ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Dialogo fra arte e giustizia. Cosa nostra e l’arte. L’arte e cosa nostra*
di Lia Sava
Sommario: 1. Premessa - 2. Cosa nostra e l’arte - 3. La zona di confine - 4. Il rapporto fra arte e cosa nostra.
1. Premessa
Fare dialogare arte e giustizia è impresa complessa. Il rischio di svilire concetti sacri, secondo i canoni filosofici ed estetici della tradizione classica della cultura occidentale, è elevatissimo. Il mio approccio, dunque, nell’affrontare, in chiave minimale, questa possibile interazione, sarà svolto con atteggiamento assolutamente deferente, perché di fronte ad arte e diritto occorre inchinarsi. Nessuna pretesa di completezza, dunque, ma una prospettiva conseguente al lavoro che svolgo. Il mestiere del pubblico ministero, invero, in terra di Sicilia, mi ha regalato, nel momento in cui ho cercato di rendere il servizio giustizia, differenti prospettive esistenziali. Una delle peculiari “modulazioni” del mio modo di guardare alle cose, conseguente al lavoro di magistrato che si occupa di processi di mafia, ha riguardato la mia visione dell’arte, intesa in chiave estetica. Vi chiederete ( e mi sono chiesta anche io, molte volte) cosa c’entra l’arte con i fatti di sangue, con le gravi condotte di reato che schiaffeggiano la Trinacria, con terribili proiezioni nel continente, da oltre un secolo? Non ho la pretesa di affermare con certezza che saprò darvi una puntuale risposta utile a saziare una qualche vostra curiosità ma, se avrete la pazienza di seguirmi in questo percorso semplice, che non ha nulla di colto, che non cerca la protezione di sovrastrutture concettuali complesse (ma è solo frutto dell’esperienza professionale), la mia visuale, spero, vi sarà chiara.
Se prendiamo fra le mani, con la cura che richiede, un dizionario della lingua italiana e cerchiamo il significato della parola arte troviamo differenti significati e ci rendiamo conto che la stessa etimologia del termine tende a sfuggire e, quindi, occorre scegliere. Mi piace individuare, per proseguire il mio discorso, l’espressione che meglio ne descrive l’essenza, che traggo da Treccani: “Con arte si intende l’esperienza estetica che si realizza allorché qualcosa cattura la nostra attenzione producendo in noi, in modo del tutto inspiegabile e imprevedibile, emozioni e stati d’animo molteplici”. Ne consegue che una poesia, un romanzo, un quadro, una scultura, un brano musicale costituiscono “espressioni artistiche” allorché ci trasmettono bellezza, emozioni in un istante che è fuori dal tempo o, forse, è possibile definire come “presente dilatato”, perché ci accompagnerà, da quel momento, come sottofondo esistenziale. Ebbene, intendo provare a ricostruire, attraverso l’esperienza tratta da alcuni processi di criminalità organizzata, come si atteggia, a mio parere, il rapporto fra cosa nostra, intesa come organizzazione a struttura verticistica, basata su precise regole e l’arte, secondo la descrizione di cui sopra.
Ma l’omogenizzato di una tematica che meriterebbe ben altri e più colti contributi rispetto a quello che vi proporrò, proverà ad esplorare, nella seconda parte, un percorso differente e cioè il rapporto fra arte e cosa nostra ed è proprio attraverso questo percorso inverso, frutto della posposizione dei due termini, che è possibile, secondo me, trarre qualcosa di utile a contrastare il ricatto mafioso.
In questi trent’anni la magistratura ha svolto processi che hanno inferto colpi micidiali a cosa nostra e continuerà a farlo, senza soluzione di continuità ma occorre qualcosa di più, cioè uno scatto di reni poderoso che ci conduca in una sfera etica collettiva più elevata. Per compiere questo slancio l’arte può (e deve) svolgere un ruolo centrale.
2. Cosa nostra e l’arte
La Strage dei Georgofili, la Strage di via Palestro, le bombe a San Giovanni in Laterano e nella Chiesa di San Giorgio in Velabro, l’ordigno nel giardino di Boboli a Firenze hanno costituito un ulteriore tremendo tassello dell’efferato attacco al cuore dello Stato realizzato da cosa nostra trent’anni fa. Nelle requisitorie dei processi Capaci bis e Borsellino quater, abbiamo utilizzato l’espressione “tristi grani di Rosario di morte” per descrivere una sequenza tragicamente complessa. Dopo aver trucidato uomini insostituibili, si colpiva il patrimonio artistico, il cuore vivo e più autentico della nostra storia, la vera identità del nostro paese, stratificatasi attraverso l’arte ben prima del 17 marzo 1861. Si integrò, dunque, fra le altre condotte di reato scellerate anche la “Devastazione al Patrimonio artistico”. Cosa nostra e coloro che possono aver concorso, dall’esterno, alla realizzazione dell’attacco frontale alle Istituzioni, erano, evidentemente, ben consapevoli del “male” profondo, comunque irrimediabile, che avrebbero creato quei boati, dove persero la vita uomini e donne innocenti, allorché si tentava di “frantumare” la nostra “ricchezza culturale”, la nostra immagine anche fuori dall’Italia e, forse, il nostro stesso senso di Patria. Cosa nostra non è riuscita a realizzare i suoi scellerati propositi perché la reazione del Paese è stata ferma e la magistratura, sorretta da forze dell’ordine altamente professionali, ha il merito di aver dato risposte, consacrate in sentenze passate in giudicato, a quello scempio.
C’è un’altra data, risalente nel tempo, che è funzionale allorché si intende affrontare, nella chiave minimale che vi ho prospettato, il rapporto fra cosa nostra e arte. La notte fra il 17 ed il 18 ottobre 1969 venne rubata a Palermo la “Natività” del Caravaggio: un’opera di grande valore, realizzata nel 1609, che si dissolve nel buio di una notte piovosa (così riferiscono le cronache dell’epoca). Di quel dipinto non si è saputo più nulla se non attraverso racconti (frammentari e contraddittori, per quel che mi risulta) di collaboratori di giustizia. Un dato è, comunque, certo: un furto di quel genere non può essersi realizzato a Palermo senza il benestare di cosa nostra. L’Oratorio di San Lorenzo è nel centro storico di Palermo, un luogo che emoziona per la semplicità (e, quindi, autenticità) del contesto, ed era proprio lì il Caravaggio che è andato distrutto oppure si trova chissà dove, magari lontano dall’Italia. Un dato è incontrovertibile: “una bellezza che avvicina a Dio” non è più fruibile dalla collettività da oltre cinquant’anni. Il dipinto è, comunque, “ricercato”, quasi al pari di un latitante ed ha suscitato anche l’interesse di Leonardo Sciascia che, nel 1989, poco prima di morire, ci regalò “Una storia semplice”, che sulla Natività del Caravaggio si incentra. Già, una storia semplice che, in realtà, di semplice ha ben poco. Diversi collaboratori, fra gli altri Francesco Marino Mannoia, Giovanni Brusca, Gaspare Spatuzza hanno riferito qualche particolare sulle possibili trame criminali connesse a quel furto. Siamo, dunque, in presenza di un cold case che ancora sollecita, come è giusto che sia, l’interesse di molti operatori del diritto ed esperti di arti figurative. Invero, lo scorso anno, nel corso di una conversazione a margine di un incontro sul tema delle “tecniche di indagine in materia di contrasto al crimine organizzato”, un investigatore, da poco trasferito a Palermo, manifestò, fra i suoi auspici professionali nello svolgimento del nuovo incarico, non solo quello di fornire un contributo di spessore alla cattura di latitanti ma anche quello, magari in concomitanza, di recuperare il “Caravaggio perduto”. Ma se fosse vero, come sostengono alcuni collaboratori di giustizia, che il dipinto è andato distrutto, “ mangiato dai porci” perché custodito in una porcilaia, la speranza di molti si frantumerebbe ed, al contrario, ci verrebbe restituita un’ennesima immagine, cruda e desolante, dell’antitesi profonda fra concetto di arte che suscita emozioni e cosa nostra che distrugge, ancora una volta miscelando, invece che colori e genio creativo, tritolo, sangue innocente e sterco di maiali. Non trovo immagine più lontana dal concetto di arte di questo pensiero. Ma la distanza siderale fra arte, intesa come “culto del bello” e cosa nostra, si desume, in via immediata e diretta anche dalle carte di alcuni processi dove è stato ricostruito l’interesse malsano per reperti archeologici, intesi come oggetti da sfruttare per trarne profitto (ad esempio, attraverso vendite all’estero, a mercanti d’arte senza scrupoli, spesso legati a sofisticate strutture criminali internazionali organizzate per la realizzazione di variegati traffici illeciti). Ancora una volta, cosa nostra appare assolutamente incapace di percepire le “vibrazioni emotive” che un vaso del 600 a.C. è in grado di trasmettere, dietro il vetro di un museo, al visitatore in cerca di bellezza, divenendo balsamo per la mente e per il cuore.
