ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Gli approfondimenti della riforma Cartabia - 8. Prime riflessioni sulla nuova “revisione europea”
di Gaetano De Amicis
Il presente articolo si inserisce nella serie di approfondimenti dedicati da Giustizia Insieme (v. Editoriale) alle novità introdotte dalla riforma Cartabia nella materia penale. Di seguito i precedenti contributi:
1. Le nuove indagini preliminari fra obiettivi deflattivi ed esigenze di legalità
3. Pensieri sparsi sul nuovo giudizio penale di appello (ex d.lgs. 150/2022)
6. Riforma Cartabia e pene sostitutive: la rottura “definitiva” della sequenza cognizione-esecuzione
Sommario: 1. Il nuovo sistema dei rimedi per l’esecuzione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. – 2. Genesi, finalità e contenuto della delega legislativa: la nuova competenza funzionale della Corte di cassazione. – 3. La legittimazione soggettiva. – 4. L’oggetto dell’impugnazione. – 5. Forma, termini e modalità di presentazione del ricorso. – 6. Il giudizio dinanzi alla Corte di cassazione. 7. Le decisioni della Corte. – Segue: 7.1. La fase rescindente. – Segue: 7.2. La fase rescissoria. – 8. La riapertura del processo dinanzi ai giudici di merito. – 9. Gli effetti della riapertura. – 10. La disciplina intertemporale. - 11. I rapporti con gli altri rimedi impugnatori post iudicatum – 12. I limiti di un successivo controllo “esterno” sull’esito del procedimento interno di revisione delle condanne ritenute “inique” dalla Corte EDU. – 13. La rinnovata centralità del ruolo nomofilattico affidato alla Corte di cassazione: problemi e prospettive.
1. Il nuovo sistema dei rimedi per l’esecuzione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Con la disposizione dell’art. 628-bis cod. proc. pen. – inserita nel codice di rito dall’art. 36 d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 - il legislatore ha previsto, inquadrandolo nel nuovo Titolo III bis del Libro IX dedicato alle impugnazioni, un nuovo mezzo di impugnazione straordinaria, incentrato sulla richiesta alla Corte di cassazione dell’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei relativi Protocolli addizionali.
Si tratta di un rimedio impugnatorio di natura polivalente e a carattere unitario, poiché, da un lato, consente di individuare una pluralità di soluzioni da adattare con criteri flessibili alle peculiarità del caso di specie, dall’altro affida sempre ed unicamente alla Corte di cassazione un vaglio preliminare sul vizio accertato nelle decisioni della Corte di Strasburgo.
Si supera, in tal modo, il previgente assetto basato sul ricorso alla cd. “revisione europea”, individuata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 113 del 7 aprile 2011 quale temporanea soluzione per la “riapertura” dei processi giudicati non equi, restituendo al contempo coerenza intrinseca all’istituto della revisione della condanna penale di cui agli artt. 629 ss. cod. proc. pen.[1], “snaturato nella sua autentica fisionomia strutturale” dalla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando necessario per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Analoga soluzione è stata individuata dal legislatore delegato in occasione della riforma del processo civile, con la previsione di una nuova ipotesi di revocazione del giudicato civile in presenza di violazioni convenzionali accertate dalla Corte europea che hanno provocato un pregiudizio a un diritto di stato della persona (art. 391-quater c.p.c.).
L’azionabilità del rimedio nel settore civile è limitata alla ricorrenza di due condizioni: a) che la violazione accertata abbia pregiudicato un diritto di stato della persona; b) che l’equa indennità eventualmente accordata dalla Corte EDU non sia idonea a compensare le conseguenze della violazione. Nell’ipotesi in cui venga accolta la domanda di revocazione, il legislatore ha significativamente richiamato il disposto di cui all’art. 391-ter c.p.c., al fine di limitare la fase rescissoria dinanzi alla Corte di cassazione solo nell’ipotesi in cui la nuova decisione sia possibile senza ulteriori accertamenti di fatto[2].
Nel sistema convenzionale, come è noto, gli Stati contraenti sono obbligati, ai sensi dell’art. 46 CEDU, a conformarsi alle sentenze definitive della Corte europea, che nell’accertare le violazioni da parte degli Stati non si limitano più, come nel passato, ad imporre misure risarcitorie, accordando un’equa soddisfazione ai sensi dell’art. 41 CEDU, ma tendono sempre più spesso ad indicare anche il tipo di misure individuali e/o generali che lo Stato deve adottare al fine di eliminare le conseguenze della violazione e favorire la restitutio in integrum[3].
