ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Incertezza normativa e principio di autoresponsabilità degli operatori economici: sempre più verso una “Italia immobile”? (nota a Cons. Stato, IV, 19 aprile 2022, n. 2915)
di Clara Napolitano
Sommario: 1. I fatti. – 2. I limiti dell’affidamento riposto nell’atto illegittimo e la loro traslazione sull’atto normativo. – 3. Affidamento e attività normativa: itinerari di un conflitto. – 4. Affidamento, proporzionalità e ragionevolezza. – 4.1. Quando la norma peggiorativa può essere retroattiva: interessi pubblici, affidamento non legittimo, effetto ripristinatorio del giudicato. – 5. Cenni conclusivi.
1. I fatti
Un complesso appello, quello proposto al Consiglio di Stato da una società che contesta la legittimità di un atto ministeriale ritenuto lesivo dei propri interessi.
La vicenda sottesa alla pronuncia qui annotata si sviluppa nel giro di qualche anno, passiamone in rassegna i punti salienti.
Agli inizi degli anni 2000 sono predisposti tre programmi di agevolazione fiscale di durata pluriennale al fine di favorire l’avviamento del mercato nazionale di biodiesel: i programmi, ricevuta l’approvazione preventiva della Commissione europea circa la loro compatibilità con il divieto di aiuti di Stato di cui all’art. 108, par. 3, TFUE, sono disciplinati con due d.m. rispettivamente del 2003 e del 2008.
Con due sentenze del Consiglio di Stato – la n. 812/2012[1] e la n. 1120/2012[2] – sono poi annullate, in quei d.m., disposizioni concernenti i criteri di assegnazione ai produttori di biodiesel dei quantitativi di prodotto esenti dall’accisa prevista dalla legislazione vigente.
Nel vuoto normativo venutosi a creare, il Consiglio di Stato si pronuncia nuovamente – con sentenza n. 998/2014[3] – ordinando al Ministero di concludere il procedimento di adozione della nuova disciplina regolamentare: la quale, infine, è approvata col d.m. n. 37/2015.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, col nuovo decreto, nel dichiarato intento di conformarsi ai giudicati, prevede all’art. 3 la rideterminazione delle quote alle ditte precedentemente ammesse all’agevolazione, tenuto conto dei nuovi criteri individuati. La rideterminazione, ovviamente, vale “ora per allora” in ossequio agli effetti retroattivi dell’annullamento giurisdizionale.
Nasce qui la vicenda giurisdizionale che impegna il Consiglio di Stato: una società beneficiaria di quelle agevolazioni, nella consapevolezza di subire, con i nuovi criteri, una rideterminazione retroattiva in pejus delle quote di biodiesel esonerato dall’accisa, impugna il d.m. n. 37/2015 innanzi al Tar Lazio, sede di Roma.
Il Giudice amministrativo di prime cure rigetta il ricorso, respingendone integralmente i motivi: tra tutti, quello secondo il quale la società ricorrente avrebbe sofferto la lesione del suo legittimo affidamento stante la rimodulazione in pejus delle quote di biodiesel con norma retroattiva.
Per il Tribunale, l’irretroattività dei provvedimenti normativi costituisce invero un principio inderogabile soltanto con riferimento alla legge penale, mentre – relativamente al d.m. n. 37/2015 – non emergono profili di irragionevolezza o di violazione del principio di proporzionalità; inoltre, non v’è alcun legittimo affidamento ab origine, non vi sarebbe alcun legittimo affidamento tutelabile, in ragione della situazione di incertezza giuridica originata dai numerosi contenziosi intentati avverso i regolamenti poi annullati.
La pronuncia pone dunque nuovamente in luce la vexata quaestio della tutela dell’affidamento del privato nei confronti del potere amministrativo: non provvedimentale, stavolta, bensì regolatorio. Il tema ha risvolti di natura sostanziale, ovvero i limiti di legittimità dell’affidamento e le condizioni affinché questo possa ricevere protezione rispetto a un atto amministrativo restrittivo; e ricadute di tipo processuale, che investono la retroattività dell’annullamento giurisdizionale, i suoi effetti conformativi e ripristinatorii, nonché la vincolatività del giudicato rispetto all’Amministrazione che deve darvi esecuzione.
Non si può, infine, prescindere da un rilievo generalissimo: ovvero l’affermazione del principio di certezza giuridica, i suoi limiti e le sue concrete modalità di protezione in capo a operatori del mercato che sempre più sono responsabilizzati nel dialogo con l’Amministrazione pubblica[4].
2. I limiti dell’affidamento riposto nell’atto illegittimo e la loro traslazione sull’atto normativo
La pronuncia qui annotata si colloca nel solco di una corposa giurisprudenza in materia di tutela dell’affidamento riposto dal privato rispetto all’esercizio di un potere amministrativo per sé vantaggioso.
La tematica è stata da poco oggetto di due sentenze dell’Adunanza plenaria – la n. 19 e la n. 20 del 2021[5] – le quali hanno costruito il rapporto tra privato e p.A. in termini di correttezza e buona fede reciproci, sicché l’affidamento del privato nei confronti dell’attività amministrativa rileva – sì – ma solo laddove esso possa considerarsi oggettivamente e soggettivamente legittimo e incolpevole[6].
Deve precisarsi che il tema dell’affidamento emerge soprattutto quando il privato chieda tutela per aver ragionevolmente confidato nella legittimità di un provvedimento vantaggioso rivelatosi, poi, illegittimo e annullato dal Giudice amministrativo o in via di autotutela da parte della stessa Amministrazione. In quell’occasione, la Plenaria ha così individuato alcune condizioni al sussistere delle quali deve escludersi in radice la legittimità dell’affidamento del privato e, dunque, la sua protezione da parte dell’ordinamento. Due, in particolare, escludono il ragionevole affidamento sulla legittimità dell’atto: l’esistenza di vizi ictu oculi emergenti nell’atto e l’avvenuta impugnazione del medesimo da parte di un terzo, impugnazione della quale il privato abbia avuto conoscenza.
Ciò perché l’affidamento è meritevole di tutela solo quando esso sia, appunto, sorretto da un convincimento ragionevole rispetto alla correttezza della condotta dell’Amministrazione: la pura consapevolezza che quella condotta sia – o possa essere – tacciata d’illegittimità, o appaia ictu oculi illegittima, esclude la buona fede e dunque impedisce che l’ordinamento protegga colui che – in qualche misura – poteva ben avvedersi di star confidando su un atto illegittimo.
Ora, siffatta lettura è solo parzialmente utile, in questo caso.
Ciò in quanto la giurisprudenza della Plenaria si è appunto pronunciata, sì, sull’affidamento del privato: ma solo relativamente all’ipotesi nella quale costui, avendo erroneamente confidato nella conservazione di un vantaggio arrecatogli da un provvedimento illegittimo, pretenda tutela risarcitoria per l’avvenuto annullamento di quel provvedimento e il conseguente ripristino della legalità. Parliamo, insomma, dell’affidamento su provvedimento amministrativo vantaggioso illegittimo, annullato.
Qui, invece, il tema è sì l’affidamento nutrito nei confronti di un atto amministrativo: non di natura provvedimentale, però, bensì di natura normativa.
Gli appellanti, invero, non lamentano la lesione dell’affidamento per l’avvenuto annullamento degli atti illegittimi, bensì la loro sostituzione retroattiva con atti legittimi di diritto sopravvenuto.
Questo cambia il quadro.
Anzitutto è di immediato rilievo la distinzione tra provvedimento amministrativo e atto normativo – pur attribuibile alla p.A. – quale è il d.m. oggetto d’impugnazione.
Come affermato anche dallo stesso Consiglio di Stato[7] in uno dei giudizi che concernono la vicenda delle aliquote di biodiesel che qui interessano, il decreto ministeriale ha natura di atto normativo della p.A., iscrivendosi nella categoria degli atti regolamentari[8]: il regolamento è invero «definito atto amministrativo a contenuto normativo, poiché esso si presenta come atto formalmente amministrativo (in quanto adottato da una amministrazione pubblica), ma appartenente al novero delle fonti secondarie, stante il suo contenuto normativo, determinato dalla presenza di prescrizioni caratterizzate da generalità ed astrattezza, in grado di agire con carattere innovativo nell’ordinamento giuridico»; così, esso «si contraddistingue per i caratteri della generalità ed astrattezza delle proprie previsioni, poiché queste, per un verso, riguardano una pluralità indistinta e non determinabile di destinatari (potendosi, al massimo, circoscrivere pluralità o categorie di esse o collettività generali), il che ne determina, appunto, la “generalità”; per altro verso, tali previsioni si caratterizzano per la loro ripetibilità, e quindi applicabilità ad un numero indefinito di casi concreti (il che ne determina l’astrattezza). La caratterizzazione in termini di generalità ed astrattezza delle previsioni del regolamento ne determina anche l’ulteriore, necessario carattere della efficacia verso l’esterno delle sue norme».
D’altra parte, quel d.m., in quanto atto normativo attribuibile alla p.A., è distinguibile anche dagli altri atti amministrativi generali: «ciò che distingue i regolamenti dagli altri atti amministrativi generali (ad esempio, un bando di gara o di concorso) non è da rinvenirsi solo in aspetti formali (quali la autoqualificazione dell’atto come regolamento, ovvero il tipo di procedimento seguito per la sua adozione), ovvero nella circostanza che i destinatari di questi ultimi, in un primo tempo non determinabili, lo diventano in un momento successivo (e quindi nell’assenza di generalità); ma anche nella circostanza che gli atti amministrativi generali costituiscono espressione di potere della Pubblica Amministrazione volto alla cura di un interesse pubblico in riferimento ad un obiettivo concreto e determinato (la scelta del contraente, l’individuazione dei vincitori di un concorso da assumere), come tale destinato ad essere temporalmente circoscritto e strutturalmente esauribile».
Pertanto, i regolamenti si distinguono dagli atti amministrativi generali e dai provvedimenti amministrativi in quanto questi ultimi costituiscono espressione di una semplice potestà amministrativa e sono diretti alla cura concreta di interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente determinati, ma determinabili.
Sicché, mentre nel caso dei regolamenti il fondamento del potere è individuabile nella predefinizione astratta della disciplina di un numero indefinito e non determinato nel tempo di casi rientranti nella fattispecie normativa, nel caso degli atti amministrativi generali esso è invece rappresentato dal concreto perseguimento di un interesse pubblico, programmaticamente circoscritto e temporalmente definito.
Il che determina l’ulteriore conseguenza (e distinzione) che, mentre l’efficacia dei regolamenti è temporalmente indefinita (e abbisogna, per la sua cessazione, di un ulteriore atto normativo), nel caso degli atti generali l’efficacia degli stessi si esaurisce con il concreto raggiungimento dell’interesse pubblico, la cui cura ha costituito la causa giustificatrice dell’esercizio del potere.
Così stanti le cose, il tema diventa non più l’affidamento sulla legittimità di un atto amministrativo poi annullato, bensì la confiance sulla conservazione dello status quo in ragione della sostituzione di quell’atto – di natura normativa – con uno jus superveniens peggiorativo avente efficacia retroattiva, in esecuzione di un giudicato.
3. Affidamento e attività normativa: itinerari di un conflitto
La protezione dell’affidamento in relazione a un’attività amministrativa di carattere sostanzialmente normativo è tematica che condivide profili di forte affinità con quella più generale del rapporto tra affidamento e legislazione.
Amplius, il rapporto tra cittadino e legislatore corre su più crinali parzialmente sovrapposti: la protezione dell’affidamento, il principio di continuità e quello di certezza del diritto.
Ora, mentre quest’ultimo innerva di sé gli ordinamenti democratici, costituendone il fondamento di riconoscibilità nella misura in cui garantisce la stabilità dei rapporti giuridici e la prevedibilità del dato normativo[9], l’affidamento e il principio di continuità hanno un ambito applicativo maggiormente circoscritto.
