ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Violenza di genere e misure di prevenzione: la valutazione della pericolosità nel contesto delle relazioni familiari
Nota a Corte d’Appello di Bari n. 27405 del 01.06.2022
di Rita Russo
Sommario: 1. La violenza domestica: prevenzione e repressione. - 2. La valutazione del contesto. - 3. L'interesse del minore.
1. La violenza domestica: prevenzione e repressione.
La violenza domestica e di genere è un fenomeno complesso che si è drammaticamente imposto negli ultimi anni alla attenzione del legislatore e degli operatori del diritto. Gli interventi legislativi in materia, in continua sovrapposizione ed aggiornamento, hanno creato un quadro difficile da decifrare, ove si intrecciano misure penali e civili, preventive e riparative. Particolare attenzione è stata riservata alle misure di prevenzione, poiché la violenza all’interno di una relazione familiare di regola non si manifesta subito nelle sue forme più severe, ma segue un andamento crescente (escalation): prima degli atti violenti più severi si presentano segnali d’allarme e indicatori che possono presagire violenze più gravi.
Nel sistema penale, la violenza domestica o di genere viene ricondotta dalla recente legge n. 69 del 2019 (c.d. codice rosso) alle seguenti fattispecie: maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.); violenza sessuale, aggravata e di gruppo (artt. 609-bis, 609-ter e 609-octies c.p.); atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p.); corruzione di minorenne (art. 609-quinquies c.p.); atti persecutori (art. 612-bis c.p.); diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612-ter c.p.); lesioni personali aggravate e deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (art. 582 e 583-quinquies, aggravate ai sensi dell'art. 576, primo comma, nn. 2, 5 e 5.1 e ai sensi dell'art. 577, primo comma n. 1 e secondo comma.
Il sistema repressivo è strutturato con completezza e secondo parametri severi, tuttavia la Corte Edu lo ha considerato insufficiente a contrastare il fenomeno in due casi noti, di cui uno molto recente, rimproverando alle autorità italiane di non avere saputo valutare il rischio della escalation della violenza e di non aver adottato idonee misure preventive[1].
Si tratta, a ben vedere, di un rimprovero che riguarda più l'efficienza concreta del sistema che la sua struttura; ed infatti nell'ordinamento giuridico italiano gli strumenti di prevenzione della violenza domestica non solo esistono da molti anni, ma sono stati anche rafforzati ed ampliati di recente.
Per contrastare questi reati sono previste, in ambito penale, sia misure cautelari, che misure di prevenzione. In particolare, per apprestare una difesa anticipata delle potenziali vittime dei reati di questo tipo, si è fatto ricorso alle misure di prevenzione già previste per i delitti di mafia dal D.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 estendendone la applicabilità anche alle persone indiziate di maltrattamenti in famiglia (2019) e di stalking (2017), ai sensi dell’art. 4 comma prima lett. i)ter. Le misure di prevenzione sono misure special-preventive, indipendenti dalla commissione di un precedente reato, e da qui la denominazione di misure ante delictum o praeter delictum. Il che comporta una marcata autonomia di queste misure rispetto alle misure cautelari penali e allo stesso processo penale: il giudice deve valutare se le condotte tenute siano sintomatiche della pericolosità sociale del proposto e anche quegli elementi che siano stati acquisiti nel corso di un processo che si è concluso con sentenza di assoluzione possono essere utilizzati ai fini di applicare la misura quando i fatti, pur ritenuti insufficienti a fondare una condanna penale, siano tuttavia in grado di giustificare un apprezzamento in termini di pericolosità[2].
Ciò ha portato la dottrina ad esprimere qualche dubbio sulla compatibilità di dette misure con l’art. 27 della Costituzione e sui presupposti scientifici della prognosi di pericolosità [3], rimarcando la differenza con la disciplina delle misure di sicurezza e delle misure cautelari personali, ove la base del giudizio di pericolosità è la commissione di un previo reato, e quindi il riferimento a una fattispecie incriminatrice determinata e tassativa.
Può di contro osservarsi che diverse sono le finalità del processo penale, che mira a irrogare la pena, e del procedimento per l’applicazione della misura di prevenzione, che mira invece a prevenire condotte delittuose, ma con autonoma configurazione rispetto alle misure di sicurezza.
È vero che vi è una rilevante difficoltà nell'accertamento della pericolosità e nella valutazione del rischio quando non si può muovere da un fatto storico ben definito, ma soltanto da indizi di reato: si rischia infatti di cadere in pericolosi automatismi correlati alla presentazione di una denuncia, specie quando si tratta di reati di rilevante impatto sociale, quale è la violenza domestica e di genere. Ma il rigore con il quale si deve contrastare questo fenomeno non può trasmodare in una applicazione diffusa e indiscriminata delle misure di protezione, perché è sempre necessaria una attività di giudizio, vale a dire di discernimento e distinzione sulla base di criteri oggettivi e predeterminati.
Il caso esaminato dalla Corte d’appello di Bari con il decreto n. 27405 del 01/06/2022 del 19 maggio 2022 è esemplificativo della difficoltà di rendere un simile giudizio.
Una coppia di coniugi entra in crisi e il marito assume l’iniziativa della separazione chiedendo l’addebito alla moglie; un mese dopo quest’ultima sporge denuncia per maltrattamenti familiari. Mentre il giudizio di separazione segue il suo corso, viene richiesta ed applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale. La Corte d’appello di Bari, adita dall’interessato, revoca la misura escludendo la sussistenza di un livello indiziario sufficientemente elevato per giustificare la misura nonché la attualità della pericolosità, e a tal fine valuta anche il contesto familiare e la intervenuta cessazione della convivenza coniugale.
Il decreto offre diversi spunti interessanti.
La Corte più che valutare il fatto in sé e cioè la sussistenza del quadro indiziario e la sua gravità, valuta il periculum, soffermandosi su due punti specifici: esamina il contesto familiare in cui sarebbero maturate le denunciate violenze e tiene in considerazione l'interesse delle figlie minori. Particolare rilievo viene dato alla circostanza che la denuncia penale, mai preceduta da altre richieste di intervento, viene presentata dopo che il marito ha proposto il ricorso per separazione con addebito e si è allontanato dalla casa familiare e che tra le parti non sussiste un'apprezzabile disparità socio-culturale. Si tratta di elementi apparentemente marginali, ma che rivestono invece una certa importanza, poiché la violenza in ambito familiare matura generalmente in un clima di prevaricazione, favorito da una situazione di disparità socio-economica e spesso trova il suo acme quando la vittima cerca di liberarsi del legame contro la volontà del soggetto maltrattante, che invece vuole mantenerlo.
2. La valutazione del contesto.
Le ipotesi di violenza domestica non sempre sono facilmente individuabili in punto di fatto: con essa si intende ogni forma di aggressione fisica, di violenza psicologica, morale economica, sessuale o di persecuzione, attuata o tentata, all’interno di una relazione familiare, o comunque di una relazione intima, presente o passata.
La violenza non necessariamente consiste in atti di aggressioni fisica che lasciano tracce visibili, ma può anche essere psicologica, e ciò significa che per contrastarla non basta il solo allontanamento tra vittima e oppressore, ma occorre impedire che possano essere esercitate pressioni, anche indirette, sulla vittima oppure strategie dirette ad isolare l’offeso dal contesto sociale e dal resto della famiglia.
La violenza può essere economica, ed in tal caso è costituita da una pluralità di comportamenti, tutti volti ad impedire che la vittima divenga economicamente autonoma o a farle perdere l’autonomia economica e quindi ad esercitare il controllo sulla vita del partner tramite il denaro. Vendere la casa familiare, intestare i propri beni a un prestanome, sottarsi continuativamente all’adempimento degli obblighi di collaborazione al ménage familiare, pretendere che la vittima consegni i propri guadagni al soggetto abusante, oppure renda conto minuziosamente delle spese, costituiscono atti di violenza specie quando la vittima non ha alcun autonomo accesso a risorse economiche alternative o supporto da parte della famiglia di origine.
Questo genere di comportamenti può trovare -a seconda dei casi- il suo inquadramento nel delitto di maltrattamenti in famiglia, che si può realizzare, come afferma la giurisprudenza della Corte di legittimità, anche tramite comportamenti aggressivi e prevaricatori, manifestazione della pervasiva volontà prevaricatrice e di controllo, tali da incidere sulle condizioni di vita della persona offesa, costretta a vivere la quotidianità con un senso di turbamento e paura[4].
Il termine “maltrattamento” presenta invero un certo grado di indeterminatezza e per percepircene adeguatamente il significato, rispettando il principio di tassatività, è necessario ancorarlo da un lato ai presupposti di carattere soggettivo e oggettivo che qualificano la condotta, e dall'altro al contesto in cui essa si verifica, in modo da rilevarne un contenuto offensivo compatibile con i principi costituzionali e con l'intera logica del sistema di tutela della famiglia. La caratteristica del reato è quella di punire comportamenti di vessazione fisica o morale non necessariamente qualificabili, se singolarmente considerati, come reato, ma ripetuti nel tempo ed in grado di arrecare offesa, perché la vittima non è un extraneus, ma un soggetto che la relazione familiare pone in condizione di vulnerabilità. All’interno della relazione familiare esistono infatti doveri di solidarietà e protezione che impongono ai loro componenti obblighi positivi, definiti dalla legge, e di astenersi anche da quelle condotte che, di scarso rilevo se tenute nei confronti di un terzo, divengono particolarmente offensive se tenute nei confronti del partner o di un figlio. Ad esempio, secondo la giurisprudenza di legittimità, anche il pubblico disprezzo, che di per sé non è un reato, ove reiterato e tale da infliggere profonde umiliazioni, può costituire reato di maltrattamenti [5]. D'altro canto, è anche vero che all'interno del nucleo familiare la solidarietà comporta necessariamente un certo grado di tolleranza nei confronti delle offese minime (non penalmente rilevanti), che in un rapporto solido e sostanzialmente sano possono essere riparate spontaneamente.
La complessità di inquadramento refluisce anche sulle modalità di accertamento del reato o del suo fumus. Ai fini del processo penale rileva la ricostruzione storica di ciò che è avvenuto. La difficoltà in questo caso consiste prevalentemente nel reperire le fonti di prova e cioè testimoni attendibili e che abbiano assistito al fatto o ne conoscano sia pure indirettamente i dettagli, e documenti affidabili che con il fatto abbiano una stretta correlazione (ad esempio i referti medici). Nei giudizi per l’applicazione di una misura di prevenzione invece – e analogo problema si pone in sede civile per l’applicazione dell’ordine di protezione – la questione non è tanto o soltanto ricostruire il fatto, ma valutare il rischio, cioè rendere un giudizio prognostico su ciò che potrebbe avvenire.
Il giudizio di pericolosità sociale è uno dei più complessi che si possa immaginare, in particolare quando muove da una base fattuale i cui contorni sono ancora incerti.
La base fattuale è comunque necessaria: le limitazioni della libertà personale non possono fondarsi su un mero “processo alle intenzioni” e cioè sull’esame di quei moti che avvengono all'interno dell'animo umano e che non trovano alcuna manifestazione all'esterno: nessun fenomeno che si risolva in interiore homine rileva per il diritto. Ogni prognosi sfavorevole deve essere fondata su elementi concreti, idonei a dimostrare la pericolosità, l’attualità e la probabile condotta futura del soggetto. Si deve quindi muovere da fatti e comportamenti e da questi desumere la probabilità che il comportamento si ripeta o anche progredisca verso forme più gravi di aggressione dei beni protetti dalla norma. In questo modo si traccia il profilo di personalità del soggetto la cui pericolosità si deve valutare; ma sarebbe un errore pensare che si tratti di un esame meramente individuale perché la valutazione del contesto in cui i comportamenti sono tenuti è altrettanto rilevante, e in particolare quando si tratta di reati che, come quello di maltrattamenti, sono definiti dal contesto e presuppongono l'esistenza di una relazione tra vittima e aggressore.
Poiché la violenza domestica si connota essenzialmente come una prevaricazione che assume di volta in volta le forme più varie – violenza fisica, psicologica, economica – occorre fare attenzione a quegli elementi che favoriscono il crescere e il progredire degli atteggiamenti prevaricatori. Tra questi – come messo in evidenza dalla Corte d’appello di Bari – la attualità della convivenza e la condizione di disparità tra le parti.
Ed è determinante la distinzione tra la mera conflittualità, che è una dinamica molto comune nelle relazioni familiari in fase di dissoluzione, e la violenza, posto che la prima presuppone una situazione interpersonale basata su posizioni di forza (economica, sociale, relazionale, culturale) simmetriche, e di contro la violenza si esercita e si può esercitare perché la relazione è – o divenuta per effetto della violenza – asimmetrica. L’assenza di simmetria determina uno squilibrio di relazione e, quindi, in presenza di violenza non si può parlare di mero conflitto. Per distinguere la conflittualità dalla violenza non deve guardarsi soltanto al comportamento materiale, che potrebbe essere simile nell’uno e nell’altro caso, quanto ai rapporti di forza tra le parti. Ad esempio, la circostanza che la moglie rinunci alla attività extradomestica è un atto di violenza se imposto, è un atto di autonomia privata dei coniugi, che trova il suo riconoscimento nell’art 144 c.c., se frutto di un accordo assunto su posizioni di parità.
Altro elemento di particolare rilievo è la presenza nel contesto familiare di specifici fattori di rischio, quali l’alcoldipendenza, la tossicodipendenza, la disoccupazione, pregressi episodi di maltrattamenti nei confronti dello stesso partner o di partner diverso. Di per sé nessuno di questi fattori è decisivo, poiché ogni caso è diverso dall'altro, ma la loro presenza o assenza orientano il giudizio prognostico sulla pericolosità e quindi devono essere oggetto di indagine da parte del giudice investito della richiesta di una misura di prevenzione.
3. L'interesse del minore.
Altro elemento preso in considerazione dalla Corte d'appello di Bari è l'interesse delle figlie minori della coppia. Sebbene non si tratti di un giudizio che ha per oggetto l'affidamento delle minori, tuttavia vengono presi in considerazione gli effetti che la misura di prevenzione può avere sulla relazione familiare tra il genitore e le figlie. Si fa quindi applicazione del principio secondo il quale se il giudizio riguarda, sia pure indirettamente, la vita del minore, non può prescindersi la considerazione del best interest of the child.
Anche in questo caso rileva la distinzione tra conflitto e violenza.
La violenza nelle relazioni familiari investe di regola anche il minore, spesso nella forma della violenza assistita; il che comporta la necessità di valutare attentamente l’idoneità del soggetto violento ad esercitare le funzioni genitoriali o comunque ad esercitarle senza alcuna limitazione e controllo ed, eventualmente, supporto.
Il mero conflitto tra genitori invece non deve interferire con il diritto del minore a mantenere un rapporto equilibrato con entrambi, ma soprattutto con il diritto a ricevere da entrambi, e non solo dal genitore affidatario, la "prestazione genitoriale" e cioè cura, educazione, istruzione ed assistenza materiale e morale.
Una spinta decisiva alla affermazione di questi diritti è stata data dalla adesione dell'Italia alle Convenzioni internazionali sull'infanzia e in particolare la Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con la L. 27 maggio 1991, n. 176, e la Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli firmata a Strasburgo il 26 gennaio 1996 e ratificata con la L. 20 marzo 2003, n. 77. Il quadro si completa con la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (c.d. Carta di Nizza) che all'art. 24, tratta espressamente dei diritti del bambino affermando che "I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere. Essi possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità".
Esprimendosi con le parole dall'art. 3 della Convenzione di New York del 1989, si può dire che al fanciullo devono essere assicurate le condizioni perché egli possa svilupparsi in modo sano e normale fisicamente, intellettualmente, moralmente, spiritualmente e socialmente, in condizioni di libertà e dignità e, in ogni decisione che lo riguarda il suo interesse deve essere considerato preminente.
Si esplicita così il principio della “prevalenza” dell'interesse del minore, ma senza trascurare l'importanza del diritto del genitore alla relazione familiare, diritto che pure esiste e che sarebbe irragionevole negare, a maggior ragione considerando che gli stessi diritti del minore sono attuati in chiave relazionale. È infatti da chiedersi se l'interesse del minore che il giudice deve tenere in considerazione è veramente “superiore”, cioè prevalente su qualsiasi altro interesse o soltanto il migliore, vale a dire che tra più scelte deve farsi quella che meglio garantisce il suo benessere psicofisico. A questa domanda se ne lega un'altra, sul se, quando e in che misura questo interesse vada bilanciato con ulteriori e diversi interessi di pari rango. La relazione familiare, infatti, non è un diritto solo del minore, ma anche dei genitori.
Un tempo si parlava di interesse superiore della famiglia, cui si potevano (e dovevano) sacrificare gli interessi individuali. La prospettiva si è oggi in un certo senso rovesciata, poiché si parla non più di interesse superiore della famiglia, ma di superiore o prevalente interesse del minore, perpetrando così un errore di fondo, quello di applicare alla famiglia la regola del conflitto, da dirimere individuando una parte vincente ed una soccombente, anziché promuovere la cultura della mediazione. Con la doverosa precisazione che, anche quando si parla di mediazione, è decisiva la distinzione tra violenza e conflitto. La mediazione non deve essere avviata nei casi di violenza familiare, come peraltro prevede la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata in Italia con legge 77/2013. Invece, nei casi di conflitto, la mediazione può essere particolarmente utile per riavviare il colloquio tra i genitori e aiutarli a trovare da soli la via migliore per continuare ad esercitare la responsabilità genitoriale, nell’interesse dei figli minori, nonostante la separazione.
In ogni caso, la decisone della interruzione dei rapporti tra i genitori e figli è una questione assai delicata, che non può essere regolata da automatismi, poiché la interruzione della relazione tra genitori e figli sul piano giuridico, ma anche naturalistico, si giustifica solo in funzione di tutela degli interessi del minore. In questi termini la giurisprudenza di legittimità ha affermato il giudice civile deve valutare autonomamente sia sotto il profilo materiale, sia sotto quello della potenziale dannosità per l'equilibrato sviluppo psicofisico del minore, la rilevanza dei comportamenti penalmente censurabili ascritti a un genitore ancora oggetto di accertamento in sede penale[6].
[1] Corte Edu, 2 marzo 2017, Talpis c. Italia, il testo in lingua italiana in www.giustizia.it; Corte Edu 7 aprile 2022, Landi c. Italia, in https://hudoc.echr.coe.int
[2] Cass. pen. sez. II, 05/04/2022, n.22732; Cass. Pen. sez. II, 18/01/2022, n.8166
[3] Cfr. anche per i riferimenti bibliografici, PETRINI, Le misure di prevenzione personali: espansioni e mutazioni in Dir. Pen. e Processo, 2019, 11, 1531
[4] Cass. pen. sez. VI, 30.05.2022, n.27166
[5] Cass. pen. Sez. VI, 12.10.2021, n. 2378
[6] Cass. civ. Sez. I Ord., 19.05.2020, n. 9143
G. Luccioli, Dignità della persona e fine della vita, Cacucci, Bari, 2022
Recensione di R.Conti
Sommario: 1. Dal Diario di una giudice a “Dignità della persona e fine della vita”. - 2. L’arena in cui si svolge il viaggio della Luccioli. - 3. I quattro punti cardinali del libro. La dignità della persona malata. - 4. Autodeterminazione e consenso - 5. Le cause bandiera e il ruolo del giudice e della Cassazione. - 6. La legge n.219/2017 e il suicidio assistito. - 7. Le (possibili e plurali) chiavi di lettura del volume. - 8. Dalla decostruzione alla costruzione del sistema per mezzo della cooperazione fra giudice e legislatore. - 9. Il coraggio responsabile di Gabriella Luccioli.
1. Dal Diario di una giudice a “Dignità della persona e fine della vita”
Gabriella Luccioli ci regala, all’interno della collana diretta da Pietro Curzio “Biblioteca di cultura giuridica, Breviter et dilucide, un saggio dedicato a “Dignità della persona e fine vita”.
Avevamo lasciato Gabriella al Suo Diario di una giudice che, ben prima delle note vicende dell’Hotel Champagne, rivendicava “con orgoglio di non avere mai salito le scale di Palazzo dei Marescialli se non per motivi istituzionali e non aver mai alzato il telefono per chiedere”.
