispirarsi proprio a quei criteri che la giurisprudenza ha elaborato per consentire alla p.a. di dimostrare di essere incorsa in errore scusabile. Dunque verrebbe sostanzialmente eluso il criterio della vicinitas.
6. Brevi considerazioni conclusive.
La sentenza oggetto di analisi, nel voler ribadire quell’orientamento giurisprudenziale maggiormente consolidato che qualifica la responsabilità de esercizio illegittimo della funzione come responsabilità extracontrattuale, si atteggia quasi a “sentenza-scuola”.
Si percepisce, infatti, la chiara intenzione dell’organo giudicante di voler scolpire, in maniera quasi assertiva e minuziosa, gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito aquiliano, per come applicati dalla giurisprudenza maggioritaria all’attività autoritativa illegittima della p.a.
E invero, la soluzione della controversia è vista quasi come un’occasione utile per ripercorrere nel dettaglio la struttura dell’illecito aquiliano, posto che di ciascun elemento è fornita ampia dissertazione, corroborata da una corposa ricognizione dei precedenti giurisprudenziali, anche risalenti, fondativi della tesi ivi sostenuta.
Al di là di questa impressione, si ritiene, tuttavia, al di là di alcuni punti critici nella ricostruzione e concreta applicazione della fattispecie, che si sono segnalati, che la tesi della responsabilità extracontrattuale per esercizio di attività provvedimentale illegittima sia, a sistema vigente, quella più calzante ai fini della configurazione della responsabilità della p.a., ferma, pro futuro, la possibilità, avvertita e suggerita dalla dottrina, di ripensare seriamente il regime della responsabilità della p.a. con un certo grado di autonomia rispetto alla tradizione civilistica[33].
Pertanto, a regime vigente, certamente non è da escludere la possibilità di vedere configurati differenti regimi di responsabilità a carico della p.a. amministrazione per atti (attività) e fatti (comportamenti) non riconducibili (nemmeno mediatamente) all’esercizio illegittimo della funzione pubblica, non perché si possa o si voglia configurare un regime di responsabilità a geometria variabile, piuttosto perché differenti sarebbero i presupposti che giustificherebbero l’applicazione di altre fattispecie normative di riferimento.
Infine, la sentenza è apprezzabile per lo sforzo compiuto ai fini della valorizzazione dell’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella caducatoria, pur nel rispetto del limite sostanziale della sussidiarietà dell’una rispetto all’altra.
[1] Cons. Stato, Ad. Plen., 13 luglio 2022, n. 8. In commento alla Plenaria si veda: A. Scognamiglio, Carenza sopravvenuta d’interesse e interesse alla pronuncia di illegittimità “a fini risarcitori”, in questa rivista.
[2] Per un’accurata ricostruzione della differenza fra fra pregiudizialità logica e pregiudizialità tecnica: R. Tiscini, Itinerari ricostruttivi intorno a pregiudizialità tecnica e pregiudizialità logica, in Giust. civ., 3/2016, 571 ss.
[3] Sulla pregiudizialità amministrativa, senza pretesa di esaustività: G. Falcon, Il giudice amministrativo fra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in Dir. proc. amm., 2001, 287 ss.; E. Follieri, La decorrenza degli effetti nella estensione del giudicato a soggetti estranei alla lite, in Urb. e app., 2009, 347; Id., Il modello di responsabilità per lesione di interessi legittimi nella giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo: la responsabilità amministrativa di diritto pubblico, in Dir. proc. amm., 2006, 18 – 32; R. Villata, Corte di Cassazione, Consiglio di Stato e c.d. pregiudiziale amministrativa, in Dir. proc. amm., 2009, 897–932; Id., Pregiudizialità amministrativa nell’azione risarcitoria per responsabilità da provvedimento?, in Dir. proc. amm., 2007, 271 ss.; F. Cortese, La questione della pregiudizialità amministrativa. Il risarcimento del danno da provvedimento illegittimo tra diritto sostanziale e processuale, Padova, 2007; A. Romano tassone, Morire per la pregiudiziale amministrativa?, in Giust. amm., 2008, 273; L.V. Moscarini, Risarcibilità degli interessi legittimi e pregiudiziale amministrativa, Torino, 2008; E. Barbieri, Considerazioni sui fini della giustizia amministrativa (a difesa della c.d. pregiudiziale amministrativa), in Giust. amm., 2008, 251 – 258; A. Carbone, Pregiudiziale amministrativa e risarcimento del danno, in Giust. amm., 2009, 274 - 284.
