Maternità surrogata e status dei figli
Intervista di Rita Russo a Gabriella Luccioli, Marco Gattuso, Mauro Paladini e Stefania Stefanelli
Il tema della maternità surrogata e dello status dei figli nati con il ricorso a tale pratica crea due differenti ordini di questioni cui non è semplice dare una risposta netta in termini di pro e contro.
La prima questione è quella della liceità o meno della pratica, che consente molte risposte. Vi sono ordinamenti, come quello italiano, ove la pratica è illecita e considerata contraria all’ordine pubblico. Altre e più variegate risposte sono date da altri ordinamenti: si va dalla neutralità, negli Stati che non vietano ma neppure tutelano giuridicamente il ricorso a queste pratiche, alla legalità piena, ma con regolamentazione rigorosa, fino alla commercializzazione dell’attività. La Corte costituzionale italiana la stigmatizza in quanto “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. Se tutti tendiamo a dichiararci contrari a una pratica offensiva della dignità della donna, che ne sfrutti commercialmente la funzione procreativa, quid iuris se la pratica fosse invece diretta a realizzare i principi di solidarietà previsti dall’art. 2 Cost.?
La seconda questione è quale tutela accordare al
minore nato all’estero tramite ricorso a queste pratiche, ma da genitori
italiani che vivono abitualmente in Italia. Anche
in questo caso, se tutti siamo pronti ad indignarci per
la natura fortemente discriminatoria del “turismo procreativo” che
consente solo ai più abbienti di ottenere il sospirato bambino, non siamo
al tempo stesso ugualmente pronti a chiedere che il minore sia comunque
tutelato? E con che mezzo? È accettabile un mezzo, come l’adozione in casi
particolari, che pur tutelando il minore lo pone comunque in una
posizione diversa e meno garantita rispetto allo status pieno di figlio, per
esempio con riferimento alla parentela? E ancora, il diverso
trattamento giuridico della procreazione medicalmente assistita nei singoli
paesi europei è un ostacolo alla libera circolazione delle persone?
In che termini si può lavorare – come di recente ha promesso Ursula von der
Leyen- per il riconoscimento reciproco delle relazioni familiari nella Unione
Europea?
Rivolgiamo queste domande a: Gabriella Luccioli, Stefania Stefanelli, Marco Gattuso, Mauro Paladini
Gabriella Luccioli Come è noto, con ordinanza n. 8325 del 2020 la Corte di Cassazione ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione del riconoscimento in Italia del provvedimento straniero relativo allo stato di un minore nato all’ estero da maternità surrogata. Spetta ora alla Corte delle leggi pronunciare sulla conformità a Costituzione, ed in particolare, tra gli altri, all’ art. 117, comma 1, Cost., degli artt. 12, comma 6, della legge n. 40, 18 del d.p.r. n. 396/2000 e 64, comma 1, lett. g), della legge n. 218 /1995, della quale ha dubitato la Corte remittente.
Ho già espresso in questa Rivista (Il parere preventivo della CEDU e il diritto vivente italiano in materia di maternità surrogata un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto) le mie perplessità circa l’ipotizzato contrasto tra il diritto vivente ed il Parere emesso dalla Grande Camera della Corte EDU nell’ aprile 2020, al quale la Suprema Corte ha ancorato la sua eccezione di illegittimità costituzionale, e a quello scritto per esigenze di sintesi mi riporto. Indubbiamente la questione di costituzionalità proposta apre a nuove prospettive e a nuove problematiche, anche con riguardo al ruolo che possono rivestire nel nostro ordinamento i pareri resi dalla Grande Camera in base al Protocollo n. 16. Considerato peraltro che le domande che ora mi vengono poste sembrano voler prescindere dal giudizio in corso dinanzi alla Consulta, richiedendo una valutazione sulla maternità surrogata come fenomeno in sé e sulla tutela da accordare al minore nato all’ estero da tale pratica, mi limiterò a dare ad esse risposta senza tener conto dell’eccepita incostituzionalità e dei possibili esiti del relativo giudizio.
1. Come mi è capitato in più occasioni di scrivere, sono decisamente contraria alla maternità surrogata perché si tratta di una pratica che offende la dignità delle persone.
Se le parole hanno un senso, se vogliamo restituire un significato e un valore alla parola dignità, troppo spesso invocata solo per denunciarne la violazione, se non vogliamo ridurla ad un vessillo da sbandierare ad ogni buona occasione, ad una formula vuota, dobbiamo riacquisire la consapevolezza della rilevanza primaria di essa, del suo essere un supervalore dal quale discendono tutti i diritti fondamentali. La dignità afferisce all’eguale valore delle persone, soprattutto quando sono più esposte e vulnerabili, in ogni loro contesto di vita.
La sanzione penale comminata dell’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004 esprime con chiarezza (significativo è il suo incipit: Chiunque, in qualsiasi forma…, volto a punire chiunque svolga qualsiasi ruolo attivo nella realizzazione dell’ illecito) l’ elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento attribuisce a tale pratica e la funzione della norma di tutela di interessi di rilevanza costituzionale.
E non vi è retorica nel ritenere lesiva della dignità una pratica in forza della quale una donna, che per tutto il periodo della gravidanza è stata corpo di sè e del bambino, consegna la creatura messa al mondo ad un’altra donna per esaudire il desiderio altrimenti irrealizzabile di questa, e non il suo.
Non vi è retorica nel sostenere che la surrogacy riduce la donna ad incubatrice meccanica, a contenitore di una vita destinata a non appartenerle mai, privando la maternità del suo senso umano e trasformandola in mera tecnica riproduttiva.
Non è fondata l’accusa di dogmatismo nei confronti di tale posizione, atteso che la dignità non è un dogma, ma un valore che permea l’intero patto costituzionale.
La gestazione per altri lede la dignità della donna e la sua libertà anche perché durante la gravidanza essa è sottoposta ad una serie di limiti e di controlli sulla sua alimentazione, sul suo stile di vita, sulla sua astensione dal fumo e dall’ alcool, e subito dopo il parto è oggetto di limitazioni altrettanto pesanti causate dalla privazione dell’ allattamento e dalla rescissione immediata di ogni rapporto con il bambino.
Lede anche la dignità del bambino, che non solo è ridotto ad oggetto di scambio secondo una logica meramente proprietaria, a strumento passivo per la soddisfazione di quel desiderio di genitorialità di terze persone, non solo subisce l’interruzione in modo netto e definitivo del legame simbiotico con colei che lo ha generato, ma vede anche alterati alla nascita i suoi dati anagrafici e resta deprivato del diritto fondamentale di conoscere da adulto la propria identità biologica.
Rifiuto la distinzione tra surrogazione a scopo commerciale e surrogazione altruistica o solidale. A chi invoca l’idea del sacrificio, del gesto d’ amore, dell’oblazione in favore di soggetti meno fortunati, anche all’ interno della cerchia familiare, vorrei replicare che i bambini non solo non si vendono, ma neppure si donano e che nulla cambia né per la madre né per il bambino se la surrogazione avviene a titolo oneroso o gratuito. Si tratta in ogni caso di uno schiavismo mal camuffato dalle parole dell’ altruismo, come dono e amore, che dimentica che l’ atto oblativo e l’ amore non si rivolgono all’ individuo che sta per nascere, e tanto meno a chi lo metterà al mondo, ma solo ai committenti, i cui desideri si vorrebbe trasformare in diritti. Ed è chiaramente improponibile l’accostamento formulato da qualche commentatore alla donazione degli organi tra viventi.
Si sostiene da alcuni che la gestazione per altri costituisce espressione di libertà procreativa, in nome di quel neoliberismo culturale che postula la totale disponibilità da parte delle donne del proprio corpo. A tale posizione obbietto che qui viene in gioco la dignità nella sua dimensione oggettiva, ossia la dignità di tutte le donne, che non è rinunciabile, e che la contrattualizzazione della gravidanza e del parto, con la rinuncia preventiva ai diritti materni, è un fenomeno contrario alla libertà e alla dignità di tutte le donne.
Torna allora impellente il richiamo sopra formulato alla necessità di ritrovare il senso smarrito delle parole, sottraendoci al rischio di pensare che far nascere un bambino con la surrogata sia un gesto di libertà e di progresso, mentre il rifiutare una pratica siffatta sia segno di bigottismo reazionario.
2. La seconda domanda, relativa allo status del bambino nato all’ estero da maternità surrogata commissionata da una coppia di italiani, pone una questione indubbiamente delicata, che coinvolge la sensibilità e interpella la coscienza dell’interprete.
Nell’estrema sintesi imposta in questa sede osservo che la soluzione del quesito va ancorata a plurime e convergenti considerazioni: la filiazione è uno status che si fonda sulla sussistenza di determinate condizioni di legge, e la sua fonte non può avere natura negoziale; l’interesse del minore va valutato sempre in concreto, e non in astratto; è arbitrario ed illogico conferire alla mera trascrizione in Italia dell’atto di nascita ottenuto all’ estero l’ intrinseca capacità di realizzare in concreto il miglior interesse del minore; ancora, addurre l’interesse superiore del minore come controlimite nella valutazione del contrasto con l’ ordine pubblico o come canone interpretativo del concetto stesso di ordine pubblico, così da attribuirgli una funzione integratrice e di conformazione di esso, vuol dire seguire una linea di pensiero errata in diritto. Come ha ricordato la sentenza delle Sezioni Unite n. 12193 del 2019, la tutela dell’interesse superiore del minore, da identificare - in tesi - nella acquisizione o conservazione dello status già conseguito all’ estero, non può considerarsi prevalente rispetto ad una violazione dell’ordine pubblico internazionale, né comunque condizionante la portata di tale concetto, così da porre sostanzialmente nel nulla la sua efficacia interdittiva. Ed invero l’interesse del minore, pur prevalente rispetto ad altri interessi, può costituire oggetto di contemperamento con altri valori considerati essenziali e irrinunciabili dall’ordinamento, la cui considerazione può ben incidere sull’ individuazione delle modalità più opportune da adottare per la sua realizzazione: in alcuni casi detta comparazione è svolta direttamente dal legislatore, in altri è rimessa al giudice del merito, chiamato a tener conto delle peculiarità della vicenda al suo esame. Nella specie è stato il legislatore ad operare in via generale tale bilanciamento, escludendo con la previsione dell’illecito penale di cui all’art.12, comma 6, della legge n. 40 la possibilità di dare pieno riconoscimento giuridico al rapporto tra il minore nato da surrogazione ed il soggetto committente a lui non legato da alcun rapporto genetico. In presenza di una violazione di quel disposto (pur non integrante reato ove commessa in uno Stato in cui la pratica in discorso è consentita) l’interesse del minore, cui i giudici nazionali sono sempre tenuti ad aver riguardo, deve trovare altre strade di tutela, che lascino integra la portata del divieto penale e non si risolvano in un suo aggiramento.
