ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Chi scrive queste righe intorno a un libro definibile senz’altro come ‘sorprendente’ è un glottologo che è stato allievo, alla Statale di Milano e in anni ormai lontani, del grandissimo Vittore Pisani: quel Pisani, eccezionale ‘signore’ di tutto lo spazio linguistico indoeuropeo e vivace protagonista, per buona parte del sec. XX, del dibattito storico-linguistico internazionale; quel Pisani, a sua volta ‘erede’, e proprio a Milano, degli insegnamenti del pure grandissimo Graziadio Isaia Ascoli, mediatore in Italia dei portati delle scienze linguistiche ottocentesche (sviluppatesi soprattutto in centri di ricerca di ambiente germanofono) e fondatore, appunto, della prestigiosa Scuola glottologica di Milano. Per chi scrive queste righe ogni ‘lingua’ (e tale termine va inteso in modo esteso, ampio) non è altro se non materia fonico-acustica prodotta da quel mirabile, sofisticatissimo apparato fonatorio del quale sono forniti, tra le specie viventi sulla faccia del pianeta, soltanto gli appartenenti alla specie umana; ché tutti gli altri esseri viventi (anche i vegetali … oggi lo si sa …) sono forniti di sistemi di comunicazione che, seppur non paragonabili per capacità e complessità espressiva a quanto mediato dalle lingue storico-naturali, sono pur sempre ‘sistemi’, e sempre molto complessi.
Bene: per chi scrive queste righe la ‘grammatica’ – ogni grammatica e di qualsiasi sistema linguistico, sia esso una grande lingua di cultura o un qualsiasi dialetto o un gergo – può essere intesa secondo due principali valenze: o come descrizione ‘fine’ (… ma siamo sicuri che tale impresa sia realmente possibile?) di tutti i fenomeni documentabili da interazioni comunicative di parlanti calati in dinamiche ‘conversazionali’ (anche nel caso delle ‘endofasie’ …: chi parla silenziosamente ‘tra sé e sé’ ha pur sempre un interlocutore: sé stesso …) proprie di singole comunità linguistiche (micro- o macro- che siano); oppure ogni grammatica può essere intesa come ‘sistematizzazione’, entro un apparato di norme/regole, di ciò che, tra i materiali utilizzati all’interno di una comunità linguistica, sia parso, in una certa fase della loro vicenda storica, degno di essere ‘fissato’ entro un canone normativo, sì da diventare una sorta di severa ‘Lex’. Le grandi lingue di cultura, regolate entro schemi normativi, rientrano pienamente in quest’ordine di problemi e le loro grammatiche riposano sulla selezione di fenomeni ‘accolti’ in una (più o meno convenzionalmente) salda forma scritta: del resto gr. grammatikḕ téchnē / γραμματικὴ τέχνη = ‘arte della forma scritta’ (< gr. gráph-ein / γράφ-ειν (“incidere” > “scrivere”) sta alla base della nozione di ‘grammatica’ intesa quale ‘apparato istituzionale, in quanto tale da rispettare.
Fatta questa premessa, da glottologo segnalo immediatamente che il libro di Dino Petralia si muove – e assai felicemente – su un terreno totalmente diverso: per Dino Petralia le parole di una lingua altro non sono, prioritariamente, se non preziosi segmenti fonico-acustici dotati ciascuno di un loro intrinseco ‘carattere’: materiali linguistici forniti di una loro ‘vita’, autonoma e funzionalmente attiva, e anche di una loro ‘anima’ rinviante alla loro funzione comunicativa e – aggiungerei, in quanto glottologo – di una loro storia (linguistica): ogni ‘parola’, anche la più semplice, anche la più apparentemente ‘banale’, si rivela uno scrigno di tesori nascosti, ricca come è di informazioni che invitano a ‘viaggiare’ entro uno degli aspetti più affascinanti delle scienze del linguaggio: la forza pragmatica di segmenti fonico-acustici > ‘parole’.
La grammatica petraliana è, come dichiarato già dal titolo del libro, essenzialmente ‘emozionale’: invita il lettore a prendere le distanze – l’agg. ‘emozionale’, attestato in italiano dal 1893, è prestito dall’ingl. emotional, a sua volta [falso!] latinismo tratto da un ipotetico lat. *ēmōtionālis, a sua volta derivato da ēmōtus, -a, -um, part. pft. di ēmovēre ‘smuovere, turbare, sconvolgere’ – rispetto al severo impianto delle consuete grammatiche di impianto descrittivo o normativo. E Dino Petralia invita i suoi lettori a entrare in un vivace/creativo regno ove gli sarà possibile ‘giocare’, grazie a una nuova visione delle cose, con le tradizionali categorie grammaticali (quelle che vengono insegnate sui banchi di scuola) sì da vederne aspetti ‘ludici’ / ‘divertenti’: là dove i due aggettivi in questione vanno intesi come indicativi della ‘serietà’ che è comunque sottesa ad ogni gioco: chi gioca sa che ogni pratica ludica richiede, a chi la esercita, di dotarsi di una specifica ‘razionalità’; nel caso dei giochi di / e con le parole, occorre armarsi di una razionalità ‘creativa’ che è propria della fantasia poetica e del divertissiment intellettuale.
Il libro si articola su precise sezioni dall’aspetto volutamente ‘tradizionale’ (Articoli e preposizioni, pp. 19-25; Nomi, pp. 29-34; Verbi, pp. 37-56; Aggettivi e pronomi, pp. 59-71; Avverbi - Congiunzioni - Disgiunzioni, pp. 75-126; Interiezioni, pp. 129-130; Punteggiatura e altro, pp. 133-149) precedute da una brillante prefazione di Arnaldo Colasanti (pp. 7-11 ) e seguite da due postfazioni (una dovuta allo scrittore-attore-cabarettista Alessandro Bergonzoni: Gli 895 caratteri delle parole stesse, pp. 153-154; l’altra redatta dallo psicoanalista, membro ordinario della Società Psicoanalitica Italia, Sarantis Thanopoulos: Le parole hanno un’anima, pp. 155-158). Va subito detto che ogni sezione, al pari della prefazione e delle due postfazioni, è grande festa di intelligenza di ‘cose’ linguistiche: di ‘cose’ lette, in modo originale, quali vivaci epifanìe di dinamiche tratte dalla quotidianità, sì che il lettore ‘precipita’ in una specie di ‘Paese delle meraviglie’, dove, al pari di Alice, gli sarà dato di stupirsi e di allegramente ‘perdersi’, senza mai tuttavia ‘disperdersi’.
Impossibile, in poco spazio, evidenziare le molte suggestioni che derivano dalla lettura di ogni pagina di un libro che brilla per notevole intelligenza e pari ironia. Cito, di seguito – a titolo di esempio e in modo necessariamente cursorio – il divertente ‘dialogo’ tra l’articolo < il > … e la sua articolata, complicata famiglia (pp.19-21) dentro la quale si assiste a veri ‘drammi di famiglia’ ...; oppure (pp. 31-34) l’evocazione – tutta pirandelliana! – di ‘uno, nessuno, centomila’ a proposito delle dinamiche tra ‘Singolare’ e ‘Plurale’; oppure (pp. 48-49) i problemi, e di nuovo ‘esistenziali’, agitanti la vita dei verbi irregolari e difettivi; e anche, andando avanti (pp. 76-78), le sottili questioni di fratellanza tra < infatti > e < affatto > o quelle, egualmente complesse tra < anche > e < pure >; oppure i problemi (pp. 95-101), di nuovo propri della sfera comportamentale, del timido < forse > o quelli del plurisemantico < già > o del presuntuoso < insomma > o del furbo < comunque > o dello sfuggente < mai >, pessimista costui per natura e di indole rinunciataria e che, semanticamente, non funziona sempre come segnale di negazione … e che può anche evocare, nella pronuncia, un inglesismo cui ben si accorderebbero, eventualmente, un love o un dear. O, ancora (pp. 114-122), i casi di < sopra > e di < sotto > o di < tardi … meglio che mai! > o le vicende, complicatissime, di un semplice < e > dall’identità molto complessa: di nuovo, Petralia descrive il ‘dramma esistenziale’ di un segmento fonico-acustico che non sa bene se essere una congiunzione o … altro; o, ancora (pp. 123-124) la seduzione del < se …> inteso quale congiunzione del ‘sogno lucido’ ma che, quando sia inutilmente sovrabbondante, diventa minaccioso elemento che “può porre in bilico l’oggi e il domani” … come insegna la celeberrima canzone (E se domani, e sottolineo ‘se’ …) di Mina, la ‘Tigre di Cremona’, una delle figure emblematiche della post-adolescenza di molti che furono ragazzi nei ruggenti anni ’60 …; o la sorda concorrenza tra < quindi > e < dunque > (p. 125) o le alternative di cui si fregia, sul piano semantico, un semplice < o > (p. 126) che, tendenzialmente solitario o attratto soltanto da ‘vero, pure, sia’, può però esibirsi in un ‘ovverossia’ definito brillantemente da Petralia quale “capricciosa armonizzazione fonica che suona quasi come parola magica”.
Seguono riflessioni sempre interessanti sul poliedrico settore delle interiezioni (p. 129), inafferrabili nella loro complessità (p. 129), con particolare attenzione per quel < magari > ricco di molte e diverse sfumature semantiche … e che non sa, lui, di affondare le proprie radici addirittura in un nobile, antico grecismo (il nostro < magari > è ciò che resta di una invocazione che i greci antichi rivolgevano agli dèi: makárioi [hoi theoí] / μακάριοι [οἱ θεοί] “oh, dèi beati!”). Chiude il volume un ricco, divertente capitolo (pp. 133-149) dedicato a ‘Punteggiatura e altro’ nel quale sono passati in rassegna il punto (“… presuntuoso e assertivo e che dopo di sé non tollera altre parole …”), la virgola (“… separa ma con affetto … e che ha un sosia nel mondo dei numeri, arida ed esangue però, e che separa gli interi dai decimali …”), il punto e virgola (“… il giusto compromesso … un permesso di sosta più netto della virgola e meno del punto …”), nonché il punto esclamativo (“… forse più attore che altro … e noi ne siamo i registi ...”) e quello interrogativo (“… che può far coppia con l’esclamativo … segno che conclude chiedendo ma schivando risposte …”) e, infine, i due punti (“… gemelli in verticale, senza gerarchie né gelosie … ma non proprio fedeli al proprio ruolo … divisivi in ambito numerico, separatisti nelle formule orarie, simboli entrambi di una volubilità d’uso che li fa quasi mercenari in cerca di impiego …”).
E poi, per finire, anche la povera chiocciola < @ > (“che … con quella vocale imprigionata dentro … non ha suono né maiuscola, si presenta sempre uguale …”), e anche il bailame sonoro veicolato dagli accenti (“… che hanno buoni rapporti solo con le vocali, inesistenti con le consonanti … sì che in verità un certo mistero avvolge l’accento: gode del libero privilegio dell’invisibilità, tranne che non riguardi parole monche … oppure parole ambigue di senso. E così tra circùito e circuìto, tra àmbito e ambìto l’arbitro è l’accento, ben contento in questi casi di mostrarsi gongolante e ricevere i doverosi omaggi …”); l’apostrofo (“… corpo diafano nell’oralità …”); l’asterisco (“… che non ha suono né grandezze diverse…”); la < & > commerciale (“… che pare poltroncina stilizzata, comoda e accogliente …”); le parentesi (“… piccole barriere a fungere da contenitore di spiegazioni o di commenti …”); i trattini (“… elementi a geometria variabile, semplici, afoni e a forma rigida …”); le due letterine < o / a > in apice “… atte a far dire che siamo i primi, i secondi, i terzi al maschile e al femminile…”; il cancelletto (“… tipo allegro e gioviale…”); il percentuale < ###i#< > (“… il cui regno di coltura è la matematica … e che appare in grande spolvero in periodo di saldi …”).
In conclusione, ripeto che davvero ogni pagina del libro invita il lettore a ‘sorprendersi’ … e lo obbliga a riflettere, in modo non convenzionale, su temi di una ‘grammatica’ che nulla ha a che fare con quella tradizionale, quella appresa sui banchi di scuola: Dino Petralia ci invita, insomma, con intelligenza rigorosa e con metodo saldo, a guardare alle ‘parole’ della grammatica con gli occhiali della fantasia e della poesia. E per questo, a mio vedere, gli si deve essere molto grati.
Dino Petralia, Grammatica emozionale. Viaggio dentro le parole (prefazione di Arnaldo Colasanti; postfazioni di Alessandro Bergonzoni e Sarantis Thanopoulos), Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2025, pp. 161. ISBN 979-12-205-0404-1.
Sommario: 1. Introduzione al problema: un contesto fattuale e normativo inedito per la decarbonizzazione. 2. La ragionevolezza delle valutazioni ambientali sul fossile al tempo della “policrisi”. 3. Il parere AIA-IPPC e le sue quattro lacune. 4. L’AIA sull’ex Ilva tra diritto UE e CEDU, nel novum di “Verein KlimaSeniorinnen” e senza «interpretazioni annacquate». 5. L’analisi comparata del parere AIA-IPPC tra UE, CEDU e Costituzione italiana. 6. Omissione della decarbonizzazione e impossibilità geofisica senza previo calcolo del Carbon Budget residuo. 7. L’illegittimità costituzionale sopravvenuta del diritto vivente favorevole alle valutazioni atemporali della decarbonizzazione.
1. Introduzione al problema: un contesto fattuale e normativo inedito per la decarbonizzazione
Questo contributo si interroga sulla natura e la c.d. “latitudine” – come denominata dalla giurisprudenza amministrativa[1] – del potere di rinnovo dell’autorizzazione integrata ambientale (d’ora in poi, AIA) dell’installazione industriale pugliese nota come ex Ilva di Taranto, per due ragioni:
- da un lato, perché è stato reso noto il parere istruttorio AIA-IPPC in risposta all’istanza di rinnovo presentata da Acciaierie d’Italia S.p.A., oggi Acciaierie d’Italia S.p.A. in Amministrazione Straordinaria (A.S.)[2],
- dall’altro, perché gli interrogativi sui poteri di rinnovo sono imposti dall’inedito contesto fattuale e normativo che coinvolge i processi di decarbonizzazione.
Sul piano fattuale, infatti, questi processi sono ormai discussi nella presa d’atto della condizione di “policrisi” del pianeta[3], contrassegnata da quattro fattori negativi.
Il primo risiede nell’emergenza climatica, quale situazione di urgenza nella decarbonizzazione. Essa è stata più volte denunciata dalla scienza sia come “emergence” (emersione di processi geo-biofisici degenerativi e irreversibili a causa del fossile) sia come “emergency” (urgenza della decarbonizzazione, per limitare al massimo e controllare al meglio quelle degenerazioni)[4]. Inoltre, essa è stata più volte riconosciuta dalla UE «alla luce delle chiare e crescenti prove scientifiche» («in light of the clear and growing scientific evidence») e, per questo, reiteratamente dichiarata, al fine di rafforzare il proprio Green Deal[5].
Il secondo concerne la triplice crisi planetaria per interdipendenza negativa fra cambiamento climatico antropogenico, inquinamento antropogenico e perdita di biodiversità. Il suo riconoscimento ufficiale è stato effettuato dal Consiglio d’Europa, con la c.d. “Reykjavík Declaration”[6]. Da esso ha preso spunto la storica sentenza “Verein KlimaSeniorinnen”, emessa dalla Grande Camera della Corte Europea dei Diritti Umani, ai sensi dell’art. 43 CEDU[7], in data 9 aprile 2024 su ricorso n. 53600/20[8], per tracciare i requisiti necessari della valutazione dei rischi climatici e ambientali nelle politiche di mitigazione climatica e di decarbonizzazione ai fini di tutelare i diritti umani presidiati dall’art. 8 CEDU[9].
Il terzo deriva dalla denuncia scientifica sull’intrinseca nocività dei combustibili fossili, ormai incompatibili con la stessa sopravvivenza umana[10]. Tale constatazione chiama in causa il ruolo delle imprese ad energia fossile, nel loro concorso (per esempio, per quanto concerne l’Italia, secondo le modalità applicative dell’art. 2055 Codice civile[11]) ai danni da cambiamento climatico[12] e al c.d. “mortality cost” per mancata o ritardata decarbonizzazione[13].
L’ultimo è maturato a seguito della registrazione, nel 2024, del primo Overshoot del pianeta, ossia del primo sforamento annuale della soglia di sicurezza dell’aumento della temperatura media globale di +1,5°C, rispetto ai livelli preindustriali, con connesso incremento dei rischi e pericoli per la salute umana[14] oltre che precoce violazione dell’art. 2 dell’Accordo di Parigi del 2015[15].
Per un’installazione fossile come l’ex Ilva di Taranto, per di più collocata in una “zona di sacrificio”, nel significato reso dal Rapporto del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, ovvero di «peggiore negligenza immaginabile dell’obbligo di uno Stato di rispettare, proteggere e realizzare il diritto a un ambiente pulito, sano e sostenibile» («worst imaginable dereliction of a State’s obligation to respect, protect and fulfil the right to a clean, healthy and sustainable environment»)[16], e in un comparto industriale qualificato “nemico del clima”[17], si tratta di un intreccio di dati difficilmente eludibili o ignorabili, se non per apodittica loro negazione, non certo per dimostrabile confutazione scientifica.