[4] E. Follieri, Le azioni di condanna, in Giustizia amministrativa, F. Scoca (a cura di), Torino, 2020, 196 ss. Sui rapporti fra azione caducatoria e azione risarcitoria si veda altresì: M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, ad. plen. 23 marzo 2011 n.3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS. UU.23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in www.federalismi.it, 2011.
[5] Quest’aspetto è stato di recente ribadito dalla dottrina, che ha sottolineato l’importanza di evitare un “ricorso abusivo” alla tutela risarcitoria a discapito di quella caducatoria, non potendo certamente considerarsi la prima un modo alternativo ed equivalente rispetto all’altra per tutelare l’interesse legittimo, snaturandosi, altrimenti, il ruolo del giudice amministrativo e quella che è la sua missione istituzionale (e costituzionale), ossia, assicurare la giustizia nell’amministrazione. Così: F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in questa Rivista, maggio 2021.
[6] Da ultimo, cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 23 aprile 2021, n. 7. In commento alla Plenaria, si veda: E. Zampetti, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione dopo l’Adunanza plenaria n. 7 del 2021, in questa Rivista; in senso critico, invece: A. Palmieri - R. Pardolesi, La responsabilità civile della pubblica amministrazione: così è se vi pare (Nota a Cons. Stato, ad. plen., 23 aprile 2021, n. 7), in Foro it., 2021, 406 ss.
[7] Da ultimo: Cons. Stato, sez. V, 15 novembre 2019, n. 7845; ma si veda anche la ben più risalente pronuncia del Cons. Stato, sez. V, 2 febbraio 2008, n. 490, secondo cui: «il danno, per essere risarcibile, deve essere certo e non meramente probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità del risultato utile» e ciò al fine di poter «distingue(re) la chance risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile».
[8] S. Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, 109.
[9] Così E. Follieri, Le azioni di condanna, op. cit., 200.
[10] A. Scognamiglio, Carenza sopravvenuta d’interesse e interesse alla pronuncia di illegittimità “a fini risarcitori, op.cit.
[11] Secondo il tradizionale orientamento, la responsabilità civile della p.a. dovrebbe rientrare nell’ambito di operatività della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c. (Cons. Stato, Sez. V, 31 luglio 2012, n. 4337; T.A.R. Lazio - Roma, Sez. III, sentenza n. 11808/2014; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 02/03/2018, n. 1350; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I 25 settembre 2017 n. 4483). Secondo un indirizzo minoritario, invece, dovrebbe essere concepita quale responsabilità da inadempimento da contatto sociale qualificato (Cons. Stato, VI, 4 luglio 2012, n. 3897; Consiglio di Stato, sez. VI, 30/12/2014, n. 6421, nonché più di recente: Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136). Questa tesi troverebbe sostegno anche da parte della Corte di Cassazione; in particolare, si veda da ultimo: Cass. Civ. n. 8236/2020, con nota di G. Tropea - A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o. Note critiche (Nota a Cass., Sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236), in questa Rivista, 15 maggio 2020. Infine, secondo altre pronunce, si tratterebbe di una responsabilità sui generis, e, pertanto, non interamente riconducibile al paradigma della responsabilità né extracontrattuale, né contrattuale (Consiglio di Stato, sez. VI, 14/03/2005, n. 1047; Consiglio di Stato, sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5611; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 05/03/2018, n. 617; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III 06 aprile 2016 n. 650). Sulla questione della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione da illegittimo esercizio delle funzioni pubblicistiche si è recentemente pronunciata l’Adunanza Plenaria n. 7/2021. Sul tema: E. Zampetti, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione dopo l’Adunanza plenaria n. 7 del 2021, op.cit., alla cui considerazioni si rinvia. Sulla natura giuridica della responsabilità civile della p.a. si veda: M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria (nota a Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136), in questa Rivista, febbraio 2021.