Mentre il principio di continuità viene in rilievo tutte quelle volte in cui si realizzi un mutamento normativo che segni una cesura rispetto al passato, il principio del legittimo affidamento emerge quando detto mutamento sia di segno retroattivo e incida su posizioni giuridiche ormai consolidate nel cittadino[10].
Il principio del legittimo affidamento è così posto a presidio di una situazione in cui il legislatore interviene con una norma o propriamente retroattiva – incidente in modo negativo su posizioni giuridiche soggettive consolidate – oppure impropriamente tale – poiché va a incidere su rapporti di durata modificandone l’assetto per il futuro[11].
Così letta, la tutela dell’affidamento costituirebbe un limite alla discrezionalità del legislatore – parliamo infatti di atti normativi – nell’elaborazione di norme sopravvenute regolatrici in senso peggiorativo: limite non di per sé assoluto, tale per cui v’è il divieto di normare in via retroattiva, seppur in pejus; bensì relativo, nel senso che quella retroattività, valutata come necessaria dal legislatore, dev’essere “governata”[12], magari con disposizioni transitorie, per proteggere quanto più possibile quei rapporti giuridici – ancora in itinere – nati nel regime normativo precedente di segno più favorevole.
La relatività del legittimo affidamento come limite alla retroattività degli atti normativi pregiudizievoli per i rapporti giuridici consolidati è, peraltro, sostenuta da una certa giurisprudenza costituzionale[13] che lo ha qualificato come limite cedevole rispetto ad altre esigenze giudicate inderogabili, per esempio di tipo finanziario.
Questo assetto sarebbe confermato – e per il vero lo afferma anche lo stesso Collegio nella sentenza qui annotata – dal fatto che la Costituzione sancisce il divieto di retroattività in riferimento alla sola legge penale[14]: lasciando così all’affidamento il ruolo, appunto, di “governatore” delle norme che dispongono anche per il passato.
4. Affidamento, proporzionalità e ragionevolezza
In questo suo momento applicativo, l’affidamento si accompagna necessariamente al principio di ragionevolezza: che può esser riletto, anzitutto, con lo strumentario del principio di proporzionalità.
In altre parole, stante una generale, ampia ammissibilità di norme retroattive peggiorative, tenendo conto del limite del legittimo affidamento, bisogna sempre verificare che la norma retroattiva non frustri irragionevolmente od oltremodo l’affidamento medesimo.
Entra, quindi, in gioco, come detto, lo «strumentario concettuale»[15] del principio di proporzionalità.
Per un verso, infatti, bisogna valutare che la norma retroattiva sia di per sé ragionevole, intesa la ragionevolezza quale sua idoneità a perseguire – o a favorire sensibilmente il perseguimento – dell’obiettivo del legislatore (primo step del c.d. test di proporzionalità); in secondo luogo, andrà valutata la sua necessarietà, ovvero l’idoneità in concreto, l’assenza di valide alternative di intervento per il legislatore, che siano meno negativamente incidenti sulle posizioni giuridiche soggettive che si oppongono al cambiamento normativo in parola (secondo step del c.d. test di proporzionalità). Infine, valutate la idoneità e la necessarietà, dovrà esser valutata la ragionevolezza specifica della norma, ovvero dovrà esserne esaminata la proporzionalità in senso stretto e, in particolare, delle sue componenti propriamente o impropriamente retroattive. Come ritenuto dalla dottrina, a questo punto, «se non vi è valida alternativa rispetto ad un intervento normativo, che appare idoneo e necessario per il raggiungimento di un fine inderogabile di diritto pubblico, allora non resta che valutare se il sacrificio che la nuova norma impone al privato – e, nello specifico, al suo legittimo affidamento – non sia tale da imporre di rinunciare comunque all’emanazione della nuova normativa, perché il peso dell’interesse pubblico non è tale da poter prevalere sugli interessi privati contrapposti. Ma, se così non è (come nella maggior parte delle ipotesi, per il vero), allora non resta che ragionare in termini di diritto intertemporale: valutando, cioè, l’adeguatezza delle misure transitorie a fungere da giusto contrappeso rispetto al sacrificio imposto al privato e, in particolare, al suo legittimo affidamento»[16].
L’accortezza dell’inserimento di disposizioni transitorie, di diritto intertemporale, è peraltro superflua e non necessaria laddove la successione di norme sia di per sé prevedibile; quando cioè l’affidamento maturi su atti normativi il cui esito abrogativo è oggettivamente prevedibile, esso non impedirà l’elaborazione di atti normativi sopravvenuti con efficacia retroattiva: «Quest’ultimo, infatti, non potrà invocarsi in ipotesi di reformatio in peius del trattamento giuridico nei casi in cui detto mutamento normativo di segno sfavorevole risultasse prevedibile o conoscibile potendosi configurare il sorgere di una situazione di vantaggio, idonea a ingenerare affidamento, esclusivamente nel caso in cui il mutamento sfavorevole per il cittadino non fosse prevedibile. In ragione di ciò, risulta di immediata evidenza come non si possano invocare affidamenti di fronte a forme di esercizio dell’attività legislativa che si caratterizzino naturaliter per un’intrinseca instabilità»[17].
La medesima ragionevolezza, in altre parole, consente la retroattività di norme che non siano di diritto penale, laddove un interesse pubblico la richieda; impone, al tempo stesso, che l’affidamento del cittadino costituisca un elemento di governo della retroattività, per esempio tramite l’imposizione di disposizioni transitorie; e però, lo impone solo allorché l’affidamento del cittadino possa ritenersi legittimo, dal punto di vista oggettivo e soggettivo.
4.1. Quando la norma peggiorativa può essere retroattiva: interessi pubblici, affidamento non legittimo, effetto ripristinatorio del giudicato
Orbene, quanto alla retroattività delle disposizioni successivamente intervenute, il Consiglio di Stato richiama il corposo excursus giurisprudenziale in materia di tetti di spesa, per il quale «la determinazione in corso d’anno dei “tetti di spesa”, che dispieghino i propri effetti anche sulle prestazioni già erogate, non può considerarsi, in quanto tale, affetta da illegittimità»[18].
Si tratta, come noto, di un tema sul quale è intervenuta una decina d’anni fa l’Adunanza plenaria, proprio per dirimere il contrasto tra due orientamenti opposti[19]: il primo escludente la legittimità della fissazione di tetti in via retroattiva, specie quando intervenga in un periodo avanzato dell’anno, poiché finisce per ledere l’autonomia e l’integrità delle scelte imprenditoriali, alterando gravemente le dinamiche concorrenziali tra erogatori pubblici e privati; il secondo che invece la riteneva legittima (anzi fisiologica, attesa la complessità del procedimento di quantificazione delle risorse disponibili, del quale essa costituisce solo l’atto terminale). Aderendo al secondo indirizzo, la Plenaria ha poi determinato un aggravamento dell’istruttoria da parte dell’Amministrazione in termini di contraddittorio e partecipazione specie per la tutela dell’affidamento degli operatori economici per esigenze di certezza e stabilità degli investimenti[20].
È evidente, insomma, che l’esistenza di un interesse pubblico specifico e concreto – spesso di matrice economico-finanziaria – legittima un intervento normativo retroattivo in grado di frustrare l’affidamento degli operatori, purché ne sussistano i requisiti di ragionevolezza e proporzionalità.
Intervento che, di per sé, risulta a questo punto ragionevole anche – anzi, soprattutto – laddove debba escludersi in radice la legittimità dell’affidamento riposto dall’operatore: laddove egli, cioè, potesse prevedere l’instabilità normativa e la successione di norme. Mentre nell’ambito del potere legislativo questo dato è generalmente riferito – come accennato – alle norme su decretazione d’urgenza o a quelle delegate, di per sé instabili, bisogna qui rammentare che ci si trova nell’ambito del potere normativo/regolatorio dell’Amministrazione.
La traslazione comporta un adattamento della ragionevolezza: qui si esclude l’affidamento dell’operatore quando – esattamente come accade con i provvedimenti amministrativi illegittimi – egli sia a conoscenza del contenzioso (o addirittura ne sia parte processuale) nel quale quell’atto regolatorio è impugnato e possa, dunque, prevedere il contenuto delle nuove disposizioni normative perché questo è già presente negli indirizzi ermeneutici della sentenza di annullamento pronunziata all’esito del medesimo contenzioso.
Così pronuncia il Collegio nella sentenza qui annotata: «la tutela del legittimo affidamento è ormai considerato un canone ordinatore anche dei comportamenti delle parti coinvolte nei rapporti di diritto amministrativo. […] In linea generale, in materia di responsabilità dell’amministrazione per lesione del legittimo affidamento, si è affermato che “la responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento” (Cons. Stato, Ad. pl., 29 novembre 2021, n. 21; sulla stessa linea in precedenza Ad. plen., n. 19 del 2021). […] 14.5. I principi suesposti sono chiaramente estensibili anche al giudizio di annullamento, nel quale si controverta dell’asserita illegittimità di una soluzione regolamentare o provvedimentale approntata dall’amministrazione, in quanto essi sono riferiti alla qualificazione dell’affidamento come “legittimo” e, dunque, al predicato (fondamentale, ai fini della tutela in giudizio) di ciò che costituisce oggetto della tutela accordata dall’ordinamento (non l’affidamento “in sé e per sé”, ma l’affidamento in quanto, soggettivamente ed oggettivamente, “legittimo”). […] 14.6. Ebbene, con riferimento al caso in esame, i giudizi di annullamento culminati nelle sentenze nn. 812/2012 e 1120/2012 si sono svolti anche nei confronti dell’odierna appellante, intimata in qualità di controinteressata e, dunque, pienamente a “conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento”».
All’interesse finanziario da perseguire e all’assenza in radice d’una legittimità dell’affidamento nutrito dall’operatore economico si aggiunge, poi, la ragione puramente processuale dalla quale scaturisce, per il Collegio, la legittimità della scelta normativa retroattiva.
V’è, infatti, «piena esplicazione degli effetti c.d. ripristinatori e quindi fisiologicamente retroattivi del giudicato di annullamento (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. nn. 5 del 2019, 1 del 2018, 4 e 5 del 2015; Corte di giustizia UE, sez. II, 14 maggio 2020, C-15/19), il quale, nei limiti del noto brocardo secondo cui factum infectum fieri nequit, tende a riportare la situazione “di fatto” a conformità con quella “di diritto”, la quale ultima, evidentemente, non era quella prefigurata» dai d.m. annullati nel 2012, bensì dal d.m. n. 37/2015, «attuativo dei principi formulati da questo Consiglio con i giudicati di annullamento del 2012 e ritenuti compatibili con la disciplina euro-unitaria dalla sentenza della Corte di giustizia».
In altre parole, anche se il precedente assetto normativo travolto dalla sentenza di annullamento ha indirizzato le scelte imprenditoriali e produttive degli operatori economici, non v’è per loro alcuna tutela e la nuova disciplina vale legittimamente “ora per allora”[21].
A questo proposito, il Collegio richiama una corposa mole di precedenti in base ai quali l’adozione di un atto amministrativo anche regolatorio “ora per allora” è legittima per conseguire gli effetti ripristinatorii della sentenza di annullamento, i quali si accompagnano a quelli eliminatorii dell’atto illegittimo e conformativi per il ri-esercizio del potere[22].
A ciò si accompagna un richiamo al principio di autoresponsabilità, per il quale «la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, anche processuale, contraria al principio di buona fede e al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati, recide il nesso causale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve legare la presunta condotta antigiuridica alle conseguenze risarcibili (Cons. Stato, sez. V, 2 febbraio 2021, n. 962)».