Altrettanto ineludibili sono pure le cinque novità di contenuto normativo ovvero:
- le interpretazioni rese dalla Corte di Giustizia UE del 25 giugno 2024 nella causa C-626/2022, direttamente per l’ex Ilva di Taranto e nella presa d’atto della situazione territoriale di “zona di sacrificio”[18];
- le risposte della Grande Camera della Corte EDU in “Verein KlimaSeniorinnen”, formulate, come accennato, nei modi dell’art. 43 CEDU (ossia per risolvere «gravi problemi di interpretazione o di applicazione della Convenzione o dei suoi Protocolli» o comunque «un’importante questione di carattere generale»), in ordine alla natura del margine di apprezzamento degli Stati membri del Consiglio d’Europa nella triplice crisi denunciata a Reykjavík e, quindi, per la delimitazione dei poteri discrezionali di decarbonizzazione rispetto all’art. 8 CEDU, da quella triplice crisi minacciato;
- la decisione n. 28/CMA.5, assunta, col consenso in “buona fede climatica” dell’Italia[19], dalla COP28 del 2023, ossia dalla Conferenza delle Parti per l’attuazione del citato art. 2 dell’Accordo di Parigi sul clima del 2015, contenente il riscontro della «necessità di riduzioni profonde, rapide e sostenute delle emissioni di gas serra in linea con percorsi di 1,5°C ... tenendo conto dell’Accordo di Parigi ...» («the need for deep, rapid and sustained reductions in greenhouse gas emissions in line with 1.5°C pathways … taking into account the Paris Agreement…») e il consequenziale impegno ad «abbandonare i combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere l’azzeramento netto entro il 2050, in linea con la scienza» («transitioning away from fossil fuels in energy systems, in a just, orderly and equitable manner, accelerating action in this critical decade, so as to achieve net zero by 2050 in keeping with the science»)[20];
- la riforma degli artt. 9 e 41 della Costituzione italiana, che la sentenza della Corte costituzionale del 19 giugno 2024 n. 105 ha definito nuovo «mandato» che «vincola così, esplicitamente, tutte le pubbliche autorità ad attivarsi in vista della sua efficace difesa»;
- la formalizzazione del paradigma One Health-Planetary Health, con l’art. 27, comma 2, del d.l. n. 36/2022, convertito con l. n. 79/2022, che riconosce i rischi e pericoli climatici come determinanti negativi della salute e della qualità della vita, attraverso l’istituzione del Sistema nazionale di prevenzione salute dai rischi ambientali e climatici[21].
2. La ragionevolezza delle valutazioni ambientali sul fossile al tempo della “policrisi”
Fino ad oggi, le decisioni dei poteri pubblici sulle valutazioni ambientali, inclusa l’AIA, sono state contrassegnate da «ampia latitudine della discrezionalità esercitata dall’amministrazione nel giudizio»[22].
Per esse, nello specifico, si è insistentemente sostenuto che l’amministrazione eserciti un potere talmente ampio, da non esaurirsi «in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione»[23], comprendendo al contempo profili «particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti»[24], con la conseguenza che lo stesso sindacato giurisdizionale, «al fine di assicurare il rispetto del principio costituzionale di separazione dei poteri»[25], sia possibile solo ove «risulti violato il principio di ragionevolezza»[26].
Tra gli elementi sintomatici di questa violazione, poi, sono stati individuati l’assente o inadeguata istruttoria, l’omessa considerazione di alternative in grado di attenuare in modo soddisfacente criticità note o evidenziate[27], l’emersione di illogicità, erroneità o inattendibilità, sia empiriche che metodologiche, purché dotate di «sufficiente grado di compiutezza, superiore alla mera opinabile valutazione di parte»[28].
Non è mai stati individuato il fattore tempo delle traiettorie di inerzia del sistema climatico come determinante del rischio e del pericolo[29].
In altre parole, la “latitudine” si è radicata su una presupposizione della realtà ambientale sempre uguale a sé stessa rispetto ai tempi degenerativi della “policrisi” e indipendentemente dalla natura fossile o meno dell’energia coinvolta nell’oggetto della valutazione.
Di conseguenza, la sua doppia dimensione di esercizio, come verificazione (tecnico-scientifica) sulla base di oggettivi criteri di misurazione, da un lato, e adeguata istruttoria nella ponderazione degli interessi e delle alternative coinvolte, dall’altro, si è mantenuta indifferente alle trasformazioni di contesto.
Allo stato attuale, però, i fattori negativi che attivano la “policrisi” sono ormai ampiamente verificati e misurati. Per esempio, i requisiti, richiesti dalla giurisprudenza italiana, “del più probabile che non” [30], ai fini dell’accertamento dei nessi causali su rischi, pericoli e danni per inerzia del sistema climatico, e della logicità “baconiana e pascaliana”, per l’imputazione delle responsabilità[31], risultano soddisfatti. Come soddisfatto è anche il «sufficiente grado di compiutezza, superiore alla mera opinabile valutazione di parte». Lo dimostrano le ricognizioni dell’IPCC, il Panel Intergovernativo dell’ONU sul Cambiamento Climatico, in particolare nell’ultimo Report Climate Change 2021: The Physical Science Basis[32], ignorando il quale nulla della complessità della “policrisi” è comprensibile.
Proprio da queste verificazioni emerge che l’elemento determinante per una decarbonizzazione efficace nella tutela della salute umana è la considerazione delle traiettorie di inerzia di tutte le sfere del sistema climatico, sia a livello globale che locale[33], in modo da considerare l’efficacia dei tempi di abbandono dei combustibili fossili in rapporto ai tempi di trasformazione inerziale dei territori[34].
In pratica, il tempo delle traiettorie di inerzia del sistema climatico è assurto a bene della vita prevalente e prioritario in qualsiasi giudizio sulla decarbonizzazione[35]: è divenuto il parametro della sua ragionevolezza; il “climate first”, come lo denomina l’IPCC[36].
Non a caso, tutte e cinque le novità normative, elencate nel primo paragrafo, al fattore tempo o al “climate first” si connettono. E la circostanza che, con riguardo a una di esse, la riforma costituzionale del 2022, si sia già preso atto del «superamento del bilanciamento tra valori contrapposti all’insegna di una nuova assiologia compositiva»[37], lascia presagire ulteriori reimpostazioni della “latitudine” del potere nel discutere e decidere sulla decarbonizzazione, anche in ragione del rinnovato quadro normativo.
Spunti, in tale duplice direzione, provengono dalla giurisprudenza comparata, per esempio in quelle decisioni che allargano il catalogo delle emissioni pericolose per la salute umana, includendovi i gas serra proprio a causa dei loro tempi inerziali sul sistema climatico[38].
Ma, in fin dei conti, è questa la filosofia a base dei cinque requisiti necessari, scanditi dalla Corte di Strasburgo nel § 550 di “Verein KlimaSeniorinnen”[39], per limitare dall’esterno il margine di apprezzamento degli Stati e, con esso, la discrezionalità dei poteri in qualsiasi valutazione di decarbonizzazione, in nome dell’art. 8 CEDU compromesso dal “climate first” (o dalla “closing window”, come preferisce metaforizzare la Corte sempre su spunto IPCC[40]). Lo ha fatto presente, di recente, l’Alta Corte Irlandese per l’ambiente, nella prima applicazione, tra i paesi del Consiglio d’Europa, della decisione CEDU[41].
Da qui, dunque, si devono prendere le mosse per una rimeditazione della valutazione ambientale integrata dell’ex Ilva di Taranto.
3. Il parere AIA-IPPC e le sue quattro lacune
Che l’installazione industriale pugliese contribuisca ai rischi climatici è stato già dimostrato e proprio sulla base della letteratura della “policrisi”, con un’evidenza che garantisce non solo il richiesto «sufficiente grado di compiutezza, superiore alla mera opinabile valutazione di parte» ma anche il rispetto della soglia del “più probabile che non” nel nesso causale[42].
D’altra parte, che un’impresa fossile possa essere esente da pericolosità climatica, in uno scenario bad-to-worst di emergenza climatica e triplice crisi, sarebbe del tutto surreale, prima ancora che illogico.
Bisogna, allora, verificare se e come questo dato di realtà venga tematizzato dal procedimento AIA che la riguarda.
La lettura del citato parere istruttorio della Commissione AIA-IPPC serve proprio a questo.
Giova ricordare che esso segue alla legge del 30 marzo 2025 n. 31, di conversione del decreto legge del 24 gennaio 2025, n. 3, adottata al fine non solo di dare compiuta attuazione alle disposizioni della direttiva 2010/75/UE, relativa alle emissioni industriali, secondo l’interpretazione resa dalla citata Corte di Giustizia UE nella causa C-626/2022, ma anche di introdurre, attraverso lo studio di valutazione di impatto sanitario (VIS), criteri predittivi completi su tutti (tutti, non alcuni) i rischi per la salute, associati all’esposizione alle suddette emissioni industriali e per come conosciuti dagli sviluppi delle conoscenze scientifiche[43].
Dentro questo quadro, il documento istruttorio, alla luce dei contesti di fatto e normativi richiamati nel primo paragrafo, presenta quattro lacune:
- due di carattere normativo;
- e due di natura scientifica.
Le due lacune normative derivano dai seguenti riscontri.
Il parere dichiara espressamente di perseguire una duplice finalità. Da un lato, esso mira a far garantire, da parte dello stabilimento, la completa attuazione della citata decisione della Corte di Giustizia UE nel caso C-626/2022. Dall’altro, il suo contenuto vorrebbe contribuire a preparare il percorso di transizione verso la decarbonizzazione del processo produttivo dell’impianto tarantino, in coerenza con gli obiettivi climatici del Green Deal e la neutralità climatica del comparto industriale, entro e non oltre il 2050. Al “climate first”, in qualche modo, accenna.
Ciononostante, entrambe le finalità, alla prova del testo, si dimostrano disattese e ignorate:
- quella di ottemperare alla Corte di Giustizia viene disattesa, perché non tutte le interpretazioni fornite dal Giudice lussemburghese sono state accolte dal parere;
- quella di promuovere la decarbonizzazione nel “climate first” è totalmente ignorata, sia perché di decarbonizzazione non si parla affatto nell’istanza di rinnovo dell’AIA, dove, al contrario, si preannuncia l’aumento della produzione dell’acciaio a 6 milioni di tonnellate annuali nella persistenza del ciclo a combustione fossile, sia perché, nel parere IPPC, nulla si dice degli obblighi ineludibili di decarbonizzazione per la neutralità climatica alla luce dell’art. 8 CEDU, che la citata Grande Camera della Corte EDU in “Verein KlimaSeniorinnen” ha invece posto a limite esterno del margine di apprezzamento degli Stati e, di riflesso, della discrezionalità di tutti i suoi organi in materia climatica, con il citato suo § 550.
Le due lacune scientifiche, invece, investono il concetto di rischio sanitario e di nocività delle emissioni industriali nei percorsi di decarbonizzazione, alla luce, per l’appunto, degli sviluppi delle conoscenze sul tema.
Come si è già fatto presente, il compendio ufficiale, perché richiesto dagli Stati aderenti all’ONU, di questi sviluppi si legge nei rapporti dell’IPCC, specificamente nei due testi intitolati “Global Warming of 1,5°C”, del 2018[44], e “Climate Change 2022: Impacts, Adaptation and Vulnerability”[45]. La loro sintesi per i decisori politici, dunque per i poteri pubblici chiamati a decidere sulla decarbonizzazione, è offerta anche dall’AR6 Synthesis Report: Climate Change 2023, redatto, tra l’altro, con il concorso e il consenso del Governo italiano[46].
Questi documenti sono stati completamente ignorati dalla Commissione AIA.
Eppure il loro contenuto fornisce almeno quattro spunti salienti per la tutela della salute nelle emissioni industriali fossili. Conviene elencarli:
- la decarbonizzazione, allo scopo di scongiurare incrementi di rischi sanitari e nocività delle emissioni, deve operare all’interno delle soglie di sicurezza dell’aumento della temperatura media globale, fissate dagli Stati con il ricordato art. 2 dell’Accordo di Parigi del 2015;
- affinché queste soglie di sicurezza siano effettivamente rispettate dagli Stati, è necessario il calcolo del Carbon Budget residuo (c.d. CRB[47]) da parte di ciascuno di essi, ovvero l’individuazione della quantità di emissioni di gas serra che si possono ancora emettere sul territorio sovrano, tenendo conto delle concentrazioni di gas serra esistenti, di quelli già emessi in precedenza e della temperatura media già raggiunta;
- solo all’interno delle citate soglie di sicurezza, i rischi sanitari e la nocività delle emissioni industriali possono dirsi effettivamente accettabili;
- di conseguenza, l’accertamento del quadro climatico in relazione al Carbon Budget residuo assurge a presupposto indefettibile di qualsiasi predizione a tutela della salute umana, esposta alle suddette emissioni industriali fossili[48].
Tra l’altro, questi elementi salienti si fondano sulla constatazione, scientificamente inconfutabile[49], del c.d. “doppio rischio sanitario” per aria e clima alterati[50] ossia su quella reciproca interazione negativa di inquinamento e cambiamento climatico, fatta propria dalla citata “Reykjavík Declaration”.
Ne deriva che l’esclusione di uno inficia la corretta valutazione sull’altro[51], mentre l’omissione, per entrambi, del previo calcolo del Carbon Budget residuo ne svuota ogni carattere di attendibilità[52].
È quanto, purtroppo, sembra sussistere nel procedimento riferito all’ex Ilva di Taranto.
4. L’AIA sull’ex Ilva tra diritto UE e CEDU, nel novum di “Verein KlimaSeniorinnen” e senza «interpretazioni annacquate»
Sorprende, infatti, l’espunzione dei richiamati parametri di tutela della salute dall’intero parere AIA-IPPC, anche perché, se, da un lato, la giurisprudenza amministrativa ha già censurato come illogici e manifestamente carenti i provvedimenti fondati su valutazioni scientificamente incomplete in presenza di «rischi accertati e dimostrabili»[53] (e tali sono i rischi da emissioni fossili), dall’altro, ora, la Grande Camera della Corte europea dei diritti umani ha erto il Carbon Budget residuo, in accordo proprio con le risultanze scientifiche dell’IPCC sul rischio sanitario, a requisito necessario per l’esercizio legittimo dei poteri statali sulla decarbonizzazione e la mitigazione climatica.
Questo significa che quella espunzione, una volta confermata nel provvedimento finale dell’AIA, difficilmente si sottrarrà alle censure di legittimità per violazione del novum offerto dalla Grande Camera della Corte EDU con “Verein KlimaSeniorinnen”; perché quel novum, come l’ha definito la Corte costituzionale nel quadro delle fonti dell’ordinamento italiano e nei riguardi dell’art. 43 CEDU[54], non può essere ignorato da alcun giudice comune, ma al massimo, se ritenuto lesivo della Costituzione, rimesso al vaglio della Corte costituzionale[55].
Diversamente concludendo, paradossalmente si farebbe del rischio alla salute, con tanto di violazione degli artt. 8 e 43 CEDU, la ragione stessa dell’immunità dei poteri statali nella decarbonizzazione; il che sempre la Corte di Strasburgo ha reputato inammissibile (con la decisione sul caso “Walęsa c. Polonia” del 23 novembre 2023 su ricorso n. 50849/21).
D’altronde, come già schematizzato[56], i temi della valutazione di impatto sanitario e dell’AIA per l’ex Ilva di Taranto rientrano nelle competenze concorrenti tra Stato e Unione europea, così come individuate dagli artt. 191 e 193 del TFUE, ma non si esauriscono in essi. Oggi, a seguito per l’appunto della citata sentenza della Corte EDU nel caso “Verein KlimaSeniorinnen” del 9 aprile 2024, essi intersecano direttamente anche la CEDU, per lo specifico profilo della protezione intertemporale e intergenerazionale dei diritti desumibili dal suo art. 8.
Questo nuovo intreccio fra Stati-UE e CEDU ha, dunque, attivato un doppio livello di limiti ai poteri statali nella materia climatica: uno “assoluto” e l’altro “relativo”[57]. Il limite “assoluto” si desume dai paragrafi 441-444, 453, 550 e 571 della decisione di Strasburgo e consiste nel “dovere primario” – Primary Duty – di proteggere i diritti, di cui all’art. 8 CEDU, in qualsiasi decisione impattante sulla mitigazione climatica (inclusa la decarbonizzazione); quello “relativo”, invece, si riferisce alle competenze del diritto derivato UE, i cui contenuti possono essere integrati in melius dagli Stati membri per una migliore tutela dell’ambiente e della salute umana, come si legge nell’art. 193 TFUE.
In definitiva, i poteri statali, nel decidere se e come decarbonizzare un impianto produttivo fossile ai fini della mitigazione climatica, quale ovviamente è l’ex Ilva di Taranto, non sono tenuti semplicemente alla mera esecuzione del diritto unionale derivato: da un lato, essi lo possono migliorare ai sensi dell’art. 193 TFUE; dall’altro, lo devono integrare con il “dovere primario”, imposto loro dall’art. 8 CEDU, come interpretato dalla Grande Camera della Corte europea in “Verein KlimaSeniorinnen” ai sensi dell’art. 43 CEDU.
Se, invece, lo ignorano, consumano un’illegittimità di rango costituzionale. Tertium non datur.
Il “dovere primario” CEDU, come accennato, funge da novum nell’ordinamento italiano, per tre ragioni:
- perché proveniente da una decisione della Grande Camera della Corte EU ex art. 43 CEDU;
- perché interposto, ai sensi dell’art. 117 comma 1 Cost., tra Costituzione e legislazione interna di settore[58];
- infine perché gerarchicamente sovraordinato al diritto derivato europeo, per il suo contenuto rafforzativo e migliorativo dei diritti umani indicati dall’art. 6 TUE.