L’evoluzione della prassi giurisprudenziale è ormai orientata nel senso che la Corte europea ordina nel dispositivo l’adozione di misure ripristinatorie o, in generale, l’introduzione di meccanismi idonei ad evitare il ripetersi di una violazione “sistemica, strutturale e non isolata”, mentre l’obbligo dell’equa soddisfazione viene disposto in via residuale, qualora non sia di per sé sufficiente a rimediare alla violazione accertata[4].
La maggiore specificità delle misure previste e la minore libertà degli Stati nella scelta discrezionale dei mezzi di esecuzione è rinvenibile sia nel dispositivo delle sentenze cd. “pilota”, oggetto di una specifica procedura ai sensi dell’art. 61 del regolamento della Corte, sia nelle motivazioni delle sentenze definite “quasi-pilota”, la cui struttura produce effetti sostanzialmente equivalenti, attraverso l’indicazione del problema sistemico o strutturale e delle misure generali raccomandate nella parte della motivazione relativa all’art. 46 CEDU, senza alcun richiamo nel dispositivo[5].
Nel riconoscere l'iniquità del processo, accade sovente che la Corte europea indichi l’esigenza di un "nuovo processo" o di una "riapertura del caso", su richiesta dell'interessato, come la via più adeguata al fine di rimediare alla violazione, ma tale soluzione non rappresenta l'epilogo necessario, poiché l’individuazione della misura dipende dai diversi elementi che caratterizzano il caso concreto, oltre che dalla specifica violazione procedimentale. Può infatti accadere che la Corte, pur ravvisando l'inosservanza dell'art. 6 CEDU o la presenza di altri vizi procedurali, escluda esplicitamente la prospettiva della riapertura di un procedimento conclusosi con decisione definitiva, indicando altre vie per porvi rimedio[6].
Un ruolo fondamentale viene riconosciuto, in tale contesto, al Comitato dei Ministri, incaricato di supervisionare la corretta esecuzione delle sentenze da parte degli Stati contraenti, attivando, se del caso, una “procedura di infrazione” in caso di rifiuto dello Stato condannato di conformarsi alle relative indicazioni, ovvero sollecitando la Corte EDU a chiarire l’interpretazione di una propria sentenza per facilitarne l’esecuzione.
2. Genesi, finalità e contenuto della delega legislativa: la nuova competenza funzionale della Corte di cassazione.
Il nuovo istituto previsto dal d.lgs. n. 150 del 2022 mira a dare attuazione ai criteri e principi stabiliti nell’art. 1, comma 13, lett. o), della legge delega 4 ottobre 2021, n. 137, al fine di introdurre nel sistema processuale un rimedio straordinario volto a dare piena e adeguata esecuzione alle sentenze definitive della Corte europea.
Nella norma di delega, in particolare, è stata prevista l’introduzione di una disciplina volta a regolare i profili inerenti alla esecuzione delle sentenze della Corte EDU, attribuendo al Governo il compito di:
a) introdurre un mezzo di impugnazione straordinario davanti alla Corte di cassazione al fine di dare esecuzione alle sentenze definitive della Corte europea, proponibile dal soggetto che abbia presentato il ricorso, entro un termine perentorio;
b) attribuire alla Corte il potere di adottare i provvedimenti necessari e disciplinare l’eventuale procedimento successivo;
c) coordinare il rimedio con quello della rescissione del giudicato e con l’incidente di esecuzione di cui all’art. 670 cod. proc. pen.
Un intervento normativo nella materia era atteso da lungo tempo, se si considera che, da oltre vent’anni, a seguito della Raccomandazione del 19 gennaio 2000, R (2000)2, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa aveva invitato gli Stati membri a disciplinare le forme della riapertura del procedimento in caso di condanna pronunciata dalla Corte di Strasburgo.
Nella Raccomandazione, in particolare, si è rivolto un invito agli Stati contraenti «ad esaminare i rispettivi ordinamenti nazionali allo scopo di assicurare che esistano adeguate possibilità di riesame di un caso, ivi compresa la riapertura di procedimenti, laddove la Corte ha riscontrato una violazione della Convenzione e in particolare allorché […] la sentenza della Corte induce alla conclusione che: a) la decisione interna impugnata è nel merito contraria alla Convenzione; b) la violazione riscontrata è costituita da errores o da altre mancanze di tale gravità da far sorgere seri dubbi sull’esito del procedimento nazionale considerato». A fronte di tali evenienze, il giudicato interno deve cedere alla tutela dei diritti fondamentali, sempre che la vittima «continu[i] a soffrire delle conseguenze negative molto gravi in seguito alla decisione nazionale, conseguenze che non possono essere compensate dall’equa soddisfazione e che non possono essere rimosse se non attraverso il riesame o la riapertura» del procedimento[7].
