Fecondazione post mortem: sopravvivenza del consenso del coniuge espresso in vita, rettificazione dell’atto dello stato civile e attribuzione del cognome paterno (Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, sentenza n. 13000 del 15 maggio 2019) di Remo Trezza [1]
(…) La Prima Sezione civile ha affermato che, in caso di nascita mediante tecniche di procreazione medicalmente assistita, l’art. 8 della legge n. 40 del 2004 sullo status del nato con P.M.A. si applica – a prescindere dalla presunzione ex art. 234 c.c. – anche all’ipotesi di fecondazione omologa post mortem avvenuta utilizzando il seme crioconservato del padre, deceduto prima della formazione dell’embrione, che in vita abbia prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso, non successivamente revocato, all’accesso a tali tecniche ed autorizzando la moglie o la convivente al detto utilizzo dopo la propria morte (…).
Sommario: 1. Indicazioni fattuali per una migliore comprensione dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di legittimità – 2. Breve panoramica dei motivi di censura prospettati nel ricorso – 3. Temi trasversali di carattere processuale lambiti ed affrontati dalla Suprema Corte nella pronuncia – 4. Quadro sistematico delle fonti normative per la risoluzione del caso concreto – 5. Breve excursus giurisprudenziale e dottrinale in tema di fecondazione omologa post mortem, attribuzione del cognome paterno, rettificazione dell’atto di stato civile e presunzione di paternità – 6. Bilanciamento dei diritti: prevale il diritto al concepimento, dunque, alla vita o il diritto alla genitorialità? – 7. I principi di diritto a cui approda la pronuncia in esame – 8. Critiche e osservazioni mosse dalla dottrina e visione comparatistica – 9. Conclusioni
1. Indicazioni fattuali per una migliore comprensione dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di legittimità
Con decreto, il Tribunale ha respinto il ricorso ex art. 95 d.P.R. n. 396 del 2000 diretto ad ottenere, previa dichiarazione di illegittimità del rifiuto opposto dall’ufficiale dello stato civile del Comune alla registrazione del cognome paterno nella formazione dell’atto di nascita di una bambina, l’ordine all’ufficiale predetto di provvedere alla rettifica di tale atto con la indicazione della paternità del padre, deceduto, e del cognome paterno[2].
Premettendo che la bambina era nata in Italia, a seguito di fecondazione assistita cui si era sottoposta la madre all’estero dopo il decesso del marito, il quale aveva a tanto precedentemente acconsentito, e che l’oggetto del giudizio non era stabilire se fosse il padre biologico della bambina, ma accertare se fosse legittimo, o meno il diniego dell’ufficiale di stato civile di iscrivere la paternità della minore nell’atto di nascita come richiesto dalla ricorrente, ed altresì riepilogate sia la funzione dell’atto di nascita che le disposizioni del codice civile applicabili ai fini della sua corretta formazione, il Tribunale affermò che l’ufficiale predetto era tenuto a formare l’atto sulla base delle dichiarazioni delle parti, essendogli precluse indagini ed accertamenti in ordine alle dichiarazioni ed alla paternità, affidate, invece, esclusivamente all’autorità giudiziaria; rilevò che la diversa impostazione seguita dalla ricorrente non fosse coerente con l’art. 241 c.c., che ammette la prova della filiazione con ogni mezzo, ma solo nell’ambito di un giudizio, e che i diritti della minore fossero comunque preservati, perché l’atto di nascita era stato formato e la madre avrebbe potuto utilizzare gli altri rimedi processuali diretti a far constatare la paternità e ad ottenere l’attribuzione del cognome paterno; opinò che il rifiuto opposto dal comune non contrastasse con l’art. 8 della legge n. 40 del 2004, regolante lo status dei figli nati con le tecniche di procreazione medicalmente assistita, prediligendo l’opzione ermeneutica secondo cui la predetta disposizione non avesse innovato rispetto alla disciplina relativa allo status di figlio naturale riconosciuto, con la conseguenza che sarebbe stato sempre necessario il riconoscimento da parte di entrambi i genitori e, ove questo non fosse stato possibile, non si sarebbe potuto prescindere dall’esperimento di un’azione di stato ex art. 269 c.c.[3].
Il reclamo, proposto dalla ricorrente, avverso il decreto, è stato respinto dalla Corte di Appello, la quale ha disatteso l’assunto difensivo della reclamante secondo cui il descritto operato dell’ufficiale dello stato civile sarebbe stato illegittimo perché in contrasto con le disposizioni previste dalla legge n. 40 del 2004. Quest’ultima non era applicabile nella fattispecie atteso che, se, da un lato, era incontestato che l’accesso alle tecniche fosse avvenuto quando i coniugi erano viventi, dall’altro, era altrettanto pacifico, perché riferito dalla stessa, che l’intervento di fecondazione fosse stato successivo al decesso di suo marito. Inoltre, la Corte di Appello ha affermato che, pure ammettendo che il riconoscimento del rapporto di filiazione tra la bambina nata ed il defunto padre sia solo l’effetto prodotto dall’applicazione della legge spagnola e non comporti la legittimazione alla pratica della fecondazione post mortem, un siffatto riconoscimento, in ogni caso, proprio perché implicante una valutazione in ordine alla validità ed efficacia di alcuni documenti ed alla loro rilevanza probatoria ai fini dell’accertamento dello status, non poteva essere effettuato dall’ufficiale di stato civile, il quale, pertanto, legittimamente aveva applicato le regole generali del codice civile (artt. 231-232), che escludono l’operatività della presunzione di concepimento oltre trecento giorni dalla cessazione del vincolo matrimoniale e precludono l’iscrizione della paternità sulla base delle sole dichiarazioni della madre. Ancora, la Corte di Appello ha considerati tutelati l’interesse ed i diritti del minore sia mediante l’atto di nascita, comunque formato, sia tramite gli strumenti processuali, forniti dall’ordinamento, che permettono di far constatare la paternità e di ottenere l’attribuzione del cognome paterno. Infine, ha ritenuto non ravvisabili i presupposti per sollevare le questioni di legittimità costituzionali dell’art. 232 c.c. e degli artt. 5, 12 e 8 della legge n. 40 del 2004, in ragione del fatto che la mancata previsione della fecondazione assistita post mortem, dalla quale traevano origine i diversi profili di illegittimità costituzionale dedotti, era ricollegabile ad una scelta del legislatore che appariva giustificata dalla esigenza di garantire al nascituro il diritto al benessere psicofisico del medesimo attraverso il suo inserimento e la sua permanenza in un nucleo familiare ove fossero presenti entrambe le figure genitoriali[4].
2. Breve panoramica dei motivi di censura prospettati nel ricorso
La ricorrente censura in Cassazione la violazione e la falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost.[5] e 360, co. 4[6], c.p.c., con riferimento al n. 3[7], in relazione agli artt. 29[8] e 30[9] del d.P.R. n. 396 del 2000, per avere la corte distrettuale erroneamente ritenuto che l’ufficiale di stato civile avesse un potere discrezionale e/o valutativo quanto alla veridicità della dichiarazione della ricorrente afferente la paternità della minore; la violazione e la falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost.[10] e 360, co. 4[11], c.p.c., con riferimento al n. 3[12], in relazione agli artt. 8[13], 5[14] e 12[15] della legge n. 40 del 2004, laddove la medesima corte aveva ritenuto inapplicabile l’art. 8 della legge suddetta, che attribuisce lo status di figlio nato nel matrimonio a quello nato a seguito delle tecniche di fecondazione medicalmente assistita, anche perché, sotto diverso profilo, nessun contrasto con l’ordine pubblico interno è ipotizzabile quanto alla fecondazione post mortem, tecnica praticata in Stati diversi dall’Italia[16]; la violazione e la falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost.[17] e 360, co. 4[18], c.p.c., con riferimento al n. 3[19], in relazione all’art. 232 c.c.[20], perché il decreto impugnato aveva considerato applicabile, nella specie, l’art. 232 c.c., dettato dal codice civile in tema di procreazione naturale biologica, e non la disciplina contenuta nell’art. 8 della legge n. 40 del 2004[21] relativamente allo stato giuridico del nato a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita (da qui, in poi, P.M.A.); la violazione e la falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost.[22] e 360, co. 4, c.p.c.[23], con riferimento al n. 3[24], in relazione agli artt. 3[25], 30[26] e 31 Cost.[27], 10 e 117 Cost.[28] ed 8[29] e 14[30] CEDU, 24[31] della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, 3 della legge n. 176/1991[32], di ratifica della Convenzione di New York, perché la decisione impugnata si rivelava contraria ai principi costituzionali, euro-unitari ed internazionali sulla tutela dei fanciulli e sul prevalente interesse del minore.
Inoltre, la ricorrente ha riproposto in sede di legittimità le eccezioni di incostituzionalità dell’art. 232 c.c.[33], degli artt. 5 e 12 della legge n. 40 del 2004[34], nonché l’art. 8 della medesima legge[35], con riferimento agli artt. 3, 30, co. 1, 31, co. 2 Cost., 8 e 14 CEDU, art. 24, par. 2 della Carta E.U. e art. 3 della Convezione di New York, per interposizione dell’art. 117, co. 1 Cost.[36].
3.Temi trasversali di carattere processuale lambiti ed affrontati dalla Suprema Corte nella pronuncia
Il Procuratore Generale, ai fini della risoluzione del caso de quo, aveva chiesto la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite della Suprema Corte, in considerazione della particolare rilevanza della questione giuridica e della vicenda umana ad essa sottesa, che investe la tematica del procedimento di PAR (postmortem assisted reproduction)[37] e lo stato giuridico del figlio nato postumo.
La Corte, però, ha ritenuto che l’istanza volta all’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite costituisce mera sollecitazione all’esercizio di un potere discrezionale[38], che non è soggetto ad obbligo di motivazione, altresì precisandosi che la funzione nomofilattica è attribuita anche alle sezioni semplici[39].
La Corte, nella sentenza in commento, fa una disamina particolare di tutti quei casi socialmente e/o eticamente sensibili sui quali è intervenuta[40].