In altre parole, secondo il Collegio, l’imprenditore che è a conoscenza dell’avvenuta impugnazione del regolamento e, in particolare, di quelle disposizioni che riguardano la ripartizione delle risorse (e, dunque, le quote spettanti e quelle che spetteranno) non può dolersi di aver “ragionevolmente” e “legittimamente” confidato (cioè “fatto affidamento”) sull’intangibilità di quelle risorse, potendo (ove lo ritenga opportuno) orientare la sua attività produttiva, tenendo conto delle conseguenze che potrebbero scaturire da un eventuale annullamento dell’atto regolatorio e dalla successiva individuazione di diversi criteri di ripartizione delle quote di aiuto di Stato erogate.
5. Cenni conclusivi
La sentenza qui annotata mostra il costante conflitto ormai esistente tra operatori economici e Amministrazioni. Un conflitto regolato dal Giudice amministrativo facendo richiamo ai principi generali del Diritto amministrativo: i quali, tuttavia, sembrano – ad avviso di chi scrive – non essere perfettamente attagliati alle vicende per le quali è causa.
I fatti, a questo punto, sono ben noti: si tratta di imprenditori che hanno operato le loro scelte strategiche nell’ambito di un quadro normativo non più attuale, nelle more sostituito – a seguito di giudicato – da una disciplina deteriore e retroattiva, pertanto lesiva dei loro interessi.
Qualora questa vicenda si fosse verificata con la successione nel tempo di norme di legge, espressione appunto del potere legislativo, è plausibile che l’affidamento degli operatori economici avrebbe ottenuto protezione – in quanto legittimo – tramite l’emanazione di norme di diritto intertemporale e transitorie.
Poiché però la cornice normativa di riferimento non era fornita da un atto di fonte legislativa, bensì da un atto di fonte amministrativa espressione di potere regolatorio, il parametro utilizzato dal Giudice nella definizione della controversia è stato quello della tutela dell’affidamento rispetto al provvedimento amministrativo favorevole illegittimo.
Con una inevitabile conseguenza derivata.
E cioè che, richiamando il principio di autoresponsabilità, è esclusa la legittimità dell’affidamento nutrito dall’operatore economico quando per costui sia prevedibile che il quadro normativo nell’ambito del quale sta compiendo le sue scelte strategiche sia precario a causa di un probabile annullamento giurisdizionale: conseguentemente, ne è esclusa la tutela.
Il punto, però, non pare centrato. Perché ciò che qui è messo in discussione non è la precarietà degli effetti del quadro normativo giurisdizionalmente annullato, bensì la retroattività “ora per allora” della regolazione amministrativa successiva.
Regolazione il cui sindacato sfugge – diversamente dalle pronunce di prime cure – ai parametri di ragionevolezza e proporzionalità: i quali, ove fossero stati applicati, avrebbero potuto condurre a una forma di tutela degli operatori economici – quanto meno indennitaria – derivante dalla successione di norme nel tempo.
Invece quegli operatori sono stati richiamati all’ossequio al principio di autoresponsabilità, che ancora una volta viene utilizzato in modo tranchant: tanto da invitare l’operatore a non compiere alcuna scelta imprenditoriale se basata su una disposizione la cui legittimità è sub iudice. Non v’è dubbio che, qui, l’autoresponsabilità conduca a una sorta di estremo principio di precauzione: che tuttavia mal si sposa con il mondo imprenditoriale, sospinto verso continue scelte che – pur ponderate – non possono sospendersi a causa della perdurante incertezza del quadro normativo, la quale – a sua volta – diventa un bagaglio troppo pesante per cadere esclusivamente sulle spalle degli operatori economici[23].
[1] Cons. Stato, IV, 16 febbraio 2012, n. 812: «[…] il Collegio annulla l’art. 4, comma 2, del D.M. 25 luglio 2003 n. 256, ed i provvedimenti attuativi delle predette disposizioni […] di assegnazione del quantitativo di B. in esenzione e/o agevolato per le annualità 2006, 2007 e 2008 […]. Per effetto del disposto annullamento e del conseguente obbligo conformativo alla presente pronuncia gravante sull’amministrazione, quest’ultima dovrà procedere a rideterminare i criteri di assegnazione del quantitativo di B. in esenzione e/o agevolato, in luogo di quanto già disposto dall’annullato art. 4, co. 2 D.M. n. 256/2003, e, quindi, dovrà riprocedere ad assegnazione per gli anni 2006, 2007 e 2008».
[2] Cons. Stato, IV, 28 febbraio 2012, n. 1120, di tenore analogo alla n. 812: «in accoglimento dei motivi di appello ora considerati, e dei motivi (per il tramite di essi riproposti) di cui al ricorso instaurativo del giudizio di I grado, il Collegio annulla l’art. 3, comma 4, del D.M. 3 settembre 2008 n. 156. Per effetto del disposto annullamento e del conseguente obbligo conformativo alla presente pronuncia gravante sull’amministrazione, quest’ultima dovrà procedere a rideterminare i criteri di assegnazione del quantitativo di biodiesel in esenzione e/o agevolato».
[3] Cons. Stato, IV, 4 marzo 2014, n. 998: «[…] la Sezione ritiene di dover limitare la decisione di accoglimento dei ricorsi all’ordine all’Amministrazione di concludere il procedimento di adozione della nuova disciplina regolamentare in un termine perentorio, che si stima equo fissare in 120 giorni dalla notificazione o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza. Qualora questo termine dovesse infruttuosamente spirare, su richiesta di parte, potrà essere valutata l’opportunità di far ricorso all’ulteriore misura della nomina di un Commissario ad acta col compito di provvedere in sostituzione dell’Amministrazione».
[4] In proposito v. i numerosi appelli di M.A. Sandulli, la quale parla di “norme-trappola per i privati” (Basta norme-trappola sui rapporti tra privati e PA o il Recovery è inutile, in Giustiziainsieme.it); di recente anche la sua intervista a Michele Corradino, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato e già Consigliere dell’Autorità Nazionale Anti Corruzione, nonché autore di «L’Italia immobile. Appalti, burocrazia, corruzione. I rimedi per ripartire», edito da Chiarelettere nel novembre 2020. L’intervista è sempre su Giustiziainsieme.it. Al titolo del libro è volutamente ispirato il titolo di questo piccolo contributo.
La sfiducia degli investitori e degli operatori economici nel nostro Paese trova, peraltro, terreno fertile nella confusione tra le categorie giuridiche: si pensi alla scarsa intellegibilità tra «falsità», «mendacio» e «non veridicità» dell’autocertificazione. In un’era nella quale, con progressive stratificazioni normative, il privato è stato investito di un sempre più gravoso principio di autoresponsabilità nel dichiarare fatti e stati all’Amministrazione, al fine di alleggerirne il percorso burocratico, di fatto costui è privo di idonee garanzie, poiché rischia di vedersi applicate sanzioni ex D.P.R. n. 445/2000 e di subire atti di autotutela amministrativa in deroga ai termini di legge. Ciò in quanto, se il sistema ordinamentale – condivisibilmente –non tutela l’affidamento di chi dichiara il falso alla p.A. (e quindi agisce con intento decettivo), al contrario dovrebbe evitare d’irrogare sanzioni per «qualsiasi, preteso, “errore” di ricostruzione e valutazione del quadro tecnico e normativo di riferimento imputabile all’interessato anche nella dichiarazione di circostanze (come il generico possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi richiesti dalla normativa di riferimento) sulle quali (a differenza di quelle risultanti dagli atti di certazione) i poteri pubblici (legislativo, amministrativo e giurisdizionale) o la realtà fattuale (dati inconfutabili, come il peso, la misura, ecc.) non offrono certezza»: v. in proposito lo scritto di M.A. Sandulli, Autodichiarazioni e dichiarazione «non veritiera», in Giustiziainsieme.it, 15 ottobre 2020, dal quale è tratta quest’ultima citazione.
[5] Sia qui consentito il rinvio a C. Napolitano, Potere amministrativo e lesione dell’affidamento: indicazioni ermeneutiche dall’Adunanza plenaria, in Riv. giur. ed., n. 1/2022, pp. 3 ss.
[6] Cons. Stato, ad. plen., n. 20/2021, cit.: «L’affidamento tutelabile in via risarcitoria deve essere ragionevole, id est incolpevole. Esso deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’Amministrazione con il provvedimento, o con il suo comportamento correlato al pubblico potere, in cui il privato abbia senza colpa confidato».
[7] Già citato Cons. Stato, IV, n. 812/2012.
[8] L’ambiguità delle fonti del diritto amministrativo, necessariamente flessibili e connotate da atipicità, è ben descritta nel suo contesto storico da M. Mazzamuto, L’atipicità delle fonti nel diritto amministrativo, in Dir. amm., n. 4/2015, pp. 683 ss.: «Un’altra vicenda significativa, ma specifica del nostro ordinamento, è, a cominciare dagli anni cinquanta dello scorso secolo, quella del confine intercorrente tra i regolamenti e i cd. “atti amministrativi generali”. Sono note le traversie che hanno toccato talune rilevanti fattispecie (dai provvedimenti che stabiliscono prezzi o tariffe ai piani urbanistici o ai bandi di concorso o di gara), ove si sono nuovamente riversate le incertezze concettuali della nozione di norma giuridica, questa volta coinvolgendo per lunghi anni la stessa giurisprudenza in un'alternanza di qualificazioni contrastanti. Per quanto, almeno al livello giurisprudenziale, certe vecchie questioni si siano sostanzialmente sopite, il confronto rimane sempre vivo col sopravvenire di nuove fattispecie, ed è ancora impregiudicato il versante degli atti regolativi delle autorità amministrative indipendenti. Non sorprende così che la giurisprudenza abbia ritenuto nella sua sede più autorevole di consolidare un (in verità sempre relativo) criterio generale di distinzione che, per l’atto amministrativo generale, collega in sostanza difetto di astrattezza e determinabilità a posteriori dei destinatari. Sullo sfondo di questa variegata concorrenza qualificatoria aleggia il problema del rispetto delle garanzie di competenza o di formazione dei regolamenti (ove previste, come nel caso dei regolamenti statali: L. n. 400/88) e più in generale del “fondamento” stesso del potere regolamentare. L'utilizzo di criteri sostanziali per l'individuazione di un regolamento lascia infatti di per sé impregiudicati i suddetti profili che potrebbero inficiare la validità dell'atto. Così, ad es., una circolare qualificata come regolamento viene annullata per difetto di competenza dell'Assessore regionale, spettando la potestà regolamentare alla Giunta regionale o un decreto ministeriale qualificato come regolamento viene annullato perché, in assenza di espressa deroga legislativa, doveva sottoporsi al procedimento previsto per i regolamenti ministeriali».
[9] V. in proposito P. Carnevale, I diritti, la legge e il principio di tutela del legittimo affidamento nell’ordinamento italiano. Piccolo divertissement su alcune questioni di natura definitoria, in Scritti in onore di Alessandro Pace, III, 2012, 1939.
[10] V. in proposito l’ampio affresco di F.F. Pagano, Il principio di affidamento nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale, in Gruppodipisa.it, poi in Dir. pubbl., n. 2/2014, pp. 583 ss., per il quale il principio di continuità è «una fattispecie ben distinguibile dalla tutela di un legittimo affidamento, atteso che questi si radica in tutti quei casi in cui l’intervento legislativo, di segno retroattivo, incide in modo negativo su posizioni giuridiche soggettive ormai maturate dal cittadino. Oppure, in tutte quelle fattispecie di retroattività impropria in cui la norma incide su rapporti di durata modificandoli per il futuro e frustrando le aspettative maturate dalle parti. Benché, in siffatta ipotesi, le situazioni giuridiche soggettive siano solo in parte consolidate, atteso che il loro consolidamento definitivo è necessariamente proiettato nel futuro. Orbene, tanto in caso di retroattività propria quanto in quello di retroattività impropria, la condotta del cittadino si è conformata ad un’aspettativa giuridicamente rilevante, circostanza che rende netta la distinzione rispetto al più generale principio di continuità che, come già accennato, si sostanzia, invece, in una più generica esigenza di non discontinuità della normazione», p. 4.