Queste tre ragioni non trovano alcun ostacolo, neppure nella volontà del legislatore ambientale italiano, il quale, al contrario, ha letteralmente disposto, con l’art. 3-bis del d.lgs. n. 152/2006, non solo che «i principi posti dalla presente Parte prima [del decreto] e dagli articoli seguenti costituiscono i principi generali in tema di tutela dell’ambiente, adottati in attuazione degli articoli 2, 3, 9, 32, 41, 42 e 44, 117 commi 1 e 3 della Costituzione e nel rispetto degli obblighi internazionali e del diritto comunitario» (primo comma,), ma anche che qualsiasi deroga, modifica o abrogazione debba comunque garantire «il rispetto del diritto europeo [e] degli obblighi internazionali» (terzo comma).
Insomma, è il legislatore italiano a dire tertium non datur. Del tutto inammissibile, di conseguenza, appare la “dimenticanza” del parere AIA-IPPC.
5. L’analisi comparata del parere AIA-IPPC tra UE, CEDU e Costituzione italiana
Forse, allora, simile “dimenticanza” è giustificata espressamente dal diritto europeo derivato?
Evidentemente no: l’hanno ricordato, sempre per la materia ambientale, sia la stessa Corte di Giustizia UE, da ultimo con la decisione del 15 aprile 2021 nelle cause riunite C‑798/18 e C-799/18, dove si ribadisce il vincolo posto dall’art. 52 n. 3 della Carta dei diritti fondamentali sovraordinato al diritto derivato (§§ 35-36)[59], e con quella del 21 gennaio 2025, nella causa C-188/23, dove si spiega che gli accordi internazionali in materia ambientale, sottoscritti anche dalla UE, prevalgono sugli atti di diritto derivato dell’Unione, imponendo un’interpretazione conforme ad essi (§§ 44, 73, 74), sia la Corte costituzionale italiana ai fini della lettura dei riformati artt. 9 e 41 Cost., da inquadrare, come si legge nella sentenza del 19 giugno 2024 n. 105, «attraverso il prisma degli obblighi europei e internazionali in materia».
Insomma, scordarsi del sistema delle fonti, richiesto dall’art. 3-bis del d.lgs. n. 152/2006, è praticamente illegittimo; a meno che non si voglia considerare plausibile un’interpretazione «annacquata» («watered-down interpretation») del “Primary Duty” scandito in nome dell’art. 8 CEDU dalla Grande Camera della Corte Europea ai sensi dell’art. 43 CEDU, come ha denunciato la già ricordata Alta Corte Irlandese per l’ambiente[60].
Ma se l’esclusione dell’interpretazione «annacquata» vale per un sistema costituzionale, come quello irlandese, privo di una struttura ordinamentale corrispondente all’art. 117 comma 1 della Costituzione italiana e all’art. 3-bis del d.lgs. n. 152/2006, c’è da interrogarsi su quale altro riscontro normativo ci si potrebbe appigliare per tollerare le lacune del parere in commento.
Piaccia o meno, i parametri di legittimità del procedimento AIA, in un caso come quello dell’ex Ilva di Taranto, si stagliano su tutti e tre i livelli della tridimensionalità ordinamentale europea: norme statali, costituzionali e legislative; norme unionali europee, originarie e derivate; art. 8 CEDU e sua interpretazione ex art. 43 CEDU.
Alla luce di questa conclusione, è possibile procede alla comparazione di dettagli tra i contenuti del parere AIA-IPPC, da un lato, e, dall’altro, le acquisizioni fornite dalla Corte di Giustizia UE, dal novum della Grande Camera di Strasburgo in “Verein KlimaSeniorinnen” e dalla Corte costituzionale sui riformati artt. 9 e 41 Cost.
I punti di discordanza più evidenti risultano essere quattro.
Prima di tutto, come già constatato, il parere esclude totalmente, dalle proprie fonti di riferimento, la tridimensionalità normativa europea e la sua collocazione rispetto al diritto derivato europeo, invocando esclusivamente quest’ultimo, in modo da declinare solo su di esso concetti e argomentazioni di valutazione e giudizio (cfr. § 2.2 del parere).
Questo modo di procedere non corrisponde affatto a quello suggerito dalla Corte di Giustizia UE, nel citato caso riguardante appunto l’ex Ilva di Taranto, visto che in quest’ultimo si legge che il diritto secondario UE in materia deve essere interpretato per rendere effettivi gli obiettivi di cui all’articolo 191 TFUE (§ 67) e gli artt. 35 e 37 della Carta dei diritti fondamentali della UE (§ 71), affinché tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente e protezione della salute umana non solo siano collegati nel procedimento AIA (§ 68) ma mirino a conseguire un livello elevato di protezione dell’ambiente nel suo complesso (§ 69). Ma non corrisponde neppure all’inquadramento richiesto in “Verein KlimaSeniorinnen”, dove si ricorda che l’applicazione della CEDU deve essere effettuata in buona fede e in conformità con le fonti del diritto internazionale che riguardano tutti gli effetti nocivi per la tutela dei diritti umani (§§ 452 ss.), né alla sentenza della Corte costituzionale italiana n. 105/2024, secondo cui i riformati artt. 9 e 41, vincolando tutte le pubbliche autorità ad attivarsi per l’efficace difesa intertemporale e intergenerazionale dell’ambiente, devono essere letti alla luce degli obblighi europei e internazionali in materia (§ 5.1.2 del Considerato in diritto).
In secondo luogo, il parere ignora totalmente la natura “nociva” delle emissioni climalteranti dell’impianto fossile (cfr. § 1 e ivi la definizione di “inquinamento” appiattita alle sole fonti derivate UE), quando proprio la Corte di Giustizia UE, sempre nel citato caso ex Ilva, ha sottolineato l’obbligo, in sede di rinnovo dell’AIA, di considerare, oltre alle sostanze inquinanti prevedibili, tutte quelle oggetto di emissioni scientificamente note come “nocive” (“harmful”) che possono essere emesse dall’installazione interessata, comprese quelle generate da tale attività che non siano state valutate nel procedimento di autorizzazione iniziale di tale installazione (§ 122), in coerenza, dunque, con la lettura da parte della Grande Camera CEDU, che inquadra come “harmful”, per la tutela intergenerazionale dei diritti di cui all’art. 8 CEDU, le emissioni climalteranti (§§ 472, 518-519, 544-545).
Ma il parere ignora pure, e siamo al terzo profilo, le migliori acquisizioni scientifiche sul nesso cambiamento climatico-inquinamento e sul citato “doppio rischio sanitario” delle emissioni industriali fossili (cfr. ancora il § 1 e ivi la definizione di “inquinamento”); “doppio rischio”, confermato dallo stesso diritto europeo[61], dallo stesso legislatore italiano, con le sue proposte di legge per il clima[62], e dal nuovo citato paradigma One Health-Planetary Health, accolto, come detto, dall’ordinamento giuridico italiano. D’altra parte, senza queste acquisizioni scientifiche, la valutazione della “nocività” scadrebbe, come stigmatizzato sempre dalla citate Corte di Giustizia UE, in mero rispetto dei valori limite per le sole sostanze inquinanti elencate, dunque in una logica di “numero chiuso” della pericolosità che, senza tener conto delle emissioni effettivamente generate dall’installazione interessata nel corso del suo esercizio e dei nuovi impatti conosciuti (§ 117), si dimostrerebbe contro natura e antiscientifico, condannando qualsiasi decarbonizzazione, come concluso dalla Grande Camera della CEDU, al “fallimento” (“failure”) rispetto alle traiettorie di inerzia del sistema climatico (§§ 509, 542, 546, 635).
Di conseguenza, il parere non indica affatto tutte le misure necessarie per assicurare un elevato livello di protezione dell’ambiente nel suo complesso, come vorrebbero la Corte di Giustizia, in nome degli artt. 35 e 37 della Carta UE dei diritti (§ 4), e la stessa Grande Camera, per garantire l’art. 8 CEDU con i requisiti elencati nel citato § 550.
6. Omissione della decarbonizzazione e impossibilità geofisica senza previo calcolo del Carbon Budget residuo
Invero, l’effettiva decarbonizzazione dell’ex Ilva di Taranto appare del tutto fuori dell’orizzonte applicativo dell’AIA.
Il parere lo evidenzia su tre fronti.
In primo luogo, esso testualmente «conferma che gli aspetti relativi alla decarbonizzazione non sono stati oggetto dell’istanza del Gestore» (cfr. Risposte alle Osservazioni nn. 27 e 31). Il che rappresenta un’ulteriore dimostrazione della difformità dalle interpretazioni della Corte di Giustizia, secondo cui, al contrario, la valutazione sistematica dei rischi ambientali deve basarsi su tutti gli impatti, potenziali e reali, delle installazioni interessate, riguardanti salute umana e ambiente, in coerenza, ancora una volta, con le parallele indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo (§§ 92 e 93), la quale precisa pure che la mancata considerazione delle misure necessarie indicate dal § 550, a presupposto della discrezionalità, produce una “lacuna critica” insanabile (§§ 561, 562 e 573).
In secondo luogo, il parere, nel tentativo di sopperire all’omessa previsione della decarbonizzazione, dispone una sola prescrizione di decarbonizzazione, per di più di carattere secondario perché successiva all’AIA (cfr. Prescrizione n. 5.1.1. n. 3 e pp. 42 e 371), dunque anche in questo modo contravvenendo tanto alla Corte di Giustizia, secondo cui, invece, la valutazione degli impatti dell’attività dell’installazione deve essere sempre preventiva e procedere per atti interni al procedimento di riesame dell’autorizzazione (§ 105), quanto alla Corte EDU, per la quale l’adozione delle misure in grado di mitigare gli effetti attuali e futuri, potenzialmente irreversibili, del cambiamento climatico costituisce dovere primario di qualsiasi potere dello Stato (§ 545).
Infine, il contenuto della decarbonizzazione, prescritta dal parere, dovrebbe consistere nella sostituzione del carbone e dei combustibili fossili, all’interno del ciclo integrale di produzione dell’acciaio, con la plastica, più precisamente con l’utilizzazione di polimeri.
Questo è tutto: nulla si spiega sul fronte del nesso fra decarbonizzazione proposta e tutela dei diritti ex art. 8 CEDU; nulla si dice sui tempi della decarbonizzazione rispetto al calcolo del Carbon Budget residuo, richiesto dal § 550 di “Verein KlimaSeniorinnen”; si ignora persino l’incidenza della soluzione indicata sul criterio del Do Not Significant Harm (DNSH) nei contenuti indicati dal Regolamento UE n. 2020/852, specificamente agli artt. 10 e 14 (DNSH per la mitigazione climatica e l’inquinamento) e all’art. 18 (“garanzie minime di salvaguardia” dei diritti umani da assumere a requisito non surrogabile di eco-sostenibilità dell’attività economica).
La soluzione a un’omissione del gestore sfocia in un’altra omissione dell’autorità istruttoria; più rigorosamente, sfocia proprio in quella “lacuna critica” del potere, che la Corte di Strasburgo identifica come lesiva dei diritti ex art. 8 CEDU.
Del resto, dopo la sentenza CEDU del 9 aprile 2024, qualsiasi decarbonizzazione senza previo calcolo del Carbon Budget residuo nazionale è un’arrampicata sugli specchi[63].
È inevitabile ed è oggettivo per tre ragioni, rinvenibili nei citati Rapporti dell’IPCC: perché solo con il previo calcolo del Carbon Budget residuo nazionale è possibile decarbonizzare
- nella legalità dell’agire all’interno delle soglie di sicurezza dell’art. 2 dell’Accordo di Parigi e quindi, come ha spiegato il Consiglio di Stato, col parere della Commissione speciale del 26 settembre 2017, n. 2065, secondo quella precauzione che «impone al decisore pubblico di prediligere, tra quelle possibili, la soluzione che bilancia meglio la minimizzazione dei rischi e la massimizzazione dei benefici, previa individuazione, in esito a un test di proporzionalità, di una soglia di pericolo accettabile, sulla base di una conoscenza completa e accreditata dalla migliore scienza disponibile»[64];
- nel controllo geofisico dei rischi delle traiettorie di inerzia del sistema climatico, se dentro le soglie di sicurezza dell’art. 2 dell’Accordo di Parigi, come chiarito anche dalla Corte di Strasburgo nel § 444 di “Verein KlimaSeniorinnen”;
- nell’uso ragionevole e proporzionato, rispetto all’ambiente e alla salute umana da tutelare, dei gas serra disponibili, per esempio nel mercato delle emissioni, in quanto risorsa resa scarsa dalle soglie di sicurezza fissate dall’art. 2 dell’Accordo di Parigi.
In conclusione, il calcolo del Carbon Budget residuo è il presupposto geofisico necessario per qualsiasi processo di decarbonizzazione (in forza delle leggi di natura delle traiettorie temporali di inerzia) e fondamento normativo di qualsiasi decisione su di esso (in forza dei parametri normativi richiamati sin dal primo paragrafo di questo contributo).
7. L’illegittimità costituzionale sopravvenuta del diritto vivente favorevole alle valutazioni atemporali della decarbonizzazione.
Non si intravede “latitudine” del potere alternativa a quella di calcolare il Carbon Budget residuo, per poi decidere se e come decarbonizzare un’installazione fossile (la più grande installazione fossile italiana) come l’ex Ilva di Taranto.
Il che è un problema, considerato che l’Italia, ad oggi, è ancora priva di questo calcolo[65].
Può, tale circostanza, portare alla sospensione delle attività, nei termini indicati dal § 128 della decisione della Corte di Giustizia UE? In effetti, la Corte ha chiarito che, lì dove sussistano violazioni che producono «un pericolo immediato per la salute umana» o «ripercussioni serie ed immediate sull’ambiente», «l’articolo 8, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2010/75 esige che l’esercizio di tale installazione sia sospeso».
L’assenza del calcolo del Carbon Budget residuo, però, non attesta semplicemente un pericolo: come ha spiegato la Corte di Strasburgo, essa consuma una “lacuna critica” nella traiettoria di decarbonizzazione; una lacuna evidentemente incostituzionale, nella misura in cui essa si pone in violazione dell’art. 8 CEDU nell’impostazione ermeneutica formulata secondo l’art. 43 CEDU.
Pertanto, diventa difficile continuare a predicare come ragionevoli le precedenti “latitudini” del potere di valutazione della decarbonizzazione, indifferenti alla dimensione temporale della “policrisi” e viziate da questa “lacuna critica”.
Un’incostituzionalità sopravvenuta, attraverso la porta d’ingresso dell’art. 117 comma 1 Cost., è ormai subentrata relativamente agli orientamenti giurisprudenziali pregressi e alle stesse leggi che quegli orientamenti, in relazione alla decarbonizzazione, hanno potuto permettere, a partire dall’art. 35, comma 2, lett. c) del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300 (per come modificato dal d.l. 1 marzo 2021, n. 22, convertito con modificazioni dalla l. 22 aprile 2021, n. 55), che, attribuendo al MASE le «funzioni e i compiti spettanti allo Stato relativi allo sviluppo sostenibile … [nelle] politiche per il contrasto dei cambiamenti climatici e … la riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra», nulla dispone nei termini dei requisiti necessari elencati dalla Corte di Strasburgo al § 550 di “Verein KlimaSeniorinnen” a tutela dell’art. 8 CEDU.
Una parte della dottrina, invero minoritaria, sembra invocare la separazione dei poteri come baluardo resistente alle nuove sfide, con conseguente primato dell’autonomia della politica indifferente ai (e prevalente sui) tempi inerziali del sistema climatico, come se questi fossero una mera predizione scientifica[66].
In realtà, il baluardo della separazione dei poteri non è affatto venuto meno né è venuta meno l’autonomia della politica: semplicemente è cambiata la “latitudine” di entrambi[67], come spiega rigorosamente “Verein KlimaSeniorinnen” in forza dell’art. 8 CEDU e, non a caso, nella modalità ermeneutica ex art. 43 CEDU[68]; mentre i tempi inerziali non sono per niente un’invenzione della scienza, che pretende di imporsi sulla politica con le sue predizioni, bensì un fatto di natura, di cui prendere atto (come si è preso atto da parte anche dell’Italia, con la sua adesione ai riscontri effettuati dall’IPCC)[69].
La vicenda del rinnovo dell’AIA dell’ex Ilva di Taranto è probabilmente il primo banco di prova per verificare tutto questo.
Nella revisione comune del testo, i paragrafi 1, 6 e 7 sono stati elaborati da Michele Carducci, i rimanenti da Gianvito Campeggio.
[1] La “latitudine” è solitamente evocata in parallelo al principio di “inesauribilità” del potere pubblico: si v. M. Trimarchi, L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, Editoriale Scientifica, 2018, p. 21 ss. e ivi giurisprudenza.
[2] Si v. il sito https://va.mite.gov.it/it-IT/Oggetti/info/2038
[3] Sugli elementi identificativi della “policrisi”, si v. M. Lawrence, T. Homer-Dixon, S. Janzwood, J. Rockström et al., Global polycrisis: the causal mechanisms of crisis entanglement, in Global Sustainability, 7, 2024, pp. 1-16.
