Bioetica e biodiritto. Nuove frontiere
Roberto Giovanni Conti*
Sommario: 1.Il ruolo dei diritti fondamentali.2. Dalla vulnerabilità alla fragilità della persona, attraverso un inestricabile intreccio di diritti che reclamano tutti tutela e protezione. 3 La fame di dignità nel biodiritto. 4. Il principio di cooperazione fra i protagonisti delle vicende biogiuridiche, giudici e fonti. 5. Quale giudice per il biodiritto.
L’Autore torna a riflettere sui temi eticamente sensibili, provando ad individuare gli scenari che si aprono davanti agli operatori del diritto chiamati a maneggiare le vicende che ruotano attorno alla fragilità della persona. In questa ricerca coglie non solo la centralità della dignità umana, ma l’emersione del metaprincipio di cooperazione capace di produrre frutti fecondi nei rapporti fra giudici, interessi coinvolti e fonti.
1. Il ruolo dei diritti fondamentali.
È davvero un onore parlare dopo che il Premio Nobel per la pace Essid Abdelaziz ha infiammato i nostri cuori.
Proverò allora a pormi in continuità con i messaggi che lui ha lanciato, anzitutto mettendo in chiaro come il tema che intendo qui affrontare sulla base delle indicazioni degli organizzatori è esso stesso consustanziale rispetto a quello della pace e della giustizia, nel senso che non vi è pace e giustizia nel mondo se non si tutelano e garantiscono i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo, bastando ricordare l’art.11 della Costituzione – che pone a giustificazione dell’adesione del nostro Paese alle organizzazioni internazionali le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni – insieme al Preambolo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, laddove riconosce che le Libertà fondamentali costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo e il cui mantenimento si fonda essenzialmente, da una parte, su un regime politico veramente democratico e, dall'altra, su una concezione comune e un comune rispetto dei Diritti dell'Uomo a cui essi si appellano.
Dunque, assodato il nesso di collegamento, indissolubile, fra diritti fondamentali, pace e giustizia, il tema del biodiritto è fortemente condizionato da alcuni fattori che credo vadano individuati con nettezza.
Da un lato assistiamo ad una diffusa e crescente sensibilità di una platea sempre più ampia attorno al ruolo dei diritti fondamentali, ormai avvertiti nel loro significato estremo che ad essi aggancia il controllo di legalità diffuso operato dall’ordine giudiziario[1].
A questa si affianca la crescita quasi esponenziale del numero dei diritti fondamentali e, con essi, la crescita delle fonti dai quali i diritti stessi promanano e dei plessi decisionali chiamati a riconoscerli ed applicarli.
Il governo delle fonti provenienti da sistemi autonomi ancorché collegati e delle interpretazioni che di queste stesse fonti offrono gli interpreti qualificati (secondo i diversi sistemi) danno al contempo la misura delle questioni che si pongono sul tavolo dell’operatore del diritto ma, direi ancora prima, innanzi a chi dovrebbe godere di quelle tutele offerte alle persone coinvolte.
Ruotando ora la lente verso il biodiritto, lo scenario non sembra per nulla diverso.
Si è assistito, in effetti, ad un’esplosione di diritti in favore di persone che, accomunate da una condizione di vulnerabilità, hanno via via fruito di tutele e protezioni crescenti, coinvolgendo una platea di soggetti sempre più ampia. Riavvolgendo quello che cinque fa, sempre camminando insieme a Cammino, provai a rappresentare sullo status e sulla condizione di vulnerabilità[2] , vale ora la pena di ricordare alcune delle più rilevanti novità nel panorama normativo e giurisprudenziale.
Il pensiero va immediatamente alle discipline in tema:a) di indennizzo per i casi di sovraffollamento carcerario (art.35 ter l. ord. pen.)- alla quale si è affiancata una giurisprudenza nazionale che ha raccolto il testimone lasciato dalla sentenza Torreggiani della Corte edu raggiungendo soglie elevate di protezione[3] –; b) di regolamentazione delle unioni civili (legge.n.76/2016); c) di tutela offerte, per via giurisprudenziale, alla condizione del soggetto adottato rispetto alla conoscenza delle proprie origini (Cass.S.U. n.1946/2018, Cass.n.6963/2018); d) di trascrizione di atto di nascita redatto all’estero su istanza di coppia omosessuale (Cass.n.19599/2016); e) di adozione non legittimante del minore da parte del partner dello stesso sesso del genitore (Cass.n.12962/2016).
Si arriva, così, fino alla più recente legge n.219/2017 dedicata alla relazione di cura fra medico e paziente ed alle disposizioni anticipate di trattamento, alla quale ha fatto seguito, ancora più di recente, l’ordinanza n.207/2018 della Corte costituzionale sul tema dell’aiuto al suicidio, nella nota vicenda Cappato.