Inoltre, ai fini dell’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, sottolinea la Corte, il termine “sentenza” non va inteso nel significato proprio del provvedimento emesso nelle forme e sui presupposti di cui agli artt. 132 e 279 c.p.c., ma deve interpretarsi estensivamente, così da ricomprendervi tutti i provvedimenti giurisdizionali, anche se emessi sotto forma di ordinanza o decreto, ove essi siano decisori, incidenti su diritti soggettivi e con piena attitudine a produrre effetti definitivi di diritto sostanziale e processuale[41].
Altro aspetto rilavante toccato dalla Corte di Cassazione, prima di analizzare l’ammissibilità o meno dei motivi censurati, è quello riguardante la mancata notificazione del ricorso per cassazione al Pubblico Ministero presso il giudice a quo.
La Corte, sul punto, richiama un suo precedente[42], stabilendo che “la mancanza di notifica neppure rende necessaria l’integrazione del contraddittorio tutte le volte che, non avendo il Pubblico Ministero il potere di promuovere il procedimento, le sue funzioni si identificano con quelle svolte dal procuratore generale presso il giudice ad quem e sono assicurate dalla partecipazione di quest’ultimo al giudizio di impugnazione; mentre, la suddetta integrazione è necessaria nelle sole controversie in cui il Pubblico Ministero è titolare del potere di impugnazione, trattandosi di cause che avrebbe potuto promuovere o per le quali il potere di impugnazione è previsto dall’art. 72 c.p.c.”[43].
L’omessa notifica del ricorso per cassazione al Procuratore Generale presso la Corte di Appello non è causa di inammissibilità allorquando il provvedimento impugnato abbia accolto, come nella specie, le richieste di quel Procuratore[44].
4. Quadro sistematico delle fonti normative per la risoluzione del caso concreto
La Corte, prima di affrontare lo scrutinio delle doglianze presentate alla sua attenzione, ha ritenuto opportuno fare una panoramica delle fonti in materia, per favorire una più rapida soluzione del caso concreto.
Per tali ragioni, ha riportato il testo dell’art. 95[45] del d.P.R. n. 396/2000, ritenendo di dover sottolineare che gli artt. 95 e 96[46] del predetto testo legislativo erano già impiantati negli artt. 165 e 178 del r.d. n. 1238 del 1939, poi abrogato. La disciplina, però, non è variata, anzi è rimasta del tutto analoga.
La Suprema Corte, nella sentenza di cui in commento, ha recuperato la motivazione di alcune pronunce precedenti[47], quando era in vigore il r.d. del 1939, attraverso le quali è giunta a dire, nella ricerca dei limiti dell’azione di rettificazione, che essa “non investe, in sé, il fatto contemplato nell’atto dello stato civile, ma la corrispondenza fra la realtà del fatto e la sua riproduzione nell’atto suddetto, cioè il fatto, quale è nella realtà e quale risulta dall’atto dello stato civile. Il non verificarsi di tale corrispondenza può dipendere da un errore materiale o da un qualsiasi vizio che alteri il procedimento di formazione dell’atto, sia esso dovuto al dolo dell’Ufficiale che lo redige o ad un suo errore, anche se scusabile in quanto imputabile ad uno dei soggetti chiamati dalla legge a fornire gli elementi per la compilazione dell’atto. Non interessa, cioè, ai fini dell’ammissibilità del procedimento di rettificazione, la causa che ha determinato la difformità tra la realtà del fatto e la riproduzione che ne è contenuta nell’atto, non essendo dubitabile che i registri dello stato civile, quali fonte delle certificazioni anagrafiche, devono contenere atti esattamente corrispondenti alla situazione quale è o quale dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione della legge…”[48].
Inoltre, l’attenzione è stata soffermata sulla natura degli atti civili[49], che è proprio quella di attestare la veridicità dei fatti menzionati nei relativi registri, ma il sindacato spettante all’ufficiale dello stato civile non è certamente equiparabile a quello dell’autorità giudiziaria in un’azione di stato.
Per quanto concerne, invece, la funzione delle dichiarazioni che si fanno davanti all’ufficiale dello stato civile, queste possono avere la funzione esclusiva di dare “pubblicità notizia” di eventi, come la nascita e la morte, che hanno rilevanza per l’ordinamento dello stato civile per il solo fatto di essersi verificati. Da tali eventi, come documentati nei registri dello stato civile, possono derivare, per effetto di normative particolari, estranee alla disciplina che regola le iscrizioni di dette dichiarazioni, diritti e doveri[50].
In tale caso, grava sull’ufficiale l’obbligo di ricevere quanto riferito dal dichiarante e formare nei suoi registri processo verbale per atto pubblico, senza che a lui competa di stabilire se gli eventi riportati possano essere compatibili con l’ordinamento italiano e se per questo abbiano rilevanza e siano produttivi di diritti e di doveri. Spetterà al giudice pronunciarsi su tali questioni ove su di esse sorga controversia[51].
Altre dichiarazioni, invece, pure rese davanti al medesimo ufficiale, sono, di per se stesse, produttive di effetti giuridici riguardo allo status della persona cui si riferiscono[52]. In questi casi, l’ufficiale dovrà rifiutare di ricevere la dichiarazione ove la ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico[53].
Nel caso di specie, dunque, secondo la Corte, ci furono due distinte dichiarazioni davanti all’ufficiale dello stato civile. La prima riguardante l’evento nascita[54]; l’altra afferente l’indicazione della paternità della neonata, dalla ricorrente attribuita – giusta la documentazione attestante la tecnica della P.M.A., cui si era sottoposta in Spagna, e per effetto della quale era derivata la predetta nascita – al coniuge, deceduto, ma che, prima della sua morte, aveva acconsentito all’accesso alla P.M.A. da parte della moglie, altresì autorizzandola ad utilizzare, post mortem, il suo seme crioconservato.
Non sull’evento nascita l’ufficiale dello stato civile avrebbe potuto stabilirne la sua compatibilità con l’ordinamento italiano o meno, ma, nel secondo caso, invece, ingenerando effetti giuridici riguardo allo status della persona cui era riferita, l’ufficiale avrebbe potuto rifiutare di riceverla, se ritenuta in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico[55].
Per tali ragioni, la Corte opina a discapito della violazione, da parte del giudice di merito, degli articoli denunciati nel primo motivo di ricorso, dovendosi, continua la Corte, piuttosto valutare se il rifiuto oppostole dall’ufficiale di anagrafe abbia determinato, o meno, una discrasia tra la realtà dalla prima complessivamente dichiarata e la sua riproduzione nell’atto di nascita come redatto da quell’ufficiale: vale a dire tra il fatto, quale era stato nella realtà e come, invece, risultava dall’atto dello stato civile[56].
5. Breve excursus giurisprudenziale e dottrinale in tema di fecondazione omologa post mortem, attribuzione del cognome paterno, rettificazione dell’atto di stato civile e presunzione di paternità
Come la Corte, si sente la necessità di mettere in luce alcuni passaggi in tema di fatto. I coniugi, a causa di alcune difficoltà riscontrate nel concepimento di un figlio, avevano deciso di ricorrere alle tecniche di P.M.A. prestando il loro consenso; il coniuge, proprio nel corso della terapia, aveva appreso di essere gravemente malato e, dovendo procedere all’assunzione di farmaci che avrebbero compromesso la sua capacità di generare, aveva reiterato il proprio consenso, con apposita dichiarazione, e, consapevole della sua fine imminente, aveva anche autorizzato la moglie all’utilizzo, post mortem, del proprio seme crioconservato al fine di ottenere una gravidanza con l’ausilio delle tecniche di fecondazione assistita omologa; per realizzare il comune desiderio di procreazione, la ricorrente, dopo la morte del marito, si era sottoposta al trattamento di fecondazione assistita in Spagna dando, poi, alla luce, in Italia, la bambina[57].
Si tratta, dunque, di una nascita derivata da una tecnica di P.M.A. omologa eseguita post mortem, benché acconsentita da entrambi i coniugi anteriormente al decesso del marito della ricorrente, il quale, poco prima di morire, nel ribadire il proprio consenso, aveva altresì autorizzato, al suddetto fine, l’utilizzo del proprio seme crioconservato[58].
L’ufficiale dello stato civile, nonostante la documentazione a corredo, ha rifiutato di trascrivere nell’atto di nascita la paternità del defunto e di attribuire il cognome paterno, ritenendo la dichiarazione della madre contraria all’ordinamento giuridico vigente[59].
Parte assolutamente dirimente del ragionare del giudice di legittimità è indiscutibilmente il passaggio nel quale si sottolinea che la questione non è quella della trascrivibilità in Italia di un atto di nascita redatto in uno dei Paesi che consentono tecniche di fecondazione artificiale di cui si è avvalsa, per esempio, la ricorrente, bensì della possibilità o meno di rettificare un atto di nascita già formato sul territorio nazionale[60].
Altra questione dirimente risulta essere quella secondo cui non si controverte sulla liceità o meno di una simile tecnica, ma esclusivamente quella della corrispondenza tra la realtà del fatto come dichiarato dalla ricorrente all’ufficiale e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo redatto[61].
Il problema centrale, ora, risulta quello di capire quali regole, in tema di presunzione di paternità, si applicano al caso concreto. I meccanismi presuntivi previsti dagli artt. 231-233 c.c. oppure la disciplina della legge n. 40 del 2004?[62]
La risposta della Corte è ben argomentata, partendo addirittura da un’osservazione di carattere sociologico[63], di carattere sistematico[64] e di carattere argomentativo[65].
La Corte, inoltre, si sofferma su un concetto essenziale, ovverosia che la procreazione nella società della globalizzazione presenta un particolare dinamismo, subordinato agli interessi concreti che è volta a soddisfare, che, mediante l’applicazione di tecniche di P.M.A. anche dopo la morte di uno dei due partners, finisce con il superare il confine terreno dell’unità coniugale, ma che, comunque, non può prescindere dall’importante ruolo della “responsabilità” genitoriale, che passa da esercizio di un diritto alla procreazione allo svolgimento di una “funzione” genitoriale[66].