Da quel momento, infatti, in assenza di una specifica disciplina legislativa, la materia era rimasta affidata alle oscillanti interpretazioni della giurisprudenza, che aveva progressivamente individuato quattro diversi rimedi:
a) la revisione europea, introdotta dalla sentenza additiva della Corte costituzionale n. 113 del 7 aprile 2011 (consentita anche per le misure di prevenzione[8] e in caso di cessazione della materia del contendere dinanzi alla Corte EDU, con la conseguenziale cancellazione della causa dal ruolo ai sensi degli artt. 37 e 62 del regolamento CEDU[9], ma non estensibile al di fuori delle situazioni in cui il diretto interessato abbia ottenuto una pronuncia favorevole per avere adito la Corte EDU[10]);
b) il ricorso straordinario per errore di fatto (nelle ipotesi di violazioni consumatesi nel giudizio di legittimità, come verificatosi nel caso Drassich c. Italia);
c) l’incidente di esecuzione di cui all’art. 670 cod. proc. pen. per ottenere la ineseguibilità del giudicato (con riferimento alle fattispecie relative a violazioni sostanziali);
d) la restituzione nel termine per impugnare in favore dell’imputato contumace ai sensi dell’art. 175, commi 2 e 2-bis, cod. proc. pen. (Sez. 5, 15 novembre 2006, Cat Berro; Sez. 1, 12 luglio 2006, Somogyi).
Si tentava di supplire alla lacuna legis attraverso una serie di soluzioni diversificate che, pur espressione di indubbia sensibilità per la tutela dei diritti fondamentali, ritenuti prevalenti rispetto alla stessa esigenza di stabilità della res iudicata, determinavano un sostanziale “congelamento” sine die del giudicato, confinato in una sorta di “limbo” di inefficacia (Sez. 1, 1 dicembre 2006, Dorigo), ovvero l’interpretazione analogica di un mezzo di impugnazione straordinario (Sez. 5, 11 febbraio 2010, Scoppola; Sez. 6, 12 novembre 2008, Drassich), risolvendosi comunque in una violazione del principio di tassatività delle impugnazioni.
In ogni caso, come osservato dalla dottrina, si trattava di soluzioni idonee ad infrangere il dictum definitivo interno giudicato non equo dalla Corte EDU, ma non in grado di garantire, in ossequio alle indicazioni dettate dalla Corte di Strasburgo, il risultato di un’effettiva riapertura del processo[11].
Un assetto, questo, che, finanche a seguito della richiamata pronuncia del Giudice delle leggi, aveva determinato incertezze e dubbi interpretativi, sia nell’ipotesi della riapertura del procedimento conseguente all’accertamento di un vizio procedurale (viste le peculiarità della disciplina della revisione, non agevolmente assimilabile ad una riapertura non fondata su un novum tale da giustificare una prognosi di proscioglimento), sia nel caso dell’accertamento di un’illegalità convenzionale, con particolare riferimento al problema dei cd. “fratelli minori”.
Entro questa prospettiva deve propriamente inquadrarsi l’obiettivo indicato dalla legge delega, con la scelta di introdurre un unico rimedio impugnatorio finalizzato a razionalizzare il sistema processuale affidando alla competenza funzionale della Corte di cassazione la valutazione del decisum europeo sul giudicato nazionale ritenuto unfair, nel quadro di una complessiva rimodulazione dei rapporti fra il nuovo strumento e gli altri rimedi revocatori.
La delega non ha posto limiti in ordine alla tipologia della lesione accertata dalla Corte EDU, che può dunque risolversi indifferentemente in una violazione di ordine sostanziale (ad es., l’art. 7 CEDU) o procedurale di un diritto egualmente sancito dalla Convenzione europea o dai suoi Protocolli addizionali.
Nel prevedere una competenza accentrata presso il supremo organo della nomofilachia, il legislatore, come osservato nella Relazione illustrativa, non ha ritenuto necessario precisare che il procedimento debba essere assegnato ad una sezione diversa da quella che ha eventualmente definito i ricorsi interni, trattandosi di una forma di riparto interno alla Corte di cassazione che, in quanto tale, potrà ricevere la sua compiuta disciplina con apposite previsioni in sede tabellare, senza escludere la possibilità di investire direttamente le Sezioni Unite nei casi di speciale rilevanza o quando vengano in rilievo profili di regolazione dell’assetto inter-giurisdizionale.
