ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ricordare le stragi del ’92 per riflettere intorno alla magistratura. Un nuovo alfabeto per la giustizia
di Roberto Conti*
…ci sono delle verità – frantumi, come di specchio, di una ignota verità – che, una volta scoperte o incautamente confessate, possono avere echi imprevedibili o molteplici, effetti liberatori o micidiali: e sono le verità che rovesciano o disgregano le apparenze, le «menzogne convenzionali»
[L. Sciascia, Alfabeto pirandelliano, in Opere, a cura di P. Squillacioti, Milano, 2019, Vol. II, Tomo II, 972]
Sommario: 1. Rileggere la giustizia a trent’anni dalle stragi del 1992. - 2. L’incertezza e l’imprevedibilità del diritto giurisprudenziale. È un male della giustizia? - 3. Il mestiere del giudice per Sciascia e per la società. - 4. Una, nessuna, centomila verità per Sciascia e per la giustizia. - 5. La leale cooperazione fra i diversi “costruttori di verità” verso la ricerca della verità. Per un nuovo alfabeto della giustizia.
1. Rileggere la giustizia a trent’anni dalle stragi del 1992.
Rileggere le stragi alla luce del sistema-giustizia e iniziare a cominciare a praticare un alfabeto nuovo nel quale compaiono (devono comparire) termini non nuovi ma percepiti, sentiti ed utilizzati come davvero nuovi.
Dunque, una prospettiva, quella che qui si vuol proporre, nuova - come nuovo e delicato è il momento che il sistema-giustizia sta vivendo -.
Oggi non possiamo più limitarci a celebrare le stragi e chi ha sacrificato il bene supremo della vita in nome della giustizia, ma abbiamo il dovere di interrogarci sul se questo sistema sia degno di quei sacrifici ed in generale adeguato a quello che la società civile si aspetta da noi.
Una prospettiva, dunque, diversa da quella celebrativa di cui - a dire il vero - siamo tutti un po’ stanchi, e molto più riflessiva, intesa (nelle intenzioni di chi parla) ad offrire a chi ascolta - e molti di coloro che ascoltano sono anch’essi a vario titolo ed a seconda delle diverse funzioni protagonisti di questo stesso sistema - non tanto risposte definitive quanto punti di riflessione, interrogativi e magari qualche prospettiva concreta.
Il coinvolgimento della Scuola della magistratura è, del resto, dimostrativo della volontà di offrire (recte, di provare ad offrire) una ragionata analisi del sistema giudiziario, di ciò che va, di ciò che non va e di ciò che potrebbe o dovrebbe andare meglio, in una prospettiva di effettività e concretezza, ben fuori da stentoree e ripetitive rievocazioni delle vicende che hanno portato alle stragi del 1992.
Il titolo di questa giornata è prodigo di consigli, poiché l’idea di accostare il mondo della giustizia a quello dell’arte e della letteratura è sicuramente vincente per tante ragioni. La contemporanea presenza in questi luoghi della mostra “Arte e diritti umani” organizzata dall’Associazione Pegaso in collaborazione con il Fai e l’Università Cattolica in mostre itineranti - ospitata proprio in questo museo[1] - è testimonianza vivente di quanto il mondo del diritto non sia un aliud rispetto alle arti e alla cultura, ma con esso debba stabilmente “camminare”.
Appunto questa è la prospettiva che intendo offrivi: quella di ragionare su quelle che sia e debba essere oggi la “cultura della giurisdizione”.
Per compiere questo itinerario è splendido attingere alle opere, ai racconti, ai resoconti giornalistici e alla storia politica di Leonardo Sciascia[2], e lo è in questo momento particolare per plurime ragioni.
Sciascia, anzitutto, ha vissuto di giustizia pur non essendo giudice o avvocato; per questo nel tempo le sue riflessioni, ancora oggi attuali come ci ricorda Gabriella Luccioli nella sua riflessione su La strega e il capitano[3], sono state volta a volta premonitrici, vaticinatrici di temi, problemi e mali della giustizia, culminando in quello storico convegno tenutosi a Racalmuto nel 1986 intitolato “Il problema della giustizia”.
Per altro verso, proprio in quel medesimo contesto temporale e territoriale si sviluppava e prendeva corpo parallelamente - anche se con percorsi non pienamente sovrapponibili - l’esperienza giudiziaria ed umana di Rosario Livatino che ha sacrificato la sua vita a pochi chilometri da questi luoghi meravigliosi sulle “questioni che ruotano attorno alla giustizia”.
In quel convegno Leonardo Sciascia, nella sua Racalmuto, il 27 aprile 1986 dichiarò di sentirsi ossessionato dalla giustizia.
Di seguito si cercherà di affrontare tre nodi problematici che affaticano chi vive di giustizia. Incertezza ed imprevedibilità del diritto, ruolo del giudice e diritto alla verità senza volere offrire risposte ma, semmai, cercando di mettere insieme dei punti di riflessione che possano essere di utilità a chi ascolta.
Una premessa è tuttavia necessaria ed è quella che, a sommesso giudizio di chi parla, chi abbia l’ardire di porsi come interprete fedele e autentico del “dire” di Sciascia finirebbe, in definitiva, per tradirlo, mistificando il senso delle sue ricerche e dimenticandone il pensiero e soprattutto il senso finale della sua ricerca della e delle verità.
Quando Sciascia afferma di avere detto “qualche inoppugnabile verità”, ma al contempo di avere in altre occasioni fallito, “ma mai in malafede”, sembra voler dire che per rispondere al quesito finale - Chi può mai trovare la verità? - è il procedere per approssimazioni, per dati esperienziali, a dare alimento alle passioni, senza le quali una moderna democrazia non può vivere, pur con le contraddizioni ed i nodi problematici che non sempre potranno sciogliersi.
Camminare con Sciascia in questo itinerario vuol dire porsi lontano dall’offrire dotte certezze ma, per quel nulla che vale, dare testimonianza di quello che Giovanni Fiandaca, rileggendo Sciascia, ha descritto come “bisogno di fare autocoscienza, di un’esigenza di autoanalisi e riflessione sollecitati dalla accresciuta consapevolezza della condizione di crisi in cui non da ora versa il pianeta-giustizia”[4].
2. L’incertezza e l’imprevedibilità del diritto giurisprudenziale. È un male della giustizia?
Più volte si richiama Sciascia per criticare l’attuale assetto della giustizia ed il bilanciamento fra giustizia e potere politico, al punto che si sarebbe realizzato uno sbilanciamento in favore della prima in danno del secondo, assecondando l’idea che la giustizia vesta i panni del legislatore senza averne alcuna legittimazione democratica. E ciò anche su temi eticamente sensibili - si pensi alle questioni che ruotano attorno al fine vita - che dovrebbero, invece, suggerire atteggiamenti prudenti della giurisdizione a pena di mettere in discussione i capisaldi della democrazia e lo stesso art. 101 Cost. La produzione sciascia viene intesa come inno alla legalità fondata sulle leggi alle quali il giudice non deve nè può, per Costituzione, sostituirsi. Anche di recente si è parlato, autorevolmente, di “decostruzione del sistema” che vedrebbe nel diritto giurisprudenziale[5] la prima causa di un ordinamento ormai inesorabilmente orientato verso l’eclissi del diritto, per dirla con il Prof. Castronovo. Insomma, espressioni, queste ultime che fanno il paio con l’idea, espressa in modo molto più crudo, di chi[6] ha stigmatizzato posizioni anche interne alla magistratura[7] e di una parte della dottrina[8] definite “eversive”, capaci per l’appunto di condurre ad uno stravolgimento dei principi costituzionali[9].
Il percorso che sembra tracciare Sciascia viene a volte richiamato per sostenere questa necessità di restringere i confini del potere giudiziario - innaturalmente da quest’ultimo estesi - per riportarli dove naturalmente essi hanno necessità di albergare, e ciò proprio in una prospettiva di salvaguardia di un’esigenza di certezza ed eguaglianza.
A me pare anche in questo caso molto importante partire da Sciascia ed affermare che se il giudice deve essere dall’altro lato del potere e contrastarne i vizi, ciò deve potere fare confrontandosi con la complessità del sistema ma anche e soprattutto con la centralità dell’uomo e dei valori che esso incarna.
Ora, l’attuale contesto della giustizia è aggrovigliato attorno a chi si accapiglia sul rapporto fra giudice e legge con prese di posizione che odorano, a volte, di scontri epici fra guelfi e ghibellini ed altre assumono il sapore di vere e proprie crociate, spesso condizionate dal risultato finale al quale perviene il decisore o pensatore di turno.
Il discorso parte da lontano e qui si può soltanto provare a sintetizzarlo, sopratuttto a beneficio delle generazioni di giuristi più giovani.
Fu infatti la presa di posizione della magistratura associata espressa in occasione del Congresso tenutosi a Gardone dal 25 al 28 settembre 1965 a dare una spinta decisiva al tema dell’interpretazione conforme a Costituzione e alla piena efficacia della Carta costituzionale. In quella occasione si abbandonò la concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad una attività puramente formalistica, indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese affermando che «il giudice, all’opposto, deve essere consapevole della portata politico–costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione». In quella stessa circostanza si affermò che « spetta pertanto al giudice, in posizione di imparzialità ed indipendenza nei confronti di ogni organizzazione politica e di ogni centro di potere: 1) applicare direttamente le norme della Costituzione quando ciò sia tecnicamente possibile in relazione al fatto concreto controverso; 2) rinviare all’esame della Corte costituzionale, anche d’ufficio, le leggi che non si prestino ad essere ricondotte, nel momento interpretativo, al dettato costituzionale; 3) interpretare tutte le leggi in conformità ai principi contenuti nella Costituzione, che rappresentano i nuovi principi fondamentali dell’ordinamento giuridico statuale».
In questo sostrato culturale, allora condiviso dalla giusridizione, attecchì il tema del rapporto sempre più stretto fra giudice comune e Corte costituzionale, costruito per un verso attorno alla dottrina del “diritto vivente” capace di valorizzare in modo significativo il ruolo del giudiziario nell’individuazione del contenuto della norma impugnata e, per altro, verso, sull’invito rivolto ai giudici da parte della Corte costituzionale affinché questi facciano uso dei loro poteri interpretativi, privilegiando la lettura delle norme conforme ai principi costituzionali. Da qui una fase di grande fermento nella giurisdizione comune, investita di un significativo potere di intervento, in alternativa al giudice costituzionale concorrendo ad importanti operazioni di trasformazione dell’ordinamento repubblicano.
Accanto a questo fenomeno si è andato sviluppando, in modo non sempre articolato, il rapporto sempre più stretto fra giudice comune e fonti e Corti sovranazionali, sviluppatosi essenzialmente in ambito giurisprudenziale, ancora una volta per effetto di importanti grand arret della giurisprudenza costituzionale- sentenza Granital (Corte cost.n.169/1984) e sentenze gemelle nn.348 e 349 del 2007- che sono state occasionati dal crescente ed incisivo seguito goduto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte dei diritti umani presso il giudice comune. Il processo in atto in corso vede emergere una tendenza al riaccentramento del ruolo della Corte costituzionale a scapito della funzione del giudice comune, individuandosi in ogni caso delle significative affinità fra l’attivismo del giudice comune nella protezione dei principi fondamentali scolpiti dalle Carte dei diritti ed il ruolo proattivo di quello costituzionale. Ecco qui sintetizzate le due prospettive che guardano a questi fenomeni in modo dicotomico e dunque come espressive vuoi di un suprematismo giudiziario da arginare, vuoi di una democrazia giudiziaria non eliminabile in un sistema costituzionale dinamico quale sarebbe quello italiano. Queste prospettive sopra tratteggiate, d’altra parte, si scontrano con un sistema giudiziario fortemente orientato a fronteggiare il tema della durata dei processi, della scarsità delle risorse organizzative, della crisi del “sistema giustizia” prodotta dalla crisi pandemica che, seppur capace di determinare uno scatto in avanti verso forme di efficienza commendevoli, sembra a volte implicitamente muovere dal postulato che le tematiche qui esposte debbano riguardare in via prioritaria le “Alte giurisdizioni” e non il giudice di merito.
Come uscire da questo impasse?
La scommessa sta, forse, più che nella ricerca del tarlo dell’una o dell’altra posizione, piuttosto nell’aprirsi alla ricerca di un equo contemperamento fra l’avanzare di un costituzionalismo sociale ( C. Caruso, Un manifesto costituzionale: recensione a Tania Groppi, Oltre le gerarchie. In difesa del costituzionalismo sociale, in Giustiziainsieme, 2 luglio 2022) e globale, nel quale assumono crescente peso e significato i principi fondamentali della persona e la necessità di realizzare una giusta convivenza con altri principi ed interessi di pari rango costituzionale, nessuno dei quali può assumere una posizione tirannica se non quello della dignità, come ci ricorda, di recente, Gabriella Luccioli, nel suo delizioso scritto dedicato al fine vita-Dignità della persona e fine della vita, Bari, 2022). E fa certo riflettere la posizione espressa di recente da chi, appunto, ha per tanto tempo valorizzato il ruolo del giudiziario nella protezione dei diritti fondamentali ed oggi si soffermi sul carattere camaleontico del ruolo di giudici- per il vero, soprattutto di quelli costituzionali – per evidenziarne l’innaturale propensione verso la funzione normativa[10].Quasi a volere confermare che il continuo processo di osmosi fra legge, giudici e giustizia porti i diversi "volti" ad assumere sembianze innaturali perchè innaturalmente considerate come sovrapponibili.
Quando si affronta il tema del rapporto fra legge e giudice a volte, forse, non ci si sofferma adeguatamente sulla complessità[11] – di Sciascia, della società, del suo dinamismo, della conformazione dei “diritti” – , sempre più difficile da imbrigliare in formule astratte e/o all’interno delle categorie, le quali non possono nè devono certo in alcun modo essere elise od eliminate, ma vanno continuamente sottoposte ad un lavorio di ponderazione in modo che esse risultino attualizzate ed adeguate rispetto al contesto, rinvigorite, riempite del nuovo rappresentato dall’attualità, in cui i confini crollano progressivamente a favore di una sempre più avvertita esigenza di protezione e salvaguardia della persona alla luce delle tutele nient'affatto soggettive dell'interprete, ma considerate al più alto livello della normazione costituzionale e sovranazionale.
Ed allora, quando Sciascia insiste sul ragionamento che dovrebbe star dietro alla giustizia, egli pensa dunque a quel diritto vivente burocraticamente rassicurante e certo, geometrico e meccanico che si aggancia alla regola, figlio di quel giuridicismo di cui parla, sapientemente, Giovanni Fiandaca nella sua indagine a proposito di Sciascia e la giustizia[12], ovvero pensa ad un diritto ragionato, pensato, complesso, variegato, capace di superare le derive formalistiche e - se vogliamo - il testo normativo in nome della ricerca del contesto?
Forse l’ideale di giudice al quale Sciascia sembra ispirarsi è quello che, pur nel rigoroso rispetto della legge cerca di ritrovare, di scoprire, di “inventare” il comando della legge onde evitare l’irreparabile, l’ingiustizia, la violazione dei diritti e della dignità dell’uomo, come e quanto chi ha sacrificato la vita per la giustizia ci ha insegnato.Il che è poi quello che suggeriva l'ultimo Calamandrei-P. Calamandrei, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente, in Opere giuridiche – Volume I – Problemi generali del diritto e del processo, Roma 2019,604-quando ricordava che l’infinita ricchezza del casellario rappresentato dal sistema delle fonti scritte lascia spesso spazio al vuoto ed alla necessità di aggiungere una casella supplementare da parte del giudice attraverso l’interpretazione senza che ciò integri opera di creazione, essendo piuttosto “ricerca, nella legge generale e astratta, di qualche cosa che c’è già per volontà del legislatore, e che si tratta non di creare ex novo, ma di scoprire e riconoscere”
Tornano così alla mente, con una vena di tristezza, le parole del Professore e Presidente emerito della Corte costituzionale Paolo Grossi che in questi giorni è mancato ai vivi, ormai da lustri orientate a descrivere il mondo del diritto sempre più votato e indirizzato verso la postmodernità proprio per il caos normativo che costituisce la regola dell’essere giuristi del nostro tempo. Ed è stato proprio Grossi, di recente, a ricordarci, nella prefazione[13] a Il Mestiere del giudice[14] che "...La Costituzione è còlta - ripetiamolo, perché sta qui una soluzione davvero appagante - come testo e come sostrato valoriale, quasi un continente che affiora solo parzialmente alla superficie, ma la cui consistenza maggiore è sommersa (anche se perfettamente vitale). Realtà, dunque, di radici, di valori che non si irrigidiscono nella secchezza di comandi, ma divengono plastici principii con la immediata concretizzazione in diritti fondamentali del cittadino. Radici, sì, ma già ad origine giuridiche, basamento del complesso diritto positivo della Repubblica…”. Ed aggiungeva, ancora, che “…Il vecchio giudice, condannato ad essere 'bocca della legge' dai riduzionismi strategici degli illuministi (dapprima) e dei giacobini (successivamente), non può che togliersi volentieri di dosso la veste opprimente dell'esegeta, ormai del tutto inadeguata, e indossare quella dell'interprete, dell'inventore, intendendo la sua operazione intellettuale irriducibile in deduzioni di semplice natura logica (come in una celebre pagina di Beccaria) e concretizzabile piuttosto in una ricerca, in un reperimento, con le conseguenti decifrazione e registrazione…”
Parole da comprendere e riflessioni da assimilare con consapevolezza dagli operatori di giustizia.
3. Il mestiere del giudice per Sciascia e per la società
La crisi della giustizia della quale parecchio si discute impone di chiedersi cosa c’è e cosa dovrebbe esserci nella valigetta del giudicesecondo Sciascia, visto che nella sua opera è ricorrente la figura del decisore, accanto a quelle dell’avvocato e dell’investigatore.
Un mestiere, quello del giudice duro, difficile, oneroso e per il quale la riconosciuta indipendenza - anche economica - della funzione da ogni altro potere reclama livelli di professionalità e accortezza assai elevati, ai quali Sciascia sembra tenere in modo particolare.
Un giudice che Sciascia avrebbe voluto “schivo e silenzioso com’era”, amando “la giustizia schiva e silenziosa, non petulante, la giustizia che non fa spettacolo, la giustizia piena di pudore, la giustizia che alberga nell’animo di tanti anonimi giudici, tanti «piccoli giudici» che ogni giorno, nella sofferenza e nell’angoscia, soli con la propria coscienza, decidono della sorte dei loro simili”[15].
Quello stesso magistrato dovrebbe essere, anche d’eccezionale intelligenza, dottrina e sagacia non solo ma anche – e soprattutto – di eccezionale sensibilità e di netta e intemerata coscienza…[16] –capace di esercitare quella funzione tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendo conto.
Ora, questo giudice, caro a Sciascia, che si contrappone ai poteri non essendone egli parte, ha necessità non soltanto di essere compreso nella difficoltà del suo giudicare, ma anche di essere salvaguardato e protetto da visioni distorte del sistema che lo fanno sempre e comunque “colpevole” degli esiti distonici del giudizio di colpevolezza nei diversi gradi di giudizio, in tal modo finendo col tradire i capisaldi del sistema, nel quale i diversi gradi di giudizio e le diversità di valutazioni fra giudici rispetto ad uno stesso processo sono fisiologici e non patologici.
