ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“Buongiorno a tutti, mi chiamo Tina e sono la mamma di un ragazzo con sindrome di Down. Non ho paura di pronunciare questa parola, e sono felice di essere qui a raccontare la mia storia…”.
Tina non ha paura; neppure di dimostrare ai suoi concittadini che è possibile riprendersi con orgoglio il maltolto per fare del bene là dove è stato seminato per anni il male. Ha messo su una cioccolateria sociale, “Dulcis in Fundo”, in un immobile confiscato alla camorra, proprio quella del suo paese, Casal di Principe, e vi fa lavorare ragazzi disabili; combatte ogni giorno la sua battaglia per dare una possibilità a persone che vivono spesso nascoste e prive di prospettive, e offre piccoli assaggi di felicità prodotti dove un tempo c’era solo prevaricazione.
“Io sono Roberto, e mi occupo di quelli che per tanti sono gli “scarti”… Con i minori entrati nel circuito penale, che per parte della società vanno abbandonati, produciamo bellissimi oggetti da materiali riciclati…”
A Roberto brillano gli occhi quando parla dei ragazzi a cui, con i suoi collaboratori, cerca di trasmettere una nuova consapevolezza di sé. Una vita possibile, lontana dalla violenza: un “Altromodo” -questo è il nome della cooperativa- di affermare se stessi.
C’è poi anche la N.C.O. all’incontro dell’ANM napoletana a Casal di Principe con i giovani e le associazioni impegnate nel sociale: per parlare di beni confiscati e restituiti alla collettività in un luogo simbolo quale è la villa che era stata di Walter Schiavone, fratello del capo clan, Francesco. Quella villa odiosamente nota come Villa Scarface, citata da Roberto Saviano in Gomorra, e oggi destinata alla cura e alla riabilitazione di persone con disabilità. Ma non si tratta della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, così come i casalesi presenti non sono quelli delle cronache giudiziarie. E lo gridano forte.
Oggi a occupare il territorio è una immensa onda che sanifica ciò che era stato intossicato, e si riprende ciò che illecitamente e violentemente le è stato negato per troppo tempo.
N.C.O. sta qui e ora per Nuova Cooperazione Organizzata; e anche Nuova Cucina Organizzata: su beni confiscati, un incredibile numero di realtà produttive e sociali che rappresentano nel modo più concreto la vera offesa alle regole incivili del crimine organizzato.
Il contrasto alle mafie sottraendo loro i patrimoni illecitamente accumulati, ma soprattutto destinandoli a un “ri-uso” sociale che porta nuovo e solido benessere -tanto più solido in quanto conquistato con l’orgoglio consapevole di chi vuole rinascere- in terre troppo a lungo massacrate da una asfissiante presenza criminale.
La Nuova Cooperazione Organizzata è una associazione che non raccoglie gruppi criminali ma straordinarie realtà che operano su beni confiscati; o liberati, come tengono a dire: una sala di incisione (“Etiket”) , luoghi di accoglienza e cura per utenti della salute mentale (“Eureka”), terreni dove si produce uva autoctona, dalla quale nascono ottimi vini (“Vitematta”); e, ancora, una casa per donne rifugiate, soprattutto africane (“Casa di Alice”); produzione di caffè da parte delle detenute del carcere femminile di Pozzuoli (“Le Lazzarelle”).
Pasquale, che parla per tutti loro, ci racconta di quando qualche decennio fa si piazzava per strada, nei luoghi più esposti di Casal di Principe, a fare politica a modo suo: e ai comizi contro coloro che violentavano la sua terra erano soltanto in tre, due sul palco e uno giù ad ascoltare! Tanti concittadini, però, nascosti dietro le finestre. Ora, dopo anni di impegno sociale, è l’orgoglioso esponente di una forza che non si arrende e che in fondo rappresenta un segno tangibile di democrazia partecipata.
Il contrasto alle mafie deve essere ancora al centro dell’agenda del Paese[1], e l’esperienza giudiziaria di questo trentennio dimostra quanto siano insostituibili gli strumenti di aggressione ai patrimoni illeciti da quelle accumulati, oggetto nel tempo di evoluzione normativa sempre più dettagliata ma non sempre ordinata e sistemica oltre che di critiche in punto di teoria del diritto e di politica giudiziaria -da parte di molte voci della dottrina- soprattutto sotto il profilo della prevenzione patrimoniale: ritenuta da alcuni “la stampella di una giustizia penale che ha perso efficienza ed è diventata incapace di concretizzare i suoi scopi[2]”. Opinione in ordine alla quale è lecito motivatamente dissentire, posto che l’attuale architettura regolativa delle misure di prevenzione patrimoniale, grazie soprattutto a una illuminata elaborazione giurisprudenziale, ha spostato l’asse verso una decisa giurisdizionalizzazione che offre adeguate garanzie anche nell’ambito di quel procedimento.
Ma sono soprattutto da riconoscere le criticità di cui quegli strumenti soffrono tuttora non tanto nella fase dell’ablazione -che risente comunque delle lungaggini e delle necessità proprie dell’accertamento, sia esso penale o di prevenzione- quanto in quella dell’affidamento e della gestione dei beni: amministrazione, destinazione e utilizzazione quali momenti topici, durante i quali si gioca la partita decisiva per la efficacia o il fallimento di tutto il sistema.
Sono più che note le scottanti difficoltà da affrontare per “proteggere” questa fase dalle mire predatorie di sodalizi che tentano di riappropriarsi, in modo surrettizio, dei beni a loro sottratti dallo Stato con tanto sforzo e impiego di risorse; così come quelle insite nella individuazione di professionisti accorti e indipendenti, capaci di opporsi alle tentazioni e alle minacce; e, infine, nella scelta dei soggetti destinatari e delle forme di utilizzazione. E su tale piano tutte le istituzioni coinvolte -magistratura, Agenzia Nazionale Beni Confiscati e Sequestrati, enti pubblici- devono garantire attenzione e visione.
E’ per questo che le esperienze di Casal di Principe e di tanti altri comuni del casertano ci sono apparse tanto più virtuose e degne di racconto poiché rappresentative di una effettiva possibilità di vittoria sull’Antistato, di riscatto del territorio, e di esercizio diffuso e democratico del “ri-uso”: dovendosi pertanto prestare grande attenzione alle preoccupazioni che quelle associazioni e imprese sociali hanno manifestato, ad esempio, rispetto a progetti di possibile accentramento politico-amministrativo della gestione dei beni già destinati alle cooperative, recentemente emersi nel dibattito pubblico[3]. Ferma restando la necessità di costanti controlli di legalità, resta forse determinante la salvaguardia di una responsabilità di gestione diffusa e orizzontale: maggiormente orientata verso una pluralità democratica, volta a dare spazio alle diversificate forze sane della società e anche -probabilmente- meno attaccabile da pericolose spinte devianti, sempre in agguato.
Uno dei beni liberati dalla oppressione della mafia casertana è stato destinato a una cooperativa di donne (“E.V.A.”) che gestisce centri antiviolenza, servizi per la prevenzione e il contrasto degli abusi e dei maltrattamenti all’infanzia, asili-nido e case per donne maltrattate: quelle che grazie alla mano che è stata tesa verso di loro hanno abbandonato le proprie abitazioni, con annesse violenze, per provare a recuperare il sentimento di sé; e oggi si dedicano a sostenerne altre, e i loro figli, e gestiscono con la cooperativa “Casa Lorena” laboratori di prodotti alimentari commerciati nelle reti locali di economia sociale. Per loro ha preso la parola Valeria, testimone di tante piccole e grandi vittorie contro una violenza di genere che viene esaltata e rinforzata, se possibile, quando è agita in contesti criminali organizzati. Nei quali tutte, ma proprio tutte le vie di scampo appaiono sbarrate.
E, ancora, Elisabetta: che all’interno di un bene confiscato ha dato vita a un caffè letterario, “Artespressa”, un centro di aggregazione giovanile per instillare e diffondere i virus benefici dell’arte e della cultura tra ragazzi abituati a respirare mortificazione e brutalità. Una scommessa di libertà e bellezza, puntando su coloro ai quali nessuno aveva finora dato fiducia e alternative.
Nella sala destinata al dibattito -che era il grande e inquietante salone di ingresso della villa del capo mafia- viene a un certo punto ripetutamente pronunciata la parola “follia”: alla domanda sul perché si faccia tutto questo, perché tanti ragazzi, tante donne e tanti uomini abbiano deciso di impegnarsi nel volontariato e nel sociale in modo del tutto disinteressato, sfidando anche chi sarebbe in grado di esercitare ritorsioni, la risposta quasi unanime è nella pulsione verso sentimenti e comportamenti di umanità solidale che in certi contesti possono apparire in contrasto con la ragionevolezza di scelte di autoconservazione e di tutela del proprio ristretto e cieco confine.