[11] Così, D.-U. Galetta, Legittimo affidamento e leggi finanziarie, alla luce dell’esperienza comparata e comunitaria: riflessioni critiche e proposte per un nuovo approccio in materia di tutela del legittimo affidamento nei confronti dell’attività del legislatore, in Foro amm. Tar, n. 6/2008, pp. 1899, la quale prosegue: «Le posizioni giuridiche soggettive esistenti sono, in questa seconda ipotesi, solo in parte consolidate, poiché il loro definitivo consolidamento è necessariamente proiettato nel futuro. Comune ad entrambe le ipotesi è, in ogni caso, la circostanza che la condotta del cittadino si è conformata ad un’aspettativa giuridicamente fondata che è all’origine di una serie di disposizioni relative ai propri diritti di libertà (e, quindi, non solo di carattere patrimoniale) basate, appunto, sulla permanenza della situazione creata dalla norma che viene invece modificata. Sicché il principio di tutela del legittimo affidamento è posto a presidio stesso dei diritti di libertà del cittadino».
[12] F.F. Pagano, Il principio di affidamento, cit.: il principio del legittimo affidamento «attiene al rapporto fiduciario esistente tra governanti e governati e alla pretesa di stabilità della disciplina legislativa pregressa in base alla quale i governati abbiano maturato posizioni di vantaggio. In tal modo, questi divengono titolari di un interesse alla salvaguardia di dette posizioni nei riguardi dell’azione dei pubblici poteri, in specie del potere legislativo, rispetto alla discontinuità del legiferare. Circostanza, questa, che presuppone una stabilità già raggiunta; ossia un consolidamento e una stratificazione di posizioni soggettive che giustifichino una pretesa al perdurare di una stabilità ormai conseguita. Si badi bene, questo non significa che il principio di affidamento si appalesi come statico e quindi necessariamente votato alla conservazione e al mero mantenimento dello status quo. Piuttosto, questi si pone come espressione di un’istanza volta a realizzare una sorta di governo della trasformazione, ossia un’istanza finalizzata a governare il cambiamento e a circoscrivere gli effetti pregiudizievoli del mutamento, sia esso normativo o amministrativo, nei confronti della situazione pregressa ormai stratificatasi. Proprio in questa prospettiva di governo della trasformazione, si collocano quelle norme transitorie che accompagnano le leggi di reformatio in peius e che consentono un graduale passaggio dal vecchio al nuovo sistema con il fine, non sempre pienamente riuscito, di salvaguardare le posizioni di vantaggio maturate. In tal senso, il principio di affidamento, in quanto volto a regolare le problematiche sottese al passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina, si presenta come dinamico e contrapposto ad una certezza del diritto che, come si avrà subito modo di dire, si caratterizza, invece, come rispondente ad un’esigenza di staticità e di resistenza al cambiamento», p. 5.
[13] Corte cost., 17 dicembre 1985, n. 349: «nel nostro sistema costituzionale non è interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, salvo, qualora si tratti di disposizioni retroattive, il limite costituzionale della materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.)»; pur tuttavia «Dette disposizioni [...] al pari di qualsiasi precetto legislativo, non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto ». V. anche Corte cost. n. 374 del 2000.
[14] F.F. Pagano, Il principio di affidamento, cit.: «se agli inizi del XX secolo si era soliti ammettere leggi retroattive esclusivamente in “circostanze eccezionali e per motivi di interesse pubblico e con le limitazioni richieste dall’equità” e per la tutela di “diritti sacri dell’uomo” scaturenti dalla “legge esterna e imprescindibile di natura”, dopo la costituzionalizzazione del divieto di retroattività con riferimento alla sola materia penale, chiarito come l’art. 25 non potesse rappresentare un limite alla discrezionalità del legislatore in ordine al ricorso a norme retroattive in materia non penale, le riflessioni di una parte degli studiosi, lungi dal continuare a ritenere eccezionale il ricorso a siffatte disposizioni, si sono concentrate, più semplicemente, sul tentativo di individuare i paletti di detta discrezionalità onde circoscriverla. In particolare, si è fatto riferimento al principio di ragionevolezza, che in alcune riflessioni è addirittura additato quale “unico limite alle leggi retroattive”. In questo contesto si inserisce il principio del legittimo affidamento inteso quale ulteriore limite alla possibilità per il legislatore di far ricorso a discipline che producano effetti per il passato».
[15] D.-U. Galetta, Legittimo affidamento, cit., dal quale pure sono ripresi i passi qui citati nel corpo del testo.
[16] D.-U. Galetta, Legittimo affidamento, cit.
[17] Sempre F.F. Pagano, Il principio di affidamento, cit., che si riferisce alle ipotesi di decretazione d’urgenza o delega legislativa con possibilità per il governo di emanare ulteriori atti modificativi o correttivi.
[18] Cfr. Cons. Stato, ad. plen., 12 aprile 2012 n. 3 e 4; Id., III, 7 marzo 2012, n. 1289; 23 dicembre 2011, n. 6811; 7 dicembre 2011, n.. 6454; 17 ottobre 2011, n. 5550; 29 luglio 2011, n. 4529; Id., V, 8 marzo 2011, n. 1431; 28 febbraio 2011, n. 1252; Id., ad. plen., 2 maggio 2006 n. 8.
[19] V. in proposito G. Fares, Sanità. La retroattività dei tetti di spesa dopo l’Adunanza plenaria, in Il libro dell’anno 2016, Treccani, in www.treccani.it.
[20] Cons. Stato, ad. plen., n. 3/2012, cit.: «la tutela di tale affidamento richiede che le decurtazioni imposte al tetto dell’anno precedente, ove retroattive, siano contenute, salvo congrua istruttoria e adeguata esplicitazione all’esito di una valutazione comparativa, nei limiti imposti dai tagli stabiliti dalle disposizioni finanziarie conoscibili dalle strutture private all’inizio e nel corso dell’anno. Più in generale, la fissazione di tetti retroagenti impone l’osservanza di un percorso istruttorio, ispirato al principio della partecipazione, che assicuri l’equilibrato contemperamento degli interessi in rilievo, nonché esige una motivazione tanto più approfondita quanto maggiore è il distacco dalla prevista percentuale di tagli. Inoltre, la considerazione dell’interesse dell’operatore sanitario a non patire oltre misura la lesione della propria sfera economica anche con riguardo alle prestazioni già erogate fa sì che la latitudine della discrezionalità che compete alla regione in sede di programmazione conosca un ridimensionamento tanto maggiore quanto maggiore sia il ritardo nella fissazione dei tetti».
[21] Queste le parole del Collegio: «Il quadro così delineato inclina a ritenere che l’amministrazione disponga di un ampio potere regolatorio anche sui profili di intervento più schiettamente collegati al parametro temporale, potendo tratteggiare una disciplina capace di retroagire nei suoi effetti giuridici e materiali senza che ciò comporti di per sé l’illegittimità della scelta compiuta».
[22] Questi i precedenti citati dal Collegio: «...è utile ribadire che il giudicato comporta effetti eliminatori, con cui l’atto illegittimo è eliminato dal sistema con effetti retroattivi; ripristinatori, per adeguare lo stato di fatto e di diritto successivo all’atto illegittimo, con l’adozione di un atto amministrativo retroattivo idoneo a consentire “ora per allora” il raggiungimento della finalità indicata nella sentenza; conformativi, con cui, valorizzando la motivazione della sentenza, si individua il modo corretto di ri-esercizio del potere a seguito dell’annullamento» (Cons. Stato, VI, 26 marzo 2014, n. 1742; Cons. Stato, V, 30 marzo 2021, n. 2670. E ancora: «In sede di esecuzione di una sentenza di annullamento, l’Amministrazione a volte deve e a volte può emanare un atto avente effetti “ora per allora”. Ad esempio [...] quando si tratti di colmare il “vuoto” conseguente alla sentenza amministrativa che abbia annullato con effetti ex tunc un atto generale, l’Amministrazione ben può determinare ovvero applicare “ora per allora” il sopravvenuto provvedimento, quando sia stato annullato un provvedimento impositivo di prezzi, di tariffe o di aliquote», cfr. ex plurimis, Cons. Stato, V, 21 ottobre 1997, n. 1145 e, tra le più recenti, Cons. Stato, III, 26 ottobre 2016, n. 4487; Cons. Stato, III, 7 marzo 2016, n. 927; Cons. Stato, VI, 6 aprile 2018, n. 2133.
[23] M.A. Sandulli, nella sua intervista a M. Corradino, L’Italia Immobile. Appalti, burocrazia, corruzione. I rimedi per ripartire”. Maria Alessandra Sandulli intervista Michele Corradino, cit., parla proprio di «errori di diritto che, in nome dell’incertezza normativa, giustamente si “affrancano” a chi istituzionalmente dovrebbe averla [la responsabilità, n.d.r.]» e che, però, vengono imputati alla responsabilità oggettiva dell’operatore. Il Pres. Corradino, alla domanda circa l’eccesso di responsabilità sugli operatori privati e la sua inevitabile ricaduta potenzialmente negativa sul tessuto economico-sociale, così risponde: «La responsabilizzazione del privato è strettamente legata alla liberalizzazione e alla rinuncia alla necessità del controllo preventivo della pubblica amministrazione per lo svolgimento di numerose attività. Di fronte all’impossibilità per la pubblica amministrazione di rispondere in tempi ragionevoli alle richieste del privato, la tendenza della legislazione è stata quella di ampliare i confini del silenzio assenso. La conseguenza è che attività in grado di incidere sulla salute pubblica, sull’ambiente, perfino sulla sicurezza sono sostanzialmente liberalizzate e l’esistenza in capo ai gestori dei requisiti minimi è rimessa a controlli sporadici e casuali. Il sistema può reggere solo se sono previste sanzioni certe ed interdittive per quanti abbiano fornito dati falsi o svolgano l’attività in assenza dei requisiti minimi. Chi tradisce la fiducia della comunità deve essere immediatamente e definitivamente espulso dal mercato. Ci sono due aspetti che però non vanno sottovalutati. Da una parte c’è l’esigenza di tutelare chi sbaglia in buona fede. In questo caso, credo, c’è anzitutto un problema di chiarezza delle regole e di possibilità di dialogo fluido con la pubblica amministrazione come avviene in altri Paesi. D’altra parte, desta preoccupazione la tendenza legislativa a trasferire la responsabilità dal pubblico al privato: ne è testimonianza il nuovo comma 2 bis dell’art. 20 della l. 241/1990, introdotto dal d.l. 71/21, che prima lega il silenzio assenso ad un’attestazione del decorso dei termini “e dell’intervenuto accoglimento della domanda” del privato da parte della pubblica amministrazione e poi, in ipotesi di mancato rilascio di tale documento, prevede inspiegabilmente che essa sia sostituita da una dichiarazione dell’interessato resa ai sensi dell’art. 47, d.P.R. 445/2000 che, com’è noto, è penalmente sanzionata in caso di falsità. Dietro l’alibi dell’accelerazione sembra annidarsi un trasferimento del costo e soprattutto del rischio dell’inefficienza della pubblica amministrazione sul soggetto privato richiedente».
IN RICORDO DI VIRGINIO ROGNONI di Ernesto Aghina, Paolo Arbasino e Giuseppe Fici
Si è spento ieri Virginio Rognoni, ex ministro degli interni, della giustizia e della difesa, uno degli ultimi padri nobili della Repubblica, protagonista degli anni di piombo, del contrasto al terrorismo ed alla criminalità organizzata.
Il Rognoni (per gli amici “Gingio”) che abbiamo conosciuto noi é stato il vicepresidente del C.S.M. nella consiliatura 2002/2006.
Forte dell’autorevolezza che lo caratterizzava (anche quale propulsore della legge n. 646/1982, più nota come legge Rognoni-La Torre, che introdusse il reato di associazione mafiosa e misure di prevenzione di carattere patrimoniale), raccolse il voto di tutti i consiglieri togati (spesso tra loro contrapposti).