3. La zona di confine
Mi corre l’obbligo evidenziare, per cercare di rendere il senso di una esperienza professionale piuttosto estesa nella gestione di collaboratori di giustizia da cui è conseguita una qualche “percezione”, più o meno nitida, delle loro storie personali, che è possibile individuare anche una sorta di zona di confine nel rapporto fra cosa nostra ed arte. Si tratta di una piccolissima crepa, una sorta di microscopico spiraglio, che tende ad illuminare un contesto di morte e degrado. Torno, con la memoria, ad una mattina di diversi anni fa quando, con un collega, ci siamo recati a svolgere una ricognizione di beni (al fine di cercare di trarre elementi utili a distinguere la provenienza lecita da quella illecita, a riscontro di quanto era stato riferito nel verbale illustrativo della collaborazione), in una casa isolata dove aveva trascorso la latitanza un esponente di spicco di cosa nostra, divenuto collaboratore di giustizia. In quegli ambienti contraddistinti, per quello che rammento, da colori accesi alle pareti ed arredati con un gusto di fattura moderna, su un lato di un ampio salone, campeggiava un bellissimo pianoforte a coda, nero, lucidissimo, maestoso. O almeno a me parve così: un oggetto (non uno strumento) che strideva in quel contesto ma che, come fosse un sovrano, prendeva tutta la scena. Nella mia mente sorse immediato un interrogativo che condivisi con il collega: un uomo che ha commesso (e confessato) tanti omicidi, alcuni dei quali particolarmente efferati, quale rapporto può mai aver avuto con uno strumento (questa volta non uso il termine oggetto) che può evocare il divino attraverso le note? Tempo dopo, chiedemmo a quel collaboratore se qualcuno dei suoi familiari avesse studiato pianoforte. Nella mia memoria (che, dato il tempo trascorso, può essere fallace) la risposta fu senza incertezze: “No, ho acquistato un pianoforte perché mi piace il suono che emette”. Questa risposta, o questa possibile risposta che mi restituiscono gli anni trascorsi da allora, consente, almeno in nuce, la possibilità di disinfettare (in modo artigianale, per carità), il putrido rapporto che cosa nostra intesse con l’arte, per cercare, almeno in astratto, di farlo diventare qualcosa di “più vicino” ad una interazione autentica fra sensibilità e bellezza, una bellezza non esistente in natura ma evocata dalla forza creativa di un artista. E, proprio in questa direzione, ho avuto una ennesima e peculiare prova tangibile della bontà di alcuni autentici percorsi collaborativi quando, nelle pause di udienza, nel corridoio laterale di un Tribunale, adiacente una saletta attrezzata per il video collegamento, ho intravisto un collaboratore di giustizia che aveva “saltato il fosso” già da diversi anni, che, a mio ricordo, si esprimeva unicamente in dialetto. Era seduto su una piccola sedia, leggeva. Di fronte a lui gli agenti della Polizia Penitenziaria. Il mio passaggio fu rapidissimo, ma mi consentì di dare una occhiata al titolo del libro, sul quale quell’uomo era chino: “I fratelli Karamazov”. Provando una sconfinata ammirazione per Dostoevskij (la cui lettura ho sempre ritenuto operazione ermeneutica estremamente complessa, nella quale mi sono cimentata in diversi momenti della mia vita senza mai riuscire a coglierne, in maniera completa, l’essenza) sono rimasta particolarmente colpita. In una frazione di secondo, transitando casualmente attraverso il corridoio di un Tribunale, ho afferrato un’altra prospettiva della collaborazione con la giustizia che, evidentemente, oltre ad essere essenziale per sconfiggere cosa nostra, può realizzare, in qualche modo, il recupero della sfera emotiva più profonda, quella che consente di apprezzare il bello dell’arte.
4. Il rapporto fra arte e cosa nostra
Il rapporto fra arte e cosa nostra è estremamente articolato e complesso.
Mi preme sottolineare che, dopo la stagione stragista, vi è stata una copiosissima produzione saggistica di intellettuali di valore, spesso giornalisti e magistrati, che, anche insieme, hanno dato il loro contributo alla ricostruzione di quei tragici eventi, della loro genesi e delle possibili chiavi di lettura di numerosi eventi antecedenti e successivi. Ma, ovviamente, il resoconto giornalistico, l’analisi storica e sociologica, pur essendo di assoluto pregio e di notevole importanza, non rientra nel concetto di arte. Il cinema, invece (attraverso espressioni realizzate da mani non solo tecnicamente esperte ma contraddistinte, ad un tempo, da sensibilità profonda, tanto da riuscire a governare la tentazione della fredda cronaca per giungere alla rappresentazione di ciò che hanno significato le Stragi per il nostro Paese) ha prodotto lavori eccellenti. Impossibile (e non ne avrei la competenza) riportare, anche solo per sintesi, ciò che alcune pellicole ci hanno regalato in termini emozionali sulla stagione stragista. Mi limiterò, dunque, a pochissime pennellate. Ho trovato molto bella, nella rappresentazione straordinaria della storia italiana fra la fine degli anni 60 ed i primi del 2000 che Marco Tullio Giordana realizza con “La meglio gioventù”, la figura della sorella maggiore di Matteo e Nicola che, da magistrato del nord di Italia, impegnato nelle prime indagini in materia di danno ambientale, dopo le Stragi, sceglie di andare a lavorare alla Procura della Repubblica di Palermo. Si tratta di una descrizione, scevra da ogni forma di retorica, dello stato emotivo e delle conseguenti scelte esistenziali che una generazione di magistrati ha vissuto dopo il 1993, lasciando luoghi familiari per recarsi in Sicilia, cercando di dare un contributo a quella stagione giudiziaria. Avendo fatto anche io quella scelta, non posso non emozionarmi quando rivedo una scena del film dove Giovanna (interpretata da una magnifica Lidia Vitale) scende le scale del Palazzo di Giustizia di Palermo, le stesse scale che segnarono fisicamente il percorso quotidiano, (percorso ineguagliabile per professionalità e coerenza) di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Francesca Morvillo. Emotivamente coinvolgente è, a mio parere, anche la rappresentazione cinematografica sull’eroismo degli uomini delle scorte e sul percorso incidentato dei collaboratori di giustizia. A tale proposito, ritengo che Marco Bellocchio, con il “Il Traditore” ci abbia regalato la più efficace ricostruzione storica di Buscetta (attraverso un Favino straordinario, anche nell’inflessione dialettale panormita, ben miscelata con lo slang americano), l’uomo che ha sferrato un colpo vincente alla lastra di marmo scuro che copriva cosa nostra, disvelandone non solo il nome ma, soprattutto, le sue regole, fornendoci il suo codice ermeneutico, quella cassetta degli attrezzi che, ancora oggi, ci consente un contrasto efficace ai portatori di morte. Merita, altresì, menzione Pif, che, con “La mafia uccide solo d’estate”, meglio di ogni altro, secondo me, descrive una Palermo perbene ma sonnolenta che, dopo le Stragi, reagisce con un orgoglio ed una dignità degna di elogio, fornendo un contributo fondamentale, a titolo meramente esemplificativo, alla diffusione della cultura della legalità nelle scuole di ogni ordine e grado.
Anche il teatro ci ha regalato palcoscenici di enorme intensità, dove le voci di Falcone e Borsellino hanno emozionato gli spettatori ed evocato il senso etico profondo del loro sacrificio. In questa direzione ho trovato straordinariamente coinvolgente il “Canto per Francesca”, dedicato a Francesca Morvillo, scritto da Cetta Brancato, contraddistinto da elevatissime punte liriche che commuovono restituendoci intatta la figura di Francesca Morvillo, grande donna e immenso magistrato.
Altro testo straordinario è stato scritto (ed è rappresentato, da anni, in tutta Italia), dalla collega Alessandra Camassa. “Noi e loro, tributo a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” è uno struggente dialogo immaginario fra i due titani, realizzato da un magistrato che li ha conosciuti e che ha saputo, secondo me, rendere in modo netto, chirurgico e senza alcuna sbavatura, il senso di un impegno totalizzante, di due uomini che vivranno per sempre nel luogo che l’autrice definisce come “La casa degli uomini eletti” che poi è il Paradiso. Al fine di rendere una vaga idea dell’enorme impatto emotivo del testo della dott.ssa Camassa (che merita di essere letto ed ascoltato integralmente, per non perdere neppure una sfumatura di quelle profondità strutturali e contenutistiche che raggiuge) vi propongo di seguito pochissimi passaggi: Giovanni (a Paolo): “Stavolta è semplice: mi manchi. Ho bisogno di un amico, che sa tutto di me. Voglio parlare: troppe cose sono accadute da quando siamo andati via. Le nostre idee, quelle che camminano sulle gambe degli altri, inciampano, Paolo, quanti ostacoli”. Ed ancora, qualche rigo dopo: Paolo (a Giovanni): “A me mancano il mare, i miei nipoti e l’odore dei fascicoli”. Giovanni (a Paolo) : “L’odore delle carte, sembra assurdo, lo sento ancora ovunque, anche qui”. Paolo (a Giovanni): “Vedo crescere i miei nipoti e mi dispiace di essere per loro soltanto un mito”. Non servono parole a commento, perché il senso di una vita, di un impegno, del sacrificio estremo non potrebbe essere detto e respirato in modo artisticamente più elevato.
Da ultimo, la musica, il momento conclusivo di questi miei smozzicati frammenti, miscuglio imperfetto di carte processuali e sfera emozionale. E questa mia conclusione è frutto di una casualità recentissima.