Nel caso affrontato dalla Corte di legittimità, si è verificata una causa di scioglimento del matrimonio (morte del coniuge), dunque, si pone il problema circa la verificazione della paternità della figlia, soprattutto in connessione con il tempo di trecento giorni (termine dal quale non opera la presunzione)[67].
Se si applicassero le regole generali, l’atto di nascita non troverebbe corrispondenza con la realtà; se, a contrario, si applicasse la disciplina dello status del figlio nato dalla tecnica di P.M.A. (anche se post mortem), la corrispondenza tra quanto dichiarato e quanto contenuto nell’atto è perfettamente coincidente.
A questa soluzione arriva la Corte, in maniera più lenta, in quanto bisognosa di inquadrare, ancora una volta, le fonti normative di riferimento, specie gli artt. 8[68] e 9[69] della legge 40 del 2004, soprattutto alla luce delle modifiche intervenute con la pronuncia della Corte Costituzionale[70].
Passaggio determinante dell’argomentazione del Giudice di legittimità è rappresentato dal fatto che qualsivoglia considerazione riguardante la valutazione in termini di illiceità/illegittimità, in Italia, della tecnica di P.M.A post mortem, oltre che, eventualmente, delle condotte di coloro che ne consentono l’accesso o l’applicazione, non potrebbe certamente riflettersi, in negativo, sul nato e sull’intero complesso dei diritti a lui riconoscibili. La circostanza che si sia fatto ricorso all’estero alla P.M.A. non espressamente disciplinata nel nostro ordinamento non esclude, ma anzi impone, nel preminente interesse del nato, l’applicazione di tutte le disposizioni che riguardano lo stato del figlio venuto al mondo all’esito di tale percorso[71].
Occorre, dunque, stabilire se la disciplina della filiazione nella procreazione medicalmente assistita configuri un sistema alternativo rispetto a quello codicistico, in ragione della peculiarità della tecnica de qua, o si inserisca in quest’ultimo che regola la filiazione da procreazione naturale attraverso la previsione di specifiche eccezioni[72].
Altro passaggio fondamentale, ad avviso del commentatore, è rappresentato dal fatto che la Corte affermi che ormai figlio non è solo chi nasce da un atto naturale di concepimento, ma anche colui che venga al mondo a seguito di fecondazione assistita (omologa o eterologa che sia, nei limiti imposti dalla Corte Costituzionale) o colui che sia tale per effetto di adozione: ciò dimostra che i confini una volta ritenuti invalicabili del principio tradizionale della legittimità delle filiazione sono ormai ampiamente in discussione. In base agli artt. 2 e 30 della Costituzione, infatti, il nato ha diritto, oltre che di crescere nella propria famiglia, di avere certezza della propria provenienza biologica, rivelandosi questa come uno degli aspetti in cui si manifesta la sua identità personale[73].
È necessario rimarcare, soprattutto a livello dottrinale, la duplicità di visioni sulla alternatività della disciplina o sulla sua generalità.
Un primo filone fonda tutto sul consenso dato dal coniuge o dal convivente alla fecondazione artificiale[74]. Questo consenso avrebbe un significato diverso dalla nozione di “consenso informato”[75] al trattamento medico e governerebbe lo status identificando la maternità e la paternità del nato nella forma più ampia e certa, senza bisogno di ulteriori manifestazioni di volontà.
Per altri, invece, il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale non inciderebbe direttamente sull’attribuzione dello status di figlio, ma avrebbe solo la funzione di consentire al figlio di identificare il proprio genitore grazie all’assenso da lui prestato alla P.M.A.[76].
Un simile dilemma interpretativo, afferma la Corte nella sentenza in commento, produce i suoi effetti anche sullo status del figlio nel caso di fecondazione medicalmente assistita post mortem, laddove si potrebbero verificare alcune ipotesi: il prelievo del seme dal cadavere dell’uomo; l’inseminazione artificiale della donna con seme crioconservato, prelevato dal partner prima del decesso; infine, l’impianto, nel corpo della donna, dell’embrione formatosi quando entrambi i componenti della coppia erano in vita[77].
L’art. 5 della legge n. 40 del 2004, dunque, sembra escludere che possa ricorrere alla tecnica una donna vedova, sotto pena di sanzioni amministrative, e tanto, come pure si è autorevolmente sostenuto[78], allo scopo di evitare i pregiudizi che al minore potrebbero eventualmente derivare a causa della mancanza della figura paterna[79].
Ulteriore problema è se il figlio, venuto alla luce attraverso procreazione assistita post mortem, sia nato oltre i trecento giorni dalla morte del padre. Le opinioni sono varie[80].
La Corte, inoltre, richiama l’art. 9, co. 1 della legge n. 40 del 2004, il quale stabilisce che il marito o il convivente non possa esercitare l’azione di disconoscimento della paternità o l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità purché il suo consenso sia ricavabile da atti concludenti. Proprio questo richiamo agli atti concludenti costituisce un argomento significativo per ritenere, fondatamente, che questi stessi atti siano idonei a maggior ragione a dimostrare il consenso alle pratiche lecite di procreazione assistita omologa, essendo innegabile che la genitorialità di cui al citato art. 8 spetti alla coppia, coniugata o convivente, che abbia voluto congiuntamente accedere alla tipologia di P.M.A. consentita anche nel nostro ordinamento[81].
L’art. 8 della legge n. 40 del 2004 esprime l’assoluta centralità del consenso come fattore determinante la genitorialità in relazione ai nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di P.M.A.. La norma non contiene alcun richiamo ai suoi precedenti artt. 4 e 5, con i quali si definiscono i confini soggettivi dell’accesso alla P.M.A., così dimostrando una sicura preminenza della tutela del nascituro[82], sotto il peculiare profilo del conseguimento della certezza dello status filiationis, rispetto all’interesse, pure perseguito dal legislatore, di regolare rigidamente l’accesso a tale diversa modalità procreativa[83].
6. Bilanciamento dei diritti: prevale il diritto al concepimento, dunque, alla vita o il diritto alla genitorialità?
La Corte, nei passaggi immediatamente successivi della sentenza, opina che sia possibile l’applicazione della disciplina dell’art. 8 della legge n. 40 del 2004 anche alla specifica ed affatto peculiare ipotesi di cui si parla, apparendo del tutto ragionevole la conclusione che il nato, allorquando il marito (e, sempre in un’ottica sistematica, il convivente) sia morto dopo aver prestato il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ai sensi dell’art. 6 della medesima legge e prima della formazione dell’embrione avvenuta con il proprio seme precedentemente crioconservato sia da considerarsi figlio nato nel matrimonio della coppia che ha espresso il consenso medesimo prima dello scioglimento, per effetto della morte del marito, del vincolo nuziale. In tal caso, benché manchi il requisito della esistenza in vita di tutti i soggetti al momento della fecondazione dell’ovulo, deve ritenersi che, una volta avvenuta la nascita, il figlio possa avere come padre colui che ha espresso il consenso ex art. 6 della legge predetta, senza mai revocarlo, dovendosi individuare in questo preciso momento la consapevole scelta della genitorialità[84].
A questa soluzione, aggiunge la Corte, nemmeno sembra di assoluto ostacolo l’assunto secondo cui l’ordinamento deve proteggere l’infanzia garantendo il diritto ad avere una famiglia composta da due figure genitoriali, nel chiaro intento positivo di considerare prevalente la tutela del nascituro rispetto alla genitorialità[85].
Al contrario, si può osservare che la limitazione della donna, nella specifica situazione in cui era venuta a trovarsi la ricorrente, all’accesso alla tecnica cui ella si era poi sottoposta non è funzionale a far prevalere l’interesse del nascituro a venire al mondo in una famiglia che possa garantire l’esistenza e l’educazione, perché l’alternativa è il non nascere affatto; parimenti, l’affermazione che nascere e crescere con un solo genitore integri una condizione esistenziale negativa non sembra potersi enfatizzare al punto da preferire la non vita[86].
Al contrario, ancora, l’interesse del nato, nella specie, è quello di acquisire rapidamente la certezza della propria discendenza biologica, elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identità[87].
La Corte, dopo questo importante passaggio, ha avuto modo di riflettere sul concetto di famiglia, che non può più essere solo quella del codice civile del 1942. Il fenomeno dell’emersione, afferma la Corte, di diverse relazioni intersoggettive nelle relazioni affettive è, del resto, in progressiva evoluzione, così da richiedere una tutela sistematica dei fenomeni prima sconosciuti o ritenuti minoritari, imponendo soluzioni capaci di emanciparsi da quei modelli tradizionali che rischiano, ormai, di rivelarsi inadeguati rispetto ai primi[88].
La Corte, quasi nelle battute finali del suo percorso logico-argomentativo, stabilisce che occorre applicare la disciplina contenuta nell’art. 8 della legge n. 40 del 2004, senza poter fare riferimento alla presunzione stabilita dall’art. 232 c.c., che, di per sé, non può costituire ostacolo all’attribuzione al nato a seguito di fecondazione omologa eseguita post mortem dello status di figlio del marito deceduto, anche se la nascita sia avvenuta dopo il decorso del termine di trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio conseguente alla sua morte[89].
Per poter affermare, dunque, che la figlia, nel caso di specie, sia del marito deceduto della ricorrente, deve esistere il presupposto fondamentale previsto dal suddetto art. 8, vale a dire il consenso espresso congiuntamente dai coniugi al ricorso alle tecniche di P.M.A., secondo quanto stabilito dall’art. 6 delle legge medesima, e mantenuto dal marito fino alla data della sua morte. Il consenso, a norma dell’art. 9 della legge stessa, può essere ricavabile anche da atti concludenti[90].
Lo status filiationis va determinato verificando solamente se effettivamente il coniuge o il convivente abbia prestato il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita anche solo mediante atti concludenti, e se tale consenso, integrato da quello riguardante anche la possibilità di utilizzo del proprio seme post mortem, sia effettivamente persistito fino al momento ultimo entro il quale lo stesso poteva essere revocato, non ravvisandosi valide ragioni per ritenere, a contrario, che il consenso peculiarmente espresso per un atto da compiersi dopo la morte perda efficacia al verificarsi di detto evento[91].