Correva l’anno 2016, le acque in magistratura erano assolutamente “chete” e l’organo di autogoverno si apprestava alla nomina di un numero vertiginoso di posti direttivi e semidirettivi che avrebbero per il successivo lustro governato la magistratura italiana. Quella sua “rivendicazione” allora cadde nel nulla, come spesso accade alle riflessioni che alcuni grandi fanno ma che si preferisce non ricordare, salvo poi spendere elogi postumi circa la loro ariosità ed intrinseca verità.
Ora, il lettore potrà chiedersi il senso di questa considerazione in una riflessione sul libro dedicato al fine vita. A questo interrogativo crederà di poter rispondere evidenziando che proprio nel trattare la questione, tormentata e dolorosa, che anima “Dignità della persona e fine della vita” esce a tutto tondo la figura della giurista, donna magistrato, dell’Autrice, autorevole e soprattutto credibile, con la sua ferma convinzione di doversi mettere ancora una volta al servizio della scienza giuridica, dell’opinione pubblica e della comunità dei giuristi per offrire il proprio pensiero.
In un tempo di ormai bassa estate, comunque dedicato al riposo ed alla ricarica mentale e fisica potrebbe sembrare poco indicato suggerire la lettura di una riflessione su un tema complicato e non certo “allegro” quale è quello che immediatamente si coglie dal titolo del saggio.
Ma è proprio la riflessione della Luccioli a suggerire il contrario, ad indurre il lettore a fermarsi e riflettere, fuori dai tormenti del lavoro e delle occupazioni ordinarie, su questioni che toccano la persona umana del nostro tempo, i nostri cari e noi stessi.
2. L’arena in cui si svolge il viaggio della Luccioli
In gioco ci sono, infatti, i destini dei più anziani - quando la vita comincia ad imboccare un declino tormentato e doloroso -, dei figli minori - quando hanno la sventura di subire, innaturalmente, insieme ai genitori un destino altrettanto tormentato ed angusto per malattie che la medicina non può governare - e di chi, infine, non appartenendo né all’uno né all’altro segmento dell’esistenza umana avverte comunque il bisogno di dedicarsi ad un momento di conoscenza per farsi un’idea, un’opinione ed acquisire consapevolezza su ciò che il destino di ciascuno potrebbe riservargli, contro la propria volontà e le proprie speranze.
Il viaggio di Gabriella Luccioli è un bell’itinerario, guidato da un’interprete sui generis, accompagnatrice e guida davvero speciale per la storia che si porta dietro.
A volte accade che per spiegare fatti e vicende complesse occorrano fiumi di parole, ricostruzioni storiche che fanno tremare i polsi per quanto esse appaiono indaginose, complicate, farraginose ed impervie al fine di consentire una visione di insieme al lettore che poco sa di un dato argomento.
Il libro di Gabriella è - sotto questo profilo - straordinario, perché racchiude in una pubblicazione cartacea che, in linea con la collana, ha il formato di un libro virtuale Kindle di poco meno di 100 pagine, la “storia” del fine vita.
Una storia che scorre fluida e che consente di leggere il libro, metterlo da canto per qualche giorno e rileggerlo in pochi giorni per sentirne il battito, la pressione, la temperatura.
3. I quattro punti cardinali del libro. La dignità della persona malata
Ogni espressione, ogni parola, ogni ragionamento è un distillato prezioso che l’Autrice ha raccolto naturalmente, senza alcun sforzo se non quello rivolto a renderne l’analisi tanto asciutta quanto scorrevole e lineare, quasi da proporsi anche sul piano della tecnica argomentativa come “modello” anche per il giurista del nostro tempo.
Il che avvantaggia di molto il ruolo di chi ha il privilegio di offrire una panoramica di questo percorso attraverso il fine vita che sembra svolgersi attorno a quattro punti cardinali sui quali si dipana il ragionamento dell’Autrice.
Il primo è rappresentato dalla dignità della persona sulla quale la Luccioli si diffonde, cogliendo i tratti qualificanti di un super valore che “appare maggiormente a rischio di essere calpestato” quando il tempo della vita “è quello della malattia, perché l’infermità rende fragili, vulnerabili, dipendenti dagli altri.” (21)
Ed è proprio a quel concetto plurale di dignità - sul quale v., volendo, anche R. Conti, Bioetica e biodiritto. Nuove frontiere, in questa Rivista, 28 gennaio 2019 - che occorre rifarsi ed ispirarsi per delineare una proficua relazione tra esseri umani ed una valida relazione terapeutica proprio quando, dice Gabriella, “i venti gelidi dell’indifferenza, della noncuranza e peggio dell’intolleranza verso la malattia, il dolore e la fragilità dei più deboli sembrano prendere il sopravvento.” Né sembra esservi nell’Autrice alcun intento moraleggiante, pedagogico o paternalista, intendendo piuttosto la stessa sottolineare la centralità della “persona” nel senso che la Costituzione mira a promuovere e proteggere, lasciando in ombra quella, solo apparentemente conforme, di “individuo”.
In ciò sembra esservi piena sintonia fra la giurista laica Luccioli ed il pensiero espresso da Papa Francesco alla presenza dell’Associazione Nazionale Magistrati nell’anno 2019 ed il suo invito a considerare al centro della giustizia l’uomo e la sua dignità o, meglio, come disse, la carne viva delle persone, soprattutto di quelle più indigenti. Un invito ad essere capaci di garantire sempre, a qualunque persona, senza discriminazioni e pregiudizi di sesso, di cultura, di ideologia, di razza o di religione, la dignità che gli è propria, non dimenticando che la peculiare condizione di chi versa in situazioni di estrema debolezza e di indigenza impone, a volte, di adottare dei correttivi al canone del suum cuique tribuere, in modo da offrire e garantire una giustizia ‘con uno sguardo di bontà’, ‘sempre più inclusiva, attenta agli ultimi e alla loro integrazione’ - v. volendo, R. Conti, Se lo dice il Papa, in questa Rivista, 11 febbraio 2019 -.
4. Autodeterminazione e consenso
Segue poi, nella riflessione di Gabriella, l'analisi del principio di autodeterminazione e del consenso nonché degli sviluppi provocati dalla legge n.217 del 2019 sulla relazione di cura.
Il ruolo del consenso è centrale. Lo è nella materia che tratta la Luccioli autrice e lo è parimenti per la Luccioli studiosa e giurista, naturalmente portata a formare le proprie opinioni ed i propri giudizi sulle rime obbligate del confronto schietto, leale e aperto.
In questa prospettiva, cara all’Autrice, il medico che dà attuazione alla scelta consapevole e informata del paziente di rifiutare la cura, non è un essere inanimato, roboticamente programmato per eseguire la volontà altrui, ma è “un coprotagonista della vicenda, in quanto nessuna scelta libera, consapevole o meditata è possibile se non preceduta da una fruttuosa interlocuzione fra i due.” (34)
Il ribaltamento che si produce per effetto della (nuova) relazione di cura intessuta fra il medico e il paziente scompagina la figura tradizionale del sanitario, rendendola centrale nel percorso di realizzazione massima della dignità del malato.
Si giunge così al cuore della questione sul fine vita, agganciata alla sentenza Englaro ed alle pronunce della Corte costituzionale rese tra il 2018 ed il 2020.
Questo cammino che la Luccioli si prende cura di delineare prende forma e consistenza da iniziative di persone che reclamano il rispetto della dignità delle persone coinvolte in fatti tragici delle proprie esistenze.
5. Le cause bandiera e il ruolo del giudice e della Cassazione
Queste “fonti di innesco” impongono risposte coraggiose e responsabili da parte degli organi giurisdizionali che hanno preso forma e sostanza nella sentenza Englaro resa dal Collegio della prima sezione della Corte di Cassazione che l’Autrice ha presieduto in quella circostanza, per poi diventare presidente titolare della stessa sezione. Una sentenza che traccia, anzitutto, una differenza netta fra rifiuto di cura ed eutanasia, solo la seconda attenendo alla condotta diretta ad interrompere la vita, a fronte del desiderio dell’interessato a che la malattia segua il suo corso sotteso invece al rifiuto di cura. Una pronuncia nella quale si preconizzava la rilevanza del c.d. testamento biologico, che successivamente assumerà consistenza normativa con le “Disposizioni anticipate di trattamento” disciplinate dalla l. n.219/2017.
Era compito ineludibile della Cassazione, in quel caso, “dare una risposta alla domanda di giustizia tenacemente proposta dal padre di Eluana Englaro…” e la Cassazione, in quel contesto “non ha gestito un interesse” ma ha statuito su un diritto (p.38). Una Cassazione che, dunque, è stata al tempo stesso protagonista di una risposta giurisprudenziale creativa inchiodata ai principi costituzionali individuati non soltanto attraverso le sentenze della Corte costituzionale, ma anche grazie alla giurisprudenza delle Corti sovranazionali ed al contempo custode della piena legalità della decisione.
In poche battute l’Autrice offre una risposta in punta di penna alle critiche feroci che sono piovute sulla sentenza Englaro dal mondo politico ed ancora di più tenacemente da non marginali settori dell’Accademia e della magistratura, tuttora fortemente arroccate sull’idea che quella pronunzia abbia rappresentato un innaturale, pericoloso ed indebito intervento del potere giudiziario, tale da mettere in crisi il riparto dei poteri, fissato dalla Costituzione, fra organi di produzione legislativa e giurisdizione.
Quando in ballo ci sono i diritti, scrive la Luccioli, e si tratta di offrire loro tutela, “…quando si tratta di concorrere alla costruzione del diritto vivente, soprattutto quando si riscontra l’incapacità o il rifiuto del legislatore a provvedere…la giurisdizione non può esimersi dal rendere risposte di giustizia adeguate e dall’assumere un carico morale che la costringa a riempire i vuoti lasciati dal legislatore”(38).
Una navigazione, quella imposta al giudice, non solitaria ed “in mare aperto”, ma avente piuttosto “come stella polare e parametro decisorio la Costituzione e le Corti sovranazionali” (38), con una “bussola orientata verso i principi di libertà, dignità ed autodeterminazione della persona” (39).
Dunque, una giurisdizione che, prosegue la Luccioli, per effetto e a causa del progresso scientifico e medico, è stata chiamata nell’ultimo ventennio a “costruire” il sistema attraverso la tavola dei diritti fondamentali in materia di fine vita.
Una costruzione che si alimenta non certo attingendo ai personali convincimenti e ai valori come soggettivamente percepiti dal decisore di turno, ma tutto al contrario nutrendosi di fonti normative e giurisprudenziali nazionali che muovono dalle Carte dei diritti fondamentali, inserite a pieno titolo nell’ermeneutica alla quale il giudice è tenuto (40).
Da qui la sempre più intensa valorizzazione dello strumento comparatistico sul quale altre volte ci è capitato di ragionare (v., volendo, R. Conti, I giudici e il biodiritto. Un esame concreto dei casi difficili e del ruolo del giudice di merito, della Cassazione e delle Corti europee, Roma, 2015, 223 ss.) e che anche nell’ordinanza n.2014/2019 della Corte costituzionale ha giocato un rilevante peso, avvertendosi - anche sulla scelta di rinviare la decisione sull’incostituzionalità consentendo al legislatore di intervenire - le influenze della giurisprudenza straniera nonché dell’accademia nordamericana - sul punto, v., specificamente, una delle risposte di Guido Calabresi in Un intervista impossibile a Guido Calabresi di Roberto Conti, in questa Rivista, 13 settembre 2021 -.
La sentenza Englaro diventa così “un pieno di principi e di regole” (40) che, proprio per dare veste giuridica e consistenza all’idea di dignità manifestata in vita da Eluana, attinge a strumenti normativi anche se privi di vincolatività (Convenzione di Oviedo), fonte di ispirazione dotata di autorità persuasiva al pari delle pronunce della Corte costituzionale (Corte cost. n.262/2016) - cfr. B. Pastore, Interpreti e fonti nell’esperienza giuridica contemporanea, Padova, 2022, 162-.
6. La legge n. 219/2017 e il suicidio assistito
Si giunge, così, al tema della l. n.219/2017, figlia della sentenza Englaro. Ed è proprio questa paternità - più o meno dichiarata - che non garba a coloro che si fanno portatori di concezioni, idee e rappresentazioni della giustizia che additano la sentenza Englaro come esempio di cattiva giurisprudenza da mettere al bando. Venti che si fanno ancora più consistenti e presenti in un clima politico contrastato come lo è quello attuale, nel quale il tema del fine vita dopo gli interventi della Corte costituzionale è rientrato nell’agenda politica di alcune forze politiche. Queste critiche non persuadono. La legge n.219/2017 – al netto dei pur esistenti deficit che possono intravedersi al suo interno – proseguendo la linea tracciata dalla legge n.6/2004, sembra essersi pienamente coniugata e coordinata con alcuni punti di partenza offerti proprio dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione. Ciò in uno spirito di piena e leale cooperazione che ha visto, nel caso di specie, la legge fissare in termini astratti alcuni elementi di base già valorizzati in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità all’interno di una disciplina che si presta, poi, ad essere attuata dal giudice nel caso concreto. Il tutto all’interno di un circuito destinato ad arricchirsi ulteriormente attraverso l’opera ermeneutica del giudice, al quale spetterà eventualmente di colmare le lacune esistenti attraverso il ricorso ai principi fondamentali del sistema dotati di immediata precettivitá ovvero di investire la Corte costituzionale per verificare l’esistenza di disposizioni che realizzino uno iato con quegli stessi principi, riletti anche attraverso le Carte sovranazionali dei diritti. Di questo senso sembra essere intessuto il fil rouge del pensiero della Luccioli sul punto.
Si approda, pertanto, al tema del suicidio assistito.
La Luccioli ripercorre allora la vicenda dolorosa di Fabiano Antoniani, la malattia e le fortissime limitazioni da questa derivate alle basilari funzioni vitali, definitivamente ed irreversibilmente compromesse. Da qui la volontà di dj Fabo di porre fine alla propria esistenza che Marco Cappato agevolò accompagnandolo in Svizzera per consentirgli l’assunzione del farmaco in grado di condurlo rapidamente e senza dolore alla fine.
I due interventi della Corte costituzionale e le ragioni poste a base della decisione sono dalla Luccioli analizzati non nascondendo la delicatezza dell’esito finale prodotto sull’art. 580 c.p. e dando anzi espressamente atto che la Corte, nell’opera di bilanciamento fra tutela della vita e diritto all’autodeterminazione, si mosse “lungo un crinale sottilissimo tra valutazioni politiche divergenti in ordine alla perdurante attualità della fattispecie penale di aiuto al suicidio” (p.67), ridefinendo la disposizione incriminatrice in termini coerenti con i valori costituzionali e radicalmente ribaltando l’approccio del codice penale del 1930 attraverso la valorizzazione dell’autonomia decisionale del paziente “in connessione con la dignità umana” (p.71).
Un’operazione compiuta immutando la teoria crisafulliana delle rime obbligate, “ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento" (72) -sul tema, in generale, v. D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di «ri-accentramento» della giustizia costituzionale in Italia, Bologna,2020 e, di recente, L. Bartolucci, La disciplina del “doppio cognome” dopo la sentenza n. 131 del 2022: la prolungata inerzia del legislatore e un nuovo capitolo dei suoi rapporti con la Corte, in www.consultaonline-. Ma il risultato raggiunto da Corte cost. n.242/2019 non è, agli occhi della Luccioli, un punto fermo, bensì apre nuovi scenari che dimostrano quanto il cammino intrapreso dalle Corti sia ben lontano dal potersi dire conchiuso, come dimostrano i casi di suicidio medicalmente assistito riconosciuti in Italia – successivamente alla pubblicazione del libro qui recensito - dopo la sentenza della Corte costituzionale - v. M. Annoni, Suicidio assistito e sedazione profonda: la storia di "Mario" e Fabio, in fondazioneveronesi.it, 17 giugno 2022- nonché la vicenda che di recente ha visto ancora una volta protagonista Marco Cappato per avere nuovamente accompagnato in Svizzera, per cessare la propria esistenza, una malata terminale di cancro – Elena - non sottoposta a trattamento di sostegno vitale, nuovamente autodenunziandosi- v., di recente, A. Pugiotto, Chissà perché nessuno ha candidato Cappato, in Il riformista, 23 agosto 2022, 4. - Vicenda, quest’ultima, che finisce col rimettere al giudice penale la valutazione della condotta di aiuto, ciò confermando la gravità del silenzio del legislatore e della decisività del ruolo del giudice.
L’idea che Corte cost. n.242/2019 possa interpretarsi in senso estensivo quanto ai requisiti fissati per giungere ad affermare la liceità della condotta di chi offre il proprio aiuto al malato terminale in assenza di trattamento di sostegno vitale è ben presente nel libro, ponendo essa stessa interrogativi di non facile soluzione, in parte sperimentati dalla giurisprudenza di merito ma che, in ogni caso, rendono necessario un intervento del legislatore “non essendo possibile che le molte problematiche che la vita si dà carico di proporre siano risolte dai non detti della Corte costituzionale, piuttosto che da una disciplina organica della materia (p. 75).
Ma nelle more il legislatore, già rimasto silente nel periodo fissato da Corte cost. n.208/2017, ha continuato a latitare. Né l’iniziativa referendaria sul tema ha superato il vaglio di ammissibilità della Corte costituzionale - cfr. proprio G. Luccioli, Le ragioni di un’inammissibilità. Il grande equivoco dell’eutanasia, in questa Rivista, 8 marzo 2022 -.
7. Le (possibili e plurali) chiavi di lettura del volume
Diverse sembrano essere le chiavi di lettura che si possono scegliere per accostarsi al libretto di Gabriella Luccioli, ma tutte convergenti verso la ricostruzione di un sistema nel quale la produzione del diritto è sempre più plurale, promanando da centri di imputazione che la democrazia, le sue regole, e in particolare quelle che la Costituzione ha fissato, individuano come “motori propulsori” dei diritti al servizio della società.
Si tratta di strumenti che trovano nell’azione giudiziaria intrapresa da - o nei confronti di - una persona innanzi ad un giudice la fonte di innesco per la verifica, demandata al giudice, sulla coerenza, attualità e capacità del sistema normativo vigente di rispondere alle esigenze avvertite da chi è parte della società. L’attività del giudiziario è rivolta a verificare tanto la fondatezza delle ragioni esposte da chi chiede di poter esercitare un diritto - o di consentire a che altri possano effettivamente ottenere protezione di tale diritto - quanto la legittimità o meno delle condotte poste in essere dai consociati. Tanto la magistratura persegue attraverso un’attività di continua ricerca e ricostruzione del sistema, inverato dalla Costituzione e dai valori portanti che essa incarna. Tornano alla mente le parole del Professore e Presidente emerito della Corte costituzionale Paolo Grossi che in questi giorni è mancato ai vivi, ormai da lustri orientate a descrivere il mondo del diritto sempre più votato e indirizzato verso la postmodernità proprio per il caos normativo che costituisce la regola dell’essere giuristi del nostro tempo. Ed è stato proprio Grossi che "...La Costituzione è còlta - ripetiamolo, perché sta qui una soluzione davvero appagante - come testo e come sostrato valoriale, quasi un continente che affiora solo parzialmente alla superficie, ma la cui consistenza maggiore è sommersa (anche se perfettamente vitale). Realtà, dunque, di radici, di valori che non si irrigidiscono nella secchezza di comandi, ma divengono plastici principii con la immediata concretizzazione in diritti fondamentali del cittadino. Radici, sì, ma già ad origine giuridiche, basamento del complesso diritto positivo della Repubblica…”. Ed aggiungeva, ancora, che “…Il vecchio giudice, condannato ad essere 'bocca della legge' dai riduzionismi strategici degli illuministi (dapprima) e dei giacobini (successivamente), non può che togliersi volentieri di dosso la veste opprimente dell'esegeta, ormai del tutto inadeguata, e indossare quella dell'interprete, dell'inventore, intendendo la sua operazione intellettuale irriducibile in deduzioni di semplice natura logica (come in una celebre pagina di Beccaria) e concretizzabile piuttosto in una ricerca, in un reperimento, con le conseguenti decifrazione e registrazione…”- P. Grossi, Il mestiere del giudice, Prefazione, in Il mestiere del giudice, a cura di R.G. Conti, Padova, 2020. -
Eguaglianza, libertà, e dignità si pongono, in questa prospettiva, come valori non negoziabili da alcuno e bisognosi di protezione e tutela per tutti. Non si tratta di valori “propri” del giudice di turno - costituzionale e non - ma di principi inviolabili e irrinunciabili che hanno necessità di essere appagati nel rispetto delle “regole” che la Costituzione ha fissato.