Invero, fino al 17 giugno scorso io (e numerosi colleghi ed amici, palermitani per nascita o per adozione) non sapevamo che anche la musica, nell’immediatezza delle Stragi, ha reagito al tritolo con un tratto distintivo originale e di pregio. Premetto che non conosco il linguaggio musicale e che ho solo strimpellato (malissimo) la chitarra, in una adolescenza lontana. Credo di possedere, però, una qualche corda (elementare, per carità) che mi consente, quando ascolto un brano, di percepire (in senso lato, ovviamente) la bellezza di ciò che danza intorno a me producendo armonia. E la sera del 17 giugno di quest’anno, al termine di un convegno dal titolo “Musica e Giustizia”, organizzato dal Conservatorio Niccolò Piccinni di Bari, in collaborazione con la Fondazione Vittorio Occorsio e con il Patrocinio dell’Ordine dei Giornalisti di Bari, ho ascoltato il “Requiem per le Vittime della Mafia”, per solisti, coro ed orchestra. Testo italiano di Vincenzo Consolo. Musiche di Lorenzo Ferrero, Carlo alante, Paolo Arcà, Matteo D’Amico, Giovanni Sollima, Marco Betta, Marco Tutino. In quel contesto, apprendo che l’opera era stata composta, “a più mani”, su un’idea di un giovane compositore, Marco Tutino, che fra Capaci e via D’Amelio, avvertì la necessità di far sentire, attraverso un lavoro corale ed un testo del grandissimo scrittore siciliano Vincenzo Consolo, la reazione della musica allo scempio di Capaci e via D’Amelio. Ed apprendo, sempre quel 17 giugno 2022 che quella esecuzione barese era la seconda in trent’anni. La prima ( ed unica fino ad allora), infatti, si era svolta il 27 marzo del 1993, nella Cattedrale di Palermo. Poi nulla più. La circostanza mi ha prima colpito e, poi, incuriosito e si sa che i pubblici ministeri hanno curiosità che devono, almeno tendenzialmente, soddisfare per (cercare di) far bene il loto mestiere. Una conversazione con il Maestro Marco Tutino e la lettura di alcune pagine di un suo libro “Il mestiere dell’aria che vibra” mi hanno consentito di ricostruire il tessuto connettivo di quella storia e mi permettono, oggi, di raccontare ciò che accadde, nell’immediatezza delle Stragi, nelle coscienze di chi non era né magistrato, né appartenente alle Forze dell’Ordine ma faceva parte di quella che definiamo società civile e che, inoltre, componeva musica. Riporto, perché non saprei certo dire meglio, alcuni passaggi del libro di Tutino : “Ricordo con chiarezza assoluta, dopo Capaci, il sentimento di perdita straziante, quasi fossero persone a me care, e la sensazione di pericolo, di improvvisa minaccia per un popolo intero, che quei fatti produssero nella mia percezione civile. E decisi che era mio dovere, senza esitazioni, opporre a quella sfida barbara e devastante il suo contrario, cioè la forza affermativa ed ideativa che solo l’arte e la cultura possono rappresentare. Nasce così l’idea di coinvolgere alcuni compositori italiani nel Requiem per le vittime di mafia, una grande composizione, corale in tutti i sensi, scritta a più mani ed ispirata, seppur evitando ortodossie liturgiche e religiose, alla struttura del Requiem ottocentesco, impiegata da Verdi e dunque precedente alla riforma moderna. Chiedendo ad un grande scrittore di scrivere un testo che, prendendo le mosse da quello latino, avesse la capacità di restituirne intatta ed aggiornata quella drammaticità”. Anche in questo caso, non servono molte parole, che per costume cerco di utilizzare scegliendole con cura: una composizione musicale a più mani è quanto di più lontano dalla mia idea creativa che, in questo specifico settore, mi restituisce, al contrario, l’immagine di un uomo solo davanti al suo pianoforte con lo spartito da riempire ( o da colmare di bellezza, se vi piace di più). Ma di fronte alle Stragi occorreva sovvertire le regole, attivare, una reazione collettiva quale contraltare all’orrore.
Il 27 marzo del 1993, lo leggo nel libro, la Cattedrale di Palermo si riempì di gente comune che ascoltò in religioso silenzio un’opera che per trent’anni è finita in una sorta di buco nero. Non comprendo le ragioni dell’oblio (le lascia intuire Marco Tutino nel suo libro, legate a dinamiche interne al settore musicale di quel peculiare, e ormai lontano, momento storico). Di una cosa sono oltremodo convinta, che non poter ascoltare per trent’anni quella musica, su quelle parole, è stato un peccato che non riesco a definire veniale. Invero, è questa l’arte che vogliamo, un arte che indichi, con coraggio ed originalità, una via di riscatto collettivo, perché la bellezza (e quindi l’arte) salverà il mondo. Sono altrettanto convinta che nella diuturna cosmica contesa fra Luce e buio, vincerà la Luce ed il vortice malefico di cosa nostra non ci inghiottirà mai più. Sovvengono gli ultimi tratti di verso di Vincenzo Consolo, a chiusura dell’opera: “ Vita eterna, Dio, non la morte per me, l’ora, il giorno tremendo quando cielo e terra si squarciano: Tu appari nel tribunale del mondo a leggere sentenze di fuoco. Verga a verga io tremo, io temo l’ira gelida sotto il processo, quando cielo e terra sconquassano. Ira, sciagura e rovina quel giorno, quel giorno immenso, d’immensa pena. Pace, pace, o Signore, riposo, terso cielo per loro, luminoso” .
Per questo, dopo trent’anni, l’Anm di Palermo, a chiusura del trentennale dalle Stragi, farà memoria collettiva dei nostri morti con la rappresentazione del Requiem per le Vittime di mafia al Teatro Massimo di Palermo. E si farà ammenda dell’oblio perché non si dimentichi. Non si dimentichi mai.
*Intervento svolto alla Giornata della legalità organizzata ad Agrigento lo scorso 8 luglio dalla Giunta Esecutiva dell'ANM di Palermo e dalla Scuola di formazione decentrata della magistratura presso la Corte d'Appello di Palermo in collaborazione con il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Agrigento.
Il Procuratore della Repubblica, non capo, ma dirigente di uomini
Intervista di Giuseppe Amara ad Antonio Patrono
Più dialogo che gerarchia, condivisione delle informazioni e delle decisioni, cultura delle garanzie, comunanza nell’attività di udienza. La ricetta di Antonio Patrono, Procuratore alla Spezia, per una buona dirigenza requirente, nell’intervista di Giuseppe Amara.
1. Come interpreta, nel suo ruolo di Procuratore della Repubblica, il significato degli artt. 1 e 2 d.lgs. 106/06 che espressamente le attribuiscono la titolarità dell’azione penale, nel rapporto con i magistrati del suo ufficio chiamati all’esercizio delle funzioni giurisdizionali secondo l’autonomia costituzionalmente riconosciuta agli artt. 104-107 Cost.?
Ritengo che, nella difficoltà obiettiva di trovare in astratto una soluzione soddisfacente, le soluzioni adottate dal C.S.M. nella circolare sull’organizzazione delle procure, nelle varie versioni successivamente modificate, siano corrette ed opportune nella parte in cui, a tutela dell’autonomia del sostituto, stabiliscono per il procuratore l’obbligo di interlocuzione e, in caso di dissenso permanente, l’obbligo di motivazione in caso di eventuale revoca dell’assegnazione. Nella mia esperienza di dirigente non mi sono mai trovato in una situazione simile, poiché l’interlocuzione con i sostituti ha sempre portato a decisioni condivise. Qualora il dissenso dovesse permanere, penso che revocherei l’assegnazione soltanto se ravvisassi un palese errore di diritto o, in fatto, una evidente situazione di ingiustizia, mentre in caso di semplice opinabile divergenza di opinioni credo sia giusto che prevalga quella del sostituto che ha la responsabilità della conduzione delle indagini e del sostegno dell’accusa dinanzi al giudice.
2. Nei progetti organizzativi assumono sempre maggiore incidenza disposizioni che ampliano il controllo del Procuratore sull’operato dei magistrati (ad es. visti ulteriori a quelli ex lege, richieste di informazioni sull’adozione di specifiche attività di indagine e sulle scelte definitorie). Quale significato attribuisce a tali previsioni? È una prerogativa a tutela dell’autonomia del singolo magistrato o un limite alle sue prerogative?
Non parlerei di limite alle prerogative del sostituto in relazione a previsioni che richiedono soltanto una interlocuzione con il procuratore, che anzi, a mio avviso, è opportuno che ci sia perché può consentire, mediante il reciproco scambio di idee, di comprendere meglio la situazione e adottare le migliori strategie. Credo che sia frutto di un pregiudizio negativo e sbagliato ritenere che ogni intervento del dirigente, addirittura in termini di mera informazione e consultazione, sia finalizzato e propedeutico ad ingiuste prevaricazioni. Ovviamente tutto poi dipende dalle persone, secondo me il buon dirigente è quello che riesce a conquistare la fiducia dei sostituti facendo loro comprendere che la sua presenza e il suo interessamento è soltanto rivolto ad aiutarli a lavorare meglio, prevenendo errori e favorendo le scelte migliori, e non certo a prevaricarli e a comprimere la loro sfera di autonomia. La soddisfazione maggiore, per un procuratore, si ha quando i sostituti si rivolgono a lui spontaneamente per uno scambio di idee sul loro lavoro, perché ciò dimostra la fiducia e la stima che è riuscito a guadagnarsi.