L’architettura dei mezzi di impugnazione straordinaria viene dunque ridisegnata con l’articolazione di una serie di modelli processuali distintamente caratterizzati:
a) la revisione tradizionale, che ha per oggetto una sentenza di condanna irrevocabile viziata da errori di fatto che siano tali da dimostrare, se accertati, che il condannato doveva essere prosciolto (art. 629 cod. proc. pen.).
b) il rimedio tendente ad eseguire le decisioni della Corte EDU, eliminando gli effetti pregiudizievoli scaturenti dalle decisioni interne adottate in violazione dei diritti convenzionali;
c) il ricorso straordinario per cassazione (art. 625-bis cod. proc. pen.), quale impugnazione diretta soltanto a correggere in favore dell’imputato errori materiali o di fatto contenuti nella sentenza della Corte di legittimità;
d) la rescissione del giudicato (art. 629-bis cod. proc. pen.), quale forma di impugnazione straordinaria esperibile nei confronti delle sentenze irrevocabili di condanna (o con le quali è stata comunque applicata una misura di sicurezza), ove l’interessato provi di essere stato dichiarato assente in mancanza dei presupposti previsti dall’art. 420-bis cod. proc. pen.
Nel disegno del legislatore il nuovo istituto della cd. revisione europea, come posto in rilievo nella Relazione illustrativa, deve dare esecuzione al triplice obbligo di neutralizzazione, rivalutazione della sentenza ed eventuale riapertura del procedimento derivante dalla sentenza europea di condanna alla restitutio in integrum, conservando, tuttavia, come più avanti si vedrà, “un ragionevole margine di apprezzamento a tutela del giudicato nazionale”.
Il vaglio preventivo della Corte di legittimità, infatti, è funzionale all’individuazione della modalità riparatoria più adeguata nel caso concreto, che non necessariamente consiste nella riapertura del processo, poiché l’obbligo di conformazione al giudicato europeo viene tradizionalmente concepito dalla Corte di Strasburgo come un obbligo “di risultato”, riconoscendo allo Stato parte la libertà di scegliere, sotto la sorveglianza del Comitato dei Ministri, i mezzi attraverso cui realizzare l’obiettivo, purché gli stessi risultino compatibili con le conclusioni raggiunte nella sentenza del Giudice europeo[12].
3. La legittimazione soggettiva.
La nuova disposizione individua, nel primo comma, le situazioni in cui è possibile attivare il rimedio in questione e i soggetti che vi sono legittimati, facendo riferimento esclusivamente alle figure del condannato e della persona sottoposta a misura di sicurezza che hanno proposto ricorso dinanzi alla Corte EDU per l’accertamento di una violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli addizionali, con la conseguente esclusione dei terzi non impugnanti che avrebbero potuto dolersi della medesima violazione.
Al riguardo, come posto in rilievo nella Relazione illustrativa, si è ritenuto che l’espresso riferimento contenuto nella legge delega al solo «soggetto che abbia presentato il ricorso» non consentisse un ampliamento in favore di soggetti diversi.
Nonostante l’ampiezza del contenuto della delega ai fini della individuazione della legittimazione soggettiva alla proposizione del nuovo ricorso, attribuita alla vittima della violazione convenzionale accertata in sede europea – che evidentemente potrebbe essere anche la persona offesa dal reato, non necessariamente il condannato – la scelta compiuta dal legislatore in sede di attuazione della delega pare di segno restrittivo, a fronte del pacifico orientamento del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e della stessa Corte EDU, inclini a considerare legittimo il condizionamento della riapertura ad una domanda presentata da colui che abbia attivato il sindacato della Corte europea[13].
Non sembra possibile, dunque, almeno sotto questo profilo, un epilogo in malam partem del giudizio di revisione, attesa l’esclusione dalla legittimazione soggettiva al ricorso della vittima del reato, cui non è consentito attivare il nuovo rimedio straordinario avverso una decisione di proscioglimento, sebbene la delega non ponga limiti oggettivi riguardo all’individuazione dei provvedimenti impugnabili[14].
Una scelta, questa, che potrebbe determinare un vuoto di tutela in tutte quelle situazioni in cui venga in rilievo, per la persona offesa dal reato, una lesione del diritto di accesso ad un tribunale ex art. 6, par. 1, CEDU, ovvero, ad es., in relazione all’ampia area delle garanzie convenzionali oggetto della tutela offerta dalle disposizioni di cui agli artt. 2, 3 e 8 CEDU, che hanno costituito, negli ultimi anni, la base normativa di riferimento per lo sviluppo di una consistente elaborazione giurisprudenziale della Corte europea, distinguendo con nettezza la sfera degli obblighi positivi e procedurali a carico degli Stati contraenti, assieme a quelli propri del diritto sostanziale[15].
