ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Motivazione giurisdizionale e cultura condivisa*
di Pierpaolo Gori
1. Ringrazio molto Area DG per aver organizzato questo workshop sulla motivazione e il suo ruolo servente alla giurisdizione, cui mi è stato chiesto di partecipare, forse anche per il mio ruolo passato di ufficiale distaccato presso la divisione della ricerca della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
2. Ho aderito all’invito molto volentieri, così come con il medesimo spirito ho partecipato attivamente al gruppo di lavoro che, a partire dall’autunno scorso, facendo tesoro dell’insegnamento della giurisprudenza della Corte EDU e in particolare della sentenza Succi c. Italia, ha prodotto con numerosi validissimi colleghi un elaborato collettivo sulla motivazione delle decisioni della Corte di Cassazione, i cui risultati di contenuto tecnico sono stati messi a disposizione della Prima Presidenza e della Ges dell’ANM presso la Corte.
3. Tengo particolarmente a sottolineare come, pur non iscritto ad alcuno dei gruppi fondatori di Area DG, né Magistratura Democratica né Movimento per la Giustizia, cerco costantemente di offrire il mio apporto all’elaborazione associativa, anche di tutta l’ANM, nei limiti del tempo lasciato dalle funzioni di Consigliere presso la Corte, perché credo che solo un ragionamento ampio tra colleghi, ulteriormente esteso ad autorevoli esponenti dell’Accademia e dell’Avvocatura possa consentire il raggiungimento di risultati condivisi, tra l’altro, in questa materia.
4. C’è un ponte in Cina chiamato comunemente “Il ponte di Marco Polo”. Ormai molti anni fa alcuni amici cinesi della Beida (۹य़ o Università di Pechino) me ne parlarono, in occasione di un breve saluto in quella splendida città, e mi narrarono di una leggenda popolare del posto che ha ispirato anche un celebre passo de “Le città invisibili” di Italo Calvino.
5. Lo scrittore, riprendendo l’episodio della tradizione, narra che Marco Polo stia descrivendo pietra per pietra quel ponte di accesso alla capitale imperiale Khanbaliq. Kublai Kan gli chiede qual è la pietra che sostiene il ponte e Marco risponde che il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra,bensì dalla linea dell'arco che esse formano.
6. Allora Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo, e soggiunge:
“Perché mi parli delle pietre? È solo dell'arco che mi importa. Polo risponde: - Senza pietre non c'è arco.”.
Tale è la motivazione giurisdizionale, un insieme di “pietre-parole” idonee e sufficienti a comporre l’arco argomentativo che, attraverso il fatto e le ragioni della decisione, è chiamato a sorreggere il dispositivo finale. È un percorso di trasparenza che attraversa il momento, segreto, in cui viene presa la decisione, e sorregge la modalità tipica in cui si esprime la funzione giurisdizionale. La giurisprudenza della Corte EDU individua nella motivazione il fulcro della libertà di espressione del magistrato inteso come funzione giudiziaria, e del suo rapporto tra trasparenza e rendicontabilità delle decisioni assunte nel contesto istituzionale.
7. Non c’è una locuzione che, da sola, sia idonea a sorreggere l’intero ragionamento di una sentenza. Al tempo stesso, leggendo come giudice di legittimità molte decisioni giurisdizionali impugnate, capita non di rado di imbattersi in un eccesso quantitativo di elementi argomentativi non necessari e talvolta non coerenti tra loro, inidonei nel loro complesso a costruire la pulita linea dell’arco motivazionale, così che possa essere compreso sia dal professionista che dal cittadino che legge la sentenza.
8. La continenza del linguaggio è un altro aspetto che suggerisce una scelta funzionale delle pietre necessarie per sorreggere l’”arco”, e si nutre del profondo rispetto per il ruolo professionale svolto l’Avvocatura, tanto quella dello Stato che del libero foro e della persona che concretamente ha articolato il ricorso, al meglio delle sue possibilità quali offerte dal singolo cliente, anche quando permette chiaramente di individuare un tentativo di difesa dal processo oltre che nel processo.
9. Non può essere minimizzata, anche in questa prospettiva, l’importanza dell’interlocuzione con la difesa, funzionale alla stessa efficiente strutturazione della motivazione. Innanzitutto l’Avvocatura è prezioso specchio della funzione giurisdizionale, in cui il ragionamento del Collegio giudicante e ancor più del Giudice unico si alimenta delle ragioni addotte dalle parti: si pensi al caso delle sempre più frequenti ordinanze di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia o alle questioni incidentali di costituzionalità, per le quali si rinvia alla rassegna periodica delle ordinanze interlocutorie della Corte pubblicata dall’Ufficio del Massimario. Sia consentito anche un cenno al Protocollo n.16 di emendamento della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, la cui mancata ratifica preclude all’Italia - a differenza di altri Paesi con analoga civiltà giuridica come la Francia - la possibilità di inviare a Strasburgo richieste di interpretazioni pregiudiziali che potrebbero incidere sulla motivazione in modo significativo, non solo in termini passivi come alcuni interpreti paventano, esattamente come il dialogo e il linguaggio non sono mai unidirezionali e la domanda stessa condiziona la risposta.
10. La collaborazione con l’Avvocatura sta svolgendo poi un ruolo centrale per il lento decollo del Desk, il processo telematico di legittimità, il quale è ancora largamente migliorabile anche raccogliendo alcuni suggerimenti di un gruppo di sperimentazione sviluppato dalla stessa Area DG in composizione mista avvocati-magistrati di cui ho avuto la fortuna di far parte, e riflettenti due visioni del medesimo applicativo che necessariamente devono completarsi a vicenda. Si pensi alla necessità, non ancora prevista dal Desk di consentire il deposito telematico anche dei provvedimenti di rinvio a nuovo ruolo, di quelli di riunione dei ricorsi connessi e in decisione contestuale, degli stessi statini delle udienze e adunanze celebrate, tutte funzionalità non ancora implementate. Ciò spiega il perché la fase sperimentale di deposito dei provvedimenti dal lato magistrato non si sia ancora conclusa ad oltre un anno dal suo inizio.
11. È stata inoltre significativa, anche in chiave di collaborazione e facilitazione dell’adempimento motivazionale da parte del giudice, l’importanza dei protocolli d’intesa conchiusi con l’Ordine forense e l’Avvocatura dello Stato per affrontare la fase dell’emergenza Covid - che si spera superata, ma senza certezza - e la stessa assenza di un PCT di legittimità interamente affidabile per il settore civile e a maggior ragione per il penale, lacune colmate anche grazie alla trasmissione via pec di atti di parte (auspicabilmente files pdf editabili e non mere immagini) caricati su Microsoft Teams a disposizione del collegio giudicante.
Infine, non può essere dimenticato il particolare meccanismo di accesso alla Corte di Cassazione che consente anche ad autorevoli professionisti e docenti universitari di entrare nel consesso di legittimità offrendo il loro qualificato apporto, un onore ma anche un onere vista la complessa e gravosa attività giurisdizionale da svolgere e di cui dare conto in primo luogo attraverso la motivazione.
12. Sulla linea di sviluppo di questa sinergia credo si debba investire energie e intelligenze, con maggiore convinzione e, soprattutto, nel rispetto reciproco, al fine di rafforzare il più possibile quella comune cultura giurisdizionale che da tempo si sta sfilacciando, lasciando spazio a troppe tensioni tra Avvocatura e Magistratura, acuite anche dalla crisi economica e sanitaria vissute negli ultimi anni.
La cultura condivisa e il rispetto reciproco sono infatti “pietre” necessarie - non meno di dotte locuzioni intrinseche alla motivazione scritta - perché possa esistere l’”arco”: sono il presupposto perché la lettura di qualsiasi argomentata decisione giurisdizionale possa essere effettivamente convincente e percepita come servizio efficace dello Stato anche quando inevitabilmente sgradita, per il cittadino e presso la sua difesa.
*Il testo riproduce l’intervento svolto al convegno “Giurisdizione e motivazione. Dialogo a più voci tra linguaggio e organizzazione del lavoro”, tenutosi lo scorso 8 giugno 2022 a Roma, Corte Suprema di Cassazione, Aula Magna, organizzato da AreaDg Cassazione.
I 30 anni della DNA, delle DDA e della DIA. 30 anni di legislazione contro il crimine organizzato: le origini e le evoluzioni del sistema antimafia*
di Giovanni Melillo
Saluto e ringrazio la Ministra della Giustizia, il Consiglio Superiore della Magistratura, la SSM e quanti contribuiscono con la loro partecipazione ai lavori di un corso così importante, poiché votato ad un ampio confronto sui tratti essenziali di una trentennale esperienza di contrasto della criminalità organizzata.
Avendo da pochi giorni assunto le funzioni di PNAA, dico subito che sono grandemente interessato ad ascoltare le tante e autorevoli voci raccolte attorno a quel progetto.
Seguirò attentamente, dunque, le varie sessioni del Corso, per trarne indicazioni utili al lavoro che a mia volta ho appena iniziato e che, come tutte le imprese umane appena complesse, abbisogna innanzitutto e soprattutto di ascolto.
Dallo sviluppo del dibattito verranno, infatti, indicazioni importanti anche nella prospettiva di lavoro della Procura nazionale, vale a dire dell’istituzione maggiormente dotata di carica innovativa fra quelle progettate per dare corpo, nel breve volgere di pochi mesi (dal marzo 1991, data di nascita dei servizi centrali di polizia, al novembre dello stesso anno, con l’istituzione della D.N.A., delle D.D.A. e della D.I.A.), ad un dispositivo antimafia che i fatti hanno dimostrato, anche in una prospettiva di comparazione europea e globale, essere stato il frutto di una coraggiosa e lungimirante azione riformatrice.
Un’azione riformatrice che complessivamente ruotava attorno ad una fondamentale intuizione di Giovanni Falcone, il quale capì, prima e meglio di tutti, che le indagini in materia di mafia hanno bisogno di una conoscenza profonda della struttura, delle regole e delle dinamiche di quelle organizzazioni criminali.
«In una società complessa come l’attuale, solo la specializzazione del sapere può consentire di comprenderla e dominarla» disse Falcone nel novembre del 1988.
Quella intuizione conduceva alla rottura di schemi tradizionali dell’organizzazione giudiziaria e delle sue gerarchie e regole interne.
Al mito del magistrato capace di applicare indifferentemente il diritto ad ogni caso sottoposto alla sua attenzione si sostituiva l’idea che le indagini antimafia, come già si era compreso per quelle sul terrorismo, possono essere condotte solo da magistrati capaci di comprendere e analizzare fenomeni criminali complessi.
L’architettura normativa delle funzioni del pubblico ministero si arricchiva così di nuovi e pregnanti concetti: la tempestività e la completezza delle investigazioni, l’effettività del coordinamento investigativo e della relativa, eteronoma funzione di garanzia, la funzionalità dell’impiego della polizia giudiziaria, la raccolta, l’analisi e l’elaborazione delle informazioni attinenti alla criminalità organizzata e l’intero complesso degli strumenti di orientamento e alimentazione delle indagini cui fu presto dato il nome di pre-investigazioni.
Non stupisce, pertanto, che, al di là delle stesse, laceranti polemiche che segnarono l’istituzione della D.N.A., la stessa concentrazione della legittimazione investigativa in capo alle sole procure distrettuali e per esse alle direzioni distrettuali antimafia fosse circondata da diffidenza e pregiudizio.
Non dimentico che, nel 1993, la prima circolare del CSM sull’organizzazione delle DDA fissò in soli sei anni il termine massimo di permanenza in tali strutture dei suoi magistrati e che tanto si motivava nella relativa delibera adducendo il timore della “formazione di centri di potere” e di “pericolose incrostazioni”.
In quel momento, per chi, come me, lavorava in una d.d.a., quelle parole apparivano incomprensibili.
Tant’è. Il sistema originato dalla legislazione del 1991 rivelò immediatamente, sia pure con non poche asimmetrie, obiettiva capacità di efficace interpretazione del ruolo del p.m. disegnato dall’allora nuovo codice di rito.
Divenne presto chiaro, in particolare, che l’effettività del coordinamento investigativo era essenziale per evitare di pagare un prezzo elevatissimo in termini di incisività delle indagini relative ai più gravi fenomeni criminosi, ma anche di credibilità del sistema giudiziario.
Dunque, specializzazione estrema del lavoro giudiziario, quale condizione del governo razionale di tecniche investigative sempre più sofisticate.
Ma anche possesso di profonde conoscenze interdisciplinari, aprendosi il bagaglio culturale del magistrato al sapere sociologico e economico, necessario alla comprensione di fenomeni e dinamiche criminali complessi, sempre più proiettati su scala transnazionale e perciò bisognosi di un’intensa azione di cooperazione internazionale, sviluppata attorno ai medesimi cardini del coordinamento investigativo interno: la condivisione tempestiva delle informazioni e delle analisi e la capacità di efficace concertazione delle diverse, autonome iniziative.
Profetica fu l’attenzione riservata nel pensiero di Falcone al valore cruciale delle tecnologie poste al servizio delle indagini.
Alle norme del 1991, infatti, si deve l’introduzione nel codice del concetto di banche dati.
Un valore, quello delle tecnologie, ancor più decisivo oggi, nel tempo dell’Intelligenza Artificiale, destinato a determinare la trasformazione delle categorie del diritto penale classico, ma anche a divenire strumento formidabile di prevenzione e repressione di condotte criminali del tutto nuove.
Un terreno, quello attraversato dalle tecnologie impiegate a fini investigativi, tanto delicato, anche per la sorte delle garanzie individuali, quanto cruciale e perciò bisognoso di consapevoli e unitari approcci organizzativi degli uffici del pubblico ministero.
Soprattutto in questo ambito, infatti, alla subalternità cognitiva del pubblico ministero corrisponde un obiettivo rischio di svuotamento della funzione di direzione delle indagini che la legge gli assegna. Non poche, recenti vicende processuali offrono emblematica rappresentazione della concretezza di quel pericolo.
Quelle medesime categorie concettuali - specializzazione, interdisciplinarietà, capacità di governo delle tecnologie e di proiezione internazionale delle indagini – conservano tutto il loro fondamentale valore per affrontare le sfide che abbiamo di fronte.
Ma sono strumenti essenziali anche per preservare e valorizzare il nucleo originario della missione dell’ufficio che ho assunto la responsabilità di dirigere.
Perdonerete, se il mio intervento introduttivo esigerà ancora qualche minuto, ma l’occasione è importante anche per offrire, innanzitutto ai procuratori distrettuali, alcune osservazioni utili ad una prima definizione delle linee di orientamento futuro dell’azione della D.N.A., come tali suscettive di poter divenire immediatamente oggetto di confronto con i magistrati delle procure distrettuali.
Non nasconderò, infatti, il mio convincimento che occorra costruire un rapporto nuovo con gli uffici distrettuali.