3. Iscrizione delle notizie di reato e criteri di assegnazione. Come interpreta la previsione dell’art. 1, co. 6, d.lgs. 106/06 con riferimento alle assegnazioni in specifiche materie (ad es. reati commessi da appartenenti alle forze dell’ordine) ovvero alle ipotesi di auto-assegnazione al Procuratore dei procedimenti? Ancora, qual è la sua posizione rispetto alla prima iscrizione delle notizie di reato: precede le assegnazioni o è demandata ai sostituti assegnatari?
La norma prevede gruppi di lavoro per specifiche materie per le quali è preferibile avere una particolare preparazione tecnica o esperienza professionale. In realtà i gruppi di materie di questo genere sono non più di quattro o cinque, sostanzialmente uguali per tutte le procure a meno di situazioni particolari, e infatti si ripetono più o meno in tutti i progetti organizzativi. Non mi sembra sia questo il caso, ad esempio, dei reati commessi da appartenenti alle forze dell’ordine, che invece possono costituire casi di particolare delicatezza se involgano situazioni aventi ad oggetto rapporti tra istituzioni che normalmente collaborano tra loro. Questo potrebbe essere un motivo, invece, di autoassegnazione o, meglio ancora, di coassegnazione del procedimento al procuratore, insieme con altre situazioni che abbiano sempre come comune denominatore la possibilità che l’ufficio sia esposto a pressioni ed attenzioni di vario genere, da quelle giornalistiche ad altre comunque particolarmente insidiose, che è preferibile siano fronteggiate direttamente dal responsabile dell’ufficio. L’autoassegnazione, in sostanza, a mio giudizio è particolarmente opportuna in tutti i casi in cui, per usare un’espressione gergale, l’ufficio deve “metterci la faccia”. Per quanto riguarda invece l’iscrizione delle notizie di reato, ritengo che il compito di farla, individuando in tutti i suoi dettagli (aggravanti ecc..) la corretta qualificazione giuridica, sia meglio affidarlo al sostituto che svolgerà le indagini, dopo un primo vaglio da parte di chi assegna il procedimento (il procuratore, l’aggiunto o un delegato) finalizzato, oltre che a prendere conoscenza di ciò che arriva in ufficio, anche a stabilire se la notizia di reato rientri in una delle materia specialistiche o meno e a determinare quindi chi sia il magistrato di turno a cui assegnarla.
4. Le esperienze dei vari distretti rilasciano situazioni di scopertura fra i magistrati e nell’organico del personale amministrativo, con evidenti riflessi sull’esercizio dell’attività giurisdizionale. Nel suo ruolo di dirigente, quali criteri applica nell’allocazione delle risorse disponibili, ed in particolare si tende ad un potenziamento dell’assistenza diretta al lavoro dei magistrati, ovvero si privilegiano i servizi all’utenza?
D’accordo con il dirigente amministrativo è necessario trovare l’equilibrio migliore fra le diverse esigenze. I servizi all’utenza di una procura, diversi da ciò che riguarda l’attività giudiziaria, sono per la verità abbastanza pochi, principalmente il rilascio dei certificati dal casellario giudiziale e la legalizzazione delle firme quando previsto, e devono essere ovviamente svolti con tempestività. Il resto dei servizi di segreteria riguarda più o meno direttamente l’attività giudiziaria e la loro tempistica è normalmente disciplinata dalla legge. Ogni ufficio, in base alle dimensioni e al personale disponibile, organizza le attività di segreteria nel modo più opportuno, a seconda dei casi con segreterie centralizzate o individuali. In linea di massima per l’assistenza ai magistrati sono preferibili le segreterie individuali, che sono maggiormente responsabilizzate e consentono l’immediata riferibilità delle incombenze a una ben precisa persona, mentre le segreterie centralizzate sono preferibili per attività che consentano lo svolgimento in termine di maggiore ripetitività. Quel che è certo è che la carenza di personale amministrativo è il primo e più grave problema che affligge le procure, come credo anche gli altri uffici giudiziari.
5. Venendo a temi di stretta attualità, la Consulta ha ammesso il quesito referendario sulla separazione delle carriere che, sulla base della distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti, impone la scelta iniziale, limitando la possibilità di cambio di funzione. Cosa ne pensa e quali secondo lei possono esserne i riflessi sul ruolo giurisdizionale del magistrato del pubblico ministero all'interno del nostro sistema costituzionale?
Certamente gravi. Non è una frase fatta quella della “cultura della giurisdizione”, che è fondamentale che sia comune a giudici e pubblici ministeri, che sono gli unici protagonisti del processo accomunati dalla stessa finalità, ovverosia la ricerca e l’affermazione della verità. Verità nel mondo della giustizia penale vuol dire due cose, ovverosia affermare la responsabilità dei colpevoli ed evitare che sia affermata quella degli innocenti. Per questa ragione io accomuno al concetto di “cultura della giurisdizione” quello di “cultura delle garanzie”, due facce della stessa medaglia che coesistono nel ruolo e nella mentalità dei giudici e dei pubblici ministeri. Io diffiderei moltissimo di un pubblico ministero che non ragioni come un giudice, nel senso che non faccia sempre e solo richieste che, se fosse giudice, non sarebbe convinto di dovere accogliere. Tutto ciò che allontana il pubblico ministero dal giudice, anche sul piano ordinamentale, lo allontana dalla cultura della giurisdizione e dalla cultura delle garanzie, inscindibili tra loro nell’ottica della ricerca della verità e quindi della giustizia, ed è assolutamente negativo.
6. Rapporti con l'informazione. Cosa ne pensa del nuovo quadro normativo (art. 5 d.lgs. 106/06 come modificato da d.lgs. 188/21 e d.l. A.C. 2681 sull’ampliamento delle ipotesi di illeciti disciplinari) e come ritiene che debba essere esercitata la discrezionalità del Procuratore nel comunicare all'esterno, con particolare riferimento alla nozione di rilevanza pubblica?
Le previsioni introdotte con la modifica dell’art. 5 del d.lgs. n. 106/06 erano in realtà già applicate nei loro contenuti sostanziali nei contatti con la stampa perché rispondono ai normali criteri di buon senso e di ragionevolezza. E’ infatti ovvio che le notizie che vanno sulla stampa sono solo quelle di pubblico interesse e che gli indagati e gli imputati sono cosa ben diversa dai condannati, e penso che nessun magistrato si sia mai sognato di dichiarare qualcosa di diverso. Purtroppo, come spesso accade, la distorsione verificatasi in pochi casi, per colpa di chissà chi, ha indotto il legislatore a dettare regole stringenti che, dovendo però valere sempre e per tutti, hanno l’effetto di appesantire il lavoro e di imporre incombenze che sarebbero normalmente inutili. Per quanto riguarda la possibile introduzione di un nuovo illecito disciplinare determinato dalla violazione delle prescrizioni del nuovo testo dell’art. 5 sui rapporti con la stampa, anche in questo caso non se ne sente la necessità poiché già esistono illeciti disciplinari in cui tali comportamenti potrebbero rientrare, in particolare l’art. 2 lett. d) e g) del d. lgs. n. 109/06. In ogni caso non penso che una violazione disciplinare, la cui descrizione deve essere chiara e rispondente ai criteri di formulazione che la rendano compatibile con il principio di tassatività della fattispecie, possa limitarsi ad un richiamo a concetti così generici come quelli contenuti nell’art. 5, quali la necessità per la prosecuzione delle indagini o le specifiche ragioni di interesse pubblico, che è difficile definire in via generale e al di fuori di una valutazione caso per caso se non esprimendo concetti generici e, quindi, poco significativi.
7. Lei, oltre ad essere oggi Procuratore, è stato anche componente del Consiglio Superiore della Magistratura nella consiliatura 2006-2010. Tralasciando i profili squisitamente ordinamentali e connotati da maggiore complessità tecnica, sulla scorta di detta esperienza, quali sono, secondo Lei, le caratteristiche che un Procuratore della Repubblica deve avere per poter svolgere adeguatamente un così gravoso compito?