In un quadriennio contraddistinto da forti contrasti tra l’esecutivo e la magistratura, culminati in ripetuti impasse del plenum, per la mancanza del numero legale derivato dall’assenza (volontaria) dei membri laici espressione della maggioranza di governo, seppe con equilibrio affermare e difendere l’autorevolezza del Consiglio.
Rognoni, a volte burbero ma sempre corretto, guidó con mano ferma l’organo di autogoverno superando momenti di forte tensione, aiutato da Luigi Berlinguer, pure presente in quel Consiglio, con cui si creò una naturale empatia.
Abbiamo conosciuto la sua sorridente bonomìa in inediti aspetti privati, come quando introduceva compiaciuto e sorridente i lavori dopo una vittoria della sua amata Juventus, o quando esultò con noi, con la purezza di un adolescente, per la vittoria ai mondiali dell’Italia.
Ricordiamo ancora quando, durante un prolungato ed estenuante plenum, che seguiva (apparentemente) assorto, convocò con lo sguardo un commesso per recapitare un biglietto intestato al vicepresidente del CSM, indirizzato “al consigliere Aghina”, al cui interno si era disegnato giovane e aitante in procinto di tirare un calcio di rigore…
Rognoni era una gran bella persona: servitore dello Stato e uomo per bene, che amava sorridere e conversare, e la cui statura morale sovrastava quella fisica (pur non indifferente).
Abbiamo avuto il privilegio di conoscerlo e di affezionarci al “nostro” vicepresidente, a cui anche la magistratura tutta deve tanto, ed é opportuno ricordarlo in momenti in cui si trascura colpevolmente di coltivare il vizio della memoria.
Ci accompagnerá il ricordo della sua voce stentorea quando, battendo il palmo della mano destra sullo scranno presidenziale, poneva (finalmente) fine alle discussioni in plenum ed al successivo voto, scandendo un “così resta stabilito”, che consacrava ogni decisione del Consiglio di cui lui era certamente un componente “superiore”.
Accesso difensivo e tutela dei dati personali: il caso dei nominativi nelle segnalazioni alla p.a. (nota a TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. II, 8 febbraio 2022, n. 136)
di Ippolito Piazza
Sommario: 1. L’accesso al nome del segnalante: una questione aperta. – 2. Le ragioni della trasparenza e quelle della riservatezza. – 3. La distinzione tra atto amministrativo e dato personale. – 4. Accesso difensivo e strumentalità: una soluzione ragionevole.
1. L'accesso al nome del segnalante: una questione aperta.
La recente sentenza del TAR Emilia Romagna, n. 136 del 8 febbraio 2022, merita di essere commentata perché affronta un problema che ancora non trova soluzioni consolidate nella giurisprudenza amministrativa e perché, nel farlo, offre un’interpretazione particolare delle regole sul diritto d’accesso.
Il problema è quello della conoscibilità, attraverso il diritto di accesso, del nome di chi abbia presentato una segnalazione o un esposto alla pubblica amministrazione: pur essendo un aspetto piuttosto specifico all’interno della tematica dell’accesso, è in realtà di grande interesse perché fa emergere la tensione tra le opposte esigenze di conoscenza e di riservatezza che sono sottese alla disciplina della legge n. 241/1990, investendo la questione dei limiti al c.d. accesso difensivo. Il TAR Emilia Romagna prospetta un’interpretazione che integra le disposizioni sull’accesso della l. n. 241/1990 con quelle del GDPR[1], andando così a distinguere ciò che costituisce “atto amministrativo”, oggetto della disciplina sull’accesso, da ciò che costituisce “dato personale”, oggetto della disciplina a tutela della riservatezza.
Per introdurre questi profili occorre riassumere la vicenda da cui nasce la pronuncia. Il ricorrente è un artista di strada, che è stato oggetto di numerosi controlli da parte della Polizia municipale, sollecitati da altrettante segnalazioni di ignoti che lamentavano il disturbo sonoro generato dalle sue esibizioni. L’artista, ritenutosi danneggiato dalle segnalazioni e dai successivi controlli della Polizia, presentava istanza di accesso alle segnalazioni per conoscerne il contenuto, inclusi i nomi dei segnalanti. L’amministrazione comunale rigettava le istanze, sul presupposto che non fosse possibile rilasciare i documenti richiesti comprensivi dei nominativi. Pertanto, l’interessato chiede l’annullamento dei provvedimenti di diniego parziale e l’accertamento del proprio diritto a conoscere i nomi dei segnalanti. Il TAR Emilia Romagna si trova, quindi, ad affrontare la questione circa la possibilità di ottenere, attraverso le norme sull’accesso difensivo della legge n. 241 del 1990, i dati personali del segnalante, allo scopo di tutelare gli interessi del “segnalato” a fronte di segnalazioni giudicate infondate o vessatorie.
Si tratta, come detto, di questione controversa nella giurisprudenza amministrativa: il TAR Emilia Romagna – sulla scia di una pronuncia del Consiglio di Stato dello scorso anno[2] ma portando argomenti ulteriori – aderisce alla tesi più favorevole alla riservatezza, ritenendo (i) che i nominativi del segnalante costituiscano un dato personale il cui trattamento richieda il rispetto di una delle finalità indicate dal GDPR e (ii) che tale finalità sia assente nel caso di specie perché l’ostensione dei nominativi non consentirebbe comunque alcuna forma di tutela al ricorrente.
Vedremo come la pronuncia sia convincente nella parte in cui argomenta riguardo all’assenza di un nesso tra il documento richiesto e la difesa del ricorrente, mentre più di un dubbio resta sulla necessità di richiamare il GDPR per la soluzione della controversia.
È utile però, anzitutto, dar conto del contrasto giurisprudenziale in materia e degli argomenti che sostengono le diverse tesi.
2. Le ragioni della trasparenza e quelle della riservatezza.
Il diritto d’accesso è riconosciuto nel nostro ordinamento in una molteplicità di forme: al tradizionale diritto di accesso documentale o procedimentale[3] si sono affiancati nell’ultimo decennio il diritto di accesso civico semplice[4]e quello generalizzato[5], senza considerare i diritti di accesso previsti da leggi di settore. Restando ai rapporti tra i diritti di accesso “a contenuto generale”[6], si è andata affermando nella giurisprudenza l’idea che questi – e, in particolare, il diritto di accesso documentale e il diritto di accesso civico generalizzato – non siano sovrapponibili e non corrispondano a un «unico diritto soggettivo globale di accesso» ma vadano piuttosto a costituire un insieme di garanzie differenziate per finalità e livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza[7].
Più precisamente, in base a questa ricostruzione, vi è un rapporto inversamente proporzionale tra il numero di soggetti legittimati all’accesso e il numero di documenti accessibili[8]: così, il diritto di accesso civico, riconosciuto a “chiunque”, va incontro a limitazioni maggiori rispetto al diritto di accesso procedimentale di cui all’art. 22, l. n. 241/1990, riconosciuto solo a coloro che abbiano «un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso». Ancor meno limitazioni incontra il diritto d’accesso cosiddetto “difensivo”, di cui all’art. 24, c. 7, l. n. 241/1990, riconosciuto a coloro che non solo siano titolari di una situazione giuridica collegata al documento ma abbiano anche necessità di conoscere il documento per «curare o difendere i propri interessi giuridici»[9]. Depone in tal senso la formulazione letterale dell’art. 24, c. 7, secondo cui a tali richiedenti deve «comunque» essere garantito l’accesso ai documenti; ed è peraltro significativo che questa disposizione sia posta in chiusura dell’art. 24, dedicato ai casi di esclusione del diritto di accesso, disciplinati nei commi precedenti.
Una simile ampiezza del diritto di accesso difensivo comporta che i documenti debbano essere sempre rilasciati al richiedente che voglia servirsene per la cura dei propri interessi, con esiti potenzialmente negativi per gli interessi contrapposti, in primo luogo quello alla riservatezza[10]. Questo contrasto tra trasparenza e riservatezza si presenta in maniera evidente nel caso di istanze di accesso a segnalazioni, esposti o denunce presentate all’amministrazione e ha dato vita a due orientamenti giurisprudenziali confliggenti.
Secondo un primo orientamento, favorevole alle ragioni della trasparenza, chi sia stato oggetto di una segnalazione alla pubblica amministrazione ha diritto, ai sensi della legge n. 241/1990, di prenderne visione e di conoscere il nome dell’autore[11]. La tesi si fonda sull’idea che il diritto alla riservatezza dell’autore della segnalazione non abbia una «estensione tale da includere il diritto all’anonimato di colui che rende una dichiarazione a carico di terzi, tanto più che l’ordinamento non attribuisce valore giuridico positivo all’anonimato»[12]. Del resto, questa giurisprudenza ritiene che l’autore della segnalazione si “esponga” nei confronti della pubblica amministrazione e rinunci così, implicitamente, alla propria riservatezza[13]. Neppure è di ostacolo all’accesso il fatto che la segnalazione sia un atto di provenienza privata: l’atto privato, una volta giunto nella disponibilità della pubblica amministrazione, rientra infatti nell’ambito applicativo degli artt. 22 ss. della l. n. 241/1990 e ciò anche quando alla segnalazione non abbia fatto seguito l’apertura di un vero e proprio procedimento amministrativo[14].
Un secondo orientamento giurisprudenziale nega, invece, la sussistenza del diritto di accesso rispetto ai nomi dei segnalanti. La segnalazione sarebbe un semplice atto di impulso, che dà luogo a una attività ispettiva doverosa della pubblica amministrazione: è pertanto quest’ultima attività a essere soggetta al regime di trasparenza e sono gli atti in cui essa si esplica che costituiscono l’oggetto del diritto di accesso dell’interessato. Alla distinzione tra atto di impulso e attività amministrativa si lega una seconda, decisiva, considerazione: la difesa del soggetto segnalato non dipende dalla conoscenza della segnalazione, né tantomeno dal nome del segnalante; l’attività difensiva dell’interessato è rivolta, semmai, nei confronti dell’amministrazione e dei provvedimenti adottati in seguito alla segnalazione. Questa giurisprudenza esclude, quindi, la sussistenza di uno dei requisiti che legittimano l’accesso difensivo, vale a dire la strumentalità del documento richiesto rispetto alla cura dei propri interessi[15]. Oltretutto, se l’intento di conoscere il nominativo del segnalante non è mosso da esigenze difensive, esso può celare un intento ritorsivo, che certamente non è tutelato dall’ordinamento[16].
3. La distinzione tra atto amministrativo e dato personale.
La sentenza in commento aderisce a questo secondo orientamento ma introduce un argomento nuovo a favore della riservatezza. Il TAR ritiene, in particolare, che i nominativi dei segnalanti non possano essere rilasciati perché essi non sottostanno al regime giuridico previsto per l’accesso ai documenti amministrativi, bensì al regime previsto per l’accesso ai dati personali, disciplinato in primo luogo dal Regolamento europeo n. 679/2016 (GDPR).
Nella pronuncia si legge infatti che il nominativo dell’autore di una segnalazione «a rigore non costituisce un “atto amministrativo”», trattandosi invece di un dato personale, accessibile pertanto solo per colui al quale il dato si riferisce, oppure comunicabile a terzi ma solo entro gli «stretti limiti» stabiliti dal Codice in materia di protezione dei dati personali. Insomma, ad avviso del TAR, occorre distinguere tra l’accessibilità «al documento in quanto tale», disciplinata dagli artt. 22 ss. della l. n. 241/1990, e l’accessibilità ai dati personali in esso contenuti: per questi ultimi, «atteso il rango costituzionale della protezione agli stessi concessi dall’ordinamento», deve trovare applicazione la specifica disciplina europea e nazionale.