Un rapporto che deve ispirarsi ad una visione orizzontale dei rapporti di coordinamento, lontana da pulsioni e impronte autoritarie, burocratiche e autoreferenziali, perché basata sulla condivisione di analisi, metodi e obiettivi del lavoro investigativo delle procure distrettuali.
Banalmente, vi è concreto e urgente bisogno:
- di aprire l’organizzazione della DNA alla partecipazione dei magistrati delle procure distrettuali: la sua stessa organizzazione interna non è pensabile, a mio avviso, prescindendo dal confronto con i procuratori distrettuali;
- di ridurre le distanze dal lavoro e dai bisogni delle procure distrettuali,
- di operare il coordinamento partendo dalle strategie investigative degli uffici distrettuali,
- di sostenere le indagini delle procure distrettuali, per estenderne la portata e svilupparne gli obiettivi, ma soprattutto per evitarne l’isolamento cognitivo e la frammentazione, rafforzandone la capacità di individuare le componenti più sofisticate del ciclo criminoso e, nello stesso tempo, impegnandosi a controllare i rischi propri di pericolose frammentazioni.
Dunque, occorre che la Procura nazionale pianti fermamente i piedi nel faticoso terreno delle indagini e dei processi.
In una battuta: meno intelligence e più lavoro giudiziario, negli uffici distrettuali, accanto agli uffici distrettuali, per gli uffici distrettuali, ripudiando ogni visione competitiva ed espansiva del ruolo processuale della DNA, rafforzando l’effettività delle funzioni di impulso e coordinamento investigativo.
In questa prospettiva, appare necessario sia consolidare le esperienze positive che innovare profondamente, nel segno di una funzione di servizio che è propria della giurisdizione e che deve esercitarsi secondo le rigorose logiche della giurisdizione, evitando il rischio di scivolamento in una impropria dimensione di prevenzione criminale lontana dalle concrete prospettive del lavoro delle procure distrettuali.
Esiste, peraltro, io credo, una diffusa e crescente domanda, oserei dire, di maggiore immersione della Procura nazionale nella dimensione operativa delle indagini che impegna e affanna quotidianamente le procure distrettuali.
Una domanda per certi versi paradossale e per altri molto confortante:
- paradossale, perché resiste al pur deciso incremento delle prerogative processuali della Procura nazionale realizzatosi nel tempo;
- confortante, perché ormai sostenuta da una diffusa e matura consapevolezza dell’importanza del ruolo della PN negli uffici distrettuali, superandosi le resistenze e gli ostacoli che, più o meno apertamente, il suo esercizio incontrava in passato.
Le procure distrettuali hanno ormai imparato a lavorare insieme.
Lo dimostra la pratica assenza negli ultimi anni di casi di contrasto, ma soprattutto una comune, costante vocazione a condividere obiettivi e metodi di lavoro, necessaria per isolare e contrastare ogni spinta contraria, di per sé generatrice di aporie, contraddizioni, tensioni e conflitti, tanto incomprensibili all’opinione pubblica quanto capaci di minare la credibilità della nostra azione.
Disponiamo per fortuna di patrimonio di esperienze comuni di straordinario rilievo, come non mancheranno di sottolineare le relazioni affidate ai Procuratori distrettuali, di ieri e di oggi.
Un patrimonio fondamentale per affrontare le sfide poste dalla velocità delle trasformazioni dei fenomeni criminali, su scala regionale e globale.
Molti ancora pensano che le mafie siano espressione di società dal tessuto economico debole e arretrato.
Una sorta di riflesso della povertà di quelle società.
La realtà dimostra invece che quelle organizzazioni criminali sono invece espressione e strumento di ricchezza economica e di raffinati processi di espansione speculativa.
Falcone diceva dei mafiosi che “avranno sempre una lunghezza di vantaggio su di noi”.
Un modo semplice per indicare un dato assai più complesso, che attiene alla capacità delle organizzazioni criminali di agire nel mercato, di immettere nel mercato la loro intelligenza, la loro conoscenza della modernità e delle sue tecnologie, il loro spirito di intraprendenza e la loro spregiudicata capacità di cogliere ogni opportunità di profitto.
Avere chiaro questo punto è essenziale per comprendere i nuovi scenari.
Ma anche per esplorare le difficoltà del ragionamento probatorio alle prese con fenomeni in costante trasformazione.
Un’analisi realistica di tali realtà ci indica la necessità di saggiare prudentemente il già visibile rischio di inadeguatezza di non poche categorie del diritto penale classico a riflettere e ad abbracciare ruoli e condotte propri della sempre maggiore complessità dei sistemi di relazioni che ruotano attorno a presenze e interessi prettamente mafiosi.
Sul primo versante, si staglia in tutta la sua impellente necessità, l’importanza di costruire impianti investigativi nutriti dalla consapevolezza della complessità degli scenari relazionali che connotano l’incontro fra organizzazioni mafiose, impresa e mercati e funzioni pubbliche di controllo.
In particolare, emerge l’importanza di adottare modelli interpretativi di quella così complessa realtà idonei a cogliere gli snodi dei reali processi decisionali che governano relazioni sempre più complesse e che sfuggono sovente alle categorie concettuali del delitto associativo.
Molti si affannano a stilare classifiche di pericolosità delle mafie, quasi ci fosse una speculare graduatoria di tollerabilità dei fenomeni mafiosi.
Per questa via si perdono di vista i processi di integrazione dei mercati e di strutture criminali delle quali si è grandemente espansa la dimensione transnazionale.
Anche questo ci aiuta a dire che le mafie non sono questioni solo italiane e tanto meno solo del Mezzogiorno d’Italia.
Sono questioni europee e internazionali, che investono le responsabilità di tutti gli Stati e della comunità internazionale.
A questa idea è indissolubilmente legato il destino dei processi di integrazione europea che anche la drammatica realtà di queste settimane di guerra ci dimostra sempre più necessari ed urgenti: in sintesi estrema, ci aiutano le parole di Mireille Delmas Marty, il superamento della logica della souveraineté solitaire”, in vista della creazione in Europa di una souveraineté solidaire.
Le mafie non sono un’emergenza.
Tanto meno un’emergenza cui alcuni Stati possono guardare con preoccupazione minore.
Esse sono connotazioni strutturali di parte significativa dei processi economici che si realizzano in ambiti nazionali, regionali e globali.
Alle organizzazioni mafiose corrisponde il movimento di autentiche costellazioni di imprese, che continuano a nutrirsi dei profitti delle tradizionali attività illegali, ma che operano nei mercati utilizzando con naturale abilità gli strumenti della frode fiscale e della corruzione, che sono largamente conosciuti e praticati nel mercato e dal mercato.
In altre parole, dinanzi alla pressione esercitata dai flussi di denaro provenienti dai grandi traffici criminali e dalle correlate strategie di reinvestimento speculativo, occorre riconoscere che non siamo in presenza di fenomeni e fattori di oppressione dei mercati legali, quanto di sistemici e raffinati processi di alimentazione finanziaria e di intermediazione relazionale del sistema economico e finanziario di parte significativa dell’Europa.
Da ciò l’importanza di disporre di regole comuni, per ridurre le asimmetrie e le contraddizioni dei sistemi nazionali.
L’efficacia e la maturità del dispositivo antimafia italiano consente di guardare con fiducia alle sfide che abbiamo di fronte. A condizione che siano preservate alcune condizioni del suo efficace dispiegamento.
Il nostro sistema sarà presto chiamato a dare coerente attuazione alla trama di principi delineata dal magistero costituzionale per superare la logica dell’assoluta ostatività delle condanne per delitti di mafia e terrorismo alla concessione di benefici e misure alternative alla detenzione.
Nell’imminenza del varo delle nuove norme, sono dunque necessarie analisi non condizionate da illusioni e pregiudizi, poiché ciò è essenziale per abbandonare le sponde dell’allarme catastrofista, ma anche per conservare consapevolezza che la materia è intrisa di delicati e complessi significati simbolici dei quali occorre tenere il massimo conto, poiché l’efficacia complessiva dell’azione di contrasto delle mafie e del terrorismo dipende anche dalla difesa di alcuni valori emblematici dell’attuale legislazione.
Una consapevolezza che, tuttavia, non sembra riflessa pienamente nella scelta prefigurata nel testo approvato dalla Camera dei Deputati di prevedere, ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari, una distinzione fra condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico, a seconda che tali delitti siano stati commessi o meno mediante “atti di violenza”.
Sembra quasi un’eco distorta di quelle dottrine d’oltralpe in tema di asilo, in passato invocate per negare all’Italia cooperazione giudiziaria, ma che anche in quei sistemi non hanno mai trovato espressione legislativa.
Soprattutto non posso tacere le mie preoccupazioni sulla capacità del sistema penitenziario e giudiziario di reggere adeguatamente il peso del prevedibile impatto applicativo delle norme oggi prefigurate, in mancanza di urgenti adeguamenti delle infrastrutture tecnologiche, dei sistemi informativi e delle risorse complessivamente disponibili per l’esercizio dei nuovi compiti affidati alla magistratura di sorveglianza.
I dati aiutano a misurare il potenziale impatto applicativo delle nuove disposizioni.
Sono circa 16mila i detenuti per delitti di cui all’art. 4-bis o.p., dei quali circa 10mila condannati definitivamente; di essi circa 13mila sono tali per delitti di cui al primo comma dell’art. 4-bis (dei quali circa 8mila condannati definitivamente), essendo poco più di 1.200 i detenuti per delitti di cui all’art. 4-bis condannati alla pena dell’ergastolo.
Per la sua cronica debolezza strutturale, ben difficilmente il sistema penitenziario potrà rivelare piena e immediata capacità di restituire informazioni qualificate e affidabili sulla condotta inframuraria e gli esiti del trattamento di un tal numero di persone detenute per delitti di mafia.
Soprattutto, ciò che preoccupa è la visione delle reali condizioni di lavoro della magistratura di sorveglianza, alla quale si richiede di assumere una straordinaria responsabilità.
Responsabilità tanto più gravosa se si considera, da un lato, il deciso innalzamento degli oneri motivazionali e, dall’altro lato, la previsione della potestà di disporre (e di valutare) complessi e defatiganti accertamenti patrimoniali, reddittuali e sul tenore di vita delle persone legate al condannato da vincoli familiari.
Certo colpisce che, mentre chi sceglie la collaborazione con la giustizia è tenuto ad integrale e immediata esposizione delle informazioni relative alle proprie ricchezze, per chi sceglie di non collaborare l’accesso ai benefici risulta svincolato da ogni onere di allegazione su un versante invero sovente decisivo per valutare l‘effettiva recisione dei legami criminali.
Soprattutto, le esigenze di garanzia di una corretta ed uniforme attuazione delle scelte legislative che si profilano esigono, in particolare, l’urgente apprestamento presso i tribunali di sorveglianza di interventi di deciso potenziamento delle infrastrutture tecnologiche nonché l’apporto di risorse analoghe a quelle destinate agli altri uffici giudicanti per le attività proprie dell’Ufficio per il processo.
Rispetto alle difficoltà che possono scorgersi attraverso la lente delle concrete condizioni gestionali di quei tribunali, appare di gran lunga meno preoccupante la pur rilevantissima difficoltà delle verifiche e degli adempimenti cui saranno chiamati la procura nazionale e le procure distrettuali, poiché, in ogni caso, quel che dovrà farsi, sarà fatto, e sarà fatto per il meglio, per gravoso che sia.
Anche questo contribuisce a rendere attuale il cruciale valore della relazione fra effettività della giurisdizione e capacità di governo razionale della sua organizzazione.
Una relazione che interroga innanzitutto la visione del lavoro giudiziario di ciascun magistrato, riflettendo quella, più profonda, che esiste fra lo statuto di indipendenza della magistratura e la sua responsabilità dinanzi alle domande sociali di trasparenza ed efficienza, ma anche di rigore e compostezza dei comportamenti individuali, imponendosi di tenere distanti da sé la tentazione di presentarsi come depositari dell’etica pubblica e di cedere alla vanità e ai precari vantaggi del circuito mediatico.
Una relazione - quella fra efficacia dell’intervento giudiziario e modernità dei suoi assetti organizzativi - che mal sopporta il peso della continua moltiplicazione degli adempimenti burocratici e della conservazione di approcci corporativi e autoreferenziali ai problemi dell’organizzazione degli uffici giudiziari.
Un peso che rischia di accrescere se venisse data attuazione ad una direttiva di delega contenuta nelle pieghe della legge di riforma dell’ordinamento giudiziario appena approvata dal Parlamento che mi sembra essere sfuggita all’attenzione generale.
Mi riferisco alla disposizione (art. 1, comma 2, lett. c) che prevede di subordinare l’efficacia dei provvedimenti organizzativi fondamentali degli uffici giudiziari, anche di quelli requirenti - a meno di dover attendere la necessaria approvazione del CSM e, dunque, la positiva conclusione di un procedimento dai tempi assai lunghi - alla condizione che non vi siano osservazioni dei magistrati e che il Consiglio Giudiziario abbia espresso parere favorevole all’unanimità.
Non credo vi siano altri esempi di organizzazioni umane che subordinino al consenso unanime dei loro componenti la tempestività e dunque la pratica efficacia delle misure necessarie al loro buon funzionamento.
Né credo che una regola del genere sia in grado di assecondare l’adozione delle misure organizzative maggiormente proiettate verso il cambiamento di un sistema, come quello giudiziario, quanto mai bisognoso di rafforzare i propri legami di responsabilità sociale.
Eppure, la storia della magistratura dimostra quanto quei legami siano importanti per l’efficienza e la trasparenza della giurisdizione e persino come e quanto tale importanza sia stata immediatamente chiara anche alle organizzazioni criminali che hanno avuto ragione di temerne la capacità di innovazione organizzativa.
Mi riferisco, in particolare, al lugubre comunicato di Prima Linea, con il quale 42 anni fa veniva rivendicato il feroce assassinio di Guido Galli, additato, testaulamente, come giudice “impegnato in prima persona nella battaglia per ricostruire l’ufficio istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente, adeguato alle necessità di ristrutturazione, di nuova divisione del lavoro dell’apparato giudiziario, alle necessità di far fronte alle contraddizioni crescenti del lavoro dei magistrati di fronte all’allargamento dei terreni d’intervento e … alla contemporanea, crescente paralisi del lavoro di produzione legislativa delle camere…”.
Si potrebbe dire che anche i terroristi di allora erano un passo avanti a noi, come i mafiosi nella definizione di Falcone che ho prima ricordato e che sarebbe buona cosa non dimenticare mai.
*Intervento introduttivo al Corso della Scuola Superiore della Magistratura, Roma, 20 giugno 2022.
In memoria di Giuseppe Tesauro[1]
di Luigi Salvato
1. Sono grato agli organizzatori del convegno per la possibilità di partecipare al ricordo del prof. Giuseppe Tesauro, a pochi giorni dall’anniversario della sua scomparsa, e, soprattutto – nella certezza che ci starà guardando dall’alto, con il suo sorriso bonario e schietto che traspare dall’immagine riportata nella bella locandina – di ringraziarlo pubblicamente (in privato l’ho fatto molte volte).