La risposta, o meglio una delle tante, è nell’amore, un po' matto ma tanto benefico, per una giustizia sociale che per essere realizzata richiede a ciascuno una piccola e coraggiosa cessione di egoistica sovranità.
[1] Con la Legge 2 marzo 2023, n. 22 l’attuale Parlamento ha istituito la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere. Tra i compiti, la verifica dell’attuazione del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, e l’indicazione di eventuali iniziative di carattere normativo o amministrativo necessarie per rafforzarne l’efficacia
[2] MURONE, Aggressione dei patrimoni illeciti ed esigenze deflattive: una dicotomia soltanto apparente, ARCHIVIO PENALE 2016, n. 3
[3]Così nel dibattito svoltosi al secondo “Forum Espositivo dei Beni Confiscati” tenutosi a Napoli dal 21 al 23 aprile 2023
Sommario: 1. Il caso e l’ordinanza di rimessione della III Sezione n. 5921/2022 – 2. La nuova soluzione adottata dalla Plenaria n. 10/2023 - 3. Qualche appunto critico sull’idea di farne una questione tra sezioni dello stesso giudice – 4. Una motivazione alternativa.
1. Il caso e l’ordinanza di rimessione della III Sezione n. 5921/2022
Ricevuta dal Tar Sicilia sezione staccata di Catania una sentenza di rigetto del ricorso, la difesa del ricorrente intesta l’appello al Consiglio di Stato e poi sempre al Consiglio di Stato indirizza il modulo di deposito telematico.
Assegnato l’appello alla IIIª Sezione, in esito all’udienza di discussione il giudice constata che l’impugnazione doveva essere all’evidenza proposto avanti al Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Sicilia.
La regola – una volta tanto - è sicura.
Già lo diceva l’art. 40 della legge istitutiva del Tribunali amministrativi regionali, che a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 61 del 1975, suona nel senso che contro ogni sentenza del Tar per la Sicilia l’appello “è portato al Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana”.
La disposizione è stata poi ribadita dall’art. 4, comma 3, del d. lgs n. 373/2003 (recante Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana concernenti l’esercizio nella regione delle funzioni spettanti al Consiglio di Stato): “In sede giurisdizionale il Consiglio di giustizia amministrativa esercita le funzioni di giudice di appello contro le pronunce del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia”.
Quanto al Codice del processo amministrativo, l’art. 6, comma 6, non potrebbe essere più chiaro: “Gli appelli avverso le pronunce del Tribunale amministrativo regionale della Sicilia sono proposti al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, nel rispetto delle disposizioni dello statuto speciale e delle relative norme di attuazione”. E così ancora l’art. 100 del Codice si cura di tener ferma “la competenza del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana per gli appelli proposti contro le sentenze del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia”.
Se la regola è sicura un po' meno sicure sono però le conseguenze di questo singolare errore.
La IIIª Sezione, con l’ordinanza n. 5921/2022, ricorda infatti che la dimensione problematica della questione era già stata portata nel 2013 all’attenzione dell’Adunanza plenaria con una ordinanza di rimessione della stessa Sezione.
Vero è che la giurisprudenza largamente maggioritaria sosteneva che la fase di gravame in simili casi dovesse necessariamente chiudersi con una sentenza di inammissibilità dell’appello pronunciata dal Consiglio di Stato, rincarando poi la dose con la precisazione (per il vero a quel punto un poco superflua) che il potere di impugnazione si era irrimediabilmente consumato[1].
Tuttavia, un precedente del 2009 aveva invece espresso l’avviso che “nel caso di specie trovi comunque applicazione la disposizione contenuta nell’articolo 50 c.p.c., a norma del quale, in caso di pronuncia di incompetenza del giudice adito, la causa prosegue davanti al giudice competente qualora sia tempestivamente riassunta nel termine fissato dalla sentenza (di incompetenza) ovvero di sei mesi dalla stessa”[2].
L’Adunanza plenaria, con la sentenza 22 aprile 2014 n. 12 aveva però rispedito il dubbio al mittente facendosi scudo dell’orientamento in allora prevalente presso il giudice civile. La Cassazione, con un orientamento che si potrebbe definire parentetico[3], in quegli anni propendeva infatti per l’idea che l’individuazione del giudice dell’appello non ponesse una questione legata alla nozione di competenza propria dell’art. 50 c.p.c. Per conseguenza, non trovando applicazione la meccanica della riassunzione a seguito di declinatoria prevista da quella norma, il giudizio d’appello non avrebbe che potuto chiudersi con una sentenza di inammissibilità. Secondo la Plenaria n. 12/2014 un siffatto orientamento avrebbe dovuto trovare ancor più pacifica applicazione nel caso dell’appello nel processo amministrativo, posto che il criterio di collegamento con il Consiglio di giustizia piuttosto che con il Consiglio di Stato qui dipendeva dal giudice a quo. Un criterio che secondo la Plenaria andava ricostruito nei termini di una attribuzione funzionale più che non di competenza.
Ma ecco che a qualche anno di distanza la IIIª Sezione vede molto bene che i tempi sono maturi per sparigliare le carte.
Nel 2016 le Sezioni Unite, recuperando il più risalente e consolidato orientamento, sono infatti tornate ad insegnare che “l’appello proposto dinanzi ad un giudice diverso da quello indicato dall'art. 341 cod. proc. civ. non determina l'inammissibilità dell'impugnazione, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della translatio iudicii, sia nell'ipotesi di appello proposto dinanzi ad un giudice territorialmente non corrispondente a quello indicato dalla legge, sia nell'ipotesi di appello proposto dinanzi a un giudice di grado diverso rispetto a quello dinanzi al quale avrebbe dovuto essere proposto il gravame”[4].
Nel sollecitare un nuovo esame della questione alla Plenaria, l’ordinanza di rimessione non manca di osservare che la stessa Cassazione ha dato pure rilievo al fatto che la translatio iudicii ha conquistato anche il difetto di giurisdizione[5] come pure i rapporti tra giudici ed arbitri[6]. Quand’anche pertanto si reputasse che il giudice non correttamente evocato in appello ponga un tema di carenza di attribuzione giurisdizionale[7], cionondimeno i benefici effetti della translatio ben potrebbero applicarsi.
Infine, la IIIª Sezione osserva che ai sensi dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. 24 dicembre 2003, n. 373, le due sezioni del Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione siciliana sono definite quali “Sezioni staccate del Consiglio di Stato”, “con la conseguenza che più che di impugnazione erroneamente proposta “ad un giudice diverso da quello legittimato a riceverlo” si tratterebbe di appello proposto a diversa Sezione dello stesso giudice”.
Per mero inciso, nel formulare il quesito posto alla Plenaria il giudice non ha invocato l’applicazione in fase d’appello delle norme del processo amministrativo sulla translatio tra i Tribunali amministrativi regionali – vale a dire l’art. 15, comma 4, c.p.a. -, ma ha richiamato il meccanismo della riassunzione a norma dell'art. 50 cod. proc. civ. La Plenaria è stata infatti interpellata per sapere “se l'appello proposto dinanzi al Consiglio di Stato avverso una sentenza del Tar Sicilia (sede di Palermo o Sezione staccata di Catania) configuri una ipotesi di inammissibilità dell'impugnazione e di conseguente passaggio in giudicato della impugnata sentenza, ovvero valga ad instaurare un valido rapporto processuale suscettibile di proseguire dinanzi al competente Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana attraverso il meccanismo della riassunzione a norma dell'art. 50 cod. proc. civ.”.
2. La nuova soluzione adottata dalla Plenaria n. 10/2023
Nel formulare un responso che è certamente innovativo, la sentenza dell’Adunanza plenaria che qui si segnala trae il destro dall’unico spunto dell’ordinanza di rimessione che le consenta di non dire a chiare lettere che il costrutto giuridico su cui si appoggiava la stessa Plenaria del 2014 era sbagliato.
Il caso andrebbe molto semplicemente e solo deciso traendo i debiti corollari dal principio affermato dalla legge che configura le sezioni del Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana quali sezioni staccate del Consiglio di Stato, non senza tuttavia subito appresso osservare che le sezioni del Consiglio di Stato con sede in Roma non possono decidere la causa “poiché la competenza funzionale della Sezione staccata di Palermo è inderogabile, in quanto prevista da una disposizione attuativa dello Statuto regionale”.