Ciò che a volte oggi si rappresenta come fallimento del sistema-giustizia non è, spesso, che la fisiologica dimostrazione che un sistema democratico non può e non deve affidarsi alla voce di un solo giudice, ma ha necessità di prevedere delle possibilità di revisioni del giudizio, in qualunque senso esse si orientino. Non è questo forse il modo migliore per esercitare in modo autonomo indipendente e democratico la giustizia?
Se, per converso, si dovesse aderire al pensiero di chi considera la disomogeneità fra i diversi gradi di giudizio come “errore”[17] sarebbe logico rispondere che la soluzione capace di eliminare in radice gli errori è quella di impedire le impugnazioni, in modo da realizzare l’unica verità possibile.
Ma è davvero questo l’obiettivo che le persone ragionevoli devono perseguire ed avere come orizzonte, ovvero occorre rafforzare, al di là dei singoli ruoli, l’idea stessa di una giurisdizione attrezzata professionalmente alla quale partecipano in modo paritario e, ciascuno nel proprio ruolo, i diversi protagonisti del processo?
Ora questa protezione del ruolo del giudiziario che qui si invoca ab externo la magistratura intanto ha il diritto di pretendere in quanto essa si mostri adeguata, umanamente e professionalmente, al suo ruolo e, appunto, portatrice di quella professionalità che giustamente l’avvocatura spesso reclama non nel proprio interesse. E su questo tema avvocatura e magistrature devono camminare unite, perché esso non può che riguardare anche la classe forense che è l’altra faccia della medaglia della giustizia.
4. Una nessuna centomila verità, per Sciascia e per la giustizia.
Esiste una verità sul tema della giustizia o esistono tante verità?
In generale, può dirsi che il diritto alla verità rivolto a disvelare il mai conosciuto rispetto ad eventi tragici che hanno segnato la storia individuale (delle persone) e collettiva del Paese si riempie di contenuti e dimensioni plurali, pur ancora da compiutamente definire nelle quali si fondono, fino a modificarsi geneticamente quando entrano in contatto tra loro la prospettiva individuale – della o delle vittime – e quella collettiva, che vede in gioco lo Stato-persona – tenuto a indagare, condurre i processi, adottare misure ripristinatorie e repressive nei confronti dei responsabili –, ma anche lo Stato-collettività, al cui interno si collocano la polis, gli studiosi, i letterati, le associazioni del terzo settore[18]. È qui che dovrebbe emergere, secondo Sciascia, un “bisogno” diffuso di conoscenza di fatti che costituiscono parte delle ragioni di identità dello Stato stesso. Dunque, un “dovere di verità”.
Una Verità che segue una prospettiva ontologicamente bifronte, per l’un verso indirizzandosi quasi inconsapevolmente verso la dimensione primaria della persona, che è appunto rappresentata dalla sua dignità e, per altro verso, elevandosi a metro universale della democrazia dei Paesi e dei loro processi, alimenta un’ansia di tutele effettive che l’ordinamento giuridico ha l’obbligo giuridico di perseguire[19].
Il panorama reale della giustizia non sempre si è dimostrato capace di offrire verità appaganti, ancorché essa sia fondata sull'applicazione della legge, considerata per molto tempo espressione unica di verità[20] alla quale si affianca il processo come luogo naturale (e per molti considerato unico) in cui si accerta la verità (processuale) per il tramite del giudicato.
In Sciascia le verità hanno una dimensione davvero plurale, spesso richiamate come metafora del presente e che “una volta scoperte o incautamente confessate, possono avere echi imprevedibili o molteplici, effetti liberatori o micidiali: e sono le verità che rovesciano o disgregano le apparenze, le «menzogne convenzionali»”.
A volte l’assenza di giustizia e verità pare anche essere o voler essere critica feroce e impietosa, rivolta a quella parte di società che non sembra affatto preoccupata della verità.
Sciascia critica gli attori della giustizia, ma prim’ancora censura l’umanità e l’assenza di valori che non sembrano trovare adeguato posto e tutela al suo interno, tanto da suscitare l’intervento del letterato che rilegge o a volte riscrive la storia. Al punto che la crisi della giustizia nasconde la crisi dell’uomo, del suo sfuggire ai grandi temi che lo circondano, del suo appiattirsi ed acconciarsi a false verità di comodo, del suo fermarsi sulla soglia della verità, del disinteresse per il senso ultimo che il tema giustizia evoca, quello della dignità e del rispetto dell’uomo[21].
Questo pessimismo coinvolge in pieno il pianeta giustizia, attorno al quale ruotano da sempre plurime verità.
Verità che coinvolgono il mondo dell’informazione, del pubblico ministero, dell’avvocatura e delle vittime, oltreché ovviamente del potere politico.
Alle spalle di ciascuna verità rappresentata vi è un fascio di valori che innervano la nostra società e costituiscono la spina dorsale della democrazia, tra loro continuamente intrecciandosi. Valori contrapposti che devono confrontarsi in una prospettiva che non può essere tirannica, ma che deve tendere alla comprensione del ruolo che ciascun costruttore di verità, in questa rappresentazione dei problemi che abbiamo inteso offrire, deve avere.
Qual è dunque la verità, quella del giornalista chiamato ad esercitare una funzione che è ben espressa attraverso l’espressione “cane da guardia” della democrazia che si ritrova nella giurisprudenza della Corte Edu, tanto importante quanto delicata muovendosi in territori fragili nei quali le verità sono in progress, oppure quella del P.M. che ha a cuore primariamente le vittime di reati e l’obiettivo di salvaguardare la società per garantirne la sicurezza - chiamato non ad individuare i colpevoli, ma a raccogliere gli elementi in base ai quali il giudice dovrà verificare se gli imputati hanno realmente commesso i reati loro contestati -, oppure quella dell’avvocato che difende l’indagato/imputato o parte offesa con tutte le sue abilità professionali per raggiungere, nel pieno ed effettivo contraddittorio con il P.M., l’obiettivo della sua giustizia che è quello di trovare gli elementi capaci di dimostrare o smontare l’accusa che gli viene mossa o, ancora quella, quella del giudice, che al termine di questo percorso si conclude con una sentenza emessa in nome del popolo italiano, destinata a diventare giudicato?[22]
Il carattere poliedrico delle verità ha dunque centri di imputazione diversi che appaiono alimentarsi vicendevolmente e in modo inesauribile, al punto che risulta difficile individuare il confine fra le une e le altre.
Ed in questa ricerca in continuo divenire la sfera della vittima con tutta la sofferenza, il dolore, lo strazio che spesso la caratterizza va compresa, protetta, aiutata e tutelata.
Il grido di verità[23] che Fiammetta Borsellino[24] ed i suoi familiari alimentano, elevando “…la propria storia famigliare e le vicende della Sicilia al rango di altre grandi tragedie della storia e chiedono per questo che vengano affrontate con dignità, come meritano i traumi collettivi di una Nazione” [25], rinforza l’idea che la verità sia un valore che appartiene allo stesso tempo ad alcuni e a tutti, senza tempo, senza dimensione e per questo capace, quando tocca questioni vitali per il Paese e la società che tali li avverte, di riattivare il dolore e con esso l'esigenza di conoscenza non solo per appagare la vittima, diretta o indiretta, ma anche il popolo che sente la necessità di conoscere, a sua volta, quella verità. Il passaggio che lei ha fatto a proposito della ricerca della verità anche attraverso i carnefici di suo padre è stato straordinario. Anche un maledetto assassino può morire con dignità se contribuisce alla verità ed in questo percorso il ruolo della vittima non può trovare parole per essere descritta in tutta la sua portata transepocale. Ecco perché, allora, la verità non può a volte essere compressa e ridotta al contesto giudiziario, ma va oltre, o può comunque andare oltre.
E sono proprio le vicende ancora oggi oscure sulla strage di Via D’Amelio e sul più grosso depistaggio della storia giudiziaria italiana[26] ad aggrovigliarsi nel meraviglioso libro di Piero Melati[27] dedicato appunto all’amore della verità nel quale, non occasionalmente, si intrecciano le storie di vita di Paolo Borsellino e Sciascia, e non solo per quell’ormai famoso articolo sui professionisti dell’antimafia e per quella storica fotografia che ritrae i due seduti a pranzo, ma anche per la testimonianza postuma di Agnese Borsellino riportata da Melati (224) nel dire che Sciascia, parlando dei professionisti dell’antimafia, aveva in parte torto, ma in parte no, sono lì a testimoniare un “dovere di verità” sui tanti buchi neri che tante, tantissime vittime – spesso anonime e non conosciute dal grande pubblico - attendono di disvelare ed illuminare nell’interesse loro e della società. Disvelamento che, d’altra parte, potrebbe non arrivare dal processo penale per effetto della prescrizione[28] e che apre ulteriori scenari, collegati alla ricerca di luoghi diversi ove inseguire la verità.
5. La leale cooperazione fra i diversi “costruttori di verità” verso la ricerca della verità. Per un nuovo alfabeto della giustizia.
Ma, è questo il punto, parafrasando le parole di Sciascia in un suo articolo pubblicato sul Corriere della sera del 26 gennaio 1987: Chi ha il coraggio di bussare alle porte della verità? Quanti sono disposti realmente ad incanalarsi in quel percorso aspro? Quanto l’ansia della verità viene insegnata, condivisa, compresa, studiata? Quanto il mondo “non giudiziario”, la scuola, le istituzioni culturali si impegnano, oggi, per ricercare la verità riconoscendone il valore? Quanto va approfondito il tema del “dovere” di dire la verità, di ricercarla attraverso la storia che nutre la giustizia?
Quanto, per la parte che le spetta essa magistratura è pronta a riscattarsi anche agli occhi della società in nome della quale amministra la giustizia? Quanto essa intende mettersi al servizio della verità e non già del potere e ad essere, in definitiva, disobbediente[29] fino al punto da incarnare un atto di opposizione civile[30]?
Se il bisogno di giustizia di Sciascia, la sete di giustizia si manifesta tutta in opposizione al dominio del potere, sicché per esercitarla al meglio non bisogna essere potere[31], ma contropotere al servizio di un’idea, di un bisogno insopprimibile, il problema della giustizia sorge quando il giudice tende o è percepito esso stesso come potere e non come servitore, fallendo così miseramente la sua mission[32].
A me pare che occorra guardare al mondo della giustizia tenendo presente un nuovo alfabeto, nel quale campeggiano, come espressioni cardinali, quelle di dignità della persona, verità, leale cooperazione, formazione, etica, coraggio, responsabilità e fedeltà alla Costituzione[33].
A me pare che per unire le diverse verità che ruotano attorno al pianeta giustizia, tutte pienamente legittime e legittimate ad essere rappresentate al corpo sociale con le forme che alle stesse appartengono, occorra anzitutto una leale cooperazione che deve innervare i rapporti e le relazioni fra i diversi “costruttori di verità” lasciando ai margini la prospettiva della gerarchia e della logica "dell'ultima parola" figlia di quella del controllore e del controllato. E ciò anche sui temi spinosi e non sempre colti nella giusta prospettiva, dei rapporti fra sindacato di costituzionalità e interpretazione costituzionalmente orientata, della disobbedienza del giudice di merito alle decisioni della Cassazione e financo della Corte costituzionale e dei giudici sovranazionali, come ci è capitato di evidenziare in passato[34].
Una leale cooperazione che non può tralasciare l’esigenza di una formazione continua ed incisiva- sempre più comune con l’Avvocatura- capace di cogliere al fondo i nodi problematici e, appunto, favorendo la capacità di ragionare.
Quando Sciascia invocava che ogni magistrato in formazione potesse e dovesse conoscere direttamente l’odore e il sapore del carcere per sapere gli effetti del suo agire esprimeva un concetto tanto banale quanto centrale per chi vive di giustizia ed oggi dimostra quanto siano vitali e necessari per il buon giudicare livelli sempre più approfonditi di conoscenza effettiva, efficace, profonda.
Un’esigenza di leale cooperazione che deve lasciare ai margini atteggiamenti assolutisti, onniscienti, a volte supponenti e boriosi, di coloro che, pur in assoluta buona fede legittimamente portatori ed espressivi di una di quelle verità di cui qui si è detto la contrabbandano come “la verità unica”[35].
Tutto questo impone una grossa dose di coraggio in tutti i protagonisti del sistema: giornalisti coraggiosi, capaci di scavare alla ricerca dei fatti, avvocati coraggiosi, lontani da atteggiamenti di sudditanza psicologica o di (in)sofferenza nei confronti del decisore di turno, magistrati inquirenti e giudicanti, a loro volta garanti coraggiosi della correttezza dei compiti loro demandati, i primi nello svolgere legalmente l’attività del P.M. ed i secondi chiamati a giustificare la decisione assunta attraverso la sentenza. E senza che il cerchio possa dirsi definitivamente chiuso quando uno dei costruttori di verità abbia disvelato l’impostura che altri hanno spacciato per verità, anche se giudizialmente accertata.
Ma accanto al coraggio occorre una notevole e comune dose di responsabilità.
Quanto al giudiziario, se il magistrato è “privo del coraggio di mettersi in gioco anche – laddove necessario – esponendosi in prima persona farebbe bene a cambiare mestiere”, per dirla con Antonio Ruggeri.
Occorre parimenti che il magistrato abbia “mentalità ispirata al senso del limite e alla consapevolezza delle risorse di mente e di cuore di cui ciascun operatore deve essere dotato e che vanno fino in fondo portate a frutto”.
E se il giornalista deve avere il coraggio di affondare le sue ricerche per scoperchiare il malaffare, i comportamenti ostruzionistici ed aggressivi della nostra società soprattutto quando in gioco ci sono i diritti del più vulnerabili, deve essere anche perfettamente consapevole che la sua mission mette a rischio la reputazione dei soggetti individuati all’interno delle notizie e inchieste e, ancora, richiedere che una notizia emersa in fase di indagine debba essere seguita dalle notizie che riguardano gli sviluppi della vicenda giudiziaria, poiché non si è realmente “cani da guardia” della democrazia quando si danno solo notizie degli arresti e si tace o, peggio, si relega al trafiletto, la notizia dell’assoluzione.
Ogni condotta, ogni atteggiamento irresponsabile che non sia improntato al principio di leale cooperazione attenta alla credibilità del sistema nel quale siamo tutti parte, giudici, avvocati, giornalisti, legislatore, in modo che l’inosservanza di questo canone da parte dell’uno finisce col ricadere inesorabilmente sull’altro, minando la credibilità della giustizia.
Leale cooperazione vuol dire dunque che ciascuno nel proprio ruolo sia portato a cogliere nella prospettiva di quei mondi diversi costretti a convivere che c’è del buono nell’altro, di utile, di costruttivo, di necessario.
In definitiva quale conclusione sul mondo della giustizia mi sento di offrire.
A me pare che sia il momento di comporre in modo autenticamente nuovo i tanti ponti e muri[36] che vediamo innanzi a noi, attraverso un modo nuovo col quale ricercare un confine appagante fra le esigenze di sé e quelle degli altri.
La ricerca di un’alternativa reale alla prospettiva che intende eliminare l’uno e scegliere l’altro a favore di un approccio che, attingendo alle risorse di mente e di cuore, si sforza di mettere “insieme” l’un costruttore di verità rispetto e “con l’altro”, rimanendo ben incanalati alla risorsa preziosa, anche se aspra, onerosa e fastidiosa, del confronto e del dialogo. Rifuggire, dunque, da schematismi astratti e, soprattutto, da coloro che si ergono a tutori dell’uno o dell’altro corno della questione e si fanno portatori di un’unica e sola “verità” rifiutando "a prescindere" l'asprezza e durezza del confronto, invece di indirizzarsi verso la ricerca delle cause delle verità plurali che spesso si fronteggiano.
Il che non vuol certo nè deflettere dall'idea che della funzione ciascun ordine ha nè negare la necessità di affrontare le questioni nodali del nostro tempo con alla base alcune idee cardine non negoziabili, quali la tutela dei diritti fondamentali, il rispetto della Costituzione e la fedeltà ad essa, la salvaguardia dello Stato di diritto, i diritti di difesa, ma molto più semplicemente invitare tutti ad un approccio capace di ascoltare le diverse prospettive per coglierne ciò che di buono e vero esse potrebbero avere.
Insomma, ricordando Giorgio La Pira, occorre più che mai “osare l’inosabile”, investire su tutto ciò che è prodotto del pensiero umano per trarne forza e alimento e fondere, dunque, i ponti con i muri piuttosto che porsi in una prospettiva che vede il bianco nel ponte e il nero nel muro, superare l’idea stessa che sia sufficiente eliminare il muro, invece ponendo le basi per una linea di azione e di pensiero capace di capire le ragioni del muro per poterlo valicare insieme a chi, con onestà, ne ha rappresentato le esigenze.
Perseguire, dunque, per quanto possibile un ragionevole accomodamento fra le diverse prospettive ed i diversi volti della giustizia[37] che proprio la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione – sent. n.24414/2021- ha di recente individuato come Grundnorm per risolvere conflitti apparentemente insanabili in ambito religioso senza deflettere mai dall’idea di stare dalla parte della persona umana e dei valori che essa riflette e, soprattutto, della sua dignità.
Oggi, tra le tante verità spetta dunque alle persone di buon senso, sulle gambe delle quali vivono i mondi dell’informazione e della giustizia, del Pubblico Ministero e dell’avvocatura[38], orientare le proprie condotte alla cooperazione leale e franca ed all’affermazione dello Stato di diritto come bene primario che appartiene indivisamente a tutti i protagonisti, nella consapevolezza che ciascuna delle verità che ciascuna istituzione od ordine perseguono ha una sua ineludibile dignità, necessaria e vitale per la democrazia, senza la quale saremmo tutti meno liberi, meno consapevoli, meno coscienti. Ciò a patto che queste verità siano perseguite, ricercate, inventate – nel senso grossiano del termine - in modo eticamente corretto[39], andando così a definire un mosaico composto da tante tessere che in via tendenziale ambiscono a una verità finale. Una volta raggiunta, questa verità potrebbe essere posta in discussione nuovamente da uno di quei mondi ove si riuscisse a dimostrare che essa è stata "poco vera" perché alla verità si era anteposta, magari evocando (a sproposito) la ragion di Stato, l’impostura.
Ecco la lezione sciasciana ultima che mi pare possa costituire coscienza di questa giornata.
Una continua e strenua ricerca della verità, alimentata dal perenne valore del dubbio che non ne scalfisce la rilevanza, ma aiuta a renderla più ricca, più consapevole, più adeguata alla società del nostro tempo.
Tocca dunque impegnarsi in una continua ricerca, non in astratto ma in concreto, in vivo e non in vitro, del limite per ricercare il quale occorrono appunto, confronto, conoscenza, formazione degli avvocati e dei magistrati quanto più comuni e, con un occhio orientato al mondo del giornalismo, tutele forti ed effettive nei confronti di chi è chiamato ad esercitare quella professione, troppo spesso indecorosamente costretta a svolgere il ruolo centrale di cui qui si è detto, con retribuzioni e forme contrattuali che lasciano stupefatti per quanto cozzano con il concetto di dignità.
Raggiungere le migliori verità possibili perché ciascuno possa ricostruire in modo consapevole la sua verità, al punto da giungere alla conclusione finale che esiste un diritto alla verità inscindibilmente collegato al dovere di verità che una comunità deve perseguire, attraverso un percorso tortuoso e complesso.
Un futuro di sole apparenti "incertezze" che è anche futuro di maggiore consapevolezza del ruolo degli attori della giustizia attraverso il rispetto reciproco.