Nel nostro ordinamento lo strumento legale di tutela è offerto dall’ adozione in casi particolari, come clausola di chiusura del sistema, che pur attribuendo al bambino una posizione meno garantita rispetto allo status di figlio affida al controllo del giudice la sussistenza dei requisiti per la costituzione di un legame giuridico con il genitore di intenzione non biologico, evitando quell’automatismo chiaramente incompatibile con la valutazione in concreto dell’interesse del minore.
Non credo infine che l’ auspicio formulato di recente dalla presidente Ursula von der Leyen che gli Stati riconoscano tutti i tipi di famiglia e che l’ essere genitore in un Paese comporti essere genitore in ogni altro Paese possa essere declinato in direzione di una apertura generalizzata alla gestazione per altri: al contrario, considerato che, come ricorda il parere della Grande Camera della Corte Edu del 10 aprile 2019, ben 25 Stati, tra quelli che sono parti della Convenzione, vietano ogni forma di maternità surrogata, che lo stesso Parlamento Europeo, con la Risoluzione del 17 dicembre 2015, ha condannato la pratica in discorso in quanto compromette la dignità umana della donna, dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce, che è in atto a livello mondiale una seria riduzione dei margini di operatività della surrogacy, sembra lecito auspicare che l’ armonizzazione si realizzi nella direzione opposta, nel senso cioè di una esclusione da tutti gli ordinamenti di una pratica che, in quanto offensiva della dignità dell’ essere umano, è incompatibile con ogni sistema giuridico fondato sul valore della persona e della sua dignità. E non è un caso che da molti movimenti di opinione, non solo in Italia, si invochi il bando universale della gestazione per altri.
Stefania Stefanelli I principi enunciati dalle S.U. laddove, sulla base dei limiti previsti dalla normativa interna, indicano nell’adozione ex art. 44, comma 1, lett. d), l. n. 184 del 1983, l’unico strumento compatibile con l’ordine pubblico e idoneo ad instaurare un legame giuridico tra il nato all’estero da gestazione per altri e il genitore intenzionale, sono tutt’altro che acquisiti. La stessa prima sezione della S.C. che aveva promosso l’intervento delle S.U. ha sollevato infatti, come noto, questione di legittimità costituzionale (Cass., ord. 29 aprile 2020, n. 8325), in quanto parrebbe violare il diritto fondamentale del minore ad acquisire lo stato di figlio verso i partecipanti al progetto procreativo, non assicurandogli una tutela effettiva. Di conseguenza, l’ordinanza denuncia il contrasto con gli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU e all’art. 24 della Carta di Nizza.
La rilevanza della questione è evidente alla luce del profondo mutamento che ha interessato, negli ultimi anni, il contesto socio-culturale, di cui è testimonianza nell’evoluzione normativa, e la circolazione delle persone all’interno dello spazio comune europeo, anche allo scopo di realizzare all’estero un progetto di genitorialità attraverso tecniche medicali proibite dal diritto domestico, ha costretto diverse Corti nazionali ad occuparsi del dilemma di riconoscere o meno al nato all’estero, attraverso la gestazione per altri vietata dall’ordinamento nazionale, lo status di figlio dei genitori intenzionali e, in sostanza, l’adempimento dei doveri che, in forza di tale statuto, potrebbe pretendere da chi ha deciso di metterlo al mondo (Corte federale tedesca Corte federale 5 settembre 2018 XII-ZB 224/17; Corte di cassazione francese 6 luglio 2017; Corte EDU, G.C., Avis consultif 10 aprile 2019; Corte di cassazione francese, Ass. Pl., 4 ottobre 2019, resa nel noto caso Mennesson c. Francia, la quale ha ritenuto che una procedura di adozione sarebbe da privilegiare in astratto, in quanto permette ai giudici nazionali di verificare la validità del titolo estero e di esaminare le circostanze particolari in cui si trova il fanciullo, e tuttavia ha disposto la trascrizione dell’atto straniero, in quanto, nel caso concreto, l’adozione avrebbe arrecato una lesione sproporzionata alla vita privata dei figli, nati da più di 18 anni, i cui atti di nascita erano stati formati legalmente all’estero, e che non potrebbero prendere l’iniziativa di una adozione, cui sono legittimati solo i genitori).
Nell’ordinamento italiano, l’accertamento della filiazione prescinde dalla rigida dicotomia – che per decenni ha costituito il fondamento del sistema e che viene richiamata anche dalle S.U. – tra filiazione biologica, basata sulla discendenza ingenita, e filiazione adottiva, incentrata sull’affettività e sulla necessità per il minore di crescere in un ambiente familiare sano. Oggi, infatti, la verità biologica, sebbene sia il preminente, non è più il criterio esclusivo per l’accertamento diretto della filiazione, alla luce del modificato quadro normativo e dei fondamentali arresti del giudice delle leggi e di quello di legittimità.
Sotto il profilo delle fonti, da un lato, l’introduzione della l. n. 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita (artt. 8 e 9) ha dato ingresso alla possibilità di costituire in via diretta lo stato di figlio a prescindere dalla trasmissione di geni anche al di fuori delle ipotesi di adozione, e, dall’altro, la “scelta” nella costituzione dello stato di filiazione è attribuita al genitore soltanto in prima battuta (e soprattutto alla madre, attraverso l’esercizio del diritto all’anonimato o, se coniugata, attraverso la possibilità di dichiarare il figlio come matrimoniale o meno, impedendo in quest’ultimo caso il funzionamento del sistema di matrimonialità di cui agli artt. 231 e 232 c.c.), mentre è soltanto il figlio che, a tutela della sua affettività e della propria identità, rimane l’unico legittimato senza limiti di tempo all’accertamento della verità biologica, diretto o indiretto, ai fini del mantenimento.
Sul piano ermeneutico, il ruolo della Consulta ha condotto nell’ultimo lustro al riconoscimento di un diritto alla genitorialità a tutto tondo, sia nella prospettiva filiale che in quella genitoriale, fondato sulla tutela del benessere e dell’identità personale, espressione generale del diritto all’integrità psico-fisica dell’individuo, diritto che trova esplicazione in talune precipue direzioni: a) conoscenza delle origini e ricerca della verità biologica; b) sviluppo della propria personalità, che nei confronti del genitore si risolve anche nella possibilità di avere una discendenza biologica o affettiva a prescindere dalla effettiva capacità di generare e dall’instaurazione di legami giuridici con chi, eventualmente, ha scelto di condividerne il progetto procreativo.
Nel richiamato contesto, sembra fondato il dubbio che l’interpretazione delle citate norme di legge fornita dalle S.U., nella parte in cui non prevede che il limite dell’ordine pubblico derivante da applicazione di norme di diritto interno, contenenti limitazioni dovute a discrezionalità del legislatore (che abbiamo definito ordine pubblico discrezionale), non possa comprimere diritti fondamentali del figlio, quale quello a vedersi riconosciuto lo status in maniera effettiva ed immediata (integrante invece l’ordine pubblico costituzionale: cfr. A. Sassi, S. Stefanelli, Nascita da gestazione per altri e diritto allo status, in Diritto e processo, 2019, 481 ss., http://rivistadirittoeprocesso.eu/upload/Articoli/16-OV-SASSI-STEFANELLI.pdf).
Ciò in quanto nell’assetto costituzionale è chiara la distinzione tra piano delle sanzioni, anche penali, conseguenti alla violazione di divieti quali quello di surrogazione di maternità, ed effetti sullo status e sui diritti dei figli, e di questa distinzione è intessuta la giurisprudenza costituzionale.
Da ultimo si rammenti la dichiarata incostituzionalità dell’automatica applicazione della sanzione accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale in caso di sottrazione internazionale di minori, ex art. 574-bis, terzo comma, c.p., e l’introdotta necessità di una valutazione giudiziale in concreto e attualizzata della rispondenza di detto provvedimento all’interesse del minore (Corte cost. 29 maggio 2020, n. 102). Altrettanto era stato deciso rispetto all’art. 569 c.p., in relazione agli artt. 566 e 567 c.p., che in caso di alterazione e soppressione di stato disponeva l’automatica perdita della responsabilità genitoriale (Corte cost. 15 febbraio 2012 n. 31, Corte cost. 23 gennaio 2013, n. 7). Rileva soprattutto ricordare Corte cost. 28 novembre 2002, n. 494, resa proprio con riguardo alla incostituzionalità della preclusione dell’accertamento giudiziale della genitorialità conseguente ad una condotta potenzialmente integrante il reato di incesto, a garanzia dell’effettiva realizzazione del diritto fondamentale del figlio allo status, che rileva anche in funzione della realizzazione di quello che, nella Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e nell’ dell’art. 24 C.d.f.U.E. ha la sfumatura dell’«interesse migliore» del figlio, anche alla effettività e rapidità della tutela da garantirgli, rispetto all’assunzione della responsabilità da parte del genitore intenzionale. Rispetto ai figli di genitori “essi sì incestuosi” era dunque incostituzionale escludere l’azione diretta a realizzare, a prescindere e perfino in contrasto con l’intenzione dei genitori, i diritti presidiati dall’art. 30 Cost., e il vaglio giudiziale introdotto dalla riforma del 2012 rispetto alla volontaria assunzione di responsabilità dei genitori, con il riconoscimento, è funzionale esclusivamente alla realizzazione, in concreto, dell’interesse del minore.