Ed ecco allora quali corollari la Plenaria viene ora a trarre da questa premessa: “per evitare il differimento della definizione del giudizio, la Presidenza del Consiglio di Stato deve trasmettere alla Segreteria della Sezione staccata di Palermo l’appello proposto al Consiglio di Stato avente sede in Roma, proposto avverso una sentenza del TAR per la Sicilia. Qualora l’appello sia stato però assegnato dalla Presidenza ad una delle Sezioni del Consiglio di Stato, rilevano i principi generali desumibili dall’art.15, commi 2 e 4, del codice del processo amministrativo, sicché la Sezione avente sede in Roma non può decidere in sede cautelare e con ordinanza deve dichiarare la propria incompetenza, affinché il giudizio possa essere riassunto innanzi alla Sezione staccata”.
Si enuncia poi così il seguente principio di diritto “l’appello proposto avverso una sentenza del Tar per la Sicilia (Sede di Palermo o Sezione staccata di Catania) può essere deciso unicamente dalla sezione giurisdizionale del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, la quale a tutti gli effetti è una sezione del Consiglio di Stato”.
Sennonché, va notato, curiosamente poi la stessa Adunanza plenaria demanda al Presidente del Consiglio di Stato di assegnare l’appello alla sezione giurisdizionale del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana.
Curiosamente, si diceva, perché qui l’appello era all’evidenza già stato assegnato alla IIIª Sezione, che non a caso era giunta ad un’ordinanza di rimessione in esito all’udienza di discussione celebratasi a circa tre anni di distanza dal gravame. Vi era allora da attendersi che, facendo coerente seguito alle sue stesse parole, nel caso si dovesse applicare il principio di cui al comma 4 dell’art. 15 c.p.a. e che quindi a mettere in moto il processo verso il Consiglio di giustizia fosse un’ordinanza declinatoria della competenza, con onere delle parti di un atto di riassunzione.
3. Qualche appunto critico sull’idea di farne una questione tra sezioni dello stesso giudice
Questa sentenza è sicuramente influenzata dalla volontà di non confutare in modo aperto l’argomentare della Plenaria del 2014. Tuttavia tale preoccupazione ha prodotto il risultato di una pronuncia assai criptica che elude gli interrogativi giuridici posti dall’articolata ordinanza della IIIª Sezione.
Ciò posto, e per quanto la constatazione possa apparire banale, su almeno un punto occorre uscir dal vago.
Avendo la Plenaria affermato che l’art. 15 del c.p.a. è applicabile alla fattispecie, norma che anzi viene addirittura detto racchiudere un principio generale, con consequenziale onere di declinare la competenza “affinché il giudizio possa essere riassunto” presso il CGARS, nessun dubbio può sussistere in merito a due conseguenze intimamente connesse.
La translatio iudicii può operare anche in questo peculiare caso. Ex necesse – e contrariamente a quanto sembrerebbe forse ventilare la stessa Plenaria nel dichiarare il principio di diritto – l’appello non potrà più essere dichiarato inammissibile per difetto di competenza una volta giunto in Sicilia. E ciò per la semplice ragione che una tale pronuncia sarebbe possibile solo a decidere l’appello fosse il Consiglio di Stato con sede in Roma, mentre non lo è più una volta che l’appello sia transitato (e nemmeno importa come) al giudice competente.
Ferma questa conclusione, l’idea che per risolvere la questione assuma valore dirimente la possibilità di configurare il Consiglio di giustizia quale sezione del Consiglio di Stato non sembra del tutto convincente.
Se infatti con questo si volesse dire che trattandosi di rapporto tra sezioni il caso debba necessariamente subire un trattamento giuridico diverso dal caso del difetto di competenza, si verrebbe a dire una cosa se non proprio errata, almeno eccessiva.
La configurazione di un regime del rapporto tra sezioni sensibilmente diverso da quello dei rapporti di competenza, e financo per ipotesi da riguardarsi come un problema di pura specificazione organizzativa, è certo possibile. Ma spetta al legislatore configurarlo come tale[8].
Ebbene nel caso che occupa non sembra proprio che le norme giuridiche rilevanti arrivino a questo esito.
Basti considerare che l’art. 10 del d.lgs. n. 373/2003 stabilisce che “Le questioni inerenti alla competenza del Consiglio di giustizia amministrativa in sede giurisdizionale sono rilevabili anche d'ufficio”. La stessa norma al comma 5 stabilisce che è devoluta all'Adunanza plenaria in composizione integrata “la cognizione dei conflitti di competenza, in sede giurisdizionale, tra il Consiglio di giustizia amministrativa ed il Consiglio di Stato”.
D’altro canto è la stessa Plenaria qui in commento ad affermare che quella del CGARS è una competenza funzionale inderogabile. Stando così le cose, l’idea di ricorrere ad una misura presidenziale organizzatoria quando l’appello non è stato ancora assegnato a sezione ed al trattamento sulla declinatoria di competenza se invece è stato assegnato, non riesce a persuadere del tutto. Ove si tratti di risolvere un dubbio di disciplina, il trattamento processuale, infatti, necessariamente segue (e non precede) al fenomeno nella sua dimensione statica. E se dalle norme emerge che questo fenomeno è di un rapporto di competenza funzionale, il suo trattamento processuale non può essere divaricato a seconda di una contingenza così episodica.
Del resto non sarà del tutto superfluo ricordare che stando all’art. 47 c.p.a. anche in merito al riparto tra diverse sezioni dei TTAARR, il regime processuale della competenza vince sempre sul trattamento del riparto tra sezioni quando la causa spetta ad una data sezione per un criterio che lo stesso legislatore definisce di competenza funzionale inderogabile (art. 14 c.p.a.)[9].
Anzi, l’idea che qui rileva è resa molto bene proprio dal linguaggio che il legislatore adotta al comma 1 dell’art. 47 c.p.a., da cui si comprende che in taluni casi la ripartizione di controversie tra sezioni è da considerarsi “questione di competenza”.
In definitiva, il fatto che il Consiglio di giustizia amministrativa sia una sezione del Consiglio di Stato non è del tutto privo di rilievo, ma va recuperato in una prospettiva diversa da quella eletta in questa occasione dalla Plenaria.
4. Una motivazione alternativa
Per chi conosca la storia della translatio iudicii, viene pressoché spontaneo risolvere in senso favorevole il dubbio sulla possibilità di farne utile applicarne nel caso che occupa.
Nel contesto processuale italiano, la translatio si può dire sia stata, se non proprio inventata, quantomeno imposta grazie a Mortara inizialmente proprio nel campo dell’appello a giudice incompetente, benché con coerenza da Mortara stesso ritenuta applicabile anche al giudizio di primo grado[10].
Non a caso chi scriveva di appello a giudice incompetente appena dopo l’emanazione del nuovo codice di procedura civile non poteva non notare che l’art. 50 stava lì a rafforzare l’orientamento precedente e favorevole alla tesi mortariana[11].
La giurisprudenza civile moderna che ogni tanto devia da quell’antica dottrina è probabilmente influenzata da una lettura superficiale di un noto contributo di Attardi[12]. Attardi infatti giungeva sì a negare l’interferenza tra l’art. 50 c.p.c. e l’appello, ma muovendo dall’idea che l’impugnazione fosse un proseguimento del processo ancora pendente e per la verità già presso il giudice dalla legge investito della funzione di gravame. Ricostruito quindi l’appello come atto di mero impulso processuale, la sua inefficacia se rivolto al giudice sbagliato derivava semplicemente dal fatto che l’atto di mero impulso, per avere un qualche effetto, deve essere inserito in quel dato e preciso processo. Ma Attardi stesso non esitava ad ammettere che concependo invece l’appello come giudizio autonomo si doveva arrivare a tutt’altra conclusione. E d’altro canto l’idea di appiattire l’impugnazione a mero atto di impulso processuale non ha convinto nemmeno i processualcivilisti[13].
Ora, tornando all’invenzione di Mortara occorre ricordare che il ricorso alla meccanica della translatio in fase d’appello nacque da due concomitanti convinzioni che ne spiegano anche il significato più profondo.
Mortara non era persuaso da una soluzione, molto ricorrente nella giurisprudenza dell’epoca, che accordava in questo caso l’interruzione del termine per appellare. Contemporaneamente era però convinto del fatto che l’appello, purchè proposto ad un giudice di grado superiore a quello appellato, fosse in tutto e per tutto un appello valido. Una validità concepita anche in una direzione specifica, come intrinseca attitudine a preservare dalla decadenza. La possibilità di far trasmigrare l’appello al giudice competente purché entro il termine di perenzione si pose allora come una modalità per declinare l’effetto che altra dottrina chiamava conservativo dell’appello a giudice incompetente, come soluzione che surrogava quella dell’interruzione del termine per appellare, al contempo evitando di dover trarre dal concetto di impedimento della decadenza tutto il dovuto[14].