[12] Funditus sul tema: E. Zampetti, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione dopo l’Adunanza plenaria n. 7 del 2021, op.cit.; bensì anche: M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione, op.cit.
[13] Si ricordano, senza pretesa di esaustività, i primi contributi offerti dalla dottrina a commento della sentenza, fra cui: F.G. Scoca, Risarcibilità e interesse legittimo, in Dir. pubbl., 1/2000, 13 -54; G. Abbamonte, L’affermazione legislativa e giurisprudenziale della risarcibilità del danno derivante dall’esercizio illegittimo della funzione amministrativa. Profili sostanziali e risvolti processuali, in Cons. St., 2000, 743 ss.; A. Luminoso, Danno ingiusto e responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi nella sentenza n. 500/1999 della Cassazione, in Dir. pubbl., 2000, 60 ss.; F.D. Busnelli, Dopo la sentenza n. 500. La responsabilità civile oltre il «muro» degli interessi legittimi, in Riv. dir. civ., 2000, 335; A. Falazea, Gli interessi legittimi e le situazioni giuridiche soggettive, in Riv. dir. civ., 2000, 679; nonché le note a sentenza a Cass., Sez. un., 22 luglio 1999 n. 500, in Foro it., 1999, I, 2487 ss., di A. Palmieri - R. Pardolesi; R. Caranta, La pubblica amministrazione nell’età della responsabilità; F. Fracchia, Dalla negazione della risarcibilità degli interessi legittimi all’affermazione della risarcibilità di quelli di quelli giuridicamente rilevanti: la svolta della Suprema Corte lascia aperti alcuni interrogativi; e ancora: A. G. Orofino, L’irrisarcibilità degli interessi legittimi: da giurisprudenza «pietrificata» a dogma in via d’estinzione?, in www.giustamm.it, 1999.
[14] M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione, op. cit.
[15] M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione, op. cit.
[16] Il discorso vale, in particolare, come noto, per la prova relativa alla sussistenza dell’elemento soggettivo. Sul tema si tornerà oltre.
[17] Così: Cons. stato, Ad. Plen., n. 8/2022.
[18] Sui temi, ampiamente: M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione, op. cit. Ivi ampi riferimenti bibliografici, in particolare si v. note da 45 a 50.
[19] Sulle “ultime frontiere” della ricostruzione del concetto d’interesse legittimo e del potere amministrativo, senza poter indugiare sul tema: E. Follieri, L’identità della struttura dell’interesse legittimo e del potere amministrativo autoritativo, in Metamorfosi del diritto amministrativo. Liber amicorum per Nino Longobardi, Napoli, 2023, 169 e ss. nonché in www.giustamm.it, n. 11/2022; A Carbone, Potere e situazioni soggettive nel diritto amministrativo. I) situazioni giuridiche soggettive e modello procedurale di accertamento (Premesse allo studio dell’oggetto del processo amministrativo), Torino, Giappichelli, 2020; nonché la sezione monografica dedicata al dibattito sul tema nella rivista P.A. - Persona e amministrazione, n. 2/2021.
[20] Si v. M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, Il Mulino, 2022, 133 ss.
[21] Cons. Stato, Ad. pl., 23 marzo 2011, n. 3.
[22] In tal senso sempre M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, op.cit. 133.
[23] Il riferimento è a F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017.
[24] Si veda M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione, op. cit., che richiama e ricostruisce il pensiero di F.G. Scoca, Divagazioni su giurisdizione e azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 2008, 6 ss.
[25] Cons. stato, sez. IV, 27 aprile 2021, 3398; Cons. stato, sez. IV, 2 marzo 2020, n. 1496; Cons. stato, sez. IV, 6 luglio 2020, 4338; Cons. stato, sez. IV, 27 febbraio 2020, n. 1437.