[4] Sull’emergenza climatica come “emersione” (emergence) di un processo degenerativo bad-to-worst per tutti i segni vitali della stabilità del pianeta, con conseguente “urgenza” (emergency) di intervento rapido di decarbonizzazione per evitare il peggio, si v. almeno B. Gills, J. Morgan, Global Climate Emergency: after COP24, climate science, urgency, and the threat to humanity, in Globalizations, 17(6), 2020, pp. 885-902, W.J Ripple, C. Wolf, J.W. Gregg, K. Levin et al., World Scientists’ Warning of a Climate Emergency 2022, in BioScience, 72(12), 2022, pp. 1149-1155, L. Kemp, C. Xu, J. Depledge, K. L. Ebi et al., Finale di partita sul clima, trad it. in Ingegneria dell’ambiente, 9(3), 2022, pp. 194-207, e W.J. Ripple, C. Wolf, J.W. Gregg, J. Rockström et al., The 2024 state of the climate report: Perilous times on planet Earth, in BioScience, 74 (12), 2024, pp. 812-824.
[5] In particolare, cfr., in ordine di tempo: Risoluzione del Parlamento europeo del 28.11.2019 sull’emergenza climatica e ambientale (2019/2930(RSP)); Risoluzione del Parlamento europeo del 15.1 2020 (2019/2956(RSP); Comunicazione della Commissione europea su «l’ultima generazione che può intervenire in tempo» (COM/2021/550 final); Considerando n. 19 del Regolamento UE n. 2021/1119; Risoluzione del Parlamento europeo del 14.3.2023 (P9_TA (2023)0065); Raccomandazione CM/Rec(2024)6 del Comitato dei Ministri degli Stati membri, su «young people and climate action». Sul significato e il rilievo giuridico delle dichiarazioni di emergenza climatica, cfr. M. Cunha Verciano, L’emergenza climatica tra concetto scientifico e categorie giuridiche: da situazione di pericolo a fatto ingiusto permanente sul Carbon Budget residuo, dopo KlimaSeniorinnen, in Osservatorio sul Costituzionalismo Ambientale(OCA) www.DPCEonline, 8 ottobre 2024.
[6] La “Reykjavík Declaration” è stata adottata dal Quarto Vertice dei Capi di Stato e di Governo del Consiglio d’Europa, il 17 maggio 2023, riconoscendo, tra le altre cose, l’esistenza di una crisi planetaria intrecciata e interdipendente fra cambiamento climatico, inquinamento e perdita di biodiversità, a discapito della salute umana e della salubrità dell’ambiente.
[7] L’art. 43 CEDU consente l’adozione di sentenze a contenuto determinante su questioni interpretative controverse oppure su importanti questioni di carattere generale, al fine di orientare la successiva giurisprudenza della Corte europea: cfr. S. Bartole, P. De Sena, V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, Padova, Cedam, 2012, sub art. 43.
[8] Si veda il § 200 della sentenza. I commenti alla decisione CEDU sono numerosissimi, sia in Italia che all’estero. Per gli spunti della dottrina italiana, si possono consultare le seguenti voci dal sito www.contenziosoclimaticoitaliano.it: Accesso al giudice; Acquiescenza scientifica; Ambiente; Art. 8 CEDU e art. 193 TFUE; Attività pericolose; Bilanciamento e proporzionalità; Carbon Budget residuo; Separazione dei poteri.
[9] Si vedano i §§ 419-444 della sentenza.
[10] Cfr. W. Shaye, R. Bullard, J.J. Buonocore, N. Donley et al., Scientists’ warning on fossil fuels, in Oxford Open Climate Change, 5(1), 2025, kgaf011.
[11] Ci si riferisce alla sentenza della Corte di Cassazione SS.UU. 27 aprile 2022 n. 13143, in merito all’ammissibilità dell’applicazione dell’art. 2055 Cod. civ., anche in presenza di autonome condotte lesive, discendenti da titoli diversi.
[12] Cfr. C.W. Callahan, J.S. Mankin, Carbon majors and the scientific case for climate liability, in Nature, 640, 2025, pp. 893-901, e ivi bibliografia.
[13] Cfr. R.D. Bressler, The mortality cost of carbon, in Nature Communication, 12, 2021, pp. 1-12, J.M. Pearce, R. Parncutt, Quantifying Global Greenhouse Gas Emissions in Human Deaths to Guide Energy Policy, in Energies, 16, 2023, 6074, e T.M. Lenton, C. Xu, J.F. Abrams, A. Ghadiali et al., Quantifying the human cost of global warming, in Nature Sustainability, 6, 2023, pp. 1237-1247.
[14] Sulla situazione di Overshoot e sulle sue implicazioni sui rischi climatici, si v. E. Bevacqua, C.F. Schleussner, J. Zscheischler, A year above 1.5 °C signals that Earth is most probably within the 20-year period that will reach the Paris Agreement limit, in Nature Climate Change, 15, 2025, pp. 262-265, SNPA, Copernicus: nel 2024 temperatura globale a +1,6°C su livello pre-industriale, in www.snpambiente.it, 10 gennaio 2025, MET-Office, Rise in carbon dioxide off track for limiting global warming to 1.5°C, in www.metoffice.gov.uk, 17 gennaio 2025, WMO report documents spiralling weather and climate impacts, in https://wmo/int/, 19 marzo 2025.
[15] Com’è noto, l’art. 2 dell’Accordo di Parigi del 2015 impegna gli Stati a ridurre le proprie emissioni, al fine di mantenere «l’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di +2°C rispetto ai livelli preindustriali e proseguendo l’azione volta a limitare tale aumento a +1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali, riconoscendo che questo potrebbe ridurre in modo significativo i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici».
[16] Human Rights Council Forty-ninth session 28 February–1 April 2022, The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environment. Report of the Special Rapporteur on the issue of human rights obligations relating to the enjoyment of a safe, clean, healthy and sustainable environment, A/HRC/49/53, 12 gennaio 2022, p. 11.
[17] Cfr. Legambiente, I nemici del clima: città di Taranto, in www.changeclimatechange.it, da cui si desume che la città ionica è la capitale d’Italia delle emissioni di gas serra.
[18] Sulla decisione europea che prende avvio dalla questione pregiudiziale insorta presso il Tribunale delle imprese di Milano, si v. i Commenti raccolti nella sezione Inibitoria collettiva [Cittadini tarantini c. Acciaierie d'Italia Holding Spa, Acciaierie d'Italia Spa e Ilva Spa in amministrazione straordinaria], in www.contenziosoclimaticoitaliano.it/i-casi/.
[19] Sul concetto di buona fede climatica, si v. la corrispondente voce in www.contenziosoclimaticoitaliano.it.
[20] Per un approfondimento delle decisioni della COP28, si rinvia a M. Carducci: Le novità della COP28 tra uso delle parole e Costituzione, in www.laCostituzione.info, 17 dicembre 2023; e La buona fede “climatica” dopo la COP28, in Eunomia. Rivista di studi su pace e diritti umani, 2, 2023, pp. 127-144.
[21] Il paradigma è ormai ampiamente riconosciuto anche dalla dottrina giuridica e dalla giurisprudenza. Per una sintesi, si v. S. Ragone, One Health e Costituzione italiana, tra spinte eco-centriche e nuove prospettive di tutela della salute umana, ambientale e animale, e F. Vivaldelli, Corti supreme e One Health. Vent’anni di giurisprudenza, entrambi in Corti supreme e salute, rispettivamente 3, 2022, pp. 809-826, e 3, 2024, pp. 1-14.
[22] Così, testualmente, Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 1° ottobre 2024 n. 7884, punto 4.5.3.
[23] Così, testualmente, Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30 maggio 2022, n. 4355, punto 6.1.
[24] Ibidem.
[25] Così, testualmente, Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza del 2 agosto 2024 n. 6947, punto 7.1.
[26] Ibidem.
[27] Cfr., per esempio, Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 1° marzo 2024, n. 2044, e Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28 giugno 2023, n. 633.
[28] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 1° ottobre 2024 n. 7884, punto 18.3.
[29] Cfr., per la qualificazione del tempo come “bene della vita”, A. Nicodemo, Il tempo come bene della vita, Torino, Giappichelli, 2024.
[30] Cfr. P. Bertolini, Nesso causale: criterio del “più probabile che non” anche per il Consiglio di Stato, in https//rgaonline.it/, 2 giugno 2023.
[31] Si v. la voce “Probabilità baconiana e pascaliana” in www.contenziosoclimaticoitaliano.it.
[32] IPCC, www.ipcc.ch/report/ar6/wg1/.
[33] Sulla centralità delle leggi di inerzia del sistema climatico, spesso sottovalutate dai formanti giuridici, si rinvia a M. Carducci, Costituzionalismo ambientale e leggi della natura, in www.federalismi.it, 12, 2025, pp. 23-36.
[34] L’evidenza è nota sin dal 2001: cfr. IPCC, Climate Change 2001: Synthesis Report: What is known about the inertia and time scales associated with the changes in the climate system, ecological systems, and socio-economic sectors and their interactions?, in https://archive.ipcc.ch/ipccreports/tar/vol4/011.htm.
[35] Cfr. J. Marquardt, L.L. Delina, Making time, making politics: Problematizing temporality in energy and climate studies, in Energy Research & Social Science, 76, 2021, 102073, e R. Maier, J. Behrens, M. Hoffman, F. Kullman et al., Impact of foresight horizons on energy system decarbonization pathways, in Advances in Applied Energy, 18, 2025, 100217 e ivi bibliografia.
[36] Cfr. M. Macrì, Emergenza climatica e funzione amministrativa. Il provvedere nel climate first, Torino, Giappichelli, 2024.
[37] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23 settembre 2022 n. 8167, su cui F. Motta, La riforma dell’art. 41 Cost. davanti al Consiglio di Stato: scelte pubbliche, dati scientifici e transizione ecologica, in www.LaCostituzione.info, 6 ottobre 2022.
[38] Cfr., per i casi: G. Naglieri, Valutazioni di impatto ambientale e downstream emissions. La sentenza Finch v. Surrey della Corte Suprema del Regno Unito, guardando ad Oslo, e L. Cardelli, Utilità sociale intergenerazionale e incompatibilità costituzionale delle emissioni antropogeniche fossili, alla luce di tre recenti decisioni giurisprudenziali, entrambi in Osservatorio sul Costituzionalismo Ambientale(OCA) www.DPCEonline, 17 luglio 2024, G. Trivi, Cambiamento climatico e inquinamento, alla luce di sei recenti decisioni giudiziali: l’analogia come analisi dei “co-benefici” della mitigazione climatica e attuazione del principio europeo di “integrazione”, in Osservatorio sul Costituzionalismo Ambientale(OCA) www.DPCEonline, 2 luglio 2024, e sempre G. Trivi, Catalogo aperto delle emissioni pericolose e tutela della persona tra diritto interno ed europeo, in www.LaCostituzione.info, 1 luglio 2024, nonché S. Pitto, Valutazione d’impatto ambientale ed emissioni indirette: la lettura estensiva e il “favor climatis” della UK Supreme Court nel caso Finch v. Surrey, e M. Carducci, Le affinità “emissive”, entrambi in www.diritticomparati.it, rispettivamente 24 settembre 2024 e 11 luglio 2024.
[39] Così dispone il § 550: «Nel valutare se uno Stato sia rimasto all’interno del suo margine di apprezzamento (si veda il precedente paragrafo 543), … le autorità nazionali competenti, siano esse a livello legislativo, esecutivo o giudiziario, [devono tenere] in debito conto la necessità di: (a) adottare misure generali che specifichino un obiettivo temporale per il raggiungimento della neutralità del carbonio e il bilancio complessivo del carbonio rimanente per lo stesso periodo di tempo, o un altro metodo equivalente di quantificazione delle future emissioni di gas serra, in linea con l'obiettivo generale degli impegni nazionali e/o globali di mitigazione dei cambiamenti climatici; (b) definire obiettivi e percorsi intermedi di riduzione delle emissioni di gas serra (per settore o altre metodologie pertinenti) che siano ritenuti in grado, in linea di principio, di raggiungere gli obiettivi nazionali complessivi di riduzione dei gas serra entro i tempi previsti dalle politiche nazionali; (c) fornire prove che dimostrino se hanno debitamente rispettato, o sono in procinto di farlo, i relativi obiettivi di riduzione dei gas serra (vedere i precedenti sottoparagrafi (a)-(b)); (d) mantenere aggiornati gli obiettivi di riduzione dei gas serra con la dovuta diligenza e sulla base delle migliori prove disponibili; e (e) agire tempestivamente e in modo appropriato e coerente nell'elaborazione e nell'attuazione della legislazione e delle misure pertinenti».
[40] Si v. i §§ 118, 403 e 542 della sentenza, nonché la voce “The closing window” in www.contenziosoclimaticoitaliano.it.
[41] Cfr. M. Carducci, Effettività intertemporale e legalità formale nella lotta all’emergenza climatica, alla luce dell’art. 8 CEDU, secondo l’Alta Corte di Irlanda in www.diritticomparati.it, 25 marzo 2025.
[42] O.V. Giannico, S. Baldacci, L. Bisceglia, S. Minerba et al., Il “mortality cost” delle emissioni di CO2 di uno stabilimento siderurgico nel Sud Italia: una valutazione degli impatti sanitari derivanti dal cambiamento climatico, in Epidemiologia e Prevenzione, 47(4-5), 2023, 273-280.
[43] Cfr. G. Arconzo, Per la Corte di giustizia i decreti Salva Ilva ledono il diritto alla salute degli abitanti di Taranto, in Quaderni Costituzionali, 4, 2024, 947-950.
[44] https://www.ipcc.ch/sr15/.
[45] https://www.ipcc.ch/report/ar6/wg2/.
[46] https://www.ipcc.ch/report/sixth-assessment-report-cycle/.
[47] Cfr., per tutti, J. Rogelj, P.M. Forster, E. Kriegler, C.J. Smith, R. Séférian, Estimating and tracking the remaining carbon budget for stringent climate targets, in Nature, 571, 2019, pp. 335-340.
[48] Si v. la voce “Carbon Budget Residuo” in www.contenziosoclimaticoitaliano.it.
[49] Come si desume dai glossari dell’IPCC: https://apps.ipcc.ch/glossary/
[50] Sul “doppio rischio sanitario”, cfr. M. Williams, Tackling climate change: what is the Impact on Air Pollution?, in Journal of Carbon Management, 3(5), 2012, pp. 511-519, e C. Facchini, Inquinamento atmosferico e cambiamenti climatici, in C. Mangia, G. Rubbia, M. Ravaioli, S. Avveduto et al. (a cura di), Ambiente e clima. Il presente per il futuro, CNR, 2021, p. 23.
[51] Cfr. C. Mangia, P. Ielpo, R. Cesari, M.C. Facchini, Crisi climatica e inquinamento atmosferico, in Ithaca. Viaggio nella scienza, 15, 2020, pp. 57-58.
[52] Cfr. A. Haines, Use the remaining carbon budget wisely for health equity and climate justice, in The Lancet, 400, 2022, pp. 477-479, e K. Abbass M.Z. Qasim, H. Songm M. Murshed et al., A review of the global climate change impacts, adaptation, and sustainable mitigation measures, en Environmental Science and Pollution Research, 29, 2022, pp. 42539–42559.
[53] Cfr., da ultimo Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16 novembre 2023 n. 9852, p. 12.
[54] Nell’ordinanza n. 150/2012, la Corte costituzionale ha qualificato le sentenze della Grande Camera ex art. 43 CEDU un novum nel sistema delle fonti, puntualizzando che «la sopravvenienza della sentenza della Grande Camera impone di ricordare che la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che la questione dell’eventuale contrasto della disposizione interna con la norme della CEDU va risolta, per quanto qui interessa, in base al principio in virtù del quale il giudice comune, al fine di verificarne la sussistenza, deve avere riguardo alle norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo (tra le molte, sentenza n. 236 del 2011, richiamando le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 e tutte le successive pronunce che hanno ribadito detto orientamento), specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione (da ultimo, sentenza n. 78 del 2012), poiché il contenuto della Convenzione (e degli obblighi che da essa derivano) è essenzialmente quello che si trae dalla giurisprudenza che nel corso degli anni essa ha elaborato (per tutte, sentenze n. 311 del 2009 e n. 236 del 2011), occorrendo rispettare la sostanza di tale giurisprudenza, con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi (ex plurimis, sentenze n. 236 del 2011 e n. 317 del 2009), ferma la verifica, spettante a questa Corte, della compatibilità della norma CEDU, nell’interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione (sentenza n. 349 del 2007; analogamente, tra le più recenti, sentenze n. 113 e n. 303 del 2011)».
[55] Cfr. M. A. Scurati Manzoni (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Roma, Palazzo della Consulta, 2023.
[56] Cfr. G. Campeggio, L’installazione ex Ilva e la conformità e adeguatezza della valutazione di impatto sanitario dopo la riforma costituzionale dell’art. 41 Cost. e nel quadro della giurisprudenza UE e CEDU, in www.contenziosoclimaticoitaliano.it, febbraio 2025.
[57] M. Cunha Verciano, Il doppio limite del potere di mitigazione climatica dell’Italia dopo le sentenze CEDU del 9 aprile 2024, in www.giustiziainsieme.it, 22 gennaio 2025.
[58] Di «forza vincolante delle pronunce della Corte di Strasburgo» parla la Corte costituzionale nella sentenza n. 7/2024/2024, in una prospettiva di «solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU, che consente di leggere in stretto coordinamento i parametri interni con quelli convenzionali al fine di massimizzarne l’espansione in un rapporto di integrazione reciproca» (Corte costituzionale, sentenze n. 145/ 2022 e n. 4/2024).
[59] Il n. 3 dell’art. 52 dispone che «Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell'Unione conceda una protezione più estesa».