Ed in effetti l’aspetto più intrigante dei moderni approdi della transaltio iudicii, come pure del trattamento recentemente imposto dalla Corte costituzionale in tema di disciplina della nullità della notifica nel processo amministrativo[15], sta proprio in una nota comune che esce da questi episodi di affermazione dell’effetto conservativo del termine di un atto processualmente viziato e che per certi versi recupera questo antico approccio.
La espressa previsione di una sanatoria processuale non è essa stessa la sola ragione dell’effetto dell’atto. È piuttosto l’intrinseca idoneità di esso ad incidere sulla decadenza che, prima o poi, si deve sfogare nella necessaria introduzione, anche solo per via interpretativa, di una sanatoria processuale.
Ma fortunatamente per risolvere il caso riapprodato alla Plenaria non occorre impegnare un tema così complesso.
Già Oriani, all’indomani da Corte cost. n. 77/2007 suggeriva alla giurisprudenza civile di rimeditare l’orientamento inaugurato nel 2005 dalla Cassazione e propenso a non applicare l’art. 50 c.p.c. all’appello[16]. L’avrebbe imposto anche solo il forte richiamo della Corte costituzionale verso una visione del processo, propria dell’insegnamento di Virgilio Andrioli travasato in più di una pronuncia della medesima Corte[17], quale strumento funzionale a stabilire torto e ragione e perciò proteso per quanto possibile verso una pronuncia di merito. Ed è quello che fatalmente è avvenuto con le richiamate Sezioni Unite del 2016 che non hanno mancato di dare grande risalto a questo aspetto.
Ebbene alla luce di tali concomitanti coordinate la vera domanda da porsi è allora se nel processo amministrativo esista una norma che vieti la transaltio tra il Consiglio di Stato ed il Consiglio di giustizia. E poiché tale norma non c’è, mentre certamente esistono disposizioni che disciplinano la translatio per incompetenza in primo grado, l’unico modo corretto per il giudice di condursi secondo Costituzione è quello di adoperarsi privilegiano la via del merito. Nel caso, il percorso per assecondare questa via meno esposto alla critica di un uso disinvolto delle norme processuali esistenti, è proprio quello di fare applicazione alla fase d’appello di quelle stesse disposizioni sulla declinatoria di competenza e successiva translatio nel giudizio avanti al Tar. Poco conta dire se ciò avvenga poi in virtù del c.d. rinvio interno o perché tali norme esprimono un principio generale.
In questo contesto, se proprio si vuole, l’interesse per il fatto esaltato dalla Plenaria che vede nel Consiglio di giustizia una sezione del Consiglio di Stato sta in ciò.
Nessuno potrà sognarsi di dire che l’errore nell’individuazione della sede qui trasmodi in un errore sul mezzo di impugnazione[18]. Appello era, appello rimane.
[1] Contrariamente alla vulgata giurisprudenziale, tale orientamento non sembra però addebitabile alla decisione dell’Adunanza plenaria n. 21/1978. Chi si curi di leggere quella motivazione noterà infatti che la Plenaria nell’occasione si concentrò tutta sul tema della competenza del Consiglio di giustizia a decidere anche gli appelli su sentenze rese dal Tar Sicilia su ricorsi contro provvedimenti emessi da organi centrali dello Stato in materie estranee alla sfera di interessi della Regione. Vero è che chiudendo la decisione, con poche righe la Plenaria riconobbe la scusabilità dell’errore e si premurò di accordare la rimessione in termini affinché l’appello potesse essere riproposto al Consiglio di giustizia amministrativa. Ora, si potrà certo dire che il rimedio della rimessione in termini per errore scusabile presuppone che la translatio non si applichi. Ma addebitare ad una motivazione che decide di accordare la rimessione e nulla argomenta in punto di translatio di essere la capofila di un orientamento negativo quanto alla sua applicazione al caso, pare francamente discutibile. Piuttosto, semmai si può ricordare che nel contesto dell’abrogata legge Tar un quesito come quello che ora si pone sarebbe stato fortemente condizionato dal fatto che la translatio non operava nemmeno in primo grado per i casi di incompetenza c.d. assoluta (o funzionale), come si poteva desumere dall’art. 34, comma 2, l. Tar che per tali ipotesi accordava la rimessione in termini per errore scusabile.
[2] Cons. Stato, sez. V, 21 luglio 2009, n. 4580.
[3] L’altalenare degli orientamenti della cassazione in punto di appello a giudice incompetente è ben ricostruito da Cass., Sez. Un., 14 settembre 2016, n. 18121, dove si ricorda che l’orientamento favorevole all’applicazione della translatio era prevalente fino a Cass., sez. III., 10 marzo 2005, n. 2709, che invece si pose a capofila di un filone propenso a ritenere che l’art. 50 c.p.c. fosse del tutto escluso in materia di appello.
[4] Cass., Sez. Un., n. 18121/2016.
[5] Grazie a Corte cost. n. 77/2007.
[6] Grazie a Corte cost. n. 223/2013.
[7] Nella dottrina del processo civile si tratta di una tesi che vanta autorevoli sostenitori, sebbene declinata con linguaggio non sempre coincidente. Cfr. E. Redenti, Diritto processuale civile, Milano, 1949, II, 1, 82, secondo cui l’individuazione del giudice d’appello pone un tema non di competenza, ma di attribuzioni istituzionali. Di mancanza di giurisdizione si parla invece in M. T. Zanzucchi, Diritto processuale civile, VI ed., Milano, 1964, I, 282; P. D’Onofrio, Commento al codice di procedura civile, Torino, 1957, I, 581.
[8] Per inciso il Consiglio di Stato dovrebbe essere più consapevole di altri del fatto che l’essere sezioni dello stesso giudice non basta a decidere la questione. Viene immediato ricordare che nel torno di tempo in cui alla IV ed alla V sezione vennero affidate competenze diverse dalla riforma del 1907, fu proprio il Consiglio di Stato, animato dall’idea che le due sezioni dessero vita a giurisdizioni speciali nettamente distinte, a ritenere – contro l’avviso pressochè unanime della dottrina – che non vi potesse essere alcuna sorta di translatio nel caso di ricorso rivolto alla IV anziché alla V sezione, ma solo rimessione in termini per errore scusabile. In arg. si rilegga F. D’Alessio, Rapporti e conflitti fra le due sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, Milano, 1912.
[9] Per un’analisi dell’art. 47 c.p.a. si veda ora L. Piscitelli, Commento sub art. 47, in Falcon-Cortese-Marchetti, Commentario breve al Codice del processo amministrativo, Padova, 2021, 495 ss.
[10] Per l’origine dell’istituto della translatio, nonché per l’analisi della dottrina di Mortara in argomento, sia consentito richiamare A. Squazzoni, Declinatoria di giurisdizione ed effetto conservativo del termine, Milano, 2013 a cui si fa rinvio anche per gli ulteriori temi qui solo evocati.
[11] V. Andrioli, L’appello avanti a giudice incompetente e l’art. 450 c.p.c., in Giur.it., 1946, I, 2, 241.
[12] A. Attardi, Sulla traslazione del processo dal giudice incompetente a quello competente, in Riv. dir. proc., 1951, 142 ss. in part. 160 ss.
[13] Per una critica alla tesi di Attardi, cfr. G. Tarzia, Opposizione a decreto ingiuntivo davanti a giudice incompetente, in Giur. it., 1963, I, 2, in part. 125 ss.; A. Saletti, La riassunzione del processo civile, Milano, 1981, 75 ss. Favorevoli ad applicare l’art. 50 c.p.c. all’appello, tra altri, E.T. Liebman, Corso di diritto processuale civile, Milano, 1952, n. 139, p. 217; A. Massari, Del regolamento di giurisdizione e di competenza, in E. Allorio (diretto da), Commentario al codice di procedura civile, Torino 1973, I, 609; S. Chiarloni, Appello. I) Diritto processuale civile, Enc. giur., Roma, 1988, II, § 7, p. 4; tra i più recenti, A. Carratta, Incompetenza del giudice d’appello e translatio iudicii: la parola alle sezioni unite, in Giur. it., 2016, 1615 e ss.
[14] In un regime processuale, come quello del c.p.c. del 1865, dove il diritto di appellazione della sentenza, in carenza di notifica, era soggetto a prescrizione, il concetto di impedimento della decadenza tecnicamente inteso (ossia secondo alla regola che poi si esprimerà nell’art.2967 dell’odierno codice civile) se applicato al caso dell’appello a giudice incompetente avrebbe comportato il passaggio dal termine di decadenza a quello prescrizionale. Lo ricorda, nel contesto di una tesi critica agli insegnamenti di Mortara, G. Scaduto, Sugli effetti c.d. conservativi della domanda davanti a giudice incompetente, in Studi di diritto processuale in onore di Chiovenda, Padova, 1927, in part. 747-748. Per ragioni intuibili tale soluzione non trovò riscontro in giurisprudenza (né per il vero in dottrina).