Un tempo che credo sia e debba essere il tempo del coraggio responsabile, eticamente ed umanamente corretto che, sotto l’ombrello di chi ha perso la vita per la giustizia come oggi i morti che ricordiamo, può forse davvero rappresentare un obiettivo tangibile e realizzabile e rendere la giustizia sempre più credibile e, soprattutto, degna di chi la vita per questa giustizia l’ha donata e guarda dall’alto al presente ed a chi ha raccolto quell’eredità.
*Intervento svolto alla Giornata della legalità organizzata dall’ANM Palermo, dalla Scuola di formazione decentrata della magistratura presso la Corte di appello di Palermo e dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Agrigento il giorno 8 luglio 2022 presso il Museo Griffo di Agrigento. Un particolare ringraziamento va all’ANM distrettuale di Palermo, nelle persone di Clelia Maltese e Maria Teresa Maligno, nonchè al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Agrigento e per esso alla Presidente Avv. Vincenza Gaziano.
[1] FAI e Progetto Genesi: Arte e diritti umani. Una nuova frontiera Intervista di Roberto Conti a Ilaria Bernardi e Giuseppe Taibi, in Giustiziainsieme, 1 giugno 2022.
[2] Per una riflessione più articolata su Sciascia e giustizia sia consentito il rinvio a R.G.Conti, Sulla strada di “Diritto verità giustizia. Un omaggio a Leonardo Sciascia dalla comunità dei giuristi, Cacucci, 2021, in Giustiziainsieme, 2 settembre 2021.
[3] G. Luccioli, Il sopravvento della superstizione sulla verità e sulla giustizia: “La strega e il capitano”, in Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, a cura di L. Cavallaro e R. G. Conti, Bari-Milano, 2021, 127.
[4] G. Fiandaca, Leggere Sciascia in procura. Un atto di autocoscienza per la giustizia in crisi, in Il Foglio (www.ilfoglio.it), 6 novembre 2021. Il punto è richiamato da A. Ruggeri, In tema di diritto verità giustizia nell’opera di Leonardo Sciascia, in Giustiziainsieme, 26 maggio 2022.
[5] T. Epidendio, La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura, in Giustiziainsieme, 24 maggio 2022. Il tema è stato ripetutamente ripreso su Giustizia Insieme con scritti di G. Montedoro -Derrida, il giudice, il fare giustizia-, G. De Amicis- Per l’alto mare aperto…: la Magistratura tra sogni spezzati e nuove speranze-, A. Cosentino - Crisi della legge o crisi del giudice? Considerazioni a margine di un recente scritto di Tomaso Epidendio-e, da ultimo, B. Montanari - “La fine di un sogno”. Una lettura epistemologica -.
[6] R. Bin, - Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quaderni costituzionali, 2019, n.4, 757; A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quaderni costituzionali, n.2, 2019, 251.
[7] È lo stesso R. Bin a citare, in tema, R. Conti, La giurisdizione del giudice ordinario e il diritto Ue, in Le trasformazioni istituzionali a sessant’anni dai trattati di Roma, a cura di A. Ciancio, Torino 2017, 75 ss.
[8] R. Bin, nel saggio indicato alla nota 6, si riferisce anche ai molti scritti di A. Ruggeri, citando, fra gli altri, Trasformazioni della costituzione e trasformazioni della giustizia costituzionale, in Osservatorio sulle fonti, 2/2018, 1 ss. Il confronto fra i due Autori è proseguito in Giudice o giudici nell'Italia postmoderna? Intervista di R. Conti ad Antonio Ruggeri e Roberto Bin, in Giustiziainsieme, 10 aprile 2019.
[9] V., sulla questione esaminata nel testo e su posizioni dicotomiche rispetto a Bin, A Ruggeri, Diritto giurisprudenziale e diritto politico: questioni aperte e soluzioni precarie, in Consultaonline,2019, f.3, 16 dicembre 2019, 713 e 714 in note 26 e 30.
[10] A. Ruggeri, Il giudice-camaleonte e la salvaguardia dei diritti fondamentali, in Gruppodipisa, 12 luglio 2022.12 Luglio 2022
[11] Sul tema della complessità che ruota attorno al ruolo del diritto e della giustizia ed alal rilettura di Sciascia nei saggi di Irti e Lipari contenuti nel volume "Diritto verità giustizia" cit., insiste ora, ripetutamente M. Perrino, Rileggere Sciascia attraverso "Diritto verità giustizia" in Giustiziainsieme,25 maggio 2022. F. Messina, Il diritto alla verità. Presentazione dell’incontro con Marco Damilano – 3 giugno ore 18.00 – diretta su “zoom” e bacheca Facebook “Memoteca Montanari”, in Giustiziainsieme, 1 giugno 2020.
[12] G. Fiandaca, La giustizia secondo Leonardo Sciascia, in Todo Modo, 2019, 157, 160. Indagine di recente ripresa in occasione del webinar organizzato dall’Università di Palermo in memoria di L. Sciascia il 15 aprile 2021 sul tema Leonardo Sciascia tra giustizia sperata e giustizia negata: una ambivalenza irriducibile,
[13] P. Grossi, Il mestiere del giudice, Prefazione, in Il mestiere del giudice, a cura di R.G. Conti, Padova, 2020.
[14] AA.VV., Il mestiere del giudice, cit.
[15] G. Tranchina, Leonardo Sciascia, Leonardo Sciascia: e quanto parleremo di giustizia «ce ne ricorderemo, di questo pianeta»?, Relazione svolta, il 17 novembre 1994, nell’Aula magna della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania, in occasione del Convegno su «La giustizia nella letteratura e nello spettacolo siciliani tra ‘800 e ‘900, da Verga a Sciascia, in Quando parleremo di giustizia, Palermo, 2010, 30.
[16] L. Sciascia, Per la responsabilità dei magistrati, in Corriere della sera, 7 agosto 1983, poi in A futura memoria, (se la memoria ha un futuro), in Opere, 1246.
[17] Sul punto v. le interessanti riflessioni di A. Mori, Chi sbaglia paga... Ma quand'è che il giudice sbaglia?, in Questionegiustizia, 7 luglio 2022 e, a proposito del concetto di "grave anomalia" introdotto dalla riforma Cartabia in tema di ordinamento giudiziario, in itinere, R. Magi, La delega Cartabia in tema di valutazioni di professionalità del magistrato: considerazioni a prima lettura , in Questione giustizia, 13 luglio 2022.
[18] Straordinario si sta rivelando l’apporto di Libera e dei tantissimi costruttori di verità che ne alimentano incessantemente le attività ormai senza confini e che, quotidianamente e silenziosamente, si battono per raggiungere la verità per quei tantissimi familiari di vittime della criminalità organizzata che ancora attendono di avere la loro verità- https://www.libera.it/documenti/schede/libera_diritti_vittime_manifesto_2020_2.pdf-.
[19] M. Taruffo, Verità e giustizia di transizione, in Criminalia, 2015, 23: “Prendendo ora in considerazione una dimensione per certi versi più specifica, ma di valenza non meno generale, va sottolineato che il principio di verità si configura come condizione essenziale per l’effettività dell’ordinamento giuridico. Se è vero, come pare indubbio, che le norme giuridiche, singolarmente e nel loro insieme, sono destinate a regolare i comportamenti dei consociati, pare altrettanto evidente che questa finalità verrebbe completamente frustrata qualora i cittadini pensassero che la violazione delle norme non comporterebbe alcuna conseguenza o provocherebbe conseguenze del tutto casuali, e qualora non vi fosse nessuna ipotesi credibile circa le conseguenze delle condotte dei singoli, siano esse conformi o contrarie a quanto prevedono le norme giuridiche. In altri termini, l’effettività dell’ordinamento giuridico si fonda sull’ipotesi che il sistema sia in grado di stabilire la verità rispetto a tali condotte, dato che solo in questo caso le relative conseguenze sarebbero conformi a ciò che l’ordinamento prevede”
[20] L. Salvato, Profili della presunzione di innocenza e della modalità della comunicazione nel d.lgs. n. 188 del 2021, in Giustizia insieme, 1 aprile 2022. In diversa prospettiva, P. Grossi, Sulla odierna “incertezza” del diritto, in Giustizia civile, n.4/2014 (anche in https://giustiziacivile.com/giustizia-civile-riv-trim/sulla-odierna-incertezza-del-diritto).
[21] V. il saggio dedicato a Sciascia da G. Tranchina, Leonardo Sciascia: e quanto parleremo di giustizia «ce ne ricorderemo, di questo pianeta»?, Relazione svolta, il 17 novembre 1994, nell’Aula magna della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania, in occasione del Convegno su «La giustizia nella letteratura e nello spettacolo siciliani tra ‘800 e ‘900, da Verga a Sciascia, in Quando parleremo di giustizia, Palermo, 2010, 19.
[22] Sul tema delle plurime verità ritorna, di recente, B. Montanari, “La fine di un sogno”. Una lettura epistemologica, in Giustizia insieme, 8 luglio 2022, cit.
[23] V. F. Borsellino: “Troppi depistaggi sulla morte di mio padre”, in https://rep.repubblica.it/pwa/lettera/2018/07/17/news/strage_borsellino_domande_fiammetta-202035147/. V., infatti, la recente Relazione approvata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia sul depistaggio di Via D’Amelio, 19 dicembre 2018:”Resta un vuoto di verità su chi ebbe la regia complessiva della strage e del suo successivo depistaggio. E quale sia stato – nel comportamento di molti – il labilissimo confine fra colpa e dolo, svogliatezza e intenzione, distrazione e complicità.”
[24] Proprio rispetto alla vicenda ricordata nel testo sembrano straordinariamente calzanti le riflessioni di S. Rodotà, Il diritto ad avere diritti, cit., 220: “Lungo questo cammino, nella costellazione dei diritti, compare quello che forse meglio d’ogni altro esprime la novità e il distacco dal passato – il diritto al lutto. Qui la ritrovata verità, la restituzione della memoria rimuovono quello che era stato l’indicibile, il nascosto, l’invisibile. L’impossibilità di elaborare il lutto, perché la conoscenza era negata o impedita o preclusa a ogni parola detta in pubblico, ha rappresentato la forma più profonda di violenza, un’altra delle tante negazioni dell’umanità di persone che abbiamo conosciuto”.
[25] P. Melati, Paolo Borsellino, cit., 228: “La stessa cosa, spesso impavidamente, Sciascia ha fatto nei suoi libri. Ed è questo che hanno fatto anche i figli del giudice. Hanno combattuto per avere diritto di parola e l’hanno infine ottenuto. Così ancora oggi, a trent’anni dalla strage, possono invocare verità e giustizia, ..Hanno scelto un grande scenario, quello delle verità storiche, in luogo di protagonismi, compromessi e vantaggi di piccolo cabotaggio…”.
[26] A. Balsamo, Mafia. Fare memoria per combatterla, Milano, 2022, nel quale le più note e nebulose vicende di mafia vengono attentamente rilette alla luce dei diritti alla verità e alla speranza.
[27] P. Melati, Paolo Borsellino. Per amore della verità. Con le parole di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, Milano, 2022. L’Autore intreccia i giorni precedenti e gli anni successivi vissuti dalla famiglia Borsellino con il pensiero sciasciano, ricordando non soltanto i saggi c e le raccolte- fra tutte, A futura memoria- nei quali si intrecciano i temi del ricordo e della memoria dello scrittore-105- ma anche i pensieri di Agnese Borsellino sul rapporto del marito con Sciascia, i luoghi che furono testimoni degli assassini dei giudici Saetta e Livatino quanto della bellezza di quello stesso territorio in cui si intrecciano i percorsi letterati degli scrittori agrigentini con lo storico anatema di Papa Giovanni Paolo II contro la mafia-108 ss.-
[28] Sul tema della prescrizione rispetto a crimini di particolare rilevanza per le vittime e la società ci eravamo soffermati in R. G. Conti, Il diritto alla verità, fra amnistia, prescrizione e giurisprudenza nazionale della Corte edu e della Corte interamericana dei diritti umani, in Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte interamericana dei diritti umani: modelli ed esperienze a confronto, a cura di R. Romboli e A. Ruggeri, Torino, 2019, 237.Da qui il rinnovato interesse verso forme e luoghi alternativi nei quali ricercare la verità, evocandosi le esperienze delle commissioni sulla verità - v. A. Lollini, Desmond Tutu e l’esperienza della Commissione Sudafricana per la verità e la riconciliazione, in Giustiziainsieme, 9 aprile 2022 - o quella delle commissioni parlamentari d'inchiesta - sulle quali di recente A. Balsamo, Commissioni d'inchiesta per le verità sulle stragi, Repubblica, 17 luglio 2022 -.
[29] V., sul significato dell’espressione giudice disobbediente nel contesto dei doveri nascenti dalla Costituzione Il giudice disobbediente nel terzo millennio. Intervista d. R.G. Conti a G. Silvestri, V. Militello e D. Galliani, in Giustiziainsieme, 5 giugno 2019.
[30] R. Scarpinato, «L’egida impenetrabile»: mafia e potere nell’opera di Leonardo Sciascia, in Giustizia e letteratura, 221: “Dunque far emergere la verità, raccontare la realtà quale essa è e quale non trova spazio in quella ufficialità che è occupata dal potere, costituisce un importante atto di opposizione civile.”
[31] L. Sciascia, La dolorosa necessità del giudicare, - pubblicato su Il giornale, anno I, n.12, dicembre, 1986, pp-9-210) - Appendice a Diritto verità giustizia, (cit.,153: “…Ne viene il problema che un tale potere – il potere di giudicare i propri simili – non può e non deve essere vissuto come potere. Per quanto possa apparire paradossale, la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi quietudine, al dubbio.”. …E l’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia… deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estravertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio”.
[32] R. Scarpinato, «L’egida impenetrabile»: mafia e potere nell’opera di Leonardo Sciascia, in Giustizia e letteratura, a cura di G. Forti, C. Mazzucato, A. Visconti, Milano, 2014, 224: “occorre che i magistrati non si lascino corrompere o non siano omologati al potere.”
[33] Sia consentito il rinvio a precedenti riflessioni in R. G. Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana?, Roma, 2019, 33 ss.
[34] V., volendo, le conclusioni all’intervista indicata alla nota 27.
[35] Il pensiero va, anche, alle recenti vicende che hanno visto una larga parte della magistratura non accogliere l’idea che fosse lo sciopero il “mezzo” per rappresentare le assolutamente legittime riflessioni critiche sulla riforma della giustizia in itinere. Un fatto, quest’ultimo che, al di là delle motivazioni variegate alla base dell’astensione, sembra in generale dimostrativo di un desiderio di impostare in modo nuovo le relazioni, osando il confronto anche se aspro, quanto più plurale e perciò autentico.
[36] Ponti v. muri, o muri e ponti, Editoriale, Giustizia insieme, 20 dicembre 2022.
[37] R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, in Giustiziainsieme, 4 marzo 2021.
[38] S. Sotomayor, Il mio mondo amatissimo. Storia di un giudice dal Bronx alla Corte Suprema, Bologna, 2022, 285: “..non considero pubblici ministeri e avvocati difensori nemici naturali, per quanto comune sia questa visione all’interno e all’esterno della professione legale. Sono semplicemente figure con due ruoli diversi, che devono essere ricoperti entrambi per raggiungere un fine più nobile: mettere in pratica lo stato del diritto Nonostante i due ruoli siano opposti, la loro esistenza dipende dalla condivisa accettazione del giudizio della legge, indipendentemente da quanto i due fronti mirino al risultato sperato Ciò non significa negare che a guidare gli sforzi di entrambe le parti sia la voglia di vincere, né sostenere una qualche semplicistica equivalenza tra accusa e difesa: piuttosto, si tratta meramente di sottolineare che, alla fine, per fare un buon servizio sia all’accusato che alla collettività, l’integrità del sistema deve essere posta più in alto rispetto ai fini più vantaggiosi per l’una o l’altra fazione”.
[39] V., di recente, sul tema dell'etica delle funzioni giudiziarie le ricchissime osservazioni di A. Nappi, Etica, deontologia e funzioni giudiziarie: tra efficienza, percezione ed effettività, in Questionegiustizia, 18 luglio 2022.
La Cassazione disconosce la scientificità della c.d. sindrome da alienazione parentale. Commento a Cass. Civ. 24 marzo 2022 n. 9691
di Ilaria Boiano
Con l’ordinanza n. 9691 del 24 marzo 2022 la Suprema Corte ha annullato la decisione di decadenza dalla responsabilità genitoriale sul figlio minore e di trasferimento del bambino in casa-famiglia, pronunciata dal Tribunale per i minorenni di Roma e confermata dalla Corte di appello nei confronti di una donna che da anni ormai insieme al figlio minorenne vive nella paura di provvedimenti ablativi a causa dell’operatività indisturbata nei procedimenti affrontati del costrutto ascientifico dell’alienazione parentale e di tutti i suoi derivati, che agisce come espediente giudiziario per limitare fino a recidere la genitorialità delle donne.
Questo contributo, dopo una breve panoramica della motivazione dell’ordinanza del 24 marzo 2022, n. 9691, non intende ripercorrere norme, giurisprudenza o dottrina, ma nello spirito perseguito da Giustizia Insieme di promozione del confronto tra magistratura, avvocatura, studiosi del diritto e società civile quale pratica irrinunciabile, intende condividere un’esperienza.
In questo momento in cui una nuova riforma in materia è ormai quasi integralmente operativa e la Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio e ogni forma di violenza nei confronti delle donne documenta la grave vittimizzazione di donne e figli nei giudizi in tema di responsabilità genitoriale, ritengo necessario porre delle domande per l’avvio di un percorso di autentica autocritica del diritto delle relazioni familiari così come oggi in concreto è praticato all’interno delle aule giudiziarie, asservito a logiche corporativiste che piegano il concetto del “superiore interesse del minore” tenendo ben presente che leggi e giurisprudenza devono confrontarsi con la vita delle singolarità concrete soggette non solo all’autorità giudiziaria, ma anche a un’assistenza legale spesso spregiudicata e ad altre discipline che hanno invaso il diritto.
Un tentativo questo motivato dall’auspicio della riscoperta di un umanesimo giuridico di cui poche tracce si intravedono, paradossalmente, proprio nella pratica giudiziaria che del “troppo umano” è chiamata a occuparsi. Le domande poste non troveranno di certo risposte esaustive, ma solo tentativi di riflessioni che partono dall’esperienza, storica fonte del diritto che merita oggi di vedersi restituita dignità.
Sommario: 1. I principi di diritto affermati dall’ordinanza n. 9691/2022 - 2. Qual è l’impatto della “cattiva scienza” e del “cattivi scienziati” sul diritto delle relazioni familiari? - 3. Quale rapporto tra Stato e società è sotteso a una giurisprudenza di merito che impone la relazione paterna con l’uso della coercizione fisica?
1. I principi di diritto affermati dall’ordinanza n. 9691/2022
Il provvedimento in commento interviene nel contesto di una vicenda familiare e processuale molto articolata, tuttavia sempre più comune dinanzi agli uffici giudiziari: una donna decideva di interrompere la relazione sentimentale con il compagno a causa di una dimensione di vita comune connotata da forme di controllo coercitivo che le rendevano la vita dolorosa, e chiedeva la regolamentazione dell’affidamento del figlio minore dinanzi al Tribunale ordinario.