7. I principi di diritto a cui approda la pronuncia in esame
Volendo fare una sintesi, e volendo prendere spunto dalla parte finale della sentenza che qui si sta commentando, si può affermare che: “le dichiarazioni rese all’ufficiale dello stato civile, se dirette esclusivamente a dare pubblica notizia di eventi, quali la nascita o la morte, rilevanti per l’ordinamento dello stato civile per il solo fatto di essersi verificati, impongono al menzionato ufficiale di riceverle e formarne nei suoi registri processo verbale per atto pubblico, senza che gli spetti di stabilire la compatibilità, o meno, di detti eventi con l’ordinamento italiano e se, per questo, abbiano rilevanza e siano produttivi di diritti e doveri. Diversamente, qualora, tali dichiarazioni siano, di per se stesse, produttive di effetti giuridici riguardo allo status della persona cui si riferiscono, l’ufficiale dovrà rifiutare di riceverle ove le ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico”; inoltre, “il procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile, disciplinato dall’art. 96 del d.P.R. n. 396 del 2000, è ammissibile ogni qualvolta sia diretto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo le previsioni di legge, e come risulta dall’atto dello stato civile per un vizio, comunque o da chiunque originato, nel procedimento di formazione di esso. In tale procedimento, l’autorità giudiziaria dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo, potendo, così, a tale limitato fine, avvalersi di tutte le risorse istruttorie fornitele dalla parte”; infine, “l’art. 8 della legge n. 40 del 2004, recante lo status giuridico del figlio nato a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, è riferibile anche all’ipotesi di fecondazione omologa post mortem avvenuta mediante l’utilizzo del seme crioconservato di colui che, dopo aver prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ai sensi dell’art. 6 della medesima legge, e senza che ne risulti la sua successiva revoca, sia poi deceduto prima della formazione dell’embrione avendo altresì autorizzato, per dopo la propria morte, la moglie o la convivente all’utilizzo suddetto. Ciò pure quando la nascita avvenga oltre i trecento giorni dalla morte del padre”[92].
8. Critiche e osservazioni mosse dalla dottrina e visione comparatistica
Sul tema e sulla pronuncia di cui in commento, tante sono state le osservazioni e tante, ancora, le critiche, che, qui, si cercherà di sintetizzare, senza pretesa di opinare sulla validità o meno delle stesse.
In merito all’ammissibilità della fecondazione post mortem, si vuole soffermare l’attenzione su di una rilevante pronuncia del Tribunale di Palermo[93].
Inoltre, in relazione alla rilevanza dell’esistenza in vita dei coniugi, si richiama una sentenza del T.A.R. Lazio[94].
Tra i primi commentatori della sentenza de qua, vi è chi plaude per aver messo a tacere una questione spinosa, ma, allo stesso tempo critica, per non aver dato nemmeno un piccolo spiraglio per una possibile illegittimità costituzionale degli articoli che vietano la pratica, nel nostro ordinamento, della fecondazione assistita post mortem[95].
Va detto, però, a tal proposito, che la Corte, nella sentenza in commento, ha più volte fatto presente che non si discuteva della “liceità/ammissibilità – illeceità/inammissibilità” della pratica in Italia, ma solo ed esclusivamente di un problema attinente alla rettificazione dell’atto dello stato civile e della disciplina della presunzione di paternità, ormai agganciata al meccanismo di cui all’art. 8 della legge n. 40 del 2004.
Vi è, poi, chi ritiene che la Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, avrebbe potuto fare qualcosa in più. Però è stata ritenuta degna di nota nella parte in cui la sentenza ha enfatizzato l’interesse preminente del minore[96].
Ancora, tra alcuni commenti risalenti nel tempo, ci sono quelli che sono stati lungimiranti[97].
A proposito dell’ammissibilità o meno, nel nostro ordinamento, della pratica di fecondazione post mortem, comunque vietata, per una visione di carattere sistematico-comparatistica, si sente la necessità di capire come gli altri ordinamenti (sia di civil law che di common law) si muovono in tal senso.
La legge francese, nell’imporre che membri della coppia siano entrambi viventi, vieta l’inseminazione o il transfer di embrioni post mortem e considera privo di effetto il consenso del partner nel caso in cui lo stesso muoia “prima della realizzazione della procreazione medicalmente assistita”, con la conseguenza che non gli potrà essere attribuita la paternità del bambino in tal modo concepito[98].
In Inghilterra, invece, la legge del 1990[99], relativa alla fecondazione e all’embriologia umana, autorizza l’inseminazione artificiale ed il trasferimento degli embrioni post mortem, purché le persone interessate chiariscano la sorte che intendono riservare ai propri gameti e agli embrioni in caso di morte. La richiamata disciplina normativa esclude, però, che, nell’ipotesi di utilizzo post mortem dei propri gameti, venga riconosciuta la paternità del genitore[100].
In Grecia, per esempio, dopo la morte del partner, è consentita la procreazione post mortem, previa autorizzazione di un Tribunale e a condizione che il coniuge/compagno soffra già in vita di una malattia che ne comprometta la fertilità o la vita e che abbia acconsentito per iscritto alla tecnica in oggetto[101].
Ulteriore elemento di comparazione, può essere quello dell’ordinamento spagnolo, nel quale la fecondazione omologa, se effettuata non più di sei mesi dopo la morte del marito (o convivente), risulta pienamente legittima. La paternità viene sempre attribuita all’uomo deceduto, a condizione che questi abbia prestato il proprio consenso con atto pubblico o nel testamento[102], esattamente come è avvenuto nel caso di specie.
La pratica della fecondazione post mortem è vietata dalla legge danese[103], da quella svizzera[104] ed è addirittura sanzionata penalmente dalla legge tedesca[105].
9. Conclusioni
La sentenza, che fin qui si è commentata, ha di certo messo un po’ di cosmos in un caos normativo e giurisprudenziale.
Sicuramente va sostenuta e avallata questa decisione, soprattutto perché supera delle concezioni dottrinali che non sono mai state chiare e unanimi.
Rispetto a quanto qualcuno ha scritto[106], si reputa assolutamente irrilevante, ai fini della presente decisione, l’implicazione che un simile principio di diritto possa avere con il divieto di maternità surrogata.
Si sente, però, la necessità di porre, soprattutto a conclusione del commento, l’attenzione su un problema particolare: il caso di fecondazione post mortem senza consenso del coniuge o del convivente. In astratto, l’interprete può intendere il silenzio del legislatore in tre diversi sensi: per un verso, quella tecnica normativa volta ad escludere l’attribuzione di un rapporto di filiazione ove non vi sia consenso[107]; per altro verso, quale richiamo meccanico della disciplina generale della filiazione, applicando le regole della filiazione legittima solo se operano le presunzioni e consentendo altrimenti il rapporto di filiazione naturale[108]; infine, quale indice della sussistenza di una lacuna, da colmare in via analogica[109].
Chi commenta reputa assolutamente fondante, come ha espresso bene la sentenza in commento, il preminente interesse del minore, in un’ottica di prevalenza del diritto al concepimento, dunque, alla vita, rispetto al diritto alla genitorialità[110].
In via conclusiva, si può certamente affermare che l’interprete che intenda ricondurre ad un sistema coerente la disciplina sulla filiazione nella procreazione medicalmente assistita e delle sue implicazioni, sia con i principi generali della stessa legge speciale (legge n. 40 del 2004), sia con le logiche sottostanti la disciplina generale della filiazione, è invece costretto a registrare, e forse ad accentuare, l’isolamento della disciplina italiana rispetto al contesto europeo e internazionale[111].
Rimane sempre fondamentale il contributo di giurisprudenza e dottrina in materia, data la vaghezza e la formulazione largamente inadeguata della legge, nonché le ampie lacune in essa presenti.
Sta di fatto che, grazie all’ausilio e all’apporto decisamente pretorio della giurisprudenza di legittimità, si deve constatare che la legge sulla procreazione medicalmente assistita esprime un modello di legislatore, non solo poco attento, ma anche profondamente ambiguo, che ancora una volta adotta tecniche di normazione[112] che hanno caratterizzato la legge sulla interruzione volontaria di gravidanza[113]: enuncia principi etici che richiamano il diritto naturale[114], ma adotta soluzioni che sembrano andare di verso contrario.
Il freno, in special modo in questo periodo storico, è dato dalla giurisprudenza, soprattutto rappresentata dal Giudice di legittimità, che, con tanta pazienza e tanta passione, mette “toppe” alle buche profondamente provocate dal legislatore sul sentiero dell’ordinamento.
Lo si ribadisce anche a chiosa del presente lavoro: il diritto ha necessità di farsi comprendere e non di farsi notare[115].
[1] Dottorando di ricerca in Scienze giuridiche presso l’Università degli studi di Salerno e Tirocinante ammesso presso la Suprema Corte di Cassazione (sez. I civile).
[2] Per un inquadramento più sistematico del fatto, vedi la sentenza di cui in commento, p. 2, § 1.
[3] Vedi, a tal proposito, la sentenza di cui in commento, specie pp. 2-3, § 1.1.
[4] Per avere una completezza del fatto in questione, si rinvia alla sentenza, pp. 3-5, in particolar modo § 1.2.
[5] Si consenta riportare il testo della norma costituzionale, soprattutto il comma 7, secondo il quale: “Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge”.
[6] Il quarto comma dell’art. 360 c.p.c. statuisce che: “Le disposizioni di cui al primo comma e terzo comma si applicano alle sentenze ed ai provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge”.
[7] Solo per completezza, si riporta il testo dell’art. 360, co. 3 c.p.c., secondo cui è possibile proporre ricorso per Cassazione “per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro”.