[15] Corte cost. n. 148/2021 annotata da chi scrive in questa Rivista, e con nota di E. Romani, Il regime della rinnovazione delle notificazioni nulle e il declino del principio di autoresponsabilità processuale, in Dir. proc. amm., 2022, 119 e ss.
[16] R. Oriani È possibile la «translatio iudicii» nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale: divergenze e consonanze tra Corte di cassazione e Corte costituzionale, in Foro it., 2007, I, 1013 ss., in part. 1025.
[17] L’affermazione più nitida, come noto, rimonta a Corte cost., n. 220/1986 (rel. Andrioli): “Il giusto processo civile vien celebrato non già per sfociare in pronunce procedurali che non coinvolgono i rapporti sostanziali delle parti che vi partecipano - siano esse attori o convenuti - ma per rendere pronuncia di merito rescrivendo chi ha ragione e chi ha torto: il processo civile deve avere per oggetto la verifica della sussistenza dell'azione in senso sostanziale di chiovendiana memoria, né deve, nei limiti del possibile, esaurirsi nella discettazione sui presupposti processuali, e per evitare che ciò si verifichi si deve adoperare il giudice”.
[18] Non è qui il caso di intrattenersi sul tema delle difficoltà di coniugare la tecnica della vera translatio quando l’errore cade sul mezzo di impugnazione. Basti notare che in qualche caso sembra che mezzo e giudice si identifichino. Eclatante e curioso l’esempio fornito da Cass., 16 gennaio 2004, n. 590, in Foro it., Rep. 2004. Contro una sentenza del giudice di pace si propose un preteso ricorso per Cassazione avanti al Tribunale (!) pretendendo poi di riassumerlo rivolgendosi alla Corte di cassazione. Per qualche indicazione sul tema, sia consentito rinviare ancora a A. Squazzoni, Declinatoria, cit., 164 ss.
Cosa si intende quando si parla di soggetto moderno?
Il soggetto moderno è – essenzialmente – un Io desiderante, autocosciente, capace di autodeterminarsi, dotato di autonomia morale, della capacità di scegliere, di fabbricarsi un destino da sé.
Questo Io non si forma subito nella storia.
La stessa parola soggetto rivela qualcosa della sua faticosa emersione nella vita dello spirito, il soggetto è colui che sta sotto, la radice è latina, è il sub-iacere che lo connota alle origini, la storia del soggetto è la storia della sua lenta e poi prorompente emersione.
La storia del diritto moderno è essenzialmente storia di questa emersione.
L’intreccio fra queste dimensioni è illustrato in modo affascinante nel recente e ricchissimo libro di Donato Carusi “Sua maestà legge? Tre secoli di potere, diritto e letteratura”, un docente di diritto civile presso l’Università di Genova convinto che la letteratura sia un “insostituibile fattore di promozione del diritto” come anche è vero – all’inverso - che la vita giuridica è costantemente oggetto di attenzione da parte di poeti e romanzieri (magari per mostrane il lato oscuro) del che il libro dà ampiamente prova.
Gli studi di diritto e letteratura sono parte dei c.d. Critical Studies sorti nell’ambito delle facoltà statunitensi.
Ovviamente la common law – con la sua natura casistico problematica – è terreno d’elezione per l’innesto di cases tratti dalla vita letteraria.
Non solo un movimento di amanti del giallo e di poeti mancati (come argutamente dice Carusi) ma un “sano anche se vago impulso all’interdisciplinarietà”. Si può aggiungere una metodologia di approccio agli studi giuridici tesa a valorizzarne il retroterra basato sugli studi umanistici spesso unica chiave per fare emergere la densità semantica delle parole della legge (parole che hanno sempre dietro una storia e delle speranze come delle concrete sofferenze).
In Gargantua e Pantagruele il giudice Brigliadoca decide le cause gettando i dadi.
Rabelais voleva senz’altro mostrarci la sua sfiducia nella giustizia umana più che nei giudici.
Borges ripeterà la fantasia nella Lotteria di Babele che organizza un principio di giustizia sociale sul gioco della lotteria e sul caso che rovescia le fortune; evidentemente sul presupposto della fallacia di ogni tentativo arrogante di giustizia umana.
L’impossibilità di un giudizio senza misericordia è testimoniata dal passo del Don Chisciotte sul responso di Sancio Pancia giudice in un remoto lembo di mondo, compulsato da un messaggero:
Signore, un largo fiume divideva due province d'un medesimo stato.
Stia bene attenta la Signoria Vostra, perché il caso è di grande importanza e un po' difficile.
Dico dunque che sopra questo fiume c'era un ponte, e in cima a questo ponte una forca e un tribunale, dove di solito stavano quattro giudici, che giudicavano secondo la legge fatta dal padrone del fiume, del ponte e dello stato; la qual legge era cosi formulata:
"Se uno passa su questo ponte da una riva all'altra, deve prima dichiarare con giuramento dove va e quel che va a fare. Se giura il vero, sia lasciato passare, ma se mente, sia impiccato sulla forca qui inalzata senza alcuna remissione".
Conosciuta questa legge e la rigorosa condizione, molti passavano lo stesso, perché dopo che s'era riscontrato che quanto dichiaravano sotto giuramento era perfettamente vero, i giudici li lasciavano passare liberamente.
Ora accadde una volta che un tale, invitato a giurare, giurò e disse:
"Giuro che passo di qui per andare a morire su quella forca laggiù,e non per altra ragione".
I giudici rifletterono a questo giuramento e dissero:
"Se quest'uomo lo lasciamo passare liberamente, ha giurato il falso e secondo la legge deve morire; ma se noi l'appicchiamo, siccome egli ha giurato che passava per andare a morire su quella forca, allora ha detto verità, e secondo la stessa legge, avendo giurato la verità, deve esser lasciato il libero".
Ora, si domanda alla Signoria Vostra, signor governatore, che cosa faranno i giudici di quest'uomo? Poiché essi sono ancora lì, incerti e dubitosi. Siccome son venuti a conoscere l'acuta ed elevata intelligenza della Signoria Vostra, mi hanno inviato a supplicarla da parte loro a voler dare il suo parere in un caso cosi intricato e dubbio.
-Quei signori giudici avrebbero potuto risparmiarsi l'incomodo -rispose Sancio- perché io son uomo più rozzo che fino. Tuttavia, ripetetemi il caso in maniera che lo intenda bene, e chissà che non possa dar nel segno.
L'inviato ripeté un'altra volta e poi un'altra ancora il racconto, e Sancio finalmente disse:
-A parer mio, questo caso si risolve in due battute, e precisamente così. Quell'uomo giura che passa per andare a morire sulla forca, non è vero? E se egli ci muore veramente, avrà detta la verità, e in virtù della legge merita d'esser lasciato libero e di passare il ponte. Ma se non l'appiccano, egli avrà spergiurato e, sempre in virtù della medesima legge, meriterà d'essere appeso alla forca: non è cosi?
-Benissimo- riprese il messaggero. -Ella, signor governatore, ha interamente capito come stanno le cose, e non c'è più alcun dubbio, né più nulla da domandare.
-Ebbene- replicò Sancio -la mia opinione è che, di quell'uomo, la parte che ha detto la verità si debba lasciar passare, e quella che ha mentito sia impiccata. Cosi saranno letteralmente rispettate le condizioni del passaggio.
-Ma, signor governatore- replicò l'altro, allora bisognerebbe dividere quell'uomo in due parti, la sincera e la bugiarda; e se si dividesse davvero, bisognerebbe che morisse per forza; e quindi non si otterrebbe nulla di quello che esige la legge e che deve essere inesorabilmente eseguito.
-O sentite un po', brav'uomo- riprese Sancio -questo passeggero di cui mi parlate, o io sono una bestia, o tanto è giusto che muoia come che viva e passi il ponte. Perché se la verità lo salva, la menzogna lo condanna, e quindi il mio parere è che rispondiate a quei signori che vi hanno mandato, che siccome le ragioni di condanna e di assoluzione qui si bilanciano, lo lascino passare liberamente, perché è sempre meglio far del bene che del male; e questo lo sottoscriverei di mio pugno, se sapessi firmare. Ma, per dire il vero, in questo caso non ho parlato di mia testa; ma m'è tornato in mente un avvertimento che insieme con molti altri mi dette il signor Don Chisciotte la sera avanti che partissi per venire a prendere il governo di quest'isola. E l'avvertimento fu: che quando la giustizia non fosse chiara, mi piegassi e mi appigliassi alla misericordia. Dio ha voluto che in questo momento me ne ricordassi, perché qui l'avvertimento calza come un guanto.