Mentre la donna lamentava profili di inadeguatezza del padre, questi, attribuiva alla madre del bambino comportamenti ostativi all’esercizio della sua genitorialità avvalorati anche in sede di valutazione delle competenze genitoriali da parte di consulente tecnico d’ufficio.
Ogni richiesta di approfondimento sui comportamenti paterni posta dalla madre è stata negli anni sistematicamente ignorata oppure ritenuta pregiudizialmente indicativa di un’incapacità della stessa di garantire l’accesso del figlio al padre.
Come sempre più spesso accade su indicazione dell’avvocatura, il padre giungeva a richiedere al Tribunale per i minorenni la decadenza della responsabilità genitoriale della donna solo sulla base di presunti ostacoli materni alla sua paternità e il conseguente collocamento del figlio in una struttura extrafamiliare.
Il tribunale per i minorenni di Roma, dopo una prima decisione di allontanamento del minore e suo collocamento presso il padre con educatore domiciliare permanente poi annullato dalla Corte di appello di Roma nel gennaio 2020, pronunciava la decadenza della responsabilità genitoriale della signora e il collocamento extrafamiliare del minore, ciò senza ascoltare la sua volontà.
La Suprema Corte, annullando suddetta decisione confermata dalla Corte di appello di Roma nel luglio 2021, ha ribadito la necessità di un bilanciamento nell’individuare le misure da adottare nei giudizi riguardanti la responsabilità genitoriale e la tutela della cosiddetta bigenitorialità tra il risultato atteso e l’impatto delle misure sul complessivo equilibrio psicofisico dei minori, in un’accezione del superiore interesse del minore che sia in concreto declinata a partire dalla prospettiva dei bambini e delle bambine e non già nella cornice rivendicatoria degli adulti, come già chiarito nel medesimo caso dalla Corte di appello di Roma con ordinanza n. 2 del 2020 che annullava una prima volta l’allontanamento del minore dalla madre.
La sezione I civile ha cassato, inoltre, la decisione della Corte di appello di Roma poiché, scrivono gli Ermellini, ha inteso realizzare il diritto alla bigenitorialità rimuovendo la figura genitoriale della madre e ciò sulla base di apodittiche motivazioni che richiamano le consulenze tecniche svolte nel corso del procedimento, tutte improntate alla cornice dell’alienazione parentale, nonostante la stessa sia notoriamente un costrutto ascientifico.
La Suprema Corte evidenzia ancora una volta, sulla scorta dell’apparato motivazionale dell’ordinanza del 17 maggio 2021, n. 13217, che “il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre”. Il collegio osserva, inoltre, che il diritto alla bigenitorialità così come ogni decisione assunta per realizzarlo non può rispondere a formula astratta “nell’assoluta indifferenza in ordine alle conseguenze sulla vita del minore, privato ex abrupto del riferimento alla figura materna con la quale, nel caso concreto, come emerge inequivocabilmente dagli atti, ha sempre convissuto felicemente, coltivando serenamente i propri interessi di bambino, e frequentando proficuamente la scuola”.
La Corte Suprema rileva ancora che l’autorità giudiziaria di merito ha del tutto omesso di considerare quali potrebbero essere le ripercussioni sulla vita e sulla salute del minore di una brusca e definitiva sottrazione dello stesso dalla relazione familiare con la madre, con la lacerazione di ogni consuetudine di vita, ignorando così che la bigenitorialità è, anzitutto, un diritto del minore.
L’interesse superiore del minore non può essere declinato a partire da diritti di terzi, neppure se tra questi vi sia il genitore che chiede di vedersi garantire la relazione che assume pretermessa, dal momento che “l’interprete è chiamato, dunque, ad una delicata interpretazione ermeneutica di bilanciamento la cui specialità consiste nel predicare in ogni caso la preminenza del diritto del minore e la recessività dei diritti che con esso possano collidere” (Cass., 24 marzo 2022, n. 9691).
L’autorità giudiziaria, di conseguenza, non potrà prescindere da una valutazione che declini il superiore interesse del minore secondo tre distinte accezioni che la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ratificata dall’Italia con l. n. 176/91, codifica in modo preciso ponendole tra loro strettamente collegate. Anzitutto, ricorda la Suprema Corte, il superiore interesse del minore “esprime un diritto sostanziale, cioè il diritto del minorenne a che il proprio superiore interesse sia valutato e considerato preminente quando si prendono in considerazione interessi diversi, al fine di raggiungere una decisione sulla problematica in questione, e la garanzia che tale diritto sarà attuato ogni qualvolta sia necessaria una decisione riguardante un minorenne, un gruppo di minorenni identificati o non identificati, o minorenni in generale”. Inoltre, il miglior interesse del minore configura un principio giuridico interpretativo fondamentale e di conseguenza, sottolinea la Corte di cassazione, laddove una disposizione di legge risulti “aperta a a più di un’interpretazione si dovrebbe scegliere l’interpretazione che corrisponde nel modo più efficace al superiore interesse del minore”.
Da ciò discende anche una regola procedurale che la Corte di cassazione individua nell’attenta verifica e valutazione rigorosa dell’impatto positivo o negativo della decisione sul minorenne o sui minorenni in questione, valorizzando in ogni caso il miglior interesse del minore con prevalenza su altri diritti la cui attuazione possa, seppur parzialmente e indirettamente, comprimerlo.
La Cassazione, inoltre, ritiene nullo il provvedimento dell’autorità giudiziaria di merito per non avere proceduto all’ascolto del minore, adempimento a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo. Gli Ermellini ribadiscono sul punto che “in tema di affidamento dei figli minori l'ascolto del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento previsto a pena di nullità, atteso che è espressamente destinato a raccogliere le sue opinioni e a valutare i suoi bisogni”.
La Corte precisa, inoltre, che “tale adempimento non può essere sostituito dalle risultanze di una consulenza tecnica di ufficio, la quale adempie alla diversa esigenza di fornire al giudice altri strumenti di valutazione per individuare la soluzione più confacente al suo interesse”.
La Suprema Corte, infine, interviene a chiarire che l’esecuzione con la forza dell’allontanamento dei bambini e delle bambine da un genitore contro la loro volontà e in assenza di concreto pregiudizio è da ritenersi fuori dai principi dello Stato di diritto: ciò vuol dire non che occorre una legge per disciplinare modalità di esecuzione di allontanamenti coercitivi a danno dei minori di età dai genitori di riferimento, bensì che la pratica è in sé estranea all’ordinamento stesso per la sua portata violenta e autoritaria.
2. Qual è l’impatto della “cattiva scienza” e del “cattivi scienziati” sul diritto delle relazioni familiari?
Come approfondito ormai da anni (tra i vari CAPRIOLI, La scienza "cattiva maestra": le insidie della prova scientifica nel processo penale, Cass. pen., fasc.9, 2008, pag. 3520), le scienze posso costituire un alleato per l’attività giudiziaria, ma spesso con insidie e inganni, come “un compagno di viaggio che può anche condurre il processo in una direzione sbagliata” e che pone dubbi sulle garanzie dell'affidabilità e dell'attendibilità delle risorse tecnico-scientifiche utilizzate nel processo.
Come possono il giudice e le parti «esercitare un controllo effettivo su un'attività probatoria [...] in cui un esperto impiega conoscenze che essi non posseggono» (DOMINIONI, La prova penale scientifica. Gli strumenti scientifico-tecnici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Giuffrè, 2005, p. 68 ss.). La dottrina, ragionando sull’ingresso della prova scientifica nel processo penale, indica sullo sfondo di tale questione non solo un tema di giustificazione razionale delle decisioni del giudice (l’autore si riferisce a quello penale, ma l’argomentazione ben si adatta a quello civile e minorile) – ma anche di responsabilità del giudicante, giungendo a denunciare il rischio di gravi distorsioni della giustizia, dal momento che “il processo deciso da un responso peritale indecifrabile e insuscettibile di controllo da parte del giudice è un processo che assomiglia pericolosamente agli antichi riti ordalici”( FOCARDI, La consulenza tecnica extraperitale delle parti private, Cedam, 2003, p.14).
La funzione giurisdizionale torna ad assumere contorni irrazionalistici e superstiziosi: il giudice sfugge alle sue responsabilità per affidarsi nuovamente a qualcosa che si colloca sopra la stessa autorità giudiziaria, la sovrasta ammantandosi di oggettività che, come noto, neppure la scienza “dura” assicura (GIORELLO, Di nessuna chiesa, Raffaello Cortina Editore, 2005, p. 11 s.).
La scienza può rappresentare una "cattiva maestra" del giudice per tre diverse ragioni e in tre diverse circostanze: 1) quando è cattiva scienza, cioè quando si vogliano impiegare nel processo strumenti tecnico-scientifici che non garantiscono in sé e per sé, a prescindere dall'applicazione buona o cattiva che se ne faccia nel caso concreto, un margine sufficiente di affidabilità e attendibilità; 2) quando è una buona scienza applicata male, cioè applicata, nel caso concreto, da cattivi scienziati (CENTONZE, Scienza "spazzatura" e scienza "corrotta" nelle attestazioni e valutazioni dei consulenti tecnici nel processo penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, p. 1237); 3) quando è una buona scienza correttamente applicata in sede processuale che viene, tuttavia, utilizzata in modo improprio o fuorviante dal giudice in sede di decisione.
Tenendo conto delle tre menzionate circostanze, la psicologia giuridica oggi all’opera senza controllo nei tribunali italiani in tema di valutazione della genitorialità nei procedimenti di affidamento dei figli e di responsabilità genitoriale si colloca proprio tra le cattive maestre (MERCER-DREW, Challenging Parental Alienation. New Directions for Professionals and Parents, Routledge, 2022), poiché quel poco che potrebbe salvarsi in una cornice di inaffidabilità e inattendibilità complessiva (cattiva scienza), è applicato da cattivi scienziati e comunque utilizzato in modo fuorviante dall’autorità giudiziaria.
Attraverso gli incarichi di consulenze tecniche sono veicolate, infatti, all’interno degli uffici giudiziari
attività profiling stereotipato e sessista dei genitori e i conflitti e i “problemi relazionali” nel nucleo familiare sono generalmente stabilizzati nella forma dell’alienazione genitoriale e delle sue più recenti declinazioni (conflitto di lealtà, rapporto simbiotico, sindrome della madre malevola, ecc.). Tutti costrutti questi veicolati dalle consulenze tecniche d’ufficio e recepiti dalla prosa giudiziaria di merito per fissare le problematiche delle relazioni familiari in un regime patologico, generalmente imputato alla madre, colpevole di ogni disfunzione, ancora di più se osa attivare gli strumenti di difesa contro la violenza nelle relazioni di intimità.
E all’esito di ciò, mentre si tacciono e mistificano i comportamenti violenti o comunque inadeguati dei padri, nonostante i tentativi dei minori coinvolti di rappresentare ai consulenti la loro esperienza dolorosa, si diagnosticano invece futuri e futuribili rischi psicopatologici per i minori alla luce di tratti della personalità e comportamenti mai tenuti dalle madri, ma frutto di una prognosi avulsa dai fatti, per lo più ancorata a interpretazioni e valutazioni sulla base delle quali suggeriscono al giudice percorsi di supporto che implicano il coinvolgimento di una pletora infinita di soggetti (terapia al minore, terapia genitoriale, educatori domiciliari, supporto parentale (parent child support, rigorosamente a pagamento), ma anche coordinatori genitoriali, fino a prospettare alle donne allontanamenti coattivi dei figli e collocamento in strutture extrafamiliari.
Un leit motiv che le donne si sentono ripetere nel corso delle consulenze è che “i fatti non contano”, peccato che stiamo parlando di professionisti che non operano nel loro studio privato in un contesto clinico e di libero affidamento del paziente, ma come ausiliari dell’autorità giudiziaria in un procedimento in cui invece proprio i fatti dovrebbero costituire la piattaforma di riferimento, poiché discostarsene implica anche responsabilità penali: omettere, come accade non di rado, di richiamare l’attenzione del giudicante su condotte di umiliazioni fisiche e psicologiche, urla, lanci di oggetti e danneggiamenti delle cose, percosse, è una condotta grave penalmente rilevante che dovrebbe determinare l’autorità giudiziaria procedente a non arrivare alla lettura delle conclusioni, per trasmettere senza indugio gli atti della consulenza alla Procura sia per la condotta commessa nei confronti del/della minore, sia per la condotta omissiva del consulente.
Il tutto avviene poi con la postura di chi detiene un potere pressoché illimitato: le donne che manifestano perplessità o sottopongono problematiche di sostenibilità dei percorsi imposti si sentono continuamente ripetere dai consulenti incaricati “il giudice fa quello che dico io, stia attenta”.
Peraltro, i fatti “non contano”, ma solo in modo selettivo: a titolo esemplificativo di tante conclusioni fotocopia contenute nelle relazioni “tecniche”, per spiegare la paura di una bambina a incontrare il padre non rileva se un padre l’ha afferrata per il collo così terrorizzandola, l’ha colpita con un pugno in un occhio, l’ha afferrata e lanciata con violenza sul divano (n.d.r. questo il racconto di una minore sentita nel corso di una consulenza tecnica dinanzi al Tribunale per i minorenni di Roma), mentre diviene centrale l’abbraccio della madre alla figlia al momento del passaggio presso il padre per desumere che l’unica responsabile del rifiuto della minore sia la madre. Con il suo gesto, infatti, secondo la logica e la scienza che guida gli “esperti” della bigenitorialità, la madre condizionerebbe la figlia causando la paura nei confronti del padre. Ed è la madre che dunque è chiamata a doversi mettere in discussione, per lo più in infiniti percorsi di supporto genitoriale che la espongono alle prepotenze mai sopite o sanzionate dell’altro genitore, mai posto dinanzi alle responsabilità (anche penali) delle sue condotte nei confronti della figlia.
Si coglie l’aporia di tutto quanto fin qui descritto se si traspone l’operazione che tante donne subiscono in sede civile e minorile al contesto penale: molte toghe sarebbero deposte in segno di protesta dinanzi a condanne pronunciate non sulla base delle prove dei fatti acquisite, ma esclusivamente sul profilo sociologico e di personalità dell’imputato. Operazione che ripugnerebbe al più moderato dei garantisti, e che peraltro è vietata dall’articolo 220 c.p.p. in quanto eredità del positivismo lombrosiano ripudiato dalla Costituzione e dalla cultura giuridica democratica.
Ancora, si pensi alla psicologia della testimonianza: nel momento in cui si riconoscesse che valutare le deposizioni testimoniali è da ritenersi affare squisitamente "scientifico" (DOMINIONI, La prova penale scientifica. Gli strumenti scientifico-tecnici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Giuffrè, 2005, p. 73), il giudice non potrebbe astenersi dal disporre perizia, perdendo la capacità di misurarsi con il completo percorso valutativo cui è chiamato dinanzi alle prove testimoniali. È questa la direzione verso la quale la psicologia forense sta facendo pressioni e la riflessione sul prezzo di questa operazione sul processo penale e i suoi capisaldi non è più procrastinabile: il principale effetto della linea di tendenza fin qui tracciata è il progressivo assottigliarsi del "senso comune" (CANZIO, Prova scientifica, ricerca della "verità" e decisione giudiziaria nel processo penale, in AA.VV., Decisione giudiziaria e verità scientifica, cit., p. 71)- cioè del repertorio di conoscenze empiriche umane - come serbatoio delle regole di inferenza da utilizzare nel ragionamento probatorio. Il fenomeno assume talora dimensioni preoccupanti: lo spostamento della linea di confine tra il sapere comune e il sapere specialistico rischia di sottrarre all'organo giudicante competenze valutative e decisionali che riesce difficile non considerare appartenenti al suo esclusivo dominio in ragione dei principi costituzionali che governano l’esercizio della giurisdizione.
È altresì richiesto dai giudici ai consulenti di indicare le modalità di affidamento più adeguate, di indicare professionisti e strutture dove attivare eventuali percorsi ritenuti necessari, spesso private e a pagamento, al di fuori del sistema sanitario nazionale che, ricordiamo, non significa solo gratuità o progressività dei costi da sostenere in base al reddito, ma anche controllo della scientificità degli interventi cui le persone sono sottoposte.
I consulenti in autonomia o sulla base di quesiti concordati con gli ordini professionali nel corso delle operazioni di consulenza si pongono oltre la funzione valutativa del loro intervento perseguendo finalità trasformative dello status quo, ossia delle relazioni familiari.
Per cogliere l’abnormità di questa dimensione dell’incarico conferito ai consulenti in tema di genitorialità, ancora una volta è necessario spostarsi con il ragionamento in altro contesto: tecnicamente è come se al consulente tecnico incaricato di accertare le cause del crollo di un ponte si delegasse tanto l’accertamento della sussistenza dei presupposti giuridici per decidere sulla responsabilità civile delle parti convenute nel giudizio, quanto l’intervento necessario alla sua riparazione o si autorizzassero i consulenti a indicare ingegneri, architetti e operai cui affidare la ricostruzione, costringendo le parti (per esempio il Comune insieme alla società responsabile della gestione del tratto di strada), ad avvalersi del personale indicato con minacce di perdita rispettivamente della natura di ente locale e della possibilità di continuare a gestire il tratto di strada una volta ricostruito il ponte.
3. Quale rapporto tra Stato e società è sotteso a una giurisprudenza di merito che impone la relazione paterna con l’uso della coercizione fisica?
Nella pratica giudiziaria ancora si ritiene di tutelare astrattamente una bigenitorialità intesa quale componente imprescindibile del superiore interesse dei minori e condizione del loro equilibrio psicofisico, per tradursi, in concreto, nella sola verifica del materiale “accesso” di un genitore ai figli (per lo più il padre), in un contesto nel quale l’altro genitore (di solito la madre) ha chiesto protezione per sé e/o i figli da condotte di violenza psicologica e/o fisica del padre ovvero nel caso in cui i figli manifestino disagio, fino al totale rifiuto di incontrare l’altro genitore.
Il rifiuto o disagio dei minori non viene approfondito ricorrendo agli ordinari mezzi di prova e al loro ascolto diretto per indagare gli eventi traumatici riconducibili al genitore nei confronti del quale il minore esprime una paura tale da precludere una frequentazione serena.
Per porre rimedio ai danni che deriverebbero, secondo la prospettiva veicolata dalla psicologia forense in sede giudiziaria, da una società “senza padre” e quindi senza “norma”, si prescrive l’intervento di servizi sociali, consulenti di coppia, psicoterapeuti, figure che nello svolgimento delle funzioni di volta in volta delegate dall’autorità giudiziaria, costruiscono nuovi obblighi, presidiati non dalla legge, ma proprio dalla paura di vedere allontanato da sé i figli/le figlie, che da strumento eccezionale di prevenzione di un pregiudizio concreto e grave, diviene ordinario mezzo di coercizione e sanzione del comportamento di un genitore che si assume non collaborativo nei confronti dell’altro, (per lo più le donne) e di “terapia” volta a ristabilire la relazione tra i figli e il genitore rifiutato.