Devo ringraziarlo per avermi permesso di collaborare con lui per nove anni, allorché ha svolto le funzioni di giudice e presidente della Corte costituzionale, e quindi, di vivere un’esperienza entusiasmante sotto il profilo professionale. Ma soprattutto, per avermi gratificato di un’esperienza umana bellissima; al rapporto professionale si era infatti affiancato negli anni un rapporto di amicizia.
Ho un solo rammarico: averlo conosciuto troppo tardi ed avere troppo presto perduto un amico.
2. Grato per l’invito, devo confessarvi la difficoltà nel partecipare al ricordo: per ragioni emotive e per almeno tre ulteriori motivi.
Il primo è che i giudizi davanti alla Corte costituzionale sono (e restano) connotati da una collegialità forte, anche nella fase della stesura della motivazione dei provvedimenti. Principi ed argomenti vanno dunque sempre ascritti alla Corte nella sua collegialità. Una personalizzazione è possibile nell’unico caso ammesso di dissenting opinion, traducentesi nel cambio del relatore.
Il secondo è determinato dal segreto che investe anche l’attività ancillare e prodromica alla decisione svolta dagli assistenti di studio. In particolare, il preliminare confronto in vista della preparazione della c.d. scheda del giudizio, ‘guidata’ dal giudice, e della riunione degli assistenti; le interlocuzioni preparatorie tra giudici, talora svolte alla presenza degli assistenti. Il racconto di tale attività preparatoria riveste interesse per comprendere dinamiche e ragioni della decisione, ma di essa non è possibile parlare.
Il terzo è che alla figura di Giuseppe Tesauro quale giudice costituzionale ho dedicato alcune considerazioni negli scritti in suo onore, che è superfluo ripetere oggi; comunque, la riflessione, per i profili tecnici, è opportuno che resti riservata agli altri interventori, ben più titolati di me.
Da tali difficoltà mi solleva l’invito degli organizzatori a fare del convegno «una giornata di ricordo», sottolineando che «sarebbe bello, perciò, […] condividerne uno proprio con il prof. Tesauro».
3. Mi limito dunque ad un breve racconto della mia esperienza professionale ed umana con Giuseppe Tesauro.
Non lo conoscevo personalmente; quindi, fui sorpreso dalla sua telefonata, la sera del 4 novembre 2005, di una semplicità disarmante, tipica della caratura umana della persona. La ricordo come fosse ora. Disse: «buona sera, sono Giuseppe Tesauro. Forse avrà appreso che sono stato nominato giudice costituzionale. Mi farebbe piacere scambiare due chiacchiere sull’attività degli assistenti di studio».
Ovviamente, mi dissi onorato. Ci incontrammo nell’appartamento in Roma dove all’epoca abitava. Ero emozionato; non potevo non esserlo di fronte ad un Maestro. Mi rivolse alcune domande sulle mie esperienze professionali e percepii immediatamente la sua capacità di ascoltare e di valutare l’interlocutore al di là delle parole. Dal suo canto, si soffermò, con semplicità sbalorditiva, su tre argomenti, forse per cogliere le mie reazioni:
– sulle problematiche del rapporto tra ordinamento nazionale e sovranazionale, ricordando con sintetici tratti, come è solo dei grandi, l’annosa vicenda dipanatasi da Costa/Enel a Granital;
– sulla vulgata comune, ma errata, dell’attenzione dell’Europa esclusivamente all’homo economicus;
– sulla perdurante centralità della Costituzione anche all’interno di un ordinamento sovranazionale.
Mi parlò poi della sua famiglia e della fondamentale importanza che aveva per lui, dandomi chiara l’idea di chi dà il giusto peso ai valori della vita.
In seguito, ancora più ho apprezzato Giuseppe Tesauro come uomo non chiuso nella torre eburnea delle grandi questioni giuridiche e degli altissimi incarichi istituzionali che da decenni rivestiva. Egli aveva lo sguardo aperto su tutti gli aspetti della vita, sui quali amava confrontarsi: dallo sport (in particolare, il calcio, e condividevamo le molte sofferenze e le rare gioie che ci dava la squadra del Napoli), alla musica (era anche un pianista; nel 2010 riprese le lezioni di piano e mi parlava con ammirazione di Roberto Mastroianni, perché fine giurista, ma con un pizzico di invidia per le sue doti di valente musicista), alla letteratura, al cinema. Con semplicità, a volte, mi telefonava e diceva: vengo a prendere il caffè, così parliamo un po’. E veniva a casa mia, che abito in provincia di Napoli, da solo con la sua auto (appunto, guidata da lui), come un amico qualunque.
La sua semplicità, il profondo, vero e non di facciata, rispetto per la dignità dell’uomo, mi furono peraltro chiari il primo giorno in cui ci recammo insieme alla Corte.
Nell’avvicinarci all’ascensore, ci precedeva una signora, impiegata della Corte, che, non appena lo vide, arretrò. Giuseppe Tesauro accennò ad un inchino e le disse: “prego signora, non sia mai che io entri prima di lei”. La signora, visibilmente emozionata, ringraziò ed entrò nell’ascensore prima di lui.
Può sembrare un episodio banale, ma non lo è, ricordando che talora accadeva di non ottenere risposta al saluto d’uso nell’incrociarsi, forse perché ritenuto da riservare ai pari. Giuseppe Tesauro era invece cortese con tutti, sempre attento e sensibile alle esigenze di quanti lavoravano con lui (quale che fosse il loro compito, il loro ‘grado’) e con una buona parola per coloro che avevano un problema personale.
Questo era Giuseppe Tesauro nella quotidianità lavorativa.
La sua grande umanità era reale, non di facciata; erano in lui radicati i più pregnanti valori costituzionali. Tra questi, quello della dignità dell’uomo, alla base della concezione, da lui praticata, dell’essere il diritto non un luogo di astratte dissertazioni e di formali costruzioni logiche, bensì un mezzo per il raggiungimento di fini che sono quelli della protezione degli interessi individuali e collettivi.
Questa concezione, vivificata dalla sua umanità e semplicità, e la sua matrice di giurista comunitario gli hanno permesso di contribuire all’apertura al diritto europeo quale strumento di garanzia della dimensione costituzionale della tutela dei diritti:
– attraverso l’impiego del criterio dello «effetto utile» (efficacemente evidenziato nella sentenza n. 199 del 2012 in tema di referendum abrogativo);
– mediante il rafforzamento del dialogo con la Corte di giustizia grazie al rinvio pregiudiziale (non è senza significato che l’apertura si è avuta mentre egli era giudice costituzionale) ed alla “declinazione” comunitaria di concetti in precedenza oggetto di equivoci. Il riferimento è, tra l’altro, a quelli in tema di tutela della concorrenza – con riguardo all’impossibilità di ricondurre a questa gli aiuti di stato (sentenza n. 63 del 2008) – ed all’esigenza di rifuggire da una lettura esasperata della libertà di iniziativa economica, alimentata dalla valorizzazione della centralità della persona anche nel diritto dell’Unione, da una completa e puntuale ricostruzione della giurisprudenza eurounitaria e dalla formula dell’art. 41 Cost., per affermarne la legittimità della compressione, quando costituisca l’unica misura in grado di garantire al giusto la tutela degli interessi coinvolti dalla stessa (sentenza n. 270 del 2010);
– grazie al principio di proporzionalità ed al relativo test quale criterio di controllo della «coerenza e congruità rispetto al fine della norma» (scandita dalla sentenza n. 227 del 2010 in tema di arresto europeo).
Significativa è la modalità con cui maturò la proposta poi accolta e trasfusa in una delle sentenze ‘gemelle’, la cui narrazione è ovviamente riservata, per gli aspetti tecnici, ad altri, più autorevoli, interventori. Eppure, non posso non ricordare che nel mese di luglio 2007, quando da tanto discutevamo del criterio di composizione del contrasto della norma interna con la CEDU, nel corso di una gita in barca nel golfo di Napoli, insieme alle altre due sue assistenti, ebbi la fortuna di ascoltare una lectio magistralis sulla valenza costituzionale ed internazionale del rapporto tra norme interne ed esterne, sul significato e sulle differenze degli artt. 10, 11 e 117, comma 1, Cost. Il risultato cui la Corte giunse con il suo contributo è di avere definito un sistema che magistralmente: ha permesso di adeguare il nostro ordinamento a quello della CEDU; ha valorizzato al giusto compiti e ruolo del giudice comune; ha mantenuto ferma l’ineludibile distinzione tra ordinamento dell’UE e della CEDU; ha preservato il significato più profondo della nostra Costituzione quale Carta fondamentale dei diritti in vista della realizzazione del livello più alto di tutela, all’interno di un sistema in cui non può esservi nessun “diritto tiranno”.
La chiarezza della sua ricostruzione è stata ulteriormente scandita dalla precisa identificazione operata dalla Corte, anche in sentenze di cui è stato relatore:
– dell’art. 11 Cost. quale specifico parametro in cui trova «sicuro fondamento» l’ingresso nel nostro ordinamento della norma UE, con tutte le note conseguenze che fondano la differenza rispetto alla norma CEDU che entra invece per il tramite dell’art. 117 Cost. (sentenza n. 227 del 2010);
– della rilevanza dei «controlimiti», del cui rispetto non può direttamente occuparsi il giudice comune (ordinanza n. 454 del 2006, che pose un argine al tentativo di debordamento realizzato da una sentenza del Consiglio di Stato del 2005), attivati (dalla sentenza n. 238 del 2014) come soltanto un grande internazionalista ed europeista poteva fare, confermando che in materia di diritti fondamentali la Costituzione “resta al centro”. Palesemente inesistente è infatti l’ipotizzata contraddittorietà derivante dalla presunta, erronea, «prospettiva monistica di un ordinamento sovranazionale (o globale)», come è inesatta l’asserita operatività degli stessi soltanto rispetto alle norme internazionali successive all'entrata in vigore della Costituzione, sostenuta dimenticando l’insegnamento della prima sentenza della Corte (n. 1 del 1956).
Tanto, in armonia con la sua concezione, posta in luce anche nella premessa del gennaio 2020 al suo Manuale, che l’Unione europea costituisce «una vera e propria “Comunità di diritto”, in cui è centrale il rispetto della Rule of Law», riferita anche ai «principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale ed ai diritti inalienabili della persona», dimostrando di applicare al meglio l’imperativo “Uniti nella diversità”, motto originario dell’Unione europea.
Il rispetto della Rule of Law egli lo dimostrava con l’attenzione dimostrata per evitare sconfinamenti indebiti e pericolosi per la democrazia e per la tenuta dello Stato costituzionale e di diritto (tra l’altro, valorizzando il test di proporzionalità quale rimedio alle criticità del principio di ragionevolezza). Per quanto ho compreso, non rientrava tra coloro che – per utilizzare le parole del giudice costituzionale Nicolò Zanon, contenute in un intervento ad un seminario dello scorso anno – ritengono la Costituzione un living document che sta al passo coi tempi, cui far dire oggi quel che vorrebbe si dicesse, anziché ciò che dice. E neppure tra quanti, sulla scorta di questa concezione, sono inclini a trasformare in diritti i desideri, come non è accaduto, ad esempio, neppure nel caso della fecondazione eterologa (sentenza n. 162 del 2014), in cui magistralmente è stata data tutela a precisi diritti fondamentali, senza lederne nessun altro, come non è stato capito soltanto da chi non ha compreso la precisa attenzione avuta per il diritto alla salute, esattamente considerato nei suoi molteplici profili.
Giuseppe Tesauro non era uno dei tanti eruditi e non aveva bisogno di ricorrere a citazioni erudite, non di rado soltanto evanescenti ed espressive dell’incapacità di cogliere la sostanza delle questioni e degli interessi meritevoli di tutela.
Dire che ha lasciato un vuoto incolmabile non è una formula di rito; per la scienza giuridica lo è soprattutto in anni tempestosi quali stiamo vivendo, che bene avrebbero potuto giovarsi del suo apporto.
A me manca anzitutto un amico.
L’unica consolazione, soprattutto per i suoi cari figli, colpiti in questi giorni dall’ulteriore immenso dolore per la scomparsa dell’amata mamma, Paola, è che nella caducità che segna il passaggio terreno, la cui unica traccia è per i più niente altro che un’orma destinata ad essere cancellata dal primo alito di vento, egli ha lasciato un’impronta che rimarrà ben più a lungo nella storia del nostro Paese e dell’Europa.
[1] Lo scritto riproduce l’intervento al “Convegno in memoria del Prof. Giuseppe Tesauro”, Napoli 1 e 2 luglio 2022, organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli e dalla Associazione Italiana Studiosi di Diritto dell’Unione Europea.
Edipo, la giustizia e le relazioni familiari[*]
di Rita Russo
Sommario: 1. La vicenda di Edipo - 2. La violenza familiare e la negazione della identità personale - 3. Una riflessione sulla giustizia.
1. La vicenda di Edipo
Il fascino delle tragedie greche si mantiene inalterato attraverso i secoli perché consente a ciascun lettore o spettatore di esplorare, ad ogni singola rappresentazione o lettura, significati sconosciuti e nuovi.
La tragedia, del resto, è uno specchio che riflette l’uomo, nel suo essere – come diceva Aristotele – animale sociale; ogni diversa umanità, ogni diversa società trova in essa rappresentati, se ha la volontà di fermarsi a guardare con occhio critico, le sue vicende, le sue pecche e le conseguenze degli errori che commette. Aristotele, nella Poetica, scrive che la tragedia “mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni”. La tragedia indica quindi un percorso di catarsi, intesa non in senso mistico, ma come razionalizzazione delle passioni: questo è il grande passo compiuto dalla civiltà greca, che tramite le sue produzioni intellettuali, la poesia, il teatro, la filosofia, la legislazione e l’istituzione dei tribunali, costruisce l’uomo moderno, razionale, che pone sé stesso quale misura di tutte le cose.
Nell’Edipo re di Sofocle assistiamo alla rappresentazione drammatica delle vicende di una famiglia, anzi di due famiglie – perché Edipo ha una famiglia biologica da lui sconosciuta ed una famiglia legale che occulta le sue vere origini – ove si producono veleni che, generati nel microcosmo familiare, inquinano per osmosi anche la società.
Una drammatica e potente rappresentazione di una storia oscura e violenta, che travolge Edipo, eroe dell’intelligenza piuttosto che della forza, ma eroe solo, che aspira ad agire razionalmente in un contesto familiare e sociale che si muove invece su linee irrazionali, scatenando una tempesta di eventi ingovernabili.