-Oh, sì!- disse il maggiordomo -e per conto mio credo che lo stesso Licurgo, che dette le leggi agli Spartani, non avrebbe potuto dare miglior sentenza di quella che ha data il gran Sancio. E qui per stamani mettiamo fine all'udienza.
Rabelais e Cervantes esprimono bene la diffidenza e l’insofferenza della società medievale al tramonto verso il diritto comune europeo.
Anche Swift usa la sferza:
Dissi che c’era tra noi una categoria di persone educate sin dalla giovinezza nell’arte di dimostrare con parole moltiplicate per lo scopo che il bianco è nero, e il nero è bianco, secondo come erano pagate. Tutto il resto della popolazione è schiavo di questo gruppo.
«Per esempio: se al mio vicino salta in mente di prendersi la mia vacca, assolda un legale per dimostrare la fondatezza delle sue pretese. lo devo allora assoldarne un altro per difendere il mio diritto, perché sarebbe contro ogni norma di legge che a un uomo sia concesso di parlare a propria difesa. Ora, in questo caso, io che sono il giusto proprietario mi trovo di fronte a due grandi svantaggi. Innanzi tutto, essendo il mio avvocato abituato quasi fin dalla culla a difendere la menzogna, egli si trova del tutto fuori del proprio elemento ove voglia essere il difensore della giustizia, che come compito innaturale egli affronta sempre con grande disagio, se non con riluttanza. Il secondo svantaggio consiste nel fatto che il mio legale deve procedere con grande cautela, altrimenti sarà ripreso dai giudici e aborrito dai confratelli come uno che voglia sminuire l’esercizio della legge. E perciò mi restano soltanto due metodi per conservare la mia vacca. Il primo consiste nel comperare l’avvocato del mio avversario con un doppio onorario, e allora egli tradirà il suo cliente insinuando che la giustizia è dalla sua parte. La seconda via consiste, per il mio legale, nel far si che la mia causa appaia quanto più ingiusta possibile, ammettendo che la vacca appartiene al mio avversario; e questo, se abilmente fatto, assicurerà certamente il favore della corte.
Ora, Vostro Onore deve sapere che questi giudici sono persone incaricate di decidere tutte le controversie della proprietà cosi come i processi dei criminali, e sono scelti tra gli avvocati più abili divenuti vecchi o pigri; ed essendo questi stati inclini per tutta la vita ad agire contro la verità e l’equità, si trovano a tal punto nella fatale necessità di favorire la frode, lo spergiuro e l’oppressione, che alcuni di loro da me conosciuti hanno rifiutato una grossa somma dalla parte che era nel giusto pur di non recare ingiuria alla Facoltà facendo una cosa disdicevole alla loro natura e al loro ufficio.»
I giuristi non godono di buona letteratura e gli avvocati ed i giudici di Swift sono i predecessori dell’Azzeccagarbugli dei Promessi Sposi.
Donato Carusi si chiede le ragioni di tanto astio e conclude argutamente che la “storia della letteratura pullula di grandi autori che prima di essere tali furono avviati a studi giuridici” senza entusiasmo, studi abbandonati con un senso di liberazione ( fra questi Balzac, Proust, Kafka e Marquez ).
Può essere che vi siano ragioni biografiche dell’astio, anche ricorrenti.
Ma il punto è – lo ammette anche Donati - che il diritto nasce per limitare il potere ma spesso si trasforma nel suo strumento.
Questa ambiguità costitutiva del diritto deve essere presente alla coscienza dei giuristi perché essi possano svolgere il loro lavoro con qualche antidoto, a garanzia dell’autodeterminazione del soggetto moderno e non della sua oppressione.
Un errore da non compiere assolutamente è poi pensare che il diritto sia il centro del mondo.
Mentre il diritto si comprende bene quando non si è solo giuristi ma anche un po' filosofi, letterati, sociologi, economisti e perfino un po' medici o epistemologi.
L’eclettismo fa bene al giurista purché non sia all’insegna del fai da te ma del confronto con le scienze ed i saperi di ogni epoca.
Il processo amministrativo aperto allo scrutinio della discrezionalità tecnica è una scommessa aperta in questo senso.
Né può dirsi che il diritto con il suo formalismo sia nemico della cultura.
Ne è anzi uno strumento di essenziale promozione e protezione.
Piuttosto è vero il contrario i giuristi (spesso temperamenti pedanti) sono sensibili alla cultura, alla letteratura ed all’arte mentre gli spiriti artistici disdegnano il diritto a sensazione, senza forse nemmeno del tutto conoscerlo (nota Donati e si deve ammettere che ci sia della ragione in questa notazione).
Il diritto ha anche spesso la tentazione di chiudersi nella sua autosufficienza (la dottrina pure del diritto come reazione difensiva in tempi difficili di avvento dei totalitarismi) ma sempre profondo ed ineliminabile è il rapporto fra il diritto e la storia (come crocianamente fra la storia e l’arte e quindi alla fine fra diritto ed arte). Tutto ciò Kelsen lo sapeva assai meglio di certi kelseniani di vedute ristrette.
Kelsen infatti scrive su Dante Alighieri per andare a fondo nello studio delle origini dello Stato.
E tanto questo è vero che sino ad oggi questo rapporto non si è perso : Calamandrei, Betti, Pugliatti, Cordero, Rescigno e Zagrebelsky sono maestri radicati nell’umanesimo che costituisce la prima radice degli studi giuridici.
A parte sta Salvatore Satta che ha tenuto insieme il diritto e l’arte del romanziere, non senza che la seconda forse ne soffrisse per emergere ed essere riconosciuta quasi che al giurista a tutto tondo non convegna essere anche un artista.
Ma certamente questo nesso fra il diritto e la letteratura serve a promuovere la coscienza della centralità del Soggetto moderno come uomo che anela alla bellezza ed alla felicità attraverso istituzioni decenti.
Inoltre il mantenimento di tale nesso può far conoscere il diritto praticato in altri tempi o in altre società e contesti culturali e geografici, può far sviluppare la fantasia facoltà utile per comprendere cosa sta dietro le “fredde carte” di un processo, ricorda perennemente cosa sia un principio universale di giustizia, come anelito ed attività adeguata all’uomo (il sabato è per l’uomo non l’uomo per il sabato); ricorda che non esiste una sola idea di giustizia ma tante idee quante società che la coltivano, abituando al pluralismo dei valori ed ad un relativismo non nichilistico.
Ricorda Carusi che ciascuna di queste ragioni per studiare le relazioni fra diritto e letteratura è valida ma a ciascuna possono muoversi obiezioni.
La letteratura nell’occuparsi del diritto non mira a descriverlo fedelmente sicché per questo occorrono storici del diritto o antropologi o sociologi del diritto.
Resta vero che la letteratura stimola la fantasia e che il diritto in ogni branca si giova più o meno intensamente della fantasia (nel diritto criminale si tratterà di ricostruire la scena di un crimine ed all’inquirente giova nel sopralluogo avere fantasia immaginare cosa possa essere accaduto dalle tracce rimaste visibili, perché questo aiuta a individuare anche le tracce più nascoste; al civilista giova fare ipotesi e domande che vadano oltre la narrazione del cliente; all’amministrativista giova ad es. ricostruire gli scenari del potere anche politico che possono ispirare a volte legittimamente a volte no le decisioni amministrative).
Certo anche nel contesto di civil law giova la fantasia che non deve essere mai usata per decampare dal dettato della legge ma piuttosto per ricostruirne i presupposti applicativi con la necessaria finezza.
Si tratta della lecita creatività della giurisprudenza messa spesso sotto accusa dall’illusione metodologica che il diritto possa risolversi nello studio pacificante degli universali.
Un ultimo punto: la letteratura, coltivata nella lettura, porta al buon uso del linguaggio, ci rende confidenti del suo uso onesto ma anche – siamo uomini – del suo uso disonesto.
Anche di questo essere immerso nei giochi linguistici è fatto il Soggetto moderno (Wittgenstein docet con il suo scrivere aforistico letterario tanto apprezzato da George Steiner).
Non si tratta solo di un coltivare un gesto, una esperienza, un fatto estetico, ma, attraverso l’estetica, di compiere un tirocinio morale consistente nella ricerca perenne della abissalità dei significati, dell’insufficienza del linguaggio a cogliere la cosa, in definitiva, del limite del nostro operare nella giustizia umana.
Sommario: 1. Lo stato normativo attuale in punto di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali. 2. La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali tra indipendenza del giudice, nomofilachia e ragionevole durata dei processi; l’auspicio di un avvocato.