Del resto, prosegue la sentenza, il GDPR è entrato in vigore successivamente alla legge sul procedimento e, dunque, le disposizioni di quest’ultima debbono essere interpretate alla luce della nuova normativa sui dati personali. Così, anche se l’art. 24, c. 7, l. n. 240/1990[17] prevede che il diritto di accesso difensivo possa incontrare limiti solo di fronte a dati sensibili e giudiziari (per i quali la disposizione consente l’accesso unicamente se essi siano «strettamente indispensabili») o dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale (rispetto ai quali trova applicazione l’art. 60 del Codice sulla protezione dei dati personali e quindi l’accesso è consentito solo per tutelare un diritto almeno di pari rango del richiedente[18]), ad avviso del TAR non si può trarre la conclusione che il diritto d’accesso prevalga comunque sulla protezione dei dati personali “semplici”: occorre infatti tener sempre conto «del principio di liceità del trattamento di cui allo stesso art. 6 comma 1 del GDPR». In altre parole, l’accesso difensivo non può prevalere sulla tutela dei dati personali “semplici” solo sulla base dell’art. 24, c. 7, l. n. 241/1990, ma deve anche realizzarsi una delle condizioni previste dall’art. 6 del GDPR, condizioni che, come noto, rendono lecito il trattamento dei dati personali[19]. Così delineato il quadro normativo, il TAR esclude che si sia in presenza di una delle condizioni richieste dal GDPR, poiché ritiene che il trattamento non sia giustificato dalla necessità del ricorrente di ottenere il nominativo del segnalante per esperire azioni giudiziarie. La motivazione della pronuncia prosegue quindi con una esauriente argomentazione in merito all’irrilevanza del nominativo richiesto rispetto a eventuali iniziative giudiziarie: su questo punto si tornerà più avanti (§ 4). È opportuno invece qui sottolineare come la ricostruzione del TAR circa il rapporto tra le due discipline non appaia convincente.
In primo luogo, desta perplessità la distinzione tra il documento amministrativo e i dati personali in esso contenuto. Essa sembra artificiosa se si pone mente alla definizione ampia di «documento amministrativo» data dall’art. 22, c. 1, lett. d), l. n. 241/1990 («ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale»), che si riferisce genericamente al «contenuto» degli atti amministrativi, rendendolo oggetto del diritto di accesso: per cui non pare possibile distinguere tra “contenitore” accessibile (nel nostro caso, la segnalazione) e “contenuto” non accessibile (il nominativo del segnalante). In altri termini, è vero che i dati personali non sono un documento amministrativo, ma ne costituiscono il contenuto.
D’altra parte, è la stessa legge n. 241/1990 a prevedere specifiche regole (come quelle ricordate riguardanti i dati sensibili) per le ipotesi nelle quali i dati personali siano contenuti in un atto amministrativo: lo stesso art. 24, al comma 6, rinvia a un regolamento governativo per la previsione di casi di sottrazione all’accesso di documenti che riguardino, tra altro, «la vita privata o la riservatezza di persone fisiche». Così pure, il rapporto tra la tutela della riservatezza e il diritto di accesso è preso in considerazione nella normativa sui dati personali: in particolare, l’art. 86 del GDPR prevede che i dati personali «contenuti in documenti ufficiali in possesso di un’autorità pubblica o di un organismo pubblico o privato per l’esecuzione di un compito svolto nell’interesse pubblico possono essere comunicati da tale autorità o organismo conformemente al diritto dell’Unione o degli Stati membri cui l’autorità pubblica o l’organismo pubblico sono soggetti, al fine di conciliare l’accesso del pubblico ai documenti ufficiali e il diritto alla protezione dei dati personali ai sensi del presente regolamento». In sostanza, il GDPR rinvia alle normative nazionali, lasciando agli Stati ampia discrezionalità riguardo al bilanciamento tra accesso e tutela dei dati personali[20]. Il legislatore italiano ha peraltro già adeguato la normativa interna al GDPR, attraverso il d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101[21], che – per quanto ci interessa – ha sostanzialmente confermato la previgente disciplina, contenuta nel Codice sulla protezione dei dati personali (d.lgs. n. 196/2003), riguardo al rapporto tra accesso e riservatezza. In particolare, l’art. 59 del Codice rinvia proprio alla l. n. 241/1990 riguardo alle «modalità» e ai «limiti» per l’esercizio del diritto di accesso a documenti amministrativi contenenti dati personali, fatto salvo il caso dei dati sensibili disciplinato dal già citato art. 60.
Si consideri comunque per ipotesi – a dispetto delle richiamate norme di raccordo tra le due discipline – che le disposizioni sull’accesso documentale debbano essere interpretate alla luce dell’art. 6 del GDPR, come sostenuto dal TAR, e che dunque un dato personale possa essere rilasciato dalla pubblica amministrazione solo ove ricorra una delle condizioni elencate in tale articolo. Ebbene, anche ammesso che questa ricostruzione sia corretta, non sembra potersi escludere in assoluto che qui ricorra una di esse. L’art. 6 prevede infatti, tra le condizioni che rendono lecito il trattamento dei dati, il caso in cui esso sia «necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento» (art. 6, par. 1, lett. e)[22]. Questa condizione sembra offrire una base legale per il rilascio di dati personali ai fini dell’accesso ai documenti amministrativi: secondo l’art. 22, c. 2, l. n. 241/1990, l’accesso costituisce infatti, «attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse», un principio generale dell’attività amministrativa «al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza». Il TAR si limita invece a escludere la compatibilità del rilascio dei nominativi dei segnalanti con l’art. 6 del GDPR, poiché non ravvisa la necessità del trattamento nella asserita volontà del richiedente di esperire azioni giudiziarie.
4. Accesso difensivo e strumentalità: una soluzione ragionevole.
La necessaria conoscenza di un dato per esperire azioni giudiziarie non pare peraltro essere congruente con alcuna delle finalità indicate dall’art. 6 del GDPR[23]. Tale requisito è però decisivo ai fini dell’applicazione dell’art. 24, c. 7, l. n. 241/1990 e, sotto questa luce, si può analizzare la seconda parte della pronuncia.
In essa, il TAR specifica le ragioni che rendono ininfluente il dato richiesto per la tutela dei diritti del richiedente e, in particolare, per la proposizione di azioni giudiziarie. Anzitutto – rileva il giudice – se gli interventi della Polizia municipale e i conseguenti verbali sono considerati illegittimi o illegali, contro di essi è ben possibile reagire nelle sedi opportune, senza bisogno di conoscere per intero le segnalazioni che di tali attività costituiscono «atto di mero impulso». In secondo luogo, qualora il ricorrente proponga denuncia all’autorità giudiziaria e questa dovesse riscontrare fattispecie penalmente perseguibili (si pensi a un’ipotesi di calunnia), «sarebbe doveroso all’esito del procedimento formulare un’imputazione dandone avviso alla parte offesa». In terzo luogo, anche un’eventuale azione risarcitoria in sede civile dovrebbe essere esperita nei confronti della pubblica amministrazione, poiché, di nuovo, i danni lamentati dal ricorrente derivano dai controlli della Polizia e non dalle segnalazioni («di per sé stesse causalmente irrilevanti»). Aggiunge infine il TAR, richiamandosi all’orientamento giurisprudenziale sopra citato (§ 2), che a maggior ragione è da escludersi l’accesso quando la conoscenza del nominativo del segnalante, priva di rilievo a fini difensivi, costituisca «la mera soddisfazione di una curiosità, con pericolo di future ritorsioni».
In definitiva, il TAR respinge il ricorso perché il nome del segnalante non ha un’utilità a fini difensivi per il ricorrente: senza chiamare in causa il GDPR, ciò sarebbe stato sufficiente per negare l’esistenza del diritto di accesso difensivo ai sensi dell’art. 24, c. 7. La norma sull’accesso difensivo richiede infatti che vi sia un nesso di strumentalità tra la conoscenza del documento e la cura o difesa di un interesse giuridico. La spiegazione fornita in proposito dal TAR Emilia Romagna appare esauriente e in linea con le indicazioni che proprio in tema di strumentalità dell’accesso difensivo ha dato la recente Adunanza plenaria n. 4 del 18 marzo 2021[24]. Era emersa sul punto una difformità nella giurisprudenza delle sezioni del Consiglio di Stato, divise tra una posizione che riteneva sufficiente una generale “attinenza” della documentazione richiesta con la difesa dell’interessato e una posizione che valutava invece con più rigore i requisiti dell’istanza di accesso. Tra le pronunce di questo secondo tipo, se ne segnalavano peraltro alcune che, mosse dall’intento di “arginare” l’ampia portata dell’accesso difensivo ex art. 24, c. 7, finivano per esercitare un sindacato discutibile sul requisito della strumentalità: così, per esempio, il Consiglio di Stato aveva escluso l’esistenza di un interesse concreto e attuale all’accesso in capo al ricorrente perché aveva ritenuto che il documento richiesto non fosse pertinente con la strategia difensiva che lo stesso stava adoperando in altra sede processuale[25]. È evidente che quest’ultima giurisprudenza rischia di sindacare impropriamente le scelte processuali di un privato e di lederne il diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost.[26] La Plenaria era pertanto chiamata a specificare quali siano i poteri di valutazione dell’amministrazione (e poi del giudice) circa l’istanza di accesso difensivo[27].
Nella pronuncia n. 4/2021, il massimo giudice amministrativo riconosce che la legge non lascia margini di apprezzamento all’amministrazione riguardo al bilanciamento tra accesso e riservatezza, poiché si prevede la prevalenza del primo[28]: tuttavia, la stessa legge richiede un giudizio («sussunzione») riguardo all’interesse legittimante all’accesso, che deve presentare i parametri della “corrispondenza” a una situazione giuridica e del “collegamento” tra il documento e l’interesse giuridicamente rilevante che tramite la conoscenza del documento si intende tutelare. A dimostrazione della necessità di questo giudizio, la Plenaria ricorda che l’istanza di accesso deve essere motivata (art. 25, c. 2, l. n. 241/1990) e che proprio sulla motivazione deve fondarsi l’analisi della pubblica amministrazione in merito alla sussistenza dei parametri legittimanti l’accesso difensivo. Trattandosi di attività interpretativa, essa si presta naturalmente a una certa elasticità, motivo per cui la Plenaria non indica criteri stringenti per valutare la motivazione dell’istanza di accesso[29]: essa si limita a dire che sul nesso di strumentalità necessaria tra documento e interesse da tutelare occorre un vaglio «rigoroso» e «motivato» e che l’amministrazione e il giudice amministrativo «non devono invece svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, […] salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive».
La soluzione della Plenaria appare, se non risolutiva, quantomeno ragionevole: nel momento in cui la disciplina sull’accesso si fonda sui diversi requisiti di legittimazione di ciascun diritto (civico, procedimentale e difensivo)[30], facendovi corrispondere una diversa “forza” del diritto stesso, è normale che vi sia un controllo circa tali requisiti. Simile soluzione è altresì capace di offrire una strada per risolvere il problema del nominativo nelle segnalazioni: esso potrà essere reso noto soltanto quando il richiedente sia in grado di motivare la ragione per cui il nominativo sia necessario per la cura o difesa in giudizio di un proprio interesse giuridico. Qualora vi riesca, trova applicazione l’art. 24, c. 7; qualora invece non sia in grado di motivare in tal senso l’istanza, la tutela del diritto di accesso deve essere bilanciata con quella della riservatezza del segnalante, con la conseguenza che la segnalazione potrà essere rilasciata ma oscurando il nominativo dell’autore[31].
Pur non citando la Plenaria, il TAR Emilia Romagna sembra aver fatto corretta applicazione dei principi da essa enunciati, motivando adeguatamente le ragioni in base alle quali, nel caso di specie, il nominativo del segnalante non apparisse necessario per la tutela degli interessi del ricorrente. L’esito cui perviene la pronuncia è pertanto condivisibile ma sarebbe stato sufficiente, per raggiungerlo, far ricorso alle norme sul diritto d’accesso della l. n. 241/1990.
[1] Si tratta, come noto, del «Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)».