Ebbene, in questi termini, si ingenera un paradosso che smaschera la completa estraneità all’ordinamento giuridico della prospettiva perseguita dalla giurisprudenza di merito: mentre un minore viene ridotto sempre più spesso a res di un’esecuzione assistita dalla forza pubblica, con autorizzazione a rimuovere ogni ostacolo all’esecuzione dei provvedimenti[1], nei confronti degli adulti si chiarisce che la frequentazione del figlio secondo i tempi e le modalità definite dal giudice della crisi familiare non è suscettibile di esecuzione diretta (in forma specifica), perché non è ipotizzabile che un terzo estraneo possa sostituirsi al genitore. Trattandosi, infatti, di un dovere funzionale allo scopo di garantire al figlio attenzioni, cura ed affetto, non è ipotizzabile, e giustamente, che il genitore possa essere coartato, mediante il meccanismo di cui all’art. 614 bis c.p.c., ad un rapporto che implica un coinvolgimento anche affettivo; si ritiene che la misura coercitiva potrebbe anzi essere finanche dannosa perché il genitore, per sottrarsi alla minaccia di dover pagare una somma di denaro, potrebbe prendere il figlio con sé senza averne cura[2].
La misura dell’allontanamento forzoso dei minori dal genitore di riferimento si traduce nei confronti del minore proprio in una coercizione della relazione affettiva preclusa nei confronti dell’adulto, mentre si ignora la paura del minore nei confronti del genitore presso il quale deve essere trasferito contro la sua volontà o che comunque rifiuta, anche allorché questo stato d’animo rivela in concreto la non corrispondenza tra l’interesse preminente da tutelare e il provvedimento adottato[3].
Sul tema appare significativa risalente giurisprudenza che, dando prova di un esercizio della giurisdizione civile e minorile capace di ascolto autentico e di vicinanza alla materialità della vita delle persone, comprese i minori, sui quali i provvedimenti hanno effetto, in presenza di obbligo di consegna del minore contro la volontà di quest'ultimo, a fronte del rifiuto, decideva per la sospensione del processo rimettendo la questione al giudice della cognizione[4], ovvero ha dichiarato l'incoercibilità degli obblighi di fare riguardanti la consegna di minori, se risulti provato che la separazione dei minori dai precedenti affidatari di fatto provocherebbe loro danni gravissimi sul piano dell'equilibrio psicofisico[5].
L’allontanamento coatto del figlio dal genitore di riferimento è eseguito attualmente secondo prassi operative contra legem, come chiarito dalla Corte Suprema nell’ordinanza n. 9691/2022, che sono il risultato della combinazione sproporzionata di più istituti, da quelli del testo unico di pubblica sicurezza fino a quelli del codice di procedura penale, in un’escalation provvedimentale dell’autorità giudiziaria minorile che perde di vista il bambino/la bambina e i suoi diritti e libertà fondamentali, per perseguire esclusivamente la tutela dell’autorità delle decisioni giudiziarie e l'interesse all'esecuzione delle sentenze e dei provvedimenti con mezzi e modalità sproporzionate e irragionevoli non consentite neppure in sede di esecuzione della pena.
La compressione dei diritti fondamentali del minore perdura successivamente per un tempo non determinato dalla legge e neppure dall’autorità giudiziaria che, in presenza del rifiuto del minore nei confronti dell’altro genitore, integra l’allontanamento con la “misura accessoria” del collocamento in struttura residenza extra-familiare e con divieto, anche sine die, di frequentazione e contatto del genitore da cui sono allontanati, in una condizione di totale isolamento da tutto ciò che era parte della dimensione esistenziale pregressa, con una limitazione della libertà personale illegittima mascherata da “protezione del minore”, lasciato senza nessun’autentica opportunità di contatto con soggetti terzi rispetto a coloro che sono coinvolti nella definizione dell’intervento recepito dall’autorità giudiziaria e nell’attuazione stessa del provvedimento giudiziario.
La lettura sistematica delle disposizioni invocate dall’autorità giudiziaria per giustificare la decisione dell’allontanamento forzoso del minore dal genitore di riferimento contro la volontà del minore e per presunte condotte di plagio, in un ordinamento che ha espunto la corrispondente fattispecie incriminatrice per illegittimità costituzionale, restituisce una grave e diffusa compressione della libertà personale, del diritto alla salute e al rispetto della vita privata e familiare nei confronti dei figli minorenni, ma anche del genitore dal quale il minore viene allontanato, in particolare sotto il profilo di una sistematica violazione del principio di riserva di legge, ma anche una violazione di fatto della riserva di giurisdizione. Dalla disamina della giurisprudenza di merito più recente emerge, infatti, che l’allontanamento viene adottato al di fuori dei casi previsti dalla legge con un’interpretazione analogica della nozione di comportamento maltrattante nei confronti dei figli che la legge pone a fondamento dell’adozione della misura di allontanamento dalla casa familiare, includendovi il costrutto ascientifico dell’alienazione parentale. La misura, inoltre, è posta in esecuzione mediante una coercizione psicologica e fisica ai danni del minore, condotta che di per sé costituisce una forma di violenza che viola gli articoli 13 e 32 Cost. e l’articolo 3 CEDU.
L’esecuzione coatta nei confronti dei minori della misura dell’allontanamento dalla casa abituale di residenza e dal genitore di riferimento contro la volontà del minore, destinatario di coazione psicologica e fisica, integra violazione dell’articolo 3 CEDU, in quanto risulta raggiungere un livello severo di gravità all’esito della valutazione intrinsecamente relativa delle circostanze del caso.
Tra le circostanze oggetto di valutazione ai fini della sussistenza di una violazione dell’articolo 3 CEDU sono da intendersi compresi innanzitutto l’età del destinatario della misura, le sue condizioni psicofisiche, la natura e il contesto del trattamento, il modo in cui se ne prospetta l’esecuzione (con ausilio delle forze di polizia e coattivamente contro la volontà del minore), la sua durata (sine die), i suoi effetti fisici e mentali. Anche se le autorità che hanno disposto la misura giustificano l’esecuzione coatta di un allontanamento che terrorizza il bambino motivandola con la finalità di ristabilire l’accesso del padre al figlio in attuazione degli obblighi positivi derivanti dall’art. 8 CEDU, questa motivazione non esclude una violazione dell'articolo 3 nei confronti del minore coinvolto (si veda la sentenza Peers c. Grecia, no 28524/95, § 67, CEDH 2001-III, § 74, nella parte in cui si legge che non esclude la violazione dell’art. 3 l’assenza di finalità denigratorie). Non si può trascurare, inoltre, che la Corte di Strasburgo ha evidenziato che nei casi che riguardano questioni di collocamento dei bambini e di restrizioni di accesso, gli interessi del bambino devono prevalere su tutte le altre considerazioni[6] e deve essere esercitata la massima cautela quando si ricorre alla coercizione in questo settore delicato[7]. È la stessa Corte a rammentare che il fatto che gli sforzi delle autorità a ristabilire una relazione genitore-figlio siano stati vani non porta automaticamente a concludere che lo Stato si è sottratto agli obblighi positivi derivanti dall’articolo 8 della Convenzione, dal momento che l’obbligo per le autorità nazionali di adottare misure per riunire il figlio e il genitore con cui non convive non è assoluto, la comprensione e la cooperazione di tutte le persone interessate costituiscono sempre un fattore importante e i tribunali per ripristinare i rapporti genitore-figlio possono adottare solo misure "ragionevoli" agendo con la massima prudenza; dinanzi alla volontà di un minore, quest’ultimo non può essere costretto con la forza ad allacciare una relazione genitoriale che rifiuta e dinanzi a ciò non può essere invocata la violazione dell'art.8 della Convenzione EDU (cfr. C. EDU Spano c. Italia, 2020).
Di certo, inoltre, l’obbligo positivo derivante dall’articolo 8 CEDU non può tradursi nell’attuazione di misure che violano l’obbligo di astensione da trattamenti inumani e degradanti vietati dall’art. 3 CEDU. E infatti, se le autorità nazionali devono sforzarsi di agevolare la collaborazione, un obbligo per le stesse di ricorrere alla coercizione in materia non può che essere limitato: esse devono tenere conto degli interessi e dei diritti e delle libertà di tutte le persone coinvolte, in particolare degli interessi superiori del minore e dei diritti conferiti allo stesso dalla Convenzione[8]. In quest’ottica, l’asserito esercizio dell’articolo 8 della Convenzione non può autorizzare neppure un genitore a far adottare misure pregiudizievoli per la salute e lo sviluppo del figlio[9].
Ciò che invece si rileva nelle prassi diffuse sul territorio è che i minori sono esposti a trattamenti inumani e degradanti al di fuori di ogni ragionevole bilanciamento delle posizioni giuridiche rilevanti ma contrapposte dei genitori con il loro superiore interesse, concetto che rimane vuota formula, dal momento che si ignora l’impatto delle misure disposte di volta in volta sul «benessere del bambino» di valenza costituzionale (articolo 32 Cost.), avvalendosi finanche dell’ausilio di personale medico-sanitario al di fuori dei rigorosi confini tracciati dalla legge n. 833 del 1978.
[1] Tribunale di Pisa, 8 giugno 2021; Tribunale per i minorenni di Roma, 4 giugno 2021; Tribunale per i minorenni di Roma, 26 luglio 2021. Ciò si traduce in concreto in dispiegamento di forze dell’ordine, ambulanza, vigili del fuoco, porte abbattute e immobilizzazione delle persone presenti e impossibilità di contatto alcuno, neppure un saluto di commiato tra figlio e genitore.
[2] Cass. 6 marzo 2020, n. 6471, in Foro it., fasc. 7, 2020.
[3] Sul punto Corte di appello di Roma, 3 gennaio 2021, n. 2: «non appare realistico presumere che la paura [del bambino], e la paura della madre che [il bambino] mostra di avere recepito, possano essere superate imponendo il suo allontanamento dalla sua casa e dai suoi affetti ed un collocamento coattivo in casa del padre. [il bambino] si troverebbe così […] incastrato nella duplice sofferenza di un drastico quanto per lui incomprensibile sradicamento dal proprio ambiente e dai propri affetti, e di una esposizione forzosa ad una situazione per lui fonte di ansia e paura e comunque estranea».
[4] Pret. Parma 3 aprile 1984, in Giur. mer., 1985, 1100, con nota di L. Oddiz, L'esecuzione coattiva ex art. 612 c.p.c.
[5] Pret. Palermo 16 aprile 1987, in Diritto di Famiglia e delle Persone, 1988, 1057,
[6] Strand Lobben e altri c. Norvegia [GC], no. 37283/13, § 204, 10 settembre 2019)
[7] Mitrova e Savik c. ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, n. 42534/09, § 77, 11 febbraio 2016, e Reigado Ramos c. Portogallo, n. 73229/01, § 53, 22 novembre 2005
[8] Voleský c. Repubblica ceca, n. 63267/00, § 118, 29 giugno 2004.
[9] Elsholz c. Germania [GC], n. 25735/94, §§ 49 50, CEDU 2000 VIII.
Il necessario contraddittorio col privato nell’esercizio dei poteri discrezionali: l’efficacia invalidante del preavviso di rigetto (nota a Cons. St., Sez. II, 14 marzo 2022, n. 1790)
di Roberto Fusco
Sommario: 1. Una breve premessa: l’efficacia invalidante dell’omesso invio del preavviso di rigetto. – 2. Il caso di specie. – 3. La disciplina del preavviso di rigetto alla luce del d.l. n. 76/2020. – 4. La categoria dei vizi non invalidanti: le due diverse ipotesi dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990. – 5. I dicta della sentenza: l’efficacia invalidante dell’omesso preavviso di rigetto e il carattere processuale dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990. – 6. Alcune brevi considerazioni conclusive.
1. Una breve premessa: l'efficacia invalidante dell'omesso invio del preavviso di rigetto.
La sentenza si inserisce nell’ambito della problematica relativa all’annullabilità del provvedimento adottato in assenza del dovuto preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis, l. n. 241/1990. Antecedentemente alla riforma dell’art. 10-bis ad opera del d.l. n. 76/2020 (c.d. Decreto Semplificazioni), si discuteva se, in caso di omissione dell’invio di tale comunicazione, il provvedimento così adottato dovesse considerarsi ex se illegittimo o se residuasse uno spazio di applicazione del disposto dell’art. 21-octies, comma 2, prevedente la disciplina dei c.d. vizi non invalidanti. Più precisamente la giurisprudenza si interrogava sulla possibilità di assimilare il preavviso di rigetto alla comunicazione di avvio del procedimento ai fini dell’applicazione della seconda parte della succitata disposizione, secondo la quale il provvedimento amministrativo non è (comunque) annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. A risolvere tale contrasto è intervenuto il citato d.l. n. 76/2020, il quale ha precisato che «La disposizione di cui al secondo periodo [dell’art. 21-octies, comma 2] non si applica al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10-bis». La pronuncia in commento, recettiva di tale nuovo regime differenziato del preavviso di rigetto in termini di efficacia invalidante, contiene anche delle interessanti precisazioni sulla natura della modificata normativa, che viene ritenuta applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge di riferimento.
2. Il caso di specie.
La sentenza in commento origina dal complesso svolgimento di un provvedimento disciplinare a carico di un carabiniere condannato in sede penale per il reato di detenzione e spaccio di sostanza stupefacente. La sanzione della perdita del grado veniva annullata per ben due volte prima di essere ritenuta legittima dal competente Tribunale Amministrativo Regionale. Una volta intervenuta la riabilitazione, il carabiniere chiedeva di essere reintegrato in servizio e, in mancanza di una risposta da parte dell’amministrazione, presentava un nuovo ricorso al T.A.R. per l’accertamento dell’obbligo di provvedere sulla sua istanza. Nelle more della definizione del giudizio avverso il silenzio, l’amministrazione resistente respingeva l’istanza di reintegrazione in servizio per la gravità dei fatti commessi e il pregiudizio arrecato all’Arma dei Carabinieri. Avverso tale provvedimento (e avverso i pareri presupposti) veniva proposto ricorso per motivi aggiunti nell’ambito del quale, tra i motivi dedotti, veniva eccepita la violazione dell’art. 10-bis, l. n. 241/1990 per la mancata comunicazione del preavviso di rigetto. Il giudice di prime cure, però, non accoglieva le censure proposte dal ricorrente che, a questo punto, le reiterava in appello per contestare l’illegittimità della sentenza di primo grado. Il Consiglio di Stato, investito della questione, ha capovolto la sentenza del giudice di prime cure ritenendo l’appello fondato limitatamente al motivo relativo alla violazione dell’art. 10-bis, l. n. 241/1990.
3. La disciplina del preavviso di rigetto alla luce del d.l. n. 76/2020.
La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza è un istituto di partecipazione procedimentale introdotto nella legge sul procedimento amministrativo dall’art. 6, l. n. 15/2005, che ha introdotto l’art. 10-bis nella l. n. 241/1990, poi modificato dalla l. n. 180/2011 e da ultimo riformato in maniera significativa dal d.l. n. 76/2020, convertito in l. n. 120/2020[1].
L’istituto è stato ribattezzato da dottrina e giurisprudenza “preavviso di diniego” o “preavviso di rigetto”[2] e prevede l’obbligo per la pubblica amministrazione, prima di respingere l’istanza presentata da un privato, di indicare allo stesso i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza presentata, ai fini di concedere all’interessato un termine di dieci giorni per presentare le proprie osservazioni (eventualmente corredate da documenti) che andranno valutate dalla pubblica amministrazione, la quale dovrà indicare le ragioni dell’eventuale mancato accoglimento delle stesse nel provvedimento finale (ragioni tra le quali non possono rientrare inadempienze o ritardi attribuibili alla pubblica amministrazione). Il preavviso di rigetto non si applica alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali[3].
Con il d.l. n. 76/2020 (così come convertito dalla l. n. 120/2020)[4], l’istituto ha subito un’incisiva rivisitazione che si può riassumere in quattro modifiche[5].
La prima modifica consiste nel mutamento degli effetti della comunicazione sulla possibile durata del procedimento, poiché la stessa diviene definita come causa di “sospensione” e non di “interruzione” del termine di conclusione del procedimento, che riprende a decorrere una volta presentate le osservazioni (o decorso il termine di dieci giorni per proporle) nella misura pari a quella residua[6].
La seconda modifica riguarda l’intensità dell’obbligo motivazionale sulle osservazioni presentate dai privati in riscontro al preavviso di rigetto. Nella nuova formulazione della disposizione è stato specificato in modo più puntuale che la pubblica amministrazione “è tenuta” a spiegare quali sono le motivazioni che hanno portato a non accogliere le osservazioni presentate (confermando il diniego) indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza di tali osservazioni[7].
Il terzo aspetto inciso dalla riforma riguarda i limiti che il preavviso di rigetto può imporre nei confronti della riedizione del potere a seguito di annullamento in giudizio del provvedimento adottato in assenza della comunicazione di cui all’art. 10-bis. Il legislatore, infatti, inserendo ex novo un periodo nel corpo della disposizione, prevede che, nel caso in cui un provvedimento preceduto dal preavviso di rigetto sia annullato in giudizio, la pubblica amministrazione a cui spetti il riesercizio del potere, non possa addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del procedimento annullato. La pubblica amministrazione, pertanto, nell’adottare il nuovo provvedimento sarà limitata sia dalla sentenza giurisdizionale di annullamento, che dagli elementi di fatto e di diritto relativi alla prima istruttoria ed emergenti nel preavviso di rigetto[8].
La quarta modifica concerne l’efficacia invalidante dell’omessa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, per effetto della quale, alla fine della disposizione dell’art. 10-bis, è stata aggiunta la specificazione che il secondo periodo dell’art. 21-octies, comma 2 non si applica al provvedimento adottato in violazione della normativa sul preavviso di rigetto. Per un’adeguata comprensione di detta modifica, che riguarda specificamente la sentenza in commento e sulla quale si ritornerà appresso, pare opportuno fornire preliminarmente qualche breve cenno sulla disciplina dell’art. 21-octies, comma 2 e sulla categoria dei c.d. vizi non invalidanti.
4. La categoria dei vizi non invalidanti: le due diverse ipotesi dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990.
Con l’espressione “vizi non invalidanti” si intendono quei vizi formali che, a determinate condizioni, non comportano l’annullamento del provvedimento illegittimo[9]. Essi costituiscono l’espressione del c.d. principio della dequotazione dei vizi procedimentali, secondo il quale un provvedimento affetto da un vizio di forma o del procedimento non deve essere annullato quando il vizio non influisca sul contenuto dispositivo del provvedimento.
La categoria dei vizi formali del procedimento ha trovato una sua prima codificazione con l’emanazione del correttivo del 2005 alla legge sul procedimento amministrativo e precisamente con l’introduzione dell’art. 21-octies, comma 2 dell’art. 241/1990, che ha introdotto due diverse tipologie di provvedimenti sottratti alla sanzione dell’annullamento: a) il provvedimento vincolato affetto da vizi procedimentali o formali (primo periodo); b) il provvedimento viziato da omessa comunicazione di avvio del procedimento (secondo periodo)[10].
L’ipotesi di cui al primo periodo si applica solo ai provvedimenti vincolati, concerne tutti i vizi formali e procedimentali e il fatto che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso deve essere palese; l’ipotesi di cui al secondo periodo si applica sia ai provvedimenti vincolati che discrezionali, concerne il solo vizio dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento e il fatto che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso deve essere dimostrato in giudizio dalla pubblica amministrazione[11].
Il legislatore, con l’art. 21-octies, sembra aver recepito il criterio del mancato interesse a ricorrere: il privato non ha interesse a far valere un vizio che non ha influito sul contenuto dispositivo del provvedimento in quanto la vittoria che otterrebbe attraverso la caducazione di quell’atto sarebbe una “vittoria di Pirro”, ossia apparente e meramente provvisoria poiché l’amministrazione potrebbe riadottare un atto emendato dal vizio procedimentale e dello stesso contenuto di quello annullato[12].