Edipo è un eroe dalla personalità complessa: in cerca di verità sulla propria identità e sul proprio destino, capace di grandi gesti di pietà filiale come lasciare gli agi della vita a Corinto per non danneggiare i genitori, acuto a sufficienza per sciogliere l’enigma della Sfinge, ma anche tanto cieco da non cogliere gli indizi sulle proprie origini; a volte generoso ed a volte intemperante e, alla fine della storia, spietato con se stesso e con la propria famiglia, nel rivelare una verità che tutti gli consigliano di tenere nascosta: fiat iustitia et pereat mundus.
Nella tragedia sono rappresentate relazioni familiari disfunzionali, avvelenate da due tossine che ancora oggi interessano le famiglie contemporanee: la violenza e la menzogna.
Dalla famiglia queste tossicità si estendono alla società, che nella tragedia è afflitta dalla peste a causa di un evento, l’omicidio di Laio re di Tebe prima di Edipo, il cui autore è rimasto per lungo tempo sconosciuto; evento che tuttavia non è altro che un singolo anello di una lunga catena di violenze familiari, ritenute lecite, anzi giustificate.
L’assassino di Laio è lo stesso Edipo, suo figlio, che dopo averlo ucciso, sposa la madre, Giocasta, e diviene re (tyrannos) di Tebe, da inconsapevole autore di un esecrando doppio delitto, il parricidio e l’incesto. Edipo non sa che Laio e Giocasta sono i suoi genitori, perché entrambi hanno deciso di sopprimerlo alla nascita per salvaguardare il regno ed il potere, un infanticidio che non sembra pesare sulla coscienza di Giocasta, la quale anzi, più tardi, si vanterà con Edipo di avere in tal modo sventato la profezia; ma la tragedia puntualmente avviene, così come predetta, nonostante il tentativo dei protagonisti di evitarla. Tutti loro si macchiano di hybris, la superbia che viene punita dagli dei, perché cercano di governare gli eventi, ma ciecamente, senza conoscere fatti ed antefatti. Edipo, salvato da un pastore, è stato affidato ad un coppia di genitori adottivi, i sovrani di Corinto, che si guardano bene da rivelargli la verità sulle sue origini, e quindi, una volta appresa la profezia, si allontana da Corinto per non uccidere colui che crede suo padre e non sposare colei che crede sua madre. Non accetta però di avere perduto il suo rango e la sua identità sociale e quando per via incontra Laio, che procede regalmente sul suo carro con la scorta di servi, reclamando a colpi di scudiscio la precedenza su Edipo che viaggiava da “semplice pedone”, lo uccide ed uccide anche la scorta del re; per assicurarsi la impunità del precedente delitto, diremmo oggi noi, codice penale alla mano.
La violenta fine di Laio ha radici nel suo stesso passato, altrettanto violento. Laio, infatti, è stato maledetto per avere rapito e violentato un giovane uomo; ha poi violentato la sua stessa moglie, Giocasta, che voleva astenersi dai rapporti coniugali per non generare il futuro assassino del padre; quando nasce Edipo gli buca e lega le caviglie, stigma di solito riservato agli schiavi, e lo consegna, o meglio lo fa consegnare da Giocasta, ad un servo, perché lo uccida. Il bambino viene privato così dapprima della sua identità sociale e del suo status familiare e poi- almeno nelle intenzioni dei genitori- della vita.
I genitori adottivi di Edipo, dal canto loro, sebbene accoglienti e affettuosi, non si dimostrano molto più rispettosi dei diritti di Edipo. Quando costui li interroga, dopo aver sentito dire che egli è “figlio falso”, negano scandalizzati: e negando segnano il destino di Edipo, ed in fondo anche il loro, perché il giovane lascerà la città dove era stimato e rispettato, per evitare di agire contro coloro che crede i suoi genitori.
In altre parole, Edipo proviene da una famiglia biologica violenta e cresce in una famiglia adottiva dove le relazioni sono insincere: i sovrani di Corinto l’hanno adottato perché non possono avere figli, ma egoisticamente preferiscono mentire, a se stessi prima che al figlio, e accettano la separazione piuttosto che rivelare le origini, che peraltro, per quanto a loro conoscenza, sono umili, perché il bambino gli è stato consegnato marchiato come uno schiavo.
2. La violenza familiare e la negazione della identità personale.
Spogliata dai suoi risvolti mitologici, la storia di Edipo è una storia che ancora oggi si ripete, almeno in parte, per molti bambini dell’età contemporanea.
In primo luogo, la storia si ripete per i bambini vittime di abusi e abbandono morale e materiale da parte dei genitori, atti illeciti che le istituzioni contrastano con molta fatica, e non sempre efficacemente, anche perché la consapevolezza che i bambini sono portatori di diritti ed interessi propri, che appartengono a loro stessi e non al gruppo familiare, è una conquista relativamente recente.
I Tribunali e le Corti sono congestionati da processi di minori non riconosciuti dal padre che faticano ad ottenere lo status e da processi che riguardano figli che, seppure riconosciuti, sono stati privati dell’assistenza morale e materiale dei genitori. Molti di loro reclamano il risarcimento del danno, che tuttavia non è mai integralmente riparativo dell’offesa subìta, perché l’essere privati del supporto dei genitori, prestazione infungibile ed incoercibile, ha conseguenze non sempre rimediabili.
Il tempo del minore è un tempo breve e prezioso, in cui la personalità si forma, e per formarsi in maniera armonica necessita di un sound enviroment, come ha precisato la Corte europea dei diritti dell’Uomo in data 6 luglio 2010 (Neulinger e Shuruk c. Svizzera), affermando che l’interesse del minore comprende tanto l’interesse a mantenere regolari rapporti con entrambi i genitori quanto l’interesse a crescere in un ambiente sano, stabile ed affidabile. Il bambino ha diritto di vivere nella propria famiglia salvo che questa sia assolutamente inadeguata ed ha diritto ad essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. È questo lo “statuto dei diritti dei figli”, enunciato dall’art 315 bis, che costituisce una conquista recente, poiché introdotto nel codice civile nel 2012, dalla legge n. 219.
Dall’epoca in cui Sofocle scriveva della vicenda di Edipo (presumibilmente nel 425 a.C. o poco dopo) ad oggi, sono trascorsi ventiquattro secoli, durante i quali si è tramandata senza incertezze l’idea che le esigenze dei figli sono recessive rispetto a quelle dei genitori; fino a non molto tempo fa si riteneva che l’interesse della famiglia fosse superiore e prevalente su quello dei singoli individui che la compongono. Soltanto da una trentina d’anni si parla di diritti del bambino e di interesse del minore, da quando nel 1989 è stata firmata la Convezione di new York sui diritti del fanciullo, ratificata in Italia nel 1991, attuata molto lentamente nella legislazione nazionale, con interventi dapprima parziali (la legge sull’affidamento condiviso nel 2006, la riforma della legge sull’adozione dei minorenni nel 2001) e infine con la riforma della filiazione avvenuta nel 2012.
La prospettiva si è in un certo senso rovesciata, poiché oggi si parla non più di interesse superiore della famiglia, ma di superiore o prevalente interesse del minore, perpetrando così un errore di fondo, quello di applicare alla famiglia la regola del conflitto, da dirimere individuando una parte vincente ed una soccombente, anziché promuovere la cultura della mediazione.
L’interesse del minore che deve tenersi in considerazione non è superiore, cioè prevalente su qualsiasi altro interesse, ma il migliore (best interests of the child), quello che tra più scelte possibili garantisce il suo benessere psicofisico.
La cultura del conflitto tra diritti dei genitori e diritti dei figli, rappresentata nella vicenda di Edipo dal parricidio/regicidio consumato dal protagonista e poi da lui stesso tenuto ai suoi danni (“chi ha assassinato l’altro, può inventare l’attentato a me”), non può che contribuire a innescare la spirale della violenza.
Ed infatti, i Tribunali e le Corti, civili e penali, sono congestionati anche da processi che riguardano bambini che sono o sono stati vittima di violenza, agita da uno o da entrambi i genitori, anche nella forma della violenza assistita.
Le violenze familiari sono sempre vicende oscure, in cui non è facile definire il ruolo dei protagonisti: spesso è incerto se le donne, mogli e madri che, come Giocasta, sono a loro volta vittime di violenza da parte del marito o del compagno, siano esse stesse autrici della violenza sui minori oppure conniventi, ovvero vittime di una ulteriore forma di violenza quale è l’essere costrette al silenzio su ciò avviene a danno dei figli.
Anche il minore sul quale la violenza non è agita direttamente, ma che viene esposto ad assistere alla violenza esercitata da uno dei genitori sull’altro, è da considerare vittima di violenza; ed anche questa è una conquista relativamente recente, poiché solo nel 2013 è stata introdotta, quale circostanza aggravante comune dei delitti contro la vita l’incolumità e la libertà, la presenza del minore, e l’aggravante ad effetto speciale prevista dell’art 572 c.p. e cioè l’aumento di pena fino alla metà se il fatto è commesso in presenza di un minorenne, è stata definitivamente configurata nel 2019 (dalla legge n. 69, codice rosso).
Il minore vittima di violenza, diretta o assistita, è un soggetto fortemente a rischio di divenire a sua volta una adulto violento, in una sorta di ciclo perpetuo dell’abuso che vede riproporre gli stessi schemi comportamentali appresi da una generazione all’altra, sia esso il ruolo dell’aggressore che della vittima; si tratta di quella trasmissione intergenerazionale della violenza di cui la vicenda di Edipo è un esempio.
Edipo stesso, infatti, da vittima di violenza si trasforma in autore di violenza (“son malvagio e figlio di malvagi”): dapprima perché reagisce in modo spropositato – e sarà lui stesso ad ammetterlo davanti a Giocasta – ad un diverbio per una questione di precedenza, uccidendo l’offensore e tutta la sua scorta, tranne un servo che riesce a fuggire e che più tardi rivelerà i fatti; in seguito, nel momento in cui scopre il suo duplice delitto, punendo ferocemente se stesso, anche oltre il suo stesso editto, con il quale aveva prescritto l’esilio, ma non anche l’accecamento. Non solo: egli abbandona i figli maschi al loro destino, raccomandando al cognato/zio di prendersi cura solo delle figlie femmine. I due figli di Edipo, maledetti dal padre come “incestuosa stirpe”, saranno a loro volta violenti, muovendosi guerra ed uccidendosi a vicenda.
Soltanto Antigone, beneficiata da un ultimo gesto di affetto paterno, proverà ad interrompere la spirale della violenza, con un atto di solidarietà e di pacificazione, che la rende un simbolo, nei secoli a venire, non solo della libertà di coscienza, ma anche di quella pietas che vuole la riparazione del torto piuttosto che la vendetta.
La famiglia di Edipo non è inquinata soltanto dalla violenza, ma anche dalla menzogna. Ad Edipo viene negato più volte il diritto ad avere consapevolezza delle proprie origini. In primo luogo, dal padre biologico, che prima di mandarlo a morte, gli buca e lega le caviglie, per rendere irriconoscibile la sua origine legittima e nobile. Edipo diventa così figlio di nessuno, al più di uno schiavo, tanto che egli stesso crede, quando il messo gli rivela che era stato abbandonato, di essere di stirpe servile e di ciò non si preoccupa, pensando che forse Giocasta arrossirà della “bassa nascita”, ma non lui, che si reputa figlio della Fortuna che gli è stata propizia, con il sottinteso orgoglio di essere homo faber fortuna sui, perché è arrivato al trono grazie alla sua sapienza e non alla sua ascendenza. Ad Edipo viene negata la consapevolezza della sua identità personale e l'accesso alle origini anche dai suoi genitori adottivi, che, quando lui li interroga per la prima volta, negano, ardenti di sdegno, che Edipo sia un “figlio falso”; gli viene negata la verità anche dal dio, perché l’oracolo, inetto a far venire alla luce alcunché di utile, non risponde alla sua domanda se non ambiguamente, profetandogli il parricidio e l’incesto, ma restando volutamente silente sulla vera identità dei suoi genitori.
Anche questa è una storia contemporanea, che interessa ancora oggi i figli adottivi, nonché coloro la cui identità giuridica e sociale è stata scissa dalla identità biologica.
Soltanto nel 2001 la legge sull'adozione dei minorenni è stata modificata per riconoscere il diritto del figlio adottivo ad essere informato di tale condizione, in primo luogo dai genitori, che “vi provvedono nei modi e termini che essi ritengono più opportuni”, e il diritto di accedere alle informazioni che riguardano la sua origine e l'identità dei genitori biologici.
Non si tratta però di un diritto perfetto, perché è esercitabile soltanto al raggiungimento dei 25 anni – e qui sembra essere sfuggita al legislatore l'antinomia di stabilire una età ben più alta di quella in cui si consegue la piena capacità di agire – ed inoltre l'accesso deve essere consentito dal Tribunale per i minorenni, il quale deve valutare che esso “non comporti grave turbamento all'equilibrio psico-fisico del richiedente”. Anche in questo caso sembra essere sfuggita al legislatore l'incongruenza di prevedere che un Tribunale per i minorenni valuti l'impatto della conoscenza sull'equilibrio psicofisico di una persona ampiamente maggiorenne e quindi – si suppone – in grado di decidere da sé se può o non può sostenere il peso della rivelazione delle proprie origini. La norma è congegnata in così aperta contraddizione con il principio di autodeterminazione, da lasciare il dubbio che essa serva a proteggere non già l'interesse del figlio adottivo ma l'interesse dei genitori.
Inoltre essa conteneva, nella sua originaria formulazione, un divieto rigoroso di accesso alle origini nel caso di bambino nato da parto anonimo. Il divieto è parzialmente caduto soltanto pochi anni fa, dopo che la nostra Corte costituzionale nel 2013, con la sentenza n. 278, sulla scia di quanto affermato nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell'Uomo (Godelli c. Italia), ha affermato – con una sentenza manipolativa – che il figlio nato da parto anonimo ha diritto a far interpellare la madre attraverso una procedura riservata, per chiedere se essa vuole rinunciare all’anonimato. Tuttavia, per rendere effettivo il diritto all'interpello, si è reso necessario anche l’intervento delle sezioni unite della Corte di Cassazione, adite con ricorso nell’interesse della legge ai sensi dell’art 363 c.p.c., le quali nel 2017 con la sentenza n. 1946 hanno affermato che, ancorché il legislatore non abbia introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile nella volontà contraria della madre.
Non diverse problematiche riguardano i figli i nati da procreazione medicalmente assistita, ai quali i genitori intenzionali consegnano una identità giuridica in tutto o in parte scissa dalla identità biologica e che non possono andare alla ricerca delle loro origini se le banche dati dei donatori di gameti sono anonime. Per questo, nel 2019, il Consiglio di Europa, con una raccomandazione, ha auspicato la rinuncia all’anonimato per tutte le future donazioni di gameti negli Stati membri, senza però alcun effetto retroattivo sul diritto di accesso alle banche dati già sigillate dall’anonimato.