[8] Per una contezza dell’istituto in esame, si riporta il contenuto integrale dell’art. 29 del d.P.R. menzionato, in tema di atto di nascita, a mente del quale: “1. La dichiarazione di nascita è resa nei termini e con le modalità di cui all’articolo 30. 2. Nell’atto di nascita sono indicati il luogo, l’anno, il mese, il giorno e l’ora della nascita, le generalità, la cittadinanza, la residenza dei genitori legittimi nonché di quelli che rendono la dichiarazione di riconoscimento di filiazione naturale e di quelli che hanno espresso con atto pubblico il proprio consenso ad essere nominati, il sesso del bambino e il nome che gli viene dato ai sensi dell’articolo 35. 3. Se il parto è plurimo, se ne fa menzione in ciascuno degli atti indicando l’ordine in cui le nascite sono seguite. 4. Se il dichiarante non dà un nome al bambino, vi supplisce l’ufficiale dello stato civile. 5. Quando si tratta di bambini di cui non sono conosciuti i genitori, l’ufficiale dello stato civile impone ad essi il nome ed il cognome. 6. L’ufficiale dello stato civile accerta la verità della nascita attraverso l’attestazione o la dichiarazione sostitutiva di cui all’articolo 30, commi 2 e 3. 7. Nell’atto di nascita si fa menzione del modo di accertamento della nascita”.
[9] In merito alla dichiarazione della nascita, invece, l’art. 30 del d.P.R. menzionato stabilisce che: “1. La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata. 2. Ai fini della formazione dell’atto di nascita, la dichiarazione resa all’ufficiale dello stato civile è corredata da una attestazione di avvenuta nascita contenente le generalità della puerpera, nonché le indicazioni del comune, ospedale, casa di cura o altro luogo ove è avvenuta la nascita, del giorno e dell’ora della nascita e del sesso del bambino. 3. Se la puerpera non è stata assistita da personale sanitario, il dichiarante che non è neppure in grado di esibire l’attestazione di constatazione di avvenuto parto, produce una dichiarazione sostitutiva resa ai sensi dell'articolo 2 della legge 4 gennaio 1968, n. 15. 4. La dichiarazione può essere resa, entro dieci giorni dalla nascita, presso il comune nel cui territorio è avvenuto il parto o in alternativa, entro tre giorni, presso la direzione sanitaria dell’ospedale o della casa di cura in cui è avvenuta la nascita. In tale ultimo caso la dichiarazione può contenere anche il riconoscimento contestuale di figlio naturale e, unitamente all’attestazione di nascita, è trasmessa, ai fini della trascrizione, dal direttore sanitario all’ufficiale dello stato civile del comune nel cui territorio è situato il centro di nascita o, su richiesta dei genitori, al comune di residenza individuato ai sensi del comma 7, nei dieci giorni successivi, anche attraverso la utilizzazione di sistemi di comunicazione telematici tali da garantire l’autenticità della documentazione inviata secondo la normativa in vigore. 5. La dichiarazione non può essere ricevuta dal direttore sanitario se il bambino è nato morto ovvero se è morto prima che è stata resa la dichiarazione stessa. In tal caso la dichiarazione deve essere resa esclusivamente all’ufficiale dello stato civile del comune dove è avvenuta la nascita. 6. Ai fini dell’applicazione delle disposizioni del presente articolo, gli uffici dello stato civile, nei loro rapporti con le direzioni sanitarie dei centri di nascita presenti sul proprio territorio, si attengono alle modalità di coordinamento e di collegamento previste dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui all’articolo 10, comma 2. 7. I genitori, o uno di essi, se non intendono avvalersi di quanto previsto dal comma 4, hanno facoltà di dichiarare, entro dieci giorni dal parto, la nascita nel proprio comune di residenza. Nel caso in cui i genitori non risiedano nello stesso comune, salvo diverso accordo tra di loro, la dichiarazione di nascita è resa nel comune di residenza della madre. In tali casi, ove il dichiarante non esibisca l’attestazione della avvenuta nascita, il comune nel quale la dichiarazione è resa deve procurarsela presso il centro di nascita dove il parto è avvenuto, salvo quanto previsto al comma 3. 8. L’ufficiale dello stato civile che registra la nascita nel comune di residenza dei genitori o della madre deve comunicare al comune di nascita il nominativo del nato e gli estremi dell’atto ricevuto”.
[10] Si faccia riferimento alla nota n. 4.
[11] Si faccia riferimento alla nota n. 5.
[12] Anche a tal proposito, si rimanda alla nota n. 6.
[13] La norma dispone in tema di stato giuridico del figlio e stabilisce che:“1. I nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’articolo 6”.
[14] La norma in esame attiene ai requisiti soggettivi e dispone che: “1. Fermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”.
[15] La norma citata, invece, dispone in tema di sanzioni, e stabilisce che: “1. Chiunque a qualsiasi titolo utilizza a fini procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente, in violazione di quanto previsto dall’articolo 4, comma 3, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 300.000 a 600.000 euro. 2. Chiunque a qualsiasi titolo, in violazione dell’articolo 5, applica tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie i cui componenti non siano entrambi viventi o uno dei cui componenti sia minorenne ovvero che siano composte da soggetti dello stesso sesso o non coniugati o non conviventi è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro. 3. Per l’accertamento dei requisiti di cui al comma 2 il medico si avvale di una dichiarazione sottoscritta dai soggetti richiedenti. In caso di dichiarazioni mendaci si applica l’articolo 76, commi 1 e 2, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. 4. Chiunque applica tecniche di procreazione medicalmente assistita senza avere raccolto il consenso secondo le modalità di cui all’articolo 6 è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 50.000 euro. 5. Chiunque a qualsiasi titolo applica tecniche di procreazione medicalmente assistita in strutture diverse da quelle di cui all’articolo 10 è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100.000 a 300.000 euro. 6. Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro. 7. Chiunque realizza un processo volto ad ottenere un essere umano discendente da un’unica cellula di partenza, eventualmente identico, quanto al patrimonio genetico nucleare, ad un altro essere umano in vita o morto, è punito con la reclusione da dieci a venti anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro. Il medico è punito, altresì, con l’interdizione perpetua dall’esercizio della professione. 8. Non sono punibili l’uomo o la donna ai quali sono applicate le tecniche nei casi di cui ai commi 1, 2, 4 e 5. 9. È disposta la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti di cui al presente articolo, salvo quanto previsto dal comma 7. 10. L’autorizzazione concessa ai sensi dell’articolo 10 alla struttura al cui interno è eseguita una delle pratiche vietate ai sensi del presente articolo è sospesa per un anno. Nell’ipotesi di più violazioni dei divieti di cui al presente articolo o di recidiva l’autorizzazione può essere revocata”.
[16] Per una completezza di indagine fattuale, si consenta rinviare alla sentenza di cui in commento, specificamente p. 6, § 1 delle “ragioni della decisione”.
[17] Vedi nota n. 4.
[18] Vedi nota n. 5.
[19] Vedi nota n. 6.
[20] La lettera dell’art. 232 c.c. impone che: “1. Si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio. 2. La presunzione non opera decorsi trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale, o dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla data della comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione o dei giudizi previsti nel comma precedente”.
[21] Vedi, a tal proposito, nota n. 12.
[22] Vedi nota n. 4.
[23] Vedi nota n. 5.
[24] Vedi nota n. 6.
[25] L’art. 3 Cost. statuisce che: “1. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso , di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. 2. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
[26] Per avere un quadro sistematico delle fonti, si consenta riportare il contenuto della norma costituzionale, secondo cui: “1. È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. 2. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. 3. La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. 4. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”.
[27] L’art. 31 Cost., invece, stabilisce che: “1. La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. 2. Protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”.
[28] Gli artt. 10 e 117 Cost. sono le norme legittimanti l’ingresso delle fonti europee ed internazionali nel nostro ordinamento.
[29] L’art. 8 della CEDU, in tema di diritto al rispetto della vita privata e familiare, stabilisce che: “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
[30] L’art. 14 della CEDU, invece, afferma il principio di non discriminazione, secondo cui: “1. Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.
[31] L’art. 24 della Carta U.E. dispone, in tema di diritti del bambino, che: “1. I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere. Essi possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità. 2. In tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente”.
[32] L’art. citato statuisce, infine, che: “1. In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente. 2. Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, e a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi appropriati. 3. Gli Stati parti vigilano affinché il funzionamento delle istituzioni, servizi e istituti che hanno la responsabilità dei fanciulli e che provvedono alla loro protezione sia conforme alle norme stabilite dalle Autorità competenti in particolare nell’ambito della sicurezza e della salute e per quanto riguarda il numero e la competenza del loro personale nonché l’esistenza di un adeguato controllo”.
[33] L’art. 232 c.c. sarebbe incostituzionale nella parte in cui non prevede la presunzione di concepimento durante il matrimonio anche per i figli nati con il ricorso alle tecniche di P.M.A post mortem.
[34] Questi articoli, invece, sarebbero incostituzionali nella parte in cui non prevedono, per un tempo ragionevole di almeno un anno dal decesso, la fecondazione assistita post mortem.
[35] Questo, ancora, cozzerebbe con i principi costituzionali perché non riconosce lo status di figlio nato nel matrimonio e riconosciuto dalla coppia che ha espresso il consenso per le tecniche di P.M.A. a seguito di fecondazione post mortem.
[36] In tali termini, per una più compiuta disamina degli aspetti relativi all’illegittimità costituzionale posta all’attenzione della Suprema Corte, si consenta rinviare alla sentenza di cui in commento, specie pp. 5-7, § 1 della parte relativa alle “ragioni della decisione”.