2.Dalla vulnerabilità alla fragilità della persona, attraverso un inestricabile intreccio di diritti che reclamano tutti tutela e protezione
Cosa insegnano i recenti interventi legislativi e giurisprudenziali in campi eticamente sensibili?
Anzitutto, essi dimostrano la continua espansione delle forme di tutela che prendono in considerazione la fragilità della persona che il legislatore ed i giudici considerano come meritevole di tutela e protezione.
Emerge, così, la precisa scelta legislativa di normare vicende nelle quali la particolare posizione di debolezza di un soggetto suggerisce un intervento statale in funzione di sostegno o protettiva.
Un ulteriore tratto caratterizzante la materia biogiuridica è, a me pare, dato dal fatto che la condizione di fragilità di cui si è detto si declina spesso al plurale.
Ed infatti. la condizioni di fragilità viene posta a base di un intervento normativo prendendo come punto di riferimento diversi soggetti coinvolti, tutti direttamente esposti ad una situazione di potenziale debolezza.
Si pensi alla materia che riguarda le relazioni genitori separati-figli ed al contestato ddl Pillon che, al di là delle pertinenti ed autorevoli critiche ad esso rivolte, ho l’impressione sia partito proprio dall’idea che le relazioni familiari presentano un contenuto di vulnerabilità-fragilità non limitato a chi tradizionalmente viene considerato il perno della tutela (id est, il minore).
Non meno marcato mi pare risulti, in questa stessa prospettiva, il filo rosso che scorre all’interno della legge n.219/2017, solo apparentemente eretta per salvaguardare in via esclusiva e prioritaria la fragilità del paziente ed il suo diritto all’autodeterminazione, ed invece essa stessa dimostrativa che i vari soggetti ed interessi coinvolti – malato, parenti, fiduciari, persone che si prendono cura del malato, sanitari – in quel rapporto di cura possono versare in una condizione di fragilità idonea a giustificare l’adozione di misure protettive nei loro stessi confronti[4].
La pluralità della condizioni di fragilità di cui si diceva si declina, poi, anche in un altro senso.
A ben considerare, le contese fra genitori e figli minori in ambito familiare, fra parenti dei malati e loro congiunti, fra genitori di minori e sanitari o fra minori e genitori rispetto agli atti di cura, si muovono all’interno di un assai peculiare scenario nel quale tutti i protagonisti, a vario titolo, si sentono partecipi e portatori non del solo interesse individuale ma di quello ulteriore, in astratto appartenente ad un diverso soggetto ma che viene avvertito come proprio e rispetto al quale quegli stessi soggetti rivendicano il diritto di potere influire, in relazione alla particolare funzione svolta secondo decisioni che ritengono rivolte a difendere o valorizzare l’interesse altro. Da ciò consegue l’assai peculiare situazione che impone la piena valorizzazione e considerazione di questo fascio di interessi.
È dunque questa complessità delle vicende che ruotano attorno all’ambito biogiuridico a richiedere una capacità non solo di ascolto, ma di conoscenza ed approfondimento notevoli rispetto a fasci di interessi apparentemente autonomi e slegati ma invece, a mio avviso, talmente tra loro avviluppati ed aggrovigliati da escludere operazioni di automatica prevalenza dell’un diritto sull’altro, invece abbisognando di tutele e protezioni elastiche e creative, per dirla con Paolo Grossi.
3.La fame di dignità nel biodiritto.
Infine, le vicende appena ricordate fanno emergere, tutte, un bisogno estremo di considerare la dignità della persona come autentico supervalore che l’ordinamento, in tutte le sue diverse articolazioni, deve considerare e proteggere, alimentando ancora una volta i dubbi e le incertezze che questo concetto reca con sé[5].
Si deve convenire sull’insostituibilità del canone di dignità quale principio-base dal quale non può prescindersi ove si intende affrontare temi di biodiritto, pur nella difficoltà, spesso inestricabile, di offrire uno stabile e sicuro approdo – al giudice prima ed alla collettività – circa la soluzione della questione posta al suo vaglio.
Qualcosa di ulteriore merita di essere detto quando discutiamo di dignità più che di altri diritti fondamentali, che pure in essa trovano la loro copertura di base.
