Avvilente e pericolosa. Non sovvengono altri aggettivi per qualificare la telenovela mediatico-giudiziaria sul caso Garlasco, che da molti giorni egemonizza i palinsesti della televisione, della radio e della stampa, sollecitando e soddisfacendo un ossessivo interesse per indagini che potrebbero rimettere in discussione la condanna di Alberto Stasi per l’orribile omicidio di Chiara Poggi.
Ma come, si obietterà, non abbiamo sempre detto che è diritto sacrosanto del popolo conoscere come viene amministrata la giustizia in suo nome (art.101 Cost.)?
La verità è che questo polverone di indiscrezioni, di nuovi accertamenti, di illazioni, di recriminazioni, di nuovi sospetti, di sensazionalismi, con una rigorosa e consapevole narrazione dell’attività giudiziaria ha poco a che fare; non risponde a un interesse pubblico, ma a un morboso interesse del pubblico; nelle sue espressioni deteriori ricorda “gli strilloni” del yellow journalism americano di fine Ottocento. Pochi rinunciano a una comparsata: giornalisti, avvocati, magistrati, consulenti, vistosamente esondando dai rispettivi codici deontologici, gareggiano nell’insufflare nel circuito mediatico-giudiziario qualche sconvolgente insinuazione. Per non farci mancare nulla, anche il Ministro della giustizia ha ritenuto di far sentire la sua voce, bollando come irragionevole e irrazionale la condanna di Stasi. Noi popolo, poi, contribuiamo con la nostra insana attrazione per delitti efferati e successive inchieste: siamo il Paese, nei cui giornali la cronaca nera occupa più del doppio di quanto mediamente avviene negli omologhi organi di informazione europei.
Una siffatta sarabanda mediatica, oltre che deplorevole, è anche pericolosa per più ragioni.
Anzitutto, perché instilla nella collettività una sfiducia nella giustizia, sulla fallace idea che questa, quando funziona bene, debba partorire sempre la verità. Ma la Verità non è umano appannaggio, e il nostro sforzo di accertamento di episodi del passato si deve muovere “nel crepuscolo delle probabilità” (John Locke). L’itinerario processuale che ogni collettività predispone per rendere giustizia è quello che ritiene il meno imperfetto per orientarsi in tale crepuscolo; e il cui risultato è disposta ad accettare pro veritate, al posto della verità. Vi possono essere quindi sentenze giuste, ma orfane della verità. Basta tornare con la mente al recente, doloroso caso Zuncheddu, pastore sardo che ha scontato 33 anni di prigione da innocente: in presenza di un testimone oculare che asseriva di riconoscere in lui l’assassino, le sentenze che lo hanno condannato erano “giuste” - cioè emesse al termine di un corretto iter cognitivo e motivazionale - ma drammaticamente fallaci. Inaccettabile conseguenza dei nostri limiti umani che dobbiamo, purtroppo, imparare ad accettare. Ogni altro modo di rendere giustizia, del resto, sarebbe drammaticamente peggiore. Un popolo che non crede nella propria giustizia si rassegna fatalmente a quella del più forte; prospettiva pericolosa, in uno Stivale come il nostro, sempre pronto a calzare il piede dell’uomo della Provvidenza.
Naturalmente, non è mancato chi, sull’onda emotiva di questa dolorosa vicenda, ha subito stentoreamente invocato un urgente cambiamento del nostro sistema giustizia. Se ad ogni vero o presunto errore giudiziario dovessimo ridisegnare l’itinerario cognitivo elaborato sulla base di pluriennale esperienza, vivremmo in una disorientante incertezza. Non si intende certo dire che le regole del nostro giudizio penale non possano e quindi non debbano essere migliorate; ma il modo peggiore per intervenire è quello d’impulso, nel momento in cui è ancora vivissimo lo sconcerto per una drammatica vicenda umana e giudiziaria.
Questo chiassoso e indecifrabile polverone informativo è foriero di un’ultima deleteria conseguenza: ingenera nell’opinione pubblica spasmodiche attese di risposta ai suoi angoscianti dubbi ed esercita un’incalzante pressione soprattutto sugli organi inquirenti, rischiando di indurli a rovinose scorciatoie (come ad es. nell’altrettanto famoso processo per il delitto di Meredith Kercher: «l’inusitato clamore mediatico della vicenda - rilevò la Cassazione - ha fatto sì che le indagini subissero una accelerazione nella spasmodica ricerca di un colpevole da consegnare all’opinione pubblica internazionale e non ha certamente giovato alla ricerca della verità sostanziale»). Con la paradossale conseguenza che poi, anche in tal caso, si solleveranno dubbi sulla correttezza del risultato che ne è conseguito. E saremmo daccapo, con un altro scomposto clamore mediatico.
Contributo pubblicato sul quotidiano “Avvenire” del 1.6.2025.