Ne deve avere parecchie. Certamente deve avere le capacità organizzative necessarie per distribuire correttamente il lavoro fra tutti e individuare le modalità migliori per svolgerlo, con riguardo specialmente a tutte le incombenze ordinarie e ripetitive. Oggi si punta molto sulle capacità organizzative dei dirigenti, come è giusto che sia, anche se bisogna osservare che l’attività giudiziaria, compresa quella dei pubblici ministeri, è disciplinata comunque in larghissima misura dalle norme di procedura e dalle circolari del C.S.M., queste ultime sempre più dettagliate circa i moduli organizzativi da adottare e che lasciano quindi sempre meno spazio alla “fantasia” del dirigente. Anche per l’uso dell’informatica, ormai fondamentale, gli uffici si attengono agli applicativi e alle procedure ministeriali, e al dirigente spetta soprattutto il compito di verificarne il buon uso da parte degli appositi addetti. A mio giudizio, in ogni caso, la dote più auspicabile in un procuratore è quella di essere un buon “dirigente di uomini”, e per far questo occorre innanzitutto dimostrare ai colleghi, oltre ovviamente al rispetto per ognuno di loro, la più ampia disponibilità ad assisterli e aiutarli, che è il modo migliore per ottenere da tutti il massimo impegno. La stima di cui deve godere all’interno dell’ufficio è fondamentale per un procuratore, al fine di farsi apprezzare principalmente come collega. Io, ad esempio, arrivato nell’ufficio che ero chiamato a dirigere ho fatto in modo di curare personalmente indagini e andare in udienza, specie in coassegnazione con qualche collega, per dimostrare ai sostituti, che non mi conoscevano, che sapevo fare il loro stesso lavoro e potevo quindi essere un valido interlocutore per consigli e scambio di idee. Altra cosa estremamente importante è mantenere una assoluta equidistanza fra tutti, non dare mai l’impressione di avere “figli e figliastri” nell’ufficio. I colleghi sono abitualmente generosi e non si tirano mai indietro, ma ciò che non tollerano è che qualcuno sia favorito rispetto agli altri. Lo stesso atteggiamento è necessario mantenere nei confronti del personale amministrativo, e ciò è forse anche più difficile per la minore conoscenza personale che si ha in questo caso sia delle persone che della loro attività. Fondamentale, per questo, è creare sintonia con il dirigente amministrativo, il cui ruolo deve essere “intelligentemente” valorizzato al fine di ottenerne la migliore collaborazione. Se si è capaci di fare tutto ciò si è, a mio giudizio, un buon procuratore, e la cartina di tornasole è quella di verificare il livello di armonia che contraddistingue l’ufficio. Se, nonostante le difficoltà e le carenze di ogni genere in cui operiamo, in ufficio si vive un’atmosfera serena e collaborativa, allora vuol dire che chi l’ha diretto ha svolto un buon lavoro.
A trent’anni dalle stragi: ricordi e riflessioni dell’avvocatura agrigentina*
di Vincenza Gaziano
A trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, si celebra la giornata delle legalità ad Agrigento ove il contrasto tra le meraviglie paesaggistiche, naturali, artistiche e le ferite inferte dai delitti mafiosi si mostra in modo dirompente. Agrigento e la Valle dei Templi, Palma di Montechiaro la città del Gattopardo, Favara e la maestosità della Chiesa Madre, Racalmuto che diede i natali a Leonardo Sciascia, le città del litorale, Porto Empedocle con le sue lunghe spiagge dorate, Realmonte e la Scala dei Turchi, Montallegro e la riserva naturale di Torre Salsa fino a giungere a Capo Bianco ad Eraclea Minoa, territorio di straordinaria bellezza di grande interesse artistico e culturale, culla di maestri della letteratura, dilaniato per oltre un ventennio da una cruenta guerra di mafia.
Oggi, in un dialogo tra Letteratura Arte e Giustizia si ripercorrono alcune tappe degli anni delle stragi nell’agrigentino, che hanno segnato passaggi importanti anche della giurisdizione, il primo Maxi processo alla cupola agrigentina c.d. “Santa Barbara” era il 1986, il processo relativo alla prima strage di Porto Empedocle 1988-89.
In vigenza del codice Rocco, la istruttoria sommaria di entrambi i processi venne curata tra gli altri da Rosario Livatino, che sarà trucidato di lì a poco nel settembre del 1990, oggi proclamato beato, il suo esempio, la sua testimonianza rivelano il senso più autentico del principio di legalità.
Non urlato, non proclamato, non sbandierato ma perseguito ogni giorno ordinariamente e concretamente nella propria attività, incarnazione dello straordinario nell’ordinario.
1992 anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio, la provincia agrigentina nel segno dell’antagonismo tra “cosa nostra” e “stidda” sarà imperversata da una feroce guerra e da un susseguirsi di omicidi.
Il 1992 sarà ricordato tra l’altro perché si celebra dinanzi la Corte di Assise il processo 01/92, nel quale per la prima volta in aula alla presenza di tutti gli imputati si procederà all’audizione di un collaboratore di giustizia appartenente alla stidda.
Sebbene in astratto e per ovvie ragioni, il clima in aula poteva divenire incandescente, la serietà, l’indipendenza, l’onestà intellettuale e professionale di avvocati e magistrati consentirono a fronte di una poderosa istruttoria di giungere in tempi ragionevoli alla sentenza.
La collaborazione tra l’avvocatura e la magistratura, originata dalla comune cultura della giurisdizione, che aveva caratterizzato quell’Assise si rivelò determinate anche nel processo c.d “Akragras”, la cui sentenza è tra le pietre miliari della giurisprudenza in tema di associazione mafiosa e di fatti omicidiari ad essa legati nella provincia agrigentina, quest’ultimo processo nasce peraltro dalle rivelazione del primo collaboratore di Cosa Nostra.
In quegli anni così difficili e aspri, l’avvocatura agrigentina ha dato prova di avere consapevolezza del ruolo dell’avvocato, e del contributo, in ossequio del principio di legalità, nell’accertamento della verità processuale.
La figura dell’avvocato vive a torto, nell’immaginario collettivo, una sostanziale ambiguità, derivante dal fatto che il difensore è posto al centro di valori e interessi che possono, talvolta anche apertamente, confliggere e che lo costringono continuamente a fare delle scelte.
Da un lato, infatti, l’avvocato coopera alla realizzazione della giustizia, concorrendo con la propria attività difensiva a determinare la decisione del giudice, il quale pur tendendo a ricostruire la verità processuale, aspira sempre ad avvicinarsi il più possibile alla verità sostanziale; dall’altro, svolge la propria funzione per la tutela e nell’interesse del cliente, il quale non vuole una sentenza giusta ma una sentenza favorevole.
Nell’ordinamento forense attuale, si parla in proposito di “doppia fedeltà”, verso la parte assistita e verso l’ordinamento.
Nel 1970, la Corte Costituzionale nella pronuncia nella quale ammetteva finalmente l’avvocato ad assistere all’interrogatorio dell’imputato diede atto che tale esclusione era dovuta alla “piena sfiducia nell’opera del difensore”, al timore cioè che l’avvocato potesse influenzare le dichiarazioni dell’imputato, intralciando la ricerca della verità.
Tale timore, però, si poneva “in netto contrasto con il precetto costituzionale, che presuppone chiaramente che il diritto di difesa, lungi dal contrastare, si armonizza perfettamente con i fini di giustizia ai quali il processo è rivolto”.
L’affermazione dei valori costituzionali ha reso più evidente il “dramma” del difensore che deve contemperare i contrastanti interessi in gioco nel processo, agendo nell’interesse del cliente, da un lato, e contribuendo alla realizzazione della giustizia, dall’altro.
Si tratta di due modelli inconciliabili?
Si sintetizzano nel dovere di indipendenza, tanto rispetto al giudice, quanto rispetto al cliente, si armonizzano nel dovere di indipendenza da ogni potere.
A trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio la cultura della giurisdizione che accomuna avvocatura e magistratura eleva il principio di legalità a faro dell’attività di ciascuno e non a prerogativa di alcuni, affinché la straordinaria bellezza di Agrigento, squarciata per lungo tempo, possa essere il volano del cambiamento.
*Intervento svolto alla Giornata della legalità organizzata ad Agrigento lo scorso 8 luglio dalla Giunta Esecutiva dell'ANM di Palermo e dalla Scuola di formazione decentrata della magistratura presso la Corte d'Appello di Palermo in collaborazione con il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Agrigento.
Il processo ad Edipo. La sentenza di assoluzione
di Pietro Curzio
Il processo simulato a Edipo re andato in scienza a Siracusa, (Agòn) a margine della rappresentazione teatrale della tragedia di Sofocle, suscita interesse notevole, per l’autore della sentenza, Piero Curzio, Primo Presidente della Corte di Cassazione e, a monte, per l’idea stessa di far passare da un’aula di giustizia, sia pure virtualmente composta dagli attori reali del processo – imputato (G.Sartori), difesa (M.Masi), testimoni (G. Piazza, M.Crippa) consulente tecnico (M. Ammaniti), accusa (G.Salvi) giudici (Pres.P.Curzio, Giudici L.Faraci, P. Borrometi, M. Valensise, G. Piccione) - una vicenda umana complessa, nella quale si intrecciano il diritto alla (ed il dovere di) verità, l’esperienza di un regnante per molti aspetti virtuoso dell’antica Grecia, il suo rapporto straziante con le relazioni familiari e con il popolo, le cui sorti il protagonista imputato prende su di sé come solo chi è al comando e sente il peso e la responsabilità del comandare e dunque di conoscere la verità (E. Stolfi, La giustizia in scena, 2021, Bologna, 190).
Un processo che si conclude con l’assoluzione dell’imputato, accusato primariamente di reati orrendi – il parricidio e la relazione incestuosa con la madre- materialmente commessi ma al tempo stessi non voluti (M.Cartabia, Edipo Re, in M. Cartabia, L. Violante, Giustizia e mito, 2018, Bologna 61) e/o solo in parte voluti (Stolfi, 340) ma per errore di conoscenza (Cartabia, 63) che dimostra plasticamente come il processo, come oggi lo intendiamo, non è l’unico luogo ove ricercare ed accertare la verità.
Di ciò è lo stesso presidente-estensore della sentenza a dare testimonianza vibrante quando riconosce la limitatezza del suo dictum, nel quale si apprezza il decidere con espressioni nelle quali ogni parola è carica di un giudizio e per questo non richiede ampia esposizione, è essa stessa sentenza, chiara, precisa, puntuale, autorevole.