[60] Caso “Coolglass v. An Bord Pleanála”, 10 gennaio 2025.
[61] Sull’estensione del concetto di “nocivo” (harmful) nel diritto UE e sull’inclusione, in esso, della dimensione climatica, si v., tra le altre, la Direttiva IED 2024/1785 del 24 aprile 2024 (in particolare con riferimento alle previsioni di cui all’art. 27-quinquies), la Direttiva sulla qualità dell’aria 2024/2881 del 23 ottobre 2024, il Piano d’Azione della Commissione Europea sull’Acciaio e i Metalli (COM(2025) 125 final) del 19/03/2025.
[62] Si v. la Relazione al Disegno di legge sul clima (Senato della Repubblica, XIX legislatura Atto 743), in cui testualmente si parla di «emissioni nocive di carbonio».
[63] A.T. Cohen, L’Italia senza “quota equa” e Carbon Budget viola Costituzione e CEDU, in www.LaCostituzione.info, 9 ottobre 2024.
[64] Cfr. M. Cunha Verciano, L’emergenza climatica tra giudice e vincoli normativi: sulla soglia accettabile del pericolo, in www.LaCostituzione.info, 13 giugno 2022, nonché le proposte di legge, depositate in Parlamento, per la sua introduzione (cfr. Senato della Repubblica, XIX legislatura, Atto 1007).
[65] Cfr. G. Trivi, La nullità della valutazione ambientale strategica del PNIEC per assenza di Carbon Budget residuo, in Osservatorio sul Costituzionalismo Ambientale(OCA) www.DPCEonline.it, 24 gennaio 2025.
[66] Ci si riferisce alle posizioni di G. Scarelli, Contenzioso climatico e giurisdizione, in www.giustiziainsieme.it, 26 novembre 2024, e M. Magri, Lineamenti dell’amministrazione pubblica del clima, in Diritto pubblico, 2, 204, pp. 321-348.
[67] Lo argomenta bene C. Eckes, “It’s the democracy, stupid!” in defence of KlimaSeniorinnen, in ERA Forum, 25, 2024, 451-470.
[68] Il dettaglio dell’art. 43 CEDU sembra essere sfuggito all’analisi di Scarselli (art. cit.), secondo il quale la sentenza “Verein KlimaSeniorinnen” non vincolerebbe in alcun modo i giudici comuni italiani.
[69] Cfr., per una spiegazione sufficientemente semplice, Q. Wu, G.R. North, Climate sensitivity and thermal inertia, in Geophysical Research Letters, 29(15), 2002, pp. 2-1/2-2.
Avvilente e pericolosa. Non sovvengono altri aggettivi per qualificare la telenovela mediatico-giudiziaria sul caso Garlasco, che da molti giorni egemonizza i palinsesti della televisione, della radio e della stampa, sollecitando e soddisfacendo un ossessivo interesse per indagini che potrebbero rimettere in discussione la condanna di Alberto Stasi per l’orribile omicidio di Chiara Poggi.
Ma come, si obietterà, non abbiamo sempre detto che è diritto sacrosanto del popolo conoscere come viene amministrata la giustizia in suo nome (art.101 Cost.)?
La verità è che questo polverone di indiscrezioni, di nuovi accertamenti, di illazioni, di recriminazioni, di nuovi sospetti, di sensazionalismi, con una rigorosa e consapevole narrazione dell’attività giudiziaria ha poco a che fare; non risponde a un interesse pubblico, ma a un morboso interesse del pubblico; nelle sue espressioni deteriori ricorda “gli strilloni” del yellow journalism americano di fine Ottocento. Pochi rinunciano a una comparsata: giornalisti, avvocati, magistrati, consulenti, vistosamente esondando dai rispettivi codici deontologici, gareggiano nell’insufflare nel circuito mediatico-giudiziario qualche sconvolgente insinuazione. Per non farci mancare nulla, anche il Ministro della giustizia ha ritenuto di far sentire la sua voce, bollando come irragionevole e irrazionale la condanna di Stasi. Noi popolo, poi, contribuiamo con la nostra insana attrazione per delitti efferati e successive inchieste: siamo il Paese, nei cui giornali la cronaca nera occupa più del doppio di quanto mediamente avviene negli omologhi organi di informazione europei.
Una siffatta sarabanda mediatica, oltre che deplorevole, è anche pericolosa per più ragioni.
Anzitutto, perché instilla nella collettività una sfiducia nella giustizia, sulla fallace idea che questa, quando funziona bene, debba partorire sempre la verità. Ma la Verità non è umano appannaggio, e il nostro sforzo di accertamento di episodi del passato si deve muovere “nel crepuscolo delle probabilità” (John Locke). L’itinerario processuale che ogni collettività predispone per rendere giustizia è quello che ritiene il meno imperfetto per orientarsi in tale crepuscolo; e il cui risultato è disposta ad accettare pro veritate, al posto della verità. Vi possono essere quindi sentenze giuste, ma orfane della verità. Basta tornare con la mente al recente, doloroso caso Zuncheddu, pastore sardo che ha scontato 33 anni di prigione da innocente: in presenza di un testimone oculare che asseriva di riconoscere in lui l’assassino, le sentenze che lo hanno condannato erano “giuste” - cioè emesse al termine di un corretto iter cognitivo e motivazionale - ma drammaticamente fallaci. Inaccettabile conseguenza dei nostri limiti umani che dobbiamo, purtroppo, imparare ad accettare. Ogni altro modo di rendere giustizia, del resto, sarebbe drammaticamente peggiore. Un popolo che non crede nella propria giustizia si rassegna fatalmente a quella del più forte; prospettiva pericolosa, in uno Stivale come il nostro, sempre pronto a calzare il piede dell’uomo della Provvidenza.
Naturalmente, non è mancato chi, sull’onda emotiva di questa dolorosa vicenda, ha subito stentoreamente invocato un urgente cambiamento del nostro sistema giustizia. Se ad ogni vero o presunto errore giudiziario dovessimo ridisegnare l’itinerario cognitivo elaborato sulla base di pluriennale esperienza, vivremmo in una disorientante incertezza. Non si intende certo dire che le regole del nostro giudizio penale non possano e quindi non debbano essere migliorate; ma il modo peggiore per intervenire è quello d’impulso, nel momento in cui è ancora vivissimo lo sconcerto per una drammatica vicenda umana e giudiziaria.
Questo chiassoso e indecifrabile polverone informativo è foriero di un’ultima deleteria conseguenza: ingenera nell’opinione pubblica spasmodiche attese di risposta ai suoi angoscianti dubbi ed esercita un’incalzante pressione soprattutto sugli organi inquirenti, rischiando di indurli a rovinose scorciatoie (come ad es. nell’altrettanto famoso processo per il delitto di Meredith Kercher: «l’inusitato clamore mediatico della vicenda - rilevò la Cassazione - ha fatto sì che le indagini subissero una accelerazione nella spasmodica ricerca di un colpevole da consegnare all’opinione pubblica internazionale e non ha certamente giovato alla ricerca della verità sostanziale»). Con la paradossale conseguenza che poi, anche in tal caso, si solleveranno dubbi sulla correttezza del risultato che ne è conseguito. E saremmo daccapo, con un altro scomposto clamore mediatico.
Contributo pubblicato sul quotidiano “Avvenire” del 1.6.2025.
Al convegno Attorno a questo corpo dalle mille paludi, titolo preso in prestito da un verso di Amelia Rosselli, sarà presentato il libro di Donatella Stasio L’amore in gabbia.
In effetti tra le mille paludi attorno al corpo, la palude che, più di ogni altra, offre la plastica rappresentazione dell’impedimento al corpo è la palude simboleggiata dalla gabbia.
Nel libro di Donatella Stasio la gabbia è un emblema così come un emblema è l’amore, quale rappresentazione unificante di plurime possibili interrelazioni salvifiche.
Il saggio di Stasio è una rassegna sugli ostacoli al corpo: dalla restrizione nella cella di isolamento in cui viene rinchiuso Gianluca, ancora adolescente a Fossombrone, “venti ore al giorno in isolamento”, all’isolamento affettivo della sua infanzia, cucciolo di una madre “rigida di metallo, che non scalda ma grazie a un biberon meccanico nutre”, la mamma scimmia dell’esperimento scientifico di Harry Harlow.
La lettura ti conduce attraverso un viaggio evocativo e stimolante nel corso della quale si passano in rassegna gabbie potenziali e reali, volontarie, imposte o eventuali: la famiglia, la droga, il carcere e la dannosa assenza di relazioni affettive.
L’autrice non limita il suo obiettivo al racconto di «cosa significhi, nella vita di un essere umano, tenere in gabbia, insieme al corpo, anche la mente e il cuore, chiudere tutto a doppia mandata e buttare la chiave», ma va oltre e punta il dito sulle criticità della nostra società e su come siano stati messi «“in gabbia” altri diritti di libertà riconosciuti dalla Corte costituzionale ma sgraditi alla maggioranza: il diritto al suicidio assistito in presenza di determinate condizioni; il diritto dei figli di coppie omogenitoriali di essere riconosciuti da entrambi i genitori che li hanno voluti cresciuti; il diritto delle madri di condividere realmente la scelta del cognome, materno o paterno, da attribuire ai figli, fin dalla nascita, e, in caso di disaccordo, di assegnare loro il doppio cognome».
L'Io come ha scritto Freud si oggettivizza nel corpo. L’Io «è in definitiva derivato da sensazioni corporee, soprattutto dalle sensazioni provenienti dalla superficie del corpo. Esso può dunque venire considerato come una proiezione psichica della superficie del corpo».
La proiezione psichica della superficie del corpo è influenzata dalle relazione affettive, la madre di morbida pezza, che scalda ma non nutre dell’esperimento di Harry Harlow conferma in maniera lampante che “non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Vangelo Matteo 4, 4 e Luca 4, 4), la parola dalla bocca di Dio, secondo una visione laica e contemporanea, altro che non è che l’amore dell’uomo, la solidarietà, la capacità di ascoltare di offrire, di relazionarsi in modo altruistico.
Gianluca che rappresenta il corpo del detenuto, per tornare al fil rouge del convegno, un corpo affatto dissimile dal corpo del migrante – ristretto solo perché cerca un mondo – o dal corpo prigioniero – ristretto perché è un soldato mandato a combattere.
Nella narrazione di Donatella Stasio il corpo di Gianluca in carcere soffre perché è rinchiuso, perché viene picchiato negli angoli in cui l’occhio della telecamere di sorveglianza non arriva e dagli stessi che dovrebbero proteggerlo, perché viene svegliato dai cani a scopo punitivo, perché la sua cella viene violata quanto all’intimità degli oggetti da perquisizioni violente, perché non ha un luogo dove rimanere in intimità, perché se sfiora il visitatore durante i colloqui il sorvegliante di turno lo sgrida.
Gianluca in carcere è un corpo sofferente perché abusato nella sua dignità.
«Avevo dolori fisici inenarrabili, ero bloccato in ogni parte del corpo, duro come un pezzo di legno. Non perché non fossi allenato, figuriamoci! Ma perché il mio corpo si prendeva la responsabilità di proteggermi dagli abusi, dalla mia emotività inesistente», scrive Gianluca a Donatella.
Gianluca dopo la prima volta diventa un recidivo.
La recidivanza è il più grave tradimento della nostra Costituzione, il più grosso smacco al principio rieducativo della pena. È singolare come l’attenzione al principio rieducativo della pena sia condizionato dall’ideologia politica, come l’asperità o meno del trattamento penale del recidivo dipenda dal colore della bandiera del politico di turno. Il confronto tra la dottrina sulla recidiva del fascista Manzini e la teoria del socialista Matteotti (che nella sua breve esistenza scrisse un saggio ancora attuale sul trattamento penale del recidivo) offre un’idea plastica di come l’idea della punizione sia connaturale al fascista e come quella della rieducazione sia invece connaturale al socialista.
Per fortuna la nostra bella Costituzione ha consacrato il principio rieducativo della pena. La più bella Costituzione del mondo, come scrive Donatella Stasio, è una Costituzione percorsa dal filo dell’impellenza delle relazioni sociali. Il primo richiamo alla comunità di sentimenti lo troviamo all’art. 2 che consacra i doveri della solidarietà politica, economica e sociale come doveri inderogabili e poi all’art. 3 si rinviene il compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
In questo contesto dovrebbe orientarsi il principio rieducativo della pena ma i principi non vanno al passo delle situazioni di fatto, o meglio queste non si adeguano da sole ai principi costituzionali. Occorre uno sforzo che non si riesce a fare o che non si vuole fare, di qui l’enorme importanza della sentenza della Corte Costituzionale sull’intimità affettiva.
Come scrive Stasio: «In carcere, l’intimità, l’affettività, la sessualità non sono considerate espressioni della personalità umana, tanto meno un diritto. Sono un lusso, addirittura un privilegio, e chi ha violato la legge – dal mafioso al ladruncolo, dal tossicodipendente allo straniero, dal detenuto di Alta sicurezza a quello comune – non ha diritti né privilegi né lussi, non merita niente, neppure di respirare. E che “intima gioia”, che godimento questa mancanza d’aria, specie per i “più pericolosi”, abbiamo sentito dire da un sottosegretario alla Giustizia del nostro governo.»
A questa manifestazione di intima gioia, negazione assoluta della dignità umana, mi piace contrapporre un’immagine salvifica. L’immagine è quella di Papa Francesco che lava i piedi dei detenuti di Rebibbia.
Restituiscono dignità all’uomo le mani del Papa sui piedi di corpi rinchiusi e rendono il valore di quei corpi inestimabile, così come deve essere il valore di ogni corpo umano. Chissà quanto è stato emozionante quel contatto fisico per il detenuto e per i presenti che hanno sentito tangibile l’amore esondante dal gesto purificatore che restituiva la dignità all’uomo senza condizioni. «Perché voi e non io», diceva Papa Francesco ogni volta che varcava il portone pesante di un carcere. Un mantra che lo accompagnava nel suo pellegrinare fra gli ultimi, portando speranza, scambiando i suoi occhi con i loro, «facendo sua la storia di ogni persona detenuta». Nessuno deve sentirsi uno scarto secondo la dottrina di Papa Francesco, eppure Gianluca dice di sé «sono stato un prodotto di scarto di questa società per talmente tanti anni che ancora oggi il dolore di quell’ambiente abusante è così vivo dentro di me da farmi sentire un bambino abbandonato tra i tanti, un numerino senza storia, un racconto di poco conto da non dire per non impietosire.»
Negli ultimi anni l’articolo 27 della Costituzione è stato sfregiato dal disinteresse dei governanti. Il sovraffollamento carcerario colloca l’Italia al fanalino di coda dei Paesi europei e così il numero dei suicidi in carcere.
Niente investimenti, niente politiche di depenalizzazione anzi, all’opposto, la maggioranza al governo dall’insediamento non fa che aumentare il numero dei reati, e con il decreto legge sicurezza sono stati introdotti quattordici nuovi reati e sono state aggravate le pene di quelli esistenti – sono questi i reati proprio dei poveri cristi – .
I detenuti aumenteranno. Il decreto-legge sicurezza determinerà l’effetto esattamente opposto a quello propugnato dal decreto perché, come scrive Donatella Stasio la «pervasività fa sì che le patrie galere restituiscano alla “società civile” non persone libere, ma reduci. Che tornino a delinquere oppure no, sono dei reduci. Che abbiano pene lunghe o brevi da scontare, prima o poi tornano a casa – sempre che restino vive e che abbiano una casa –, ma tornano devastate dagli abusi consumati dal carcere. Sono come quei soldati ai quali la guerra ha strappato gambe, braccia, occhi: mutilati nel corpo e nella dignità, amputati dei sentimenti, della sessualità, della capacità di amare, della libertà.»
Ma in questa nostra epoca caratterizzata dalla cultura dello scarto desertificata dal valore del rispetto della dignità umana, noncurante del dovere inderogabile della solidarietà, un passo avanti è stato fatto grazie a un magistrato di sorveglianza, Fabio Gianfilippi, – lo stesso che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale – e alla pubblico ministero Michela Petrini che hanno imposto l’attuazione della storica sentenza della Corte Costituzionale n.10/2024, contenente la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 18 nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia.
Come ci ricorda Stasio un tentativo in tal senso fu messo in pratica dal 1952 al 1960, da Eugenio Perucatti che diresse il carcere per “l’ergastolani” nell’isola di Santo Stefano, al largo di Ventotene, il carcere che – guarda caso – fu smantellato dal governo Tambroni (governo democristiano sostenuto con l’appoggio esterno del Movimento sociale italiano con il quale il partito Fratelli d’Italia ha in comune pure il simbolo della fiamma tricolore).
Come scrive Donatella Stasio «La sentenza sull’affettività – la numero 10 del 2024 – ha suscitato scandalo e ilarità nel fantastico mondo della società civile, dove tanti, troppi, “godono” se i detenuti non respirano e vengono privati di momenti d’amore. Di quel “godimento” si nutrono le destre, che ne vanno fiere pubblicamente – è questo il dato politico nuovo rispetto al passato – e tanto basta a spiegare il lungo boicottaggio della sentenza della Corte, così come delle altre che riconoscono diritti fondamentali ideologicamente sgraditi alla maggioranza.»
La stanza dell’amore è il punto di arrivo di un percorso il cui punto di partenza si rinviene nella nostra bella Costituzione, oltre che nella Convenzione europea dei diritti dell’Uomo; si tratta di applicazione minima, ma essenziale, del principio secondo il quale «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». La costrizione delle emozioni e dei sentimenti – ce lo dice la Corte costituzionale – costituisce un trattamento contrario al senso di umanità.