1. Lo stato normativo attuale in punto di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.
Credo che per affrontare il tema della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali civili la prima cosa da fare sia quella di ricordare le riforme legislative che in questi anni si sono avute e che hanno sacrificato (penso lo si possa dire) il valore della motivazione in favore della celerità delle decisioni.
1.1. La prima riguarda l’art. 132 c.p.c.
Un tempo la sentenza doveva contenere lo svolgimento del processo e i motivi di fatto e di diritto della decisione; poi, in nome di una certa celerità, il testo dell’art. 132 c.p.c. è stato mutato, e dal 2009 la legge prevede che la sentenza abbia solo “la coincisa esposizioni delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”.
Questa riforma ha comportato, in punto di motivazione, una certa assimilazione delle sentenze alle ordinanze, poiché l’ordinanza è “succintamente motivata” ai sensi dell’art. 134 c.p.c.; difficile trovare una differenza concreta tra una motivazione coincisa e una motivazione succinta; tutte, potremmo dire, autorizzano il giudice, in una certa misura, a motivare in modo non esteso, o sommario, o riassunto, se non addirittura sbrigativo. E la sinteticità, oggi, sembra essersi fatta imprescindibile (ovviamente anche in punto di motivazione dei provvedimenti giudiziari) con l’aggiunta del nuovo comma dell’art. 121 c.p.c.: “Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico”.
Se si vuole, poi, il venir meno della contrapposizione tra sentenza e ordinanza la si è colta anche nelle riforme successive al 2009, che hanno mutato struttura e funzione dei due provvedimenti: mi è facile ricordare che fino ad ieri in primo grado si potevano definire con ordinanza tutti i processi a cognizione sommaria, in appello tutti i casi di inammissibilità ex art. 348 bis c.p.c.; e qui in Cassazione, oramai (quasi) tutti i provvedimenti hanno la forma dell’ordinanza, visto che la sentenza è pronunciata solo a seguito di udienza pubblica, ovvero solo a seguito di una condizione processuale assai rara.
1.2. Si è rafforzata, poi, in questi anni, l’idea della motivazione per relazione.
Se io dovessi spiegare in modo semplice cosa sia, direi che è l’opposto dell’autosufficienza: per autosufficienza si intende un atto che abbia in sé tutto ciò che serve; per motivazione per relazione, invece, si intende qualcosa che non ha in sé tutto ciò che serve.
La motivazione per relazione, infatti, è tale perché rinvia ad un’altra motivazione contenuta in un'altra decisione; l’atto quindi non è motivato, e per cogliere il suo fondamento si tratta di andare a leggere la motivazione di un altro provvedimento.
Questa tecnica è stata resa legge, sempre del 2009, con la riforma dell’art. 118 disp. att. c.p.c.: “La motivazione della sentenza consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”.
Da ricordare, peraltro, che seppur l’art. 118 disp. att. c.p.c. sia disposizione generale, e come tale applicabile a tutti i processi, il legislatore talvolta ha avvertito la necessità di riaffermare il medesimo concetto con diverse parole in contesti specifici.
È il caso del nuovissimo art. 350 bis c.p.c. che regola la decisione in appello a seguito di discussione orale, ove: “La sentenza è motivata in forma sintetica, anche mediante esclusivo riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi o mediante rinvio a precedenti conformi”
Dunque, la sentenza A può motivare asserendo che le ragioni della decisione sono quelle della sentenza B, e tutto avviene, sempre, per ragioni di brevità.
1.3. La motivazione per relazione, poi, sottintende un altro concetto, che è quello della uniformità delle decisioni.
La motivazione potrebbe essere il momento della libertà creativa del giudice, e tale, in una certa misura, era in passato; la motivazione per relazione contrasta invece con questa dimensione, poiché è una tecnica che chiede al giudice semplicemente di richiamare una motivazione che si trova in dei precedenti che non sono i suoi.
Un tempo la valutazione dei magistrati avveniva anche in base alla motivazione dei provvedimenti assunti; oggi il nuovo l’art. 3, 1 comma, lettera h) 1, della legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario, l. 17 giugno 2022 n. 71, sembra porsi in modo contrario.
Sostanzialmente, tale norma pretende che i giudici stiano attenti a non emanare provvedimenti che possano essere riformati e/o cassati, poiché ciò potrebbe incidere negativamente in punto di valutazione della loro professionalità.
L’originalità non sembra proprio più essere premiata, ed anzi va evitata anche in assenza di precedenti specifici, poiché in quei casi, oggi, preferibilmente, il giudice del merito deve infatti rivolgersi alla Corte di Cassazione in base al nuovo art. 363 bis c.p.c., e non avventurarsi in proprie dissertazioni.
1.4. La motivazione, poi, non ha più, potremmo dire, nemmeno controlli, o ha controlli assai ridotti dopo la riforma del 2012 degli artt. 360 n. 5 c.p.c. e 348 ter c.p.c.
Provocatoriamente, potrei dirvi: motivate pure come volete, senza problemi, poiché tanto la vostra motivazione andrà in ogni caso bene, nessuno potrà aver da ridire.
Se un giudice di primo grado, ad esempio, deposita un provvedimento con motivazione insufficiente, contraddittoria o del tutto mancante, il vizio difficilmente potrà costituire motivo di appello, perché il giudice d’appello non prenderà infatti in considerazione una impugnazione del genere, e solo si interesserà a verificare se, nel merito, il primo giudice abbia bene o mal deciso.
Ed egualmente succederà in Cassazione, poiché anche la Corte di Cassazione non può più censurare vizi di motivazione se questa abbia comunque soddisfatto il requisito che viene definito “minimo costituzionale”, ovvero se l’anomalia motivazionale non si è concretizzata “nella mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione”. (così, fra le molte, Cass. 5 settembre 2022 n. 26011).
Basta quindi motivare il minimo costituzionale, tutto il resto è un di più al quale sembra non siate tenuti.
1.5. Oggi, infine, è entrato in gioco un ultimo aspetto, che agevolmente si collega alla recentissima riforma dell’art. 46 disp. att. c.p.c. sulla Forma degli atti giudiziari, e che è quello dell’algoritmo, dell’intelligenza artificiale, dell’utilizzazione delle macchine in seno all’esercizio della funzione giurisdizionale.
Se allo stato attuale non è nÈ possibile nÈ pensabile che una macchina si sostituisca interamente al giudice, e quindi decida chi ha ragione e chi ha torto in suo luogo, è viceversa possibile che una macchina aiuti il giudice nel predisporre la motivazione della decisione che egli abbia preso, se non addirittura lo aiuti nel redigerla integralmente.
Il giudice mette nella macchina la decisione, e questa, con la sua precisa e vastissima banca dati, provvede a ricercare i precedenti specifici per una motivazione per relazione; se i precedenti specifici non ci sono, sempre con la medesima banca dati, elabora un testo motivazionale con il richiamo di tutti i precedenti; il giudice non ha che da rileggerlo, e, magari, da correggerlo e/o integrarlo in qualche parte; poi il provvedimento è completo, e può essere depositato.
2. La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali tra indipendenza del giudice, nomofilachia e ragionevole durata dei processi; l’auspicio di un avvocato.
Io credo, ed è questo il messaggio che vorrei trasmettere, che nonostante la situazione del presente, nonostante l’esigenza di contenere i tempi della giustizia, e nonostante la digitalizzazione dei processi, la motivazione dei provvedimenti rimanga un momento centrale della funzione giurisdizionale, qualcosa che valga ancor oggi un sforzo, un’attenzione.
2.1. Certo, il diritto vivente vi dice che vi potete accontentare del minimo costituzionale; e poi, ovviamente, i casi che si presentano nella vita quotidiana di un giudice sono normalmente pratici, privi di rilevanti questioni giuridiche, e quindi non bisognosi di motivazioni complesse.
Però, ricordate, il cittadino al quale vien dato il vostro provvedimento, dopo aver letto il dispositivo per sapere se ha vinto o perso la causa, va subito a leggere la motivazione, e lo fa per capire davvero quello che è successo.
E quella lettura, più che quella del dispositivo, gli farà comprendere qual è il giudice che ha avuto di fronte.
Comprenderà se quel giudice ha attentamente studiato le carte oppure le ha solo distrattamente sfogliate; comprenderà se quel giudice ha avvertito il bisogno di ascoltare, di capire, perfino di dubitare prima di decidere e motivare, oppure se il suo obiettivo è stato solo quello di liberarsi dell’incombente; comprenderà se quel giudice ha percepito il dovere di giustificare la decisione che andava ad assumere, oppure ha ritenuto sufficiente la sua autorità di magistrato; e comprenderà, infine, se quella motivazione è stata il frutto del suo lavoro e del suo impegno, oppure il semplice prodotto di una macchina che per lui ha redatto artificialmente le ragioni della decisione.