[37] Senza pretesa di esaustività, su questo delicatissimo tema, si consenta rinviare a M. Kruger, The prohibition of post-mortem fertilitation, legal situation in Germany and European Convention on human rights, in Revue international de droit penal, 2011/1-2, vol. 82, pp. 41-64; D. Eduardo, V.L. Raposo, Legal aspects of post-mortem reproduction: a comparative perspective of French, Brazilian and Portuguese legal system, in US National Library of Medicine National Institutes of Health, giugno 2012, p. 98; Idem, in Medicine and Law, 2012, pp. 181-198; A.C. Anitei, Post mortem Assisted Reproduction Technology (Art) and The Particular case of the Will in Romania, in Contemporary Legal Institutions, 2014, vol. 6/1, pp. 133-140; A.K. Sikary, O.P.Murty, R.V. Bardole, Postmortem sperm retrieval in context of developing countries of Indian subcontinent, in Journal of Human Reproductive Sciences, 2016, vol 9/6, pp. 82-85; A.K. Sikary, O.P. Murty, R.V. Bardole, in US National Library of Medicine National Institutes of Health, aprile-giugno 2016, p. 82; S. Shelly, Creating life after death: should posthumous reproduction be legally permissible without deceased’s prior consent?, in US National Library of Medicine National Institutes of Health, agosto 2018, p. 329.
[38] A tal proposito, è necessario rinviare a, ex aliis, Cass. n. 14878/2017; Cass. n. 19599/2016; Cass. n. 12962/2016; Cass. n. 8016/2012; Cass. n. 359/2003.
[39] Come sottolinea la Corte, nella sentenza, specie a p. 7, è agevole che dall’art. 375, ult. co., c.p.c. emerge una simile lettura, applicabile ratione temporis.
[40] Per esempio, ed è importante, solo in un’ottica sistematica e bibliografica-giurisprudenziale, richiamare il tema delle direttive di fine vita (Cass. n. 21748/2007); i limiti al riconoscimento giuridico delle unioni omo-affettive (Cass. n. 4184/2012 e Cass. n. 2004/2015); l’adozione da parte della persona singola (Cass. n. 6078/2006 e Cass. n. 3572/2011); la surrogazione di maternità nella forma della gestazione affidata a terzi (Cass. n. 24001/2014); l’adozione in casi particolari (Cass. n. 12962/2016); la trascrizione, nei registri dello stato civile italiano, di un atto di nascita estero recante l’indicazione di una doppia maternità (Cass. n. 19599/2016), rettificazione di atto di nascita indicante due genitori dello stesso sesso (Cass. n. 14878/2017), esattamente come ha fatto la sentenza di cui in commento, specie a p. 8.
[41] Vedi, in particolar modo, p. 8 della sentenza in commento, laddove riporta tutta una serie di pronunce di legittimità sul tema. Per esempio, si consenta rinviare a Cass. n. 212/2019; Cass. n. 14878/2017; Cass. SU n. 27073/2016; Cass. n. 11218/2013; Cass. SU n. 9042/2008; Cass. n. 184/2003. Ovvio è che, nel caso di specie, ci sia il carattere decisorio e l’incidenza su diritti soggettivi.
[42] Vedi, in tal senso, Cass. n. 3556/2017.
[43] In tale direzione, vedi anche Cass., SU, n. 9743/2008.
[44] Sul punto, vedi specificamente la sentenza in commento, p. 10, §§ 4.1 e 4.2, laddove si richiamano anche Cass. n. 11211/2014, Cass. n. 5953/2008; Cass. n. 18513/2003.
[45] La norma prevede che: “1. Chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende opporsi a un rifiuto dell'ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l’atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento. 2. Il procuratore della Repubblica può in ogni tempo promuovere il procedimento di cui al comma 1. 3. L’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale”.
[46] Tale norma, invece, ne detta il procedimento, stabilendo che: “1. Il tribunale può, senza particolari formalità, assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello stato civile. 2. Il tribunale, prima di provvedere, deve sentire il procuratore della Repubblica e gli interessati e richiedere, se del caso, il parere del giudice tutelare. 3. Sulla domanda il tribunale provvede in camera di consiglio con decreto motivato. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile nonché, per quanto riguarda i soggetti cui non può essere opposto il decreto di rettificazione, l’articolo 455 del codice civile”.
[47] Vedi, Cass. n. 4922/1978; Cass. n. 7530/1986.
[48] Questo principio, come chiarisce la sentenza in commento, specie p. 12, § 5.3, è stato recepito anche da Cass. n. 21094/2009, con specifico riferimento agli artt. 95 e 96 del d.P.R. n. 396/2000.
[49] Vedi, a tale riguardo, specificamente p. 13, § 5.3.1 della sentenza in esame.
[50] Vedi specificamente p. 14, § 6.1 della sentenza de qua.
[51] Questo è l’assunto a cui perviene la sentenza. Vedi p. 14, specie § 6.1.1.
[52] La distinzione è assai chiarificatrice. Vedi, soprattutto, p. 15, §§ 6.2 e 6.2.1. della sentenza in esame.
[53] In tal senso, vedi l’art. 7 del d.P.R. n. 396/2000.
[54] A tal proposito, è utile, esattamente come fa la Corte a p. 15, § 6.3 della sentenza di cui in commento, richiamare l’attenzione sull’art. 30 d.P.R. n. 396/2000.
[55] Si rinvia all’art. 7 del d.P.R. n. 396/2000.
[56] Vedi, più compiutamente, p. 16, § 6.3.3. della sentenza de qua.
[57] Vedi, p. 15, § 6.3 della sentenza.
[58] Vedi, altresì, p. 16, § 7.1.1. della sentenza de qua.
[59] Quest’ultimo elemento è stato già riferito precedentemente, ma la Corte lo affronta varie volte. Vedi p. 17, § 7.2 della sentenza medesima.
[60] Più nello specifico, il tema predetto è affrontato a p. 17, § 7.2.1. della sentenza.
[61] Vedi, a tal fine, p. 17, § 7.3 della sentenza.
[62] Il quesito non è posto in questi termini, ma si comprende perfettamente che il nocciolo duro della questione, per la Corte, risulta tutto in questo domanda. Si veda, infatti, per completezza, p. 18, § 7.3.1. della sentenza stessa.
[63] Vedi, a tal punto, p. 18, § 7.3.2. della sentenza, in cui la Corte focalizza l’attenzione sul rilevo attribuito dalla società odierna ai bisogni che un tempo erano ignoti, non prevedibili ed ancora non regolamentati dal legislatore, nazionale o sovranazionale.
[64] In tal senso, infatti, la Corte, sempre nello stesso paragrafo, sottolinea il dialogo tra le Corti supreme degli Stati europei ed extraeuropei, con i quali si condividono i principi assiologici dei diritti fondamentali della persona, nonché quello con la Corte EDU e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha determinato la costituzione di una circolarità di approdi interpretativi che prendono spunti da aspetti diversi dell’esperienza giuridica.
[65] A tal uopo, sempre nel paragrafo citato, la Corte si focalizza sulla considerazione delle tecniche di P.M.A. come un metodo alternativo al concepimento naturale, oppure alla stregua di un trattamento sanitario volto a sopperire una problematica di natura medica che colpisce uno, o entrambi, i componenti della coppia.
[66] Questa argomentazione, che sembra essere del tutto contestualizzata, non appare, per l’appunto, assolutamente retrograda, acritica, asfittica o, addirittura, anacronistica. La Corte ha voluto mettere in evidenza come, anche l’istituto della responsabilità genitoriale, in un’ottica di globalizzazione rapida e repentina, si trasformi e muti i sui connotati velocemente. Non è più una categoria o, se lo è, lo è nei gangli del contesto storico-sociale-culturale, fuggevole e liquido.
[67] Più accuratamente il passaggio lo si rinviene alle pp. 19-20, §§ 7.4 e 7.5 della sentenza de qua.
[68] L’art. 8, come già ricordato in precedenza, stabilisce che: “1. I nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell'articolo 6”.
[69] L’art . 9, invece, come già detto, dispone che: “1. Qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all'articolo 4, comma 3, il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall'articolo 235, primo comma, numeri 1) e 2), del codice civile, né l’impugnazione di cui all’articolo 263 dello stesso codice. 2. La madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non può dichiarare la volontà di non essere nominata, ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396. 3. In caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi”.
[70] Vedi Corte Cost., sentenza n. 162/2014.
[71] È, senza dubbio, uno dei passaggi più interessanti della sentenza, rinvenibile a p. 22, § 7.7.1 della sentenza in commento, che, tra l’altro, richiama anche le sentenze “gemelle” della Corte EDU Mennesin c. Francia (26 giugno 2014, ric. N. 65192/2011) e Labasse c. Francia (26 giugno 2014, ric. N. 65941/2011). Inoltre, ha richiamato anche la rilevante sentenza della Corte Cost. n. 347/1998, la quale sottolineò la necessità di distinguere tra la disciplina di accesso alle tecniche di P.M.A. e la doverosa, e preminente, tutela giuridica del nato, significativamente collegata alla dignità dello stesso. A completamento, la sentenza di cui in commento, nello stesso paragrafo, cita la sentenza della Suprema Corte n. 19599/2016, a mente della quale “le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004 imputabile agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia non possono ricadere su chi è nato”. Nello stesso senso, anche Cass. n. 14878/2017.
[72] Questo passaggio, in definitiva, è assai dirimente. Si consiglia di leggere l’intero passaggio a p. 23, § 7.8 della sentenza di cui in commento.
[73] A tal proposito, la Corte richiama dei suoi stessi precedenti, tra cui Cass. n. 6963/2018; Cass. SU, n. 1946/2017; Cass. n. 15024/2016.
[74] Vedi, a tal proposito, U. A. Salanitro, La disciplina della filiazione da procreazione medicalmente assistita, in Familia, 2004, pp. 489-490, nelle quali scrive che: “…hanno risolti problemi particolari ricorrendo ad argomentazioni generalmente fondate sull’assunzione della responsabilità genitoriale tramite il consenso al ricorso a tecniche procreative non naturali”. Vedi, tra i più autorevoli contributi, A. Trabucchi, Fecondazione artificiale e legittimità dei figli, in Giur. it., 1957, I, 2, p. 217 ss., P. D’Addino Serravalle, Ingegneria genetica e valutazione del giurista, Napoli, 1988, p. 87; I. Corti, Procreazione artificiale, disconoscimento di paternità e interesse del minore, in Giur. it., 1995, I, 2, p. 583 ss.; C. M. Bianca, Disconoscimento del figlio nato da procreazione assistita: la parola alla cassazione, in Giust. civ., 1999, I, p. 1328 ss.; G. Baldini, Tecnologie riproduttive e problemi giuridici, Torino, 1999, p. 65 ss.; G. Cassano, La procreazione artificiale, Milano, 2001, p. 1 ss.; T. Auletta, Fecondazione artificiale: problemi e prospettive, in Quadrimestre, 1986, p. 51 ss.; P. Schelesinger, L’inseminazione eterologa: la cassazione esclude il disconoscimento di paternità, in Corr. giur., 1990, p. 401 ss.; S. Patti, Inseminazione eterologa e venire contra factum proprium, in Nuova giur. civ. comm., 2000, II, p. 13 ss.