Sono questi, forse gli aspetti più sacri della decisione, anche quando è lo stesso dispositivo nel pronunziare l’assoluzione a ricordare, con la stessa forza, che “non i giudici, ma le donne e gli uomini di ogni tempo continueranno ad esprimere su di lui giudizi ben al di là dei confini di un processo penale”.
In quest’affermazione c’è un mondo carico di suggestioni, nelle quali la verità è plurale, complessa, difficile da individuare pur se da ricercare in modo sfrenato (Stolfi, 196) al punto da confermare quanto attorno ad essa occorrano energie enormi per “inventarla”.
La vicenda umana, politica e sociale di Edipo- al contempo legislatore, inquisitore e inquisito, imputato e giudice (Cartabia, 41) è figlia della complessità che accompagna le cose dell’uomo. Complessità che conduce l’imputato seppure assolto a comminarsi autonomamente la pena- l’accecamento- e ad esegurla( (Stolfi, 266).
Il processo penale non basta ad esaurire la vicenda umana e storica di Edipo re.
La giustizia amministrata nei tribunali, per quanto evoluta, non può saziare i bisogni a cui intende rispondere…(Cartabia,47).
La sentenza Curzio su Edipo, re di Tebe, è dunque testimonianza autorevole di quanto la ricerca della giustizia assuma toni e rime plurali.
Una sentenza ragionevole e giusta ma che ha in sé il senso del limite nel suo operare.
Una sentenza scritta da un giudice che per la sua saggezza salomonica ciascuno avrebbe il diritto di pretendere, oggi e per sempre, quando dovesse invocare o attendere giustizia.
R.Conti
Sentenza
Imputato: Edipo, figlio di Laio, re dei tebani
La pubblica accusa contesta ad Edipo quattro reati.
Per i primi due (lett. A e B del capo d’imputazione: parricidio e incesto) i fatti sono pienamente accertati. Egli ha ucciso il padre Laio e ha sposato la madre Giocasta.
È tuttavia parimenti certo che ha agito senza essere consapevole che Laio fosse suo padre e Giocasta sua madre. Quest’assenza di consapevolezza emerge dai fatti narrati da Sofocle ed è così radicale che Edipo indaga a fondo alla ricerca del colpevole. La tragedia ha la struttura di un giallo. Edipo è l’inquirente e cerca gli indizi con una determinazione senza la quale non si sarebbe giunti alla comprensione dei fatti.
Il perito prof. Ammaniti ha scritto e detto parole molto chiare sul punto. La inconsapevolezza può dirsi accertata.
Il diritto penale è basato su di una regola generale, un principio di civiltà, che il nostro codice così espone: “Nessuno può essere punito per una azione od omissione prevista dalla legge come reato se non l’ha commessa con coscienza e volontà”.
Non si commette il reato di incesto se non si è consapevoli che la persona con la quale si ha un rapporto sessuale è un ascendente o un discendente o una sorella o un fratello. Edipo certamente non sapeva che Giocasta fosse sua madre. Parimenti, non vi è parricidio se non si è consapevoli di uccidere il padre ed Edipo, quando uccise Laio, non poteva neanche immaginare che quell’uomo fosse suo padre.
Si potrebbe sostenere che pur non essendo un parricidio, quello commesso da Edipo è un omicidio, anzi un pluriomicidio. Ma la ricostruzione dei fatti, quale emerge dal racconto di Sofocle, è tale per cui, se è vero che Edipo uccide Laio e tutti gli uomini della sua scorta meno uno che riesce a fuggire, è altrettanto vero che non è stato lui a provocare, ma ha subito una violenza da parte di uomini armati ed in larga superiorità numerica. Ed infatti, il PM non ha contestato il pluriomicidio.
Il diritto attico dell’epoca, come spiega in un suo studio la prof.sa Cantarella, escludeva la punibilità del viandante che uccide perché assalito per strada in un’epoca i cui i viaggi erano perigliosi ed esponevano a forti rischi di subire violenze. In termini moderni si configura una situazione di legittima difesa, che comporta l’esclusione della punibilità quando chi ha commesso il fatto vi è stato costretto dalla necessità di difendere vita ed incolumità personale.
Il terzo reato contestato è di epidemia. Il nostro codice, come molti altri, punisce colui che “cagiona” un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni. Se il comportamento che cagiona l’epidemia è doloso, cioè con coscienza e volontà di determinare l’evento, la pena è massima, se è colposo la pena è minore ma comunque consistente. Mentre nell’ipotesi dolosa si vuole l’epidemia, nell’ipotesi colposa il comportamento che porta all’epidemia non mira a tale risultato ma lo determina per imprudenza, negligenza, imperizia o violazione di una specifica disciplina.
La tesi dell’accusa è che, uccidendo il padre ed avendo rapporti incestuosi con la madre, Edipo avrebbe scatenato l’ira degli dei, che avrebbero per tale motivo punito la città con la pestilenza. Ma, come si è visto, ad Edipo non può essere ascritta una negligenza, una imprudenza o oltra forma di colpa perché quando compiva quegli atti non solo non sapeva, ma non poteva sapere di essere figlio di Laio e di Giocasta.
Inoltre, quegli atti dovevano essere in grado di “cagionare” l’epidemia, tra di essi e l’epidemia vi doveva essere un nesso di causalità. Un uomo moderno non può individuare la causa di un evento con una spiegazione basata sull’ira degli dei. È necessaria una prova scientifica. Edipo non può essere considerato responsabile perché non vi è prova adeguata che il suo comportamento abbia determinato la pestilenza.
Quanto, infine, al quarto capo d’imputazione, deve escludersi che egli abbia posto in essere una minaccia grave nei confronti di Tiresia al fine di costringerlo a rivelare il nome di chi uccise Laio.
In realtà, nel dialogo tra Edipo e Tiresia, non vi è minaccia, tanto meno grave. Edipo supplica in ginocchio Tiresia, poi di fronte al suo atteggiamento ambiguo e reticente, lo definisce infame degli infami, poi ipotizza che sia d’accordo con Creonte, ma in nessun passaggio lo minaccia di un danno ingiusto e anche quando si spinge ad affermare che lui e Creonte la pagheranno cara, precisa “se non avessi l’aspetto di un vecchio l’avresti già imparato a tue spese”, escludendo in tal modo la minaccia di fargli del male. Del resto, il coro commenta l’alterco tra i due: “a noi sembra che abbiate parlato entrambi in preda all’ira”. Anche il reato di minaccia quindi non sussiste.
In conclusione, come ha scritto il perito prof. Ammaniti, “Edipo non è punibile avendo agito in uno stato di totale incoscienza vittima di un passato che lo ha profondamente segnato”.
La sua inconsapevolezza non solo è giustificata da una storia per lui inimmaginabile oltre che traumatica, ma viene superata grazie al suo impegno spasmodico nel cercare la verità. Senza quella sua ricerca la verità non sarebbe emersa ed egli sarebbe rimasto re ed eroe.
E quando alla verità infine giunge, Edipo assume su di sé la responsabilità di quelle tristi vicende, senza nascondersi dietro la volontà degli dei. Si autoinfligge le pene dell’esilio e dell’accecamento. Si priva degli occhi quando finalmente vede.
Nella sua parabola sono state lette tante cose. Il collegio giudicante non deve andare oltre il suo compito che è solo quello di verificare se sono stati commessi reati. E reati non sono stati commessi.
PQM
la Corte assolve Edipo dalle imputazioni a lui ascritte.
Non i giudici, ma le donne e gli uomini di ogni tempo continueranno ad esprimere su di lui giudizi ben al di là dei confini di un processo penale.
Sarà difficile negare che Edipo è colui che ha cercato, con ostinazione e senza infingimenti, di conoscere se stesso.
Ed è inorridito, perché, come Sofocle fa dire al Coro dell’Antigone, “molte le cose tremende, ma di tutte la più tremenda è l’uomo”.
Siracusa, 24 giugno 2022
Il Presidente estensore
Pietro Curzio
La decisione della Corte costituzionale sul cognome del figlio e il diritto di famiglia mobile. Riflessioni sulla funzione della Corte costituzionale nel sistema di effettività dei diritti[1]
di Mirzia Bianca
Sommario: 1. Premesse - 2. Una questione di merito - 3. Una questione di metodo - 4. Riflessioni conclusive anche de jure condendo.