Qui sta tutto il senso dell’esperienza della Luccioli giurista, come Lei stessa sintetizza in una conversazione sul tema del mestiere del giudice e la religione - cfr. Il mestiere del giudice e la religione. Intervista di R. Conti a M. G. Luccioli, in questa Rivista, 2 ottobre 2020 -. In quell’occasione l’Autrice affermò che “…La generalizzazione sempre più diffusa e convinta dell’argomento costituzionale come criterio di interpretazione della legge, secondo acquisizioni maturate sin dal Congresso di Gardone, facendo della Costituzione una fonte in grado di regolare direttamente, attraverso l’interpretazione, la vita delle persone e i rapporti sociali, ha profondamente inciso sull’ esercizio della giurisdizione, consentendo alla giurisprudenza di collocarsi, anche dal punto di vista dommatico, nel sistema delle fonti di produzione del diritto ed attribuendo al giudice un ruolo molto più incisivo e dinamicamente aperto rispetto al passato, ponendolo come cerniera tra legge e cittadino, tra un comando che resta fissato in un testo scritto e richieste di tutela di diritti spesso non immediatamente riconducibili a quel testo. Ed è inevitabile che nel momento in cui l’attività interpretativa si inserisce nel processo di individuazione del significato della norma, e dunque di produzione del diritto, che si fa diritto vivente, si aprano spazi sterminati per l’interpretazione, anche a causa dell’affiorare, spesso inconsapevole, di sensibilità personali, stereotipi inconsciamente alimentati, pregiudizi, convincimenti radicati e mai posti in discussione, esperienze di vita, forme mentali, dati caratteriali. E lì dove premono orientamenti pregiuridici le linee di ragionamento e di valutazione restano profondamente influenzate. In realtà tutte le nostre decisioni sono impregnate di stereotipi, pregiudizi e ideologie, ed anche la proposizione di questioni di costituzionalità riflette, a ben vedere, la maggiore sensibilità del giudice remittente rispetto ad altri giudici che della norma impugnata hanno fatto sino a quel momento applicazione.”
8. Dalla decostruzione alla costruzione del sistema per mezzo della cooperazione fra giudice e legislatore
Il che non vuol certo dire che il giudice abbia un potere incontrastato di usare i canoni ermeneutici per “creare” diritti non riconosciuti dalla Costituzione o dal legislatore. Ed è la stessa Luccioli a spiegare in modo adamantino il suo pensiero quando, nell’intervista da ultimo ricordata sul tema del ruolo del giudice rispetto alla religione - cfr. Il mestiere del giudice e la religione, cit. -, ebbe ad osservare, con un occhio particolarmente rivolto ai giovani magistrati, che “…a fronte delle nuove potenzialità dell’interpretazione in un sistema così articolato e complesso è necessario mettere in campo una forte attenzione e un’ estrema cautela, nel rispetto di quel limite di legalità, di quella soglia ideale oltre la quale si sconfinerebbe nel soggettivismo e nell’arbitrio. Deve essere a tutti chiaro che attraverso l’interpretazione non si può fare tutto, non si può far dire ai testi normativi ciò che essi non intendono dire e che si oppone alla loro ratio, né si può utilizzare il metodo dell’interpretazione conforme come uno schermo per compiere una sostanziale manipolazione del disposto legislativo, anziché proporre le pertinenti questioni di costituzionalità. Vorrei inoltre ricordare ai giovani colleghi che compito dei giudici non è quello di seguire o assecondare nuove mode o tendenze, che sono fenomeni effimeri, ma di comprendere e analizzare i cambiamenti sul piano culturale e sociale e di aver cura, nel dare risposta alle istanze dei cittadini che su tali cambiamenti si innestano, che le decisioni adottate costituiscano coerente sviluppo delle precedenti acquisizioni giurisprudenziali, atteso che ogni distonia può determinare effetti gravemente negativi sulla tenuta complessiva del sistema, come purtroppo di recente è avvenuto”.
Ora, chi scrive sa bene che questa prospettiva, sunteggiata nelle parole della Luccioli, è oggi fortemente avversata da chi, autorevolmente, ritracciando il senso della dottrina Montesquieu, ricorda i limiti del potere giudiziario e ne critica l'attivismo additandolo come pericolo per le fondamenta delle democrazie occidentali e sottolineando come la funzione creativa dei giudici sia capace di porsi in supplenza dei corpi legislativi. Tanto per poi constatare l’incertezza del diritto prodotta dalle scelte della magistratura, la mutazione del proprio ruolo da "guardiana della legalità" a “guardiana dei poteri”, con il progressivo indebolimento dei principi di legalità, determinatezza e tassatività in corrispondenza dell'affermarsi della teoria di un diritto vivente di matrice giurisprudenziale, tutto orientato verso una tendenza creativa della giurisdizione, favorita dall’utilizzo ipertrofico della giurisprudenza delle Corti sovranazionali rivolta verso la soluzione giusta, in tal modo pericolosamente confondendo legalità e legittimità - cfr. di recente, su tali temi, S. Cassese, Il governo dei giudici, Bari/Roma, 2022-.
E tuttavia, riavvolgendo il pensiero della Luccioli attraverso il libro qui esaminato e le riflessioni appena ricordate, non può non colpire la forte sintonia di questo modo di interpretare la funzione giurisprudenziale con recenti e profondi studi sull’interpretazione del diritto – cfr. G.Pino, L’interpretazione nel diritto, Milano, 2022 -, capaci di evidenziare, dopo un’analisi assai approfondita sugli argomenti interpretativi e sulla quasi inevitabile commistione fra formalismo e sostanzialismo che convive nel giurista del nostro tempo quasi endemicamente, che nell’opera interpretativa affidata per Costituzione al giudice vi è indubitabilmente ed inevitabilmente una componente creativa, pur non mancando di sottolineare la complessità del significato che può attribuirsi a tale aggettivazione. E così, in definitiva, confermando quanto sia utopico “classificare il giurista” in modo più sostanzialista ovvero formalista e/o più creativo ovvero più incline ad una interpretazione fedele alla norma. E ciò non tanto per la difficoltà di individuare una linea di confine fra interpretazione e integrazione/creazione della norma, sulla quale lo stesso Pino si è soffermato con analisi lucide e persuasive (G. Pino, L’interpretazione nel diritto, cit., 262 ss.), quanto piuttosto per la necessità di spostare l’indagine sul prodotto cui giunge l’interprete nonché sul risultato cui lo stesso perviene rispetto alla vicenda esaminata e in particolare sulle motivazioni che utilizza per dare un senso, un significato, al dato normativo dal quale parte la sua indagine, sugli argomenti di cui si avvale, sul consolidamento o meno che un’interpretazione riceverà nel futuro da parte di altri operatori, sulla sua persuasività e plausibilità. Ciò che alla fine dimostra, probabilmente, la pluralità che sta dentro il diritto, promanando volta a volta da vari fattori “dislocati ai livelli della sua produzione, integrazione, ricostruzione, applicazione - cfr. B. Pastore, Interpreti e fonti, cit., 119 -.
Insomma, un mondo, quello dell’interpretazione, complesso, nel quale le diverse argomentazioni interpretative vivono rispetto al caso sottoposto all’esame del giudicante, facendo in tal modo del diritto vivente una “fonte di produzione” comunque sui generis, ricorda ancora Pino, proprio perché non vincolante come lo è invece per ogni interprete la legge, anche se proveniente da una giurisdizione chiamata a svolgere il ruolo di nomofilachia qual è la Corte di Cassazione.
Ora, pur senza essere in grado qui sviluppare in questa sede - anche per evidenti limiti di chi scrive - il tema altre volte oggetto di riflessioni profonde (cfr. T. Epidendio, La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura, in questa Rivista, 24 maggio 2022; si v. ancora sul tema, sempre su questa rivista, gli scritti di G. Montedoro-Derrida, Il giudice, il fare giustizia; G. De Amicis, Per l’alto mare aperto…: la Magistratura tra sogni spezzati e nuove speranze; A. Cosentino, Crisi della legge o crisi del giudice? Considerazioni a margine di un recente scritto di Tomaso Epidendio e, da ultimo, B. Montanari, “La fine di un sogno”. Una lettura epistemologica), non sembra possibile dissertare in via teorica sull’interpretazione senza calarla nel contesto che le appartiene, appunto rappresentato dall’applicazione concreta che il decisore di turno è chiamato a svolgere rispetto al caso posto al suo cospetto.
E sembra essere questa la prospettiva che conduce a considerare come estreme le riflessioni - R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quaderni costituzionali, 2019, n.4, 757; A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quaderni costituzionali, n.2, 2019, 251- che gridano all’eversione consumata da parte dei giuristi pratici rispetto all’uso (recte, abuso) di tecniche argomentative sistematiche e per principia tratti dalle Carte dei diritti, piuttosto forse dovendosi prediligere quell’impostazione che, mediando fra approccio formalistico, scettico e misto dell’interpretazione, giunge alla conclusione per cui “il ragionamento giuridico ha una ineliminabile componente particolaristica, che rende la nozione di interpretazione corretta almeno in parte legata alle circostanze” - G. Pino, L’interpretazione nel diritto, cit., 335 -.
9. Il coraggio responsabile di Gabriella Luccioli
Ora, la Luccioli, anche in questo volumetto ha la dignità ed il coraggio di rappresentare ciò che è accaduto in Italia sul fine vita, riconoscendo al padre di Eluana Englaro ed all’iniziativa di Marco Cappato il giusto valore che ad essi va attribuito non tanto per avere essi determinato un cambio di paradigma nell’ordinamento, quanto per avere dato piena attuazione ai canoni costituzionali per la difesa piena ed effettiva dei diritti della persona, affidando ad un organo giurisdizionale il compito di affermare l’esistenza o meno di quel diritto e di verificare se il quadro normativo di riferimento esistente sia compatibile con il quadro dei valori scolpiti dalla Costituzione e non già, si ripete, dei valori propri del giudice, ma della Repubblica nella quale egli svolge il proprio ruolo di garante della legalità e custode dei diritti.
Le iniziative di Beppino Englaro e di Marco Cappato non decostruiscono affatto il sistema, ma lo rendono vicino alle istanze delle persone, offrendone un’immagine efficace, effettiva ed adeguata alla centralità che la persona umana ricopre all’interno dell’ordinamento costituzionale.
Ci si accorge, allora, che il tema affrontato è centrale per la società, per i giudici, per il mondo politico e per il legislatore.
La Luccioli, lo si è detto e piace ripeterlo, spiega e ricostruisce il cammino, non nascondendosi affatto che esso appare ancora incompiuto proprio a causa dell’inerzia del legislatore.
Ciò fa in una prospettiva di ricercata alleanza fra mondo politico ed operatori del diritto, offrendo alcune indicazioni che potrebbero tornare utili al legislatore, senza con questo invadere competenze altrui, ma appunto mettendo a disposizione dell’organo che lei stessa indica come legittimato a provvedere, la sua esperienza da giudice e da giurista al servizio delle istituzioni svolta per ormai ben oltre cinquant’anni. Tanto riflette il desiderio di creare una “rete” e di cooperare insieme agli altri costruttori del diritto che questa Rivista ha da tempo caldeggiato anche sul tema - Il fine vita e il legislatore pensante, Editoriale - e che viene ormai indicato come paradigma sul quale il diritto non può che fondarsi a fronte della sua pluralità - cfr., ancora, B. Pastore, Interpreti e fonti, cit., 28 ss. -. Il che, in definitiva, sembra essere una prospettiva sulla quale potere e dovere investire fruttuosamente.
Ed invero, come ci è capitato di affermare altre volte, nell’attuale contesto della giustizia, tutto aggrovigliato attorno a chi si accapiglia sul rapporto fra giudice e legge, la tendenza allo scontro che, a volte, prende il sopravvento non pare adeguatamente considerare che è proprio la complessità dell’ordinamento giuridico - B. Pastore, Interpreti e fonti, cit, 40 -, della società nel suo dinamismo, del fenomeno giuridico - come l’aveva tracciata Angelo Falzea nella sua lectio magistralis del 2006, in Annali enc. Dir., 2007, 201 ss. -, a non potere essere imbrigliata in formule astratte e/o all’interno delle categorie, le quali non possono certo in alcun modo essere elise o eliminate, ma devono continuamente essere riponderate, attualizzate rispetto al contesto, rinvigorite, riempite dal nuovo rappresentato dalla caotica e sempre cangiante fattualità, in cui i confini e le certezze tradizionali devono continuamente fare i conti con una sempre più avvertita esigenza di protezione e salvaguardia della persona.
Inscrivendosi in questa prospettiva di fondo che pone al centro la teoria ermeneutica dell’interpretazione - sulla quale v. G. Zaccaria, Postdiritto, Bologna, 2022, 149 ss.-, l’Autrice mostra lo stesso coraggio che lei stessa attribuisce alla Corte costituzionale per avere infranto il paradigma dell’art. 580 c.p. Tanto emerge quando affronta, nel paragrafo finale, il problema non risolto dell’eutanasia, riconoscendone l’estrema delicatezza e complessità, sulla quale comunque il Parlamento dovrebbe esercitare le sue prerogative facendo saggio uso dei canoni del bilanciamento, della ragionevolezza e della proporzionalità. Il che si palesa oltremodo pressante quando il tema del fine vita riguarda ipotesi nelle quasi sono coinvolti i minori di età- sul quale ho provato a riflettere in Il giudice e il biodiritto, in Trattato di diritto e bioetica, a cura di A. Cagnazzo, Napoli,2017, 462 ss.- come ha dimostrato la legislazione introdotta dalla l. n.219/2017, sicuramente da meglio declinare proprio con riguardo ad alcuni aspetti circa le interruzioni delle cure per i minori, come ci è capitato di evidenziare in altra occasione - volendo, v.ancora il mio Scelte di vita o di morte, cit., 111 ss.- Ed è stata ancora una volta la cronaca più e meno recente a dare conferma della centralità del ruolo del giudice anche rispetto a tali vicende (P. De Carolis, I medici staccano la macchina. Archie si spegne dopo due ore, in Corr. sera, 7 agosto 2022, 10; id. e ib., Le lacrime e la rabbia di mamma Hollie. Ho il cuore a pezzi: perché non ho potuto decidere per lui?).
Tanto altro resterebbe ancora da dire sul volumetto della Luccioli poiché esso affronta un tema specifico, peraltro non allegro, ma che - come si è detto - tocca il cuore delle questioni pulsanti che ogni giurista ed ogni persona di senso ha il dovere di conoscere e di maneggiare con coraggio, responsabilità, passione e consapevolezza della centralità del dialogo. Esso costituisce dunque un garbato ma fermo invito a non indietreggiare di fronte alle critiche ideologiche, agli attacchi scomposti, alle accuse dei pavidi che intendono delegittimare gli avversari. Invito che giunge da una signora della cultura giuridica italiana, figura centrale nel dibattito scientifico che ruota attorno alle persone, al giudice ed alla società.
Un dono, dunque, per chi legge ed un monito per tanti giuristi ed operatori del diritto.
La riforma Cartabia: alcuni fils rouge
di Giorgio Spangher
1. È approdato al Consiglio dei Ministri lo schema di d.lgs. attuativo della riforma del processo penale ove è stato approvato ed inoltrato alle Camere per il prescritto parere, al fine di consentire al Governo, ancorché in proroga per lo svolgimento degli affari correnti, l’esercizio della delega entro il 18 ottobre 2022.
I tre pilastri, sui quali si regge l’impianto della riforma, come emerge dalla Relazione illustrativa alle bozze presentata nel preconsiglio del c.d.m. sono la riforma del processo penale, quella del sistema sanzionatorio (innestata nel codice penale e nelle modifiche alla l. n. 689 del 1981), quella della giustizia riparativa.
Molti degli aspetti di strutturale dettaglio dei vari profili della riforma (controllo sulla iscrizione della notizia di reato, criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, regole di giudizio dell’archiviazione e del rinvio a giudizio; procedimento in assenza e disciplina delle notificazioni; udienza predibattimentale del rito monocratico; riti speciali tradizionali e nuovi strumenti deflattivi, come la rimessione della querela, l’estinzione delle contravvenzioni, la riforma delle pene detentive brevi e della pena pecuniaria; l’adempimento delle prescrizioni degli enti accertatori per favorire l’estinzione delle contravvenzioni, la disciplina della rinnovazione della testimonianza in caso di mutamento del collegio; le modifiche alla disciplina dell’appello e del ricorso in Cassazione, solo per citare alcuni elementi) sono stati già oggetto di analisi, in sede di analisi della legge delega (l. n. 134 del 2021).
La domanda, pertanto, che è possibile porsi riguarda la possibilità o meno, pur nella consapevolezza di articolazioni, di specificazioni e di deroghe, se in modo meno indicato si possano individuare - dentro i 99 articoli del d. lgs. che comprende un numero significativo (forse oltre 200) di modifiche, di abrogazioni e di nuove previsioni - dei files rouge che prospettino delle possibili linee di tendenza del tema della giustizia penale, considerando che il tema stretto nella ricerca di equilibri tra autorità e individuo, legati alla presenza ed al materializzarsi evolutivo dei fenomeni criminali, che procurano allarme sociale, per un verso, e dall’altro, dal riconoscimento e dal consolidarsi di diritti soggettivi, frutto dell’elaborazione delle parti, in ottemperanza alla Costituzione ed alle Convenzioni internazionali – è in costante evoluzione.
Qualche prima risposta è possibile.
2. Il primo dato, forse quello più evidente, è costituito da una accentuata riduzione del rigore sanzionatorio. Il dato, evidenziato a più riprese tra gli obiettivi della riforma, anche nella prospettiva del decongestionamento carcerario, considerata la folta presenza della condizione dei condannati liberi in attesa di definire la loro improponibile posizione – è perseguito, pur nel mantenimento delle previsioni edittali, attraverso gli strumenti sostitutivi delle misure restrittive dalle pene detentive brevi nonché favorendo strumenti procedurali per definire anticipatamente l’esito processuale con comportamenti e scelte sanzionatorie che agevolano la definizione endoprocessuale delle limitate responsabilità con possibili effetti estintivi del reato.
Questi elementi integrano i tradizionali procedimenti speciali, ma sono incentivati dalle soglie sanzionatorie di accesso e da ridimensionamenti di vari effetti sanzionatori indiretti e collaterali. Si percepisce un retrogusto di “dolce” inquisizione, cioè, la prospettazione, più o meno soft, più o meno velata, dell’opportunità di aderire all’impianto accusatorio. A questo dato non sono del tutto estranei i vincoli prospettati per i successivi sviluppi processuali (come si dirà).
In questo stesso l’elemento sanzione e l’elemento processo si saldano nei limiti del possibile, allo stato, stante la difficoltà di rivedere meccanismi di depenalizzazione e di ridefinizione dei limiti edittali dei diversi reati. Peraltro sotto questa prospettiva va segnata sempre in questa logica una prima propensione all’ampliamento della perseguibilità a querela idonea a favorire con la remissione la definizione anticipata del processo. Il dato trova una collocazione nel più vasto contesto della giustizia riparativa, in ordine alla quale, tuttavia, appare necessaria una riflessione approfondita, non prospettabile al momento.
3. Un secondo elemento suscettibile di costituite una prospettiva di futuri sviluppi, se non ha già raggiunto una sua forte estensione non superabile, è l’accentuazione della cartolarizzazione e della celebrazione dei processi o anche di singole attività che richiedono la presenza dell’imputato o del difensore, con la procedura camerale, nonché con la partecipazione a distanza.
Nonostante resti consegnata – non sempre – alla volontarietà delle scelte, la smaterializzazione dei luoghi dove si celebra il rito – perché tale è – costituisce un elemento che il legislatore, sull’onda dell’emergenza Covid, rafforza in modo significativo, non senza pregiudizio sul principio di pubblicità.
Sul punto, va sottolineata l’ampia disponibilità conferita alle parti, ma soprattutto all’imputato ed al suo difensore, sulle scelte delle modalità di svolgimento del rito, così da non pregiudicare la partecipazione in presenza. Si conferma, anche sotto questo profilo, quanto detto in ordine all’accentuarsi della ritenuta disponibilità della materia processuale penale, con una non marginale indifferenza da parte degli organi giudicanti.