E quel qualcosa sta proprio nella consapevolezza di dovere rifuggire dall’idea che sia possibile ‘scrivere’ e ‘decodificare’, una volta per tutte, che cos’è la dignità, invece accettando l’idea per cui essa, spettando a qualsiasi essere umano, non può essere declinata senza un’adeguata interpretazione nelle diverse circostanze[6] e ‘non può essere perduta da alcun essere umano, anche da quello più misero e sofferente o da quello più miserabile e abbrutito’[7], al contempo rappresentando espressione massima della libertà (recte, autodeterminazione) dell’individuo e limite all’autonomia del medesimo soggetto[8]. Dignità della quale nessuno può essere deprivato, sia esso cittadino o straniero, “in quanto ogni persona è portatrice della dignità di tutta l’umanità.”[9]
4. Il principio di cooperazione fra i protagonisti delle vicende biogiuridiche, giudici e fonti.
Allora quali frontiere, quali ponti costruire in un periodo storico che sembra orientato verso logiche che tendono ad edificare barriere.
Ecco appunto, il ruolo e l’importanza dei diritti fondamentali, con tutta la complessità che questi determinano per l’attività di riconformazione dei dati normativi alla quale essi chiamano indefettibilmente gli interpreti quando i plessi decisionali – nazionali e sovranzionali, legislativi e giurisdizionali – su tali diritti si moltiplicano e tendono quasi naturalmente ad entrare in competizione fra loro.
Allora, rispetto a questi “scontri” quale arma prediligere, quella del conflitto bellicoso, quella della regolazione gerarchica fra i diversi plessi, quella della scelta tra chi dice sempre il giusto e chi declama ciò che è sbagliato, quella che predilige l’ottica nazionale come bene assoluto e guarda a quella sovranazionale come aggressiva e pericolosa minaccia al sovranismo, oppure quella che tende a considerare la prospettiva sovranazionale sempre e comunque prevalente, perché portatrice di valori che, in quanto destinati a ricadere su tradizioni diverse ma comuni, meritano una protezione superiore per la forza attrattiva che gli stessi hanno?
Nessuna di queste prospettive, a mio avviso, può e deve prevalere, convinto come sono dell’utilità di praticare e disseminare l’idea della cooperazione fra le fonti e fra gli interpreti. E ciò non in una logica buonista o di accomodamento, reputando per davvero che il confronto, quando si fa tra portatori di istanze realmente aperte all’interazione ed alla conoscenza reciproca, è in grado di realizzare frutti prima inimmaginabili.
Si tratta di una prospettiva che, riguardo alla funzione dei giudici, trae le sue origini dal principium cooperationis che, per dirla con Antonio Ruggeri, suggerisce di considerare tutti i giudici come “orizzontali”, siccome distinti tra di loro unicamente per le funzioni esercitate o, se si preferisce, per la tipicità dei ruoli, comunque bisognosi di essere espressi al massimo rendimento possibile ad ogni livello istituzionale, senza dunque alcuna “graduatoria” tra di loro: siano giudici comuni e siano pure giudici costituzionali o materialmente costituzionali, quali ormai in modo sempre più marcato e vistoso vanno conformandosi le stesse Corti europee[10].
Lo stesso principio, d’altra parte, alimenta i rapporti fra le diverse fonti dei diritti fondamentali, pienamente introiettato dalla nostra Costituzione che, aprendosi indiscutibilmente al riconoscimento del diritto dell’Unione europea ed ai diritti fondamentali di matrice internazionale, mostra attraverso il suo magnifico arsenale, costituito dagli artt.2,3,10,11 e 117, quanto sia la centralità della persona umana ad escludere l’idea stessa di una ‘scala’ fra le fonti e fra i valori fondamentali, questi ultimi invece tutti quanto abbisognando del sostegno delle Carte e dei loro interpreti per poter realizzare l’obiettivo di una sempre più elevato livello di protezione di quei valori[11].
Ed è, ancora, la stessa logica cooperativa a dovere essere preferita come regola aurea nei rapporti fra legislatore e giudici, dovendosi il primo orientare, quando in gioco è la materia del biodiritto, verso regolamentazioni minimali capaci di individuare la cornice generale al cui interno sussumere la singola vicenda, per poi lasciare al decisore di turno il ruolo di attuatore concreto del comando, in modo che esso sia modulato e modellato nel modo migliore rispetto alla singola vicenda ed agli interessi, sempre cangianti, che ivi emergono.