Dell’intimità in carcere Gianluca, alla domanda di Donatella, risponde «non si fa» e chiarisce «Qualunque essere umano è in grado di astenersi dalla sessualità per anni senza patire, non è che i detenuti sono una specie a parte che se non eiacula ogni tot muore. La filmografia pop americana è tossica. Il carcere è un luogo di espiazione dove calarsi in una dimensione di intimità con se stessi, di ricerca, di comprensione». Donatella è spiazzata «l’adesione convinta dei detenuti al “non si fa”, al “non sta bene”. L’accettazione, anzi, di più, la convinzione che “non sta bene” e dunque “non si fa” – baciarsi, abbracciarsi, toccarsi o semplicemente sfiorarsi con i propri fidanzati o le proprie fidanzate.»
Anche attraverso la negazione del rapporto affettivo si lede la dignità umana e la lesione subìta da Gianluca è ancora sotto la sua carne cicatrizzata. Racconta il dolere derivante dalla violazione dell’intimità dei colloqui, «brandelli galeotti di affettività settimanale relegata a un’ora di orologio con parenti stretti, amori, conviventi vere o fasulle». «Spesso», racconta, «le guardie interrompevano malamente quei momenti, sostenendo che qualcosa non andava bene; sbattevano le chiavi sul vetro della sala colloqui o direttamente sul tavolo intorno al quale eri seduto a parlare. Era il loro modo di richiamarti all’ordine, anche sulla scadenza dell’orario di visita. Gesti brutali, piccole e grandi angherie, gratuite, umilianti, impossibile non coglierle se stai chiuso lì dentro. Io le ho sofferte tantissimo, così tanto da tenermi volutamente a distanza da tutto ciò che potesse provocarle. Ai colloqui diventavo glaciale pur di non essere disturbato dalle guardie, da quella vista indiscreta, da quei gesti intrusivi e violenti sulla mia intimità. E anche da possibili sanzioni disciplinari.»
Nessuna emozione nessun sentimento nessun contatto sono le regole detenuto affinché sia garantita la pax carceraria; l’effetto collaterale è l’ablazione dei sentimenti e delle relazioni, effetto che determina l’analfabetismo delle emozioni, l’opposto di quello che serve al processo di rieducazione, e ciò in quanto «Il carcere che funziona è quello che produce libertà, come usava dire Alessandro Margara. E la libertà sta dentro i corpi, le menti e i cuori. La realtà è ben altra: la pax carceraria si nutre di subcultura che più o meno tutti, operatori e detenuti, finiscono per respirare, assimilare e condividere. È stato così anche per Gianluca, uno delle migliaia di allievi formatisi alla scuola del carcere. I suoi principali maestri sono stati detenuti mafiosi o dell’Alta sicurezza, il regime detentivo speciale destinato ai detenuti considerati particolarmente pericolosi o che hanno commesso reati gravi, con i quali ha convissuto per circa sei anni, quand’era poco più che un adolescente.»
Gianluca sull’intimità in carcere dopo la prima risposta riflette ancora e poi ci ripensa occorre lavorarci, la stanza dell’amore produrrà i suoi effetti.
Donatella Stasio offre al lettore una lucida analisi politica che non può non condividersi: «Il carcere racconta molto dello stato di salute di una democrazia. Il paesaggio contemporaneo delle prigioni italiane è fatto di corpi ammassati, sempre più giovani e sempre più vecchi, provati da tossicodipendenze, malattie mentali e psichiche, e dalla povertà; ma è fatto anche di corpi senza più vita, suicidati o deceduti, in numeri senza precedenti. Un contenitore nel quale buttare anche il dissenso e, più in generale, tutto ciò che non si vuole o non si sa affrontare – dai migranti al disagio sociale – e che perciò va chiuso in gabbia, possibilmente “a marcire”, cavalcando l’inganno secondo cui solo la gabbia garantisce legalità e sicurezza. Un totale rovesciamento della prospettiva democratica secondo cui le priorità sono il rispetto della dignità della persona, i suoi diritti, la sicurezza sociale.»
Ma Gianluca ce l’ha fatta, il carcere di Bollate ha impedito che ricadesse di nuovo nell’errore.
Una cosa è certa: le persone cambiano la storia dei singoli e pure quella dei popoli; questo ci deve far sentire tutti responsabili, attivi e propulsivi e disponibili, pronti a fare quello che in certi momenti occorre fare, in questo senso certamente Stasio ha adempiuto alle sue responsabilità di giornalista scrivendo questo bellissimo saggio.
«Una persona è sempre fatta da tante persone che l’hanno aiutata e amata», ha detto Ana Lydia Sawaya, professoressa dell’Università di San Paolo del Brasile, il giorno della sua consacrazione monacale.
Il libro di Stasio non racconta soltanto la storia delle periferie e dell’abbandono sociale; Gianluca non te lo racconta soltanto, ma te lo fa incontrare. Un uomo fatto dalle persone che lo hanno aiutato e amato.
Ente locale in dissesto e provvedimento di acquisizione sanante: profili di competenza.
di Giuseppe Piluso
Sommario: 1. Premessa - 2.Analisi del quadro normativo - 3. L’orientamento “formale”: la competenza è della gestione ordinaria dell’Ente - 4. L’orientamento “sostanziale”: la competenza è dell’Organo Straordinario di Liquidazione - 5. L’orientamento che distingue la competenza amministrativa da quella contabile.
1. Premessa
Il presente lavoro illustra la problematica concernente l’individuazione dell’organo competente ad adottare il provvedimento di “acquisizione sanante”, ai sensi dell’art. 42 bis del D.P.R. 327/2001, ove l’Ente locale abbia deliberato il dissesto finanziario e il fatto dell’ “occupazione sine titulo” sia intervenuto in epoca antecedente.
Per affrontare questo argomento si analizzerà, in una prima parte, la disciplina sul dissesto degli enti locali con particolare riguardo alla previsione secondo cui l’organo straordinario di liquidazione ha competenza relativamente ad “atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato”.
In una seconda parte, al fine di determinare con esattezza quali debiti siano correlati ad “atti e fatti di gestione”, si analizzeranno gli interventi del legislatore, della giurisprudenza amministrativa e contabile attraverso le soluzioni ermeneutiche adottate per giungere all’individuazione dell’organo competente.
Un primo orientamento “formale” e, per così dire, contabile di debito, ha ritenuto di attribuire la competenza ad adottare il provvedimento di “acquisizione sanante” agli organi “ordinari” dell’Ente, ossia il Consiglio Comunale.
A questo intervento sono susseguite ulteriori opzioni ermeneutiche.
Ad avviso di una esegesi spiccatamente “sostanziale”, sostenuta dalla Plenaria del Consiglio di Stato, la competenza andrebbe attribuita, invece, all’Organismo Straordinario di liquidazione, in quanto correlata al “fatto” dell’occupazione intervenuto prima della dichiarazione di dissesto.
Da ultimo si analizzerà una diversa soluzione “intermedia”, sostenuta in alcune recenti pronunce del Tar Sicilia e Tar Campania e considerata da chi scrive più ragionevole e in linea con il sistema normativo, che opera una necessaria distinzione tra la competenza amministrativa in ordine alla scelta di acquisire o restituire il bene, da attribuire alla gestione ordinaria, e quella contabile di “liquidazione del titolo di spesa”, di competenza, invece, dell’Organismo Straordinario di liquidazione.
2. Analisi del quadro normativo
Per poter individuare l’organo deputato ad adottare il provvedimento di “acquisizione sanante”, ex art. 42 bis del D.P.R. n. 327/2001, occorre un inquadramento delle disposizioni normative inerenti lo stato di dissesto finanziario dell’Ente e, in particolare, il riparto di competenze che il legislatore delinea per i crediti e debiti tra organismo straordinario di liquidazione e organi istituzionali dell’Ente.
In secondo luogo, occorre coordinare la disposizione sull’ “acquisizione sanante” con la disciplina che il legislatore prevede nel caso di dissesto.
La disciplina sul dissesto finanziario degli enti locali è contenuta all'interno del titolo VIII del decreto legislativo n. 267 del 2000 e ha come scopo il ripristino degli equilibri di bilancio e della ordinaria funzionalità degli enti locali in grave crisi finanziaria, al fine di assicurare, in via mediata, la tutela di interessi primari, relativi al buon andamento, alla continuità dell'azione amministrativa e al mantenimento dei livelli essenziali delle prestazioni.
Uno degli aspetti più controversi è sicuramente rappresentato dalla distinzione tra i debiti di competenza della gestione ordinaria, rimessi agli organi istituzionali dell'ente e perciò azionabili dai creditori con le procedure ordinarie, e i debiti di competenza della gestione liquidatoria, rientranti nella massa passiva di competenza dell'organo straordinario di liquidazione (OSL) e, pertanto, non passibili di esecuzione coattiva ai sensi dell’art. 248 TUEL.
Le disposizioni del testo unico degli enti locali dalle quali bisogna prendere le mosse sono gli artt. 252 e 254 che disciplinano, nel dettaglio, la procedura per la formazione e la rilevazione della massa passiva, l’acquisizione e gestione dei mezzi finanziari disponibili ai fini del risanamento, anche mediante l’alienazione dei beni patrimoniali, e la liquidazione e pagamento della massa passiva.
L’art. 252 comma 4 prevede che “l’organo straordinario di liquidazione ha competenza relativamente a fatti e atti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato”.
L’art. 254 comma 3 disciplina, nel dettaglio, la procedura per la formazione e la rilevazione della massa passiva.
Nel piano di rilevazione della massa passiva adottato dall’organo straordinario di liquidazione vengono inclusi:
A seguito del definitivo accertamento della massa passiva e dei mezzi finanziari disponibili, l’organismo straordinario di liquidazione è tenuto a predisporre il piano di estinzione delle passività.
La difficoltà interpretativa nella lettura di queste disposizioni ha indotto il legislatore ad intervenire con una disposizione di interpretazione autentica volta a chiarire la locuzione “atti e fatti di gestione” utilizzata per individuare la competenza dell’Organismo Straordinario di liquidazione.
Con l’art. 5 comma 2 del d.l. 29 marzo 2004, n. 80 conv. con mod. dalla legge 28 maggio 2004, n. 140, il legislatore chiarisce che “ai fini dell'applicazione degli articoli 252, comma 4, e 254, comma 3, del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, si intendono compresi nelle fattispecie ivi previste tutti i debiti correlati ad atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell'anno precedente a quello dell'ipotesi di bilancio riequilibrato, pur se accertati, anche con provvedimento giurisdizionale, successivamente a tale data ma, comunque, non oltre quella di approvazione del rendiconto della gestione di cui all'articolo 256, comma 11, del medesimo testo unico”
Il legislatore interviene, con la predetta disposizione, al fine di perimetrare l’ambito di rilevanza dei fatti genetici delle passività da prendere in considerazione ai fini della rilevazione della massa passiva, tenendo conto della natura e delle circostanze temporali di maturazione del debito.
Tuttavia, tale intervento normativo, seppur in apparenza chiaro, non ha consentito di dirimere la questione interpretativa circa l’esatta portata dell’espressione “atti e fatti di gestione” verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi del bilancio riequilibrato.
Questa espressione aveva indotto, infatti, la Sezione regionale di controllo della Corte dei Conti per la Campania con la deliberazione 132/2018 a chiarire che dovesse interpretarsi “in base ai noti canoni ermeneutici generali di cui all’art. 12 delle preleggi secondo l’uso comune delle espressioni usate dal legislatore e dunque, nel caso, secondo le ordinarie conoscenze giuridiche della materia alla quale tali elementi normativi appartengono, ossia secondo le comuni conoscenze del diritto privato”.
La Corte richiama la distinzione tra atti e fatti giuridici.
Sul piano della teoria generale del diritto privato, i fatti a cui l’ordinamento riconosce la capacità di produrre effetti giuridici si dividono in “atti” e “fatti” a seconda della presenza o meno di una volontà nella produzione degli effetti.
In questo senso, tipico atto produttivo di effetti giuridici “voluti” è il contratto quale “accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”.
Diverso dall’atto è, invece, il “fatto giuridico” che è da intendersi come qualsiasi accadimento naturale o umano dal quale possano derivarne effetti giuridici: vi rientrerebbe qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto da risarcire ex art. 2043 c.c..
Chiarita la nozione di “atti o fatti” occorre, tuttavia, considerare che il legislatore, nella disposizione dell’art. 5 del d.l. 80/2004 sopra indicata, si riferisce testualmente ai “debiti correlati ad atti o fatti di gestione”.
È proprio questa correlazione, tra il concetto di “debito” e quello di “atto o fatto” che lo ha generato, ad aver dato luogo a diverse opzioni ermeneutiche
La questio iuris nasce, in sostanza, dal diverso approccio contabile oppure sostanziale con il quale si voglia intendere la predetta locuzione e, in particolare, quando si voglia intendere il momento genetico dell’obbligazione.
Come si vedrà nel proseguo della trattazione, se si richiama un concetto formale, pecuniario e, per così dire, contabile di debito sarà irrilevante il momento in cui il fatto causativo del danno si è verificato, dovendosi piuttosto riferire al momento in cui l’esposizione debitoria del Comune sia divenuta certa liquida ed esigibile.
Leggendo, al contrario, la disposizione con un approccio cosiddetto “sostanzialistico” la competenza dell’O.S.L. dovrebbe riferirsi a tutti quei debiti le cui poste contabili siano eziologicamente e funzionalmente ricollegabili ad un atto o fatto di gestione antecedente alla dichiarazione di dissesto (e cioè al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato), indipendentemente dal momento in cui si siano manifestati contabilmente quale posta passiva pecuniaria.
Questo quadro normativo va coordinato con la disposizione sull’acquisizione sanante dell’art. 42 bis del D.P.R. 327/2001.
Con tale istituto il legislatore ha introdotto un procedimento espropriativo “eccezionale” per far fronte ad un illecito perpetrato dall’Amministrazione in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o di dichiarazione di pubblica utilità, consentendo di acquisire il bene immobile al proprio patrimonio indisponibile, previa corresponsione al proprietario del valore venale del bene oltre un indennizzo, per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito, nell’importo del dieci per cento stabilito dalla legge.
La Pubblica Amministrazione è tenuta ad illustrare le attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che giustifichino l’emanazione di questo provvedimento di acquisizione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati, mediante “un percorso motivazionale rafforzato ed assistito da garanzie partecipative rigorose, che dimostrino in modo chiaro che l’apprensione coattiva si pone come una scelta estrema laddove non sono ragionevolmente praticabili soluzioni alternative”. [1]
Come chiarito dalla Corte costituzionale - con la sentenza 30 aprile 2015, n. 71 – nell’escludere che l’art. 42 bis del D.P.R. n. 327 del 2001 si ponesse in contrasto con l’art. 42 Cost., il legislatore ha introdotto “una procedura espropriativa che, sebbene necessariamente “semplificata” nelle forme, si presenta “complessa” negli esiti, prevedendosi l’adozione di un provvedimento specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione".
Si tratta, pertanto, di un procedimento ablatorio sui generis “caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc)”.[2]
La natura giuridica del provvedimento acquisitivo, che non ha valore meramente dichiarativo ma costitutivo, ha posto, pertanto, la giurisprudenza dinanzi a due diversi orientamenti: un primo orientamento che ha privilegiato l’aspetto contabile in forza del quale non si accerterebbe un debito preesistente ma piuttosto lo si determinerebbe ex novo e un secondo orientamento che, al contrario, ha dato rilevanza al fatto generatore dell’obbligazione ossia l’occupazione del suolo fonte di un illecito permanente.
In queste due diverse prospettive, che saranno appresso analizzate, occorre tenere conto dei due diversi aspetti, amministrativo e contabile, in forza dei quali l’Ente svolge una duplice attività: la prima consistente nell’esercizio della discrezionalità amministrativa nel valutare di acquisire il bene o restituirlo e una seconda di carattere meramente contabile volta all’effettiva liquidazione del titolo di spesa che costituisce condicio iuris per l’acquisizione al patrimonio indisponibile dell’ente.
Questa distinzione sarà approfondita nel paragrafo dedicato all’orientamento seguito dalla giurisprudenza del Tar Sicilia e Campania che ha innovato il panorama interpretativo con una soluzione che, a parere di chi scrive, è senza dubbio più ragionevole e coerente con il quadro normativo vigente.
3.L’orientamento “formale”: la competenza è della gestione ordinaria dell’Ente
Per un primo orientamento, rappresentato da pronunce del Consiglio di Stato e del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, la competenza ad adottare il provvedimento di acquisizione sanante, nonché gli ulteriori atti contabili di effettiva liquidazione e pagamento del debito correlato, spetterebbe agli organi istituzionali dell’Ente e quindi alla gestione ordinaria. [3]
La locuzione “fatti ed atti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell'anno precedente a quello dell'ipotesi di bilancio riequilibrato”, utilizzata dal legislatore nell’art. 252 comma 4 del d.lgs. n. 267/2000 per individuare la competenza dell’organo straordinario di liquidazione, farebbe richiamo ad “un concetto formale, pecuniario e, per così dire, contabile di debito”.
Questa interpretazione troverebbe fondamento proprio nell’art. 5 del decreto legge 29 marzo 2004, n. 80, convertito con la legge 28 maggio 2004, n. 140, secondo cui i debiti correlati ad “atti e fatti di gestione” verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato rientrano nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione solo “se accertati”.