4. Un terzo elemento, seppur disseminato in una pluralità di profili è sicuramente quello teso ad assicurare maggior rispetto delle funzioni assegnate ai protagonisti e comprimari nello svolgimento delle loro funzioni. I riferimenti riguardano soprattutto i comportamenti del pubblico ministero rispetto ai termini di iscrizione soggettiva e oggettiva rispetto dei criteri di priorità nell’adempimento dopo l’esaurimento delle indagini preliminari relativamente alla correttezza nella formulazione delle imputazioni e del difensore caricato di oneri atti a determinare la non strumentalità nello svolgimento di alcune attività in relazione alla tutela dell’imputato (notificazioni e impugnazioni, in primis).
In questo stesso contesto, non può non segnalarsi ulteriormente quanto già detto in ordine alle scelte soprattutto dell’imputato e del suo difensore in ordine alle modalità di conduzione del rito.
5. Punto assolutamente centrale in questo quadro è l’attenzione del legislatore della riforma tesa a garantire la conoscenza da parte dell’imputato del processo a suo carico. Attraverso una disciplina molto articolata viene regolato il processo in assenza e vengono disciplinate lungo tutto l’arco del giudizio, fino alla possibile rescissione del giudicato, le implicazioni di una mancata sua presenza, non riconducibile a consapevoli volontari comportamenti. Sembrerebbe prospettarsi una disciplina – ancorché intrisa di forti profili valutativi del giudice, con il rischio di esiti fortemente differenziati nelle varie sedi – più rigorosa di quanto recentemente richiesto dalla giurisprudenza europea.
6. Una ulteriore costante delle scelte processuali è costituita da una non celata propensione alla compressione, sotto vari profili, della disciplina delle impugnazioni alle quali, in qualche modo, si imputano, seppur non dichiaratamente, non poche disfunzioni del sistema non ultima la durata non ragionevole del processo, anche dopo la interruzione del decorso della prescrizione con la sentenza di primo grado, nonostante l’intervenuta riforma di cui all’art. 2 della l. n. 134 del 2021, attraverso l’introduzione dell’art. 344 bis c.p.p. (improcedibilità dell’azione penale per la durata irragionevole dei giudizi dibattimentali di impugnazione).
Sono numerosi gli elementi introdotti nella prospettiva di rendere mirata e selettiva la funzione di controllo della fase di impugnazione.
Senza entrare nel merito dei vari strumenti che risultano orientati a questa finalità (legittimazione soggettiva e oggettiva; modalità di presentazione formale e sostanziale dell’atto; oneri dimostrativi della richiesta di controllo; modalità di celebrazione delle udienze, fra le altre situazioni riformate) resta la sensazione (confermata anche dalle premialità connesse al mancato esercizio del diritto di appellare la sentenza di abbreviato e del diritto di opporsi al decreto penale di condanna) che si voglia mirare ad una attività ricondotta nella selettività e ridimensionata negli sviluppi processuali dopo la sentenza di primo grado, anche attraverso lo strumento della inammissibilità di cui non è difficile ipotizzare ulteriori sviluppi normativi, senza escludere quelli interpretativi (surrettizia introduzione della manifesta infondatezza del motivo).
Recupera spazi di agibilità, invero, il ricorso per Cassazione accorpando alla tradizionale competenza anche alcuni nuovi poteri di cognizione (regolamento preventivo di competenza; eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della questione).
Seppur presente, ma al momento contenuta, seppur significativa della dimensione prospettiva di più ampio respiro, si presenta il tema della tutela degli interessi civili, ancorché in un contesto che sulla scia della giurisprudenza europea tende a valorizzare il ruolo della vittima. La tutela dei soli interessi civili in sede di gravami se la domanda non è inammissibile infatti viene consegnata al giudice civile.
7. Un ulteriore elemento, suscettibile sicuramente di ulteriori sviluppi è quello relativo al c.d. diritto all’oblio, alla deindicizzazione delle decisioni di archiviazione, di non luogo e di proscioglimento o assoluzione nonché di riduzione degli effetti negativi della decisione pur a seguito dell’accertamento delle responsabilità, ovvero in pendenza dell’attività investigativa. Il dato si salda con alcune recenti modifiche normative tese a tutelare meglio l’imputato innocente, ingiustamente sottoposto a processo (spese di difesa e diritto al silenzio in materia cautelare).
8. Infine, ancorché in posizione non risolutiva, ma pur sempre significativa, va segnalata la scelta del legislatore di recepire, con o senza variabili, gli orientamenti delle Sezioni Unite, nonché anche di ridefinirne i contenuti, così da ricondurre nella riserva di legge il c.d. diritto giurisprudenziale.
I riferimenti, senza pretesa di completezza, vanno alle sentenze delle Sezioni Unite.
Il dato, si per sé significativo, va collocato in una logica più ampia, in quanto conseguenza di un filo rosso che unisce varie modifiche della riforma che toccano gli interventi delle Sezioni unite, per un verso percependone i contenuti, per un altro, adeguandoli alla impostazione della riforma.
Sotto questo profilo vanno segnate, fra le altre, le Sezioni unite Battistella, sul controllo del giudice dell’udienza preliminare sulla motivazione; la sentenza Drassic sulla modifica dell’imputazione in Cassazione; la sentenza Ismael in tema di processo in assenza; la sentenza Patalano sulla rinnovazione in appello del giudizio di abbreviato secco; la sentenza Galtelli in materia di specificità dei motivi d’appello (che come si dirà risultano significativamente inaspriti).
Non mancano, naturalmente, anche norme maggiormente puntuali. Una di queste riguarda, forse la più significativa, stante le forti riserve che hanno contrassegnato l’intervento delle Sezioni unite Bajrami, il principio di immediatezza, cioè, il mutamento del colllegio giudicante. Si prevede il rinnovo della prova assunta in contraddittorio dal vecchio collegio, salva l’ipotesi in cui la dichiarazione sia stata videoregistrata, residuando al giudice il potere di disporre la rinnovazione in presenza di specifiche esigenze (non meglio definite).
9. Tutta le considerazioni svolte, seppur in modo diverso per intensità, nella propensione espressamente dichiarata e giustificata dalla necessità di rispettare gli impegni assunti con il PNRR, si collocano nella prospettiva di una semplificazione dei meccanismi processuali, sicuramente farraginosi e molto spesso frutto di tempi morti non agevolmente superabili così da efficienza del processo.
Non può negarsi il rischio in questa prospettiva di fughe in avanti trasformando l’efficienza in efficientismo a scapito delle garanzie, come evidenziato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 111 del 2022 ribadendo C. cost. n. 317 del 2009 che deve fungere da monito per molti sostenitori di facili argomenti impostati sul bilanciamento tra efficienza e garanzie; il diritto di difesa ed il principio di durata ragionevole non possono entrare in comparazione ai fini del bilanciamento, indipendentemente dalla completezza del sistema delle garanzie, in quanto ciò che rileva è esclusivamente la durata del “giusto” processo, quale delineato dall’art. 111 Cost. Un processo non “giusto”, perché carente sotto il profilo delle garanzie non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata. In realtà non si tratterebbe di un vero bilanciamento, ma di un sacrificio puro e semplice, sia del diritto al contraddittorio sancito dal suddetto art. 111 Cost., sia dal diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24 secondo comma Cost.: diritto garantito da norme costituzionali che entrambe risentono dell’effetto Cedu e della corrispondente giurisprudenza di Strasburgo.
Carenza sopravvenuta di interesse e interesse alla pronuncia di illegittimità “a fini risarcitori” (commento a Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 13 luglio 2022, n. 8)
di Andreina Scognamiglio
Sommario: 1. Il caso. - 2. Le interpretazioni dell’art. 34, comma 3. - 2.1. La soluzione accolta dalla Plenaria. - 3. Carenza sopravvenuta di interesse nella giurisprudenza anteriore al codice. - 4. Carenza sopravvenuta ex art. 34. comma 3 e principi ispiratori del c.p.a.. - 5. La lettera della norma condiziona tuttavia l’interprete. - 6. La sentenza della Plenaria non scioglie tutti i dubbi riguardanti l’interpretazione dell’art. 34, comma 3. - 7. Alcune (precarie) conclusioni.
1. Il caso
Con sentenza n. 8 del 13 luglio 2022 l’Adunanza Plenaria ha risolto il quesito riguardante l’interpretazione dell’art. 34 c.p.a. nella parte in cui, al comma 3, dispone che “quando nel corso del giudizio l’annullamento del provvedimento impugnato non è più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse a fini risarcitori”.
Nel caso, che ha dato luogo all’ordinanza di rinvio della Sezione IV, n. 945 del 9 febbraio scorso, il Tar del Veneto aveva dichiarato improcedibili per carenza sopravvenuta di interesse i ricorsi proposti da alcuni proprietari avverso le delibere comunali di adozione del Piano di assetto del territorio che aveva dichiarato la non edificabilità di aree di loro proprietà. Nelle more del giudizio era poi intervenuta una disciplina urbanistica, nuova e sostitutiva rispetto a quella esistente al momento della proposizione della domanda, circostanza, quest’ultima, che aveva reso certa e definitiva l’inutilità dell’eventuale annullamento delle delibere impugnate. Il Tar aveva poi ritenuto non essere sorretta da adeguato interesse neppure la domanda intesa a conseguire una pronuncia di mero accertamento dell’illegittimità delle delibere contestate ai fini di una eventuale futura azione risarcitoria: parte ricorrente si era difatti limitata a dichiarare l’intenzione di proporre con separato e successivo giudizio una domanda per il ristoro dei danni patiti e a versare in atti una perizia per la stima delle perdite asseritamente derivanti dall’imposizione del vincolo di inedificabilità, senza invece dar conto “neppure genericamente” della sussistenza o meno di tutti gli altri elementi costitutivi dell’illecito. Così statuendo il giudice di prime cure aveva dunque aderito all’interpretazione dell’art. 34, comma 3, c.p.a. per la quale, venuto meno nel corso del giudizio l’interesse all’annullamento, è necessaria l’allegazione da parte del ricorrente di tutti i presupposti della successiva domanda risarcitoria perché si concreti l’interesse alla sentenza di mero accertamento dell’illegittimità dell’atto [1].
2. Le divergenti interpretazioni dell’art. 34, comma 3
L’ordinanza di rimessione sintetizza le diverse letture dell’art. 34, comma 3 che sono state di volta in volta proposte da una giurisprudenza invero altalenante e che sono ricondotte a tre diversi indirizzi: a) l’obbligo del giudice di pronunciare sui motivi di ricorso (e quindi di accertate l’illegittimità del provvedimento impugnato) sussiste solo che la parte ricorrente dichiari di avere interesse a detta pronuncia a fini risarcitori[2]; b) per radicare l’interesse all’accertamento dell’illegittimità dell’atto è necessario che il ricorrente alleghi tutti i presupposti della successiva domanda risarcitoria[3]; c) al fine di dimostrare l’interesse è, quantomeno, necessario che il ricorrente “comprovi sulla base di elementi concreti il danno ingiustamente subito”[4] .
Le soluzioni sub b) e c) aprono la strada ad un ulteriore interrogativo sul quale pure la Plenaria è stata chiamata ad esprimersi, ovvero se il giudice debba non esaminare affatto la questione dell’ingiustizia del danno (ovvero i profili di illegittimità del provvedimento) laddove accerti la mancanza degli ulteriori elementi dell’illecito (nesso di causalità, spettanza del bene della vita, elemento soggettivo, danno patrimoniale o non patrimoniale) la cui assenza assumerebbe valore assorbente.
Accanto agli indirizzi sopra sintetizzati è rinvenibile invero nella giurisprudenza una tesi ulteriore e più radicale che l’ordinanza di rimessione pure riporta e per la quale esprime la sua preferenza.[5] Secondo la lettura prediletta dalla IV Sezione, una volta che nel giudizio di annullamento sopraggiunga o venga dichiarata la carenza di interesse della domanda di annullamento dell’atto impugnato, la pronuncia di accertamento della mera illegittimità dell’atto è possibile solo se la domanda risarcitoria sia effettivamente formulata nel medesimo giudizio (qualora il processo penda in primo grado), con la proposizione di motivi aggiunti (notificati dalla parte proprio in previsione della possibile declaratoria di improcedibilità del giudizio, in ragione dell’eccezione di una delle parti resistenti o del rilievo officioso della questione), o con un autonomo ricorso (soluzione, quest’ultima, inevitabile quando la carenza sopravvenuta si verifichi nel giudizio di appello).
A sostegno della tesi l’ordinanza deduce argomenti di ordine letterale e di ordine sistematico. In particolare, l’indicativo impiegato dall’art. 34, comma 3, c.p.a., (“il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”) postulerebbe la concreta sussistenza dell’interesse risarcitorio e dunque l’avvenuta proposizione della domanda di risarcimento danni. Inoltre se il legislatore avesse voluto davvero consentire la prosecuzione del giudizio solo in vista di una ‘futura’ domanda risarcitoria, non avrebbe adoperato non l’espressione “se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”, ma avrebbe impiegato una formulazione diversa. Ad esempio: “se è dichiarato un (futuro/eventuale) interesse a fini risarcitori” o anche “se sono allegati i presupposti di un (futuro/eventuale) interesse a fini risarcitori”.
Sul piano sistematico, l’interpretazione che postula l’avvenuta proposizione della domanda di risarcimento danni è ritenuta poi coerente con la nozione di “interesse” cui il comma 3 fa riferimento e che, in linea di principio, dovrebbe coincidere con l’interesse di cui all’art. 100 c.p.c., e dunque munito dei caratteri della concretezza ed attualità. Non secondario nella motivazione della ordinanza è poi l’argomento utilitaristico ovvero l’esigenza di impiegare con parsimonia la “scarsa” risorsa giurisdizionale che imporrebbe anch’essa una lettura restrittiva dell’art. 34, comma 3.. Uno sperpero di esercizio di giurisdizione si avrebbe infatti laddove si consentisse l’esercizio dell’azione a meri fini esplorativi costringendo il giudice ad esaminare questioni di legittimità complesse che si potrebbero palesare irrilevanti quando poi – nel giudizio a cognizione piena sulla domanda di risarcimento – emerga la mancanza degli ulteriori elementi costitutivi della fattispecie aquiliana.
In ogni caso, ad evitare un accertamento in astratto dell’illegittimità del provvedimento che potrebbe poi rivelarsi inutile o addirittura portare ad una duplicazione di giudizi, sul ricorrente dovrebbe poi quanto meno gravare l’onere di allegare alla domanda di accertamento tutti gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito ( e dunque il nesso di causalità, il giudizio prognostico circa la spettanza del bene della vita, la colpevolezza dall’amministrazione e il danno arrecato al destinatario del provvedimento) così che il giudice possa non pronunciare sui vizi dell’atto ove ritenga insussistente uno degli altri elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria.
2.1. La soluzione della Plenaria
La Plenaria prende le distanze dalle soluzioni suggerite dall’ordinanza di rimessione.
L’argomento legato cioè a supposte ragioni di economia processuale[6] è respinto in base alla considerazione che le medesime esigenze potrebbero essere addotte a sostegno della tesi opposta: indubbiamente la sentenza di accertamento mero ex art. 34, comma 3, c. p.a. potrebbe anche avere una funzione deflattiva poiché se l’accertamento dell’illegittimità richiesto dal ricorrente dovesse essere negativo l’azione risarcitoria sarebbe preclusa. Al tempo stesso, il giudizio di accertamento mero consentirebbe all’amministrazione autrice dell’atto impugnato, di conoscere anticipatamente se questo sia o meno illegittimo e se vi sono pertanto rischi di esborsi economici, e dunque di assumere le opportune iniziativa attraverso il proprio potere di autotutela.
Nella ricostruzione del significato della norma, la Plenaria riconosce invece un valore decisivo al comma quinti dell’art. 30 c.p.a.. La possibilità, consentita dalla norma, di domandare in successione la tutela demolitoria e quella risarcitoria e di attivare il secondo rimedio entro un congruo termine decorrente dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio di annullamento non può essere derogata in via interpretativa. Pertanto non può essere imposto al ricorrente di azionare la tutela risarcitoria immediatamente, pena l’estinzione del processo per carenza sopravvenuta di interesse.
Dimostrata la fallacia della tesi per la quale, una volta venuto meno l’interesse all’annullamento, la pronuncia di accertamento della mera illegittimità dell’atto è possibile solo se la domanda risarcitoria è effettivamente formulata, nel medesimo giudizio o in via autonoma, la Plenaria critica pure la tesi c.d. intermedia per la quale ai fini dell’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato è comunque necessario che il ricorrente alleghi i presupposti della futura eventuale azione risarcitoria. Anche questa soluzione è ritenuta sprovvista di fondamento normativo e tale, comunque, da determinare una sovrapposizione tra le due domande, di annullamento e risarcitoria, che il codice del processo ed in particolare l’art. 30 nel suo complesso considera autonome.
Per la Plenaria l’interpretazione corretta della disposizione controversa è quella che pone i minori ostacoli alla prosecuzione del processo in linea, del resto, con la tendenza propria della giurisprudenza anteriore al codice del processo a considerare restrittivamente le ipotesi di carenza sopravvenuta e a considerare procedibile il ricorso anche in assenza di utilità materiali ricavabili dalla sentenza. Venuto meno l’interesse all’annullamento, il processo deve comunque andare avanti fino alla sentenza di accertamento della legittimità/illegittimità del provvedimento impugnato solo che il ricorrente manifesti detto interesse, con semplice dichiarazione da rendersi nelle forme e nei termini previsti dall’art. 73 c.p.a..
3. La giurisprudenza anteriore al codice
Il rinvio operato dalla IV Sezione ha offerto (alla Plenaria) l’occasione di tornare [7] sul tema dell’interesse a ricorrere riguardato, in questo caso, sotto il particolare angolo di visuale della permanenza di detto interesse, una volta che l’annullamento dell’atto impugnato non sia più in grado di fornire al ricorrente una utilità concreta.
Che l’esito di una siffatta vicenda non sia scontatamente quello di una pronuncia in rito di improcedibilità per carenza sopravvenuta di interesse è acquisizione già raggiunta dalla giurisprudenza anteriore alla entrata in vigore del codice e pure in mancanza di una disposizione che espressamente prevedesse la proseguibilità del processo.
La massima costante di quella più risalente giurisprudenza limitava la possibilità di chiudere il processo con sentenza di rito dichiarativa della improcedibilità per sopravvenuta carenza d'interesse ai casi nei quali il mutamento della situazione di fatto o di diritto intervenuto nelle more del giudizio avesse fatto venir meno con assoluta certezza una qualsiasi utilità, anche se solo strumentale o morale[8], ad ottenere la pronuncia in merito sul ricorso [9].
E, in mancanza di una esplicita dichiarazione di carenza sopravvenuta da parte del ricorrente, altrettanto costante è, in quella giurisprudenza, l’avvertenza di dover il giudice valutare con la massima attenzione la persistenza dell'interesse alla decisione di merito e a considerare anche le possibili ulteriori iniziative in ipotesi attivabili da parte attrice per ottenere comunque un risultato positivo tramite il processo intentato. In particolare, a prescindere dall’effetto eliminatorio del provvedimento impugnato (la cui utilità è esclusa per le sopravvenienze), la giurisprudenza affermava di doversi tener conto di tutti i possibili effetti conformativi e ripristinatori della sentenza di accoglimento del ricorso e anche di quelli solo propedeutici a future azioni rivolte al risarcimento del danno[10].
In definitiva, l’assetto dell’istituto della carenza sopravvenuta proprio della fase antecedente al codice si incentra su due punti: la verifica del residuo interesse può essere condotta dal giudice anche d’ufficio [11]; la gamma degli interessi che giustificano la prosecuzione del processo è ampia perché la declaratoria di improcedibilità non deve trasformarsi in un sostanziale diniego di giustizia né può consentire al giudice di eludere l’obbligo di pronunciare nel merito sulla domanda[12].
Al fondo di questo indirizzo interpretativo vi è indubbiamente l’idea che il processo ed il ricorso di legittimità che sono sicuramente finalizzati alla tutela di situazioni soggettive del singolo assolvono però anche una funzione di diritto oggettivo, di tutela della legalità, e che l’utilità di tale funzione può prescindere dall’interesse all’annullamento.
