La Corte di Cassazione è preposta per Costituzione al controllo di legalità dei provvedimenti giurisdizionali decisori, ma per diritto vivente ordinamentale e processuale garantisce anche l’esatta ed uniforme interpretazione del diritto. Si tratta di due concezioni del sindacato di legittimità, rispettivamente una concezione soggettiva ed una oggettiva, che possono oggi apparire in contrasto per avere acquistato la funzione soggettiva le caratteristiche di un contenzioso di massa. Quest’ultimo mina le basi della funzione oggettiva, perché la casistica di massa frammenta la giurisprudenza di legittimità, facendole perdere la natura di uniforme produzione dell’interpretazione del diritto. Le due funzioni, soggettiva ed oggettiva, sono in realtà le due facce della stessa medaglia, perché, una volta che il controllo di legalità sia esercitato da una corte di legittimità, preposta per statuto all’esatta ed uniforme interpretazione del diritto, la nomofilachia diventa un attributo naturale della giurisprudenza della Corte di cassazione. Nel risolvere il singolo caso, la Corte è naturalmente nomofilattica (ed è il caso la fonte del potere di interpretazione del diritto, il quale perde la legittimazione se viene esercitato in modo disancorato dal punto controverso, come accade quando si indulge oltre misura nell’obiter dictum: sul punto andrebbe fatta una riflessione fortemente critica).
Noi abbiamo oggi il compito di restituire alla Corte questa funzione di nomofilachia naturale e non possiamo farlo se tale compito viene addossato esclusivamente sulla Corte. Dal punto di vista della Corte di cassazione civile questa strada è stata da tempo intrapresa, con riforme processuali (il rito di sesta sezione, l’introduzione del rito non partecipato con la decisione in forma di ordinanza, la proposta di definizione del giudizio) che mirano a separare la funzione del controllo di legalità in senso stretto, priva di un significato nomofilattico, dalla funzione nomofilattica in senso proprio, assolta dalla decisione con sentenza all’esito di pubblica udienza. La risposta all’accrescimento della complessità esterna al sistema è stata quella di incorporarla all’interno del sistema stesso mediante la differenziazione interna di funzioni, avrebbe detto un grando sociologo del secolo scorso, Niklas Luhmann. Si tratta di una strada dagli esiti ancora aperti. Decisioni in forma di ordinanza e proposte di definizione del giudizio, nell’ambito di una puntuale organizzazione dell’attività di spoglio dei ricorsi, dovrebbero puntare a porre le basi per un ritorno alla nomofilachia naturale della Corte. E’ una sfida per la Corte, la quale è chiamata ad uno sforzo organizzativo straordinario.
Quella sfida non può essere affrontata, però, se l’intero circuito della giurisprudenza non è chiamato ad affrontarla, con esiti che possono essere virtuosi non solo per la Corte di Cassazione, ma anche per gli uffici di merito. Il nuovo istituto del rinvio pregiudiziale è una spia di tutto ciò, perché esso è una chiara opzione di potenziamento della funzione nomofilattica, ma con implicazioni di efficienza del sistema, per gli esiti deflattivi che potrebbe avere, ma anche con un carico di responsabilizzazione per i giudici di merito, perché sono chiamati a fare delle scelte su quale sia la questione effettivamente rilevante e ad assumersi le responsabilità interpretative, nel caso di mancato rinvio. Il vero è che la giurisprudenza, complessivamente intesa, al di là della distinzione fra legittimità e merito, è una prassi istituzionale. Non è un ordinamento retto da regole di validità, perché altrimenti opererebbe la regola dello stare decisis, ma è un’istituzione, retta da regole funzionali (l’art. 360 – bis n. 1; il principio di diritto nell’interesse della legge o enunciato anche nei casi di inammissibilità e infondatezza del ricorso; la sezione semplice che rimette alle sezioni unite nel caso di non condivisione del principio enunciato da queste), che mirano a rendere possibile una certa prassi, la cui riuscita dipende dalla lealtà all’istituzione dei suoi attori. Dovremmo tutti, giudici di legittimità e giudici di merito, sentirci parte di un’unica istituzione, la giurisprudenza, e restare leali e fedeli ad essa. In questo quadro, dovremmo sentirci tutti responsabili della buona riuscita di questa prassi istituzionale. Bisogna trovare i modi e le sedi per perseguire la cultura dell’uniformità della giurisprudenza, la sola che rende stabile e identificabile un’istituzione, facendo sì però che anche i giudici di merito contribuiscano alla formazione degli indirizzi interpretativi, al di là dello strumento del rinvio pregiudiziale, affinché l’uniformità sia davvero avvertita come un bene di tutti i magistrati. L’uniformità è l’apporto di efficienza al sistema che la giurisprudenza può offrire, ma vanno allo stesso tempo favorite le interferenze fra i due mondi, quello di legittimità e quello di merito. Le sedi della formazione dei magistrati sono naturalmente le prime a cui pensare, per lo scambio di esperienze che lì si stabilisce. Nelle occasioni di formazione dovrebbe venire in primo piano, in modo forte, la diffusione e socializzazione delle reciproche esigenze dei giudici di legittimità e di quelli di merito. Ma si dovrebbe pensare anche ad occasioni più istituzionali.
Un’idea, fra le tante, potrebbe essere quella di periodici “stati generali della giurisprudenza”, in occasione di decisioni delle sezioni unite le quali non siano meramente determinate da contrasti fra sezioni semplici, ma abbiano una significativa ricaduta pratica nei giudizi di merito. Su impulso della formazione decentrata presso la Corte di Cassazione, in ciascuna corte d’appello potrebbe essere costituito del presidente della corte un gruppo di lavoro, che predisponga, con il sostegno della formazione decentrata presso la singola corte territoriale, una relazione sintetica avente ad oggetto la giurisprudenza locale sulla questione rimessa alle sezioni unite, con l’illustrazione delle ragioni, in primo luogo pratiche, di determinate scelte interpretative. Queste relazioni, unitamente alla relazione dell’ufficio del massimario, vengono trasmesse al collegio che deciderà la questione e ad esse verrà dato spazio, con un’apposita sessione, nell’incontro di formazione decentrata che precede in Corte l’udienza delle sezioni unite.
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