3. Una riflessione sulla giustizia.
La giustizia di Edipo è una giustizia ancora connotata da forti elementi di irrazionalità: la discrezionalità con la quale il re decide se indagare o meno; quando decide di indagare lo fa sotto la spinta potente della collettività ferita, che reclama le difese dal male, ma anche per paura che il regicidio si ripeta a suo danno; l’uso della tortura sul testimone, la punizione feroce che non ferma la spirale della violenza perché vendetta reclama vendetta. Una giustizia intransigente, che nella spettacolarità della punizione cerca di far dimenticare il colpevole ritardo con il quale si è mossa.
Il dialogo tra Giocasta ed Edipo rivela una idea di giustizia servente al potere: il neonato viene soppresso per evitare non soltanto il parricidio, ma anche e soprattutto il regicidio; quando però il re viene effettivamente assassinato non si procede ad alcuna indagine, perché nel frattempo un altro re, più giovane e più capace, ha preso il suo posto. Il testimone dell’omicidio, infatti, riesce a tornare a Tebe ed a parlare con la regina, ma vedendo che Edipo ha preso il potere, chiede di essere allontanato e a ciò Giocasta acconsente senza porsi – e porre al testimone – troppe domande; del resto anche lei ha tutto da guadagnare nello scambio tra uno sposo e re anziano, gravato da una maledizione che gli impedisce di generare figli e di farli sopravvivere, ed uno sposo giovane, re sapiente che scioglie gli enigmi e padre prolifico.
Nella generazione successiva assistiamo allo scontro tra Creonte ed Antigone, che invece rappresenta le tensioni di una società che cerca di stabilire regole di base che leghino tutti, anche il re e la sua famiglia, e di verificarne nel tempo la loro validità. Edipo era un tyrannos, termine che originariamente non aveva alcuna accezione negativa, ma indicava solo colui che governava accentrando in sé i poteri legislativi, giudiziari e militari. Ed infatti Edipo decide, prima ancora di avere individuato il colpevole e sentito la sua storia, solo in base alla configurazione della fattispecie, quale sarà la punizione (l’esilio) con una norma ad hoc, nata sul momento; in seguito inquisisce, e poi nel momento in cui individua il colpevole, lo punisce, divenendo carnefice di sé stesso. Creonte invece, per quanto nei secoli sia stato indicato come uno spietato tiranno, è molto meno tyrannos di Edipo: è un uomo di governo che crede nella necessità di rispettare la legge, senza eccezioni (“saprò rendere prospera la città con queste leggi”). Creonte ha ereditato, dopo la morte di Edipo e la sanguinosa guerra tra i suoi due figli, una situazione di governo difficilissima, ed è un convinto assertore della necessità di rispettare le regole, senza le quali la polis, la comunità organizzata, non può funzionare. Antigone invece crede che la legge degli uomini debba cedere il passo di fronte ai valori della pietas e della solidarietà familiare (“leggi divine, non scritte, incrollabili”).
La vicenda di Antigone e Creonte rappresenta la contrapposizione dialogica tra lo ius positum e i valori (o secondo altre letture, lo ius naturale).
Creonte ritiene che lo ius positum sia immutabile e che vincoli anche il re e la sua famiglia; per questa ragione impedisce ad Antigone di seppellire il fratello, anche se la vicenda riguarda i suoi nipoti e, di riflesso, anche suo figlio Emone, fidanzato di Antigone; per questo punisce Antigone quando disobbedisce alla legge. Questa soggezione alla legge scritta, che non ammette eccezioni per coloro che detengono il potere, costituisce un passo avanti rispetto alle vicende della generazione precedente, dove il re decide se perseguire o non perseguire e quando l’omicidio di un altro re, dove una regina può tranquillamente suggerire di troncare una inchiesta e di insabbiare la verità, quando si rivela pericolosa per la famiglia reale.
Alla fine della storia, poi, si fa un'ulteriore passo avanti e cioè si ammette che anche lo ius positum può essere cambiato quando quella regola non è più condivisa dalla società, che parteggia per Antigone e la ritiene degna di essere coperta d’oro; la democrazia richiede che la legge, pur se promulgata dal sovrano, sia approvata dalla collettività (“città non è quella ove uno solo può”). La pietà per i defunti, ritenuta minusvalente da Creonte, quasi fosse solo il portato della emotività di una donna, si rivela invece un potente collante naturale tra le persone, e quindi utile a mantenere la società compatta; da qui il ripensamento – sia pur tardivo – di Creonte.
Se fossimo in una favola di Esopo, si potrebbe dire che la morale della storia – o una delle tante che se ne può trarre – è il riconoscimento della necessità di trovare un punto di equilibrio tra la vincolatività della regola e la possibilità di cambiarla quando si rivela non più utile al funzionamento della società, anzi dannosa.
Vi è anche un’altra felice intuizione nella tragedia di Sofocle.
La famiglia è rappresentata come il nucleo fondante della società organizzata: non solo perché il potere si trasmette per via familiare, ma anche perché i veleni che si producono all’interno della famiglia contaminano la società, cagionando una epidemia che non può essere vinta se non con un atto di giustizia.
Ciò dovrebbe indurci a riflettere sull'importanza della giurisdizione in materia di famiglia e minori, molto spesso ritenuta di second'ordine, gestione di interessi piuttosto che tutela dei diritti, salvo il caso in cui si discuta, più che dei diritti della persona, della ripartizione dei grandi patrimoni.
Invece, ora come allora, ci ritroviamo spettatori di tragedie che testimoniano come i veleni nascono nelle formazioni sociali più piccole (i nuclei familiari) e da qui si trasmettono alla formazione sociale più grande (la polis, o comunità organizzata) che le contiene.
L’unico strumento che può arrestare la diffusione del veleno è una giustizia efficacemente amministrata, non soltanto punitiva, ma anche riparativa, e che intervenga con la dovuta tempestività.
Nella storia di Edipo manca un soggetto terzo che affermi i diritti dell'individuo all'interno del nucleo familiare: nessuno impedisce a Laio e Giocasta di mandare a morte Edipo, nessuno impedisce ai sovrani di Corinto di mentirgli sulle sue origini. L'oracolo del dio, che tutti – e quindi anche Edipo – consultano per sapere cosa fare nei passaggi incerti dell’esistenza, non è un organo di giustizia, perché non è tenuto a rispondere, o meglio risponde ciò che vuole, senza alcuna altra spiegazione, senza rispettare alcuna regola, se non quella dell’enigma.
La giustizia invece deve parlare una lingua chiara, comprensibile a tutti, attenersi a regole predeterminate e soprattutto rispondere, in tempo utile e in modo completo, alle istanze di chi la interroga.
La società contemporanea ha trovato il punto di equilibrio faticosamente cercato dai protagonisti dell’Edipo re e di Antigone nella separazione dei poteri, nella istituzione di una giustizia imparziale ed indipendente e soprattutto nel consenso espresso dalla collettività a trascrivere alcuni valori fondamentali nelle Costituzioni (o in altre Carte dei valori). Valori che ispirano la legislazione positiva e che al tempo stesso ne costituiscono il limite e la prova di resistenza, perché la ricerca dell’ordinamento giusto, o più semplicemente dell’ordinamento adeguato a garantire il regolare funzionamento di una società organizzata, è un ricerca mai conclusa, che ogni generazione trasmette alla successiva.
[*] Il testo è la rielaborazione dell’intervento tenuto al convegno “Camminando tra miti ed attualità”, organizzato da CAMMINO (Camera minorile per la persona, le relazioni familiari e i minorenni), Siracusa, 3 luglio 2022.
Il collegio consultivo tecnico. Misura di semplificazione e di efficienza o inutile aggravamento amministrativo?
di Fabio Francario
Sommario: 1. Importanza dell’istituto nella cornice del N.G.E.U. e del P.N.R.R. - 2. Ragioni della difficoltà d’inquadramento sistematico dell’istituto. - 3. Focus sulla normativa specifica del Collegio consultivo tecnico - 4. Una ipotesi ricostruttiva - 5. Osservazioni conclusive: il collegio consultivo tecnico di fronte all’alternativa tra l’essere una reale misura di semplificazione ed efficienza o un inutile aggravamento amministrativo.
1. Importanza dell’istituto nella cornice del NGEU e del PNRR.
Attualmente, la figura del Collegio consultivo tecnico è annoverata tra le misure di semplificazione in materia di contratti pubblici contemplate nell’ambito del Capo I del Titolo I del d.l. 16 luglio 2020 n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale). Non si tratta di una figura completamente nuova[i], ma nelle intenzioni del legislatore vorrebbe assumere un ruolo strategico per garantire il rilancio dell’economia nello scenario post pandemico. Per essere pienamente compresa va quindi considerata nel contesto del quadro normativo e degli obbiettivi predefiniti a livello comunitario dal Next Generation EU (NGEU) e a livello nazionale dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
Il programma di intervento straordinario, voluto dalle Istituzioni europee non solo per contrastare la pandemia, ma per favorire la ripresa e lo sviluppo economico e sociale, viene sviluppato in Italia dal PNRR ed è opinione diffusa e condivisa che si sia di fronte ad una occasione irripetibile. La necessità di evitare il rischio che gli interventi previsti non vengano realizzati e che gli obbiettivi prefissati non vengano raggiunti ha messo in primo piano la questione dell’efficienza amministrativa. Dal momento che la pubblica amministrazione assume un ruolo vitale nell’attuazione del complesso piano, l’attenzione del legislatore si è pertanto concentrata anche sulla necessità di approntare uno strumentario giuridico appositamente dedicato a garantire l’efficacia dell’azione amministrativa nell’ambito delle misure destinate ad accompagnare la realizzazione del Piano. L’intervento legislativo si è a tal fine sviluppato essenzialmente sotto tre distinti profili, tutti convergenti nell’unica finalità di garantire la celere conclusione dei procedimenti e la stabilità delle decisioni: rimozione del fenomeno della “paura della firma”, previsione di meccanismi procedimentali sostitutivi e de - giurisdizionalizzazione della soluzione dei conflitti
Le principali misure di semplificazione specificamente dedicate ad accompagnare la realizzazione del PNRR sono individuate nel d.l. 16 luglio 2020 n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito con l. 11 settembre 2020 n. 120 e nel d.l. 31 maggio 2021 n. 77 (Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure).
La prima linea d’intervento seguita è stata quella di rimuovere la difficoltà di assumere decisioni in un quadro normativo, economico, tecnico e sociale estremamente complesso, incerto e farraginoso, intervenendo sul regime giuridico della responsabilità amministrativa e penale dei funzionari pubblici al fine di rimuovere la c.d. “paura della firma”. Sotto questo profilo l’attenzione è stata rivolta all’elemento personale della pubblica amministrazione, al “fattore umano”. L’art. 21 del d.l. n 76 del 2020 è intervenuto sul tema della responsabilità erariale, limitando la responsabilità dei funzionari pubblici per danno erariale alle sole ipotesi in cui ne venga accertato il dolo e precisando che tale limitazione “non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente”. L’ulteriore precisazione che “la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso” vale a chiarire anche che il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica, come invece sostenuto da alcuni orientamenti della giurisprudenza contabile. L’art. 23 ha invece circoscritto il reato di abuso d'ufficio alla violazione di puntuali disposizioni di leggi e atti con forza di legge da cui non residuino margini di discrezionalità.
La seconda linea d’intervento ha invece interessato i procedimenti amministrativi, e si è concretizzata nella previsione di misure di semplificazione, finalizzate a garantire la definizione dei processi decisionali, in tempi rapidi e comunque la certezza della loro conclusione. Il d.l. 76/2020, oltre a introdurre modifiche della disciplina generalmente dettata dalla legge 241/1990, recate dall’art. 12, generalizza di fatto l’impiego della figura del Commissario straordinario per garantire la realizzazione degli interventi infrastrutturali di particolare complessità, prevedendo che i Commissari operino in deroga alla disposizioni di legge in materia di contratti pubblici (“fatto salvo il rispetto dei principi …”) e che possano essere abilitati ad assumere direttamente le funzioni di stazioni appaltante (art. 9). Il d.l. 77/2021 prevede invece la possibilità di attivare meccanismi sostitutivi commissariali in caso di mancata adozione di atti e provvedimenti necessari all'avvio dei progetti del Piano, ovvero di ritardo, inerzia o difformità nell'esecuzione dei progetti da parte dei soggetti attuatori del PNRR (art. 12), così come nel caso di dissenso, diniego, opposizione o altro atto equivalente idoneo a precludere la realizzazione in tutto o in parte la realizzazione di un intervento rientrante nel PNRR o nel PNC (art. 13). Sotto il profilo più strettamente organizzativo, il d.l. 77/2021 prevede inoltre l’istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri di una cabina di regia con poteri d’indirizzo, d’impulso e di coordinamento generale sull’attuazione degli interventi del PNRR (art 2); l’istituzione di una Soprintendenza speciale presso il Ministero della cultura con competenza per i beni che siano interessati dagli interventi previsti nel PNRR e con poteri comunque di avocazione e sostitutivi delle Soprintendenze locali nei casi in cui si renda necessario per assicurare la tempestiva attuazione del PNRR (art. 29); l’istituzione di un Comitato speciale presso il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici tenuto a esprimersi sui progetti di fattibilità tecnico economica delle opere non solo a livello meramente consultivo, ma con potere anche decisorio, sostitutivo della conferenza dei servizi competente all’approvazione definitiva del progetto nei casi in cui siano stati espressi dissensi in seno ad essa (art 44).
La terza linea d’intervento è stata quella che si è ormai soliti definire come “de-giurisdizionalizzazione”, per indicare misure o istituti volti ad evitare o limitare quanto più possibile il rischio che l’intervento del giudice arresti o ritardi la realizzazione degli interventi pubblici. La necessità di realizzare gli interventi previsti nel PNRR e nel PNC ha fatto sì che il legislatore abbia non solo dettato norme specificamente volte ad accompagnare la realizzazione di tali piani, ma abbia altresì colto l’occasione per intervenire a regolare in via generale il rapporto tra processo amministrativo e opere pubbliche cercando di limitare la possibilità d’intervento del giudice sull’appalto. Sotto quest’ultimo profilo, l’art. 4 del dl 76/2020 coglie l’occasione per dettare diverse disposizioni volte ad assicurare la stabilità dell’aggiudicazione e del conseguente affidamento del contratto. In primo luogo, estende l’applicazione dell’art. 125 comma 2 del c.p.a. agli appalti aggiudicati entro al 31 dicembre 2021 (termine poi spostato al 30 giugno 2023), il che comporta lo spostamento della tutela sul versante puramene risarcitorio, dal momento che esso statuisce che “la sospensione o l’annullamento dell’affidamento non comporta la caducazione del contratto già stipulato e il risarcimento del danno avviene solo per equivalente”. Precisa, in secondo luogo, che “la pendenza di un ricorso giurisdizionale nel cui ambito non sia stata disposta o inibita la stipulazione del contratto” non costituisce giustificazione adeguata per la mancata stipulazione dello stesso e che “la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto deve essere motivata con specifico riferimento all’interesse della stazione appaltante e a quello nazionale alla sollecita esecuzione del contratto e viene valutata ai fini della responsabilità erariale e disciplinare del dirigente”. Precisa ancora, in terzo luogo, che di norma i giudizi in materia di appalti dovrebbero essere definiti nel merito con sentenza in forma semplificata in esito all’udienza cautelare. Dunque, sembrerebbe d’intendere, a meno che l’aggiudicazione non venga immediatamente sospesa dal giudice amministrativo, il contratto deve essere stipulato e non può esser più caducato e il ricorrente che abbia ragione dovrà limitarsi ad una tutela meramente risarcitoria. Sotto questo profilo, senza entrare nei profili concernenti la costituzionalità di tali norme con riferimento soprattutto all’art 113 Cost., è dunque evidente l’intento di limitare quanto più possibile l’incidenza della pronuncia giurisdizionale sull’affidamento dei lavori. Le previsioni, come detto, sono d’ordine generale, ma il PNRR è stato comunque l’occasione per generalizzare tale disciplina.