1. Premesse
La decisione della Corte Costituzionale del 31 maggio 2022, n. 131, a ragione è stata definita una sentenza 'storica'[2]. Con questa decisione la Corte Costituzionale ha finalmente portato a termine un lungo percorso costellato da vari interventi della Corte costituzionale[3], interventi della dottrina[4] e plurimi tentativi del legislatore[5], tra cui un progetto del legislatore della Riforma della filiazione che fu fermato per ragioni finanziarie[6], per eliminare la diseguaglianza derivante dalla attribuzione del cognome al figlio, diseguaglianza disegnata da un complesso di norme, alcune di diritto effettivo, altre derivanti dalla norma scritta, tutte volte alla costruzione di un cittadella inoppugnabile che nel corso del tempo ha sempre assicurato l'attribuzione al figlio del cognome paterno. E' curioso rilevare che questa regola palesemente discriminatoria ha trovato applicazione nei confronti di tutti i figli (nati nel matrimonio, adottivi, nati fuori del matrimonio), con una patologica applicazione del principio di unicità dello stato di figlio. Per ragioni di sintesi, in luogo di dar conto dei vari passaggi procedurali che emergono facilmente dalla lettura della decisione[7], è utile palesare al lettore quale è il principio di diritto che la Corte applica ai figli nati fuori del matrimonio, ma che estende ai figli adottivi e ai figli nati all'interno del matrimonio. Il principio è che debba attribuirsi al figlio sia il cognome della madre sia il cognome del padre, nell'ordine stabilito dalla coppia. In caso di disaccordo sull'ordine è previsto l'intervento del giudice. Al fine di attribuire il cognome di un solo ramo genitoriale (materno o paterno) è invece necessario l'accordo della coppia. La soluzione della obbligatorietà del doppio cognome supera l'impianto patriarcale, mentre l'ordine della collocazione dei cognomi è lasciato all'accordo. In luogo dell'accordo, forse sarebbe stato preferibile un criterio oggettivo come l'ordine alfabetico, come previsto in qualche progetto di legge, anziché lasciare ai genitori una scelta che potrebbe portare a qualche soluzione conflittuale, con il rischio di un intervento discrezionale del giudice. In ogni modo tale principio di diritto è di immediata applicazione ai nuovi nati e ai procedimenti pendenti per l'attribuzione del cognome ed è stato oggetto di una recente circolare del Ministero dell'interno[8]. La decisione è non solo storica ma direi rivoluzionaria perché muta all'improvviso il paradigma culturale, di costume, nonché normativo che ci ha accompagnato per secoli e che ha determinato anche le scelte sull'attribuzione del cognome dei nostri figli. E' vero che la decisione si pone nel solco di un percorso evolutivo segnato da varie decisioni della Corte Costituzionale e della giurisprudenza che gradualmente hanno smantellato la regola patriarcale e da vari tentativi del legislatore conditi dalla riflessione della dottrina, ma oggi l'interprete ha la sensazione della definitività e quindi dell'inizio di una nuova era. Delle tante riflessioni che questa decisione evoca, vorrei concentrarmi nelle pagine che seguono su due ordini di riflessioni: una riflessione di contenuto e una riflessione di metodo. I due ordini di riflessione sono collegati in quanto la riflessione sul merito nasce ed è anche l'effetto di una scelta di metodo, che contribuisce a definire sempre di più i caratteri del diritto di famiglia e l'evoluzione del sistema, anche grazie al fecondo intervento della Corte Costituzionale. Dedicherò poi alcune riflessioni conclusive all'intervento del legislatore e a quello che sarà il dopo di questa decisione.
2. Una questione di merito
Con riferimento alla riflessione di merito, può dirsi che questa decisione porta contestualmente alla distruzione dell'ultima cittadella dell'autorità privata familiare[9] e patriarcale[10] e alla costruzione di una nuova concezione della famiglia, in cui l'unità è il frutto dell'uguaglianza e in cui l'identità del figlio si costruisce sull'eguaglianza dei genitori. L'attribuzione del cognome paterno e quindi il patronimico è stata nella famiglia fondata sul matrimonio una regola talmente radicata nel costume e nelle consuetudini familiari da essere norma di diritto effettivo[11], implicitamente ricavabile da un complesso di disposizioni. Nel codice civile del 1865, mentre la regola dell'attribuzione alla moglie del cognome del marito è contenuta nella norma (art. 131) che afferma che “il marito è il capo della famiglia: la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome, ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno di fissare la sua residenza”, l'attribuzione del cognome paterno del figlio non è mai esplicitata, ma è desumibile quale regola implicita da altre norme come quella sul possesso di stato (art. 172) tra i cui fatti volti a provarlo è incluso “che l'individuo abbia sempre portato il cognome del padre che egli pretende di avere”. La posizione autoritaria del marito nei confronti della moglie si desume anche nel rapporto genitori-figli nella definizione della potestà allora solo maritale. Sempre nel codice del 1865 la regola del patronimico trova invece espressione con riferimento ai figli allora chiamati naturali nella regola (art. 185) che “prevede che il figlio naturale assume il nome di famiglia del genitore che lo ha riconosciuto, o quello del padre, se è stato riconosciuto da entrambi i genitori”. Nel codice civile del 1942, si riproduce il medesimo schema normativo, per cui la regola del patronimico trova piena espressione riguardo ai figli nati fuori dal matrimonio con una regola che riproduce sostanzialmente il contenuto di quella del codice del 1865. Con riferimento ai figli nati nel matrimonio, la prevalenza del cognome paterno continua ad essere regola implicita desumibile da un complesso di disposizioni. L'unica novità nei rapporti di coppia si ha con la riforma del 1975 che, in considerazione della avvenuta parificazione della posizione della moglie a quella del marito, introduce il nuovo art. 143-bis del codice civile che prevede che “la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze”. Questa norma, pur nel limitato effetto di prevedere la facoltà di aggiunta al proprio del cognome maritale, evidenzia una sicura emancipazione della donna all'interno della famiglia. Con riferimento al cognome dei figli, invece, nonostante si sia registrata nel corso di ottanta anni dalla emanazione del codice civile una progressiva parificazione delle figure genitoriali e un abbandono di quella che un tempo era denominata patria potestà, con una progressiva rilevanza dei diritti fondamentali del figlio, compreso quello all'identità, la regola del patronimico è rimasta sempre in vigore, nonostante vari tentativi della giurisprudenza e del legislatore di modificarla. Come si è gia accennato, con riferimento alla Riforma della filiazione il progetto di introdurre una nuova regola che prevedesse l'attribuzione del cognome di entrambi i genitori fu fermata dall'allora Ministro dell'economia preoccupato di dover impiegare eccessive risorse finanziarie per la modifica dei codici fiscali. Questo curioso scollamento tra avanzamento del sistema con l'attuazione del principio costituzionale di uguaglianza e del principio di non discriminazione contenuto nelle Carte internazionali[12] e il mantenimento della prospettiva patriarcale nella trasmissione del cognome, evidenzia come sia riduttivo e banale limitare la portata del dibattito ad un problema di genere e di uguaglianza tra i componenti della coppia, dato che la progressiva parità tra la donna e il marito non ha portato nel tempo a rimuovere questa regola. Occorre quindi chiedersi se dietro la regola del patronimico ci sia qualcosa di più. Come qualcuno ha detto[13], forse il mantenimento di questa regola è servito a compensare l'incertezza della paternità, rispetto alla regola per cui mater semper certa est. Quello che è certo è che la rimozione di questa regola assume una portata dirompente non solo in termini giuridici, ma anche in termini culturali. Le origini del patronimico nella Bibbia ebraica e nell'antica Grecia e l'onomastica hanno costruito un sistema di cognomi che è stato costruito anche in base al patronimico e che spesso era lo strumento per assicurare la discendenza da uno stesso casato. Dal nome del Pelide Achille (figlio di Peleo) dell'antica Grecia, l'esperienza di altre popolazioni come la tradizione irlandese e scozzese si caratterizza per l'anteposizione del suffisso gaelico O' o del suffisso Mac per indicare la discendenza da una stessa famiglia. Anche molti cognomi italiani sono stati costruiti proprio sulla base del patronimico, come Di Giovanni, Di Matteo, etc. Inoltre in Italia, fino al XVII secolo, molte persone aggiungevano al proprio cognome quello del nonno o dell'ascendente. Questa secolare tradizione patronimica riservata unilateralmente alla discendenza paterna, salve poche eccezioni in Nord Europa che si caratterizzano per una tradizione matronimica, ha tracciato una prassi culturale in cui il cognome era uno strumento di trasmissione del casato, della discendenza e quindi era uno strumento asservito prevalentemente agli interessi patrimoniali della Grande Famiglia. L'attuale abbandono di questa tradizione culturale porta ad una riconquista della discendenza che non è più intesa, come in passato, in senso patrimoniale, ma declinata in senso non patrimoniale, come espressione della identità della persona e della sua appartenenza alla comunità familiare[14]. Nella decisione che si commenta, dopo un passaggio molto significativo sul valore del nome e del cognome quali strumenti di espressione e della costruzione anche futura della identità, mi hanno colpito alcune parole della motivazione che proprio nella regola patriarcale vedono l'obliterazione della figura femminile e della sua discendenza: “La selezione, fra i dati preesistenti all’attribuzione del cognome, della sola linea parentale paterna, oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre. A fronte del riconoscimento contemporaneo del figlio, il segno dell’unione fra i due genitori si traduce nell’invisibilità della donna”. In questo significativo passaggio della motivazione della decisione si coglie la sua portata rivoluzionaria, che non è riducibile semplicisticamente ad una questione di non discriminazione, ma ci proietta in una nuova stagione in cui la nuova dimensione non patrimonialistica della discendenza significa appartenenza ad una comunità di idee, di valori, di sentimenti, che non è giusto riservare ad un solo ramo genitoriale, perché sono beni comuni del figlio e con esso devono essere condivisi.