[75] Si consenta, a tal uopo, rinviare a R. Trezza, La responsabilità civile del medico: dall’oscurantismo al doppio positivismo. Focus sulla responsabilità civile del medico prenatale, Salerno, 2019, pp. 41-46.
[76] In tal senso, invece, S. Rodotà, Diritti della persona, strumenti di controllo sociale e nuove tecnologie riproduttive, in Aa. Vv., La procreazione artificiale tra etica e diritto, Padova, 1989, p. 140, condivisa da P. Perlingieri, L’inseminazione artificiale tra principi costituzionali e riforme legislative e da S. Patti, Sulla configurabilità di un diritto della persona di conoscere le proprie origini biologiche, ivi, p. 148 ss., p. 210.
[77] Aspetti, questi ultimi, di cui già qualcuno in passato si è occupato. Si veda U. A Salanitro, La disciplina della filiazione, cit., specie p. 498, in cui afferma che “ancora più problematica appare la soluzione nel caso in cui uno dei componenti della coppia, dopo aver espresso il consenso alla procreazione, anche di tipo eterologo, muoia e successivamente la struttura sanitaria, non informata del decesso, proceda ugualmente alla fecondazione dell’embrione; a monte, vi è il dubbio se la struttura debba effettuare l’impianto dell’embrione, rispettando l’art. 14, co. 1 della legge 40 del 2004, che ne vieta la soppressione, o debba astenersi, in quanto è venuto meno il requisito dell’art. 5, a norma del quale entrambi i componenti della coppia, che accedono alle tecniche di fecondazione artificiale, debbono essere viventi…appare conseguente fondare il rapporto di filiazione con il genitore premorto sul consenso; ma la medesima soluzione va sostenuta anche nel caso in cui si consideri illegale l’intervento di fecondazione post mortem, in quanto, a fronte della volontà del de cuius, l’interesse del nascituro appare prevalente rispetto alle eventuali pretese successorie pregiudicate”.
[78] Sembra che la Corte di Cassazione, nella sentenza di cui in commento abbia fatto cenno alle correnti di pensiero che dubitano sul fatto che il nato possa avere diritto a nascere senza la presenza di un padre. Vedi, tra gli ultimissimi contributi, D. Crestani, Fecondazione artificiale “post mortem”, su Il Giornale di Vicenza, 26 giugno 2015, p. 1, nel quale, alla fine della riflessione, chiede a se stresso: “Ma può ritenersi legittimo e rispettoso dei diritti del bambino farlo nascere intenzionalmente orfano del padre, solo perché consentito dalle moderne tecniche di procreazione assistita?”.
[79] In tal senso, vedi più nello specifico, p. 26, § 7.8.3.1. della sentenza de qua.
[80] A tal uopo, è interessante vedere come c’è chi sostiene, esattamente come mette ben in luce la sentenza in commento, specie pp. 27-28, §§ 7.8.4.1. e 7.8.4.2., “che la nascita di un figlio da fecondazione artificiale omologa post mortem avvenuta in un periodo che non consente più l’operatività della presunzione di concepimento in costanza di matrimonio può solo giustificare la proposizione di una domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, con la conseguenza che un riconoscimento preventivo del marito mentre era ancora in vita sarebbe privo di effetti, e chi, invece, ritiene che la suddetta situazione non costituirebbe un ostacolo alla operatività della presunzione di paternità tutte le volte in cui possa essere provato, ai sensi dell’art. 234 c.c., il concepimento in costanza di matrimonio. Tale requisito, attraverso una interpretazione estensiva della norma, dovrebbe considerarsi soddisfatto dimostrando che la fecondazione dell’ovulo sia avvenuta durante il matrimonio, purché la moglie non sia passata a nuove nozze. Quest’ultima tesi, però, oltre a fondarsi su un’interpretazione del concepimento sensibilmente distante rispetto alla sua accezione tradizionale, che lo identifica con il momento nel quale l’ovulo fecondato attecchisce nell’utero materno, finisce con il distinguere immotivatamente la situazione giuridica del nato a seconda del tipo di tecnica di procreazione medicalmente assistita che sia stata eseguita, essendo possibile congelare e conservare a lungo non solo l’embrione, ma anche il liquido seminale e potendosi, pertanto, ipotizzare che la stessa fecondazione dell’ovulo avvenga, come peraltro accaduto nel caso in esame, solo dopo la morte del marito”. Vedi, in tale direzione, nota n. 76. La diversa impostazione, secondo la quale si potrebbe applicare l’art. 8 della legge n. 40 del 2004, nuove, invece, dal rilievo “che il legislatore non ha limitato espressamente l’applicabilità della norma in esame alle sole ipotesi di procreazione medicalmente assistita “lecita” ed ha, anzi, espressamente contemplato la sua applicabilità alla ipotesi di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, in relazione alla quale l’impossibilità di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità presuppongono che, anche in simili casi, in consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita sia sufficiente per l’attribuzione dello status di figlio. Ne consegue che, dopo la morte del marito ed acquisito il suo unico consenso in vita, alla formazione di embrioni con il seme crioconservato dello stesso e gli ovociti della moglie ed al loro impianto, dovrebbe prevalere la tutela legislativa del nato da fecondazione omologa, posto che il sicuro legame genetico consentirebbe comunque l’instaurazione del rapporto di filiazione nei confronti di entrambi i genitori genetici, anche ove volesse ritenersi violato il quadro normativo derivanti dalle disposizioni relative all’accesso alla P.M.A nel nostro ordinamento interno”. Vedi, in tale direzione, invece, nota n. 74.
[81] Vedi, sul punto, p. 29, § 7.8.5. della sentenza in commento.
[82] Si consenta rinviare, a R. Trezza, La responsabilità civile del medico, cit., pp. 149-151.
[83] Vedi, invece, p. 29, § 7.8.5.1. della sentenza de qua.
[84] È assolutamente questo il passaggio decisivo della sentenza, che sembra mettere in luce una sorte di “sopravvivenza post mortem del consenso espresso in vita”, teoria che pone fine alla questione controversa. Il consenso, dunque, espresso dal padre della bambina, prima di morire e mai revocato fino alla morte, sopravvive ad egli stesso e fa in modo che la paternità della figlia sia ad egli attribuita. Ciò supera anche il problema della rettificazione dell’atto dello stato civile e dell’attribuzione della paternità e del cognome paterno nell’atto di nascita medesimo. Tutto ciò è rilevante anche ai fini della “discendenza biologica”, della quale la parte ricorrente ha specificamente dedotto di aver fornito ampia prova, tra l’uomo che ha comunque espresso un consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, altresì autorizzando l’utilizzazione del proprio seme precedentemente prelevato e crioconservato, ed il nato, e prescinde, pertanto, da ogni considerazione del tempo in cui sono avvenuti il concepimento e la nascita. Vedi, in particolar modo, p. 30, § 7.8.6.1. della sentenza in esame.
[85] Ecco che, a tal punto, ci si pone la domanda se possa prevalere, in un’ottica di bilanciamento di diritti, il diritto alla vita o il diritto alla genitorialità. Potrebbe anche essere che una madre venga a concepire un figlio e durante la fase della gestazione il padre del proprio figlio muoia. Cosa accadrebbe in questo caso? Nulla, in quanto, secondo le regole generali della presunzione di paternità, il figlio è del marito della moglie in quanto concepito in costanza di matrimonio. Il tempo dei trecento giorni dalla morte del padre, come causa di scioglimento del matrimonio, sarebbe irrilevante.
[86] Vedi, a tal punto, la sentenza a p. 31, § 7.8.6.2..
[87] A tal punto, si consenta rinviare a R. Trezza, Diritto all’anonimato e diritto a conoscere le proprie origini: il bilanciamento dei valori ad opera della giurisprudenza nazionale ed europea, in Persona & Danno, 20 luglio 2018, pp. 9-13. Inoltre, si richiama l’attenzione su Cass. n. 6963/2018; Cass. SU, n. 1946/2017; Cass. n. 1504/2016. Inoltre, per un quadro sistematico della sentenza in esame, si consiglia di leggere p. 32, §§ 7.8.7.; 7.8.8.1 e 7.8.8.2., in cui si affronta anche il delicato tema del diritto all’anonimato ed il suo divieto per chi ha fatto uso delle tecniche di P.M.A. e si afferma che “…ove l’interesse del minore costituisce un vero e proprio limite al principio della verità biologica, tanto che il legislatore, per perseguire tale interesse, ha attribuito precipuo rilievo al consenso prestato dai coniugi o conviventi al ricorso a tecniche di procreazione assistita, ma risulta confermato anche in caso di fecondazione omologa post mortem, con riferimento alla quale, non essendo in alcun caso ipotizzabile un contrasto tra favor veritatis e favor minoris, coincidendo quest’ultimo con il diritto del minore alla propria identità, il consenso prestato dal coniugi o dai conviventi appare elemento qualificante la disciplina in materia di accertamento della filiazione in funzione di una effettiva tutela della personalità del minore”.
[88] Tra le righe, sembra leggersi una necessità di un’interpretazione sistematica-assiologica, tanto cara a P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 2006, p. 919 ss.
[89] Vedi, specificamente, p. 34, § 7.9 della sentenza in commento.
[90] Vedi, in tal senso, p. 34, § 7.9 della sentenza.