[2] Cons. St., sez. III, 1 marzo 2021, n. 1717.
[3] Artt. 22 e ss., l. n. 241/1990.
[4] Art. 5, c. 1, d.lgs. n. 33/2013.
[5] Art. 5, c. 2. d.lgs. n. 33/2013.
[6] Per utilizzare l’espressione di A. Simonati, I diritti di accesso “a contenuto generale”: spunti per un’analisi in parallelo, in Dir. econ., 2022, 201 ss. La letteratura sui diversi diritti di accesso e sui loro rapporti è ormai molto consistente: ci si limita qui a rinviare ai recenti lavori monografici di M. Sinisi, I diritti di accesso e la discrezionalità amministrativa, Bari, 2020 e F. Lombardi, La trasparenza tradita, Napoli, 2022.
[7] Si vedano in giurisprudenza, tra altre, Tar Puglia, sez. III, 19 febbraio 2018, n. 231 e Cons. St., sez. IV, 12 agosto 2016, n. 3631; in dottrina, v. M. Sinisi, I diritti di accesso e la discrezionalità amministrativa, cit., spec. 87 ss. Tuttavia, una prospettiva almeno in parte diversa sembrava essere indicata dalla nota sentenza dell’Adunanza plenaria 2 aprile 2020, n. 10, nella quale si sosteneva che il rapporto tra l’accesso documentale e quello civico generalizzato non dovesse essere inteso secondo un criterio di esclusione reciproca «ma secondo un canone ermeneutico di completamento/inclusione»; sia consentito rinviare alle considerazioni svolte sul punto in I. Piazza, Strumentalità dell’accesso difensivo e sindacato giurisdizionale: osservazioni alla luce della normativa sulla trasparenza, in questa Rivista, 2021.
[8] In proposito, si veda V. Mirra, Accesso difensivo e riservatezza: due diritti in conflitto, in Foro it., 10/2021, 550 ss.
[9] Sulla distinzione tra l’accesso procedimentale in generale, disciplinato dall’art. 22, l. n. 241/1990, e quello difensivo di cui all’art. 24, c. 7, si vedano anche le pronunce della Plenaria nn. 19, 20, 21 del 25 settembre 2020, commentate da M. Ricciardo Calderaro, Diritto d’accesso e acquisizione probatoria processuale, in questa Rivista, 2021.
[10] Oltre al problema dei controinteressati, vi è anche quello del rapporto tra il diritto d’accesso e i metodi di acquisizione probatoria nel processo civile: il primo può essere infatti utilizzato per ottenere documenti da produrre in giudizio aggirando il rispetto della normativa processuale. Si è tuttavia pronunciata a favore della complementarietà e della indipendenza dell’accesso e degli istituti processuali la Adunanza plenaria nelle sentenze citate alla nota precedente e nella più recente Cons. St., Ad. plen., 18 marzo 2021, n. 4; sul tema, v. M. Sica, Diritto di accesso ai documenti amministrativi e processo civile. Una nuova sentenza dell’adunanza plenaria, in Riv. dir. proc., 2021, 1412 ss.
[11] Si veda, per esempio, Cons. St., sez. V, 28 settembre 2012, n. 5132, secondo cui «il soggetto che subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti utilizzati dall’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza, compresi gli esposti e le denunce che hanno determinato l’attivazione di tale potere».
[12] Si veda, ancora, Cons. St., sez. V, 28 settembre 2012, n. 5132; più di recente, v. anche TAR Toscana, sez. I, 3 luglio 2017, n. 898.
[13] Si vedano TAR Toscana, sez. I, 3 luglio 2017, n. 898 e TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. I, 3 agosto 2017, n. 584, dove si legge che l’«esposto, una volta pervenuto nella sfera di conoscenza dell’amministrazione, costituisce un documento che assume rilievo procedimentale come presupposto di un’attività ispettiva o di un intervento in autotutela, e di conseguenza il denunciante perde consapevolmente e scientemente il controllo e la disponibilità sulla propria segnalazione: quest’ultima, infatti, uscita dalla sfera volitiva del suo autore diventa un elemento del procedimento amministrativo, come tale nella disponibilità dell’amministrazione. La sua divulgazione, pertanto, non è preclusa da esigenze di tutela della riservatezza».
[14] In tal senso, v. TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. I, 3 agosto 2017, n. 584: «Non può condividersi sul punto quanto affermato nella memoria della Regione circa la necessità che un documento possa considerarsi tale solamente se contenuto nell’ambito di un procedimento amministrativo: un documento è tale perché esistente tra gli atti dell’amministrazione regionale. L’atto di un privato inviato alla Regione ha fatto sì che una risposta ufficiale sia stata fornita, quindi una qualche attività amministrativa è stata generata a seguito della ricezione dell’esposto-mail».
[15] Si veda TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. II, 17 ottobre 2018, n. 772: «[…] l’esposto presentato alla pubblica amministrazione, da cui trae origine una verifica, un’ispezione o altri procedimenti di accertamento di illeciti, non può essere oggetto di “accesso agli atti”, poiché non è dalla conoscenza del nome del denunciante che dipende la difesa del denunciato»; analogamente, v. anche TAR Veneto, sez. III, 20 marzo 2015, n. 321.
[16] Per esempio, v. Cons. St., sez. III, 1 marzo 2021, n. 1717: «Pertanto, anche a voler prescindere dalla riservatezza dell’autore della segnalazione (che spesso è un dipendente del soggetto sottoposto ad attività ispettiva, soggetto, quindi, a rischio di ritorsione) emerge la sostanziale carenza di interesse alla conoscenza dell’autore dell’esposto: l’identificazione dell’autore della segnalazione, infatti, non è funzionale all’esigenza difensiva della società appellata». In tema di tutela della riservatezza dei lavoratori che hanno reso dichiarazioni in sede ispettiva, v. anche Cons. St., sez. VI, 24 novembre 2014, n. 5779.
[17] Si riporta per chiarezza il testo dell’art. 24, c. 7, l. n. 241/1990: «Deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall’articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale».
[18] Come noto, l’art. 60, d.lgs. n. 196/2003 stabilisce che «Quando il trattamento concerne dati genetici, relativi alla salute, alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona, il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi, è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale».
[19] Art. 6, par.1, Reg. (UE) 2016/679: «Il trattamento è lecito solo se e nella misura in cui ricorre almeno una delle seguenti condizioni: a) l’interessato ha espresso il consenso al trattamento dei propri dati personali per una o più specifiche finalità; b) il trattamento è necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte o all’esecuzione di misure precontrattuali adottate su richiesta dello stesso; c) il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento; d) il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell'interessato o di un’altra persona fisica; e) il trattamento è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento; f) il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato che richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l’interessato è un minore. La lettera f) del primo comma non si applica al trattamento di dati effettuato dalle autorità pubbliche nell’esecuzione dei loro compiti».
[20] Si veda in proposito F. Midiri, GDPR e accesso ai documenti amministrativi, in Foro Amm., 12/2018, spec. 2229 («[…] il GDPR non fornisce indicazioni per determinare i limiti dell’accesso ai documenti amministrativi, neppure attraverso il riferimento alle prerogative del diritto di azione nella disciplina della data protection») e 2231 s. («[…] quando il trattamento dei dati personali contenuti in atti di rilievo pubblico avviene attraverso la funzione pubblica della garanzia dell’accesso ai documenti amministrativi – attraverso il quale l’amministrazione “comunica” i dati ed il privato li “consulta” – non soltanto può realizzarsi una graduazione nazionale della data protection europea, ma, addirittura, trova attuazione il rinvio integrale agli ordinamenti statali previsto dall’86 GDPR, a cui è rimessa la misura della protezione, salvo solo il principio di ragionevolezza nel contemperare opposte libertà fondamentali»). Analogamente, v. E. D’Alterio, Protezione dei dati personali e accesso amministrativo: alla ricerca dell’“ordine segreto”, in Giorn. dir. amm., 1/2019, 9 ss.
[21] Sulla nuova disciplina v., tra altri, F. Pizzetti (a cura di), Protezione dei dati personali in Italia tra GDPR e Codice novellato, Torino, 2021.
[22] Sui problemi posti all’attività delle pubbliche amministrazioni dall’interpretazione restrittiva di questa disposizione e sull’opportunità di intendere invece l’esecuzione di un compito di interesse pubblico come base giuridica di per sé valida per il trattamento di dati non sensibili, si vedano ampiamente i lavori di F. Francario, Protezione dei dati personali e pubblica amministrazione e Disposizioni “urgenti” in materia di protezione dei dati personali. Brevi note sul trattamento dati per finalità di pubblico interesse, entrambi in questa Rivista, 2021. In tema, v. anche F. Cardarelli, Commento all’art. 2-ter, D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in R. D’Orazio, G. Finocchiaro, O. Pollicino, G. Resta (a cura di), Codice della privacy e data protection, Milano, 2021, 1012 ss.
[23] Il TAR non esplicita quale sia la condizione mancante nel caso di specie ma il riferimento potrebbe essere alle ipotesi previste dalle lettere d) e f) dell’art. 6 del GDPR, che consentono il trattamento, rispettivamente, per la salvaguardia degli «interessi vitali» del titolare dei dati o di altra persona fisica e per il «perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato». Tuttavia, guardando ai “considerando” del Regolamento, la prima ipotesi è riferita a casi particolarmente gravi come il controllo delle epidemie o le emergenze umanitarie (considerando n. 46); la seconda attiene invece principalmente gli interessi del titolare del trattamento (considerando nn. 47 e 48) e, soprattutto, non si applica all’attività delle pubbliche amministrazioni (art. 6, par. 1, c. 2).
[24] Sulla quale v. M. Sica, Diritto di accesso ai documenti amministrativi e processo civile, cit., 1412 ss., che si occupa soprattutto dei rapporti tra diritto di accesso e strumenti di acquisizione probatoria nel processo civile; a commento della pronuncia, si vedano anche V. Mirra, Accesso difensivo e riservatezza: due diritti in conflitto, cit., 550 ss. e G. Delle Cave, L’accesso difensivo post Adunanza Plenaria n. 4/2021 tra potere valutativo della P.A. e apprezzamento del giudice, in questa Rivista, 2022.
[25] Cons. St., sez. III, 31 dicembre 2020, n. 8543, sulla quale v. I. Piazza, Strumentalità dell’accesso difensivo e sindacato giurisdizionale: osservazioni alla luce della normativa sulla trasparenza, cit.
[26] Questo rischio era già stato evidenziato da F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, in Federalismi.it, n. 10/2019, spec. 23.
[27] Nelle già richiamate (v. nota 9) pronunce dell’anno precedente nn. 19, 20, 21 del 2020, la Plenaria si era espressa sull’accesso difensivo e anche sul requisito della strumentalità, con rilievi però di carattere generale che hanno quindi giustificato una nuova rimessione.
[28] In proposito, v. F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, cit., 18 ss.
[29] Riguardo alle incertezze che permangono dopo la pronuncia della Plenaria, v. M. Sica, Diritto di accesso ai documenti amministrativi e processo civile, cit., 1418 ss.
[30] Per una diversa possibile ricostruzione, tuttavia minoritaria, che in presenza di una forma di accesso che prescinde dai requisiti di legittimazione (cioè l’accesso civico generalizzato garantito a “chiunque”) guardi soprattutto alla presenza di contro-limiti, sia consentito rinviare nuovamente a I. Piazza, Strumentalità dell’accesso difensivo e sindacato giurisdizionale: osservazioni alla luce della normativa sulla trasparenza, cit.
[31] In tal senso, v. la già citata sentenza Cons. St., sez. III, 1 marzo 2021, n. 1717, nonché la più risalente TAR Piemonte, 10 maggio 2012, n. 537
Ritorno alle vecchie regole per il concorso in magistratura. Ma anche pensando al futuro?
di Angelo Costanzo
1. Con il decreto “Aiuti-ter” approvato il 16 settembre è stata anticipata la scelta, contenuta nella legge-delega n.71/2022, di riformare l’ordinamento giudiziario riaprendo l’accesso al concorso per la magistratura ordinaria anche ai neolaureati.