Più di recente la norma è stata completata con l’aggiunta di cui all’art. 12, lett. i) del d.l. n. 76/2020 (convertito in legge n. 120/2020) che ha aggiunto, in coda al secondo periodo, la specificazione che «La disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10-bis». Viene così risolto, per via legislativa, il dibattito giurisprudenziale, precedentemente insorto, in merito all’applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo) al caso dell’omesso invio della comunicazione del preavviso di rigetto[13].
5. I dicta della sentenza: l’efficacia invalidante dell’omesso preavviso di rigetto e il carattere processuale dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990.
La sentenza in commento costituisce un’applicazione della modifica legislativa apportata con il d.l. n. 76/2020 e si pone in contraddizione col prevalente orientamento giurisprudenziale che, prima di tale modifica, ammetteva l’estensione dell’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo) anche all’omessa comunicazione del preavviso di rigetto[14].
Secondo il Collegio, infatti, con la succitata riforma è stata esplicitata una netta distinzione tra il regime giuridico da applicare al caso di omissione della comunicazione di avvio del procedimento e quello di omissione del preavviso di rigetto per i procedimenti ad istanza di parte. Mentre nel caso di omissione della comunicazione di cui all’art. 7 si potrà applicare l’ipotesi di cui al secondo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, nel caso di omissione della comunicazione di cui all’art. 10-bis, potrà trovare applicazione solo la prima parte dell’art. 21-octies, comma 2, che concerne i vizi formali e procedimentali relativi ai soli provvedimenti vincolati.
Per verificare l’efficacia invalidante (o meno) dell’omissione del preavviso di rigetto, pertanto, dopo la riforma risulta centrale la verifica della sussistenza di un potere discrezionale, in presenza del quale non sono applicabili i meccanismi di possibile “sanatoria processuale” previsti per la violazione delle norme sul procedimento dall’art. 21-octies, comma 2, in caso di mancato invio del preavviso di rigetto[15].
Nel caso di specie viene affermata la pacifica natura discrezionale del potere esercitato, attraverso il richiamo di quella giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo la quale sussiste una discrezionalità valutativa dell’amministrazione militare che emana provvedimenti sanzionatori nelle ipotesi di perdita del grado a seguito di condanna senza procedimento disciplinare[16].
Il Collegio, infine, richiama anche quella giurisprudenza secondo la quale la disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, andrebbe qualificata come norma di carattere processuale[17]. La stessa, pertanto, deve essere applicata anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge di riferimento (in base al principio del tempus regit actum) e, dunque, anche ai procedimenti antecedenti alla sua entrata in vigore, come quello che interessa il caso di specie, ove, nel caso di omissione del preavviso di rigetto, resta preclusa all’amministrazione la possibilità di dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato[18].
6. Alcune brevi considerazioni conclusive.
A prescindere dalla condivisibilità o meno dell’intervento normativo di riforma dell’art. 21-octies, comma 2, si deve rilevare come la pronuncia in commento sia coerente con la vigente formulazione della norma che non sembra lasciare spazio a interpretazioni estensive, per effetto delle quali il secondo periodo del succitato comma 2 sarebbe applicabile anche al caso di omesso invio della comunicazione di cui all’art. 10-bis. A tale omissione – che va pacificamente qualificata come una violazione di “norme sul procedimento” – rimane, invece, applicabile il primo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, la cui applicazione è limitata ai provvedimenti vincolati[19].
Per verificare se l’omesso invio del preavviso di rigetto sia da considerarsi un vizio invalidante o meno, pertanto, in primo luogo occorrerà indagare se il potere esercitato possa considerarsi discrezionale e, in secondo luogo, sarà necessario verificare se sussistono gli altri requisiti per l’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, che è l’unica norma in grado di “sanare” detto vizio.
In caso contrario, ossia in caso di annullamento del provvedimento per la mancanza del preavviso di rigetto, la pubblica amministrazione sarà “libera” di riesercitare il suo potere nei limiti del principio del c.d. one shot temperato e nel rispetto dell’eventuale effetto conformativo desumibile dalla sentenza di annullamento del primo provvedimento.
La sentenza in commento è di sicuro interesse anche nella parte in cui afferma la natura processuale dell’art. 21-octies, comma 2, poiché, inserendosi senza soluzione di continuità nel solco della prevalente giurisprudenza sul punto, consente di definire in senso ampliativo il perimetro applicativo della disposizione nella sua attuale formulazione[20].
Sul punto, però, non appare destituita di fondamento l’impostazione di chi valorizza la natura sostanziale dell’istituto, richiamando il disposto dell’art. 21-nonies, comma 1, il quale vieta alla pubblica amministrazione di annullare il provvedimento amministrativo nei casi previsti dall’art. 21-octies, comma 2, dando un’evidente rilevanza extra-processuale alla norma[21].
Nella consapevolezza che il dibattito sulla natura giuridica dell’art. 21-octies, comma 2 riguarda entrambe le ipotesi in esso contenute, a parere di chi scrive, si potrebbe provare a ipotizzare una distinzione tra i due diversi periodi del comma 2[22]. Se, infatti, il secondo periodo ha un carattere marcatamente processuale, dato che la non annullabilità del provvedimento è condizionata dalla dimostrazione “in giudizio” del fatto che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso, altrettanto non può dirsi per il primo periodo dove la non annullabilità per vizi formali è correlata alla circostanza che “sia palese” che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso[23].
[1] Tra i tanti contributi relativi all’art. 10-bis, l. n. 241/1990 si vedano: L. FERRARA, La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza (art. 10 bis, legge n. 241/1990) nel riformato quadro delle garanzie procedimentali, in AA.VV., Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, Padova, 2007, vol. II, 83 ss.; A. RALLO, Comunicazione dei motivi ostativi ex art. 10 bis l. 241/90 e partecipazione post-decisionale: dal contraddittorio oppositivo al dialogo sul possibile, in AA.VV., Scritti in onore di V. Spagnuolo Vigorita, Napoli, 2007, vol. II, 1080 ss.; E. FREDIANI, Partecipazione procedimentale, contraddittorio e comunicazione: dal deposito di memorie scritte e documenti al “preavviso di rigetto”, in Dir. amm., 2005, 1003 ss.; S. TARULLO, L’art.10-bis della legge n. 241/90: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, in www.giustamm.it., 2005; E. FREDIANI, Partecipazione procedimentale, contraddittorio e comunicazione: dal deposito di memorie scritte e documenti al preavviso di rigetto, in Dir. amm., 2005, p. 1005 ss.; C. VIDETTA, Note a margine del nuovo art. 10 bis della l. n. 241 del 1990, in Foro amm. TAR, 2006, p. 837 ss.; S. FANTINI, Il preavviso di rigetto come garanzia "essenziale" del cittadino e come norma sul procedimento, in Urb. app., 2007, p. 1388 ss.; F. SAITTA, Preavviso di rigetto ed atti di conferma: l’errore sta nella premessa, in Foro amm. TAR, 2008, 3235 ss.; F. TRIMARCHI BANFI, L’istruttoria procedimentale dopo l’articolo 10-bis della legge sul procedimento amministrativo, in Dir. amm., 2011, p. 353 ss.; P. LAZZARA, La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, in A. ROMANO (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016, p. 386 ss.; G. TROPEA, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto: derive ed approdi, in Dir. proc. amm., 2017, p. 1235 ss.; D. VAIANO, Il preavviso di rigetto, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, p. 641 ss.; P. CHIRULLI, La partecipazione al procedimento (artt. 7, 8, 10-bis l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in M.A. SANDULLI (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2020, p. 291 ss.; M.R. SPASIANO, Nuovi approdi della partecipazione procedimentale nel prisma del novellato preavviso di rigetto, in Dir. econ., n. 2/2021, p. 25 ss.; M. BROCCA, Il preavviso di rigetto e la costruzione della decisione amministrativa (nota a Tar Campania, Napoli, sez. III, 7 gennaio 2021, n. 130), in Giustizia insieme, 25 febbraio 2021; M.R. CALDERARO, Il preavviso di rigetto ai tempi della semplificazione amministrativa, in www.federalismi.it, n. 12/2022, p. 126 ss.
[2] Secondo G. MILO, Il preavviso di diniego dopo la legge n. 11 settembre 2020 n. 120, in www.ambientediritto.it, n. 4/2020, è preferibile «utilizzare l’appellativo “preavviso di diniego” perché si tratta per l’amministrazione di valutare un’istanza in un procedimento amministrativo in cui vi è cura diretta dei diversi interessi pubblici, mentre normalmente il termine “rigetto” si utilizza quando si tratta di accogliere o rigettare un ricorso in un procedimento amministrativo di secondo grado». Viene, però, rilevato come la giurisprudenza utilizzi alternativamente entrambe le nozioni. Infatti, l’istituto è qualificato sia come preavviso di diniego (ex multis Cons. St., Sez. II, 09.12.2020, n. 7841, in www.giustizia-amministrativa.it) sia come preavviso di rigetto (ex multis Cons. St., Sez. III, 5.12.2019, n. 8341, in www.giustizia-amministrativa.it).
[3] L’inciso della disposizione prevedente tali esclusioni era stato eliminato dal d.l. n. 76/2020, ma è stato reinserito in sede di conversione con la legge n. 120/2020.
[4] Per una sintesi delle principali misure contenute nel d.l. n. 76/2020 si rinvia a: M. MACCHIA, Le misure generali, in Giorn. dir. amm., n. 6/2020, p. 727 ss.
[5] Per un approfondimento sull’ultima riforma dell’istituto si rinvia ai contributi di: G. SERRA, Brevi note in merito alla riforma dell’art. 10 bis della L. n. 241/1990 ad opera del c.d. Decreto Semplificazioni (D.L. n. 76/2020), in www.lexitalia.it, n. 6/2020; F. FRACCHIA - P. PANTALEONE, La fatica di semplificare: procedimenti a geometria variabile, amministrazione difensiva, contratti pubblici ed esigenze di collaborazione del privato “responsabilizzato”, in www.federalismi.it, n. 36/2020, p. 33 ss.; G. MILO, Il preavviso di diniego dopo la legge n. 11 settembre 2020 n. 120, cit.; M.R. SPASIANO, Nuovi approdi della partecipazione procedimentale nel prisma del novellato preavviso di rigetto, cit.; L. FERRARA, La preclusione procedimentale dopo la novella del preavviso di diniego: alla ricerca di un modello di rapporto e di giustizia, in Dir. amm., 2021, 573 ss.
[6] Sul dovere di concludere il procedimento si segnala per tutti: A. POLICE, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, p. 273 ss., a cui si rinvia per gli ulteriori riferimenti giurisprudenziali. Sulle più recenti novità in materia di conclusione del procedimento si segnala pure: A. BARTOLINI, Il termine del procedimento amministrativo tra clamori di novità ed intenti di pietrificazione, in Giustizia insieme, 27 luglio 2021. Sebbene la disposizione del 10-bis, l. n. 241/1990 anteriormente 2020, parlasse esplicitamente di “interruzione”, una parte della dottrina aveva rilevato qualche perplessità sul punto, evidenziando come, nonostante il dato testuale, non fosse chiaro se il legislatore volesse introdurre un termine interruttivo o sospensivo (in tal senso vedasi: S. TARULLO, L’art. 10-bis della legge n. 241/90: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, cit. e G. CREPALDI, La sospensione del termine per la conclusione del procedimento amministrativo, in Foro amm. C.d.S., 2007, p. 108 ss.). La giurisprudenza, invece, anteriormente alla modifica normativa del 2020, si è pronunciata in maniera pressoché uniforme a favore della natura interruttiva del termine (in tal senso vedasi ex multis: Cons. St., Sez. VI, 25 novembre 2019, n. 8017 e Cons. St., Sez. IV, 14 maggio 2018, n. 2859, in www.giustizia-amministrativa.it).
[7] Secondo G. MILO, Il preavviso di diniego dopo la legge n. 11 settembre 2020 n. 120, cit., pp. 7-8, «la disposizione precisa, … in contrasto con quanto fino ad ora affermato dalla giurisprudenza, che i motivi ostativi indicati nel preavviso di diniego devono coincidere con quelli posti a fondamento del successivo provvedimento negativo che potrà essere integrato soltanto da considerazioni che sono la conseguenza delle osservazioni. … Il preavviso di diniego pertanto delimita, in modo vincolante, le ragioni ostative che possono condurre ad un provvedimento finale negativo per il privato». In senso conforme, M.R. CALDERARO, Il preavviso di rigetto ai tempi della semplificazione amministrativa, cit., pp. 147-148, precisa che «Ciò non vuol dire, ovviamente, che deve sussistere un rapporto di perfetta identità tra il preavviso di rigetto e l’atto conclusivo del procedimento, né una corrispondenza piena tra i due atti, ben potendo l’Amministrazione meglio precisare nel provvedimento la propria determinazione, sempreché il contenuto del diniego si inscriva nello stesso schema delineato dalla comunicazione ai sensi dell’art. 10- bis».
[8] Le dimensioni del presente contributo non consentono di affrontare il tema nel quale si inserisce la presente disposizione che riguarda il bilanciamento tra il principio dell’inesauribilità del potere amministrativo e quello dell’effettività della tutela del privato (sull’inesauribilità del privato si rinvia a M. TRIMARCHI, L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, 2018). Questa disposizione, infatti, va contestualizzata nell’ambito di quella giurisprudenza secondo la quale l’amministrazione, dopo aver subito l’annullamento di un proprio atto, può rinnovarlo per una sola volta riesaminando la controversia nella sua interezza nel rispetto del giudicato formatosi (c.d. principio dell’one shot temperato). Sul tema si rinvia a: E. TRAVERSA, Il principio del one shot temperato tra effettività della tutela e inesauribilità del potere amministrativo, in Giur. it., 2017, 1672 ss. Sui rapporti tra il nuovo art. 10-bis e il principio del c.d. one shot temperato si rinvia alle considerazioni svolte da M.R. CALDERARO, Il preavviso di rigetto ai tempi della semplificazione amministrativa, cit., pp. 152-156, secondo il quale (p. 155) «la novella dell’art. 10-bis sembra, più che introdurre un principio di one shot assoluto, conformarsi all’orientamento giurisprudenziale maggioritario dell’one shot temperato. Non si è, difatti, dinnanzi ad un caso ove l’Amministrazione può pronunziarsi una sola volta in modo negativo sull’istanza del privato, prescrivendo, invece, il nuovo periodo dell’art. 10-bis, che, una volta intervenuto l’annullamento giurisdizionale del provvedimento di diniego, illegittimo perché magari insufficientemente motivato quanto al non accoglimento delle osservazioni presentate dal privato a seguito del c.d. preavviso di rigetto, l’Amministrazione debba decidere la fattispecie nella sua interezza, esercitando una volta per tutte il suo potere in modo conforme al giudicato e non basando un eventuale ulteriore provvedimento di diniego su circostanze e ragioni già emerse nella fase istruttoria e che sono state o avrebbero dovuto essere comunicate all’interessato». Sulla tematica del riesercizio del potere (pur declinata con riferimento all’introduzione dell’art. 21-decies, l. n. 241/1990) si vedano le considerazioni di: C.E. GALLO, La riemissione del provvedimento amministrativo, in Giustizia insieme, 22 ottobre 2021.
[9] Per un inquadramento generale della categoria si vedano: F. LUCIANI, Il vizio formale nella teoria dell’invalidità amministrativa, Torino, 2003; D.U. GALETTA, Violazione di norme sul procedimento amministrativo e annullabilità del provvedimento, Milano, 2003; A. POLICE, L’illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della distinzione tra vizi c.d. formali e vizi sostanziali, in Dir. amm. 2003, p. 780 ss.; F.G. SCOCA, I vizi formali nel sistema delle invalidità dei provvedimenti amministrativi, in V. PARISIO (a cura di), Vizi formali, procedimento e processo amministrativo, Milano, 2004, p. 55 ss.
[10] In questi termini: N. DURANTE, I vizi formali del procedimento, alla luce del decreto-legge “Semplificazioni” e delle recenti pronunce dell’adunanza plenaria, in Riv. Corte conti, n. 6/2020, pp. 62-63.
[11] Per un’analisi più approfondita dell’art. 21-octies, l. n. 241/1990, sulla sua portata applicativa e sul rapporto tra i due diversi periodi della disposizione si rinvia a P. PROVENZANO, I vizi nella forma e nel procedimento amministrativo, Milano, 2015.
[12] In tal senso R. GIOVAGNOLI, I vizi formali e procedimentali, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, pp. 1150-1151, il quale precisa che «Mostrando, quindi, di concepire il giudizio amministrativo come un giudizio non (tanto) sull’atto, ma (soprattutto) sul rapporto, il legislatore pone ora la regola secondo cui, se dalla sentenza di annullamento può derivare solo un effetto caducatorio, ma nessun effetto conformativo, il provvedimento deve rimanere in vita, perché il privato non ha alcun interesse per caducarlo».
[13] Anteriormente a tale modifica normativa, in giurisprudenza si erano formati due diversi orientamenti contrapposti in merito alla possibilità di estendere la particolare sanatoria processuale dell’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo) anche all’omesso invio del preavviso di rigetto (oltre alla mancata comunicazione di avvio del provvedimento). Secondo un primo orientamento (maggioritario e richiamato nella sentenza in commento), che professava la sussistenza di un’identità di funzione tra la comunicazione dell’art. 7 e quella dell’art. 10-bis, sarebbe poco logico che la violazione del preavviso di rigetto sia sanzionata più gravemente della omissione del contraddittorio procedimentale (vedasi ex multis: Cons. St., Sez. III, 1° agosto 2014, n. 4127, in www.giustizia-amministrativa.it). Secondo un opposto orientamento (minoritario), invece, non sarebbe possibile applicare estensivamente l’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo) anche al caso di omesso preavviso di rigetto in assenza di un esplicito riferimento normativo in tal senso (vedasi ex multis: Cons. St., Sez. IV, 17 gennaio 2011, n. 256, in www.giustizia-amministrativa.it). Per un approfondimento su questo contrasto si segnala P. PROVENZANO, I vizi nella forma e nel procedimento amministrativo, cit., p. 193 ss., a cui si rinvia per i riferimenti giurisprudenziali e dottrinali sulle due opposte posizioni.
[14] Il Collegio ricorda come l’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo), in base alla prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato (antecedente alla riforma), veniva ritenuto applicabile anche al difetto del preavviso di rigetto, citando a tal proposito: Cons. St., Sez. IV, 27 settembre 2016, n. 3948 e Cons. St., Sez. VI, 27 luglio 2015, n. 3667, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it).
[15] In caso di omesso preavviso di rigetto nell’ambito di un procedimento avente carattere discrezionale, il secondo periodo del comma 2 dell’art. 21-octies non si applica per l’espressa esclusione legislativa, mentre il primo periodo del comma 2 dell’art. 21-octies non si applica perché lo stesso riguarda esplicitamente soltanto i provvedimenti vincolati. Il collegio, sul punto, richiama un precedente analogo della Sezione III: Cons. Stato Sez. III, 22 ottobre 2020, n. 6378, in www.giustizia-amministrativa.it.