Riservare oggi ai nati all’estero da gestazione per altri unicamente la strada dell’adozione in casi particolari finisce dunque per creare una categoria di figli “di serie b”, i quali potranno ottenere cura, educazione, istruzione e mantenimento dal genitore intenzionale, ma non legato da vincolo genetico, che ne ha voluto la nascita, solo se costui o costei decida di proporre domanda ex art. 44 ss. l. adozione, e subordinatamente all’altrettanto discrezionale decisione del genitore biologico e, egli sì, legale, di prestare l’assenso all’adozione, come ha evidenziato anche la questione di legittimità costituzionale sollevata Tribunale di Padova con ordinanza del 3 novembre 2019.
E, anche ove si verifichino tali condizioni, l’adozione in casi particolari non attribuisce lo stesso status che deriverebbe invece, con effetto immediato, dal riconoscimento dell’atto di nascita estero o dalla formazione in Italia di uno da due madri, ma uno analogo, che non costituisce il vincolo di parentela con la famiglia dell’adottante (in quanto l’art. 55 l. cit. richiama art. 300, 304 c.c. sull’adozione di maggiorenni), del che è testimonianza anche nella disciplina del cognome; dipende, anche nei tempi, dall’accertamento giudiziale della realizzazione dell’interesse del minore (art. 57), in quanto tutela la stabilità affettiva; ed è revocabile per attentato alla vita o reati gravi (artt. 51 s.)
Ancora in considerazione della distinzione tra sanzioni e status del nato, non rileva che la nascita sia avvenuta grazie l’applicazione di tecniche vietate e sanzionate dalla l. n. 40/2004, ancora mente della più recente giurisprudenza di legittimità, in tema di applicazione della garanzia offerta al nato dagli artt. 8 e 9 della l. 40/2004, dettati a questo scopo nella vigenza del divieto di procreazione eterologa: «è chiaro, infatti, che qualsivoglia considerazione riguardante la valutazione in termini di illiceità/illegittimità, in Italia, della tecnica di p.m.a. in precedenza specificamente richiamata, oltre che, eventualmente, delle condotte di coloro che ne consentono l'accesso o l'applicazione, non potrebbe certamente riflettersi, in negativo, sul nato e sull'intero complesso dei diritti a lui riconoscibili. In altre parole, la circostanza che si sia fatto ricorso all'estero a p.m.a. non espressamente disciplinata (o addirittura non consentita) nel nostro ordinamento non esclude, ma anzi impone, nel preminente interesse del nato, l'applicazione di tutte le disposizioni che riguardano lo stato del figlio venuto al mondo all'esito di tale percorso» (Cass. 15 maggio 2019, n. 13000).
Neppure può dirsi che il principio di discendenza genetica tuteli in ogni caso la dignità della donna e le relazioni umane, secondo gli auspici della Corte Costituzionale, ove si osservi che, in applicazione di quel principio, la nascita attraverso gestazione per altri di un bambino nato dall’incontro in vitro tra il gamete maschile e quello femminile dei genitori intenzionali finirebbe per rendere incontestabile il titolo della filiazione, obliterando completamente il ruolo fondamentale della donna che ha condotto la gravidanza.
Marco Gattuso Le modalità di questo dialogo mi sollevano, credo, da una dettagliata ricostruzione sistematica (per cui mi sia consentito rinviare a GATTUSO, Dignità della donna, qualità delle relazioni familiari e identità personale del bambino in Questione Giustizia, 2/2019), sicché proverò ad affrontare in modo conciso i due temi che sono stati posti nella stimolante introduzione a questo forum, riservando qualche precisazione nella replica. Posto che è pacifico che la dignità della donna, la sua salute e la sua autodeterminazione, così come il benessere psicofisico dei bambini, debbono essere al centro di ogni ragionamento del giudice, bisogna chiedersi, a mio avviso, se, al di là dei buoni propositi, l’attuale approdo del legislatore e della giurisprudenza italiana centri l’obiettivo o se, piuttosto, se ne stia progressivamente allontanando.
1. Riguardo alla scelta proibizionista del nostro legislatore e alle possibili alternative, pare legittimo interrogarsi se siano più tutelanti, per le donne coinvolte e per i nati, quegli ordinamenti, come quello canadese, inglese, californiano o israeliano, che contemplano regole a protezione dei soggetti deboli, oppure se lo sia il nostro che, disponendo un divieto assoluto, sconta il fenomeno di centinaia, negli anni migliaia, di cittadine e cittadini italiani che si recano anche in paesi - del secondo o del terzo mondo - dove le condizioni di protezione delle donne ci sono spesso ignote, quando non sono notoriamente deteriori.
Non è questa la sede per una ricostruzione dei diversi strumenti giuridici offerti nei paesi di common law dove la surrogacy è ammessa, ma ciò che rivela, a mio avviso, è che alla regolamentazione possono corrispondere livelli più o meno soddisfacenti di protezione, mentre il divieto assoluto conduce, in buona sostanza, a un atteggiamento di disinteresse rispetto al concreto svolgimento del percorso riproduttivo all’estero e al concreto dipanarsi delle relazioni fra i soggetti coinvolti: una gravidanza per un’altra donna, che per ragioni di salute non è in grado di mettere al mondo il proprio bambino, o per una coppia dello stesso sesso, realizzata nel Regno Unito o in Canada nel pieno rispetto della legge e con relazioni fra i genitori, la gestante e il bambino che spesso si consolidano e restano salde per tutta una vita, incontra nel nostro ordinamento la stessa identica reazione giuridica riservata a vicende in cui emergono pericoli di sfruttamento, in paesi che non offrono alcuna garanzia o addirittura in violazione delle stesse leggi locali.
Sono convinto, allora, che in questo come in altri settori, il diritto non possa rinunciare alla sua funzione regolatrice, che la sua essenza sia nella difficile ricerca di una soluzione che contemperi libertà e esigenze di protezione, senza facili scappatoie nell’illusione che basti proclamare divieti assoluti per risolvere problemi complessi, perché i divieti sovente mettono i problemi sotto il tappeto oppure semplicemente li respingono, come nel nostro caso, fuori dai confini nazionali. Sono convinto che occorra invece “sporcarsi le mani”, tentando di dialogare, anche in modo serrato, e di immaginare quali siano le condizioni e i presupposti che riteniamo indispensabili per una piena protezione dei soggetti coinvolti, partendo dallo studio dei modelli giuridici esteri (che hanno superato l’esame di corti con un approccio non superficiale ai diritti umani) e delle ricerche scientifiche condotte ormai da decenni nel Regno unito e negli Stati uniti (in una recente rassegna condotta su ben 55 studi scientifici sulla salute psico-fisica delle gestanti, dei genitori e dei bambini, in verità in molti ormai adulti, non sono emerse differenze significative in aspetti sia medici sia psicologici fra surrogacy e concepimento naturale o assistito: cfr. CARONE, In origine è il dono, Il Saggiatore, Milano, 2016, p. 97) e, soprattutto, muovendo dall’ascolto di chi ha vissuto questa esperienza, innanzitutto delle donne che hanno portato in grembo bambini di altre donne (segnalo le belle interviste raccolte in MARCHI, Mio, tuo, suo, loro, Donne che partoriscono per altri, 2017, Fandango libri, che ci parlano della dignità di una scelta, che non è necessario condividere, ma capire). Non si tratta di negare la relazione straordinaria che lega una donna al bambino che porta in grembo. Si tratta di dare valore a questa relazione tenendo conto della volontà della donna, delle sue scelte, del suo benessere e del benessere del bambino. È mia convinzione che non ci sia dignità senza autodeterminazione: il tema non è quello di salvare le donne dalle loro scelte, ma di assicurare che le loro scelte siano libere da condizionamenti.
La distinzione fra concezione soggettiva e oggettiva di dignità non mi convince: anche chi assume la necessità di una nozione oggettiva, che consentirebbe di imporre un divieto anche a fronte di scelte consapevoli, muove sovente dalla soggettiva convinzione che non sia possibile che una donna possa scegliere liberamente di aiutare un’altra donna a mettere al mondo il suo bambino. Si tratta, tuttavia, di una convinzione smentita dai fatti e da una fondata conoscenza delle condizioni in cui si svolge una relazione di surrogacy nei paesi, a noi affini, in cui è ammessa. È spesso in gioco, qui, un pregiudizio soggettivo (“siccome non lo farei mai, non posso credere che altre lo vogliano fare”), inconsapevolmente mascherato, come capita sovente, da una parvenza di oggettività (con il richiamo alla natura, alla tradizione, alla coscienza sociale, al comune sentire). Come scrissero i giudici californiani nella nota sentenza che quasi trent’anni fa riconobbe la legittimità della surrogacy, per una donna libera da condizionamenti il divieto di portare avanti una gravidanza per un’altra donna rappresenta il «retaggio di quella impostazione giuridica e culturale che per secoli ha impedito alle donne di esercitare gli stessi diritti economici e di assumere gli stessi status degli uomini» (Corte suprema della California, Johnson c. Calvert, 20/5/1993).
Pur non negando i rischi e la difficoltà di un corretto equilibrio fra libertà e protezione, l’affermazione, in un obiter dictum della nostra Corte costituzionale, che la maternità surrogata «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane» (sentenza n. 272/2017) andrebbe dunque corretta, seguendo, invece, la più prudente affermazione della Corte di Strasburgo per cui vanno evidenziati i «rischi di abuso che comporta la GPA» (parere - Advisory Opinion - del 10/4/2019, par. 41), così facendo intendere che l’abuso non è in re ipsa, ma eventuale.