Viene così eliminato l’obbligo di frequentare previamente tirocini o scuole di specializzazione per le professioni legali.
Le Scuole universitarie di specializzazione nelle professioni legali sono state frequentate per accedere al concorso, ma sempre meno. Invece, è cresciuta la partecipazione ai tirocini presso gli Uffici giudiziari che sono utili, se ben impostati, per concorrere a formare un buon magistrato ma che non forniscono una preparazione specifica per il concorso nella sua forma attuale. Inoltre, risulta che la gran parte dei vincitori del concorso si è preparata frequentando scuole private, spesso efficaci nel preparare a superare il concorso ma non per formare un buon magistrato.
In realtà, negli ultimi anni è accaduto che una massa di laureati ha impiegato anni, denaro e energie per approdare a un fallimento. Inoltre, i vari meccanismi di selezione hanno privilegiato coloro che beneficiano di migliori condizioni economiche e di maggiori risorse temporali. Né questo sistema ha affinato sensibilmente la preparazione giuridica degli aspiranti magistrati perché li ha condotti a munirsi soprattutto delle tecniche e delle nozioni utili per superare il concorso, che però non sono quelle specificamente necessarie per esercitare adeguatamente la giurisdizione.
In questo quadro, la scelta del Governo può essere salutata come un intelligente ritorno al passato e anche a una maggiore equità sociale.
2. Tuttavia, risulterà presto una scelta insoddisfacente e miope se non sarà seguita da una seria rielaborazione della formazione degli aspiranti magistrati.
In realtà, la causa prossima della scelta del Governo sta nell’obiettivo del Piano nazionale di ripresa e resilienza di ampliare e accelerare le procedure di reclutamento così da colmare i vuoti dell’organico per ridurre i tempi dei processi e per smaltire l’arretrato.
Pare evidente che permettere anche ai neolaureati di accedere al concorso amplierà ulteriormente la massa dei candidati, sicché deve auspicarsi che non si introducano meccanismi grossolani e fuorvianti di preselezione (ne esiste una vasta e a volte stramba congerie) fra i quali il più perverso è quello che, per ridurre il numero di coloro che consegnano gli elaborati, individua come temi delle prove questioni periferiche rispetto ai nuclei fondamentali della preparazione del giurista forense. Questa via, infatti, aumenta il rischio di scartare candidati dalla preparazione solida, ma spiazzati da un tema anomalo, e di favorire coloro che, in qualche modo, si sono trovati nella condizione di affrontarlo.
Invece, occorre valorizzare una preparazione ancorata alla solida conoscenza degli istituti giuridici e alla capacità di padroneggiare le argomentazioni. Questa impostazione potrebbe rivitalizzare il ruolo della dottrina giuridica e ridestarne le energie a volte rese latitanti dal mero ancorarsi agli andamenti della giurisprudenza. Dovrebbe anche ridurre la dipendenza degli aspiranti magistrati dalle scuole (private) di preparazione al concorso, dipendenza in gran misura correlata alla esigenza di supporti alla continua ricerca di aggiornamenti sulla giurisprudenza.
3. In generale, serve un sistema di preparazione alle professioni legali (magistratura e avvocatura) più evoluto, che configuri meccanismi di selezione non incentrati sulla ‘sfida/scommessa’ del concorso ma sullo sviluppo graduale di un percorso teorico-pratico pluriennale.
Varie idee possono svilupparsi al riguardo. Ma sembra ragionevole individuare qualche possibile punto considerando quanto potrebbe utilmente realizzarsi mediante le istituzioni già esistenti: le Università, le Scuole di Specializzazione nelle Professioni legali (SSPL) e la Scuola Superiore della Magistratura (SSM).
a) I piani di studio universitari dovrebbero delineare nel secondo biennio un percorso di formazione verso le professioni forensi, distinto da altri percorsi professionali, dato adeguato spazio, oltre alle materie tecniche specifiche, a discipline che offrono le basi metodologiche delle professioni forensi: l’ermeneutica giudiziaria (anche per padroneggiare le conseguenze di tecniche legislative fondate sulla normazione “per principi” che si giustappone a quella tradizionale “per regole”), la logica e l’argomentazione giuridica, l’epistemologia giudiziaria (per rendere più attenti a una corretta ricostruzione dei fatti oggetto dei processi) e lo studio del diritto comparato entro i confini dell’Unione Europea.
b) La successiva formazione dei magistrati e degli avvocati andrebbe mantenuta comune all’interno delle SSPL per poi diversificarsi attraverso distinti meccanismi di selezione conducenti i primi alla SSM e i secondi verso l’Avvocatura.
c) L’accesso alle SSPL dovrebbe avvenire mediante selezioni (su base nazionale) e con l’assegnazione, a ogni singola SSPL di un numero di corsisti ‘sostenibile’ che segua un percorso di formazione comune delineato secondo le direttive della SSM.
d) L’accesso alla SSM dovrebbe avvenire mediante una ulteriore selezione nazionale, dotando i corsisti di borse di studio e munendo coloro che non superano le prove finali di un titolo spendibile per i concorsi pubblici o per l’attività lavorativa privata.
Marìas
di Alessandro Clemente
All’inizio ero un po’ contrariato, forse anche scettico di approcciare ad uno scrittore di lingua spagnola, verso la quale nutrivo infondati pregiudizi.
Andai in libreria per acquistare un libro di un altro autore – non ricordo, forse Saramago, poco importa – ma, non trovandolo, decisi di ripiegare su questo spagnolo il cui nome niente mi diceva. Ero stato incuriosito dal titolo, effettivamente originale, e dal retro di copertina che riportava un entusiastico commento di Pietro Citati, in generale sempre piuttosto severo.
E così, tradendo i dogmatici dettami del Nanni Moretti di “La messa è finita” (“Ma lei, come li sceglie i libri? In base al numero di pagine? Al riassunto in copertina, eh?!”), comprai il mio primo dei tanti libri scritti da Marìas e tradotti in italiano. Anzi, di tutti, avendo negli anni accumulato una copia di tutto ciò che è stato pubblicato a suo nome.
Era, inutile dirlo, “Domani nella battaglia pensa a me”. Accadeva oltre vent’anni fa, c’era ancora la lira e non c’era l’11 settembre. Beh insomma, me lo portai a casa e lo tenni nello studio che condividevo – per studiare, appunto – con mio padre. In quel periodo ristagnavo senza molta convinzione dinanzi ai tre volumi dell’esame di diritto processuale civile, il primo dei quali rimase per alcune mattine – quattro o cinque, ricordo bene – vanamente aperto su una qualche pagina e su un qualche oscuro istituto processuale, essendo io stato rapito dal romanzo.
Trascorsi quelle mattine lasciandomi trasportare da una prosa digressiva, fatta di continui rimandi ai pensieri vorticosi del protagonista che si confondevano con quelli dell’autore, tanto che a un certo punto neanche ricordavo più quale fosse la trama. Che, a dirla tutta, può ridursi davvero a poche decine di pagine (e infatti gli uomini apprezzano Marìas ben poco rispetto alle donne, sue amate lettrici, che lo hanno sempre ripagato venerandolo).
E sarà stato forse un malcelato animo femminile a tradirmi, fatto sta che rimasi fin da subito affascinato da quella prosa rotonda, avvolgente, che accompagnava il lettore inducendolo in uno stato ipnotico ma sempre irrimediabilmente analitico e razionale, lucido e conseguenziale. E quando mi accorgevo che l’autore mi aveva portato un po’ troppo oltre quello che era il topos del romanzo, era ormai troppo tardi: ero caduto nel tranello, mi ero lasciato ammaliare da un incantatore.
Oggi quel libro è in ottime mani. Anche se non ne ho evidenza, ne sono sicuro. Negli anni a venire mi sono accontentato di una copia che ho ricomprato, ma sapete tutti che non è la stessa cosa. Ho compensato anni fa scovando, in un mercatino dell’usato a Barcellona, una copia in lingua originale, che conservo come una reliquia.
Ma insomma, al di là di quel primo libro – e non chiedetemi quale sia il suo libro migliore: quantomeno non fatelo oggi, per pietà – negli anni mi sono accorto che finivo per aspettare trepidante la pubblicazione dei suoi libri quasi come un bambino attende Babbo Natale con i suoi regali. E, senza rendermene conto – proprio come se fossi stato il protagonista di uno dei suoi romanzi – mi sono ritrovato uomo, forse anche un po’ diverso da come ero partito, di certo molto fuori tema rispetto alle premesse esistenziali di uno studente, per giunta anche fuori corso.
E poi, anni dopo, l’ho anche conosciuto. Cioè, non proprio, perché si trattò di assistere dal vivo alla presentazione di un suo romanzo. Ero a Roma per un corso, liquidai tutti i colleghi che mi aspettavano per la cena e mi tuffai nella metro per raggiungere, solo solo, l’Auditorium. Ero tra i primi della fila, c’erano – come detto – molte più donne che uomini. Io rimasi affascinato dall’uomo, cercando per quanto possibile di astrarlo dall’autore. Non era molto alto, ma aveva un portamento che riecheggiava i grandi cavalieri cinquecenteschi, quegli uomini all’antica ma mai fuori moda che sanno sempre come comportarsi, veloci di lingua non meno che di coltello. Indossava una camicia bianca sotto un abito nero, e per me era bellissimo.
Forse, a pensarci bene, io volevo essere Marìas. Meglio ancora, uno dei suoi personaggi, uno di quelli sempre risoluti, attento osservatore della realtà e delle inettitudini umane, fine interprete dell’animo femminile e delle più nefande pulsioni dell’uomo, dalle quali però sapeva sempre tenersi alla larga. Uno di quegli uomini con le idee chiare, sebbene rare volte passassero all’azione.
Non ci sono riuscito, lo ammetto. Parlo troppo, sono irascibile e volubile e soffro una facile cedevolezza sentimentale, oltre quanto si possa tollerare per ambire a rivestire degnamente la parte.
Ma, al di là di questo mio vezzo personale, ammetto che Marìas mi ha reso un uomo migliore di quanto pensassi. Col tempo, inizialmente per gioco fino a farne quasi una inclinazione naturale, ho acquisito una postura che ha cercato e trovato nei suoi personaggi – per quanto così distanti dalle mie ordinarie occupazioni pubbliche e private – un modello di immediata applicazione.
Nella mia mente hanno iniziato ad affollarsi, trovando sempre un ordine mentale in perpetuo movimento, i grandi temi dei suoi romanzi: ecco il segreto, la dissimulazione, l’inganno e il tradimento (quello verso sé stessi, non certo il convenzionale costume borghese del tradimento coniugale). Ecco il dubbio etico, il rimando shakespeariano, il dilemma dell’uomo perennemente in bilico tra l’inerzia e la bramosia di potere, incapace di riconoscere dove finisca la virtuosa prudenza e dove cominci la vergognosa viltà. Ecco la perenne incertezza – che spesso mi coglie di sorpresa nel mio lavoro – su quando bisogna intervenire e quando invece voltarsi dall’altra parte per un presunto interesse superiore, che non sempre è attuale e concreto ma spesso lontano nel tempo, e chissà se mai esisterà davvero. Ecco l’attitudine all’uso della parola digressiva, accompagnando l’interlocutore di turno laddove fin dall’inizio, talvolta con ostentata presunzione, lo si intendeva condurre.
Ora, tutto questo non sparirà, è ormai patrimonio della mia esistenza, invisibile ma non meno presente, e fermamente saldo nella mia vita. Come tutti i suoi libri, alcuni dalle pagine ingiallite, che da oggi conserverò con maggior cura nella mia libreria.
Mi sembrano tutti orfani, e un po’ forse lo sono anch’io.
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