[16] Per il Collegio il carattere discrezionale del potere esercitato è desumibile dalla previsione testuale dell’art. 872, comma 3, c.o.m., che fa riferimento alla reiezione “nel merito” della istanza di reintegrazione. Infatti, «la riabilitazione in sede penale costituisce solo uno dei presupposti del provvedimento di reintegrazione in servizio, il quale resta attribuito ad una scelta di carattere discrezionale dell’Amministrazione». Sul punto viene richiamata la sentenza Cons. St., Sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 44, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale sussiste una discrezionalità valutativa dell’amministrazione militare anche nelle ipotesi di perdita del grado a seguito di condanna senza procedimento disciplinare, poiché spetta all’amministrazione valutare, anche in tali casi, se la concessione della reintegrazione risponda effettivamente non soltanto alle aspirazioni del militare riabilitato in sede penale, ma anche all’interesse pubblico di settore, in particolare con un apprezzamento in ordine alla riacquisizione da parte dell’interessato di quelle spiccate qualità morali che sono richieste per ogni appartenente al corpo.
[17] Si discute, in dottrina e in giurisprudenza, sulla natura dell’art. 21-octies, comma 2. Secondo una prima tesi (rimasta minoritaria in giurisprudenza), alla norma dovrebbe essere data una valenza sostanziale poiché la situazione di “non annullabilità” sarebbe già presente in un momento precedente rispetto a quello compiuto dal giudice non essendo condizionata dalla vicenda processuale successiva (Cons. St., Sez. V, 19 marzo 2007, n. 1307, in www.giustizia-amministrativa.it). In tal senso in dottrina si vedano i contributi di D. SORACE, Il principio di legalità e i vizi formali dell’atto amministrativo, in Dir. pubbl., 2007, p. 385 e N. DURANTE, I vizi formali del procedimento, alla luce del decreto-legge “Semplificazioni” e delle recenti pronunce dell’adunanza plenaria, cit., p. 64. Secondo un’opposta tesi (prevalente almeno in giurisprudenza), la norma avrebbe natura processuale perché non inciderebbe sulla struttura del vizio, ma individuerebbe una speciale fattispecie della carenza di interesse a ricorrere. Con riferimento alla consolidata giurisprudenza che qualifica come processuale la norma dell’art. 21-octies, comma 2, nella sentenza in commento vengono richiamate le recenti pronunce del Consiglio di Stato: Cons. St., Sez. II, 12 marzo 2020, n. 1800; Cons. St., Sez. II, 9 gennaio 2020, n. 165; Cons. St., Sez. V, 15 luglio 2019, n. 4964; Cons. St., Sez. VI, 20 gennaio 2022, n. 359; tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[18] A tal proposito viene citata: Cons. St., Sez. III, 22 ottobre, 2020, n. 6378, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Non si può che concordare coi rilievi critici formulati dalla dottrina sull’indeterminatezza dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo. Secondo M.R. SPASIANO, Nuovi approdi della partecipazione procedimentale nel prisma del novellato preavviso di rigetto, cit., p. 50, «In termini generali l’art. 21-octies è norma sostanzialmente sgradevole sotto molteplici profili: basti solo considerare quanto sia terminologia vana, oggi più che nel passato, trattare di “attività vincolata”. Esiste davvero un’attività vincolata in assoluto? E i tanti provvedimenti a natura vincolata che vengono poi corroborati da condizioni, imposizioni, divieti, ampliamenti assolutamente non previsti dalla norma non dovrebbero forse indurre a ritenere non più rinvenibile la categoria degli atti assolutamente vincolati? Non sarebbe più corretto ai fini dell’applicazione del 21-octies, comma 2, prima parte, non fare riferimento all’individuazione di attività vincolata, quanto al contenuto dispositivo del provvedimento e alla impossibilità di addivenire ad una determinazione anche solo in minima parte diversa da quella assunta?».
[20] R. GIOVAGNOLI, I vizi formali e procedimentali, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, cit., p. 1161-1162, ci ricorda come la questione sul carattere processuale o sostanziale dell’art. 21-octies «non è di carattere meramente teorico, in quanto dalla sua soluzione dipendono la delimitazione dell’ambito di applicazione della norma sia nel tempo che nello spazio. In particolare, sotto il profilo temporale, il riconoscimento della natura processuale comporta l’applicabilità della norma anche ai giudizi in corso … Per quel che concerne, invece, l’efficacia nello spazio, dal riconoscimento della natura processuale deriva l’applicabilità della norma anche ai procedimenti che si svolgono nell’ambito delle amministrazioni locali».
[21] In tal senso vedasi: N. DURANTE, I vizi formali del procedimento, alla luce del decreto-legge “Semplificazioni” e delle recenti pronunce dell’adunanza plenaria, cit., p. 64, secondo il quale «L’art. 21-octies, c. 2, va letto in combinato disposto con l’art. 21-nonies, c. 1, che vieta alla p.a. di annullare d’ufficio il provvedimento illegittimo per ragioni di forma. Entrambe le disposizioni fanno parte di uno stesso precetto, che non può avere natura esclusivamente processuale, perché ha come destinatario non solo il giudice, ma anche la p.a.».
[22] La distinzione che viene proposta in questa sede non emerge nell’orientamento giurisprudenziale dominante, a cui aderisce la sentenza in commento, che attribuisce valenza processuale ad entrambe le ipotesi previste dall’art. 21-octies, comma 2: sia ai provvedimenti vincolati affetti da vizi formali (primo periodo), sia ai provvedimenti viziati da omessa comunicazione di avvio del procedimento (secondo periodo).
[23] La proposta differenziazione della natura giuridica tra i due periodi dell’art. 21-octies, comma 2, potrebbe spiegare la scelta lessicale del legislatore che ha deciso di distinguere i presupposti di operatività dei due diversi periodi anche con riferimento alla sede di accertamento dell’identità del contenuto dispositivo del provvedimento.
La libertà e il suo limite. Una riflessione sul diritto alla privacy a partire dalla sentenza Roe v. Wade
di Antonello Soro*
La sentenza Roe v. Wade ha avuto, tra gli altri, il merito di introdurre una nuova idea della privacy, come diritto al libero esercizio di scelte attraverso cui le “persone definiscono il significato della loro esistenza”. Quest’intima vocazione liberale ha consentito alla privacy di arricchirsi progressivamente di nuovi e più rilevanti significati, sino a divenire quella garanzia di libertà e dignità della persona dai rischi di prevaricazione del potere (anche tecnologico), rappresentata oggi dalla protezione dei dati personali. Il contributo ripercorre alcune delle più rilevanti declinazioni di questo diritto, nell’evoluzione che l’ha caratterizzato, nella costante dialettica tra libertà e limite.
La sentenza Dobbs della Corte suprema americana del 24 giugno, contraddicendo dopo 49 anni il precedente sinora indiscusso Roe v Wade, ha ritenuto l’aborto non un diritto della donna, ma una “grave questione morale” la cui regolazione vada demandata ai singoli Stati e non alla legislazione federale.
E nonostante la gravità e complessità, forse unica, della questione (politica e giuridica, oltre che etica) dell’aborto, la sentenza Dobbs segna, per molteplici ragioni, una netta regressione rispetto al precedente del 1973, importante anche per le implicazioni ulteriori e più generali che ha avuto sulla concezione del rapporto tra la libertà e i suoi limiti.
In questo senso, uno dei principali elementi innovatori della sentenza Roe v. Wadese è la nuova idea della privacy ad essa sottesa, come diritto di autodeterminazione sulle scelte caratterizzanti l’esistenza, rispetto alle quali lo Stato deve astenersi da ingerenze non giustificabili in nome di superiori interessi.
Si trattava dello sviluppo di una concezione almeno in parte anticipata dalla sentenza Griswold v. Connecticut di otto anni prima, sul diritto alla contraccezione. Già lì, infatti, si era compiuto il passaggio da un’idea di privacy ancora dal retaggio dominicale (un’ulteriore proiezione dello jus excludendi alios) a una più moderna, incentrata sul diritto di autodeterminazione nelle scelte qualificanti per la propria sfera personale. Con Roe v.Wade si accentua, ancor più, l’idea della privacy come libero esercizio di scelte attraverso cui le “persone definiscono il significato della loro esistenza” (Roe v. Wade, 410 U.S. 113, 1973), sancendo dunque un limite di non ingerenza del pubblico potere rispetto a tale sfera di determinazione individuale, autonoma e libera.
Quest’intima vocazione liberale ha consentito alla privacy – nel sistema americano ma soprattutto in quello europeo, grazie alla sinergia con la dignità personale – di arricchirsi progressivamente di nuovi e più rilevanti significati. L’originario “right to be let alone” di Warren e Brandeis del lontano 1890 è così divenuto quella garanzia di libertà e dignità della persona dai rischi di prevaricazione del potere (anche tecnologico), rappresentata oggi dalla protezione dei dati personali.
Tra quel diritto a sottrarsi allo sguardo indesiderato del 1890 e il diritto al governo dei propri dati di oggi, questo diritto “inquieto” - perché mai uguale a sé stesso, dinamico nel suo tentativo di governare il presente e il futuro- ha subito un’evoluzione straordinaria, che ne ha accentuato la funzione egalitaria e democratica, quale strumento di redistribuzione del potere, oggi soprattutto informativo.
Il passaggio più significativo, nel percorso verso la democratizzazione della privacy, si ha in Italia con lo Statuto dei lavoratori del 1970, di poco precedente Roe v. Wade.
Vietando il controllo a distanza e le indagini sulle opinioni politiche e sindacali, lo Statuto ha fondato infatti, proprio su questo diritto, un essenziale presidio di libertà dei lavoratori dalle ingerenze datoriali. Era così tracciata la strada che avrebbe reso la privacy uno straordinario strumento di tutela della libertà e della dignità di tutti: in particolare dei soggetti più vulnerabili, perché inermi di fronte a un potere, privato o pubblico, rafforzato dalla potenza geometrica della tecnica, ieri con le schedature datoriali, oggi con l’algoritmo dei riders, domani chissà.
Ciò che tuttavia, pur in questa “rivoluzione” della privacy è rimasto costante è la sua “cifra”, che si esprime nel senso del limite (dell’ingerenza, del potere, del dire e del non dire) e che si riflette in ogni sua declinazione e implicazione: dalla sanità (dove il medico, cui tutto si dice di noi, nulla deve dire al di fuori) alla trasparenza (dove la doverosa visibilità del potere e dell’agire pubblico presuppone, però, l’altrettanto necessaria opacità della vita intima, privata, che per nulla incide sul profilo pubblico); dalla navigazione on line (dove va selezionato adeguatamente ciò che, di noi e degli altri, esponiamo e ciò che invece dobbiamo custodire, per non divenire vittime del pedinamento digitale), all’intelligenza artificiale (dovendo selezionarsi opportunamente i dati con cui alimentare o, viceversa, non alimentare l’apprendimento automatico della macchina, per non determinare esiti discriminatori della decisione algoritmica).
Se, dunque, l’anima della privacy è proprio la tensione tra libertà e limite, ci sono due aspetti particolarmente emblematici di questa dialettica, sui quali vorrei soffermarmi: l’oblio e il rapporto con l’informazione.
Perché è su questo terreno che si misura, in modo più evidente e più significativo, il peso dell’omissione (delle parole, delle immagini, di tutto ciò che in qualche modo ci rappresenta)
Anzitutto l’oblio. Il diritto all’oblio, come particolare espressione del diritto alla privacy, è la sintesi del rapporto tra scorrere del tempo e memoria collettiva.
Se il primo, infatti, affievolisce la seconda, suggerendo il silenzio su eventi passati non così rilevanti da meritare rievocazione, la seconda cancella il primo, imponendo un eterno presente per quei fatti talmente costitutivi della storia di un popolo, di un Paese, da essere parte indelebile della sua identità e coscienza sociale.
L’oblio interseca la privacy al punto da divenirne, addirittura, una componente essenziale con l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione e ne riflette l’evoluzione.
Esso nasce, oltre vent’anni fa, come diritto a non subire gli effetti pregiudizievoli della ripubblicazione, a distanza di tempo, di una notizia pur legittimamente diffusa in origine, ma non giustificata oggi da nuove ragioni di attualità.
Si afferma, dunque, nel contesto mediatico tradizionale, scandito da notizie diffuse in momenti determinati dagli organi d’informazione e destinate, appunto, a una vita tendenzialmente breve in assenza di ulteriori ragioni che ne rinnovino l’interesse.
E proprio in tale contesto si è affermato, ad esempio, il diritto dell’ex terrorista a non vedersi nuovamente citato come tale in un articolo su fatti non legati al suo passato, a distanza di decenni dalla condanna e dopo aver scontato integralmente la sua pena cambiando radicalmente vita.
Egli, infatti, rivendicava il diritto a non vedere la sua intera esistenza ridotta a un passato da cui si era con fatica emancipato.
Lo sguardo solo retrospettivo dei media, annientandone il percorso di vita intrapreso e la sua scelta di essere “altro” da ciò che era stato, si risolveva in uno stigma perenne e deformante, ostativo anche al suo reinserimento sociale.
Rovesciando l’idea della damnatio memoriae, il marchio di “reo” imposto senza limiti temporali finisce così con il rappresentare una pena accessoria incompatibile con il valore che il sistema penale attribuisce al tempo in funzione dell’oblio: con gli istituti della prescrizione, della riabilitazione, della non menzione della condanna.
A fronte di un sistema penale tutto fondato su una scommessa razionale sull’uomo e sulla sua possibilità di cambiamento (la Costituzione legittima la pena solo in quanto tenda alla rieducazione del condannato), l’informazione non può schiacciare la persona al suo reato, risolverla tutta e soltanto in esso, anche quando se ne siano prese visibilmente le distanze.
I media non dovrebbero impedire ciò che neppure un giudice può fare, ovvero di essere anche altro da ciò che si è stati.
Ancor più profonda è poi la lesione dell’identità determinata dall’eterna memoria della rete, quando riduce un’intera esistenza, in tutta la sua insondabile complessità, a un momento, a un errore sia pur gravissimo, ma che comunque non la rappresenta più o, peggio, non l’ha mai rappresentata del tutto.
Ecco, quindi, il bisogno di oblio quale contrappeso a una memoria tanto eterna e inflessibile quanto parziale, una condanna senza appello, che non contempla riabilitazione.
Questo bisogno di emancipazione da una memoria capace di ipotecare presente e futuro ha conosciuto vari strumenti di tutela: dal divieto di ripubblicazione -che attinge alla sua dimensione difensiva e statica, quale pretesa a non essere più ricordati (o a non esserlo per come si era e non si è più)- all’aggiornamento della notizia che ne valorizza la componente dinamica e attiva, sino alla deindicizzazione, che incide non sulla notizia in sé- intatta nella fonte originaria- ma sulla sua reperibilità mediante i motori di ricerca.
Una notizia vera all’epoca ma oggi superata dai fatti merita certamente, se lesiva della dignità di qualcuno, di essere sottratta all’indiscriminata reperibilità dei motori di ricerca, per evitare che essa divenga l’unica o la prevalente rappresentazione del soggetto: la categoria (indagato, imputato, condannato, malfattore, ecc.) cui ricondurlo semplicemente digitandone il nome su Google.
Il diritto al ridimensionamento della propria visibilità mediatica, a tutela di un’identità ormai affrancata dalla dimensione statica e tendenzialmente immutabile cui è stata tradizionalmente ascritta, si è del resto riconosciuto, quale strumento di libertà, non soltanto a fronte di notizie risalenti e superate dai fatti (si pensi a un indagato poi assolto), ma anche a notizie false e quindi anche diffamatorie.
Ogniqualvolta, dunque, l’interesse alla indiscriminata reperibilità della notizia mediante motore di ricerca sia recessivo rispetto al rischio della biografia ferita.
Il diritto all’oblio non è, dunque, pretesa di auto rappresentazione, ma strumento di una memoria sociale selettiva, che coniugando diritto all’informazione e dignità, racconti ciò che va ricordato, mettendo in secondo piano ciò che non appartiene all’identità individuale né contribuisce a costruire la coscienza collettiva.
Ma il gioco tra parole dette e parole omesse è, in fondo, la grande sfida dell’informazione, che è corretta in quanto racconti la notizia senza violare la dignità, narri ciò che è di pubblico interesse e non ciò che semplicemente interessa il pubblico, lontano dal voyeurismo e senza mai confondere la cronaca con lo sguardo dal buco della serratura.
Non è facile, soprattutto al tempo del populismo penale, che identifica nella giustizia penale la principale se non l’unica forma di giustizia sociale.
E se da quest’attribuzione al giudiziario di aspettative che non gli sono proprie deriva, fatalmente, una lacerazione tra giustizia attesa e giustizia amministrata, essa si approfondisce sino a divenire insanabile, per la distorsione subita dal principio di pubblicità del processo.
Principio nato per sottrarre l’amministrazione della giustizia a quella segretezza che ne aveva fondato l’arbitrarietà, ma non per consentire la delocalizzazione della scena giudiziaria sul web, ove l’etica del limite e del dubbio sono sostituite dalla presunzione di colpevolezza.
E chi a vario titolo (indagato magari poi prosciolto, vittima, teste) compaia nelle indagini è messo a nudo anche negli aspetti più intimi e ininfluenti per il processo, con stralci d’intercettazioni spesso fuorvianti perché mal estrapolate dal contesto, che restano in rete per sempre, come un “fine pena mai”, anche in caso di assoluzione.
Ecco perché, con il web, la scelta delle parole dev’essere ancora più rispettosa di quel criterio di essenzialità su cui si fonda la deontologia giornalistica, nella consapevolezza di come i dettagli eccedenti le reali esigenze informative possano anche distruggere vite.
Quest’esigenza di selezione nulla ha a che vedere, naturalmente, con la censura o il depotenziamento dell’informazione, che dev’essere anche se necessario cruda e diretta, come nel caso della guerra, le cui immagini non possono non scuoterci o del corpo martoriato di Stefano Cucchi: chi avrebbe compreso il dramma di quegli abusi senza la forza di quelle foto?
Vi è forse un simbolo del costo umano di politiche migratorie miopi, più eloquente della foto del piccolo Alan Curdy sulle coste dell’isola di Budrum?
Perché a volte raccontare storie, dare un volto e un nome a drammi altrimenti percepiti come distanti, è necessario.
Ma ciò non implica, mai, indulgere sulle vulnerabilità.
Si tratta, allora, di promuovere un giornalismo di qualità, non di semplice e acritico “riporto”, che scavi a fondo della notizia ma non violi la dignità (come per le foto in manette) e non ricerchi il sensazionalismo anticipando giudizi di colpevolezza con la gogna del web (l’audio della preside del Liceo Montale in homepage…).
Ecco, dunque, che anche qui, la pietra angolare delle nostre democrazie, ovvero l’informazione, è tutta nell’equilibrio tra la libertà (di stampa, di espressione..) e il suo limite, per tenere assieme dignità personale ed esigenze collettive.
La privacy, questo diritto di libertà (come viene qualificato dalla Carta di Nizza), mai tiranno, perché nato sulla frontiera mobile degli altri diritti fino a divenirne un presupposto ineludibile, ci racconta tutto questo.
Ci narra di come, a volte, le parole vadano omesse per dirne, invece, altre, più importanti e meno “nemiche”, capaci di costruire anziché distruggere, di schiudere orizzonti anziché di tracciare sempre, soltanto, confini.
*Già deputato e Presidente del Garante per la protezione dei dati personali.