[91] Sembra dunque, che oltre alla “sopravvivenza post mortem del consenso espresso in vita”, debba esserci anche una “impossibilità di condizionare l’efficacia del consenso alla fecondazione post mortem con l’evento morte”. Discorso diverso, invece, si avrebbe quando il soggetto esprime il suo dissenso. In tal caso, nulla quaestio. L’evento morte farebbe venir meno gli effetti devolutivi della discendenza biologica in capo al padre. Si ricordi, però, ed è aspetto rilevante, che il consenso è sempre “revocabile” fino alla morte, in quanto si tratta di “diritti personalissimi della persona umana”. In tal caso, cosa accadrebbe? L’embrione che fine farebbe, posto il divieto di sopprimere gli embrioni previsto dal nostro ordinamento? In tal senso, si consenta rinviare a R. Trezza, Diritto all’anonimato, cit., p. 14 ss., in cui si discute, in riferimento all’excursus della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, della c.d. “reversibilità del consenso fino alla morte”.
[92] Vedi, in tal senso, per una panoramica d’insieme, la sentenza in commento, specie pp. 36-38, § 7.11.1..
[93] Vedi Trib. Palermo dell’8 gennaio 1999, il quale richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 347 del 1998 ha affermato che un ragionevole punto di equilibrio tra il perseguimento delle finalità di cui all’art. 30 cost. da un lato, e il diritto alla vita del nascituro e all’integrità fisica e psichica della madre dell’altro, postulerebbe la prevalenza di questi accordi, reputando opportuno prevenire la produzione di una danno certo e duplice (quello che subirebbero nascituro e madre nell’ipotesi in cui si dovesse decidere di sopprimere l’embrione a causa del decesso del padre), in luogo di un altro meramente eventuale (il pregiudizio che subirebbe il nascituro a crescere in un contesto familiare senza la figura paterna). In tal senso vedi C. Casella, Aspetti problematici della procreazione medicalmente assistita, tesi di dottorato, Università degli Studi di Salerno (prof. Dionisi), 2014, p. 146. Inoltre, vedi M. Sesta, Fecondazione assistita. La Cassazione anticipa il legislatore; in Guida al diritto, 1999, 12, p. 48 con nota di A. Finocchiaro, La Cassazione non può svolgere una supplenza nelle funzioni riservate al legislatore, con la quale la Corte ha affermato che il marito, dopo aver validamente concordato o comunque manifestato il proprio preventivo consenso alla fecondazione assistita della moglie con seme di donatore ignoto, non può esercitare l’azione per il disconoscimento della paternità del bambino concepito attraverso tale tipo di fecondazione artificiale.
[94] Vedi T.A.R. Lazio del 21 gennaio 2008, dove si legge che dalla disposizione di cui all’art. 14, co. 1 (che vieta la soppressione di embrioni), e dalla norma di cui all’art. 6, co. 3 (che stabilisce la inefficacia della revoca della volontà di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita dopo la fecondazione dell’ovulo), va desunto, in via interpretativa, che il momento in cui deve sussistere il requisito soggettivo della presenza in vita di entrambi i componenti della coppia sia quello della fecondazione dell’ovulo, risultando irrilevante la successiva morte del marito o del compagno. Vedi, in tal senso, C. Casella, Aspetti problematici, cit., pp. 148-149. Inoltre, vedi R. Villani, La procreazione medicalmente assistita in Italia: profili civilistici, in S. Rodotà, P. Zatti (diretto da) Trattato di Biodiritto, Il Governo del corpo, p. 1525 ss.; L. Lenti, La procreazione artificiale. Genoma della persona e attribuzione della paternità, Padova, 1993, p. 265; R. Clarizia, Procreazione artificiale e tutela del minire, Giuffrè, 1988, p. 18; P. Vercellone, La filiazione, in Trattato Vassalli, Torino, 1987, p. 323; C. Semizzi, Rilievi giuridici sull’inseminazione artificiale, in dir. fam. pers., 1984, I, p. 369; A. Santosuosso, Per ricorrere al soccorso della tecnologia basta la sola certificazione di sterilità, in Guida al diritto, 2004, p. 29; G. Oppo, Procreazione assistita e sorte del nascituro, in Riv. dir. civ., 2005, I, p. 105 ss.
[95] Vedi, in tal senso, I. Marconi, Fecondazione omologa post mortem trasmette il cognome del padre, su altalex, 30 maggio 2019; L. Biarella, Fecondazione omologa post mortem: sì alla rettifica dell’atto dello stato civile, in quotidiano giuridico, 27 maggio 2019; M. F. Mazzitelli, Fecondazione omologa post mortem e presunzione di paternità, in simoneconcorsi, 21 maggio 2019; Aa. Vv., Fecondazione omologa post mortem: rettifica dell’atto di nascita anche per il figlio “postumo”, in diritto e giustizia, 16 maggio 2019; Aa. Vv., Nascita con fecondazione omologa dopo la morte del padre, in edotto, 16 maggio 2019.
[96] Vedi, sul punto, E. Bilotti, La fecondazione artificiale post mortem nella sentenza della I sezione civile della Cassazione n. 13000/2019, in centro studi livatino, 23 maggio 2019, specie p. 5, in cui afferma che “…la sicura preminenza della tutela del nascituro è un argomento difficilmente confutabile. In effetti, per quanto un’altra recentissima decisione delle Sezioni Unite sembri ora voler ridimensionare proprio un simile argomento (Cass. SU, 8 maggio 2019, n. 12193), appare comunque inaccettabile che il nato possa subire un pregiudizio a causa di una violazione di legge da parte degli adulti”. L’A., però, esprime una riserva, specie a p. 9, laddove scrive, a proposito della certezza della propria discendenza biologica, elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identità, che: “…Beninteso, non è dubitabile che il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche esibisca un scuro fondamento nella Costituzione e nelle diverse Carte dei diritti. Escludere il diritto del nato allo status nei confronti di chi abbia autorizzato l’impiego post mortem del proprio seme crioconservato non significa però mettere in discussione anche il suo diritto alla conoscenza delle origini biologiche”.
[97] A tal proposito, vedi il commento di F. Capra, Non è un Paese per fecondazione post mortem, in Ass. Luca Coscioni (rassegna stampa), 1 giugno 2016, in cui, specie p. 2, si dice che: “…al momento, l’unico modo per ottenere una fecondazione post mortem è attraverso l’intervento di un giudice che può stabilire di caso in caso l’adeguatezza della richiesta”. Ma non è confacente con il caso in esame, in quanto non si discute sulla liceità o meno della pratica, seppure è proprio questo ciò che si vuole sollecitare.
[98] Vedi, a tal proposito, gli artt. 311-320 code civil. Si richiama C. Casella, Aspetti problematici, cit., p. 154.
[99] Vedi, a tal riguardo, l’art. 28, comma 6b, del Human Fertilization and Embriology Act del 1990.
[100] In tal senso, si consenta rinviare nuovamente a C. Casella, Aspetti problematici, cit., p. 154.
[101] Vedi Legge n. 3089 del 2002, poi modificata dalla Legge n. 3305/2005.
[102] Vedi, infatti, l’art. 9 della Legge n. 14 del 2006.
[103] Vedi, a tal fine, la Legge n. 460 del 1997.
[104] Vedi, in tal senso, la legge federale del 18 dicembre 1998.
[105] In tale direzione va l’art. 4, co. 1, n. 3 della legge tedesca del 1990. È rilevante l’approdo a cui è pervenuta C. Casella, Aspetti problematici, cit., specie p. 155.
[106] In tal senso, vedi U. A. Salanitro, La disciplina della filiazione, cit., specie p. 507, in cui afferma che: “l’applicazione della disciplina generale della filiazione, e conseguentemente, la costituzione del rapporto filiale con la madre partoriente, risulta la soluzione più coerente con il divieto di maternità surrogata (art. 12, co. 6), penalmente sanzionato anche nei confronti dell’uomo e delle donne che abbiano partecipato o assentito alla sua organizzazione: l’accordo di surrogazione di maternità va conseguentemente considerato nullo e il consenso improduttivo di effetti”.
[107] In tal senso, T. Auletta, Fecondazione artificiale, cit., p. 26.
[108] In tale direzione, L. Lenti, La procreazione artificiale, cit., p. 227 ss.
[109] Il tema è ben affrontato da U. A. Salanitro, La disciplina della filiazione, cit., specie pp. 512-513.
[110] Sul punto, si è già detto, ma sembra opportuno richiamare G. Cassano, Nuove frontiere giurisprudenziali del diritto di famiglia (fecondazione artificiale eterologa e fecondazione artificiale post mortem), in diritto.it (Diritto civile e commerciale), 2018, p. 10, in cui si mettono in luce le due tesi contrapposte: la prima che, in ragione degli artt. 29 e 30 Cost., reputa rilevante che il figlio debba essere istruito, educato e mantenuto dai propri genitori, di tal guisa che gli accordi intercorrenti fra i vari soggetti volti a realizzare la fecondazione artificiale dopo la morte del marito debbano essere considerati illeciti, in quanto strutturalmente il nato sarebbe privo della figura paterna. D’altra parte, invece, chi, considerando come indebite le ingerenze dell’ordinamento in questa materia, perviene a soluzioni diverse, insistendo sui principi di libertà sessuale e di trasmissione della vita.
[111] Mostra molto bene questo modus ragionandi, il contributo di U. A. Salanitro, La disciplina della filiazione, cit., specie p. 513.
[112] A proposito delle tecniche di normazione, affinché il legislatore, che sembra del tutto inesperto, capisca come debba muoversi a tal punto, si consenta rinviare a P. Perlingieri, Il diritto civile, cit., specie p. 217 ss., in cui si sofferma sulle tecniche legislative, sul principio di legalità e sulla catalogazione delle norme giuridiche.
[113] Vedi, Legge n. 194 del 1978.
[114] Sul punto, più accuratamente, si potrebbe parlare di “positivismo etico”, derivante dall’idea sottesa all’opera di P. Perlingieri, Il diritto civile, op. cit.
[115] In tal senso, si consenta rinviare a R. Trezza, La responsabilità civile del medico, cit., specie nell’introduzione, p. 15.