Con specifico riferimento invece alle opere previste nel PNRR e nel PNC, oltre a misure acceleratorie[ii], nella prospettiva della de-giurisdizionalizzazione sono state previste anche misure volte a cercare proprio di evitare che dispute o controversie vengano portate e decise in sede giurisdizionale.
L’art. 6, espressamente dedicato sin dalla rubrica al Collegio Consultivo Tecnico, reca infatti previsioni dichiaratamente volte a scoraggiare il ricorso al momento giurisdizionale per la risoluzione di dispute o questioni che possono insorgere nell’esecuzione dell’appalto, al fine di evitare che l’incidente giurisdizionale comprometta o ritardi la realizzazione dell’intervento. Per i lavori diretti alla realizzazione di opere pubbliche d’importo pari o superiore alla soglia comunitaria, l’art. 6 prevede infatti che il CCT debba essere obbligatoriamente costituito “per la rapida risoluzione delle controversie o dispute tecniche di ogni natura suscettibili d’insorgere nel corso dell’esecuzione del contratto stesso”. L’istituzione rimane facoltativa per i lavori sotto soglia.
Se si guarda ai diversi istituti giuridici che il legislatore ha pensato d’impiegare per accompagnare la realizzazione del Piano, la prima considerazione da fare è che, tanto l’impiego della figura del commissario, quanto degli altri meccanismi sostitutivi che consentono di portare a conclusione i procedimenti spostando verso l’alto il livello decisionale, non sono una novità, ma solo la generalizzazione, per le opere PNRR e PNC, di tali misure. Altrettanto può dirsi per la stessa limitazione del possibile contenuto della tutela giurisdizionale. In tutti questi casi, si è sostanzialmente di fronte ad una estensione di norme e istituti già dettati per altre situazioni: per l’impiego dei commissari è esplicito il rinvio all’art 4 del d.l. 18 4 2019 n. 32; per il superamento del dissenso il modello è quello dell’avocazione ormai generalmente prevista dall’art 14 quinquies della l. 241/1990; anche per la limitazione dei poteri del giudice si estende la norma già dettata a suo tempo per le infrastrutture strategiche e codificata nell’art 125 c.p.a..
Anche il CCT, di per sé, non è una novità assoluta, ma, in questo caso, la disciplina non si limita al mero richiamo o adattamento di un istituto predefinito nella sua struttura giuridica. La disciplina recata dal decreto semplificazioni (d.l. 76/2020), come modificata e integrata dal decreto semplificazioni - bis o governance PNRR (d.l. 77/2021), si presenta fortemente innovativa e lascia chiaramente intendere che, nelle intenzioni del legislatore, l’istituto dovrebbe assumere un ruolo assolutamente strategico nell’ambito delle misure di accompagnamento strumentali alla garanzia di realizzazione del PNRR.
2. Ragioni della difficoltà d’inquadramento sistematico dell’istituto.
Nonostante l’attenzione che viene adesso specificamente dedicata all’istituto dal legislatore e il ruolo strategico che gli viene attribuito per garantire la realizzazione degli interventi infrastrutturali del PNRR, dire esattamente cosa sia il CCT e, soprattutto, che natura ed efficacia abbiano le sue decisioni, non è cosa semplice.
Per diverse ragioni.
Innanzi tutto perché le nuove norme, per quanto dedichino particolare attenzione all’istituto, risultano comunque scarne, lacunose e contraddittorie. Le disposizioni recate dagli articoli 5 e 6 del d.l. 76/2020 attribuiscono al Collegio funzioni e compiti eterogenei; prevedono che esso emani atti aventi natura ed efficacia profondamente diverse (pareri, determinazioni, atti aventi natura di lodo irrituale); ne prevedono la costituzione, a seconda dei casi, come obbligatoria o facoltativa; quando obbligatoria, richiedono necessariamente la presenza dell’operatore economico all’interno dell’organismo, anche se la funzione di questo è limitata alla sola consulenza.
Per quanto la preparazione e l’intelligenza dell’interprete possano, sotto questo profilo, cercare di armonizzare la ricostruzione del dato normativo, vi sono in ogni caso perlomeno due altre ragioni che, oggettivamente, impediscono di rispondere in maniera precisa all’interrogativo sulla natura del CCT e delle sue decisioni.
La prima è proprio nel fatto che, come detto, la figura s’iscrive chiaramente nel novero delle misure di “de -giurisdizionalizzazione”, pensate cioè per evitare o limitare quanto più possibile il rischio che l’incidente giurisdizionale arresti o ritardi la realizzazione degli interventi previsti nel PNRR o nel PNC. L’istituto generale di riferimento è quindi quello delle cd ADR (Alternative Dispute Resolution), categoria pensata appunto per includere le diverse ipotesi in cui dispute o controversie tra le parti vengono definite prima e al di fuori della sede giurisdizionale. Il riferimento alle ADR vuole però dire tutto e niente, stante la irriducibilità delle stesse ADR ad un modello unico. Al di là della radice comune dell’offerta di una “giustizia non giurisdizionale”, le varie forme di ADR non sono riducibili a un’unica tipologia perché non sono un fenomeno unitario e sempre uguale a sé stesso. Se si guarda l’esperienza maturata nell’ambito della contrattualistica internazionale, nel quale si origina la figura dei dispute boards per accompagnare l’esecuzione dei contratti di durata, si vede subito che i modelli sono diversi e tendono a distinguersi a seconda che abbiano carattere aggiudicativo o assistenziale; a seconda cioè che siano diretti a risolvere una lite insorta tra le parti attraverso categorie assimilabili a quelle giudiziarie ovvero a comporre la controversia attraverso procedure di tipo conciliativo in ragione di criteri equitativi piuttosto che di giustizia. Talora con soggezione agli effetti della decisione, talora con libertà di aderire o meno alla proposta conciliativa. Ferme in ogni caso le garanzie di indipendenza, terzietà e professionalità dei membri, i dispute boards possono quindi formulare tanto pareri o raccomandazioni non vincolanti (Dispute Review Board – DRB), quanto possono assumere decisioni immediatamente vincolanti per le parti (Dispute Adjudicative Board – DAB) .
Oltre a quella della mancanza, nell’esperienza delle ADR, di un unitario modello di riferimento, l’ulteriore ragione che rende fortemente problematico l’innesto dell’istituto nell’ordinamento pubblicistico è che forme e strumenti di “giustizia non giurisdizionale”, che di per sé non sono certamente ignoti al nostro sistema di diritto amministrativo, sono tuttavia fortemente condizionati dal vincolo d’indisponibilità gravante sull’esercizio del pubblico potere finalizzato alla cura del pubblico interesse. Il che, per tradizione, porta a circoscriverne l’ambito all’esperienza dei ricorsi amministrativi, rimedi a carattere decisorio in cui non viene però garantita la terzietà del giudicante rispetto alle parti. La possibilità di impiegare rimedi alternativi, che possono ritenersi espressivi non già di autotutela amministrativa, ma di una logica partecipativa e consensuale, è quindi generalmente consentita nei soli casi in cui le questioni riguardino situazioni disponibili di diritto soggettivo. L’art 12 c.p.a. afferma chiaramente che “le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto ai sensi degli articoli 806 e seguenti cpc”. Il Codice dei contratti pubblici dedica un apposito capo, il secondo, titolo dedicato al Contenzioso, nella parte VI del Codice ai rimedi alternativi alla tutela giurisdizionale, prevedendo le figure dell’accordo bonario (art 205), della transazione (art. 208) e dell’arbitrato (art. 209), oltre che del parere precontenzioso ANAC (art. 211).
Chiarire che sono deducibili in arbitrato le sole controversie che riguardino situazioni (giuridiche soggettive) disponibili, circoscrivendo in tale ambito l’operatività delle ADR, non basta però a risolvere tutti i problemi, in quanto in ambito pubblicistico, al di là dei vincoli modali derivanti dalle previsioni specificamente recate dall’art. 209, bisogna comunque fare i conti con i limiti che in linea di principio derivano dal divieto di arbitrato obbligatorio[iii] e dalla preclusione del ricorso all’arbitrato irrituale[iv]. Il principio della libera disponibilità esclude che, in assenza di una espressa volontà della parte, l’arbitrato possa essere reso obbligatorio per effetto di una norma di legge; il medesimo principio, per altro verso, non è però tale da giustificare anche che l’arbitrato si svolga nelle forme irrituali, perlomeno in assenza di una espressa previsione o disciplina di legge.
La mancanza di un unitario modello di riferimento, l’assorbimento dei rimedi non giurisdizionali nell’ambito dell’autotutela amministrativa e l’esclusione della possibilità di decidere le liti concernenti situazioni disponibili nelle forme dell’arbitrato irrituale o rendendo obbligatorio ex lege il ricorso all’arbitrato sono tre fattori che allo stato impediscono un coerente inquadramento sistematico dell’istituto sulla base delle figure tradizionalmente note.
3. Focus sulla normativa specifica del Collegio consultivo tecnico.
I dati salienti che immediatamente si ricavano dalle disposizioni recate dagli articoli 5 e 6 del d.l. 76/2020 e successive modifiche e integrazioni sono apparentemente incoerenti.
La costituzione del Collegio è obbligatoria per i lavori d’importo pari o sopra soglia, ma rimane facoltativa per quelli sotto soglia; i membri del Collegio devono essere nominati da entrambe le parti, ma in caso di disaccordo alla nomina del Presidente provvede unilateralmente la parte pubblica; il Collegio deve essere formato assicurando eterogeneità, esperienza e qualificazione professionale dei membri, ma questi possono essere anche legati da rapporti di lavoro o collaborazione con le parti; il Collegio rende pareri o determinazioni aventi natura di lodo arbitrale irrituale ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c.; l’acquisizione del parere in alcuni casi è obbligatoria, in altri rimane facoltativa; l’osservanza o inosservanza delle pronunce rese dal Collegio influisce in ogni caso sulla responsabilità contrattuale ed erariale e sul regime delle spese del contenzioso giurisdizionale che venga eventualmente intrapreso successivamente.
Attesi i già ricordati divieti di istituire forme di arbitrato obbligatorio ed irrituale, il solo fatto che l’istituzione del Collegio possa essere ritenuta obbligatoria e che le pronunce possano avere valore ed efficacia di lodo irrituale basta a rendere immediatamente l’idea di come sia problematico l’impiego della figura in ambito pubblicistico. La possibilità che il Collegio assuma determinazioni aventi natura di lodo contrattuale rivelerebbe un carattere decisorio, ovvero aggiudicativo, che mal si concilierebbe con una pura e semplice funzione di assistenza per la rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili d’insorgere nell’esecuzione del contratto, che lascerebbe chiaramente propendere nel senso di una natura non aggiudicativa del board.
Le linee guida elaborate dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici ed adottate dal MIMS con d.m. n. 12 del 17 gennaio 2022 (Adozione delle Linee guida per l’omogenea applicazione da parte delle stazioni appaltanti delle funzioni del Collegio consultivo tecnico) hanno cercato di completare la trama normativa disegnata dalla fonte primaria riempiendone i vuoti. Non solo. Hanno soprattutto fornito una chiave interpretativa che spiega le apparenti contraddizioni con il fatto che il legislatore ha volutamente tenuto insieme i possibili modelli, preoccupandosi di creare le condizioni per l’ammissibilità dell’istituto in ambito pubblicistico e rimettendo alla scelta delle parti l’opzione per un modello puramente consultivo o aggiudicativo in modo che potessero tener conto delle specificità del caso concreto.
Particolare importanza in tal senso assumono le norme recate nell’ambito del paragrafo terzo (“Insediamento, funzioni e competenze”), che richiamano l’attenzione sull’importanza del verbale attestante l’effettivo insediamento del Collegio, per il fatto che in questo momento le parti sono chiamate a consumare la scelta se attribuire o meno alle determine del Collegio valore di lodo arbitrale ai sensi dell’art 808 ter c.p.c.. Il CCT può infatti operare come collegio arbitrale solo se il consenso sia stato ritualmente prestato dalle parti ai sensi dell’art. 6 comma 3 del d.l .76/2020, norma avente forza e valore di legge che dispone che le determinazioni del Collegio hanno natura del lodo contrattuale previsto dall’art 808 ter c.p.c. “salva diversa e motivata volontà espressamente manifestata in forma scritta dalle parti stesse”. La previsione recata dalle linee guida, lungi dal porsi in contradizione con quelle di rango primario, è chiaramente volta a creare certezza sulla effettiva e consapevole volontà delle parti al riguardo e si spiega in ragione del fatto che l’arbitrato non può essere imposto alle parti obbligatoriamente e richiede, specie se irrituale, accettazione espressa e in forma scritta della clausola arbitrale[v]. La chiara ed espressa dichiarazione di volontà delle parti sul punto è dunque necessaria per evitare che l’attività che verrà successivamente svolta dal CCT possa essere eventualmente invalidata lamentando il fatto che le determine con valore di lodo contrattuale siano state adottate senza una positiva enunciazione in forma scritta di una volontà in tal senso. Questo spiega anche perché le linee guida richiedano in questo momento anche la comparizione dei rappresentanti delle parti, dei quali il Collegio dovrebbe pertanto assicurarsi siano munite del potere di rappresentanza idoneo ad impegnare sotto questo profilo la parte. Le linee guida non recano disposizioni di dettaglio per quel che riguarda tempi e modi di svolgimento del contraddittorio sui quesiti posti; ma, tenendo presente che il termine a disposizione del Collegio per pronunciare sui quesiti posti è di quindici o massimo venti giorni (dalla formulazione dei quesiti), il verbale potrebbe rappresentare la sede opportuna anche per prevedere una eventuale disciplina di dettaglio, specie nel caso le parti optino per attribuire la natura di lodo contrattuale alle determinazioni del Collegio.