In questa prospettiva, proprio la legge n.219/2017 – al netto dei pur esistenti deficit che possono intravedersi al suo interno[12] – proseguendo la linea tracciata dalla legge n.6/2004[13], sembra essersi pienamente coniugata e coordinata con alcuni punti di partenza offerti dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione – al cui interno un ruolo fondamentale hanno svolto la Presidente Luccioli e la nota sentenza Englaro –. Ciò in uno spirito di piena e leale cooperazione, che ha visto, nel caso di specie, la legge fissare in termini astratti alcuni elementi di base già valorizzati in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità all’interno di una disciplina che si presta, poi, ad essere attuata dal giudice nel caso concreto. Tutto all’interno di un circuito circolare che è destinato ad ulteriormente arricchirsi attraverso l’opera ermeneutica del giudice, al quale spetterà, eventualmente di colmare le lacune esistenti attraverso il ricorso ai principi fondamentali del sistema dotato di immediata precettività o di investire la Corte costituzionale per verificare l’esistenza di disposizioni che determinano uno iato con questi stessi principi, riletti anche attraverso le Carte dei diritti sovranazionali
Del resto, la stessa presa di posizione della Corte costituzionale nel già ricordato caso Cappato, nel concedere al legislatore un termine per normare la materia, non risulta essere tanto espressione di un conflitto fra giudici e legislatore ma, più che mai, desiderio di dialogo, di riconoscimento del ruolo istituzionale che legislatore e giudici hanno, ciascuno, all’interno delle prerogative costituzionali.
Alla medesima prospettiva di cooperazione credo debba ispirarsi l’attività del giudice chiamato ad affrontare questioni biogiuridiche.
Ciò vale, anzitutto, quando il giudice maneggia fonti sovranazionali.
In questa prospettiva si muovono nono solo i protocolli d’intesa conclusi fra le più alte giurisdizioni nazionali e la Corte edu a partire dal dicembre 2015[14] , ma lo stesso Protocollo n.16 annesso alla CEDU, che, non appena ratificato dall’Italia, offrirà alle Alte Corti nazionali la possibilità di dialogare direttamente con la Corte edu, formulando richieste di parere preventivo al quale seguiranno risposte del giudice europeo “non vincolanti”, anch’esse aperte al confronto franco ed aperto con il giudice nazionale e dunque ad una logica non di contrapposizione, ma di piena ed autentica cooperazione. Non è un caso che l’Adunanza Plenaria della Cassazione francese abbia, pr prima, attivato tale meccanismo in materia di maternità surrogata[15]
Per altro, verso, è fin troppo facile notare quanto decisivo sia stato l’impulso della giurisprudenza della Corte edu su diverse materie eticamente sensibili.
E tuttavia, l’osservatore attento e occhiuto non potrà fare a meno di notare che proprio in tale ambito spesso la Corte ha agito sia come propulsore per il riconoscimento di nuove nicchie di tutela, sia da mediatore rispetto a fenomeni che le tradizioni nazionali hanno, lentamente ma progressivamente ricondotto ad un livello tale da rendere poi necessario l’intervento omogeneizzante della Corte europea, generalmente rivolto ad approfondire gli standard di tutela più che a ridurli.
Insomma, un andamento altalenante, condizionato dal comune sentire delle legislazioni e delle giurisprudenze nazionali, tutte capaci di incidere su un testo, quello della Convenzione europea, vocato ad essere letto ed attuato in chiave dinamica[16].
Andamento che, in definitiva, è pur esso rispettoso delle realtà nazionali, invitate a considerare i livelli di tutela raggiunti, ad interrogarsi sulla compatibilità di quei livelli con i diritti di matrice convenzionale e dunque a cooperare attivamente nel processo di implementazione e massimizzazione delle tutele, con logiche antitetiche rispetto a quelle gerarchiche.
Non meno centrale per il biodiritto è, poi, la comparazione, anche questa destinata ad essere applicata e compresa secondo una chiave di lettura improntata a logiche di cooperazione.
Non può sfuggire, infatti, che la materia del fine-vita ha visto confrontarsi diverse soluzioni adottate in contesti socio-culturali diversi che hanno contribuito non poco a condizionare, per effetto della circolazione dei modelli e delle tecniche decisorie, quelle realtà nelle quali l’assenza di discipline normative ha lasciato per lungo tempo il giudice arbitro dei destini delle persone colpite da malattie terminali[17].
La prospettiva della comparazione è divenuta strumento di ridefinizione semantica di istituti per effetto dell’apertura del sistema interno al diritto internazionale e sovranazionale nonché metodo di lavoro basico per il giurista anche di civil law e, soprattutto, per il giudice che maneggia i diritti della persona e le scelte che questa compie.
Comparazione che non costituisce orpello ornamentale destinato ad abbellire e rendere dotte le decisioni del giudice, ma piuttosto criterio ermeneutico capace di giocare un ruolo di sostanza pieno ed importante quando il giudice è chiamato ad interpretare il quadro normativo primario di un sistema democratico fondato sulla persona o quello secondario o, ancora, ad esaminare gli effetti di lacune del sistema[18].