Dunque, questa realtà richiede una disciplina che preveda condizioni e presupposti certi, una vigilanza e un supporto continuo lungo tutto il percorso, la definizione giuridica e la protezione delle relazioni familiari nuove e non tradizionali che inevitabilmente si instaurano (fra i genitori e la gestante, fra questa e il bambino che nascerà e che è poi nato). In questo senso, com’è forse noto, abbiamo elaborato una “proposta di legge”, assai dettagliata nel prevedere un insieme di regole, certo non una proposta “chiusa” da condividere, ma una occasione, uno stimolo, per aprire finalmente un dialogo sui concreti e irrinunciabili presupposti giuridici dell’autodeterminazione (GATTUSO, SCHILLACI Uno schema di disegno di legge per la regolamentazione della surrogazione di maternità, in Articolo29, 2018).
2. Venendo al secondo ordine di questioni (cosa fare, in costanza del divieto interno, dei tanti bambini nati all’estero), credo che sia necessario trovare una risposta a un interrogativo tutto sommato semplice: è consentito, nel nostro ordinamento, privare il bambino di uno status e dei conseguenti diritti, non per il suo interesse ma a fini di prevenzione generale? L’obiettivo proclamato di combattere il fenomeno della surrogacy, anche in Paesi a noi affini che la consentono e regolano, è legittimamente perseguibile partendo da un approccio che punisce i bambini nati in questo modo?
La Corte costituzionale, ai tempi del quesito sullo status dei figli incestuosi, aveva già sciolto, a me pare, il nodo, dando una risposta ragionevole: «l’adozione di misure sanzionatorie … che coinvolga soggetti totalmente privi di responsabilità – come sono i figli di genitori incestuosi, meri portatori delle conseguenze del comportamento dei loro genitori e designati dalla sorte a essere involontariamente, con la loro stessa esistenza, segni di contraddizione dell’ordine familiare – non sarebbe giustificabile se non in base a una concezione "totalitaria" della famiglia» (sentenza n. 494/2002, § 6.1.). Parafrasando le Scritture (Deuteronomio 24.16; Ezechiele 18.20) potremmo dire, nel nostro caso, le colpe delle madri non ricadano sui figli, ma già il principio personalistico, che in fondo discende da quella tradizione e che informa la nostra Costituzione, preclude ogni strumentalizzazione della persona umana, men che meno, direi, dei bambini.
La soluzione italiana svela a mio avviso un approccio adultocentrico, in quanto è tutto teso a giudicare e “sanzionare” gli adulti, così scontando e ammettendo un esito negativo e stigmatizzante nei confronti dei bambini. Da questo punto di vista, a me pare che la soluzione italiana dell’adozione in casi particolari ex art. 44, lett. d) della L. adoz., patrocinata tanto dalla Consulta che dalle Sezioni unite, sia del tutto insoddisfacente. Tale adozione impone infatti l’accertamento di una relazione genitoriale di fatto consolidatasi in un tempo non breve (sicché non può essere proposta subito dopo la nascita) e necessita di una istanza proposta dallo stesso genitore intenzionale, mentre in sua carenza non è proponibile nell’esclusivo interesse del minore, sicché non appare affatto garantita, de iure condito, la «effectivité et la célérité» richiesti dalla Corte di Strasburgo nel menzionato parere del 10/4/2019. Non è un caso che la Cassazione francese, che aveva richiesto il parere della Cedu, avendolo letto ha ritenuto insufficiente l’adozione (che peraltro in Francia è piena), ammettendo la trascrizione dell’atto di nascita.
La dura reazione della giurisprudenza italiana non è imposta da alcuna disposizione di legge, posto che l’art. 12, VI comma L. 40/2004 nulla dice a proposito dello status dei nati, ma è motivata con una rivisitazione del concetto, per sua natura indeterminato, di ordine pubblico internazionale. Si tratta di una costruzione tutta giurisprudenziale, in questo caso in vistoso contrasto con l’interpretazione data alla stessa clausola dalle equivalenti corti tedesca e francese, le quali, pur in presenza di divieti interni analoghi al nostro e in un quadro di valori costituzionali identico al nostro, negano che il divieto interno possa avere nocive ripercussioni sui bambini [Bundesgerichtshof, 10/12/2014 e 5/9/2018; Cass. francese, 4/10/2019].
Fra gli effetti di tale approccio radicale delle nostre Sezioni unite, quello forse più paradossale è che un bambino europeo la cui famiglia debba trasferirsi in Italia, perde, giunto ai nostri confini, uno dei suoi genitori. Varcato il confine, sua mamma diviene un’estranea per il paese, il nostro, in cui dovrà vivere. Questa non potrà visitarlo in ospedale, parlare con gli insegnanti, prenderlo da scuola (salvo delega del padre). Quanto questo esito aiuti la sacrosanta difesa della dignità della donna e la verità delle relazioni umane, resta a mio avviso del tutto inspiegato.
Mi pare pure evidente il contrasto con il principio di libera circolazione dei cittadini europei, giustamente stigmatizzato dalla Presidente della Commissione europea Von der Leyen, con l’accorata dichiarazione, nel recente discorso avanti al Parlamento europeo, in favore del «mutuo riconoscimento delle relazioni familiari nell’U.E., perché se sei genitore in un paese, naturalmente sei genitore in ogni paese». Parole, quelle della democristiana presidente europea, che (seppure non riferite esplicitamente alla surrogacy, ma alla omogenitorialità in genere, che pure evidentemente la comprende) vanno ascoltate (il breve estratto video - 90 secondi - qui) perché segnalano con nettezza l’orizzonte dei comuni valori giuridici e umani dell’Unione.
Anche in seguito alla sollecitazione che ci viene dalle istituzioni europee, sarebbe allora utile, a mio avviso, riprendere il filo del dialogo giuridico, che meritoriamente questa Rivista promuove e sollecita, ripensando per un verso l’approccio delle Sezioni unite e provando per altro verso a individuare in concreto, in un confronto franco e serrato, con pazienza, quali sono a nostro avviso i presupposti, quali le condizioni, quali le regole, quali le forme di controllo e di vigilanza che riteniamo indispensabili perché le scelte di ogni donna siano veramente libere. Non c’è, infatti, dignità senza possibilità di scegliere.
Mauro Paladini La Presidente della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen, nel suo discorso sullo stato dell'Unione al Parlamento europeo, ha auspicato una “Unione dell'uguaglianza”, chiedendo il mutuo riconoscimento delle relazioni familiari tra i vari Paesi membri.
È difficile pensare che in questo auspicio fosse implicitamente contenuto il riferimento a un’eventuale diffusione del modello della c.d. GPA (gestazione per altri), considerato che il divieto di maternità surrogata è ancora prevalente in Europa, sicché una “Unione dell’uguaglianza” dovrebbe ragionevolmente condurre all’esportazione del modello sanzionatorio e non certo di quello permissivo. In Italia tale divieto è addirittura penalmente sanzionato, ma da più parti si sono sollevate voci critiche, fino al punto che la norma incriminatrice (art. 12, legge n. 40/2004) è ora stata rimessa dalla Corte di Cassazione (Ord. 29 aprile 2020 n. 8325) all’attenzione del giudice delle leggi, nella parte in cui – in combinato disposto con l’art. 18 d.p.r. n. 396/2000 e l’art. 65 co. 1° lett. g) L. n. 218/1995 – non consente, per contrasto con l’ordine pubblico italiano, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento, nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestazione per altri, del genitore d’intenzione non biologico, per asserito contrasto con gli artt. 2, 3, 30, 31, 117 co. 1° Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione 20 novembre 1989 delle Nazioni Unite sui diritti dei minori e dell’art. 24 della Carta di Nizza. Tuttavia, è noto come tale ordinanza di rimessione al Giudice delle leggi si collochi in un più ampio dibattito culturale e in un contesto di pronunciamenti dei supremi organi giurisdizionali italiani ed europei, spesso tra loro in contrasto.
Sul piano delle ragioni etiche, religiose e culturali, che hanno condotto la maggior parte degli Stati a sancire il divieto di maternità surrogata, registra un largo consenso il condivisibile argomento relativo alla necessità di evitare odiose speculazioni volte alla mercificazione del corpo della donna. In molti paesi poveri del mondo la surrogazione di maternità è praticata da donne in condizioni di assoluta indigenza, disposte a vendere le proprie capacità riproduttive soltanto per beneficiare di un corrispettivo in denaro. Della gravità del fenomeno hanno preso coscienza anche alcuni Stati stranieri nei quali la surrogazione di maternità aveva assunto dimensioni preoccupanti: ad es., il Parlamento Indiano, nell’agosto del 2019, ha finalmente vietato la pratica commerciale della maternità surrogata che, negli anni precedenti, aveva raggiunto un giro d’affari addirittura pari a 400 milioni di dollari. Ma, oltre all’aspetto della mercificazione del corpo umano – che ha indotto opportunamente, nel recente passato, la Corte Costituzionale (sent. 272/2017) a qualificare la surrogazione di maternità come una pratica offensiva della dignità della donna – il fenomeno ha dato luogo a vicende raccapriccianti, come il rifiuto del neonato da parte dei committenti a causa della presenza di malformazioni fisiche o in seguito alla rottura, medio tempore intervenuta, dell’unione di coppia: tutte vicende che dimostrano come, in questi casi, l’interesse del minore ceda il passo all’egoismo e al cinismo dei committenti che non ritengano di vedere soddisfatto il loro asserito “diritto ad avere un figlio” nelle modalità e con le caratteristiche che si erano prefissate.