4. L’interpretazione dell’art. 34. comma 3 orientata ai principi ispiratori del c.p.a.
La disposizione contenuta nell’art. 34, comma 3, c.p.a. recepisce dalla giurisprudenza precedente l’idea che la sopravvenuta “inutilità” della tutela di annullamento non comporta necessariamente una pronuncia di improcedibilità per carenza sopravvenuta di interesse. Al tempo stesso la norma restringe il campo dei possibili residui interessi ad una pronuncia di merito (che è però di mera dichiarazione della illegittimità dell’atto impugnato) al solo interesse “risarcitorio”. La norma assume dunque un significato più evidente se letta in negativo, alla luce della giurisprudenza precedente: non è sufficiente a proseguire il processo la prospettazione di un interesse solo morale o dell’interesse alla affermazione della soluzione conforme al diritto. Deve sussistere, invece, un “interesse risarcitorio”.
Ma, al di là delle più o meno significative novità ricavabili dalla formulazione letterale della norma, sulle quali mi soffermerò più tardi, innegabilmente mutato dal codice è il contesto nel quale questa si colloca e che inevitabilmente orienta l’interprete. Il contesto è segnato da una irrobustita visione soggettiva del processo amministrativo come processo su impulso di parte e finalizzato alla tutela di situazioni soggettive della parte ricorrente[13]. Alla stregua di tale concezione, risulta in primo luogo inaccettabile l’idea di una officiosa conversione della domanda di annullamento in domanda per la mera declaratoria dell’illegittimità dell’atto[14]. Un’ulteriore posizione di principio che condiziona l’interpretazione dell’art. 34, comma 3 è quella della conclamata autonomia della azione risarcitoria, che rinnega l’indefettibilità di una previa pronuncia di annullamento ai fini della proposizione della domanda risarcitoria[15] e invece ammette che l’indagine sulla illegittimità possa essere condotta autonomamente in sede di accertamento del danno (concretando l’illegittimità il requisito della ingiustizia)
Il mutato contesto incide in misura notevole sull’interpretazione dell’art. 34, comma 3 c.p.a. e sulla individuazione dei presupposti per la pronuncia di improcedibilità per carenza sopravvenuta di interesse.
La concezione soggettiva del processo amministrativo porta al superamento di un assunto essenziale nella precedente costruzione giurisprudenziale dell’istituto che contemplava la verifica anche d’ufficio della attualità di un qualsivoglia interesse alla decisione. La verifica dell’interesse e dunque la conversione officiosa dell’azione di annullamento in azione per la mera declaratoria dell’illegittimità dell’atto non è espressamente consentita dall’art. 34, comma 3 ed è oggi dai più ritenuta inaccettabile in un processo retto sul principio della domanda[16].
Il riconoscimento della autonomia della azione risarcitoria e della possibilità di esperire questa forma di tutela dinanzi al giudice amministrativo porta poi a ritenere che, una volta venuta meno, per il mutato contesto di fatto o di diritto, l’utilità della tutela demolitoria, a giustificare la prosecuzione del giudizio fino alla sentenza di merito non è sufficiente un interesse qualsiasi, anche solo morale, alla decisione[17]. Si afferma così nella giurisprudenza la massima secondo la quale anche l’interesse morale in tanto rileva, ai fini della prosecuzione del giudizio (sia pure mirato alla mera declaratoria di illegittimità) in quanto questo venga dedotto per dimostrare la sussistenza dei presupposti per la proposizione di una, anche successiva, azione risarcitoria per danno non patrimoniale nella forma del danno morale ovvero di un danno anche di natura diversa correlato alla tipologia di diritto della persona che viene in rilievo[18].
In definitiva, i principi ispiratori del codice del processo amministrativo orientano l’interpretazione dell’art. 34, comma 3 nel senso di rendere pressoché inevitabili due prime acquisizioni: la conversione della tutela di annullamento in tutela di accertamento dell’illegittimità richiede la domanda di parte; il solo interesse che è deducibile per evitare la chiusura della causa in rito, con sentenza di improcedibilità per dichiari la sopravvenuta carenza di interesse, ed è quello di natura risarcitoria.
5. La lettera della norma condiziona tuttavia l’interprete
Se i principi giocano la loro parte nella interpretazione dell’art. 34, comma 3, l’interprete (e anche il giudice[19]) è però inevitabilmente vincolato dal tenore testuale delle disposizioni del codice che non può essere stravolto[20].
Dalla lettera delle disposizioni del codice risultano allora alcuni punti fermi: laddove venga meno l’interesse all’annullamento (che per ragioni di fatto si riveli non più satisfattivo per il ricorrente) e però sussiste un interesse di natura risarcitoria, il processo non è necessariamente destinato a chiudersi con sentenza di rito. Il ricorrente può chiedere che il giudice accerti l’illegittimità/legittimità del provvedimento asseritamente lesivo e fonte di danno.
Alla conclusioni sopra raggiunte circa la portata dell’art. 34, comma 3 (necessità dell’istanza di parte sorretta da un interesse risarcitorio) un ulteriore dato, per così dire di segno negativo è ancora desumibile dal testo della norma: la prosecuzione del processo non è subordinata alla avvenuta proposizione della domanda di risarcimento danni (nello stesso o in separato giudizio) per la semplice ragione che detta condizione non è prevista dalla norma. Inoltre, laddove – su impulso di parte - il processo vada avanti, è previsto che il medesimo si concluda con una sentenza dichiarativa dell’illegittimità e non già di condanna al risarcimento dei danni. Ciò significa che la domanda di risarcimento non è stata proposta. Altrimenti, per il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il giudice sarebbe tenuto ad emettere sentenza di condanna al risarcimento e non già sentenza di accertamento dell’illegittimità.
Ancora la lettera dell’art. 34 comma 3, impone di escludere che un interesse qualsiasi sia sufficiente a sorreggere l’istanza alla sentenza di merito.
A detta opzione ermeneutica si oppone non solo il requisito della attualità e concretezza dell’interesse al ricorso[21] ma pure il disposto dell’art. 34, comma 3, che inequivocabilmente richiede che sia dedotto un “interesse risarcitorio” perché il processo prosegua, e dell’art. 35, comma 1, lett. c), che contempla la chiusura del processo con pronuncia di improcedibilità per carenza sopravvenuta di interesse quale possibile esito del ricorso. Quest’ultima norma risulterebbe svuotata di contenuto ove si ammettesse che il processo debba invece proseguire fino alla sentenza di merito a fronte di una mera dichiarazione della parte di voler intentare l’azione risarcitoria.
6. La sentenza della Plenaria non scioglie tutti i dubbi riguardanti l’interpretazione dell’art. 34, comma 3
La lettura aderente ai principi e al dato testuale dell’art. 34, comma 3, consente dunque di circoscrivere le possibili interpretazioni della disposizione controversa lasciando irrisolto un solo aspetto. Il punto che appare realmente incerto concerne l’espressione “interesse (ad una pronuncia dichiarativa dell’illegittimità) a fini risarcitori”. In particolare viene da chiedersi quali siano gli elementi che il ricorrente è tenuto a dedurre al fine di dimostrare detto interesse.
Sul significato e sul contenuto dello “interesse a fini risarcitori” la Plenaria invece non si sofferma in base all’assunto che a determinare l’obbligo del giudice di pronunciare nel merito sulla domanda è sufficiente la mera dichiarazione del ricorrente di avervi interesse.
Si tratta di una impostazione che però non è del tutto convincente. Rispetto ad essa restano a mio avviso valide le perplessità espresse dalla ordinanza di rimessione circa la coerenza dell’interpretazione che ritiene sufficiente la mera dichiarazione di interesse alla pronuncia con la costante lettura dell’art. 100 c.p.c. la quale postula l’attualità e la concretezza dell’interesse al ricorso.
Non è allora da escludere che, al di là della mera dichiarazione di intenzione di parte ricorrente, la questione se in concreto sussiste o meno l’interesse a fini risarcitori dovrà essere affrontata nel processo al fine di decidere se questo debba (o meno) proseguire fino alla pronuncia di accertamento della legittimità/illegittimità dell’atto impugnato. Emblematica una sentenza del Consiglio di Giustizia amministrativa Regione Sicilia[22] di pochi giorni successiva alla pronuncia della Plenaria. Al fine di decidere della prosecuzione, o meno, del giudizio sino alla pronuncia di accertamento dell’illegittimità del provvedimento al fine della tutela risarcitoria per equivalente, i giudici siciliani sono andati oltre la dichiarazione resa dal ricorrente e si sono spinti ad accertare la concretezza dell’interesse risarcitorio verificando accuratamente la consistenza del danno lamentato e la riconducibilità del medesimo al provvedimento, asseritamente illegittimo.
Sul punto, vale allora la pena di ricordare le soluzioni offerte dalla giurisprudenza che sono raggruppabili in tre indirizzi distinti[23]: a) l’interesse alla pronuncia dichiarativa dell’illegittimità a fini risarcitori si concreta solo che il ricorrente dimostri che il pregiudizio subito presenta una consistenza economica così da giustificare la futura proposizione di una domanda risarcitoria; b) l’interesse ad una decisione nel merito, in luogo delle decisione di improcedibilità, sussiste se il ricorrente allega tutti gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito, nesso di causalità, spettanza del bene della vita, elemento soggettivo, oltre al danno patrimoniale o non patrimoniale; c) l’interesse risarcitorio sussiste se il giudice accerta positivamente l’esistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito (con la conseguenza –si precisa nell’ordinanza - che giudice potrebbe non esaminare affatto i profili di illegittimità del provvedimento in caso di accertata mancanza degli ulteriori elementi dell’illecito. La mancanza di ognuno di questi assumerebbe, infatti, valore assorbente).
Evidentemente è da scartare la posizione più estrema, sopra sintetizzata sub c), la quale incorre in una evidente confusione tra i profili relativi alla ammissibilità domanda che va valutata in astratto, sia pure alla luce degli elementi di fatto addotti dalla parte ricorrente, e quelli inerenti alla sua fondatezza/infondatezza nel merito[24].
Restano allora in campo le tesi sopra sintetizzate sub a) e sub b) che prospettano con diversa ampiezza l’onere di allegazione a carico della parte ricorrente: se, per dimostrare l’interesse risarcitorio, il ricorrente possa limitarsi ad affermare il pregiudizio di cui invoca il ristoro e la perdita che lamenta di aver subito o se debba invece allegare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito.
Un punto fermo è segnato dai principi sopra evocati e dai caratteri propri del processo amministrativo: una volta venuta meno l’utilità derivabile dall’annullamento, non è comunque sufficiente a sorreggere la prosecuzione del giudizio l’interesse alla legittimità, alla affermazione, cioè, di quella che è la soluzione conforme a diritto, così come non è sufficiente un interesse solo morale che potrebbe al limite coincidere con la mera soddisfazione di un sentimento di giustizia.
Per definire, poi, in positivo quando può parlarsi di “interesse risarcitorio” e la consistenza dell’onere di allegazione a carico del ricorrente qualche indicazione può essere tratta dalla giurisprudenza del giudice ordinario in tema di proponibilità della domanda di risarcimento. Si potrebbe, invero, obiettare che l’art. 34, comma 3 riferisce l’interesse risarcitorio alla proponibilità di una domanda di accertamento dell’illegittimità e non di risarcimento. Ma, quel che è certo è che l’onere di allegazione a carico di chi chiede l’accertamento della illegittimità, a fini risarcitori, non può essere più esteso di quello che incombe su chi propone una domanda di risarcimento danni.
Per la giurisprudenza del giudice ordinario, l’onere di allegazione a carico di chi propone una azione di risarcimento danni consiste nella indicazione analitica e rigorosa dei fatti materiali che egli assume essere stati fonte di danno e nella indicazione dei danni subiti. Così ad esempio è ritenuta insufficiente a radicare il potere/dovere del giudice di pronunciare sulla domanda l’abusata formula di stile consistente nella richiesta di risarcimento dei danni “subiti e subendi”. Questa è considerata come non apposta poiché non mette né il giudice, né il convenuto, in condizione di sapere di quale concreto pregiudizio si chieda il ristoro [25]. E’ vero pure che, nella giurisprudenza del giudice ordinario, la mancata indicazione del pregiudizio di cui in concreto si chiede il ristoro non è censurata tanto alla stregua dell’art. 100 c.p.c., e dunque non espone alla conseguenza di rendere la domanda inammissibile per carenza di interesse, quanto piuttosto alla stregua dell’art. 163 c.p.c... Restano comunque, a mio avviso, utilizzabili le indicazioni circa l’ampiezza dell’onere di allegazione a carico del ricorrente.
A conclusioni non dissimili conducono pure il quadro concettuale in tema di interesse a ricorrere elaborato da una copiosa giurisprudenza del giudice amministrativo e la casistica che da quella giurisprudenza emerge. E’ vero che l’elaborazione concettuale e casistica sono essenzialmente riferite all’azione di annullamento e l’utilità che la giurisprudenza predica come necessaria a radicare l’interesse a ricorrere è definita con riferimento all’esito della (eventuale) eliminazione dell’atto impugnato. E’ però significativo che nel caso della azione di annullamento, l’interesse a ricorrere si concreta non solo ove sia prospettata “una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente”, ma richiede pure che nei fatti risulti una “effettiva utilità dell’eventuale annullamento dell’atto impugnato”[26].
Allo stesso modo si potrebbe sostenere che l’effettiva utilità della pronuncia dichiarativa dell’illegittimità a fini risarcitori sussiste solo ove sia quanto meno dimostrato un danno riconducibile al provvedimento del quale si predica l’illegittimità.
7. Alcune (precarie) conclusioni
Da quanto sopra osservato è possibile trarre alcune conclusioni, che definirei, però, precarieperché non del tutto in linea con la massima della Plenaria.
L’interpretazione dell’art. 34, comma 3 c.p.a. coerente con i principi e con la lettera delle disposizioni del codice del processo sembra essere quella per la quale, divenuta “inutile” la tutela demolitoria a causa di sopravvenienze di fatto o di diritto, il giudice è tenuto tuttavia ad emettere sentenza di merito di accertamento della illegittimità del provvedimento su domanda del ricorrente[27] solo che questi deduca di avere subito un pregiudizio per effetto del provvedimento impugnato e che questo è astrattamente riparabile per equivalente monetario[28].
Un aspetto merita forse di essere ancora chiarito. Ci si potrebbe cioè chiedere se la domanda di risarcimento dei danni possa essere, in alternativa, proposta in via autonoma, in un successivo giudizio. La soluzione positiva è a mio avviso preferibile. Infatti la sentenza dichiarativa della carenza sopravvenuta resta una sentenza in rito e non può essere attribuito ad essa alcun contenuto di accertamento nel merito della fondatezza/infondatezza della pretesa. Con la conseguenza che l’autonoma domanda di risarcimento danni risulterà preclusa solo ove il giudice accerti la legittimità del provvedimento in origine impugnato, così escludendo l’ingiustizia del danno lamentato. Se, invece, il processo si chiude con la declaratoria di carenza sopravvenuta di interesse, la domanda di risarcimento danni potrà essere proposta successivamente nel rispetto del termine di centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di mera improcedibilità del ricorso.
[1] Il T.a.r. Veneto, 27 agosto 2020, n.768, punto 10) della motivazione precisa che l’allegazione da parte del ricorrente di tutti i presupposti della domanda di risarcimento danni è necessaria per di consentire alle parti di contraddire sul punto e al giudice di formarsi in proposito un adeguato convincimento, non risultando a tal fine sufficiente la mera dichiarazione dell’intenzione di proporre una domanda per il ristoro dei danni subiti.
[2] Cons. Stato, Sez. V, 29 gennaio 2020, n. 727; Cons. Stato, Sez. V, 2 luglio 2020, n. 4253; Sez. V, 17 aprile 2020, n. 2447; Sez. VI, 4 maggio 2018, n. 2651; Sez. IV, 5 dicembre 2016, n. 5102; Sez. IV, 16 giugno 2015, n. 2979; Sez. V, 24 luglio 2014, n. 3939; Sez. IV, 13 marzo 2014, n. 1231; Sez. V, 14 dicembre 2011, n. 6539.
[3] Cons. Stato, Sez. VI, 11 ottobre 2021, n. 6824; Sez. III, 4 febbraio 2021, n. 1059; Sez. II, 5 ottobre 2020, n. 5866; Sez. III, 22 luglio 2020, n. 4681; Sez. III, 29 gennaio 2020, n. 736; Sez. IV, 17 gennaio 2020, n. 418; Sez. III, 8 gennaio 2018, n. 5771; Sez. V, 28 febbraio 2018, n. 1214; sez. IV, 18 agosto 2017, n. 4033; Sez. V, 15 marzo 2016, n. 1023; Sez. IV, 28 dicembre 2012, n. 6703)
[4] Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2018, n. 1214; e, forse, anche Cons. Stato, Sez. III, 29 gennaio 2020, n. 736
[5] In questo senso, Cons. Stato, sez. IV, 18 maggio 2012, n. 2916 e 4 febbraio 2013, n. 646; Cons. Stato, sez. VI, 18 luglio 2014, n. 3848; Cons. Stato, sez. V, 24 luglio 2014, n. 3939; Cons. Stato, sez. IV, 7 novembre 2012, n. 5674, nonché Tar Milano, sez. III, 4 febbraio 2011, n. 353; sez. II, 4 novembre 2011, n. 2656; Tar Lazio, sez. III ter, 28 ottobre 2014, n. 10797; Tar Napoli, sez. VI, 23 ottobre 2014, n. 5460 e ancora Tar Milano, sez. II, 14 febbraio 2017, n. 621.
[6] Il rilievo che fa leva su esigenze di economia processuale per escludere la percorribilità di una pronuncia di accertamento dell’illegittimità che è l’argomento abbondantemente speso nell’ordinanza di rimessione non è del resto nuovo. In giurisprudenza, in particolare, per T.a.r. Lombardia, Brescia, 12 marzo 2013, n. 252 si rivela contrario al principio di economia processuale - e per logica conseguenza potrebbe confliggere anche col principio di ragionevole durata dei processi - un accertamento dell'illegittimità dell'atto compiuto in totale assenza della domanda risarcitoria. Aderisce, in dottrina, a questa impostazione g. invernici, I problemi applicativi dell’art. 34, comma 3 del codice del processo amministrativo inDir. Proc. Amm, 2013, 1320. Contra n.paolantonio, Commento al l’art. 34, in g.morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, 537 ss. il quale osserva, e il rilievo non è privo di buon senso, che, una volta istruita la domanda di annullamento ed emersa l’illegittimità degli atti gravati, costituirebbe inutile spreco di risorse giudiziarie rinviare ad un futuro autonomo giudizio risarcitorio anche la cognizione di questi aspetti. Alla critica aderisce pure m. silvestri, Sull’abolizione pretoria dell’art. 34, comma 3 c.p.a.cit, 1498.
[7] A breve distanza dai due noti precedenti, cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 9 dicembre 2021, n. 22; Cons. Stato, Ad. Plen., 28 gennaio 2022, n.3.
[8] La massima è assolutamente costante, vedi nota successiva. Ma i precedenti in cui in concreto si è ravvisato un interesse solo “morale” alla decisione sono piuttosto rari. Un caso curioso è quello deciso dal T.a.r. Campania, Napoli, sez. I, 30 ottobre 1990, n. 552 in cui i giudici hanno ravvisato un interesse “morale” alla decisione del ricorso elettorale proposto da un candidato al consiglio regionale, primo dei non eletti, ancorché il medesimo fosse poi stato nominato consigliere regionale a causa del decesso di uno degli eletti della lista. A ben vedere poi, accanto all’interesse morale del candidato ad essere proclamato eletto in forza della manifestazione diretta della volontà popolare e non per il meccanismo indiretto del subentro, i giudici partenopei riconoscono anche qui peso, al fine di escludere la carenza sopravvenuta di interesse, al più concreto interesse materiale a godere dei benefici connessi alla carica (indennità, trattamento previdenziale ecc.) con effetto retroattivo dal momento dell'insediamento del nuovo consiglio regionale e non dal momento, necessariamente successivo, del suo subentro al consigliere deceduto.
[9] Cons. Stato sez. IV, 09/09/2009, n.5402; Cons. Stato sez. IV, 12/03/2009, n.1431; C.G.A. Sicilia, sez. giurisd., 21 settembre 2006, n. 530; C.d.S., Sez. IV, 22 novembre 2004, n. 7620.