Ed è stata proprio Corte cost. n. 207/2018 a sottolineare la decisività del ricorso alla comparazione, allorché essa ha ritenuto di innovare in modo profondo l’indirizzo fino a quel momento espresso a proposito dei casi in cui la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolge l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere. Colpisce, allora, che la legittimazione rispetto all’assai innovativa posizione della Corte costituzionale, espressa concedendo al legislatore un termine di un anno per legiferare sospendendo il giudizio di legittimità costituzionale sia stata desunta richiamando precedenti di altre corti supreme – Corte Suprema del Canada, sentenza 6 febbraio 2015, Carter c. Canada, Corte Suprema del Regno Unito, 25 giugno 2014, Nicklinson e altri – che avevano utilizzato analoghe forme di dialogo con il legislatore in materie eticamente sensibili. Un’ulteriore conferma di quanto le decisioni giudiziarie, oltre ad essere naturalmente vocate al dialogo fra le Corti[19], trovino sempre di più alimento proprio nella comparazione. Ed è forse superfluo evidenziare che questo processo si è compiuto senza tralasciare le radici del contesto nazionale nel quale il giudice è chiamato ad operare, ma nemmeno perdendo di vista la dimensione universale che certi valori tendono progressivamente ad acquisire.
5. Quale giudice per il biodiritto.
L’idea che mi sono fatto svolgendo il mestiere di giudice tutelare e, al contempo, tentando di approfondire il ruolo dei diritti fondamentali nelle materie che toccano i valori più cari alla persona umana, soprattutto quando versi in condizioni di vulnerabilità, è che l’operato del giudice riesce ad offrire al meglio la propria risposta quando coinvolge nel modo più pieno tutti gli interessi coinvolti, offre loro voce e dignità non nascondendoli, ma facendoli emergere in tutta la loro reale consistenza per poi tentare di fare al meglio ciò che è chiamato a fare per funzione, bilanciando i fasci di interessi coinvolti, considerarli tutti e quindi decidere, quando una decisione gli viene chiesta. Un’attività, quest’ultima, ancora una volta naturalmente vocata a realizzare una cooperazione fra i fasci di interessi coinvolti, per di più come già detto tra loro aggrovigliati al punto da rendere difficile l’individuazione dell’unico centro di imputazione[20]
Un’ottica, quest’ultima, tesa a favorire il bilanciamento fra diritti fondamentali qualunque ne sia la loro fonte, come di recente hanno riconosciuto le Sezioni Unite civili con la sentenza n.33208/2018, proprio a proposito di soggetti anch’essi fragili e vulnerabili quali possono risultare i collaboratori di giustizia sottoposti a programmi di protezione da parte dello Stato. Un’attività, quella giudiziale, mossa da un dato di partenza indefettibile, per cui qualunque valore fondamentale “ … è da sé medesimo[o] portato[o] ( e, comunque obbligato[o]) a comporsi armonicamente in sistema coi restanti valori. La “logica” dei valori è…quella del reciproco contemperamento, non già l’altra della tirannica sopraffazione di un valore sull’altro ( o sugli altri)” [21].
Ecco, così, emergere, lentamente ma inesorabilmente, la difficoltà del mestiere del giudice, per l’un verso orientato a concretizzare e materializzare nel modo più pieno e compiuto i diversi interessi e le diverse prospettive delle quali i vari “attori” sono portatori, all’interno di un circuito giudiziario nel quale essi devono confrontarsi.
Per altro verso, il decisore di turno è chiamato, per funzione, a governare i plessi normativi e giurisprudenziali in modo da realizzare, nel caso concreto, il corretto bilanciamento degli interessi contrapposti.
Egli dovrà farsi così garante di un metodo dialogico volto a favorire l’emersione di tutte le posizioni in gioco e, al contempo, ad attingere a tutte quelle fonti, giuridiche e non, necessarie per realizzare al meglio gli interessi che è chiamato a maneggiare.
Quel giudice si troverà, così preso, parafrasando la riflessione di Guido Calabresi sul mestiere del giudice[22], da un intreccio di contatti con giurisdizioni, legislazioni, istituzioni – sanitarie e non – relazioni che lo renderanno meno solo e più capace di offrire la soluzione più giusta rispetto al caso.
Un giudice che, in definitiva, nelle decisioni che è chiamato ad adottare, non per scelta ma per funzione, è ogni volta giurista, ma prima ancora persona, paziente, parente, padre, madre e figlio.
Un giudice, ancora, che sulla linea marcata dalla legge n.219/2017, non condanna, non determina il soggetto che vince a discapito dell’altro che perde ma, invece, offre o tenta di offrire soluzioni miti[23].
Un giudice, in definitiva, che la legge n.219/2017 sembra silenziosamente incamminarsi dal mondo degli incapaci affetti da patologia psichiatrica cronica a quello delle persone malate, per ciò stesso strutturalmente deboli.
Dunque, quale giudice per il biodiritto.