Tuttavia, i sostenitori della liceità de iure condendo della maternità surrogata invocano il diverso (e apparentemente meno fragile) argomento della gestazione solidale e gratuita, prestata, ad esempio, da una sorella o da una madre per sopperire all’infertilità della donna parente. In realtà, anche tale argomento si pone in radicale contrapposizione col principio di dignità della persona – principio cardine della Costituzione italiana (art. 2), delle maggior parte delle costituzioni europee, oltre che delle Carte e Convenzioni sovranazionali – e smentisce che la surrogazione gratuita possa mai agganciarsi, sia pure latamente, al principio costituzionale di solidarietà. Anche nella surrogazione c.d. solidale, infatti, il corpo della donna è strumento di realizzazione di un interesse altrui e ben poco rileva che questo interesse appartenga a persona alla quale la gestante sia affettivamente legata, ove si consideri che l’accordo “negoziale” di surrogazione solidale verrebbe inevitabilmente a frustrare ogni legame biologico e affettivo tra la gestante e il nato. Considerato, infatti, che, nonostante l’estraneità dell’ovocita, appare scientificamente dimostrata l’instaurazione di una interazione biologica tra la gestante e il feto durante la gravidanza, la ritenuta liceità del contratto di maternità surrogata dovrebbe comunque ammettere la coercibilità dell’obbligazione di consegna del neonato: approdo giuridico che risulterebbe a dir poco censurabile in ordinamenti fondati sul valore primario della persona umana.
Se quelle in precedenza sintetizzate sono le ragioni principali che devono indurre a confermare l’illiceità della pratica della maternità surrogata, tuttavia, la sanzione penale contenuta nel nostro ordinamento non ha impedito il fenomeno del turismo riproduttivo e il conseguente problema dell’eventuale trascrivibilità dell’atto di nascita formato in un paese straniero in cui tale pratica sia lecita. In primo luogo, constate le dimensioni crescenti del fenomeno, un contenimento tanto indispensabile quanto urgente può derivare dall’approvazione del Disegno di legge n. 519 (presentato in Senato) per l’estensione del reato previsto dall’art. 12, comma 6, legge n. 40/2004 anche ai fatti commessi all’estero. Peraltro, ove il divieto risulti comunque violato, appare condivisibile quanto finora affermato dalla Corte Costituzionale (sent. n. 272/2017) e dalle Sezioni Unite (sent. n. 12193/2019), secondo cui, sia nel caso di atto di nascita formato all’estero sia a fronte di provvedimento giurisdizionale straniero attestante lo status, il riconoscimento interno del rapporto di filiazione tra committenti e figlio è impedito dal divieto della surrogazione di maternità, qualificabile alla stregua di principio di ordine pubblico, perché posto a presidio di valori fondamentali dell’ordinamento. Per impedire che, nonostante la violazione della norma penale, il prolungamento della relazione di fatto tra i committenti e il nato conduca al trauma del distacco e a un grave pregiudizio per l’interesse del minore, la stessa giurisprudenza sopra citata ha indicato la possibile via dell’adozione in casi particolari, che rischia tuttavia di trasformarsi – per effetto di un fraintendimento giurisprudenziale del requisito dell’impossibilità di affidamento preadottivo (art. 44, lett. D, legge n. 184/1983) – in una sorta di scorciatoia per l’instaurazione di relazioni di filiazione in assenza dei presupposti indicati dalla legge e, nel caso della surrogazione di maternità, addirittura in aperta violazione di precetti penali. Attendendo, quindi, il prossimo pronunciamento della Corte Costituzionale, si può auspicare che l’Unione dell’uguaglianza – invocata dalla Presidente Von Der Leyen – non alludesse alla diffusione in Europa di una pratica riproduttiva fondata sulla mercificazione e strumentalizzazione del corpo femminile e, perciò, giustamente respinta o sanzionata dalla maggior parte degli Stati.
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Ciascuno dei virtual discussant ha espresso la sua opinione senza sapere cosa avrebbero scritto gli altri: adesso però le opinioni sono sul tappeto e sono chiare e nette. La surrogacy divide le coscienze ed è pur vero che in uno Stato democratico non basta formulare un “divieto assoluto”, ma occorre spiegare le ragioni del divieto e le ragioni di chi ritiene che il divieto sia ormai obsoleto. Soltanto così può formarsi nella coscienza sociale un movimento di opinione che conduca a delle scelte democratiche: se le istanze sociali, che possono in ipotesi determinare il legislatore a cambiare orientamento, provengono solo da lobby più o meno agguerrite o più o meno potenti, il risultato sarà una legge che non rispecchia quel comune sentire che in un dato luogo e in un dato momento coagula il consenso intorno ai valori di cui si vuole che l’ordinamento si faccia portatore. Ecco perché la questione interessa tutti ed ecco perché il confronto ragionato e non per spot pubblicitari è necessario. Ciascuno dei discussant è stato quindi invitato, dopo la lettura delle opinioni altrui, ad una breve replica.
Gabriella Luccioli A me pare che questo breve scambio di idee riproponga in modo netto la questione cruciale se la maternità surrogata costituisca una pratica lesiva della dignità della gestante e di tutte le donne o vada intesa come legittima espressione di libertà procreativa della donna che intende mettere a disposizione il suo corpo e quello del nascituro per aderire ad un interesse altrui.
E’ evidente che coloro che, come chi scrive, sono convintamente schierati per la prima posizione fanno riferimento ad una nozione di dignità in senso oggettivo, che trova solido fondamento nel principio personalistico che informa la nostra Costituzione e che non giustifica le perplessità ventilate da Gattuso sulla duplice declinazione - soggettiva ed oggettiva - del concetto. Un esempio per tutti, tratto dalla giurisprudenza costituzionale: se nella nota sentenza n. 242 del 2019 la Consulta ha riconosciuto alle persone che si trovano in determinate e ben delineate condizioni il diritto di morire con dignità, così assumendo una accezione soggettiva del concetto, in quanto ha configurato un diritto del malato ormai esausto al rispetto della propria personale concezione della dignità e della scelta di liberarsi da sofferenze divenute intollerabili accelerando con l’ aiuto di altri la propria fine, nella sentenza di poco anteriore n. 141 del 2019 la stessa Corte, nell’ affermare la legittimità costituzionale delle disposizioni che puniscono il reclutamento e lo sfruttamento della prostituzione, perchè mirano a tutelare i diritti fondamentali delle persone vulnerabili e la dignità umana, ha recepito - e lo ha espressamente dichiarato - un concetto di dignità in termini oggettivi e assoluti, a prescindere dalla percezione che ne abbiano i soggetti coinvolti, rilevando che è lo stesso legislatore che - facendosi interprete del comune sentimento sociale in un determinato momento storico - ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, un’ attività che degrada e svilisce l’ individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente.
Ed allora, assumere nel caso di gestazione per altri la dignità come valore assoluto vuol dire identificare il bene tutelato nella dignità di ogni essere umano, con evidente preclusione di ogni possibilità di rinuncia da parte della persona coinvolta e con altrettanto evidente smentita della tesi che non vi sia dignità senza autodeterminazione.
Si tratta di una posizione adultocentrica, come sostiene il mio contraddittore? Non lo credo, perché la dignità appartiene ad ogni essere umano, ed appartiene anche al bambino nato da surrogazione, in quanto reso oggetto di scambio e repentinamente privato, come ho già osservato, del suo rapporto simbiotico con la madre e della sua identità anagrafica e per il futuro del diritto fondamentale di conoscere le sue origini.
Quanto al concetto di ordine pubblico internazionale, che si afferma da Gattuso essere stato oggetto di una errata rivisitazione giurisprudenziale, osservo che è acquisizione ormai pacifica, suffragata dalle Sezioni Unite (n. 12193 del 2019), che il controllo di compatibilità con l’ ordine pubblico, ai sensi degli art. 64, 65 e 66 della legge n. 218 del 1995, di sentenze e provvedimenti stranieri deve svolgersi avendo riguardo non solo ai parametri costituzionali e sovranazionali, ma anche alla legislazione ordinaria che di detti parametri costituisce puntuale traduzione normativa, indicando il modo in cui essi trovano attuazione nella disciplina dei singoli istituti: ne deriva che il giudice chiamato a detta verifica è tenuto a prendere atto dell’ esistenza nel nostro ordinamento di una norma che non ha soltanto carattere imperativo e punitivo, ma esprime una posizione costituzionale di rifiuto di una pratica lesiva del principio fondamentale di dignità, così da integrare un principio di ordine pubblico.
Ritengo infine non pertinente il richiamo, svolto sia da Gattuso che da Stefanelli, alla sentenza della Corte Costituzionale n. 494 del 2002 in materia di figli incestuosi, atteso che tale pronuncia, sulla indiscutibile premessa della non responsabilità del soggetto che viene al mondo, mero portatore delle conseguenze del comportamento dei genitori, e sul presupposto che il sistema non può disinteressarsi della sua posizione, nel dichiarare l’ incostituzionalità dell’ art. 278, comma 1, c.c. ha riconosciuto a quel soggetto lo status filiationis che gli spetta quale discendente biologico di chi lo ha generato, secondo una logica di doverosa imputazione agli adulti della responsabilità per la loro condotta: logica che è del tutto estranea all’ ipotesi di gestazione per altri.
Stefania Stefanelli La scelta di riservare a questa replica la questione circa la liceità o meno della pratica della surrogazione consegue alla necessità di distinguerla nettamente dall’altra, circa la tutela da accordare al nato all’estero attraverso il ricorso a questa pratica.
Distinzione che è ontologica, prima che giuridica, e corre tra il piano dei limiti e dei divieti, imposti agli adulti a vario titolo coinvolti nell’applicazione di tecniche di p.m.a., da quello della tutela del diritto fondamentale allo status del nato, ed è evidente anche in ragione della collocazione dei primi, nel Capo II della l. 40/2004, dedicato all’accesso alle tecniche, mentre gli artt. 8 e 9, a presidio del nascituro, sono collocati nel Capo III, significativamente intitolato alla «tutela del nascituro».