Con tale espressione il legislatore non avrebbe esteso le attribuzioni dell’Organismo Straordinario di Liquidazione fino ad includere nella massa passiva debiti ancora in via di accertamento e, pertanto, privi dei caratteri di certezza, liquidità ed esigibilità.
La norma avrebbe inteso, piuttosto, far richiamo non al momento in cui il fatto si è verificato bensì “al successivo momento in cui la posizione debitoria del Comune, intesa come posta passiva di carattere pecuniario, sia divenuta certa, liquida ed esigibile”.
Così, in forza dell’art. 252 comma 4 e 254 comma 3, rientrano tutti i debiti di bilancio e fuori bilancio anteriori all’anzidetto termine di approvazione del bilancio riequilibrato, a quelli derivanti da procedure esecutive estinte dipendenti da transazioni compiute dal commissario liquidatore e vanno esclusi i debiti il cui titolo sia ancora in fase di formazione perché privi della certezza che la legge richiede.
In altri termini, occorre ricercare il momento in cui si è perfezionato il credito nei suoi caratteri di certezza, liquidità ed esigibilità e non il momento genetico del fatto a cui l’obbligazione è correlata.
Secondo i Giudici, proprio la natura giuridica del provvedimento ex art. 42 bis del D.P.R. 327/2001 ben si attaglierebbe a questa interpretazione: l’emanazione di un provvedimento di acquisizione sanante dopo la dichiarazione di dissesto (ossia dopo il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato) non accerterebbe un debito preesistente ma, piuttosto, lo determinerebbe ex novo, quantificandone anche l’ammontare.
Si tratterebbe, in sostanza, di un provvedimento avente natura costitutiva (di una posta passiva prima inesistente) e non ricognitiva (di un debito preesistente).
Ciò sarebbe confermato dal fatto che il provvedimento adottato produce un effetto traslativo ex nunc, disponendo pro futuro.
Pertanto, ad avviso di questo indirizzo, compete agli organi istituzionali dell’ente in dissesto decidere se restituire il fondo o, in alternativa, emanare il provvedimento di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42 bis.
In quest’ultimo caso la scelta di acquisire il bene determinerebbe la costituzione ex novo di una posta passiva, comportando che i relativi oneri gravino solo ed esclusivamente sul bilancio ordinario dell’Ente.
L’organo straordinario di liquidazione avrebbe competenza solo per il pagamento di quei debiti pecuniari già sorti, ossia quelli in cui la fattispecie costitutiva si sia integralmente realizzata.
In questi termini, l’art. 42 bis nel disciplinare le poste indennitarie da corrispondere per il soddisfacimento del privato distingue, oltre al ristoro per l’esproprio parametrato al valore venale del bene, anche ulteriori somme parametrate al cinque per cento annuo corrispondente al risarcimento per l’occupazione illegittima e al 10% del valore venale per ristorare il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale.
Di conseguenza, gli organi ordinari dell’Ente sarebbero tenuti a corrispondere il valore venale del bene, l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale nonché l’ulteriore somma dovuta per il ristoro dell’occupazione illegittima dopo il 31 dicembre, precedente a quello dell’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato, e sino alla data di emanazione del provvedimento di acquisizione.
Secondo il Consiglio di Stato, nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione rientrerebbe, invece, soltanto la corresponsione del risarcimento del danno da occupazione illegittima per ogni anno di occupazione antecedente all’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato.
In definitiva, l’obbligazione indennitaria non potrebbe considerarsi, sotto alcun profilo, alla stregua di un debito preesistente al dissesto in quanto sarebbe solo l’atto discrezionale di acquisizione a far nascere il debito peraltro collegato ad un effetto traslativo non retroattivo.
Accogliere questa interpretazione non è di poco conto perché renderebbe inapplicabile anche il principio, sancito dall’art. 248 comma 2 del testo unico degli enti locali, che vieta di intraprendere o proseguire azioni esecutive a carico dell’Ente per debiti correlati alla procedura liquidatoria.
4. L’orientamento “sostanziale”: la competenza è dell’Organo Straordinario di Liquidazione
Altro orientamento, di natura spiccatamente sostanziale, attribuisce all’Organo Straordinario di liquidazione la competenza ad adottare sia il provvedimento di acquisizione sanante sia i conseguenti atti di liquidazione correlati.
I giudici prescindono dal momento in cui il debito è sorto contabilmente quale posta passiva pecuniaria, piuttosto fanno richiamo al momento in cui il si è verificato il “fatto o atto” eziologicamente riconducibile alla manifestazione contabile.
Secondo un’importante pronuncia del Consiglio di Stato, intervenuta nel 2018, è irrilevante indagare sulla liquidità ed esigibilità del credito prima o dopo la dichiarazione di dissesto perché “anche i debiti dell’ente locale che diventano liquidi ed esigibili dopo il dissesto entrano nella massa passiva e nella liquidazione concorsuale se derivano da fatti e atti di gestione anteriori alla dichiarazione di dissesto”.
A questa conclusione giunge anche l’Adunanza Plenaria, con la pronuncia n. 15 del 2020, secondo cui, operando una interpretazione coordinata degli articoli 252, 254 del testo unico degli enti locali e dell’art. 5 comma 2 del decreto legge n. 80/2004, rientrano nella competenza dell’O.S.L. non solo le poste passive già contabilizzate alla data della dichiarazione di dissesto ma “anche tutte le svariate obbligazioni che, pur se stricto jure sorte in seguito, costituiscano comunque la conseguenza diretta e immediata di atti e fatti di gestione pregressi alla dichiarazione di dissesto”. [4]
Il percorso logico-giuridico seguito dai Giudici amministrativi si fonda su tre argomentazioni: letterale, contabile e teleologico.
Sul piano letterale il provvedimento di acquisizione sanante ha per presupposto “l’indebita utilizzazione di un bene immobile per scopi di interesse pubblico in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità”.
In tal senso, l’art. 42 bis comma 4 del D.P.R. 327/2001 statuisce che il provvedimento di acquisizione sanante deve indicare “le circostanze che hanno condotto all’indebita utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio”.
In questi termini, se è pur vero che il provvedimento acquisitivo non accerta un debito preesistente ma lo determina ex novo, non avendo carattere ricognitivo bensì costitutivo, tuttavia, risulta certamente correlato ad atti e fatti di gestione verificatisi prima del 31 dicembre antecedente all’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato.
Anche sul piano contabile la conclusione non può essere diversa: se i fatti sono cronologicamente ricollegabili all’arco temporale anteriore al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato, il successivo provvedimento che fa sorgere il titolo di spesa non può che essere imputato alla gestione liquidatoria.
Peraltro, la stessa Corte Costituzionale, nella pronuncia del 21 giugno 2013 n. 154, relativa ad analoghe disposizioni (art 4 comma 8 bis ultimo periodo d.l. 2/2010, conv. in l. n. 42/2010) per le obbligazioni della gestione commissariale del Comune di Roma, sosteneva la coerenza e legittimità di una norma che – in una procedura concorsuale quale quella del dissesto - ancori ad una certa data il fatto genetico dell’obbligazione.
Sarebbe, invece, del tutto irragionevole far dipendere l’imputabilità, alla gestione commissariale o alla gestione ordinaria, dal momento in cui si forma il titolo esecutivo.
La Plenaria svolge anche un ulteriore passaggio, che sarà oggetto di successivo approfondimento, secondo cui “non solo il debito viene imputato al bilancio della gestione liquidatoria sotto il profilo amministrativo – contabile, e non a quello della gestione ordinaria, ma anche la competenza amministrativa ad emanare il provvedimento che costituisce il titolo di spesa deve essere attribuita al Commissario liquidatore, in quanto è quest’ultimo soggetto che deve costituire la relativa partita debitoria del bilancio da lui gestito”.
La competenza dell’Organismo Straordinario di Liquidazione sarebbe coerente anche sul piano dell’interpretazione teleologica: le norme sul dissesto finanziario, essendo preordinate al ripristino degli equilibri di bilancio degli enti locali in crisi, mediante un’apposita procedura di risanamento, delineano una netta separazione di compiti e competenze tra la gestione passata e quella corrente.
E quest’ultima sarebbe pregiudicata se in essa confluissero anche debiti imputabili alla gestione “fallimentare” che ha portato alla dichiarazione di dissesto.
I Giudici di Palazzo Spada osservano, infatti, che la ratio della normativa sul dissesto, basata sulla creazione di una massa separata affidata alla gestione di un organo straordinario, distinto dagli organi istituzionali, può produrre effetti positivi “solo se tutte le poste passive riferibili a fatti antecedenti al riequilibrio del bilancio dell’Ente possano essere attratte alla predetta gestione, benché il relativo accertamento sia successivo” con l’unico limite rappresentato dall’approvazione del rendiconto della gestione che segna la chiusura della gestione liquidatoria.
Le argomentazioni svolte dall’Adunanza Plenaria trovano eco anche nella giurisprudenza della Corte dei Conti.
Con deliberazione della Sezione Autonomie n. 12 del 2020 la Corte dei Conti ha affrontato il tema del previo riconoscimento del debito fuori bilancio da parte del consiglio comunale ai fini dell’inserimento nel piano di rilevazione.
La Corte, nel disattendere le conclusioni della Sezione rimettente e nell’affermare la competenza esclusiva dell’O.S.L. a riconoscere il debito fuori bilancio, ha analizzato le norme sul dissesto ritenendo che le disposizioni che regolamentano l’attività dell’organo straordinario di liquidazione costituiscano un vero e proprio “microsistema extra ordinem” informato al principio della par condicio creditorum ed alla tutela della concorsualità.
Nello specifico, la Corte dei Conti definisce l’O.S.L. quale “dominus esclusivo della peculiare procedura finalizzata al risanamento dell’Ente” e come tale assume anche il ruolo di organo sostitutivo di quelli ordinari dell’Ente, titolare di elevati poteri organizzatori. Secondo i Giudici contabili una “netta cesura” tra le due gestioni sarebbe, peraltro, deducibile proprio dalla norma di interpretazione autentica di cui all’art. 5 comma 2 del decreto legge 29 marzo 2004 n. 80 conv. dalla legge 28 maggio 2004 n. 140.
La gestione dissestata prevede “non solo procedure straordinarie ad hoc per il dissesto ma anche competenze straordinarie ad hoc ed un organo straordinario ad hoc, in funzione sostitutiva di quelli ordinari”.
In linea con la ricostruzione dei giudici amministrativi anche il giudice contabile rileva, pertanto, come “la norma di interpretazione autentica sia espressione della volontà del legislatore di rendere quanto più ampia la competenza dell’organo straordinario di liquidazione”.
A distanza di poco meno di due anni, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato si è ritrovata, tuttavia, a dover affrontare nuovamente la questione, già esaminata nella pronuncia n. 15 del 2020.
Con ordinanza di rimessione veniva proposta una rimeditazione della questione alla luce dei principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, già sanciti nella sentenza De Luca contro Italia.[5]
Per la sezione rimettente l’avvio della procedura di dissesto finanziario a carico di un ente locale e la nomina di un organo straordinario di liquidazione, nonché l’interpretazione autentica svolta con l’art. 5 del decreto legge 80/2004, sarebbero in contrasto con i principi di protezione della proprietà e di accesso alla giustizia riconosciuti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo tutte le volte in cui occorrerebbe attendere l’esito del procedimento di riequilibrio per ottenere il pagamento dei debiti accertati giudizialmente.
Pertanto, dovrebbe essere ripensata la disciplina normativa sul dissesto e in particolare “il principio secondo cui tutte le poste passive riferibili a fatti antecedenti al riequilibrio del bilancio dell’Ente vanno attratte alla competenza dell’O.S.L. benché il relativo accertamento giurisdizionale o amministrativo sia successivo”.
Nel caso affrontato dai Giudici di Palazzo Spada l’ente aveva dichiarato il dissesto finanziario e, in seguito, si era formato un decreto ingiuntivo non opposto dichiarato esecutivo, cui conseguiva il ricorso per ottemperanza dinanzi al Tar Lazio.
Trattandosi di provvedimento giurisdizionale, intervenuto in relazione a fatti precedenti alla dichiarazione di dissesto finanziario, non potevano essere intraprese o proseguite azioni esecutive ai sensi dell’art. 248 comma 2 del testo unico degli enti locali.
Di conseguenza, in ossequio al principio di par condicio creditorum e di tutela della concorsualità, non poteva essere intrapreso neanche il ricorso di ottemperanza quale misura coattiva di soddisfacimento del credito.
Per questi motivi la Sezione rimettente chiedeva all’Adunanza Plenaria di individuare una soluzione interpretativa che potesse rendere conforme gli articoli 252 comma 4 del d.lgs. 267/2000 e 5 comma 2 del d.l. 80.2004, convertito nella legge n. 140/2004, ai principi della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
L’Alto Consesso ripercorre gli interventi normativi e giurisprudenziali, sopra delineati, e ribadisce che, alla luce del dettato normativo, ove gli atti e fatti cui è correlato il provvedimento giurisdizionale sono imputabili al periodo anteriore al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato, l’atto che fa sorgere il titolo di spesa non può che essere di competenza della gestione liquidatoria, a condizione che sia emanato prima dell’approvazione del rendiconto della gestione di cui all’art. 256 comma 11.
Peraltro, nella ricostruzione dei giudici di Palazzo Spada, il debito viene imputato sia finanziariamente sia sotto il profilo amministrativo alla gestione dell’O.S.L. e da ciò ne deriva anche il divieto di intraprendere procedure esecutive fino all’approvazione del rendiconto della gestione.
Anche sul piano teleologico i Giudici ripercorrono quanto già statuito nella precedente Plenaria n. 15/2020 secondo cui le norme sul dissesto finanziario hanno un preciso obiettivo, quello del ripristino degli equilibri di bilancio degli enti locali in crisi mediante un apposita procedura di risanamento; inoltre, tali disposizioni delineano una netta separazione tra la gestione passata e quella corrente che sarebbe, quest’ultima, pregiudicata se in essa confluissero anche debiti sostanzialmente imputabili alla precedente gestione amministrativa.
Opinando diversamente, ossia imputando alla gestione corrente i titoli di spesa accertati con provvedimento successivo alla dichiarazione di dissesto (pur se correlati a fatti anteriori), si metterebbe “a rischio l’esercizio delle stesse funzioni e dei servizi fondamentali svolti dal Comune” che non potrebbe sostenere sul piano finanziario i costi di tali funzioni e servizi, essendo di fatto in uno stato di insolvenza.
Alla luce delle argomentazioni espresse, i Giudici rigettano anche i possibili dubbi di legittimità costituzionale: lo scopo di ripristinare gli equilibri di bilancio e quindi di normalità finanziaria e di capienza finanziaria, che altrimenti sarebbe compromesso dai debiti sorti nel periodo antecedente, risulta prevalente rispetto agli interessi individuali e patrimoniali dei privati, ancorché accertati con provvedimento giurisdizionale.
Anche sul piano del contrasto con i principi della CEDU la Plenaria esprime parere contrario.
Come è noto, in forza dell’art. 117 comma 1 della Costituzione, nasce un dovere per il legislatore ordinario di non violare le previsioni contenute in accordi internazionali. Le norme della C.E.D.U. assumono, pertanto, il ruolo di norme interposte di livello subcostituzionale che, da una parte, sono idonee a fungere da parametro di costituzionalità, dall’altra, sono esse stesse oggetto del giudizio di costituzionalità in quanto la Costituzione non può di certo essere integrata da fonti che ne violino i valori precettivi.
Pertanto, anche le norme sul dissesto, che comportano una netta separazione tra gestione passata e gestione corrente con l’attribuzione della competenza all’O.S.L. per i titoli di spesa correlati a fatti anteriori all’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato, devono essere interpretate alla luce dell’art. 117 comma 1 della Costituzione e della CEDU.
Ove si ravvisi un contrasto con i parametri della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la soluzione non potrà che essere la rimessione alla Corte Costituzionale per valutarne la conformità al dettato costituzionale ex art. 117 comma 1 Cost..
I Giudici, tuttavia, non hanno rinvenuto tale contrasto nell’ipotesi, avanzata dall’ordinanza di rimessione, in cui lo stato di dissesto, non essendo a priori limitato temporalmente, “potrebbe determinare una espropriazione sostanziale del diritto di credito del privato, le cui azioni esecutive sarebbero paralizzate sine die”.
Infatti, i possibili effetti deteriori per il privato creditore “deriverebbero non dal dato normativo bensì dalla gestione concreta della procedura liquidatoria”.
Il legislatore, nel disciplinare la netta separazione tra le due gestioni, avrebbe avuto di mira l’esigenza di assicurare massima certezza e maggiore rapidità nella soddisfazione del ceto creditorio dell’ente locale nel rispetto dei principi ordinatori delle procedure concorsuali.
La gestione liquidatoria sarebbe – secondo il Supremo Consesso – analoga alla gestione del fallimento privatistico, anche esso non soggetto a termini finali certi, senza che per questo si sia dubitato della legittimità costituzionale.
In tal senso, i giudici richiamano gli interventi normativi del d.lgs. n. 77 del 1995 e del relativo decreto correttivo (d.lgs. 11 giugno 1996, n. 336) che hanno previsto alcune cause di prelazione dei crediti, la predisposizione da parte dell’O.S.L. di un piano di rilevazione dei debiti recante l’elenco di quelli esclusi dalla massa passiva della procedura, finalizzato all’erogazione del mutuo con la Cassa depositi e prestiti, e il pagamento in acconto dei debiti inseriti nel piano di rilevazione, interventi questi che hanno intensificato il processo di omologazione tra dissesto degli enti locali e fallimento privatistico.