Consentitemi di dire, così, che l’analisi che ogni cittadino farà delle motivazioni che voi redigerete, concretizzerà il senso dell’art. 101, 1° comma, Costituzione, per il quale: “La giustizia è amministrata in nome del popolo”; e dunque non dimenticate mai quella norma quando andate a motivare i provvedimenti.
Certo, i problemi che il sistema giustizia deve affrontare sono altri, però credo che nessun problema possa anteporsi a ciò.
2.2. Vi è, sicuramente, l’esigenza della celerità delle decisioni, alla quale le motivazioni dei provvedimenti devono pagare un prezzo.
Tuttavia, a mio sommesso parere, il prezzo da pagare non potrà essere quello di trasformare i giudici in burocrati che, aiutati da algoritmi e altri strumenti digitali, semplicemente riproducano concetti e decisioni già prese, e ciò per far prima, per non perdere tempo, senza più motivare, e quindi senza più dubitare e riflettere, poiché ciò, oltre a comportare un evidente immiserimento della funzione giurisdizionale, ci condurrebbe a metodi che non appartengono alla nostra tradizione giuridica di civil law.
Sotto questo profilo dobbiamo tutti ricordarci che la magistratura, nel nostro sistema, è, e deve rimanere, un potere diffuso, così come stabilito negli artt. 106 e 107 Costituzione.
E la magistratura non sarebbe più un potere diffuso ove questa dovesse solo riprodurre l’esistente.
È evidente che in tutto questo la motivazione dei provvedimenti svolge un ruolo irrinunciabile.
2.3. V’è poi, ovviamente, l’esigenza di trattare in modo paritario tutti i cittadini di fronte alla legge, e quindi di rispettare quella che si definisce nomofilachia.
Ma questa esigenza, senz’altro reale, non potrà far venir meno, di nuovo, il principio secondo il quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge, e rispondono del loro operato secondo scienza e coscienza.
Un tempo si chiamava questo senso della giurisdizione, che, ritengo, non debba smarrirsi.
E poi la nomofilachia non può rendersi nemica della pluralità, non può essere intesa in senso rigorosamente verticale.
Possiamo e dobbiamo immaginare invece una nomofilachia che sia capace di rispettare l’indipendenza, anche interna, del giudice, e si muova e si formi in senso anche orizzontale, ovvero che riesca a trovare conferma, aggiustamento e integrazione con le motivazioni e le ragioni dei giudici del merito, che la condividono e la integrano, e alle volte, perché no?, la disattendono, se non ne sono, in scienza e coscienza, convinti.
Diceva un importante magistrato del passato, in difesa dell’indipendenza (anche interna) del giudice, che l’art. 101 Costituzione: “………..la norma per la quale i magistrati sono soggetti soltanto alla legge, dove l’accento cade sull’avverbio –soltanto-…….comanda la disobbedienza a ciò che la legge non è………disobbedienza alla stessa interpretazione degli altri giudici, e dunque libertà interpretativa.” (Giuseppe Borrè, Le scelte di magistratura democratica, in www.questionegiustizia.it). .
Ovviamente non è mia intenzione invitarvi alla disobbedienza; ma a decidere e motivare con quel senso della giurisdizione che è la perfetta sintesi tra responsabilità e libertà, sì; perché quella vostra libertà, sarà la libertà, al tempo stesso, di tutti noi.
Buon lavoro.
[1] Scrittura della breve relazione tenuta nell’Aula Magna della Corte di Cassazione il 15 maggio 2023 nel contesto di un incontro di studio organizzato dalla SSM per i Magistrati Ordinari in Tirocinio del 2022.
Molto si è scritto su don Lorenzo Milani con la consapevolezza di non riuscire a dire tutto. Perché ciò che si è rappresentato all'interno di una esistenza breve ma bruciante è derivato principalmente dal cuore. E ciò che ha quell'origine non è mai completamente spiegabile o circoscrivibile. Oppure prende forza da quella radice profonda che sta su quella linea di confine interiore in cui si completano pensiero e azione; in cui si sfidano finitezza consapevole e ansia di infinito; in cui la ricerca della verità mette già in conto il graffio sulle coscienze intorpidite.
A cento anni dalla nascita del Priore vale ancora l'auspicio che intorno alla sua figura dovrebbe fiorire più la meditazione che la risonanza. Meditazione su un "habitus" mentale e spirituale che fu tutt'uno con il suo modo di essere. Che insegna, ancora, l'etica della responsabilità nel reagire a tutto ciò che appare come "ordine" accomodante, ma che oscura altri sistemi di valori, quello della coscienza e della Costituzione.
Il Sacerdote -che fu definito una "campana stonata", ma che, in realtà, anticipava i tempi in modo profetico, pagando duramente anche di persona- ci parla ancora? Oppure è ormai confinato nel puro giudizio storico di un'epoca di passione e di conflitto da cui siano lontani in modo irrimediabile perché non ci appartiene più nell'animo? Penso che, al netto delle peculiarità storiche e delle tensioni irrisolte dell'Uomo Milani, sia attuale, pur nella sua apparente inattualità, la nettezza e la densità del suo modello di riflessione sulla Persona.
Quello che dovrebbe costituire il nucleo profondo di ogni ragionamento, la pietra di paragone di qualsiasi proposta civile e, più generalmente, politica. Ma, ancora più direttamente, quella di don Lorenzo è una voce che indica lo spazio dell'agire sempre sorretto da un giudizio critico sulla realtà, senza prudenze autoassolutorie, diverso nei contenuti e nelle prospettive da quelli che si adeguano. "Fai strada ai poveri, senza farti strada" è, ancora oggi, un invito veemente a seguire un percorso "altro" rispetto a quello che la comunicazione e tutto ciò che oggi è "struttura", anche istituzionale, indicano come regola del "saper" vivere. Solo che la povertà, oggi, non si misura più sotto il profilo squisitamente economico, ma nella mancanza di strumenti e persino di volontà nel farsi carico della complessità del reale.
Dovremmo concludere, quindi, che il Priore di Barbiana sia da annoverare tra i maestri dell'utopia oppure tra gli esempi inutilmente oppositivi a quel sistema che, alla fine, è risultato vincente e incontrovertibile? Sul punto, ricordo quanto mi ha detto, alcuni anni fa, Adele Corradi che gli fu vicina negli ultimi anni di vita. All'imbrunire di un giorno estivo, quando la luce sulla collina toscana allunga le ombre delle piante e si diffondono i profumi della terra, Adele chiese a don Lorenzo se avesse senso tutto quello che stava facendo in uno luogo comunque lontano dalla città, dai grandi centri di discussione e di dibattito, dai luoghi delle grandi intelligenze, suscitando le adesioni di alcuni e le forti contrapposizioni di molti altri. Don Lorenzo rimase in silenzio per alcuni minuti. Poi disse che tutto stava nella risposta a una domanda: su quanto si fosse in grado di donare agli altri nel posto in cui, per destino o per scelta, a ognuno è toccato vivere. Perché la qualità di una esistenza si misura dall'impegno che si è capaci di profondere per elevare la condizione e la coscienza di chi ci è vicino o ci è affidato.
L'amore universale è semplice filantropia, mentre l'unica cosa che conta è l'amore per chi incrocia la nostra strada, a cui possiamo donare ciò che abbiamo di meglio per la sua libertà e la sua crescita.
Quelle parole mi paiono ancora molto importanti perché delineano un cammino, un metodo per non rimanere "intruppati", per recuperare quella dimensione etica in cui fede e laicità si confrontano verso le verità possibili all'interno delle esperienze, lasciando intatto il mistero della Grazia.
In questo senso, il messaggio milaniano potrebbe apparire inattuale, "fuori tempo". Ma il cristiano autentico è sempre apocalittico, rivelatore. Non può che essere "lucerna posta sul moggio", esempio visibile di contraddizione, di distonia rispetto a chi "mira basso" e a tutto ciò che avvilisce, mortifica e "bestemmia" il tempo.
Forse la principale lezione che viene ancora da don Milani sta nel dover definire i concetti di grandezza, di piccolezza (del luogo, della persona) e persino di tempo non secondo i criteri di una modernità banale, ossessiva in termini di raggiungimento di consenso e di potere.
Milani ci dice che è sempre l'azione, l'impegno sorretto da una prospettiva di bene comune, senza alcuna volontà di carriera, ciò che rende piena l'esistenza di ognuno. È quell'impegno, quello sforzo, quella dedizione che trasforma i posti (fisici, professionali, istituzionali che siano) da luoghi piccoli in luoghi immensi.
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