L’obiter dictum della più volte richiamata pronuncia della Consulta, per il quale «la maternità surrogata (…) offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane», ha avuto senz’altro un ruolo determinante per la decisione delle Sezioni Unite circa la non trascrivibilità, in ragione della contrarietà all’ordine pubblico, dell’atto di nascita formato all’estero per il nato attraverso tali tecniche, ma sembra non avere avuto altrettanta eco la pur decisamente più diffusa motivazione circa la distinzione tra qualificazione dell’accordo di surrogazione – estranea all’oggetto del giudizio – e presidio costituzionale del diritto fondamentale del nato al proprio status di figlio dei genitori intenzionali.
Condivido appieno quanto sintetizza efficacemente Marco Gattuso a proposito dell’opportunità di una regolamentazione della gestazione per altri, proprio in funzione di garanzia della autodeterminazione della gestante, che esprime e realizza la sua dignità e trova protezione nell’art. 8 della Convenzione EDU, sebbene spesso si utilizzi il concetto di dignità della donna allo scopo di limitarne l’autodeterminazione (cfr. Borrillo, Disposer de son corp: un droit encore a conquérir, Paris, 2018, 21). Fatico, per questa ragione, ad applicare alla gestazione per altri il concetto di schiavismo e al bambino quello di oggetto di uno scambio, anche in quanto per costui l’alternativa alla realizzazione del progetto comune agli adulti coinvolti sarebbe quella di non nascere affatto, e la non vita non è certo un valore tutelato dall’ordinamento, ma semmai è negazione del diritto fondamentale all’esistenza. Ritengo, invece, necessario dettare le condizioni – e le modalità di accertamento della loro sussistenza – che garantiscano l’assoluta libertà (anche dal bisogno), la revocabilità in ogni momento e anche dopo il parto, e la piena consapevolezza della donna, condizioni che devono tutelare, al tempo stesso, il diritto del nato a conoscere le proprie origini e le circostanze della propria nascita, i quali finirebbero per essere irrimediabilmente pregiudicati dalla previsione di un reato universale. In ciò starebbe la piena garanzia della dignità della donna, e non invece nell’assumere la stessa come madre del nato, essendo estraneo al nostro ordine pubblico un concetto di maternità per il solo fatto del parto, giacché «l’art. 269, comma 3, c.c. è una norma riguardante la prova della maternità (che) trova conferma nel secondo comma del medesimo articolo» (Cass., 30 settembre 2016, n. 19599).
2. Con riguardo all’interesse del figlio all’accertamento dello stato nei confronti dei genitori intenzionali, rileva ricordare che lo stesso, ai sensi dell’art. 8, comma 1 della Convenzione di New York e con l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, rileva sotto il profilo della garanzia della sua identità personale, e non riguardo alla conservazione dell’affettività, in quanto la certezza giuridica della propria situazione soggettiva e familiare è determinante per la costruzione del proprio sé. A tale certezza conseguono, tra l’altro, la cittadinanza, i diritti ereditari, la libertà di circolazione nel territorio nazionale ed in quello europeo, ed in questo senso si dirigono, condivisibilmente, le parole spese dalla Presidente della Commissione Europea Von der Leyen, in favore del «mutuo riconoscimento delle relazioni familiari nell’U.E.».
Se rispetto allo status del figlio sono indifferenti le scelte procreative dei genitori, in ossequio al principio di pari trattamento di cui all’art. 3 Cost. (cfr. Corte Cost. 13 maggio 1998, n. 166), a nulla varrebbe l’eventuale opzione contraria del legislatore nazionale, posto che «nessuna discrezionalità delle scelte legislative, con riferimento al quarto comma dell’art. 30 della Costituzione, che abilita la legge a dettare norme e limiti per la ricerca della paternità, può essere invocata in contrario: non è il principio di uguaglianza a dover cedere di fronte alla discrezionalità del legislatore, ma l’opposto» (Corte cost., 28 novembre 2002, n. 494).
Non ritengo, in ogni caso, che una tale opzione sia espressa dalla sanzione di cui all’art. 12, comma 4 l. n. 40 del 2004, né che questa disposizione esprima la comparazione tra questo diritto fondamentale del figlio e altri interessi, attenendo invece esclusivamente al comportamento degli adulti. Non si spiegherebbe, altrimenti, per quale ragione dovrebbe conservarsi lo status nei confronti del genitore intenzionale che sia anche genitore genetico, visto che anch’egli avrebbe tenuto, alla pari dell’altro genitore solo intenzionale, la condotta penalmente sanzionata. Inoltre, se questa comparazione si compendiasse nel ritorno al principio codicistico di verità genetica della procreazione (la cui tutela non è peraltro assoluta nemmeno nel sistema della procreazione secondo natura) in caso di gestazione per altri, non si spiegherebbe per quale ragione la Corte Costituzionale – chiamata a pronunciarsi sull’impossibilità di tenere conto, nel giudizio di impugnazione del riconoscimento materno per difetto di veridicità genetica, di aspetti dell’interesse del minore diversi da quello in cui si esprime il favor veritatis – non abbia dichiarato la questione infondata ma, al contrario, abbia deciso che «non è costituzionalmente ammissibile che l’esigenza di verità della filiazione si imponga in modo automatico sull’interesse del minore» e che «va parimenti escluso che bilanciare quell’esigenza con tale interesse comporti l’automatica cancellazione dell’una in nome dell’altro» (Corte Cost. n. 272/2017). In altri termini, anche ove fosse pronunciata una sentenza di adozione coparentale – funzionale alla tutela del diritto alla vita familiare, nella sua continuità affettiva, e non alla garanzia dell’identità del figlio, che fonda invece il suo diritto all’accertamento dello status per atto di autoresponsabilità dei genitori, o per dichiarazione giudiziale di paternità e/o maternità – ad essere pregiudicato sarebbe il diritto del minore all’identità personale, che si nutre dell’accertamento giuridico della discendenza, e di ciò si ha evidenza anche nella disciplina del cognome, come specificato dalla Consulta sull’attribuzione del doppio cognome al momento della formazione dell’atto di nascita (Corte cost. n. 286/2016).
Escludere «il riconoscimento automatico o almeno obbligatorio della genitorialità» (App. Napoli, 4 luglio 2018) che deriva dall’art. 8 l. 40/2004, confinando la tutela del diritto del figlio allo status alla sentenza di adozione coparentale, significa negare il diritto stesso, che resterebbe orfano di azione in giudizio, e dunque non più tale, in violazione dell’art. 24 Cost., se è vero che nell’ordinamento moderno diritto e azione non sono due concetti a sé stanti, ma un tutt’uno inscindibile (cfr. Fadda, Intorno a un preteso effetto delle obbligazioni naturali nel diritto attuale, in Arch. giur., 36 [1886], 211).
Nella l. 40 il consenso, costitutivo della responsabilità genitoriale nella p.m.a., realizza l’interesse del nato in quanto non è revocabile, dopo la fecondazione dell’ovocita, ed in tal guisa vincola ai doveri di cui agli artt. 30 Cost. e 24, par. 3, Carta di Nizza (in termini di diritto alla bigenitorialità) proprio attraverso la costituzione obbligatoria dello status filiationis tra chi è venuto alla vita e l’adulto dalla cui determinazione consapevole ha preso avvio il processo di fecondazione e la gestazione, a prescindere ed anzi in dispetto dell’assenza di discendenza genetica.
Accettare che la tutela del soggetto massimamente debole sia limitata all’adozione genitoriale significherebbe, invece, consentire al genitore intenzionale, per il mezzo della mancata proposizione della domanda, di revocare quel consenso (oltre a permettere al genitore biologico – e per questo legale – di impedire la realizzazione del diritto del minore opponendo il proprio rifiuto; a dovere, nella migliore ipotesi, attendere la costituzione di uno stabile legame affettivo per interessare il tribunale per i minorenni della valutazione, ex art. 57, comma 1, n. 2, della realizzazione dell’interesse del minore; ad attendere ulteriormente i tempi dell’accertamento giudiziale; e, infine, ad ottenere in ogni caso la costituzione di uno status diverso, deteriore e claudicante).
Marco Gattuso Il presupposto per cui la surrogacy sia sempre “imposta” (dal bisogno; da condizionamenti sociali), sino a essere qualificata come una sorta di “schiavismo”, non corrisponde all’esito delle ricerche empiriche che dimostrano che, in alcuni paesi di common law, la stessa è realizzata da donne che la scelgono in modo libero e consapevole (certo, anche qui non possono escludersi abusi, ma la scarsa conflittualità e i pochi ricorsi al giudice suggeriscono una certa tenuta di quei sistemi). Chi ha avuto modo di frequentare alcune di queste donne, che siano americane, inglesi o canadesi, sa che si tratta spesso di donne pienamente consapevoli e molto orgogliose della loro libera scelta.
Quando la scelta è libera, la donna non è oggetto, ma soggetto. Non basta fare appello alle proprie intime convinzioni sulla sua dignità, o sulla dignità di tutte le donne, per vietare loro di decidere per se stesse. L’appello a nozioni “oggettive” nel campo dell’etica indebolisce a mio avviso la nostra comune nozione di Stato laico di fronte a chi vieta alle donne di lavorare, divorziare o di circolare senza velo, assumendo a propria volta che si tratti di condotte contrarie alla dignità della donna e di salvare le donne da se stesse. Compito dello Stato non è dettare una propria etica, ma contribuire alla “rimozione degli ostacoli, di ordine economico e sociale”, che limitando di fatto la libertà, impediscono il pieno sviluppo della personalità di ognuno e ognuna. Dunque compito di uno Stato laico non è sindacare le scelte secondo un preteso ordine naturale (niente è più relativo), ma assicurarsi che le scelte siano veramente libere e che non danneggino il prossimo.