Mi piace prendere a prestito le espressioni utilizzate dal collega Giacomo Travaglino in una pronunzia della Corte di Cassazione - Cass.20 aprile 2016 n.7766 - quando invita il giudice - qualsiasi giudice - a “dismettere il supponente abito di peritus peritorum ed ascoltare la concorde voce della scienza psicologica, psichiatrica, psicoanalitica, che comunemente insegna, nell'occuparsi dell'essere umano, che ogni individuo è, al tempo stesso, relazione con se stesso e rapporto con tutto ciò che rappresenta "altro da se", secondo dinamiche chiaramente differenziate tra loro, se è vero come è vero che un evento destinato ad incidere sulla vita di un soggetto può (e viceversa potrebbe non) cagionarne conseguenze sia di tipo interiore …, sia di tipo relazionale, ontologicamente differenziate le une dalle altre, non sovrapponibili sul piano fenomenologico, necessariamente indagabili, caso per caso, quanto alla loro concreta (e non automatica) predicabilità e conseguente risarcibilità. E tali conseguenze non sono mai catalogabili secondo universali automatismi, poiché non esiste una tabella universale della sofferenza umana. È questo il compito cui è chiamato il giudice della responsabilità civile, che non può mai essere il giudice degli automatismi matematici ovvero delle super-categorie giuridiche quando la dimensione del giuridico finisce per tradire apertamente la fenomenologia della sofferenza. Compito sicuramente arduo…ma reso meno disagevole da un costante lavoro di approfondimento e conoscenza del singolo caso concreto o, se si vuole, di progressivo e faticoso "smascheramento" della narrazione cartacea rispetto alla realtà della sofferenza umana.”
La prospettiva che disegna Travaglino, apparentemente conchiusa all’interno del pianeta responsabilità civile è, a ben considerare, la dimensione comune del giudiziario rispetto alle vicende che coinvolgono la persona, i suoi beni supremi, le sue aspettative interiori, la sua dignità[24].
Un giudice che tocca con mano, in vivo, i diritti coinvolti, li maneggia, li fa emergere, li delinea nel loro preciso contenuto ritagliandoli volta per volta, caso per caso, nel giudizio che è chiamato ad esaminare.
Ma certo c’è uno iato, una crasi, un distacco fra essere e dover essere, fra ciò che sono i Tribunali e le Corti e ciò che dovrebbero essere, per dinamiche che spesso sfuggono al controllo del singolo e diventano, invece, scelte di sistema, per le quali e sulle quali il singolo non ha forza, non ha potere e per questo spesso subisce, più o meno supinamente, dinamiche protese a favorire, più o meno scopertamente, la burocratizzazione della funzione (che costituisce anticamera della normalizzazione delle sue decisioni e dell’inaridimento della sua stessa funzione) e logiche volte a ridurre al minimo i rischi insiti nelle scelte giudiziarie ed a favorire, piuttosto, la navigazione quieta.
La magistratura deve mostrare di essere pronta a comprendere non solo la centralità del ruolo del giudice negli ambiti che si è qui cercato di rappresentare, ma anche il ‘modello di giudice’ che è necessario offrire alle nuove generazioni perché esse siano capaci di offrire alla società il miglior servizio possibile.
Ma anche l’Accademia e l’Avvocatura, che spesso non mancano di sostenere il “cammino” della magistratura nel senso qui prospettato, ha il dovere di cooperare nella condivisione degli aspetti problematici del “sistema giustizia” che ad esse pure appartiene, prima che alle persone.
Queste, dunque, in estrema sintesi, le sfide che mi sembra potranno e dovranno essere affrontate da quanti hanno compreso la centralità del biodiritto nell’ambito di una società che senza dignità e diritti fondamentali è destinata a regredire verso forme di oscurantismo.
Una società nella quale occorre lasciarsi alle spalle l’epoca della contrapposizione e del conflitto insanabile, invece costruendo proprio su quelle contrapposizioni e sulle derive egoistiche che pure serpeggiano con sempre maggiore consistenza nei tempi moderni una condizione di resilienza[25] sulla quale ciascuno – legislatore, giudice, avvocato, cittadino – nel proprio ruolo, memore delle ferite subite nel tempo passato, possa contribuire a realizzare il diffuso radicamento dei diritti umani senza retorica, ma con la consapevolezza che una società che calpesta i diritti degli ultimi, degli indifesi, degli emarginati e dei ‘fragili’ non è più tale ma lascia il posto a barbarie.
* Intervento al convegno di studio su Persone vulnerabili: nuove e antiche frontiere nella tutela dei diritti fondamentali, organizzato dall'Associazione CamMiNo, Roma, 24-26 gennaio 2019.
[1] A. Ruggeri, Il futuro dei diritti fondamentali, sei paradossi emergenti in occasione della loro tutela e la ricerca dei modi con cui porvi almeno in parte rimedio, nel paper concessomi in anteprima dall’Autore.