3. Una questione di metodo
Come ho già accennato nelle premesse, l'importanza di questa decisione non si coglie solo con riferimento al merito, ma anche al metodo. Il percorso delle decisioni della Corte Costituzionale sul problema dell'attribuzione del cognome paterno evidenzia l'importante funzione della Corte Costituzionale quale organo istituzionale deputato anche al controllo e all'adeguamento della norma giuridica ai cambiamenti della società e del costume, secondo l'applicazione del principio di effettività e della massima ex facto oritur ius[15]. Questa specifica funzione della Corte Costituzionale contribuisce insieme alla dottrina e al legislatore a costruire il diritto di famiglia come un diritto mobile, in quanto la fissità della regola giuridica viene compensata dalle diverse interpretazioni che vengono date nel corso del tempo, in ragione della mobilità della società e del costume[16]. Se si legge il testo delle varie decisioni della Corte costituzionale in materia di attribuzione del cognome del figlio, si nota come, in ragione della diversa regola del costume, le stesse argomentazioni sono state utilizzate in senso difforme.[17] In particolare, con riferimento al principio di unità della famiglia, nel 1988 (decisione n. 176, redattore Luigi Mengoni) si afferma che “la mancata previsione della facoltà per la madre di trasmettere il proprio cognome ai figli legittimi e per questi di assumere anche il cognome materno, non contrasta ne' con l'art. 29 Cost., in quanto viene utilizzata una regola radicata nel costume sociale, come criterio di tutela dell'unita' della famiglia fondata sul matrimonio ne' con l'art. 3 Cost., in riferimento ai figli adottivi, poiche' la preclusione vale anche per questi ultimi, secondo la corretta interpretazione dell'art.27, L. n. 184/1983”. In un'altra decisione della Corte Costituzionale, sempre del 1988 (n. 586, redattore Saja) si legge che “nell'interesse alla conservazione dell'unita` familiare (art. 29 Cost.), il cognome dei figli legittimi deve essere prestabilito fin dal momento dell'atto costitutivo della famiglia, in guisa che a questi sia esteso ope legis e non gia` scelto dai genitori in sede di formazione dell'atto di nascita (come il prenome)”. In una successiva decisione del 2016 (n. 286, redattore Amato), si avverte un decisivo cambiamento di rotta e si legge che “la diversità di trattamento dei coniugi nell'attribuzione del cognome ai figli, in quanto espressione di una superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi, non è compatibile né con il principio di uguaglianza, né con il principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, poiché la perdurante mortificazione del diritto della madre a che il figlio acquisti anche il suo cognome - lungi dal garantire - contraddice, ora come allora, quella finalità di salvaguardia dell'unità familiare (art. 29, secondo comma, Cost.), individuata quale ratio giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi”. Le medesime argomentazioni sono contenute nelle più recenti decisioni della Corte costituzionale (n. 18 del 2021, Redattore Amato) compresa questa che qui si commenta in cui si si afferma che “l’unità si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità”.
La lettura dei passaggi delle varie decisioni della Corte Costituzionale evidenzia come, a norme giuridiche pressochè invariate, la Corte abbia dato nel tempo diverse interpretazioni, contribuendo a rendere mobile il diritto di famiglia e ad asservirlo alle mutate esigenze della società e del costume.
4. Riflessioni conclusive anche de jure condendo
Volendo trarre alcune conclusioni, può dirsi che anche con questa decisione la Corte Costituzionale ha svolto una funzione suppletiva del legislatore e promozionale della legalità costituzionale. In particolare si apprezza il dinamismo della Corte Costituzionale che non aspetta passivamente l'intervento del legislatore ma, prendendo atto del naufragio delle numerose proposte di riforma legislativa “non può esimersi dal rendere effettiva la legalità costituzionale”[18]. Si apprezza inoltre la funzione di indirizzo del legislatore, in quanto la Corte si fa carico di indicare al legislatore le note più delicate di una futura regolamentazione, che sono il rischio di un effetto moltiplicatore in ragione della successione verticale tra le generazioni e l'esigenza di apprestare regole che consentano di realizzare un risultato uniforme per tutti i figli. La regolamentazione non sarà opera facile in quanto occorrerà trovare un giusto equilibrio tra la conservazione del principio di parità e l'esigenza di assicurare un sistema efficiente che possa dare piena attuazione al principio identitario senza portare a diseconomie di spesa e a complessità eccessive. Adesso la palla spetta al legislatore e l'auspicio è che l'intervento sia tempestivo e improntato al medesimo equilibrio e alla medesima ragionevolezza che hanno ispirato la Corte Costituzionale in questa bella decisione.
[1] Dedico anche questo mio scritto a mio Padre, che non aveva dimenticato questa importante questione ma aveva cercato di inserirla nella Riforma della filiazione, tentativo che non trovò la luce per questioni finanziarie.
[2] V. M. A. IANNICELLI, La scelta del cognome da attribuire al figlio deve poter essere condiviso dai genitori, in Familia, 30 aprile 2022.
[3] Sui vari interventi della Corte costituzionale, v. M. A. IANNICELLI, Al figlio deve essere attribuito il cognome di entrambi i genitori (salvo diverso loro accordo): la Corte costituzionale anticipa il legislatore, in Familia, 2022, 375 e ss.
[4] V. tra gli altri i numerosi contributi di S. TROIANO (in CM. BIANCA (a cura di), La riforma della filiazione, Padova, 2015; 296 e ss.; in M. BIANCA (a cura di ), The best interest of the child, Roma, 2021, 1412; in U. SALANITRO ( a cura di), Il sistema del diritto di famiglia dopo la stagione delle riforme, Pisa, 2019, 263 e ss.; nota a C. cost. n. 18 del 2021, in Ngcc., 2021, 598 e ss; in Tratt. Zatti, Padova, 2018, 125 e ss. ); G. BALLARANI, in Dir. Fam e pers. 2018, 741 e ss. Vari scritti dedicati a questo tema sono contenuti in Actualidad Jurídica Iberoamericana, nº 16 bis, junio 2022, Estudioso de derecho privado en homenjae al Profesor Cesare Massimo Bianca, Coordinadores: Mirzia Bianca y José Ramón de Verda y Beamonte e in particolare gli scritti di M. A. IANNICELLI, B. AGOSTINELLI, M. CAVALLARO e V. BARBA.
[5] Per una accurata analisi dei vari progetti di legge che sono stati presentati in Parlamento, rinvio a M. A. IANNICELLI, Al figlio deve essere attribuito il cognome di entrambi i genitori (salvo diverso loro accordo): la Corte costituzionale anticipa il legislatore, cit.
[6] L'dea di provvedere ad una regolamentazione del cognome del figlio fu una scelta che si palesò gia nella Commissione Bindi ma che tuttavia fu fermata dall'allora Ministro dell'Economia per la paura di un eccessivo dispendio di spese.
[7] Per questi rinvio alla bella nota di commento di M. A. IANNICELLI, op ult cit.
[8] V. al riguardo la Circolare n. 63 del 1° Giugno 2022.
[9] Sulle autorità private, v. C.M. BIANCA, Le autorità private, Napoli, 1977 pubblicato in Realtà sociale ed effettività della norma giuridica. Scritti giuridici, vol. I, t. 1, cit., 47 e ss.
[10] Sulla famiglia patriarcale nel periodo dei codici preunitari, v. le parole di P. UNGARI, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1975), Bologna, 2002: “....la fissità della famiglia, la continuità attraverso il tempo del suo patrimonio e il conseguente privilegio dei maschi sulle femmine erano altrettanti strumenti di quello sforzo di pietrificazione della società italiana e di irrigidimento programmatico delle sue frontiere di classe che corrispondevano a una tendenza profonda della Restaurazione nostrana, difesa di un mondo agricolo e signorile, di un'antica borghesia patriarcale, di artigianati corporativi cittadini, contro i fermenti dissolventi della nuova etica 'industriale' e liberale”.
[11] Così viene definita da C.M. BIANCA, Diritto civile 2.1., 6° ed., Milano, 2017, 373.
[12] Sull'attribuzione del cognome paterno l'Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per violazione del principio di non discriminazione, v. Corte EDU con sent. 7 gennaio 2014, Cusan Fazzo c. Italia (ric. n. 77/07)
[13] V. E. BELLISARIO, Nomen omen. La fine della regola del patronimico, in Giustiziacivile.com, 4 maggio 2022.
[14] Per una prospettiva privatistica della discendenza, v. M. A. IANNICELLI, op ult cit.
[15] V. al riguardo C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, in Riv. dir. civ., 1995, I, 787 ora in Realtà sociale ed effettività della norma giuridica. Scritti giuridici, vol. I, t. 1, cit., 189 e ss. Il tema era stato da Lui trattato già precedentemente nel saggio: Il principio di effettività come fondamento della norma di diritto positivo: un problema di metodo della dottrina privatistica, in Estudios de derecho civil en honor del prof. Castàn Tobenas, vol. II, Pamplona, 61 e ss. e ora in Realtà sociale ed effettività della norma giuridica. Scritti giuridici, vol. I, t. 1, cit., 35 e ss.
[16] Sia consentito il rinvio alla mia relazione tenutasi al Convegno del CSM tenutosi a Roma nei giorni 20 e 21 giugno 2022 dal titolo Nell'ottantesimo del codice civile. Giurisprudenza e dottrina a confronto. In particolare la mia relazione è stata dedicata al libro I del codice civile, nella parte riguardante i rapporti familiari.
[17] Questo approccio metedologico della Corte è evidenziato da N. LIPARI, Elogio della giustizia, Bologna, 2021, con riferimento all'abrogata disposizione sull'adulterio della moglie.
[18] Così testualmente in motivazione.
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