La contrarietà a “limiti e controlli” (sul fumo, sull’abuso di alcool, sulla alimentazione ecc..) dovrebbe condurre ad una discussione sulle modalità di realizzazione della GPA e non, con un salto logico, alla contrarietà alla stessa GPA. Nel “progetto di legge” cui abbiamo lavorato (rinvio al link) è vietato qualsiasi vincolo per la gestante. Parimenti, nei Paesi di common law più volte menzionati (e nella detta “proposta”) la gestante resta unica titolare del diritto di interrompere la gravidanza. Ancora, nel Regno unito e in Canada, come anche nella nostra “proposta”, è previsto un diritto al “ripensamento” della donna gestante, sull’assunto del carattere straordinario della relazione di gravidanza tale da incidere in profondità sulle sue motivazioni. Seguendo la Corte di Strasburgo, un conto è affermare il rischio di abusi, altro che si tratti sempre di un abuso.
Non è condivisibile che vi sia lesione della dignità e del benessere del bambino. Una corretta descrizione della fattispecie deve dare atto che questi non è oggetto di un accordo di “scambio”, perché il bambino viene concepito dai suoi genitori (quasi sempre suoi genitori genetici) e, a causa di una patologia della madre (asportazione dell’utero; patologie trasmissibili al feto...), un’altra donna si offre a sostenerne la gravidanza. Qui è in gioco un patto in forza del quale due donne, due persone, due famiglie si incontrano per mettere al mondo un bambino: qui si crea un fascio di relazioni di natura familiare, che meritano ascolto e, soprattutto, richiedono regole. È necessario muovere dunque dal riconoscimento che qui sono in gioco relazioni di natura familiare e che questa è materia non per contratti, ma per patti di diritto di famiglia. Il bambino non è “oggetto” della volontà degli adulti più di quanto lo sia in qualsiasi percorso di procreazione, naturale o artificiale, e non ci sono “egoismi” contrapposti all’interesse del bambino più di quanto si possano rinvenire in ogni scelta di dare al mondo un figlio. Le questioni che si pongono rispetto al diritto del nato di conoscere la verità della sua nascita sono analoghe a quelle che si pongono nell’ipotesi della pma eterologa: il suo diritto di conoscere come e grazie a chi è venuto al mondo (ed eventualmente chi sia il donatore/donatrice, ove vi sia stata una donazione) si tutelano dando regole, non nascondendo la sua nascita sotto il tappeto del divieto. Il benessere di questi bambini, infine, non è in gioco, perché le ricerche condotte da decenni informano delle condizioni di benessere, tanto delle gestanti che dei bambini, i quali, nei paesi in cui non vi è divieto, sono in genere perfettamente consapevoli del modo in cui sono nati (cfr. ex multis, V. Söderström-Antila - U.B. Romundstad - C. Bergh, Surrogacy: Outcomes for Surrogate Mothers, Children and the Resulting Families - A Systematic Review, in Human Reproduction Update, n. 2/2016, pp. 260 ss. , V. Jadva - L. Blake - P. Casey - S. Golombok, Surrogacy Families 10 Years On: Relationship with the Surrogate, Decisions over Disclosure and Children Understanding of Their Surrogacy Origins, in Human Reproduction, n. 10/2012, p. 3008). Questi bambini sono mortificati dallo stigma giuridico e, quindi, sociale; non dalla storia, spesso rispettabile e per loro facilmente comprensibile, che li ha portati in vita.
Poiché è stato sollevato il tema di recenti proposte di criminalizzazione delle condotte realizzate all’estero, credo doveroso segnalare come questa strada, percorsa a quanto mi risulta solo da due paesi al mondo (la Turchia e la Malesia, entrambi regimi assai sospetti in materia di diritti umani), porrebbe problemi non sottovalutabili: un conto è attestare al proprio interno la barriera al livello più alto (quello della repressione penale), altro è giudicare le diverse scelte compiute dagli altri (che hanno ritenuto che non il divieto ma la regolamentazione tuteli maggiormente i propri cittadini). Una tale scelta può essere giustificata solo affermando la volontà dell’Italia di proteggere le donne inglesi, canadesi, americane, israeliane sul presupposto che non lo sarebbero nei loro sistemi giuridici. Una affermazione che dovrebbe essere preceduta, credo, da una accurata indagine, acquisendo dati e informazioni, e chiedendo conto, a quei paesi, della loro capacità di proteggere le loro cittadine. Temo, inoltre, che la criminalizzazione condurrebbe il nostro paese in un pantano, anche di natura diplomatica, posto che l’Italia vanta milioni di cittadini all’estero (spesso con doppia cittadinanza), che diverrebbero perseguibili per condotte legittimamente tenute nei paesi di residenza.
Riguardo alla tutela dei minori “comunque nati”, non può negarsi che il loro interesse coincida con la permanenza del riconoscimento legale della loro famiglia. Sostenere che possano avere interesse a perdere un genitore (dunque a perdere il diritto ad essere mantenuto, educato, a ereditare..), salvo successiva ed eventuale adozione, è francamente paradossale, posto che non v’è peraltro alcuna possibilità di riconoscere una relazione genitoriale con la partoriente (avendo esercitato il diritto di non riconoscere il bambino alla nascita). L’approccio delle Sezioni unite è dunque sicuramente in danno del bambino e finisce, paradossalmente, col favorire condotte giustamente ritenute abominevoli: i casi di «rifiuto del neonato da parte dei committenti a causa della presenza di malformazioni fisiche» riferiti nel contributo di Paladini (un caso è avvenuto in Tailandia nel 2013) sono resi possibili proprio dall’assenza di regole. L’indirizzo delle Sezione unite, muovendo da un intento punitivo nei confronti dei genitori, incredibilmente non li inchioda alla loro responsabilità, consentendo loro di scomparire dalla vita del bambino, non proponendo la domanda di adozione. Tale indirizzo non è imposto da alcuna disposizione di legge, poiché l’art. 12 comma sesto della l. 40/2004 nulla dice a proposito dello status dei nati. I principi generali ricavabili dalla stessa l. 40/2004 ci dovrebbero condurre, invece, proprio alla soluzione opposta, posto che lo stesso legislatore che aveva imposto il divieto (incostituzionale) di pma eterologa faceva comunque salvo lo status dei bimbi nati in sua violazione. La ratio, già allora, si fondava su una distinzione fra giudizio, a monte, sulle condotte degli adulti e salvaguardia, a valle, del concreto interesse del bambino. La stessa sentenza 272/2017 della Corte costituzionale non conduce affatto, come ritenuto dalle Sezioni unite, ad un divieto generale e astratto, ma dichiara che la norma (nella specie l’art. 263 c.c.) è legittima soltanto nella misura in cui consente la valutazione in concreto dell’interesse del minore a mantenere i due genitori indicati nell’atto di nascita.
Mauro Paladini La gradita opportunità di partecipazione a questo forum mi consente di offrire il mio umile contributo critico rispetto ai più importanti argomenti solitamente addotti in favore dell’opportunità di regolamentazione legislativa della gestazione per altri e dell’automatico riconoscimento della relazione di status tra genitori intenzionali e figli non biologici.
A) In primo luogo, ritengo di dover dissentire, rispettosamente ma fermamente, dalla tesi secondo cui il nostro ordinamento riconoscerebbe un presunto “diritto alla genitorialità, …espressione del diritto all’integrità psico-fisica dell’individuo”, il cui inevitabile corollario consisterebbe nella “possibilità di avere una discendenza biologica o affettiva a prescindere dalla effettiva capacità di generare e dall’instaurazione di legami affettivi con chi, eventualmente, ha scelto di condividerne il progetto procreativo”.
Non riesco a rinvenire, invero, nella giurisprudenza costituzionale affermazioni tanto assolute quanto perentorie: basti richiamare, tra le altre, le argomentazioni della sentenza n. 221 del 2019, nella quale la scelta “restrittiva” della legge n. 40/2004 nei riguardi dell’accesso alle tecniche di PMA è ritenuta costituzionalmente legittima, escludendo chiaramente, con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità”, alternativa ed equivalente al concepimento naturale e lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati. Ed anche con riferimento al parametro dell’art. 32 Cost., chiaramente il Giudice delle leggi afferma che «La tutela costituzionale della “salute” non può essere estesa fino a imporre la soddisfazione di qualsiasi aspirazione soggettiva o bisogno che una coppia (o anche un individuo) reputi essenziale, così da rendere incompatibile con l’evocato parametro ogni ostacolo normativo frapposto alla sua realizzazione» (C. Cost. n. 221/19).
Del resto, se davvero l’aspirazione alla genitorialità trovasse il proprio fondamento nel diritto allo sviluppo della personalità (art. 2 Cost.), non soltanto l’intera gamma delle previsioni della legge n. 40/2004 – che disciplinano l’accesso alle tecniche di PMA esclusivamente come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile – ma anche larga parte della disciplina dell’adozione (a partire dalla valutazione di idoneità degli aspiranti genitori fino alla previsione di un limite alla differenza di età tra adottanti e adottato) dovrebbe patire l’inesorabile scure dell’incostituzionalità.
B) Ciò posto, si tratta di valutare se la GPA possa essere ammessa sia pur nel ristretto ambito dei rimedi alla sterilità o all’infertilità, che aveva condotto a suo tempo la Corte Costituzionale a ritenere illegittimo il divieto di fecondazione eterologa (sent. n. 162/2014), oppure se comunque tale tecnica si ponga in irrimediabile contrasto – come ho tentato di argomentare nella prima opinion – con il principio di dignità della donna.