[26] Così lo stesso Cons. Stato n. 3094/2023, nonché ex multis: Consiglio di Stato, Sez. V, 4 agosto 2015, n. 3854.
[27] Come noto, la Corte di Cassazione nel riconoscere la responsabilità della p.a. per danni da lesione di interessi legittimi ha ritenuto non più sufficiente l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento amministrativo, dovendo invece positivamente accertarsi l’elemento soggettivo dell’illecito, ossia la colpa dell’apparato amministrativo – non già del singolo funzionario. Questo elemento si sostanzierebbe nella violazione di regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione che devono ispirare la condotta e l’azione della p.a. e che al ricorrente competerebbe provare.
[28] In dottrina sul tema: E. Follieri, L’elemento soggettivo nella responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi (nota a sentenza: Consiglio di stato, sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482), in Urb. app., 6/2012, 694 ss.; M.C. Cavallaro, La rilevanza dell’elemento soggettivo nella struttura dell’illecito della pubblica amministrazione: un ulteriore chiarimento del Consiglio di Stato, nota a Cons. Stato, sez. V, 10 gennaio 2005, n. 32, in Nuove autonomie, 4-5/2005, 741 ss.; O. Ciliberti, L’elemento soggettivo nella responsabilità civile della pubblica amministrazione conseguente a provvedimenti illegittimi, in La responsabilità civile della pubblica amministrazione, E. Follieri, (a cura di), Giuffrè, Milano, 2004, 251; S. Cimini, La colpa nella responsabilità civile delle amministrazioni pubbliche, Giappichelli, Torino, 2008; F. Fracchia, L’elemento soggettivo nella responsabilità dell’amministrazione, in Atti del Convegno di Varenna 2008, Giuffrè, Milano, 2009, 211; F. Trimarchi Banfi, La responsabilità civile per l’esercizio della funzione amministrativa. Questioni attuali, Giappichelli, Torino, 2009, spec. 87 e ss.
[29] Per una ricostruzione delle problemetiche: si v. E. Follieri, L’elemento soggettivo nella responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi, op.cit.
[30] In giurisprudenza, ex multis: Cons. Stato, sez. IV, n. 5012/2004; Cons. Stato, sez. V, n. 1307/2007; Cons. Stato, sez. VI, n. 213/08; Cons. Stato, sez. IV, n. 482/2012; Cons. Stato, sez. VI, 16 aprile 2015, n. 1944; Cons. stato, sez. V, 18 gennaio 2016, n. 148.
[31] In particolare, fra le pronunce più recenti: Cons. Stato, Sez. II, 20 maggio 2019, n. 3217; T.A.R. Lazio, sez. I - Roma, 11 gennaio 2022, n. 226 e T.A.R. Lombardia, sez. II - Milano, 04 agosto 2016, n. 1560.
[32] Così espressamente le stesso Cons. Stato, n. 3094/2023.
[33] Così, da ultimo, espressamente: M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione, op. cit. Si ricordano le tesi espresse da E. Follieri, Sul modello di responsabilità per lesione di interessi legittimi nella giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo: la responsabilità amministrativa di diritto pubblico, in Dir. Proc. Amm., 2006, 18 ss.; nonché sempre E. Follieri, L’elemento soggettivo nella responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi, op. cit., che richiama altresì: A. Zito, Il danno da illegittimo esercizio della funzione amministrativa. Riflessioni sulla tutela dell’interesse legittimo, Napoli, 2003, 172 ss; L. Garofalo, La responsabilità dell’amministrazione: per l’autonomia degli schemi ricostruttivi, in Dir. Amm., 2005, 1 ss.; F. G. Scoca, Interesse legittimo come situazione giuridicamente protetta e tutela giurisdizionale, Catania 24-25-26 aprile 2003 in Atti del convegno Roma, 2004, 92; L. Maruotti, La struttura dell’illecito amministrativo lesivo dell’interesse legittimo: la distinzione tra l’illecito commissivo e quello omissivo, in www.griurisprudenza.it 2005.
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