[10] Cons. Stato,, sez. V, 28 giugno 2004, n. 4756, nell’escludere che la revoca ex nunc dell’ordinanza sindacale di sospensione della licenza per l’esercizio dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande determini l’improcedibilità del ricorso per ragioni di rito residuando invece l’interesse alla declaratoria di illegittimità fin dall’origine dell’atto impugnato a fini risarcitori, ribadisce “pertanto il giudice deve di volta in volta verificare le concrete conseguenze del nuovo atto sul rapporto preesistente, al fine di stabilire se, nonostante il suo sopravvenire, l'eventuale sentenza di accoglimento del gravame, a prescindere dal suo contenuto eliminatorio del provvedimento impugnato, possa - o meno - comportare ulteriori effetti conformativi, ripristinatori o anche solo propedeutici a future azioni rivolte al risarcimento del danno. Merita, pertanto, di essere precisato che la concreta individuazione dei casi di sopravvenuta carenza d'interesse al ricorso giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo precludendo la disamina del merito della controversia, dev'essere condotta secondo criteri assai rigorosi”.
[11] La tesi favorevole alla conversione anche d’ufficio della domanda di annullamento osserva invero che l’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato è comunque contenuto nel petitum di annullamento come un antecedente necessario: “siccome il più contiene il meno, il giudice limita d’ufficio la sua pronuncia ad un contenuto di accertamento dell’illegittimità, in relazione alla pretesa risarcitoria, giacché manca l’interesse all’annullamento ma sussiste l’interesse ai fini risarcitori”, così tra le tante Cons. Stato, sez. V, 12 maggio 2011, n. 2817.
[12] Anche su questo punto la giurisprudenza è assolutamente costante: C.d.S., sez. IV, 21 agosto 2003, n. 4699; T.A.R. Lombardia Milano, sez. II, 26 aprile 2006, n. 1066.
[13] Per G.D. Comporti, Una battuta d’arresto per gli annullamenti a geometria variabile, in Giur.it. 2015, 1695, il potere di accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato ai soli fini risarcitori prevista dall’art. 34, 3 comma, c.p.a.va necessariamente coniugato con il principio della domanda e con il corollario del principio dispositivo in ordine alla prova dei fatti posti a fondamento della stessa
[14] La tesi della convertibilità d’ufficio non resiste ad una lettura orientata al principio della domanda il quale implica altresì quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato così m. silvestri, Sull’abolizione pretoria dell’art. 34, comma 3 c.p.a.. Ovvero dell’irrisarcibilità del danno per lesione del diritto all’istruzione, in Dir. Proc. Amm., 2017, 1505.
[15] Che la giurisprudenza più risalente muova dal presupposto della necessità di una previa pronuncia sull’illegittimità dell’atto ai fini della successiva proposizione della domanda di risarcimento risulta da C.d.S., sez. V 27.12. 2010 n. 9395. In una fattispecie nella quale era stata impugnata la delibera di organizzazione di reparto ospedaliero che aveva di fatto asseritamente provocato il demansionamento del ricorrente ed era poi nelle more del giudizio sopravvenuto il collocamento a riposo del ricorrente, il Consiglio di Stato ritiene che “l’appellante conservi un interesse attuale all’annullamento del provvedimento impugnato (pur se di natura organizzatoria), anche in seguito al suo collocamento in pensione, perché il mancato apprezzamento della legittimità o meno dello stesso (essendo di ostacolo all’apprezzamento della ingiustizia del danno o della illiceità della condotta tenuta dall'Amministrazione) frustrerebbe comunque il suo interesse strumentale a dimostrare il danno al suo prestigio professionale subito nel corso della sua attività fintantoché l’atto impugnato ha spiegato i suoi effetti, al fine di ottenerne, anche in separata sede, il risarcimento”.
[16] La tesi, semplicemente etichettata come “risalente” nella ordinanza 945, non è in effetti neppure esaminata.
[17] Per C.d.S., sez. IV, 30 marzo 2021, n. 3669, il rischio insito nella accettazione dell’idea della sufficienza di un mero interesse morale alla decisione è quello di trasformare quella amministrativa in una sorta di giurisdizione di diritto oggettivo e sul punto rinvia a C.d.S., Ad. plen., n. 1 del 28 gennaio 2015 e Sez. V, 27 marzo 2015, n. 1603.
[18] C.d.S. sez. VI, 11 ottobre 2021, n. 6824 e T.a.r. Campania, Salerno, 28 febbraio 2022, n. 582.
[19] Vi è tutto un recente filone giurisprudenziale, maturato con riferimento alla questione della appellabilità o meno del decreto presidenziale monocratico, per il quale è lo stesso art. 101, secondo comma, della Costituzione, ai sensi del quale “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”, a sancire la prevalenza della interpretazione testuale al cospetto d’una preclara formulazione della normativa applicabile, in tal senso Cons. Stato, sez. IV, decreto 29 aprile 2022, n. 1962 in questa Rivistacon nota di M. Sforna, Tutela cautelare monocratica. Il Consiglio di Stato torna ad affermare l’inappellabilità del decreto presidenziale ex art. 56 c.p.a. e ancora Cons. Stato, sez. IV decreto 4 luglio 2022, n. 3114. Ammonisce F. Francario, Se questa è nomofilachia. Il diritto amministrativo 2.0 secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in questa Rivista 28 febbraio 2022 che pure nell’esercizio della nomofilachia il giudice resta sub lege e dunque necessariamente ancorato al dato testuale della norma..
[20] Che l’interprete non possa prescindere dal dato letterale è più volte sottolineato dalla stessa Plenaria n. 8/22.
[21] Sul quale correttamente richiama l’attenzione l’ordinanza di rimessione alla Plenaria. Ma in tal senso, vedi già in dottrina m. silvestri, Sull’abolizione pretoria dell’art. 34, comma 3 c.p.a., cit., 1509 il quale osserva che la tesi per la quale sarebbe sufficiente a proseguire il giudizio per l’accertamento dell’illegittimità la mera intenzione della parte di voler intentare l’azione risarcitoria elude, in qualche modo, elude la stessa esigenza da sempre predicata di un interesse concreto ed attuale al ricorso.
[22] C.g.a., sez. giur., 21 luglio 2022, n. 851.
[23] E correttamente individuati dalla ordinanza di rimessione.
[24] La verifica dell’interesse a ricorrere prescinde del tutto dall’accertamento effettivo della sussistenza della situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio. Su questi aspetti, M. Clarich, Manuale di giustizia amministrativa, Bologna, 2021, 170.
[25] Così Cass. civ. 30 giugno 2015, n. 13328 in Resp. Civ. e previdenza, 2015, 1990. La sentenza enuncia il principio con riferimento ad un caso di responsabilità medica nel quale la ricorrente pretendeva di vedersi risarciti i costi di un intervento chirurgico resosi necessario a seguito delle cure sbagliate assumendo che detta pretesa fosse implicita nella richiesta di risarcimento dei danni “subiti e subendi”. Per la Suprema Corte una domanda così formulata deve ritenersi tamquam non esset per la sua genericità e quindi il giudice investito della decisione non solo non può, ma anzi non deve esprimersi in merito. In termini, vedi ancora Cass. civ., 18 gennaio 2012, n. 691, ove la massima secondo la quale “le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta in tesi colpevole della controparte (...), ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo l'attore mettere il convenuto in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, e ciò a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall'assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo”; Cass. civ., 18 gennaio 2012, n. 69; Cass. civ., 13 maggio 2011, n. 10527; Cass. Sez. Un. civ., 17 giugno 2004, n. 11353; Trib. Roma, sez. VI, 31 gennaio 2018, n. 2415; T.a.r., Lazio, sez. IIIquater, 5 giugno 2019, n. 7217.
[26] Cons. Stato, Ad. plen. n. 4/2018, punto 16.8; ribadito da Cons. Stato, Ad. plen., n. 22/2021, punto 5
[27] Probabilmente l’istanza andrebbe notificata poiché comunque determina una modifica del thema decidendum, se non si condivide la tesi per la quale la domanda di accertamento dell’illegittimità è “compresa” per continenza in quella di annullamento. Posizione questa condivisa dalla giurisprudenza “risalente” e che – come già detto – giustificherebbe la conclusione della convertibilità d’ufficio.
[28] Ristretto l’onere di allegazione a carico del ricorrente alla affermazione di aver subito un danno risarcibile per equivalente monetario e alla descrizione della perdita subita, si osserverà forse che il filtro dell’”interesse risarcitorio” non opera una selezione adeguata con il rischio che il processo sia portato avanti fino alla sentenza di accertamento della legittimità/illegittimità a meri fini esplorativi. Ma all’argomento che fa leva su esigenze di economia processuale non può accordarsi un peso decisivo come correttamente rilevato dalla Plenaria in commento.
Il Consiglio di Stato nega la legittimazione del promissario acquirente all’impugnazione dei titoli edilizi (nota a Cons. St., sez. VI, 14 marzo 2022, n. 1768)
di Marco Magri
Sommario: 1. Una vicenda particolare: il promissario acquirente come “terzo”. – 2. Il predicato territoriale della vicinitas. – 3. La soggettivazione non dominicale dell’interesse al vaglio della teoria della “norma di protezione” (o della “qualificazione normativa”). – 4. Conseguenze: il capovolgimento dell’esito di primo grado e la “delegittimazione” del promissario acquirente. – 5. Conclusioni.
1. Una vicenda particolare: il promissario acquirente come “terzo”.
Questa sentenza va probabilmente esaminata oltre i confini dell’orientamento giurisprudenziale riguardante la posizione del promissario acquirente rispetto all’esercizio delle funzioni amministrative in materia edilizia[1].
Bisogna infatti attribuire il giusto rilievo alle particolarità della vicenda che aveva dato origine al contenzioso: il promissario acquirente, venuto a conoscenza di abusi edilizi ulteriori a quelli dichiarati dal promittente venditore, si era rifiutato di stipulare il contratto definitivo e aveva incardinato un giudizio civile nel quale chiedeva l’accertamento della risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del venditore, oltre al rimborso del doppio della caparra confirmatoria.
Con il successivo ricorso al TAR il promissario acquirente aveva domandato l’annullamento del permesso in sanatoria che disponeva il condono dell’immobile, ritenendo che l’accertamento dell’illegittimità dei titoli edilizi impugnati gli avrebbe consentito di «dimostrare, nel corso del giudizio civile, che l’immobile oggetto del contratto preliminare di compravendita era interamente abusivo». Ciò avrebbe confermato «l’inadempienza degli obblighi di venditore (…) e il riconoscimento a suo favore del diritto ad ottenere il doppio della caparra versata».
Si tratta quindi di un caso in cui il promissario acquirente non vantava una relazione qualificata con l’immobile; anzi, sul piano giuridico era a tutti gli effetti un “terzo”, rispetto al rapporto giuridico tra il promittente venditore e l’amministrazione che gli aveva rilasciato il permesso di costruire in sanatoria[2].
Inevitabile, inoltre, riconoscere nell’interesse vantato dell’acquirente la più classica ipotesi di interesse “strumentale”, dato che il “bene della vita” a cui tendeva l’impugnazione del permesso non consisteva nel recupero delle facoltà di godimento del bene, ma nella chance di vedere accolta dal giudice ordinario una pretesa di natura risarcitoria[3] consequenziale alla risoluzione del contratto.
La degradazione di questo interesse a mero interesse di fatto, da parte del Consiglio di Stato – che in riforma della pronuncia di primo grado ha dichiarato il difetto di legittimazione ad agire – sollecita interrogativi processuali più ampi: suggerisce di utilizzare questo caso per riflettere direttamente sul criterio utilizzato dal giudice per accertare la titolarità dell’interesse legittimo del “terzo” (e, ancor più complessivamente, dell’interesse legittimo come figura giuridica soggettiva).
2. Il predicato territoriale della vicinitas.
Il permesso di costruire rappresenta da sempre un settore privilegiato per l’emersione di problematiche attorno all’interesse legittimo, specie per la rilevanza della specifica e ormai tradizionale discussione sui limiti dell’interesse del “terzo” a che il Comune eserciti correttamente i propri poteri (autorizzativi, di vigilanza e controllo) nei confronti del titolare dell’attività edificatoria[4].
La prassi giurisprudenziale, ribadita anche di recente[5], è quella di valutare la titolarità della situazione di interesse legittimo del terzo (dunque la sua legittimazione alla proposizione del ricorso) in termini di stabile collegamento tra la sua proprietà e l’area oggetto dell’intervento edilizio. Alla base di questo criterio, cd. vicinitas territoriale, regge ancora la vecchia nozione di «insediamento abitativo», «stabile ubicazione» o «radicazione in loco» dei propri «interessi di vita», familiari, economici o relativi ad altri «qualificati e consolidati rapporti sociali»[6].
La legittimazione del terzo a impugnare il permesso di costruire dipende dunque dal riscontro caso per caso di questi requisiti e, in fin dei conti, da un apprezzamento largamente discrezionale del giudice. Dovrebbe tuttavia reputarsi fuori discussione, almeno, che lo stabile collegamento tra la proprietà del terzo e l’area oggetto dell’intervento edilizio non equivalga necessariamente alla situazione legittimante l’azione civile a difesa della proprietà contro la turbativa provocata dall’attività edificatoria, ma possa essere oggetto di un’indagine dai parametri più ampi, elastici ed “inclusivi”.
Sempre si ricorda infatti che il teorema della vicinitas risale alla celebre sentenza del Consiglio di Stato “correttiva” del significato fatto palese dall’art. 10 comma 9 della legge-ponte[7], che consentiva a chiunque l’impugnazione delle licenze[8]. Il legislatore, «per colpire il fenomeno dell’abusivismo (…) chiamava propriamente a collaborare e vigilare i membri della comunità»[9]. Ma il Consiglio di Stato non vi riconobbe i caratteri dell’azione popolare e ne trasse piuttosto l’idea di una legittimazione allargata, per la quale «è sufficiente che ci sia un collegamento giuridico del soggetto con una non effimera situazione sulla quale incidono gli effetti dell’atto»[10].
Rielaborato nella formula della vicinitas, il criterio ha ricevuto conferme sempre più numerose e può ritenersi oggi un meccanismo consolidato di individuazione dell’interesse legittimo del terzo. La sua funzione regolativa dell’accesso al merito del giudizio amministrativo fa sì che le norme di edilizia risultino più stabilmente amalgamate agli interessi pubblici e, almeno in parte, sollevate dal compito suppletivo che sembrava loro affidato dalle disposizioni del Codice civile del 1942.
Comunque sia, in termini di allargamento dell’area degli interessi tutelabili in sede giurisdizionale, i passi in avanti sono stati enormi rispetto alla situazione di un tempo: quando l’impugnazione al Consiglio di Stato della licenza era un semplice predicato della “doppia tutela” del proprietario contro la violazione di regolamenti edilizi integrativi del codice civile[11]. D’altra parte le Sezioni Unite sottolineavano che il potere di reprimere degli abusi era ampiamente discrezionale, arrivando su queste basi a negare che il terzo – fermo il suo diritto di chiedere in sede civile il risarcimento del danno e la riduzione in pristino (art. 872 c.c.) – potesse vantare interessi legittimi di tipo “pretensivo” davanti al Consiglio di Stato, ad esempio l’interesse a che il Sindaco emanasse un’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva (art. 32 legge 17 agosto 1942, n. 1150). La riprova ne è, in un caso alquanto dibattuto, l’annullamento per difetto di giurisdizione di una sentenza del Consiglio di Stato che aveva accolto il ricorso avverso il silenzio-rifiuto del Comune di demolire costruzioni realizzate da altri in difformità dai regolamenti edilizi[12].
Ora queste asimmetrie non hanno più ragione di essere e concordemente si ammette che il “terzo” sia legittimato a chiedere la tutela del proprio interesse legittimo, dinanzi al giudice amministrativo, contro una pluralità di situazioni patologiche, tramite azioni anche diverse da quella di annullamento: il rilascio di un permesso illegittimo, l’omissione dell’obbligo di vigilanza sugli abusi edilizi, l’inadempimento del dovere di controllo e di eventuale interdizione della SCIA; nonché – come nel caso che ci occupa – l’illegittimo esercizio del potere di sanatoria[13].
Resta da dire che la vicinitas soddisfa il solo requisito della legittimazione; è condizione necessaria, ma non sufficiente all’ammissibilità del ricorso. Occorre anche l’interesse ad agire: lo specifico pregiudizio allegato dal ricorrente, che può riferirsi al godimento dell’immobile o al suo deprezzamento, ma anche – come ha precisato la Plenaria – alla compromissione della salute e dell’ambiente in danno di coloro che sono in durevole rapporto con la zona interessata[14].
3. La soggettivazione non dominicale dell’interesse al vaglio della teoria della “norma di protezione” (o della “qualificazione normativa”).
Fatta questa lunga premessa (col rischio, anzi la certezza di aver detto cose fin troppo note) rimane il dubbio su cosa debba fare il giudice amministrativo quando il ricorrente allega una vicinitas “non territoriale”, si afferma cioè titolare di un interesse legittimo basato non su relazioni di prossimità tra fondi o tra luoghi, ma su un altro tipo di situazione soggettiva “collegata” all’atto impugnato.
Sappiamo che una famosa variabile della vicinitas edilizia è la “vicinitas commerciale”: il “bacino di utenza” corrispondente a uno spazio fisico più ampio di quello del permesso edilizio, entro il quale si consuma il confronto tra il ricorrente e il titolare dell’attività concorrente, autorizzata con l’atto impugnato[15].
A ben vedere, peraltro, nel ragionare di “vicinitas commerciale” si rimane pur sempre nell’ambito di una relazione determinata dalla distanza fisica o geografica, dunque di un criterio il cui contenuto non è troppo dissimile dall’altro. Inoltre, specie se si considera la concorrenza come un naturale attributo della libertà di iniziativa economica privata, è perfettamente accettabile l’idea che le norme regolatrici delle autorizzazioni, rilasciate al concorrente, “prendano in considerazione” e in qualche misura “investano” e perciò “qualifichino” la posizione del terzo.
Il vero salto di qualità lo si compie quando si assumono a termini di confronto le situazioni dei terzi in difesa del cui interessenon è stata scritta la disposizione di legge che sia assume essere stata violata[16]; i “non destinatari” dell’investitura, i soggetti che invocano, contro l’amministrazione, una norma non “pensata” per loro, che non ha “voluto” farli entrare in rapporto con l’amministrazione e che perciò, ovviamente, non sono stati “presi in considerazione” nemmeno dall’amministrazione stessa[17].
Al giudice amministrativo si aprono allora due strade: 1) escludere la legittimazione di tali soggetti; 2) ammettere, se non altro come possibilità, che interessi legittimi possano sorgere anche dall’interessamento del singolo a norme che non lo hanno previsto come destinatario dell’atto amministrativo. Come per la vicinitas territoriale, una volta esclusa l’azione popolare – e confermato che un interesse è giuridicamente rilevante quando è basato sull’ordinamento – l’idoneità di una norma (singola) a dar vita a interessi legittimi può, a volte, presumersi cristallizzata nella sua “volontà protettiva”; ma può benissimo accadere che la norma invocata dal ricorrente contro l’atto amministrativo protegga, magari per caso fortuito, un interesse che su di essa non si fonda e che neppure si concretizza in un rapporto con l’amministrazione. Il caso da cui nasce la sentenza in esame ne è un tipico esempio: l’interesse del promissario acquirente si basa sul Codice civile ed ha come controparte del rapporto il promissario venditore, non l’amministrazione. L’interesse del promissario venditore al condono dell’immobile si basa sulle leggi di sanatoria e, inoltrata l’istanza di condono, ha come controparte del rapporto l’amministrazione, non il promissario acquirente. Ciò significa forse che l’amministrazione, nell’esercizio del potere conferitole dalle leggi sul condono, non può ledere l’interesse del promissario acquirente? Certamente no. Tutto dipende da cosa è concretamente successo, dall’esposizione sommaria dei fatti (art. 40 c.p.a.): dalla persuasività dell’affermazione, che è opera del ricorrente ed è svolta, per così dire, a suo rischio e pericolo. Ora si potrebbe discutere a lungo, se nel processo amministrativo l’affermazione del ricorrente contribuisca alla formazione dell’oggetto del processo[18] o se debba restarne rigorosamente estranea, onde evitare che l’oggetto del processo finisca per coincidere con una situazione soggettiva «creata dal giudice per il tramite dell’ammissibilità dell’azione»[19]. Sta di fatto, per quanto ora interessa, che il rischio di “creatività” è insito anche nell’ipotesi inversa: quando il giudice dichiara l’inammissibilità del ricorso, constatando che l’amministrazione non aveva il dovere di applicare la legge nei confronti del ricorrente, il quale viene di conseguenza assimilato al quivis de populo.[20]
La prospettiva adottata dal giudice amministrativo è generalmente la prima, in misura crescente da quando l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha precisato che tra le condizioni dell’azione di annullamento rientra il “titolo, o possibilità giuridica dell’azione” [21]; ma non pare che da essa si desuma una convincente ricostruzione della legittimazione: più che altro, l’impressione è che la giurisdizione amministrativa si alimenti impropriamente dei princìpi sull’attività amministrativa discrezionale[22], che – questa sì – non può volgere alla soddisfazione di interessi diversi da quelli che la legge ha voluto mettere in rapporto con l’amministrazione.