Sul punto, non credo che possano spendersi parole più appassionate e persuasive di quelle espresse dalla Presidente Luccioli, che mi sento personalmente di sottoscrivere integralmente e alle quali mi permetterei di rinviare. Invece, non condivido l’affermazione del Giudice Gattuso, secondo cui non vi è dignità senza autodeterminazione: l’esperienza ci propone innumerevoli esempi di relazioni umane, nelle quali il valore della persona prescinde da una scelta, e lo stesso soggetto umano – come ha affermato un filosofo laico come Pietro Piovani – è un “volente non volutosi”. Senza indulgere, tuttavia, al piano della filosofia morale o alla contrapposizione tra concezione oggettiva e soggettiva della dignità, resta il fatto che, nella surrogazione di maternità, si è costretti a constatare l’obiettiva strumentalizzazione del corpo della donna alla realizzazione di un desiderio altrui e nessuna norma di legge potrà mai garantire che – anche in difetto di mercificazione onerosa della gestazione (sulla quale il dissenso pressoché unanime di questi discussant si contrappone all’orrendo dilagare del fenomeno in gran parte del mondo) – la rete dei condizionamenti familiari e i sensi di colpa verso persone a cui la donna è affettivamente legata in modo profondo rendano davvero “libera” e consapevolmente autodeterminata la scelta della gravidanza per conto altrui.
Della difficoltà di tutelare la libertà di scelta della donna si fa carico, peraltro, la stessa proposta di legge di Articolo 29, nella quale – oltre ad ammettersi la GPA onerosa nella parte in cui si prevede, nel contenuto del “patto di gravidanza”, il diritto della gestante a “compensi” – si riconosce il “diritto di ripensamento” da parte della donna in gravidanza, ma si tace, invece, sull’eventuale ripensamento successivo alla nascita e sul problema, che mi permettevo di sollevare nel mio primo intervento, della possibile (e terribile) “esecuzione forzata per consegna” del neonato in favore dei committenti.
Altro aspetto (tra i tanti, invero) che lascia notevolmente perplessi nella proposta di legge è il difficile coordinamento tra i diritti dei genitori “intenzionali”, come tali riconosciuti per effetto del “patto di gravidanza”, e il diritto della madre biologica a «instaurare e conservare una relazione significativa di natura familiare, ivi compreso il reciproco diritto di visita», con il conseguente potere del giudice di adottare, in caso di conflitti, «i provvedimenti opportuni nell’interesse del minore, applicando, in quanto compatibile, l’art. 337 ter cod. civ.»: l’applicazione di tale norma, si traduce, infatti, nel riconoscimento legislativo della potenziale proliferazione di figure genitoriali aventi ciascuna diritto a un’innaturale e affettivamente deleteria parcellizzazione dei tempi di permanenza e di relazione col minore.
C) Si tratta di valutare, poi, se l’esigenza o la necessità di legiferare in materia di GPA costituisca un’alternativa preferibile al “disinteresse” verso la scelta per siffatta modalità riproduttiva, che sia compiuta all’estero in quei paesi nei quali la GPA, in tutto o in parte, è ammessa. Invero, l’opzione proibitiva, compiuta dall’ordinamento italiano, non equivale a disinteresse, ma rappresenta l’adesione a una concezione della famiglia e delle relazioni genitoriali che, oltre a trovare fondamento nella Carta Costituzionale, è del tutto diversa, per tradizione storica e culturale, da quella degli ordinamenti che hanno preferito una soluzione liberale e permissiva. Inoltre, la scientificità degli studi sull’assenza di effetti negativi sulla salute psico-fisica delle gestanti, dei genitori committenti e dei bambini è oggetto di accesa critica nell’ambito della comunità scientifica, sicché l’adozione di un principio di precauzione in una materia così delicata è maggiormente funzionale all’interesse delle future generazioni.
D) Infine, vi è il problema di difficile soluzione della tutela dei diritti dei bambini nati all’estero mediante GPA. Non mi sento di condividere l’argomento (che definirei rispettosamente “suggestivo”) della similitudine coi figli incestuosi, utilizzato al fine di giustificare, anche nel caso di maternità surrogata, l’automatico riconoscimento dello status di filiazione in nome del presunto interesse del minore. Si tratta di situazioni, invero, del tutto diverse: nella relazione genitoriale incestuosa è presente un legame biologico, che nella maternità surrogata è, invece, assente. Inoltre, pur trattandosi in entrambi i casi di violazione di divieti penalmente sanzionati, credo che si possa convenire sul fatto che la condotta di chi commette incesto – spesso in contesti socialmente degradati, con un atto sessuale compulsivo od occasionale – non possa essere paragonata a quella del turista procreativo, che decide di trasgredire, forte delle proprie risorse economiche, per soddisfare un’aspirazione genitoriale che, come si è visto, è del tutto priva di fondamento costituzionale.
Al contrario, possono sorgere fondati dubbi sull’idoneità genitoriale di chi si sottragga scientemente al rispetto della norma penale, specie ove si ponga il raffronto – in tal caso, direi, del tutto opportuno – con chi intraprenda il difficile percorso dell’adozione interna o estera. Occorre chiedersi, cioè, per quale motivo la filiazione adottiva richieda una scrupolosa valutazione dell’idoneità psico-affettiva dei futuri genitori, mentre la filiazione per gestazione surrogata, per quanto frutto di una condotta penalmente sanzionata, dovrebbe condurre al riconoscimento automatico dello status. Non vi è, in definitiva, alcuna certezza che l’interesse del minore coincida in ogni caso con l’instaurazione di un rapporto genitoriale legale con i committenti della gestazione surrogata.
Non v’è dubbio che, rispetto a questo problema, non si possa fornire una soluzione unica e netta, e che certamente occorra distinguere tra le molteplici ipotesi di violazione del divieto: (a) quella caratterizzata da totale estraneità genetica dei committenti da quella in cui sia presente la componente genetica di uno o di entrambi; (b) l’ipotesi della gestazione onerosa (invero, quella di gran lunga prevalente, nel caso di turismo procreativo) dal caso della gestazione “solidale” condotta da parente di uno dei committenti che risieda all’estero; (c) l’ipotesi, infine, della consolidazione temporale del rapporto di genitorialità “di fatto” da quella dell’accertamento precoce della condotta penalmente rilevante.
Personalmente ritengo che la disciplina di tali differenti situazioni debba spettare unicamente al legislatore e non possa essere in alcun modo soddisfacente il ricorso suppletivo all’art. 44, lett. d, legge n. 184/1983, che si presta – oltre che a una tecnicamente inesatta applicazione della norma – anche all’indiscriminata varietà delle soluzioni giurisprudenziali dei casi concreti. Un richiamo in tal senso proviene dalla stessa Corte Costituzionale, la quale – nel comunicato del 20 ottobre 2020 – ha annunciato la decisione sulla questione di legittimità costituzionale riguardante la possibilità di riconoscere il rapporto di filiazione nei confronti di due donne unite civilmente rispetto al figlio concepito all’estero, mediante tecniche di fecondazione eterologa, e poi nato in Italia da una di esse, stabilendo espressamente che «il riconoscimento dello status di genitore alla cosiddetta madre intenzionale - all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente - non risponde a un precetto costituzionale ma comporta una scelta di così alta discrezionalità da essere per ciò stesso riservata al legislatore, quale interprete del sentire della collettività nazionale».
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E’ molto difficile fare una sintesi della ricchezza dei contenuti che ci sono stati offerti ed è doveroso ringraziare i nostri discussant per l’impegno nella ricostruzione e nell’accurata analisi di un problema così complesso. Alcune considerazioni possono però farsi. Sono state ben illustrate le ragioni per le quali la tutela dell’interesse del minore dovrebbe tener conto delle modalità irregolari che hanno portato alla sua nascita; secondo questa tesi sarebbe più opportuno che vi sia il vaglio preventivo del giudice e quindi una richiesta di adozione da parte del genitore intenzionale che non ha legame biologico con il minore. Tuttavia resta l’impressione che questa sia una sanzione indiretta per gli adulti che ricorrono a questa pratica. A me pare che l’art. 8 della legge 40/2004, letto unitamente all’art. 9 della stessa legge e nel contesto delle norme sulla filiazione, non possa lasciare dubbi sulla scelta di fondo già operata dal legislatore e che non può esser rinnegata: chi con il proprio comportamento, volontario o meno, sia esso un atto procreativo che un contratto, lecito o illecito, determina la nascita di un bambino, se ne deve assumere la piena responsabilità e deve assicuragli tutti i diritti che spettano ai bambini nati “lecitamente”. Il legame biologico potrebbe essere un falso mito: se l’adulto non è un buon genitore, sia esso biologico, adottivo o intenzionale, la legge prevede la limitazione o la decadenza dalla responsabilità genitoriale. Il comportamento di chi ricorre ad una pratica illecita per assicurarsi un bambino ad ogni costo potrebbe essere indicativo di scarsa capacità genitoriale: ma in tal caso si può immaginare un controllo mirato da parte da parte del Tribunale per i minorenni, non una limitazione dei diritti del bambino. Sul divieto di surrogacy mi pare invece che la scelta sia meno giuridica e più etica: e ciò dipende anche dalla fiducia che ciascuno di noi ripone nella capacità dei sistemi liberali o liberistici di autoregolarsi in maniera virtuosa; ciò ammettendo che un sistema liberistico sia finalizzato al perseguimento del bene comune. Da questo punto di vista mi sembra che il nostro sistema sia invece fortemente improntato all’idea che l’ordinamento deve promuovere comportamenti virtuosi o assiologici, in particolare quelli che tutelano i più deboli. E quindi pur immaginando che ci possano essere scelte “virtuose” anche in tema di surrogacy, si deve realisticamente ammettere che le fasce deboli, peraltro in uno scenario economico in questo momento particolarmente critico, soccomberebbero a pratiche meno degne e che, per tutelare loro, al momento non c’è altra scelta che quella del divieto. E infine il bambino: esiste un diritto a non subire la scissione tra la propria identità biologica e l’identità giuridica? Sembra di no, almeno se la pratica da cui origina questa scissione è lecita. Ma esiste pur sempre un diritto alla ricerca delle proprie origini, il che è impossibile da attuare se la pratica a cui si è fatto ricorso non è lecita o non consente di ricostruire i passaggi della propria identità biologica.