[2] V., volendo, R. Conti, Diritti fondamentali, soggetti vulnerabili: tappe e obiettivi di un articolato “cammino” interno, in Questione giustizia on line, 8 febbraio 2014. Testo rielaborato di un intervento al Convegno organizzato in occasione del 15^ anniversario della costituzione dell'Associazione CamMiNo, sul tema Persone vulnerabili e diritti fondamentali esigenze di tutela, nodi critici, lacune legislative, Roma, 24 gennaio 2014, Biblioteca del Senato della Repubblica.
[3] Del tema ho provato a discutere in R. Conti, La nuova frontiera dopo la “Torreggiani”: tracciati e prospettive per il giudice e il legislatore, a cura di F. Fiorentin e D. Galliani, Milano, in corso di stampa.
[4] Si intende qui fare riferimento a tutte le disposizioni, inserite nella legge n.219/2017, che regolamentano gli effetti delle condotte del sanitario e degli altri soggetti che interagiscono con il malato, determinandone compiti, funzioni ed esenzioni di responsabilità.
[5] È sufficiente rinviare ai numerosi scritti di A. Ruggeri sul tema della dignità, ricordati, da ultimo in A. Ruggeri, Fraintendimenti concettuali e utilizzo improprio delle tecniche decisorie nel corso di una spinosa, inquietante e ad oggi non conclusa vicenda (a margine di Corte cost. n. 207 del 2018), nel paper gentilmente concessomi in visione dall’Autore.
[6] M. Reichlin, La discussione sulla dignità umana nella bioetica contemporanea, in Biolaw Journal - Rivista di BioDiritto, n.2/2017, 101.
[7] F. Viola, I volti della dignità umana, in Colloqui sulla dignità umana. Atti del convegno internazionale, Palermo 2007, 107.
[8] Sull’uso della dignità in funzione deontica riflette G. Cricenti, I giudici e la bioletica. Casi e questioni, Roma 2018, 21.
[9] M. G. Luccioli, Diario di una giudice. I miei cinquant’anni in magistratura, Udine 2016, 64. Nel diario della Luccioli alla dignità l’Autrice più volte si riferisce, dimostrando anche ai più scettici come questo “supervalore”, pur nel suo complesso e a volte scivoloso carattere plurale, costituisce sempre fonte insostituibile ed inesauribile alla quale il giudice, il buon giudice, deve attingere.
[10] A. Ruggeri, Costituzione e CEDU, alla sofferta ricerca dei modi con cui comporsi in “sistema”, in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti. XVI. Studi dell’anno 2012, Torino, 2013,246.
[11] Non ci si può così, mai stancare di ricordare che “la pluralità delle Carte dei diritti gioca naturalmente nel senso di rendere particolarmente oneroso il compito demandato ai giudici, a tutti i giudici (costituzionali e non), al fine della loro ottimale salvaguardia, alle condizioni oggettive di contesto: un compito, dunque, assai impegnativo e non di rado sofferto, specie laddove – come si diceva – si tratti di risolvere questioni di biodiritto, al quale tuttavia nessun operatore può sottrarsi.”- A. Ruggeri, Tutela dei diritti fondamentali e ruolo “a fisarmonica” dei giudici, dal punto di vista della giurisprudenza costituzionale, in www.dirittifondamentali.it, fascicolo n.2/2018, 18 novembre 2018 -. Attenzione al giudiziario che è, in definitiva, deferenza piena e totale ai valori fondamentali della persona, rispetto ai quali occorre, ancora una volta, individuare un metodo preciso di lavoro. Non è, ricorda lo stesso Ruggeri, “facendo luogo ad improponibili rivendicazioni di un impossibile primato dell’una sull’altra Carta e/o dell’una sull’altra Corte che le questioni stesse possono essere a modo affrontate; di contro, è solo muovendo dalla duplice premessa della parità delle Carte, riconosciute perciò idonee a giocarsi ogni volta la partita nello sforzo da ciascuna di esse prodotto di offrire sul mercato dei diritti la migliore mercanzia, e della necessaria e leale cooperazione degli operatori che si può andare alla ricerca della soluzione più adeguata al caso, che peraltro assai di frequente appare essere non già idonea ad appagare a pieno i diritti e, in genere, gli interessi meritevoli di tutela in campo bensì a far pagare agli stessi il minor costo possibile, specie nella presente congiuntura segnata da plurime e gravi emergenze (da quella economica a quella terroristica, da quella rappresentata dal fenomeno delle migrazioni di massa a quella ambientale, ecc.) che obbligano i diritti e i beni della vita in genere a forte contrazione del loro formidabile potenziale espressivo. del giudice”.
