1. Il diritto non è interamente appannaggio della legge, ed il giudice assume un rilevante ruolo ai fini della effettività nell’ordinamento dei precetti da essa posti; egli non si limita infatti ad una loro meccanica applicazione, non essendo automatico strumento di sussunzione del fatto nella norma (la bocca della legge dell’utopia illuministica) ma ben di più, cioè un interprete che nello svolgimento della funzione di filtro fra il caso concreto ed il comando astratto, assume immancabilmente un ruolo che, se non può essere definito creativo, è quanto meno di integrazione e rifinitura del quadro normativo predisposto in linea generale dal legislatore: attraverso la mediazione dell’interprete la norma si adatta alla realtà ed ai suoi mutamenti, e ciò anche quando le istituzioni della sovranità rimangono inerti di fronte alle esigenze del cambiamento in una realtà economico-sociale caratterizzata da mobilità e pluralismo.
2. L’attività, da parte del giudice, di interpretazione e adeguamento del diritto scritto alla realtà, cioè la trasformazione di questo in “diritto in azione”, è idonea tuttavia a determinare differenze e distinzioni tra le decisioni degli organi della giurisdizione, con conseguente pregiudizio per la certezza del diritto; la legge, infatti, per una serie di motivi (carenza tecnica di redazione, problematicità della materia, indecisione e compromesso delle forze politiche che l’hanno approvata, esigenza di minore tassatività per la mutevolezza sociale del bene giuridico di riferimento) non si presenta normalmente sufficientemente determinata ed ai relativi comandi è possibile attribuire diversi significati.
3. L’esistenza dei conflitti interpretativi pregiudica dunque l’esigenza fondamentale della certezza del diritto ed, insieme, i valori indefettibili in una società moderna e democratica dell’eguaglianza fra i cittadini e della prevedibilità delle decisioni giudiziarie.
E’ stato autorevolmente illustrato in proposito (G. Gorla, Postilla su «l’uniforme interpretazione della legge e i tribunali supremi», in FI, 1976, V, 129) come per certezza del diritto si intenda la certezza di esso quale norma o criterio di condotta per chi intende compiere un dato atto (compreso il promuovere un’azione giudiziale, o il resistervi) e vuol sapere quali ne siano gli effetti giuridici.
Ciò postula che della legge sia data un’interpretazione uniforme in modo da poter fare un sicuro affidamento su di essa per compiere quell’atto; l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge significa che la legge deve essere interpretata in modo eguale per tutti coloro che si trovano in una data situazione o “caso”: qui l’atto si intende già compiuto, e l’uniforme interpretazione non serve come norma o criterio di condotta, ma come garanzia della parità di trattamento.
Nel campo penalistico, poi, certezza del diritto è affermazione del principio di legalità inteso come garanzia della conoscibilità dei precetti e prevedibilità delle sanzioni nonché come effettività dello stesso principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole
4. Il sistema ordinamentale attribuisce alla Corte di cassazione la funzione di assicurare l’esatta osservanza della legge e l’uniforme interpretazione del diritto oggettivo nazionale (art. 65 ord. giud.). L’uniformità della giurisprudenza costituisce dunque un valore legislativamente contemplato e perseguito dall’ordinamento: ed essa presuppone necessariamente, sotto il profilo oggettivo, il rispetto del precedente giudiziario di legittimità da parte di tutti i giudici non solo di merito, ma anche e soprattutto da parte della stessa Corte di cassazione; e, sotto il profilo soggettivo, la consapevolezza da parte di tutti i suoi componenti, della necessaria fedeltà alle proprie decisioni. E ciò è tanto più vero quanto più il rispetto del precedente non sia equivocamente inteso come vincolo ovvero come sinonimo di immobilismo e rigidità dell’interpretazione, bensì come espressione del principio che quest’ultima muti solo quando fondate ragioni, eventualmente connesse ai cambiamenti di una società in evoluzione, lo richiedano.
5. Dunque si può parlare a questo proposito di “diritto giurisprudenziale” e, come in più occasioni rappresentato dal presidente Ernesto Lupo, può dirsi che il giudice “soggetto solo alla legge”, sia ormai “soggetto al diritto”, con un “diritto vivente” che ci avvicina sempre più ai paesi anglosassoni.
L’importanza dell’intervento nomofilattico cresce dunque con l’affermarsi dell’importanza del diritto giurisprudenziale, il quale ha bisogno di un “passaggio fermo” che può essere dato solo dalle pronunce della Corte di cassazione.
6. La garanzia della uniformità dell’interpretazione deve comunque sempre confrontarsi con la disponibilità ad intendere il nuovo ed a tenere conto del pluralismo di idee ed interessi in un confronto continuo di posizioni anche con i giudici del merito, sicché la funzione di nomofilachia è da intendersi come dialettica e non autoritaria, ispirata ad una “dinamica continuità”. Il valore (meramente) persuasivo del precedente di legittimità non ripete dunque la sua efficacia dall’autorità di cui il giudice è dotato sebbene dalla sua autorevolezza, che non è certo conferita dalla legge ma che si acquista attraverso un ineccepibile e convincente esercizio della funzione propria della Corte suprema, l’elevata professionalità dei cui componenti, insieme ad una sperimentata, specifica e rigorosa organizzazione (ignota all’esterno, per cui i “nuovi giunti” si sentono smarriti), costituisce il vero e unico rimedio che consenta di coniugare tempestività e qualità delle decisioni.
7. E’ fatto notorio che la quantità degli affari che pervengono annualmente alla Corte di cassazione imponga un ritmo di definizione che ben è stato definito “ossessivo”; ma ad una domanda “drogata” deve sempre seguire una risposta “di qualità”, da riservarsi esclusivamente alle doglianze e conseguentemente alle decisioni che coinvolgono la funzione nomofilattica: deve essere patrimonio condiviso dei magistrati del merito, dei difensori ma, soprattutto, dei suoi componenti, il principio che la Corte è e rimane sempre giudice delle questioni e non della causa.
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