Non stiamo parlando degli interessi diffusi, per i quali vale un altro genere di considerazioni[23]. Troviamo nella giurisprudenza amministrativa interessi che si direbbero, più semplicemente, “squalificati” dal giudice, perché non rispondenti alla teoria della “norma di protezione”, automaticamente assegnati all’area dei cosiddetti interessi dipendenti (utili solo a un eventuale intervento nel giudizio).[24]
Solo in tempi recenti – la qual cosa è spesso sottovalutata – l’individuazione dell’interesse legittimo per mezzo della “teoria della qualificazione normativa” è stata sostenuta in chiave prescrittiva, allo scopo di offrire un’immagine razionalizzata della presenza del “terzo” nel processo[25], senza darsi carico della «grave difficoltà di riconoscere i casi in cui esiste una qualificazione normativa»[26] e, in ultima analisi, dell’esaltazione della “creatività” del giudice amministrativo: altra conseguenza, non sempre sottolineata, alla quale conduce il dogma della “qualificazione”.
Ora il discorso dovrebbe essere portato a una dimensione più ampia, certamente inadeguata ai fini di queste brevi annotazioni. Una cosa però va detta chiara: un’assiduità esasperata, da parte giurisprudenza amministrativa, nell’affidare il vaglio di ammissibilità del ricorso al teorema della norma di protezione può avere esiti appaganti, quanto portare, se praticata con eccessivo rigore, a conseguenze contrarie al più comune buon senso. Lo dimostrano alcuni esempi di interesse legittimo “squalificato”: quello del datore di lavoro a impugnare il rigetto del visto d’ingresso adottato dal consolato italiano all’estero, nei confronti del lavoratore, cittadino straniero, che il datore di lavoro ha già regolarmente assunto dall’Italia (autorizzato dal Prefetto)[27]; quello dell’ex amministratore di società di capitali a impugnare l’interdittiva antimafia emessa nei confronti della società, nella quale si indica l’ex amministratore come soggetto sospettato di collegamento con la criminalità organizzata[28]; quello dell’operatore economico partecipante a una gara d’appalto, legittimamente, ma non «definitivamente» escluso (art. 2-bis Direttiva 89/665/CE del 21 dicembre 1989), a impugnare l’aggiudicazione disposta dalla stazione appaltante[29].
In tutti questi casi – esattamente come, nella vicenda di specie, è accaduto al promissario acquirente – l’interesse è stato declassato dal giudice amministrativo a interesse strumentale, non giuridicamente “protetto”, equiparato a quello del quivis de populo, la cui ammissione alla tutela di merito implicherebbe la violazione del divieto di sostituzione processuale; quindi considerabile tutt’al più come titolo idoneo a un intervento ad adiuvandum nel giudizio di annullamento (ipotetico, quanto improbabile, per non dire impossibile) promosso dal “vero” legittimato.
L’aspetto in discussione – sia chiaro – non è la possibilità che la teoria della norma di protezione sia applicata nel processo amministrativo; è l’idea che essa debba sempre essere seguita, non essendovi criteri alternativi di individuazione dell’interesse legittimo e di accertamento della legittimazione ad agire: in questo senso si risolve in una esclusione standardizzata, senza alcuna possibilità di bilanciamento (verrebbe da osservare, polemicamente, una “teoria della delegittimazione ad agire”).
4. Conseguenze: il capovolgimento dell’esito di primo grado e la “delegittimazione” del promissario acquirente.
Nell’economia di questo breve commento ci si può solo chiedere, alla luce di quanto detto fin qui, se l’interesse del promissario acquirente fosse davvero un interesse di mero fatto e fino a che punto sia condivisibile la soluzione adottata dal Consiglio di Stato. Sia consentito riprendere brevemente la vicenda.
La pronuncia di primo grado[30] aveva annullato due permessi di costruire in sanatoria rilasciati, in applicazione delle leggi sul condono edilizio (28 febbraio 1985, n. 47 e 23 dicembre 1994, n. 724), alla società proprietaria di un immobile ubicato in area sottoposta a vincolo paesaggistico. Si trattava per la precisione di un ristorante, costruito lungo sponde di un lago, sul quale erano stati eseguiti a più riprese lavori di ampliamento abusivo che avevano portato a una modifica complessiva di entità piuttosto rilevante (nel processo era stata documentata la parziale colmatura delle acque lacustri e realizzazione di una terrazza di 285 mq. su palafitte).
La sanatoria[31] era stata giudicata, dal TAR, non conforme a legge per una serie di motivi: la parziale realizzazione degli interventi abusivi su area appartenente al demanio dello Stato; l’esecuzione di lavori di ampiamento in epoca successiva al termine stabilito dalla legge n. 47/1985 per la proposizione dell’istanza di condono; la contrarietà dell’atto di sanatoria al parere negativo della Soprintendenza; la realizzazione di una cubatura complessiva (oltre 2200 mc.) non condonabile perché superiore al limite di 750 mc. stabilito dalla legge n. 724/1994.
Gli argomenti che hanno portato alla riforma della sentenza sono, come si accennava, legati al profilo delle condizioni dell’azione.
Il TAR aveva accolto due ricorsi riuniti (per connessione oggettiva): il primo era stato proposto della promissaria acquirente, l’altro da una persona «qualificatasi come proprietaria confinante», la quale aveva sostenuto di avere “interesse a ricorrere” per «i per danni alla sua proprietà, provocati anche da diminuzione di panoramicità, visibilità, visualità e godibilità, conseguenti all’edificazione dell’immobile di cui è causa». Questo ricorso era stato ammesso dal Giudice di primo grado «in ragione della sussistenza del requisito della vicinitas che, per giurisprudenza consolidata, legittima il proprietario confinante ad impugnare i titoli edilizi rilasciati a favore del vicino controinteressato (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 24 dicembre 2020, n. 8313)».
Anche qui il Consiglio di Stato è andato di diverso avviso, cogliendo l’occasione per ribadire l’indirizzo, espresso dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 22 del 2021, secondo il quale la legittimazione dei terzi all’impugnazione di titoli edilizi non è soddisfatta dall’allegazione della vicinitas, ma richiede l’allegazione e, se necessario, l’autonoma dimostrazione di un concreto ed effettivo “pregiudizio”. Nel caso di specie la ricorrente si era limitata a generiche allegazioni in merito al deterioramento della qualità della vita (valori storici, culturali, ambientali), che per i giudici d’appello si ancorava a una «percezione personale del tipo di luogo in cui si vorrebbe vivere e non a parametri oggettivi che sono, invece, gli unici dai quali partire per fissare l’aumento o la diminuzione di valore di un bene immobile».
Quanto alla legittimazione del promissario acquirente, il TAR aveva trattato i profili d’inadempimento del contratto preliminare in modo per così dire pragmatico: come «questioni indubbiamente conoscibili dal giudice civile, ma che in questa sede rilevano per affermare la sussistenza di un interesse a contestare i provvedimenti impugnati, al fine di far valere in quella sede il loro annullamento».
Il Consiglio di Stato ha invece ritenuto che la promissaria acquirente fosse estranea «alle vicende relative ai titoli edilizi sugli immobili oggetto del contratto preliminare» e che soltanto «in sede civile», semmai, essa avrebbe potuto «far valere quelle vicende al mero fine di definire i rapporti giuridici sorti tra le parti».
«Lasciando da parte ogni considerazione sviluppata dagli appellanti circa l’effettiva sussistenza di detto ruolo (ad esempio: il fatto che al momento della proposizione del ricorso il contratto aveva cessato di produrre effetti) occorre rilevare che la posizione di promissario acquirente non è idonea a fondare la legittimazione a ricorrere. Già da tempo il Consiglio di Stato (sez. IV, 12/04/2011, n. 2275) ha affermato il principio secondo il quale non può ritenersi legittimato ad impugnare il provvedimento con il quale un Comune ha annullato in autotutela un piano di lottizzazione, il promissario acquirente del terreno interessato dal medesimo piano di lottizzazione, ove questi, nonostante la stipula del contratto preliminare di compravendita dell'area, non abbia acquisito la effettiva e materiale disponibilità del terreno stesso, che si potrebbe configurare in caso di preliminare cd. ad effetti anticipati, con il quale quantomeno si anticipa l’effetto della consegna dell'immobile. Nella specie, [la promissaria acquirente] non ha mai acquistato il possesso o la detenzione o, ancora, la materiale disponibilità del bene, per cui non si è radicata in capo ad essa alcuna posizione giuridica diversa dall’interesse di mero fatto. Più di recente, il Consiglio di Stato ha chiarito in maniera più specifica la reale situazione ricoperta dal promissario acquirente in un passaggio della motivazione della sentenza n. 6961 del 14 ottobre 2019 che di seguito si riporta: “Rispetto agli interessi pretensivi, il potere di conformazione e di autorizzazione edilizia investe infatti in via diretta ed esclusiva il proprietario della res, in capo al quale l’interesse si appunta, mentre il vincolo obbligatorio che si instaura tra il promittente venditore ed il promissario acquirente fa sì che le modalità di esercizio del potere riverberino, sulla posizione del secondo, effetti solo indiretti relegando la posizione di quest’ultimo, nell’ambito della relazione pubblicistica, a quella di titolare di un mero interesse di fatto. Tali effetti indiretti rilevano invece sul piano civilistico dell’esatto adempimento e quindi nell’ambito della relazione contrattuale, giammai in seno alla relazione procedimentale dove il proprietario resta l’interlocutore esclusivo della vicenda dinamica del potere. Ne discende che rispetto a tutti gli interventi edilizi via via autorizzati sulle unità immobiliari promesse in vendita, l’odierno appellante […] è privo di una situazione giuridica soggettiva idonea a differenziarne la posizione e quindi a radicarne la legittimazione, non potendosi ritenere idoneo a tale scopo il mero vincolo obbligatorio che ha ad oggetto la prestazione (nella specie del consenso richiesto per il perfezionamento del contratto) non l’esercizio di un potere”».
La sostanza della motivazione è molto chiara: per il Consiglio di Stato la difesa del diritto di credito è un affare di esclusiva pertinenza del giudice civile e non può convertirsi nella potestà di proporre ricorso agli organi di giustizia amministrativa; il che, si può soggiungere, sarebbe invece normale se ad agire in giudizio nei panni del “terzo”, per far valere l’illegittimità del permesso di costruire, fosse il titolare del diritto di proprietà di un immobile vicino. Non per nulla, l’eccezione è la consegna anticipata dell’immobile al promissario acquirente, che dà vita a una situazione di fatto (materiale disponibilità) somigliante a un diritto dominicale; ulteriore riprova che il diritto relativo non ha la forza bastevole alla individuazione di un interesse legittimo tutelabile dinanzi alla giurisdizione amministrativa.
Probabilmente sulle considerazioni del Consiglio di Stato ha esercitato una certa influenza l’idea che il giudizio d’inadempimento del preliminare contratto abbia, in sé, l’autonomia necessaria alla tutela del promissario acquirente.
Il recesso dal contratto preliminare per abusi edilizi è tuttavia una fattispecie che merita una particolare attenzione. Stando alla giurisprudenza civile, la nullità di cui all’art. 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 trova applicazione ai soli contratti con effetti traslativi e non anche a quelli con efficacia obbligatoria, quale il preliminare di vendita[32]. Non è data quindi al promissario acquirente azione di nullità, ma solo di adempimento o, come nella vicenda di specie, di risoluzione del contratto per inadempimento (con restituzione del doppio cella caparra).
La validità del contratto preliminare avente ad oggetto un immobile abusivo ha però una seconda conseguenza, anch’essa desumibile dalla giurisprudenza civile, proprio nel caso di condono dell’immobile successivo al recesso dell’acquirente. In questo frangente, infatti, il rilascio del permesso in sanatoria, regolarizzando la condizione giuridica dell’immobile, realizza la condizione che rende possibile per il venditore, interessato alla stipula del contratto definitivo, l’azione costitutiva di trasferimento di cui all’art. 2932 c.c. contro il compratore[33]. Non è questo – o meglio non è dato sapere se sia questo – il caso di specie. Se però il condono determina automaticamente l’illegittimità del recesso dell’acquirente, esercitato a causa dell’abuso (tanto da permettere al venditore di agire per l’esecuzione dell’obbligo di contrarre), a maggior ragione impone una valutazione d’infondatezza della domanda di risoluzione per inadempimento proposta dall’acquirente stesso.
Questi meccanismi sono rimasti sfuocati agli occhi del giudice. La legittimazione ad agire, secondo la giurisprudenza, implica l’irrilevanza dell’affermazione e la necessità di ricercare l’effettiva titolarità dell’interesse legittimo[34]. Se il giudice avesse voluto procedere in questo modo, gli sarebbe stato più facile seguire la strada di un’analisi approfondita del diritto del promissario acquirente, che avrebbe restituito la reale consistenza dell’interesse vantato dal ricorrente. Affidandosi invece ai dogmi della “teoria generale”, il giudice ha finito per mettere, tra sé e i fatti di causa, uno schermo protettivo che gli ha impedito di vedere l’interesse così come protetto dall’ordinamento (a tutto vantaggio, evidentemente, dell’amministrazione).
Con ogni probabilità, la chiave di lettura della sentenza sta nella fiducia del Consiglio di Stato verso l’unico strumento di tutela rimasto all’acquirente, vale a dire il potere del giudice civile di disapplicare il permesso di costruire in sanatoria[35].
Non è un esito nuovo né sorprendente, se si pensa che, com’è stato da tempo osservato, anche nei casi più “classici” – nei quali cioè il permesso di costruire in sanatoria viola le norme sulle distanze tra le costruzioni, quindi la proprietà del terzo (art. 873 c.c.) – il carattere peculiare dell’istituto del condono, che impedisce alla pubblica amministrazione di sindacare il rispetto delle distanze, ostacola l’individuazione dell’interesse legittimo e lascia a disposizione del terzo la sola tutela civile, previa disapplicazione del permesso di costruire in sanatoria; nel che si sono ravvisate alcune “crepe” nel concetto stesso di “doppia tutela”[36].
Il restare affidato al potere di disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice civile mette però alquanto in sott’ordine il promissario acquirente rispetto al promissario venditore, «interlocutore esclusivo della dinamica del potere», che fruisce invece della tutela giurisdizionale di annullamento, in caso di scorretto esercizio del medesimo potere (es. in caso di diniego di permesso in sanatoria).
Già qui ci si potrebbe soffermare, per cercare di comprendere se questo differente trattamento sia ragionevole o non, piuttosto, «sconveniente»[37]; considerato anche l’interesse pubblico a che gli abusi, se insanabili, non siano condonati, il che avrebbe potuto introdurre nel discorso del giudice un fattore di “bilanciamento” e rendere, se non altro, più elastico il giudizio di ammissibilità del ricorso.
5. Conclusioni.
L’aspetto che più induce a dubitare della correttezza della soluzione adottata dal Consiglio di Stato rimane però l’esasperato formalismo della ricostruzione operata dal giudice in merito alla «dinamica del potere», che è il vero momento di partenza del diniego di legittimazione ad agire del promissario acquirente.
Dal punto di vista dell’amministrazione e dei suoi doveri di esecuzione, è plausibile che il «potere conformativo e autorizzativo» si consumi nella «relazione pubblicistica» con il promissario venditore e non incida, se non indirettamente – appunto, in via di mero fatto – nella «relazione contrattuale» tra privati.
Questo non è però, a ben vedere, se non il metro di valutazione delle ricadute soggettive del potere amministrativo; là dove l’accertamento della legittimazione del ricorrente mette in gioco i confini del potere giudiziario.
Gli articoli 103 e 113 Cost. destinano la giurisdizione amministrativa non alla protezione dell’efficacia dell’atto, ma alla tutela degli interessi legittimi nei confronti della pubblica amministrazione. Non pare quindi corretto che il giudice rinunci a decidere solo perché l’interesse che sta alla base del ricorso poggia su regole di diritto diverse da quelle dalla cui violazione derivano i vizi dell’atto impugnato.
Non è ora il caso di approfondire; né di prendere una posizione argomentata sulla soluzione data dal Consiglio di Stato al problema della legittimazione del promissario acquirente. Tanto meno è il momento di proclamare princìpi o massime generali sulla tutela del promissario acquirente nel giudizio amministrativo.
Ci si può domandare, tuttavia, se nella sentenza in esame non vi fosse spazio per un ragionamento più spregiudicato di quello che il giudice ha sviluppato, muovendo dagli schemi teorico-generali del potere e del rapporto giuridico.
Non era in discussione che la ricorrente fosse stata promissaria acquirente e che vantasse un diritto di obbligazione verso la venditrice.
L’interesse all’esatto adempimento di un preliminare e, in caso d’inadempimento, alla restituzione del doppio della caparra data non è un diritto assoluto; non dà titolo per vantare prerogative dominicali sull’immobile. E’ un diritto di obbligazione che si fonda sull’art. 1385 comma 2 c.c. Questo significa che non è “protetto dall’ordinamento”? Certamente no. Non meno di quanto lo sia il diritto dominicale sull’immobile garantito al proprietario dal Codice civile.
Si dirà che le norme sul condono edilizio non hanno considerato l’interesse dell’acquirente tra quelli che entrano in rapporto con l’amministrazione.
Poiché però la protezione di un interesse è o non è accordata dall’ordinamento – che è il tutto, il complesso generale di regole e principi – non si avverte alcuna stortura nel pensare che una disposizione di legge possa essere invocata, contro un provvedimento amministrativo ritenuto illegittimo, sia a tutela di interessi che essa qualifica, sia a tutela di interessi che essa non qualifica e che, a differenza dei primi, non entrano in una “relazione pubblicistica” con l’amministrazione.
Non si vede d’altra parte perché non debba valere, anche per il giudizio amministrativo di annullamento – se si vuol proprio parlare di una legittimazione ad agire concepita sulla “falsariga del processo civile”[38] – la regola per cui l’idoneità della norma a dar vita a situazioni soggettive dipende, più che dalla “qualificazione”, dal principio generale del neminem laedere, che potrebbe benissimo fungere, anche qui, da criterio di selezione degli interessi protetti (senza con questo incorrere, sempre e necessariamente, in violazioni del divieto di sostituzione processuale).
Ma forse basterebbe riconoscere che l’art. 24 «ci si presenta (…) come una sorta di norma in bianco la quale aderisce a tutte le norme sostanziali, che attribuiscono diritti o interessi legittimi: queste norme, anche se nulla dispongono (e il più delle volte non dispongono) sulla tutela giurisdizionale, funzionano, per così dire, come fattispecie rispetto al primo comma dell’art. 24, che mettono automaticamente in moto»[39], per dubitare che qualche principio sul processo amministrativo avrebbe patito, se il ricorso della promissaria acquirente fosse stato giudicato nel merito, anziché dichiarato inammissibile perché non “qualificato”.
Di qui una chiave di lettura conclusiva; non tanto della sentenza, quanto del problema ad essa sottostante. Ovviamente le leggi sul rilascio dei titoli edilizi sono scritte “volendo” che i poteri dell’amministrazione incidano sul regime della proprietà immobiliare; che si rivolgano al proprietario o a chi da esso acquisti la disponibilità dell’immobile o il diritto di costruire. Aggiungiamo pure i titolari di altri diritti assoluti, investiti dagli effetti di quei poteri amministrativi attraverso la vicinitas “territoriale”: sono questi i “terzi”, legittimati a “reagire”, anch’essi perché dotati di poteri giuridici di disposizione, magari solo materiale, di un immobile.
L’idea che fuori da questo schema, diciamo “più in là” sul territorio, o dove proprio non è la terra il mezzo di collegamento – dove insomma la norma non ha voluto che arrivassero gli effetti del potere – esista solo l’interesse di fatto, del quivis de populo (espressione forse troppo diffusa in giurisprudenza), fa parte di una cultura giuridica senza mezzi termini tipica dell’Italia tardo ottocentesca[40].