[12] Su quanto riferito nel testo e sulla legge n.219/2017 ci si permette di rinviare ad un volume di imminente pubblicazione, R. Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Relazione di cura, DAT e “congedo dalla vita” dopo la l. 219/2017, in corso di stampa con i tipi di Aracne Editore.
[13] V., da ultimo, sul ruolo del giudice tutela nell’ambito dell’amministrazione di sostegno, S. Celentano, L’amministrazione di sostegno tra personalismo, solidarismo e sussidiarietà ed il ruolo del Giudice della Persona, in Questionegiustiziaonline, fascicolo n.3/2018.
[14] Di questo e del Protocollo n.16 annesso alla CEDU abbiamo discusso in R. Conti, I Protocollo di dialogo fra Alte Corti italiane, CSM e Corte edu a confronto con il Protocollo n.16 annesso alla CEDU. Due prospettive forse inscindibili, in corso di pubblicazione su Questionegiustiziaonline.
[15] Sulla vicenda è sufficiente rinvia al report predisposto dal gruppo di attuazione del Protocollo d’intesa stilato fra Corte di Cassazione e Corte edu, di recente inserito nel bollettino n.2 Cassazione CEDU, consultabile sul sito istituzionale della Cassazione-www.cortedicassazione.it-, partendo dal link Attività internazionali.
[16] V., volendo, R. Conti, I giudici e il biodiritto. Un esame concreto dei casi difficili e del ruolo del giudice di merito, della Cassazione delle Corti europee, Roma 2015, 2^, 269 ss.
[17] S. Ragone, La comparazione come tecnica strumentale all’interpretazione e all’applicazione dei principi: il caso del rifiuto dei trattamenti medici vitali, in Il diritto alla fine della vita, in www.biodiritto.org.
[18] Di questo torniamo a discutere in R. Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Relazione di cura, DAT e “congedo dalla vita” dopo la l. 219/2017, cit.
[19] V., sulla centralità del dialogo per il giudice federale americano, ma in una prospettiva che non è molto diversa da quella del giudice di ultima istanza nazionale, G. Calabresi, Il mestiere di giudice. Pensieri di un accademico americano, Bologna 2014, 66 e ss. Anche l’ordinanza n.207/2018 della Corte costituzionale, appena pubblicata, sulla vicenda “Cappato” è sintomatica di quanto le Corti superiori tendano quasi naturalmente a favorire soluzioni che presuppongono un dialogo/confronto con il legislatore o le altre Corti. Dialogo cercato addirittura forzando prassi secolari ed attingendo ad esperienze oltreoceaniche pur se proprie di sistemi giuridici che la tradizione giuridica colloca in ambiti diversi da quelli nostrani.
[20] V., ancora, sul tema, volendo R. Conti, Alla ricerca del ruolo dell’ art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel pianeta famiglia, in Minoriefamiglia. Intervento svolto alla tavola rotonda organizzata all’interno del convegno nazionale dall’Associazione nazionale magistrati per i minorenni e per la famiglia svoltasi a Roma il 23 novembre 2012 sul tema “Tutela delle persone minori di età e rispetto delle relazioni familiari",
[21] V.A. Ruggeri, Le dichiarazioni di fine vita tra rigore e pietas costituzionale, in Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti,, XIII, Torino, 2009, 522.
[22] G. Calabresi, Il mestiere del giudice. Pensieri di un accademico americano, cit., 85.
[23] U. Adamo, Costituzione e fine vita, Padova 2018, 226 ss., a proposito delle integrazioni alla legge n.219/2017 in tema di eutanasia.
[24] Ciò che dimostra, ancora una volta, quanto straordinaria - ed onerosa - sia l'opera del giudiziario e quanto vere fossero le parole che Piero Calamandrei andava scrivendo in un suo vecchio, ma sempre straordinariamente attuale saggio, intitolato Giustizia e politica: sentenza e sentimento. "La verità, diceva Calamandrei, è che il giudice non è un meccanismo: non è una macchina calcolatrice. E' un uomo vivo: e quella funzione di specificare la legge e di applicarla nel caso concreto, che in vitro si può rappresentare come un sillogismo, è in realtà un'operazione di sintesi, che si compie a caldo, misteriosamente, nel crogiuolo sigillato dello spirito, ove la mediazione e la saldatura tra la legge astratta e il fatto concreto ha bisogno, per compiersi, della intuizione e del sentimento acceso in una coscienza operosa...ridurre la funzione del giudice ad un puro sillogismo vuol dire impoverirla…, inaridirla…, disseccarla…. La giustizia è qualcosa di meglio: è creazione che sgorga da una coscienza viva, sensibile, vigilante, umana”.
[25] G. Palombella, La <