La struttura argomentativa dei provvedimenti, l’organizzazione del lavoro e la gestione dei carichi*
Intervento di Giorgio Fidelbo
1. Da sempre in Corte di cassazione si discute sulla motivazione dei provvedimenti.
Nel maggio del 1989 - non era ancora in vigore il nuovo processo penale - il Primo Presidente Brancaccio sollecitò una discussione tra i consiglieri diffondendo un “Appunto sulla motivazione in Cassazione”, in cui si indicavano alcuni criteri orientativi per la redazione delle sentenze, diretti a realizzare quella concisione cui allora si riferiva l'art. 132 cod. proc. civ. e a cui si sarebbe riferito l’art. 546, lett. e) del nuovo codice di procedura penale.
Può dirsi che ogni Primo Presidente della Corte di cassazione si è posto il problema della concisione e della chiarezza delle motivazioni, redigendo circolari o predisponendo protocolli su come dovesse essere strutturata la motivazione, sia dal punto vista formale, che da quello logico (ricordo i lavori dei presidenti Lupo, Santacroce, Canzio, Mammone).
Questo interesse, costante, per la redazione delle sentenze deriva dall’esigenza di ridurre l’eccesso di motivazione che, da sempre, caratterizza le argomentazioni delle nostre decisioni, tanto che la loro “sovrabbondanza” argomentativa ha suscitato l’interesse di un comparatista nord americano, Jhon Merrymann, che, alla fine degli anni settanta, in un lavoro intitolato “The Italian Style”, presentato da Stefano Rodotà nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza di Roma, nel valorizzare già allora il diritto giurisprudenziale, non mancava però di evidenziare nelle sentenze italiane l’autoreferenzialità e, appunto, l’eccesso di motivazione.
2. Si possono individuare almeno tre esigenze alla base dell’interesse per una motivazione “proporzionata”: a) migliorare l’organizzazione del lavoro del magistrato; b) aumentare la produttività (nel senso che motivazioni più stringate servono a definire un numero più alto di procedimenti); c) ridurre i tempi del processo.
Ebbene, se queste possono essere le ragioni per cui è necessario “lavorare” sulla motivazione va sottolineato – lo ha già detto il Primo Presidente nel suo intervento di apertura – che oggi il tema non può essere messo in relazione né con l’obiettivo di incrementare la produttività del consigliere di cassazione né con la finalità di ridurre i tempi del processo di legittimità, almeno per quanto concerne il settore penale della nostra Corte. Si tratta di due obiettivi che non appaiono giustificati neppure in relazione alle previsioni collegate al PNRR e al recupero di efficienza che si vuole realizzare nell’ambito del settore giustizia, perché occorre riconoscere che la Corte di cassazione penale è, oggi, il giudice forse più efficiente nel nostro sistema: dai dati statistici pubblicati nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021 risulta che la durata media dei procedimenti non supera i sette mesi, che la Corte di cassazione penale ha definito un numero di procedimenti (47.040) maggiore di quelli pervenuti (46.298), con un indice di ricambio del 101,6% e che vi è stata una consistente diminuzione delle pendenze, tanto che il Primo Presidente nella Relazione citata ha parlato di risultati “molto soddisfacenti che indicano la stabile costante affidabilità del sistema penale di legittimità, nonostante la grave crisi epidemiologica che ha colpito il Paese”.
In presenza di questi dati, uniti alla considerazione che ogni consigliere redige in media oltre 350 sentenze all’anno, alla Cassazione penale non può richiedersi un ulteriore aumento del carico di lavoro in termini di efficienza e nemmeno in funzione di realizzare una contrazione dei tempi di definizione dei procedimenti, anche nella prospettiva del nuovo istituto dell’improcedibilità.
Piuttosto il discorso sulla motivazione va visto in funzione del miglioramento delle condizioni di lavoro del consigliere, un miglioramento che punti ad innalzare la qualità delle sentenze, che devono essere espressione di un giudice che vuole essere “corte suprema”, non solo giudice di “terza istanza”.
L’obiettivo è quello di valorizzare le sezioni semplici, che devono contribuire in misura maggiore a “fare nomofilachia”, assieme alle sezioni unite, nella prospettiva di dare certezza ai cittadini e di assicurare la prevedibilità dei comportamenti.
Attualmente, le sezioni semplici si occupano, prevalentemente, dello ius litigatoris e, con estrema fatica, a causa del carico di ricorsi, riescono, talvolta, a gestire anche lo ius constitutionis, a cui invece è dedicata l’attività delle sezioni unite. Questa doppia natura della Corte di cassazione, sintetizzata nella felice definizione di “vertice ambiguo”, è nel DNA di questo giudice, in quanto, da un lato, l’art. 65 del R.D. n. 12 del 1941 attribuisce alla Corte di cassazione la funzione di “assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”, dall’altro, l’art. 111, settimo comma, Cost. prevede che contro tutte le sentenze è sempre ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge: la disposizione dell’ordinamento giudiziario disegna una Cassazione la cui unica attività sembrerebbe quella nomofilattica; la Costituzione, invece, la configura come giudice dei diritti, un giudice che deve garantire la piena attuazione della tutela dei diritti in ultima istanza. Funzione fondamentale quest’ultima per un giudice moderno, che dialoga continuamente con le Corti europee dei diritti, ma che non può esaurire le attribuzioni riconosciute alle sezioni semplici, alle quali deve essere assicurata anche la possibilità di contribuire all’uniforme interpretazione del diritto, in un rapporto collaborativo e dialettico con le sezioni unite, a cui resta affidato il compito principale di indicare le linee nomofilattiche, risolvendo i contrasti interpretativi tra sezioni semplici.
In assenza di una riforma che riguardi il procedimento in cassazione, in grado di realizzare una deflazione del carico ingestibile dei ricorsi, questi obiettivi possono essere raggiunti attraverso una diversa organizzazione del lavoro che punti ad un innalzamento della qualità della nostra giurisprudenza anche attraverso un miglioramento delle motivazioni delle sentenze.
3. Il gruppo di lavoro sulla motivazione, voluto fortemente dal Primo Presidente Pietro Curzio e dalla Presidente Aggiunta Margherita Cassano, si è occupato inizialmente della motivazione delle ordinanze di inammissibilità della settima sezione.
Come è noto, la settima sezione è una sezione strategica, in quanto, occupandosi di oltre il 40% dei circa 50.000 ricorsi che pervengono annualmente in Corte di cassazione e di cui rileva l’inammissibilità, consente alle sezioni semplici di potersi concentrare sui ricorsi e sui procedimenti più rilevanti, in questo modo assicurando una organizzazione virtuosa del lavoro dei giudici, sollevati dal controllo seriale delle inammissibilità. In altri termini, si realizza una ripartizione organizzativa di competenze, che ha prodotto efficienza al lavoro della Corte di cassazione.
Invero, questa sezione, istituita con la legge n. 128 del 2001, nasce con un obiettivo più ambizioso, che è quello di deflazionare il carico in entrata dei ricorsi. In mancanza di strumenti dedicati alla selezione in ingresso, come avviene in molte Corti Supreme europee, spetta alla settima sezione il ruolo di operare un controllo selettivo di ciò che può arrivare in decisione, controllo che avviene attraverso la verifica di ammissibilità dei ricorsi.
Nel gruppo di lavoro si è convenuto che la motivazione delle ordinanze di inammissibilità debba conformarsi a questa funzione della sezione, che non è quella di dare risposte alle questioni sollevate, ma di verificare la sola idoneità del ricorso a costituire il rapporto processuale e, quindi, ad introdurre al giudizio di cassazione. L’ordinanza della settima sezione deve adeguarsi a questa tipologia di controllo, distanziandosi dal concetto e dal contenuto della motivazione dei provvedimenti giudiziali così come generalmente intesa, per strutturarsi come una cesura selettiva che operi da sbarramento all’ingresso in Cassazione dei ricorsi inammissibili.
Per questo tipo di verifica è sufficiente un provvedimento che dia atto del controllo effettuato, con una motivazione assai contratta, che giustifichi il perché il ricorso non appare idoneo a stabilire un valido rapporto processuale. Su queste basi il gruppo di lavoro ha proposto un tipo di motivazione a “frase unica”, ma pur sempre individualizzata rispetto ai motivi dedotti nel ricorso.
Una motivazione così strutturata non appare in contrasto con la giurisprudenza della Corte EDU, che ha stigmatizzato alcune decisioni della Cassazione, ma con riferimento a tutt'altro aspetto, e cioè riguardo al tema dell'autosufficienza del ricorso, che ha già evocato il Primo Presidente.
Va detto che il ricorso ad una motivazione siffatta per le ordinanze di inammissibilità non è certo sufficiente ad implementare la capacità deflattiva, capacità che la “settima” in realtà non ha mai avuto dal momento che dalla sua istituzione si è registrato un tendenziale e progressivo aumento dei ricorsi, con l’unica flessione nel 2020, a causa del rallentamento del lavoro giudiziario per la crisi pandemica: occorrono altri sforzi organizzativi volti a rendere capace la settima sezione di dare risposte di inammissibilità veloci, tempestive, perché solo la tempestività nella dichiarazione di inammissibilità potrà sortire l’effetto di deflazionare il numero complessivo di ricorsi, evitando che vengano presentati solo - o anche - per allontanare il momento di irrevocabilità della decisione.
È noto che negli anni passati i tempi di definizione in settima sezione siano stati più lunghi rispetto ai tempi osservati dalle sezioni semplici ed è questa situazione patologica che ha impedito che il controllo sulla ammissibilità avesse una capacità deflattiva. Va detto che i tempi ultimamente si sono ridotti e quindi è opportuno puntare sull’obiettivo di un loro forte contenimento proprio per realizzare finalmente una contrazione del numero dei ricorsi.
4. Ma il discorso sulla motivazione riguarda soprattutto le sentenze che vengono elaborate dalle sezioni semplici: e qui il tema è più interessante, anche se più complesso.
Fino ad ora le indicazioni fornite dai vari protocolli e circolari interni hanno puntato sulla c.d. motivazione semplificata: secondo una prassi abbastanza diffusa si distingue, già in fase di deliberazione del ricorso, tra sentenze a cui si riconosce una valenza nomofilattica e sentenze che tale vocazione non hanno, per cui è in base a tale differenziazione che il collegio decide il tipo di motivazione, tra cui quella c.d. semplificata. Va detto, però, che dalle statistiche risulta che questa tipologia di redazione delle sentenze viene poco utilizzata - soprattutto in quelle sezioni che riescono a selezionare una percentuale alta di ricorsi da assegnare alla settima sezione -, perché le decisioni che vengono prese nelle sezioni semplici hanno ormai quasi sempre un tasso di complessità che non giustifica una motivazione semplificata.
Occorre muoversi in altre direzioni e ricorrere – come in più occasioni è stato detto dalla Presidente Margherita Cassano – a veri e propri protocolli logici della motivazione, che vanno costruiti e condivisi, secondo un’idea espressa anni fa da Francesco Iacoviello.
Cosa sono questi protocolli?
Dovrebbero discendere dall'analisi delle norme, individuando una tecnica operativa che comporta l'uso logico delle categorie giuridiche della motivazione, seguendo passaggi argomentativi coerenti per una serie di settori ed istituti giuridici, sostanziali e processuali. Si tratta di protocolli funzionali ad accorciare i tempi della decisione e anche quelli della stesura della motivazione, assicurando infine decisioni uniformi e, in linea di massima, anche prevedibili.
I protocolli non devono essere considerati limitazioni al libero convincimento del giudice o alla libertà di motivazione, in quanto devono rappresentare un metodo condiviso, in grado di mettere ordine logico ad una certa anarchia motivazionale che molto spesso si riscontra nelle nostre sentenze.
Invero, la nostra giurisprudenza ha conosciuto esempi di questi protocolli logici. Così, in tema di chiamata in correità, le Sezioni unite Marino hanno indicato un metodo, proponendo tipologie logiche della motivazione; lo stesso hanno fatto le Sezioni unite Franzese in materia di nesso di causalità o le Sezioni unite Fisia Italimpianti con riferimento alla confisca del profitto nei confronti dell’ente. Decisioni che, assieme a molte altre, hanno indicato dei percorsi logici di motivazione in settori particolari, percorsi che vengono oggi normalmente utilizzati, magari con scarsa consapevolezza.
Ricordava Margherita Cassano che il gruppo sulla motivazione si dovrà occupare delle sentenze in materia di cautela personale: anche in questo settore si dovrà cercare di individuare le “forme” logiche per la motivazioni, ad esempio, come sindacare il vizio di motivazione sui gravi indizi; quale sia il rapporto tra valutazione dei gravi indizi ed esigenze cautelari (se difettando le esigenze cautelari vada comunque affrontato preliminarmente l'esame dei gravi indizi, come avviene di solito oppure si possano trovare altre soluzioni).
Lo stesso tentativo di costruzione di protocolli logici potrà essere fatto per i provvedimenti di cautela reale, in cui non è deducibile il vizio di motivazione, oppure con riguardo alle misure di prevenzione, rispetto alle quali non vi sono elementi probatori da valutare, ma semplici elementi indiziari, il che rende molto diversa la stessa struttura della motivazione.
Ovviamente si tratta di protocolli sui quali occorre un confronto e che comunque sono destinati a indicare linee e percorsi motivazionali di tendenza, che - per quanto non vincolanti - possono tuttavia contribuire a rendere le decisioni e le connesse motivazioni più omogenee, arrivando a individuare lo “stile” delle sentenze della Corte di cassazione, uno stile non certo solo formale ma di contenuto.
5. Da ultimo, un cenno al tema dell'organizzazione del lavoro, cui pure la presente sessione di lavoro è dedicata.
Se l’obiettivo è quello di migliorare la nostra giurisprudenza puntando ad un maggiore impegno delle sezioni semplici nel ruolo nomofilattico, allora accanto ad una rinnovata attenzione sul fronte “motivazione” occorre prendere atto della necessità di mutare anche la logica e l’organizzazione del lavoro in Corte.
Il presupposto per operare un riassetto nell’organizzazione del lavoro in sezione è la piena condivisione della “cultura del precedente”, che non deve certo essere intesa come passiva omogeneizzazione rispetto alle decisioni delle sezioni unite, il cui effetto vincolante va inquadrato nell’ambito di un dialogo e confronto continui da parte delle sezioni semplici, che porti la giurisprudenza di legittimità ad essere coerente e nello stesso tempo capace di adeguarsi ai cambiamenti sociali ed economici in atto, superando, ove necessario, le stesse decisioni delle sezioni unite, secondo il procedimento previsto dall’art. 618, comma 1-bis cod. proc. pen.
Occorre, inoltre, ricercare una coerenza e una responsabilità soprattutto nell’interpretazione giudiziale, che porti, tra l’altro, al superamento dei contrasti giurisprudenziali interni alle sezioni, prima ancora di rimettere le questioni controverse alle sezioni unite.
Nella società complessa in cui viviamo, la mancanza di certezza nei rapporti giuridici, come pure la indefinibilità degli ambiti applicativi delle fattispecie penali produce formidabili conseguenze negative sui rapporti economici e sulle stesse condotte dei consociati. Non è più sopportabile che all’interno delle sezioni della Corte di cassazione permangano contrasti su materie anche di carattere sostanziale, cioè sull’applicazione di fattispecie penali, sui confini tra lecito e illecito penale. Il superamento dei contrasti non può avvenire solo rimettendo le relative questioni alla decisione delle sezioni unite, in quanto si rischierebbe di ingolfarle, rendendo meno efficace il ruolo nomofilattico che ad esse è attribuito.
Vanno invece valorizzate le riunioni sezionali e, soprattutto, modificato il modo di concepire il lavoro all’interno della sezione. È necessario imparare a lavorare assieme, a confrontarci in un continuo lavoro di gruppo, all’interno e all’esterno delle sezioni. Le tabelle organizzative attribuiscono ad ogni sezione la “competenza” su settori del diritto penale sostanziale e deve essere in primo luogo la sezione ad esprimere il diritto giurisprudenziale sulle sue materie, superando le interpretazioni contrapposte, spesso derivanti da impostazioni individualistiche. In altri termini, occorre avere la consapevolezza di far parte di una “istituzione” e sentire la responsabilità e il peso dell’interpretazione giurisprudenziale e dei suoi effetti.
Attraverso le riunioni di sezione è possibile stabilire un confronto funzionale ad evitare e a superare i contrasti, puntando ad una organizzazione virtuosa che riduca per lo meno il rischio di pronunce contraddittorie, nel tentativo di assicurare una giurisprudenza coerente e prevedibile. Si tratta di riunioni che vanno preparate e gestite ascoltando i diversi punti di vista, nel tentativo di individuare soluzioni condivise che poi trovino espressione nelle decisioni dei singoli collegi. Tutto ciò comporta un grosso impegno dei presidenti di sezione e di tutti i consiglieri, in una permanente dialettica che spesso si presenta difficoltosa, in quanto ci si misura con colleghi che hanno sensibilità e ideologie diverse dal punto di vista giuridico, talvolta concezioni lontane della stessa funzione del diritto penale.
Tuttavia, l’esigenza di puntare su una metodica di lavoro giudiziario diverso, in cui cioè lo scambio di idee e il confronto non avvengano solo al momento della decisione, ma vi sia una preparazione e uno studio preliminare attraverso riunioni periodiche di sezione che siano funzionali a trovare soluzioni condivise sulle scelte interpretative generali, trova conferma oggi nella stessa riorganizzazione giudiziaria, in cui si è introdotto l’ufficio del processo, in ausilio dell’attività del giudice, anche di quello di cassazione. E’ questa la dimostrazione che non è più concepibile un assetto organizzativo giudiziario solipsistico. Il modello organizzativo che deve assicurare coerenza al diritto giurisprudenziale della Corte di cassazione è costituito oggi dalla sezione, composta da magistrati, personale amministrativo e funzionari dell’ufficio del processo.
Se si condivide questo modello, il primo obiettivo da conseguire è, lo si ribadisce, quello di limitare i contrasti giurisprudenziali facendo ricorso, appunto, alle riunioni di sezione le cui conclusioni andranno rispettate, non perché siano vincolanti, ma in quanto si condivida il metodo.
Ciò significa che il collegio dovrà seguire l’orientamento emerso da tali riunioni, magari evidenziando in motivazione che si tratta di un orientamento da ritenere consolidato in sezione. Fermo restando che, nei casi difficili ovvero quando non si raggiunge una base allargata di condivisione, nulla impedisce il ricorso ragionevole alle sezioni unite.
6. Ci troviamo in una fase della nostra storia in cui la forte crisi di legittimazione e di autorevolezza della magistratura avviene in un momento in cui si è riconosciuto, finalmente, al diritto giurisprudenziale una natura “latamente creativa” – con tutti i limiti di una tale definizione –, un riconoscimento a cui avrebbe dovuto seguire un’assunzione ferma di responsabilità nella stessa attività interpretativa, assunzione che non sempre vi è stata. Per riconquistare credibilità nell’opinione pubblica e nei cittadini abbiamo il dovere di governare la nostra giurisprudenza: rendendola chiara nelle motivazioni, nutrendoci della cultura del precedente, sforzandoci di rendere le decisioni prevedibili e, da ultimo, iniziando a confrontarci seriamente sugli effetti del mutamento del diritto giurisprudenziale, soprattutto quando è in malam partem.
*Il testo riproduce l’intervento svolto alla prima sessione del convegno “Giurisdizione e motivazione. Dialogo a più voci tra linguaggio e organizzazione del lavoro”, tenutosi lo scorso 8 giugno 2022 a Roma, Corte Suprema di Cassazione, Aula Magna, organizzato da AreaDg Cassazione.
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