Anche se le parti abbiano manifestato espressamente la volontà di attribuire alle determine del CCT valore di lodo arbitrale ai sensi dell’art 808 ter cpc, va tuttavia precisato che non tutte le questioni possono essere decise con tale efficacia. Sotto questo profilo, le Linee guida chiariscono che possono essere decise con valore di lodo irrituale le sole questioni che sarebbero altrimenti oggetto semplicemente di un parere facoltativo, da rendere su “controversie e dispute tecniche di ogni natura” ai sensi dell’art 6 dl 76/2020. Restano infatti escluse le questioni che sono oggetto di parere obbligatorio ai sensi dell’art 5 del dl 76/2020 per i casi di sospensione volontaria o obbligatoria dell’esecuzione dei lavori, salva la sola ipotesi di cui alla lett. C) dell’art. 5 del dl 76/2020 (“sospensione per gravi ragioni d’ordine tecnico … in relazione alle modalità di superamento delle quali non vi è accordo tra le parti”). Non possono essere quindi decise con efficacia di lodo arbitrale irrituale le questioni relative a sospensione dell’esecuzione dei lavori derivante dall’applicazione di disposizione di legge penale, del codice antimafia e delle misure di prevenzione di cui al d lgs 159/2011 o da vincoli inderogabili posti da fonti dell’Unione europea; oppure determinata da gravi ragioni di ordine pubblico o di salute pubblica; o ancora da gravi ragioni di pubblico interesse. In tutti questi casi è infatti evidente che non si è in presenza di interessi disponibili delle parti, vuoi perché la decisione amministrativa è vincolata a monte dalla norma di legge penale o unionale, vuoi perché sussiste un forte margine di apprezzamento discrezionale circa la sussistenza di ragioni di pubblico interesse; ed è pertanto esclusa la possibilità di devolvere in arbitrato le relative questioni. Nulla è invece espressamente detto con riferimento all’ipotesi di cui al comma 4 dell’art. 5 del dl 76/2020, che prevede che il CCT renda “parere” preliminare rispetto alla decisione di risolvere il contratto “nel caso in cui la prosecuzione dei lavori per qualsiasi motivo … … non possa procedere con il soggetto designato … … salvo che per gravi motivi tecnici ed economici sia comunque … possibile o preferibile proseguire con il medesimo soggetto”. La possibilità di pronunciare in tal caso con efficacia di lodo irrituale sembrerebbe comunque preclusa non solo dall’impiego del termine “parere”, ma anche dal fatto che la decisione circa la risoluzione del contratto rimane espressamente riservata alla stazione appaltante[vi].
Anche con riferimento al problema del rapporto con gli altri rimedi, le linee guida offrono un importante chiarimento, precisando che, se le parti hanno riconosciuto natura di lodo contrattuale alla decisione del CCT, il rimedio è alternativo all’accordo bonario.
4. Una ipotesi ricostruttiva
4.1. Il quadro apparentemente problematico e contraddittorio disegnato dalla normazione primaria non deve scoraggiare l’interprete perché le difficoltà d’inquadramento e di coordinamento con istituti preesistenti si verificano praticamente tutte le volte in cui si introducono nuovi meccanismi di adr con l’intento di de-giurisdizionalizzare la decisione o composizione di una lite. L’attenzione è portata a concentrarsi sull’efficacia e sull’ utilità della nuova figura, piuttosto che sulla sua coerenza sistematica, perché un rimedio adr nasce atipico quasi per definizione; e a questo dato, in ambito pubblicistico, si aggiunge il profilo problematico della sua ammissibilità, originato dalla limitata disponibilità delle situazioni soggettive.
Le linee guida aiutano a capire che il legislatore ha inteso tenere insieme più modelli, preoccupato di consentire l’ingresso rimedio in ambito pubblicistico, lasciando alle parti la scelta di quale di volta in volta adottare nel caso concreto. Dalla scelta del modello aggiudicativo o consultivo deriva poi un regime giuridico a tratti differenziato in punto di natura ed efficacia giuridica delle decisioni e del collegio stesso. Vedendo il fenomeno nel suo complesso, l’impressione che si ha è dunque che non si è di fronte a un tipico organismo arbitrale, né ad un tipico organismo di mediazione o conciliazione, né ad un tipico organismo consultivo, ma che si sia di fronte ad un organismo giustiziale di diritto pubblico atipico. Volendo avere una visione unitaria, l’idea è che il CCT rappresenti una forma di espressione di funzione giustiziale amministrativa, contaminata dalla necessaria partecipazione del soggetto interessato nell’organismo decisionale e dall’attribuzione a quest’ultimo del potere di pronunciare in maniera irrituale. Il profilo è senz’altro meritevole di ben altro approfondimento sotto il profilo della trattazione scientifica, ma si può comunque provare a spiegare un po’ meglio l’idea anche solo nell’ambito di queste note.
Le uniche figure di adr finora ritenute ammissibili in ambito pubblico sono state i ricorsi amministrativi e gli arbitrati rituali.
I ricorsi amministrativi (in opposizione, gerarchico, gerarchico improprio e, volendo, ricorso straordinario al Capo dello Stato) vengono sempre decisi da organi amministrativi, ai quali l’interessato rivolge la sua domanda di giustizia. Non solo il decidente non è un vero giudice, terzo e imparziale, ma l’interessato non partecipa nemmeno alla formazione della decisione. Può solo domandare e la decisione viene presa, unilateralmente, dall’Amministrazione.
Anche nel caso del CCT, la costituzione dell’organo non ha base negoziale, ma legale. La regola, per gli appalti sopra soglia, è che l’organo deve essere necessariamente costituito presso la stazione appaltante, che decide se il collegio debba essere costituito da tre o cinque membri. In caso di disaccordo sulla nomina del Presidente, la nomina è riservata alla parte pubblica ed è sempre la parte pubblica (stazione appaltante) a prendere unilateralmente la decisione quando l’istituzione è facoltativa (ante operam). E’ quindi un organo consultivo costituito per assicurare la realizzazione dell’interesse pubblico primario alla esecuzione dell’opera pubblica, che rende pareri obbligatori nelle ipotesi di sospensione di cui all’art 5 e facoltativi in tutti gli altri casi. Pareri che, a seconda dei casi (808 ter cpc), possono essere vincolanti o meno per la definizione di una controversia tra stazione appaltante e operatore economico. In alcuni casi, cioè, decidono (significativamente in tali casi le disposizioni usano la locuzione “determinazione” e non “parere”); in altri suggeriscono la decisione. È dunque un organo consultivo necessario, che però non rende solo pareri, ma può anche assumere vere e proprie decisioni. Se ci si fermasse a questa sola considerazione, il cumulo di funzioni consultive e decisorie non rappresenterebbe una novità assoluta nel nostro Ordinamento, dal momento che il sistema dei ricorsi amministrativi e della giustizia amministrativa più complessivamente considerata già ammette e tollera l’ipotesi che un unico soggetto (a cominciare dal Consiglio di Stato) possa cumulare esercizio di funzione giurisdizionale e consultiva.
I veri elementi di novità o, se si preferisce, di rottura rispetto allo schema tipico dei ricorsi amministrativi, noti in ambito pubblico come adr, sono due.
Il primo è quello della necessaria partecipazione, come componente dell’organo decidente, dell’operatore economico, e cioè della parte privata direttamente interessata (rectius: di membri da questa nominati). La decisione, parere o determinazione che sia, non viene presa più unilateralmente dalla sola amministrazione. Rispetto al sistema dei ricorsi amministrativi, s’introduce l’elemento della consensualità, in luogo della unilateralità, nella decisione sul ricorso (o nella resa del parere).
L’altro elemento di novità o di rottura che si coglie, con riferimento alle forme di adr ritenute ammissibili in ambito pubblico, riguarda la possibilità d’impiego della forma dell’arbitrato irrituale. La rottura rispetto all’impiego tradizionale del modello arbitrale non risiede nel fatto che si introduce una forma di arbitrato obbligatorio, cosa che non avviene (è obbligatoria la costituzione del Collegio, non la decisione in forma arbitrale, che dipende pur sempre dalla concorde volontà delle parti); ma nel fatto che una norma di legge consente che, perlomeno nell’attuale contingenza storica, dispute o controversie con la PA possano essere decise anche a mezzo di un arbitrato irrituale. La previsione legislativa predetermina requisiti e modalità di scelta degli “arbitri” (art 6, comma 2) e delinea i tratti essenziali del procedimento (art. 6, comma 3), sottraendo entrambi i profili ad una assoluta libertà negoziale e superando con ciò le riserve più volte formulate dalla Corte di Cassazione e legittimando così l’ingresso della figura in ambito pubblicistico.
Dunque, un rimedio giustiziale sicuramente atipico in ambito pubblicistico per il fatto che la norma di legge consente che dispute e controversie vengano risolte di comune accordo anche in forma irrituale.
Rimossi i limiti di forma e procedura altrimenti ostativi all’ingresso dello strumento in ambito pubblicistico, nella migliore tradizione delle adr il legislatore si è poi preoccupato essenzialmente di garantire l’efficacia e l’effettiva utilità della nuova figura, senza preoccuparsi troppo di avere un modello unico di riferimento.
Ecco così che, a seconda dei casi, il CCT può emanare semplicemente pareri che si auspica le parti osservino convinti dalla particolare competenza dei membri del Collegio, oppure può emanare vere e proprie decisioni vincolanti per le parti (può cioè avere, secondo il linguaggio delle adr, sia carattere assistenziale, che aggiudicativo); ecco che i membri devono essere particolarmente competenti e qualificati, ma possono anche essere in qualche modo legati da un rapporto con la parte; ecco che il CCT sembra poter decidere secondo diritto o anche secondo equità o in via conciliativa, come lascerebbero intendere anche la sostanziale riproposizione della norma sulle spese processuali prevista per la mediazione civile dall’ art 13 d.lgs. 28/2010 e la previsione dell’onere della “scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell’opera a regola d’arte” che tende a svincolare la decisione dalla domanda delle parti; ecco che i pareri possono essere anche non vincolanti, ma in ogni caso condizionano fortemente il regime della responsabilità erariale; ecco che la stessa istituzione del CCT è di regola obbligatoria per gli appalti pari o sopra soglia, ma diventa facoltativa ante operam e per gli appalti sotto soglia.
Tutti elementi di un puzzle che, alla fine, presenta una nuova e atipica forma di adr, risultante dalla contaminazione del rimedio giustiziale amministrativo con gli elementi tipici privatistici del consenso e della irritualità delle forme.
5. Osservazioni conclusive: il Collegio consultivo tecnico di fronte all’alternativa tra l’essere una reale misura di semplificazione ed efficienza o un inutile aggravamento amministrativo.
Le norme non sono del tutto chiare e appaiono a tratti contraddittorie, ma le antinomie derivanti dalla lettera o dal senso logico delle espressioni impiegate possono e devono esser risolte seguendo il criterio interpretativo della finalità perseguita dal legislatore.
Il criterio teleologico rende evidente come la ratio normativa sia quella di estendere in ambito pubblicistico una forma atipica di adr, diversa dai ricorsi amministrativi e dall’arbitrato, in modo da avere uno strumento in grado di garantire “la rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili d’insorgere nell’esecuzione del contratto” e di “favorire, nella risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche eventualmente insorte, la scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell’opera a regola d’arte”, per non pregiudicare il raggiungimento degli obbiettivi individuati nel PNRR e nel NGEU.
L’istituto non viene pensato come misura deflattiva del contenzioso, finalizzata ad evitare l’aggravio dei carichi di lavoro dei tribunali ordinari e a rinverdire la stagione dei giudizi arbitrali per accertare maggiori compensi o risarcimenti all’operatore economico. Al contrario, l’istituto è pensato proprio per rendere l’esecuzione del contratto impermeabile e insensibile alla lite, per evitare cioè che si originino situazioni contenziose che possano ritardare o pregiudicare la realizzazione dell’opera pubblica PNRR o che, una volta ultimata, possano aumentarne il costo finale secundum eventum litis. Risulta quindi espressamente concepito come rimedio finalizzato ad assicurare la tutela in forma specifica dell’interesse alla realizzazione dell’opera. La chiave di volta dell’operazione è tutta nella particolare competenza e qualificazione che viene richiesta ai membri del collegio. Questo deve infatti essere composto in maniera da assicurare al suo interno la presenza di tutte le professionalità necessarie per decidere qualsiasi disputa o controversia, senza possibilità di avvalersi di consulenze tecniche d’ufficio e deve prendere le proprie decisioni in termini strettissimi (15 – 20 giorni). E questo anche quando si chieda di pronunciare non un semplice parere, ma un vero e proprio lodo arbitrale.
Ai membri del collegio può essere quindi chiesto di pronunciarsi in un tempo nemmeno paragonabile a quello di un arbitrato o meno che mai di un giudizio ordinario e senza nemmeno la possibilità di avvalersi di consulenze specialistiche esterne per l’attività istruttoria. Ed è evidente che la scommessa può funzionare solo se si assicura un elevato standard qualitativo delle professionalità coinvolte.
Non sembra però che tutti i segnali vadano in tal senso.
Il recepimento delle linee guida, licenziate dal CSLP già a ottobre del 2021, è stato a lungo ritardato attendendo che la legge 29 12 2021 n. 233 (di conversione del dl 6 11 2021 n. 152 recante disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza – PNRR e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose) modificasse l’art 6 del d.l. 76/2020 introducendo il comma 7 bis, che ha disposto che “ In ogni caso, i compensi dei componenti del collegio consultivo tecnico, determinati ai sensi del comma 7, non possono complessivamente superare:
a) in caso di collegio consultivo tecnico composto da tre componenti, l'importo corrispondente allo 0,5 per cento del valore dell'appalto, per gli appalti di valore non superiore a 50 milioni di euro; tale percentuale e' ridotta allo 0,25 per cento per la parte eccedente i 50 milioni di euro e fino a 100 milioni di euro e allo 0,15 per cento per la parte eccedente i 100 milioni di euro;
b) in caso di collegio consultivo tecnico composto da cinque componenti, l'importo corrispondente allo 0,8 per cento del valore dell'appalto, per gli appalti di valore non superiore a 50 milioni di euro; tale percentuale e' ridotta allo 0,4 per cento per la parte eccedente i 50 milioni di euro e fino a 100 milioni di euro e allo 0,25 per cento per la parte eccedente i 100 milioni di euro”.