Una sentenza come quella in esame, che ad ogni passaggio cerca nel “potere di volere della norma” la ragione dell’interesse, può far riscoprire il gusto della modernità della giustizia amministrativa e, con riferimento al problema della impugnazione dei titoli edilizi, sollecitare l’interrogativo se la vicinitas non meriti un approccio diverso da quello del giurista e amministrativista «di terra»[41].
Sarebbe bello se le leggi sul rilascio dei titoli edilizi, che nulla dispongono sulla tutela giurisdizionale, permettessero l’accesso al giudice amministrativo non solo agli interessi che vogliono proteggere, ma anche, prima di tutto, agli interessi che ledono ingiustamente. Tutte le norme dell’ordinamento che attribuiscono diritti potrebbero così combinarsi con quelle sul potere e svolgere, attraverso il processo amministrativo, il loro fondamentale ruolo di qualificazione e di protezione.
Il giudice amministrativo sarebbe – se non altro, nel frangente in cui occupa della legittimazione ad agire – quello che tutti vogliamo: giudice speciale, ma pur sempre giudice o, per meglio dire, un po’ più giudice, e meno amministratore.
[1] Sull’illegittimità dell’ordine di demolizione emesso dal Comune nei confronti del promissario acquirente, TAR Lazio, 18 maggio 2022, n. 6286; per la legittimazione a impugnare un diniego di autorizzazione da parte del promissario acquirente che abbia la materiale disponibilità dell’immobile, Cons. St., sez. IV, 19 aprile 2022, n. 2017 (che in motivazione richiama la pronuncia qui in esame). In merito alla possibilità del promissario acquirente di chiedere il permesso di costruire, quando ad esito della consegna anticipata abbia acquisito la materiale disponibilità dell’immobile, la giurisprudenza non è univoca (a favore TAR Campania, Salerno, 10 giugno 2022, n. 1639; TAR Emilia Romagna, 3 giugno 2022, n. 470; TAR Campania, 18 marzo 2021, n. 1809; contra, con richiami a contrastanti indirizzi giurisprudenziali, TAR Liguria, 26 aprile 2022, n. 320; TAR Campania, 24 giugno 2021, n. 4328; TAR Calabria, 10 dicembre 2021, n. 2264; TAR Emilia Romagna, 16 novembre 2021, n. 936). In dottrina, sul tema dei rapporti tra normativa urbanistico-edilizia e circolazione dei diritti immobiliari, M.C. D’Arienzo, Trasmissibilità dell’interesse legittimo e circolazione dei diritti edificatori tra previsioni codicistiche e suggestioni giurisprudenziali, in Dir. e proc. amm, 2016, 965 ss.; Id., Trasferibilità dell’interesse legittimo, Napoli, 2017; F. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, 468 ss.).
[2] Di qui anche l’eccezione di inammissibilità per carenza di interesse al ricorso, sollevata dal promittente venditore appunto con riferimento alla impossibilità dell’acquirente di vantare alcun titolo giuridico sull’immobile.
[3] Si allude qui al carattere risarcitorio che la caparra confirmatoria acquista quando è oggetto dell’obbligo di restituzione a carico della parte inadempiente, essendo, in questo caso, da interpretare come somma di denaro stabilita in funzione di preventiva forfettaria liquidazione del danno subito dalla parte che ha legittimamente receduto (giurisprudenza pacifica; v. per tutte Cass. civ., sez. II, ord. 12 luglio 2021, n. 19801; sent. 1 agosto 2013, n. 18423)
[4] Sempre fondamentali al riguardo i contributi di A.M. Sandulli ora in Scritti giuridici, vol. VI, Napoli 1990, tra i quali si possono ricordare, per attinenza al tema qui trattato (e ovviamente senza alcuna pretesa di completezza), Giurisdizione e amministrazione in materia di edilizia urbanistica, 3 ss.; Sui mezzi di tutela giurisdizionale del terzo danneggiato d auna licenza edilizia illegittima, 229 ss.; Sui mezzi di tutela dei terzi lesi da costruzioni «contra legem», 263 ss.; Costruzioni «contra ius» e provvedimenti di sanatoria, 269 ss.; Ancora sulla qualificazione giuridica dell’interesse di terzi alla demolizione ad opera dell’autorità comunale di costruzioni «contra ius», 303 ss.; Repressione di abusi edilizi e interesse dei terzi, 321 ss.; L’azione popolare contro le licenze edilizie, 371 ss.
[5] Cons. St., ad. plen., 9 dicembre 2021, n. 22; tra i primi commenti, F. Saitta, C’era una volta un’azione popolare… mai nata, in Riv. giur. edil., 2021, 239 ss.; S. Tanquilli, Sull'incerto rapporto tra vicinitas e “vicinanza della prova” dopo la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 22/2021, in Il processo, 2022, 201 ss.; M. Ceruti, La vicinitas non basta a dimostrare l’interesse al ricorso per l’annullamento dei titoli edilizi. E nella materia ambientale?, in RGA online, 1 maggio 2022.
[6] Cons. St., sez. V, 9 giugno 1970, n. 523, in Foro it., III, 201 ss. «È dunque questo», proseguiva il Consiglio di Stato, «l’elemento che qualifica l’interesse del singolo e, correlativamente, lo legittima alla tutela giurisdizionale, sempreché, beninteso, egli abbia un interesse concreto, attuale e personale a dolersi dell’illegittimità dell'atto per il pregiudizio effettivo che questo gli ha arrecato e che l’impugnativa tende a rimuovere». Per un’importante trattazione dell’argomento, E. Guicciardi, La sentenza del chiunque, in Giur. it., 1970, III, 193 ss.
[7] Articolo 10 legge 6 agosto 1967, n. 765 (sostituzione dell’art. 31 legge 17 agosto 1942, n. 1150): «Chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di
piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione».
[8] A.M. Sandulli, L’azione popolare contro le licenze edilizie, in Scritti, cit., loc. cit.; V. Spagnuolo Vigorita, Interesse pubblico e azione popolare nella legge-ponte per l’urbanistica, in Riv. giur. ed., 1967, II, 387 ss.
[9] Cons. St., n. 523 del 1970, cit.
[10] Cons. St., sent. cit.; in argomento, F. Saitta, L’impugnazione del permesso di costruire nell’evoluzione giurisprudenziale: da azione popolare a mero (ed imprecisato) ampliamento della legittimazione a ricorrere, in www.lexitalia.it, n. 7-8/2007; Id., C’era un volta un’azione popolare, cit.
[11] G. Sciullo, Concessione edilizia e tutela civilistica fra privati, in Riv. giur. urb., 1988, 17 e ss.
[12] Cass. civ., ss.uu., sentenza 18 luglio 1961, n. 1746, in Foro it., 1961, I, 1672 ss., con commenti critici di M. Nigro, L’art. 32 della legge urbanistica e l’individuazione degli interessi legittimi, ivi, 1962, I, 83 ss. e di A.M. Sandulli, Ancora sulla qualificazione giuridica, in Scritti, cit. loc. cit., malgrado le tesi di questo Autore conducessero, con altra impostazione, a negare l’esistenza di un interesse protetto del terzo. Su quest’ultimo punto, la tesi di Sandulli si opponeva a quella, da cui la Cassazione sembrava aver tratto qualche argomento, di F. Benvenuti, Violazione delle norme edilizie e poteri di sanatoria del Sindaco, in Riv. amm., 1958, 1 ss.; cfr. anche G. Vignocchi, Sui regolamenti edilizi e sulle conseguenze giur. della loro violazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, 346.
[13] D’altra parte un analogo allargamento della sfera degli interessi tutelabili contro il permesso di costruire illegittimo si dovrebbe registrare sul versante del destinatario, nel caso in cui il permesso illegittimo, dopo essere stato rilasciato, sia annullato d’ufficio dalla stessa amministrazione comunale o su ricorso giurisdizionale del “terzo”: eventualità che, per giurisprudenza oramai pacifica, permette al destinatario proporre l’azione di risarcimento del danno contro il Comune. Che si tratti di un allargamento dell’area degli interessi tutelabili, naturalmente, si può condividere solo se si continua a vedere nel permesso di costruire illegittimo la causa di una lesione originaria dell’interesse legittimo del destinatario, distinta dalla possibile (ma non necessaria) lesione del diritto soggettivo derivante dalla violazione del principio di buona fede, che attrae la controversia nell’ambito della giurisdizione ordinaria. Nulla impedirebbe, cioè, di affermare l’ingiustizia ex sé (anche dove concretamente non vi sia violazione del canone di buona fede) e quindi l’autonoma risarcibilità, dinanzi al giudice amministrativo, del danno che il permesso non conforme a legge arreca direttamente all’interesse legittimo del destinatario; costituendo, l’annullamento, il fatto che rende attuale l’interesse ad agire per il risarcimento (si permetta, per più precisi ragguagli, di rimandare a M. Magri, Il Consiglio di Stato sul danno da provvedimento illegittimo favorevole, in Giorn. dir. amm., 2014, 704 ss.).
[14] Cons. St., ad. plen., n. 22 del 2021, cit. e dottrina citata retro, nota n. 5.
[15] Per questa distinzione, Cons. St., sez. V, 19 novembre 2018, n. 6527. Con riferimento ad altri criteri di collegamento degli interessi legittimi ad atti autorizzativi di insediamenti non residenziali, A. Romano, Interessi «individuali» e tutela giurisdizionale amministrativa, in Foro It., 1972, III, 261 ss.
[16] V.E. Orlando, La giustizia amministrativa, in Id. (a cura di), Primo trattato completo di diritto amministrativo, Milano, 1914, 722-723, soffermandosi sulla relazione che «deve correre tra la illegalità del provvedimento e la lesione dell’interesse», considera «affatto ingiustificata» l’impressone che «il far valere, in via di ricorso, una illegalità di un atto amministrativo spetti solo a colui, in difesa del cui interesse era scritta la disposizione di legge che sia assume essere stata violata», perché «il dire che chi propone ricorso debba averci interesse e che quest’interesse debba essere personale, con esclusione di forme analoghe alle azioni popolari, non implica affatto (…) che fra la lesione dell’interesse e la violazione della legge debba esservi una tale intima correlazione (…). L’ipotesi di un nesso fra l’interesse che reclama difesa e la norma obiettiva che tale difesa accordi, è necessariamente implicita nell’esercizio di una giurisdizione vera e propria, appunto perché vi si decide di diritti subbiettivi, dove quel nesso è immancabile». L’opinione di Orlando, pur essendo formulata con riferimento all’attività della IV Sezione del Consiglio di Stato (che non per tutti, com’è noto, era una giurisdizione «vera e propria») rimane una delle più significative enunciazioni del nesso che collega l’interesse legittimo all’ampiezza delle situazioni soggettive tutelate; nel che si è riconosciuto «uno degli aspetti più preziosi della tradizione graziosa e pretoria della giustizia amministrativa» (M. Mazzamuto, Il dopo Randstad: se la Cassazione insiste, può sollevarsi un conflitto?, in questa Rivista, 16 marzo 2022).
[17] M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 2000, 113.
[18] Per questa tesi, G. Berti, Connessione e giudizio amministrativo, Padova, 1970.
[19] Le parole sono di L. Ferrara, Conclusioni, in C. Cudia (a cura di), L’oggetto del processo amministrativo visto dal basso, Torino, 2020, 328.
[20] La misura della creatività del giudice è data dalla difficoltà di distinguere l’interesse legittimo dall’interesse di fatto, che non si attenua affatto, anzi, nel momento in cui si tratta di decidere se e in che limiti, le norme su cui si fonda il ricorso qualifichino interessi (M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., loc. cit.). Anni addietro lo stesso Nigro, com’è noto, mostrò maggiori perplessità in merito alla teoria della “qualificazione normativa”, obiettando a chi la sosteneva che il meccanismo di «soggettivazione di una norma di azione, giuridica o di buona amministrazione — sub specie di collegamento alla norma di un interesse legittimo — si muove su di un piano diverso da quello che attiene ai vincoli che gravano sul potere disciplinato dalla norma» (M. Nigro, L’art. 32 della legge urbanistica, cit., 85).
[21] Cioè «la situazione giuridica soggettiva qualificata in astratto da una norma, ovvero (…) la legittimazione a ricorrere discendente dalla speciale posizione qualificata del soggetto che lo distingue dal quisque de populo rispetto all’esercizio del potere amministrativo (Cons. St., ad. plen, 25 febbraio 2014, n. 9, in Foro it., 2014, III, 429 ss.).
[22] Questa perdita di autonomia degli schemi del giudice rispetto a quelli dell’amministrazione era molto visibile nella vecchia tesi della Cassazione, che (con larghi omaggi alla figura dell’eccesso di potere per “sviamento”), ravvisava l’eccesso di potere giurisdizionale nelle sentenze del Consiglio di Stato che annullavano atti amministrativi – secondo le Sezioni Unite – vincolati al solo interesse pubblico, accogliendo il ricorso di interessati non presi in considerazione dalla legge (Cass. civ., ss.uu., n. 1746 del 1971, cit.; 8 maggio 1978, n. 2207, in Foro it., 1978, I, 1090). Per un approccio critico a questo modo di decidere le questioni di giurisdizione, M. Mazzamuto, L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2012, 1677 ss. (delle cui conclusioni bisognerebbe far tesoro anche adesso, che i ruolo si sono quasi “invertiti”, per mettere nel giusto rilievo la circostanza che nell’economia di alcune sentenze di rito del giudice amministrativo in tema di difetto di legittimazione, come quella che qui commentiamo, si avverte qualcosa di vagamente simile al «pastrocchio» del «giudice amministrativo che applica il diritto civile»; Id., op. cit., 1714).
[23] Esattamente M. Ceruti, op. cit., dubita che il criterio della vicinitas possa essere applicato al di fuori della materia urbanistico-edilizia e, segnatamente, al campo del contenzioso amministrativo ambientale.
[24] Per approfondimenti sul tema, ancora attuale M. D’Orsogna, L’intervento nel processo amministrativo: uno strumento cardine per la tutela dei terzi, in Dir. proc. amm., 1999, 381 ss.
[25] G. Mannucci, I terzi nel processo amministrativo, Santarcangelo di Romagna, 2016; cfr. L. De Lucia, Provvedimento amministrativo e diritti dei terzi. Saggio sul diritto amministrativo multipolare, Torino, 2005.
[26] M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., loc. cit.
[27] TAR Lazio, sez. IV, 25 marzo 2022, n. 3381; TAR Lazio, sez. III-ter, 13 settembre 2016, n. 9697.
[28] Cons. St., ad. plen., 28 gennaio 2022, n. 3; sulla quale si vedano R. Rolli e M. Maggiolini, Interdittiva antimafia e legittimazione all’impugnazione. La necessaria partecipazione dei soggetti direttamente coinvolti (nota a Consiglio di Stato Ad. Plen. N. 3/2022), in questa Rivista, 6 aprile 2022.
[29] Cons. St., sez. III, 7 agosto 2019, n. 5606, origine del noto e molto dibattuto “caso Randstad” (dopo l’impugnazione alle Sezioni Unite); ci si permette di rinviare, per tutti, agli scritti di F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 11 novembre 2020; Id., Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in federalismi.it, 16 dicembre 2020; Id. Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, in federalismi.it, 9 febbraio 2022.
[30] Tar Campania, Napoli, sez. VI, 4 giugno 2021, n. 3721
[31] Si parlerà d’ora in poi del provvedimento impugnato al singolare, data la connessione tra i due permessi di costruire controversi ma sostanzialmente unificati dalla circostanza di vertere sullo stesso immobile e di aver prodotto, dal punto di vista dei ricorrenti, un unico effetto lesivo degli interessi legittimi di cui si chiedeva la tutela (per questa impostazione generale, G. Berti, Connessione e processo amministrativo, cit.).
[32] Per un esempio recente tra i tanti che potrebbero essere richiamati, Cass. civ., sez. II, 8 marzo 2022, 7521.
[33] Ciò si ricava, a contrario, dalla giurisprudenza che individua nel mancato perfezionamento della sanatoria una causa ostativa all’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre Cass. civ., ss.uu., sent. 11 novembre 2009, n. 23825 e Cass. civ., sez. II, sent. 18 settembre 2009, n. 20258, entrambe in Foro it., 2009, I, 2148 ss. Ove però si tratti di difformità solo parziale, la Cassazione sembra ammettere l’applicabilità dell’art. 2932 c.c. anche all’immobile abusivo (Cass. civ. sez. II, 23 novembre 2020, n. 26558; in dottrina, su quest’ultimo aspetto, M.A. Sandulli, Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in federalismi.it, 2 ottobre 2019, 34).
[34] A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2021, 201; per approfondimenti F. Saitta, La legittimazione a ricorrere: titolarità o affermazione?, in C. Cudia (a cura di), op. cit., 45 ss.
[35] Che è appunto il meccanismo civilistico operante nel sistema della doppia tutela edilizia (cfr. tra le tante, Cass. civ., sez. II, 4 settembre 2020, n. 18499). Un consistente numero di casi di disapplicazione del permesso in sanatoria si registra anche nella giurisprudenza penale, avendo la Cassazione stabilito e ripetutamente confermato (talvolta senza neppure citare l’art. 5 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo) che il permesso in sanatoria illegittimo non estingue il reato edilizio (Cass. pen., sez. III, 12 marzo 2019, n. 10799).
[36] L. Viola, La doppia tutela in ambito edilizio dopo il nuovo Codice del processo amministrativo, in giustizia-amministrativa.it, 7 ottobre 2021.
[37] Essendo la disapplicazione conseguenza di un accertamento senza efficacia di giudicato, dovrebbero valere a maggior ragione le osservazioni di V. Scialoja, a margine di Cass. Roma, sez. un., 24 giugno 1891, Laurens, in Foro it., 1891, I, 1120, che (con riferimento all’art. 4 dell’allegato E) riteneva «cosa affatto sconveniente l’immaginare che il legislatore abbia accordato più pronta e in certo modo anche più larga protezione amministrativa al semplice interesse, il quale non costituisca un vero e proprio diritto, che a quell’interesse certamente più grave ed elevato, il quale forma contenuto di un diritto; per modo che, mentre il primo potrebbe produrre l’annullamento dell’atto amministrativo (…) il secondo invece potrebbe portare soltanto ad una semplice modificazione dell’atto amministrativo, ristretta a quanto riguarda il caso deciso, dopo avere ottenuta una favorevole sentenza dell’autorità giudiziaria».
[38] Cons. St., ad. plen. n. 9 del 2014, cit.
[39] V. Andrioli, La tutela giurisdizionale dei diritti nella Costituzione della Repubblica italiana, ora in Scritti giuridici, I, Milano, Giuffrè 2007, 7. Sul dibattito in merito al rapporto tra norma e giurisdizione amministrativa, qui troppo esteso per essere anche solo richiamato, si permetta di rinviare a F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Napoli, 2017.
[40] «Nella prospettiva oggettiva, e ancor più nell'ambiente ideologico nel quale si è iscritta l'istituzione della quarta Sezione del Consiglio di Stato, probabilmente non esistevano troppe vie di mezzo: l’interesse era sentito come individuale, nel senso di proprio a pochi singoli, e quindi tutelabile, oppure diffuso, nel senso di proprio a molti, e quindi non tutelabili» (A. Romano, op. cit., 271). E’ d’obbligo a questo proposito il rinvio a E. Cannada Bartoli, Il diritto soggettivo come presupposto dell’interesse legittimo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1953, 334 ss., specialmente al richiamo dell’Autore a ciò che «dovrebbe essere chiaro: che al fondo dell’interesse legittimo o, per lo meno, al fondo del comportamento del singolo per la tutela di tale interesse, vi è la utilità privata del cittadino stesso; che il problema dev’essere impostato in maniera formale; e che esso consiste nel giustificare la giuridicità e l’individualità di siffatto interesse. Sembra che tali esigenze sistematiche, epperò positive, siano compiutamente soddisfatte ove si riconosca che l’interesse legittimo ha natura esclusivamente formale, siccome concernente la legittimità degli atti amministrativi e che esso ha come presupposto di qualificazione una situazione di diritto soggettivo» (Id., op. cit., 348).
[41] Usiamo qui liberamente un’espressione formulata, in tutt’altro contesto (ma con impostazione che sarebbe utile anche per il tema qui trattato), da V. Angiolini, Sulla rotta dei diritti, Torino 2016, 132.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.