Inoltre, la normativa sui ritardi nelle transazioni commerciali prevederebbe una compensazione pecuniaria (attraverso gli interessi di mora) offerta al credito per sopperire al rischio dell’attrazione alla gestione liquidatoria.
In forza di tali considerazioni, i Giudici concludono per escludere il contrasto con la Costituzione, sia in via diretta sia indiretta, attraverso il parametro ex art. 117 comma 1 Cost., riconfermando che nel procedimento di dissesto sussista “un equilibrato e razionale bilanciamento, a livello normativo, con la necessità, da un lato, di ripristinare la continuità di esercizio dell’ente locale incapace di assolvere alle funzioni e i servizi indispensabili per la comunità locale, e, dall’altro, di tutelare i creditori”.
L’opzione ermeneutica seguita è, pertanto, quella di ritenere che le disposizioni sopra esaminate abbiano inteso concentrare, in capo alla gestione straordinaria, tutte le poste debitorie comunali, causalmente e funzionalmente correlate a scelte e condotte gestionali anteriori al dissesto, a prescindere dalla relativa qualificazione giuridica, dall'eventuale sopravvenienza al dissesto e dall'intervenuta emanazione, in proposito, di pronunce giurisdizionali
5. L’orientamento che distingue la competenza amministrativa da quella contabile
Nonostante l’intervento nomofilattico della Plenaria del Consiglio di Stato, l’orientamento cosiddetto “sostanziale” non sembra aver sopito i dubbi sull’organo competente ad adottare il provvedimento di acquisizione sanante in regime di dissesto.
La Sezione Autonomie della Corte dei Conti, con una importante pronuncia di coordinamento della giurisprudenza contabile, pur affermando di concordare con l’orientamento dei Giudici Amministrativi, ha apportato alcuni correttivi.[6]
In via generale la Corte riconosce il principio di diritto, secondo cui rientra nella competenza dell’Organismo Straordinario di liquidazione gestire i debiti correlati a prestazioni di servizio professionale contrattualizzate entro il 31 dicembre dell’esercizio precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, ma ne esclude alcune fattispecie.
Si tratta di quei casi in cui la particolare struttura del contratto o il carattere continuativo o periodico delle prestazioni determini la manifestazione degli effetti economici, connessi all’esecuzione, successivamente alla stipula del contratto.
In queste ipotesi, i giudici della Corte dei Conti si distanziano dal principio espresso dall’Adunanza Plenaria ritenendo che, per i contratti a prestazioni periodiche o continuative, attribuire la competenza all’O.S.L. in forza del solo aspetto genetico dell’obbligazione andrebbe a ledere “il diritto dei creditori con l’effetto di paralizzare anche l’erogazione dei servizi resi dalla gestione ordinaria che, proprio attraverso il dissesto finanziario, ha inteso ritrovare la propria serenità finanziaria”.
Il percorso logico giuridico, seguito dai giudici contabili, evidenzia che non occorre andare incontro alla metodologia contabile applicata nel tempo “bensì al fatto gestionale che ha determinato, in concreto, un arricchimento patrimoniale dell’ente ovvero un suo impoverimento (nel caso di sopravvenienze passive)”.
Solo in questo modo, nei contratti di durata, verrà garantita la par condicio creditorum e la regolare prosecuzione dell’attività di competenza dell’amministrazione ordinaria.
La Corte dei Conti aggiunge che “la corretta tenuta della contabilità armonizzata agevola ma non sancisce – da sola- l’esclusione o meno dalla massa passiva di fatti e atti verificatisi prima dell’esercizio di efficacia della dichiarazione di dissesto.
Ciò che determina l’attrazione nella massa passiva è il fatto di gestione che abbia, in concreto, determinato una manifestazione economica (costo), con conseguente arricchimento o depauperamento patrimoniale”.
In tal modo, i giudici contabili escludono una interpretazione letterale della norma dell’art. 5 comma 4 del decreto legge n. 80 del 2004 che “finirebbe per imputare al dissesto tutta una serie di contratti che spaziano dai rapporti di lavoro alle prestazioni periodiche e continuative (acqua, luce e gas), dai contratti di mutuo ai contratti di locazione o di leasing, dai contratti di manutenzione pluriennale ai contratti per forniture di beni e servizi aggiudicati e vigenti per le quali si è in presenza di “obbligazioni giuridicamente perfezionate” le cui dimensioni finanziarie ed economiche non si sono ancora manifestate o, comunque, esaurite”.
Di conseguenza, ai sensi dell’art. 5, comma 2, del decreto legge 29 marzo 2004 n. 80, vanno attratte alla competenza dell’O.S.L. tutte le prestazioni riferibili a contratti ad esecuzione istantanea e contratti a prestazioni periodiche o continuative che sono state già eseguite e per le quali non sia invocabile un rimedio risolutorio o restitutorio. Quindi andrà svolta una valutazione in concreto della natura del contratto: ad esempio, anche nel caso di una consulenza questa potrà avere la natura di contratto ad esecuzione istantanea o differita che si esaurisce in un’unica prestazione, ovvero di un contratto di durata le cui prestazioni vanno rese nel tempo. E in quest’ultimo caso le prestazioni realizzatesi dopo il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato saranno da imputarsi sul bilancio della gestione ordinaria.
L’intervento della Corte dei Conti rappresenta, pertanto, un’erosione, almeno con riguardo alle fattispecie dei contratti di durata, di quel principio sancito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui in capo all’Organismo Straordinario di liquidazione va attribuita un’ampia competenza per tutti i debiti correlati a “fatti e atti di gestione” antecedenti all’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato.
Anche sul piano della competenza amministrativa alcune recentissime pronunce del Tar Sicilia e Campania hanno manifestato una distanza rispetto a quanto statuito dai Giudici di Palazzo Spada accogliendo una nuova analisi della fattispecie concreta che ha portato ad aderire ad una soluzione intermedia e, in parte, differente dai due orientamenti analizzati nei paragrafi precedenti.
I giudici siciliani e campani operano una necessaria distinzione tra la competenza amministrativa, in ordine alla scelta di acquisire o restituire il bene, da attribuire alla gestione ordinaria e la competenza contabile di “liquidazione del titolo di spesa” di spettanza, invece, dell’Organismo Straordinario di liquidazione.
L’opzione seguita non è altro che l’evoluzione del principio, già sancito dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui gli organi istituzionali devono occuparsi del “futuro” dell’ente, attraverso la gestione ordinaria, mentre gli organi di liquidazione devono gestire “il passato” procedendo a ripianare il pregresso indebitamento.
In questo quadro, la scelta dell’Amministrazione di restituire il bene, previa sua riduzione in pristino stato, ovvero di acquisirlo ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 42 bis o ad altro titolo, non può che afferire alla gestione “futura” dell’ente.
Questa conclusione trova concordi i giudici su un principale argomento legato alla natura discrezionale della scelta amministrativa sottesa all’acquisizione sanante.
A questo va aggiunto una ulteriore argomentazione che seppure non fatta propria dai giudici, appare inestricabilmente connessa alle finalità perseguite con la procedura di acquisizione sanante.
Come è noto, la vicenda dell’occupazione (quale che sia la sua forma di manifestazione: di fatto, occupazione usurpativa o occupazione acquisitiva) ha per presupposto una condotta illecita dell’Amministrazione volta a comprimere il diritto di proprietà del privato che può venire meno, tra i vari modi, anche mediante l’acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42 bis del D.P.R. n. 327/2001.
Ebbene, il legislatore disciplina tale modalità acquisitiva chiarendo che può essere svolta solo dopo che siano “valutati gli interessi in conflitto”.
Proprio questo giudizio valutativo, anche in un ente in regime di dissesto, non può essere sottovalutato.
Infatti, l’art. 42 comma 2, lett. l), del d.lgs. n. 267/2000 riserva ogni decisione in materia di acquisti e alienazioni immobiliari al consiglio comunale.
Il Consiglio di Stato che si è pronunciato su tale norma ha chiarito che “secondo tale disposizione devono essere adottati con delibera consiliare gli acquisti e alienazioni immobiliari, le relative permute, gli appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del Consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del segretario o di altri funzionari, includendo così anche l'ipotesi di acquisto di immobili disciplinata dall' art. 42 -bis del D.P.R. n. 327 del 2001”. [7]
L’attribuzione di tale scelta al Consiglio Comunale è correlata ad un’amplissima e rilevante discrezionalità[8] in capo all’organo di indirizzo, in coerenza con l’esigenza di valutare l’esistenza di “attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico” volte all’acquisizione, anche all’esito di un’effettiva comparazione con i contrapposti interessi privati.
Questo concetto è stato ribadito dalla recentissima pronuncia del Tar Sicilia del 2024, secondo cui “l’amministrazione è chiamata ad assumere preliminarmente una decisione frutto di un giudizio di natura discrezionale non riconducibile alla mera liquidazione di crediti di natura patrimoniale (derivanti o meno da titolo giudiziario) né consistente nella diretta emanazione di un atto amministrativo che contempli il titolo di spesa, rispetto alla quale il dissesto dell’ente non può determinare effetti preclusivi”[9].
L’attribuzione della competenza ad adottare tale scelta discrezionale in capo al Consiglio Comunale è giustificata, secondo la predetta pronuncia, dalla natura “esclusivamente tecnico contabile” dell’attività posta in essere dall’O.S.L. che, in quanto tale, è priva dei connotati della discrezionalità amministrativa.
In tal senso si è espresso anche il Tribunale amministrativo della regione Campania, in una pronuncia del 30 giugno 2023, nella quale ha aggiunto che l’organo straordinario di liquidazione “sarà eventualmente competente all’esito della scelta discrezionale (tra la restituzione e l’acquisizione) che il Comune deve tutt’ora compiere e dai cui dipendono anche la natura e l’entità delle conseguenti obbligazioni, di facere e di dare, queste ultime sole di competenza, anche amministrativa, della commissione di liquidazione”.[10]
Questa giurisprudenza che ha prospettato il dualismo di competenze (amministrativa e contabile) pone, come detto, a fondamento di questa opzione ermeneutica, la diversa natura delle scelte adottate dalla gestione ordinaria rispetto a quelle dell’organo liquidatore che opererebbe, invece, solo “mere valutazioni di ordine tecnico contabile in sede di ricognizione della situazione debitoria dell’Ente”.
Tale conclusione trova conforto anche in pronunce recenti del Consiglio di Stato secondo cui “l'organo di liquidazione non effettua mai valutazioni caratterizzate da discrezionalità amministrativa, a fronte delle quali sarebbero configurabili posizioni di interesse legittimo, ma compie meri accertamenti o, tutt'al più, valutazioni di ordine tecnico, nei confronti delle quali si pongono e permangono situazioni di diritto soggettivo”. [11]
Lo Scrivente, nel redigere il presente lavoro, ha ritenuto di particolare rilievo anche un ulteriore aspetto di natura teleologica non considerato da questa giurisprudenza: l’interesse pubblico perseguito dai due attori della gestione dell’Ente in fase di dissesto è sicuramente differente.
Nel caso dell’O.S.L., infatti, il fine del risanamento dell’ente sul piano contabile permea ogni atto amministrativo adottato.
Agli organi istituzionali dell’Ente, invece, spetta, perseguire, nell’ambito della gestione ordinaria dell’ente, anche finalità di pianificazione e valorizzazione del territorio che non possono essere rimesse ad un organo liquidatore.
Il provvedimento di acquisizione sanante, nonostante il termine generalmente utilizzato per la sua definizione, non costituisce una sanatoria quanto piuttosto un procedimento espropriativo semplificato che unisce in sé la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di esproprio.
Muovendoci in tale cornice, laddove debbano essere adottate scelte discrezionali funzionali al miglior perseguimento dell’interesse pubblico comunale quale, ad esempio, una pianificazione urbanistica che consenta alla cittadinanza di disporre di infrastrutture sociali e sportive, queste non potranno che essere rimesse all’organo deputate a farle, ossia il Consiglio Comunale.
Al contrario, l’interesse pubblico perseguito dall’Organismo liquidatore è sicuramente quello di risanamento dell’ente e della “gestione pregressa” al fine di consentire la continuità di esercizio dell’Ente locale.
La dottrina più recente ha, peraltro, definito lo stretto legame tra espropriazioni e pianificazione nella materia urbanistica quale emblema della discrezionalità più ampia che in qualsiasi altro ramo della pubblica amministrazione.
D’altronde il potere comunale di autodeterminarsi in ordine all’assetto e utilizzazione del proprio territorio trova il fondamento costituzionale negli art. 5 e 114 comma 2 della Costituzione.
Nel caso in cui l’Ente nel procedere all’acquisizione al proprio patrimonio di un bene del privato conseguente alla realizzazione di un’ opera pubblica non potrà che effettuare valutazioni concernenti “le attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico” che richiedono una complessa valutazione di elementi che non sono riducibili all’esclusiva convenienza economica e alle conseguenze finanziarie, ma anche agli interessi pubblici da soddisfare, alla limitatezza delle risorse e agli interessi privati pregiudicati.
Motivi questi che non possono che far ritenere, sul piano amministrativo, la competenza in capo alla gestione ordinaria.
Per quanto concerne, invece, l’aspetto contabile la competenza permane in capo all’Organismo Straordinario di liquidazione.
Infatti, in consonanza alla giurisprudenza costituzionale e alle pronunce della Plenaria sopra esaminate, la procedura di risanamento divisata dalle norme inerenti il dissesto recate dal Titolo VIII, Capi II-IV del d.lgs. 267/2000, risulta informata all’esigenza di assicurare il ripristino degli equilibri di bilancio degli enti locali in crisi, “in guisa da impedire che debiti sostanzialmente imputabili alle precedenti gestioni amministrative confluiscano nella gestione corrente”, onde assicurare, per il futuro, la sostenibilità finanziaria del bilancio e la par condicio creditorum.[12]
Tale opzione ermeneutica, tracciata dalla giurisprudenza in esame, risulta coerente anche con quell’orientamento della giurisprudenza amministrativa che distingue l’ammissibilità del giudizio di ottemperanza nei confronti di un ente in dissesto a seconda che debba essere adottato un obbligo di “facere” o di “dare”[13] .
Difatti, ove l’Amministrazione debba, in forza del decisum, esercitare un potere di natura discrezionale non riconducibile alla mera liquidazione di crediti di natura patrimoniale, derivanti o meno da titolo giudiziario, risulta ammissibile il ricorso in ottemperanza.
Di contro, ove si tratti di obblighi di liquidazione di un credito di natura pecuniaria il ricorso dovrà dichiararsi inammissibile per effetto dell’art. 248 comma 2 del d.lgs. 267 del 2000 in forza del quale non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti dell’ente per i debiti che rientrano nella gestione liquidatoria.
In considerazione di quanto fin qui esposto, non seguire l’orientamento dell’Adunanza Plenaria e optare per la distinzione tra competenza amministrativa e contabile ha sicuramente il pregio di consentire all’Ente locale la possibilità di deliberare l’“acquisizione sanante”, esprimendo una scelta tipica di discrezionalità amministrativa, in coerenza con i propri obiettivi strategici.
E, in accordo con l’orientamento della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, i debiti correlati a “fatti o atti” di gestione potranno, invece, essere correttamente imputati, secondo un criterio sostanziale e non formale o pecuniario, all’organo liquidatore.
[1] Cfr. ex multis: Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 1340 del 2020 in www.giustizia-amministrativa.it
[2] Cfr. Cons Stato, Ad. Plen., sent. 9 febbraio 2016 n. 2 in www.giustizia-amministrativa.it
[3] Cfr. Cons. Stato, IV, ord. 22 luglio 2019 n. 5139, Cons. Giust. Amm. Sicilia, sent. 31 luglio 2017 n. 367 in www.giustizia-amministrativa.it
[4] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, sent. 9 aprile 2018, n. 2141 in Foro it., 2018, III, 302;
[5] cfr. sent. Corte Edu 24 settembre 2013, n. 43780/2004, De Luca c. Italia
[6] Cfr. Corte dei Conti, Sez Autonomie, delib. n. 21 del 18 dicembre 2020;
[7] cfr. ex plurimis: C.d.S., sez. IV, 10 maggio 2018, n. 2810; T.A.R. Toscana, sez. I, 15 maggio 2020, n. 572; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 6 dicembre 2019, n. 698 in www.giustizia-amministrativa.it
[8] cfr. Corte cost., 30 aprile 2015, n. 71; C.d.S., ad. plen., 9 febbraio 2016, n. 2 in www.giustizia-amministrativa.it
[9] Cfr. T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. V, sent. 18 marzo 2024, n. 997 in www.giustizia-amministrativa.it
[10] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, sent. 30 giugno 2023, n. 3950 in www.giustia-amministrativa.it
[11] cfr. ex multis Cons. Stato Sez. V, Sent., 19 luglio 2022, n. 6238; Consiglio di Stato, Sez. V, 2 ottobre 2012 n. 5170; TAR Campania Napoli, Sez. V, 20 febbraio 2020 n. 811 e 3 maggio 2019 n. 2353; TAR Piemonte, Sez. II, 17 aprile 2014 n. 6739
[12] Cfr. Corte cost., 21 giugno 2013, n. 154;
[13] Cfr. ex plurimis C.G.A. Sicilia, sent. 8 aprile 2024, n. 285 in www.giustizia-amministrativa.it;
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