All’atto pratico, ciò ha implicato la riduzione di circa due terzi del compenso stimabile in base al testo originario delle linee guida, che avevano previsto e continuano a prevedere che il compenso debba essere composto da una parte fissa proporzionata al valore dell’opera e da una parte variabile in ragione della quantità e dell’attività concretamente svolta con il limite che il compenso complessivamente riconosciuto a ciascun componente non può comunque superare il triplo della parte fissa (cfr. par. 7.2. linee guida). Soprattutto, ha implicato il completo azzeramento del corrispettivo che dovrebbe esser dovuto per la parte variabile, che dovrebbe cioè dipendere dalla qualità e quantità delle prestazioni effettivamente rese dal collegio, dal momento che, nella generalità dei casi, il tetto così imposto implica che la sola parte fissa già consumi il massimo della somma disponibile. Il corrispettivo è stato così reso completamente indifferente rispetto alla durata dell’appalto e all’impegno concretamente richiesto per qualità e quantità delle prestazioni rese. A dispetto della chiara previsione recata dal comma 7 dell’art 6 del d.l. 76/2020 secondo la quale “i componenti del collegio consultivo tecnico hanno diritto a un compenso a carico delle parti e proporzionato al valore dell’opera, al numero, alla qualità e alla tempestività delle determinazioni assunte”. Disincentivare l’assunzione dell’impegno e delle responsabilità connesse all’esercizio della funzione non pare in linea con gli obbiettivi che ci si prefigge di raggiungere attraverso l’istituto.
Un secondo fattore di rischio per il raggiungimento dell’obbiettivo perseguito dal CCT può derivare da un approccio manifestamente superficiale all’istituto da parte della giurisprudenza, specie se questa si mostra non sufficientemente preparata e poco incline a confrontarsi con il carattere innovativo della figura come in precedenza delineato e ricostruito.
Già si è detto della (non necessaria e) distratta lettura delle norme primarie nel caso si debba procedere alla risoluzione del contratto “per qualsiasi motivo” da parte della Sezione Quinta del Consiglio di Stato (sent. 4650/2022). Ad essa si può aggiungere la mancata comprensione delle ragioni che hanno indotto le linee guida a dettare criteri restrittivi per la nomina dei presidenti dei CCT, manifestata dal TAR Lazio con l’ord.za 2585 del 19 aprile 2022, che ha censurato le linee guida nella parte in cui determinano “la impossibilità per gli avvocati del libero Foro di essere nominati Presidenti di istituendi Collegi”. La “esperienza e qualificazione professionale adeguata alla tipologia dell’opera” e la “comprovata esperienza nel settore degli appalti delle concessioni e degli investimenti pubblici” sono requisiti richiesti non dalle linee guida, ma dalla stessa fonte primaria (l’art 6 del d.l. 76/2020) che ne ha poi demandato la declinazione in concreto alle linee guida. La limitazione operata dalle linee guida, all’accesso alla funzione di presidente (non anche di componente) del CCT, non ha interessato solo la categoria professionale degli avvocati, ma tutte le categorie astrattamente abilitate dalla norma primaria: “ingegneri, architetti, giuristi ed economisti”. Per nessuna di tali professioni la semplice iscrizione all’albo consente di assumere l’incarico in seno ad un CCT e rimane pertanto difficile comprendere perché ciò possa essere invece essere consentito ad un avvocato che di fatto si è magari specializzato in diritto di famiglia o altra materia che poco o nulla abbia a che fare con la materia delle opere pubbliche. Questa e non altra sembrerebbe la conclusione raggiunta dal TAR “a seguito di approfondita riflessione (assumendo che) non risulta, prima facie, espressione di un corretto e ragionevole esercizio della discrezionalità riconosciuta … in relazione all’individuazione dei requisiti professionali del Presidente dell’anzidetto Collegio”, ritenendo irragionevole la mancata equiparazione della categoria degli avvocati del libero foro a quella dei “dirigenti di stazioni appaltanti con personalità giuridica di diritto privato soggette all’applicazione del codice dei contratti pubblici” senza rendersi conto che per quest’ultima è assolutamente ragionevole presumere la richiesta esperienza nel settore degli appalti e delle concessioni regolate dal codice dei contratti pubblici. Insomma, non si può presiedere un CCT se non si ha specifica e comprovata esperienza professionale in materia di appalti pubblici, ma la pronuncia sembra essere di diverso avviso.
La normativa speciale per il P.N.R.R. ha dunque posto le premesse per introdurre nel nostro ordinamento un meccanismo di mediazione e conciliazione destinato ad operare in ambito pubblicistico, che avrebbe lo scopo di tutelare l’interesse specifico alla realizzazione dell’opera a regola d’arte e nei tempi programmati, componendo sul nascere i conflitti tra operatore economico e stazione appaltante. Anche la legge delega per il nuovo codice dei contratti pubblici continua a muoversi su questa linea, dal momento che ha esplicitamente inserito tra i principi e criteri direttivi “l’estensione e il rafforzamento dei metodi di risoluzione delle controversie alternativi al rimedio giurisdizionale, anche in fase di esecuzione del contratto”. L’estensione e il rafforzamento delle adrin materia di contratti pubblici passa dunque per l’esperienza del CCT, ma è evidente che se si vuole che l’istituto svolga efficacemente la sua missione bisogna crederci e valorizzarlo, e non disincentivarlo e banalizzarlo. Altrimenti è meglio lasciar perdere, perché si aumenterebbe soltanto la confusione già esistente e si aggraverebbero inutilmente le procedure.
Riferimenti bibliografici
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[i] Non si tratta di una novità assoluta. Dando attuazione alla legge delega del codice dei contratti pubblici (l. 28 gennaio 2016, n. 11), che all’art. 1, comma 1, lett. aaa) aveva previsto tra i principi e i criteri direttivi specifici la “razionalizzazione dei metodi di risoluzione delle controversie alternativi al rimedio giurisdizionale, anche in materia di esecuzione del contratto,…” l’istituto era stato già introdotto dall’art. 207 del codice dei contratti pubblici come istituto precontenzioso di carattere facoltativo “con funzioni di assistenza per la rapida risoluzione delle dispute di ogni natura…”.
Nel parere reso dalla Commissione speciale nell’adunanza del 21 marzo 2016, n. 855 sullo schema di decreto legislativo poi divenuto il d.lgs. n. 50/2016, il Consiglio di Stato aveva però sollevato più di un dubbio sulla figura, soprattutto in ragione della mancata definizione dei rapporti con gli altri rimedi precontenziosi già esistenti, e ne aveva proposto la soppressione.
Le osservazioni del Consiglio di Stato non erano state recepite dal Governo, ma l’istituto veniva soppresso dal successivo decreto correttivo (l’art. 207 del d.lgs. n. 50/2016 viene infatti abrogato dall’art. 121, comma 1, del d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56).
L’istituto rinasce due anni dopo ad opera del decreto c.d. sblocca cantieri. L’art. 1, commi da 11 a 14, della l. 14 giugno 2019, n. 55, di conversione, con modificazioni, del d.l. 18 aprile 2019, n. 32, ne prevede la costituzione facoltativa su accordo delle parti, con le medesime funzioni di cui al codice dei contratti pubblici, ma in via temporanea, ossia fino alla data di entrata in vigore del regolamento unico recante disposizioni di esecuzione, attuazione e integrazione del codice dei contratti pubblici, di cui all’art. 216, comma 27-octies, del codice.
Differentemente da quanto originariamente stabilito dall’art. 207, comma 6 del d lga 50/2016, il quale disponeva che “se le parti accettano la soluzione offerta dal collegio consultivo…l’accordo sottoscritto vale come transazione”, il decreto sblocca cantieri prevedeva che “L'eventuale accordo delle parti che accolga la proposta di soluzione indicata dal collegio consultivo non ha natura transattiva, salva diversa volontà delle parti stesse” (art. 1, comma 13, terzo periodo, del d.l. n. 32/2019).
Il decreto c.d. “semplificazioni” (d.l. 16 luglio 2020 n. 76, conv. in l. 11 settembre 2020, n. 120) ne ri-disciplina presupposti e funzioni, in via apparentemente soltanto temporanea e sperimentale (l’originario termine del 31 dicembre 2021 è stato prorogato fino al 30 giugno 2023)., negli articoli 5 e 6.
[ii] Sotto questo profilo, il riferimento è al recente intervento operato con il d.l. 7 luglio 2022, n. 85 (Disposizioni urgenti in materia di concessioni e infrastrutture autostradali e per l'accelerazione dei giudizi amministrativi relativi a opere o interventi finanziati con il Piano nazionale di ripresa e resilienza), il quale all’art. 3, rubricato “Accelerazione dei giudizi amministrativi in materia di PNRR”, detta le seguenti disposizioni:
“1. Al fine di consentire il rispetto dei termini previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), qualora risulti anche sulla base di quanto rappresentato dalle amministrazioni o dalle altre parti del giudizio che il ricorso ha ad oggetto qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR, in caso di accoglimento della istanza cautelare, il tribunale amministrativo regionale, con la medesima ordinanza, fissa la data di discussione del merito alla prima udienza successiva alla scadenza del termine di trenta giorni dalla data di deposito dell'ordinanza, disponendo altresi' il deposito dei documenti necessari e l'acquisizione delle eventuali altre prove occorrenti. In caso di rigetto dell'istanza cautelare da parte del tribunale amministrativo regionale, ove il Consiglio di Stato riformi l'ordinanza di primo grado, la pronuncia di appello e' trasmessa al tribunale amministrativo regionale per la fissazione dell'udienza di merito. In tale ipotesi, si applica il primo periodo del presente comma e il termine di trenta giorni decorre dalla data di ricevimento dell'ordinanza da parte della segreteria del tribunale amministrativo regionale, che ne da' avviso alle parti. Nel caso in cui l'udienza di merito non si svolga entro i termini previsti dal presente comma, la misura cautelare perde efficacia, anche qualora sia diretta a determinare un nuovo esercizio del potere da parte della pubblica amministrazione.
2. Nella decisione cautelare e nel provvedimento di fissazione dell'udienza di merito, il giudice motiva espressamente sulla compatibilita' della misura e della data dell'udienza con il rispetto dei termini previsti dal PNRR.
3. Le pubbliche amministrazioni sono tenute a rappresentare che il ricorso ha ad oggetto una procedura amministrativa che riguarda interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR.
4. Sono parti necessarie dei giudizi disciplinati dal presente articolo le amministrazioni centrali titolari degli interventi previsti nel PNRR, ai sensi dell'articolo 1, comma 1, lettera l), del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2021, n. 109, per le quali si osservano le disposizioni delle leggi speciali che prescrivono la notificazione presso gli uffici dell'Avvocatura dello Stato. Si applica l'articolo 49 del codice del processo amministrativo, di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
5. Ai procedimenti disciplinati dal presente articolo si applicano, in ogni caso, gli articoli 119, secondo comma, e 120, nono comma, del codice del processo amministrativo, di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
6. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche nei giudizi di appello, revocazione e opposizione di terzo.
7. All'articolo 48, comma 4, del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2021, n. 109:
a) dopo le parole «di cui al comma 1» sono aggiunte le seguenti: «e nei giudizi che riguardano le procedure di progettazione, autorizzazione, approvazione e realizzazione delle opere finanziate in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR e relative attivita' di espropriazione, occupazione e di asservimento, nonche' in qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR»;
b) dopo le parole «al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.» sono aggiunte le seguenti: «In sede di pronuncia del provvedimento cautelare si tiene conto della coerenza della misura adottata con la realizzazione degli obiettivi e il rispetto dei tempi di attuazione del PNRR.».
8. Nelle ipotesi in cui, prima della data di entrata in vigore del presente decreto, la misura cautelare sia gia' stata concessa, qualora il ricorso abbia ad oggetto qualsiasi procedura amministrativa che riguardi opere o interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR, l'udienza per la discussione del merito e' anticipata d'ufficio entro il termine del comma 1. In tale ipotesi si applicano le ulteriori disposizioni contenute nel presente articolo”.
[iii] Cfr. Corte cost. 13 giugno 2018 n. 123: “Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, le ipotesi di arbitrato previste dalla legge sono illegittime solo se hanno carattere obbligatorio, e cioè impongono alle parti il ricorso all’arbitrato, senza riconoscere il diritto di ciascuna parte di adire l’autorità giudiziaria ordinaria (sentenze n. 221 del 2005, n. 325 del 1998, n. 381 del 1997, n. 152 e n. 54 del 1996, n. 232, n. 206 e n. 49 del 1994, n. 488 del 1991, n. 127 del 1977). In particolare, con la sentenza n. 127 del 1977, che ha dato avvio al predetto orientamento, questa Corte ha affermato il principio secondo cui la “fonte” dell’arbitrato non può essere individuata in una legge ordinaria o in una volontà autoritativa, «perché solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all’art. 24, primo comma, Cost.) può derogare al precetto contenuto nell’art. 102, primo comma”.
[iv] Ex multis v. Cass., Sez. III, 08 aprile 2020 n. 7759: “non basta richiamarsi alla natura privatistica degli strumenti negoziali adoperati per superare ogni possibile ostacolo all'utilizzabilità dell'arbitrato irrituale nei contratti della pubblica amministrazione. Certamente non v'è alcuna incompatibilità di principio tra la natura pubblica del contraente e la possibilità di un componimento negoziale delle controversie nascenti dal contratto stipulato dalla pubblica amministrazione. Ma resta il fatto che tale componimento, se derivante da un arbitrato irrituale, verrebbe ad essere affidato a soggetti (gli arbitri irrituali, appunto) individuati all'interno della medesima logica negoziale, in difetto qualsiasi procedimento legalmente predeterminato e perciò senza adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità della scelta. Quei medesimi soggetti sarebbero destinati poi ad operare secondo modalità parimenti non predefinite e non corredate delle suindicate garanzie di pubblicità e trasparenza”.
[v] V. ante, sub note 3 e 4.
[vi] In realtà una recente pronuncia del Consiglio di Stato (Sez. V, 7 giugno 2022 n. 4650) avrebbe escluso la possibilità di rendere anche soltanto il parere in caso di risoluzione per grave inadempimento. L’affermazione, non necessaria ai fini della decisione e contenuta in un obiter, appare però fondarsi unicamente sull’assunto apodittico che << la interpretazione preferibile … induce ad escludere la fattispecie della risoluzione per grave inadempimento dell’appaltatore … malgrado l’inciso “per qualsiasi motivo”>>. Non è dato sapere quale ragione o percorso argomentativo porti a ritenere “preferibile” una interpretazione che priva di rilevanza la chiara volontà del legislatore di richiedere il parere “nel caso in cui la prosecuzione dei lavori, per qualsiasi motivo, … non possa procedere con il soggetto designato … (e)… la stazione appaltante, previo parere del collegio consultivo tecnico, …. dichiara senza indugio , in deroga alla procedura di cui all’art 108, commi 3 e 4 del d lgs 18 4 2016 n. 50, la risoluzione del contratto …” (art. 5, c. 4, d.l. 76/2020). Più che a fronte di un’interpretazione contra legem, sembrerebbe di essere in presenza di una pura e semplice opzione volitiva, che in realtà non attribuisce alcun significato, nè si sforza minimamente d’interpretare l’inciso “per qualsiasi motivo”; senza nemmeno accorgersi che la procedura di cui all’art. 5 c. 4 è dettata in deroga proprio a quella altrimenti vigente per procedere alla risoluzione del contratto per inadempimento.
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