Le disposizioni di cui agli artt. 2 e 3 CEDU individuano, in particolare, una serie di doveri incombenti sulle autorità giurisdizionali e di polizia, cui spetta garantire la ricerca, l’individuazione e la punizione di coloro che si rendano autori di azioni lesive, avviando, attraverso una corretta interpretazione ed applicazione delle norme penali, attività d’indagine ufficiali, approfondite, trasparenti, celeri ed imparziali, che in caso di accertata colpevolezza possono condurre, all’esito del processo, ad applicare sanzioni proporzionate alla gravità del fatto commesso.
4. L’oggetto dell’impugnazione.
Non sono soltanto le decisioni definitive della Corte EDU, peraltro, a legittimare l’attivazione del nuovo rimedio straordinario, poiché il legislatore ha considerato anche le ipotesi in cui sia stata disposta dalla Corte la cancellazione del ricorso dal ruolo ai sensi dell’art. 37 CEDU, in conseguenza del riconoscimento unilaterale della violazione da parte dello Stato.
Al riguardo il legislatore ha opportunamente ripreso le indicazioni provenienti da un indirizzo interpretativo di recente delineato dalla Corte di cassazione (Sez. 5, n. 16226 del 04/02/2022, Frascati, Rv. 283395), secondo cui, nel procedimento instaurato dal privato dinanzi alla Corte EDU per il riconoscimento della violazione dell'art. 6 CEDU da parte della norma interna (nella specie, per omessa trattazione del procedimento in pubblica udienza), la declaratoria di cessazione della materia del contendere ai sensi degli artt. 37 CEDU e 62 A del Regolamento CEDU, con la conseguenziale cancellazione della causa dal ruolo, seguita alla dichiarazione unilaterale dello Stato di avvenuta violazione e adottata all'esito di una ponderata valutazione della stessa da parte della Corte EDU, pur non costituendo una condanna, ha natura ricognitiva in quanto implica il riconoscimento della violazione della norma convenzionale ed è vincolante per lo Stato, che deve al riguardo esercitare il suo potere di adeguamento secondo gli strumenti processuali interni (nel caso in questione, definito prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022, lo strumento è stato individuato nella “revisione europea” di cui all'art. 630 cod. proc. pen.).
La richiesta ha ad oggetto la sentenza penale o il decreto penale di condanna e mira ad ottenere la revoca di tali provvedimenti e la conseguente riapertura del processo o, comunque, l’adozione dei provvedimenti necessari per eliminare gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione accertata dalla Corte EDU.
5. Forma, termini e modalità di presentazione del ricorso.
La richiesta si propone con ricorso, che deve essere presentato, dall’interessato o, in caso di morte, da un suo congiunto, a mezzo di un difensore munito di procura speciale, entro il termine di novanta giorni dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione della Corte europea che ha accertato la violazione, ovvero dalla data in cui è stata emessa la decisione che ha disposto la cancellazione del ricorso dal ruolo, indicando specificamente le ragioni che ne giustificano la proposizione.
Al riguardo, pertanto, non può escludersi, da un lato, che il ricorso venga proposto dal condannato quando abbia già scontato la pena, nell’ipotesi di un danno morale e alla reputazione derivante da un'ingiusta condanna, per la cui riparazione potrebbe esigersi, oltre ad un equo indennizzo (magari già riconosciuto dalla Corte EDU), anche l'affermazione della propria innocenza, dall’altro lato che i prossimi congiunti o gli stessi eredi propongano la riapertura del procedimento quando siano proprio costoro ad aver preso parte - anche subentrando successivamente al condannato - al procedimento celebrato innanzi al giudice europeo[16].
Il su indicato termine ha natura perentoria e la sua previsione deve ritenersi giustificata dall’esigenza di garantire i principii di certezza e stabilità nelle situazioni giuridiche: profilo, questo, che va apprezzato unitamente agli effetti della recente riduzione dell'arco temporale entro il quale è possibile proporre ricorso alla Corte EDU (quattro mesi in luogo di sei, alla luce del Protocollo n. 15, ratificato di recente anche in Italia).
La richiesta deve contenere “l’indicazione specifica delle ragioni che la giustificano”, illustrando in maniera puntuale e adeguata la tipologia e le caratteristiche delle violazioni convenzionali riscontrate nel decisum europeo, le ragioni della loro effettiva incidenza sull’esito del processo e la misura riparatoria individuata all’esito del giudizio tenutosi dinanzi alla Corte EDU.
Il ricorso, inoltre, va depositato presso la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza o il decreto penale di condanna, rispettando le forme previste dall’art. 582 cod. proc. pen., ivi compresa, dunque, la possibilità del deposito telematico ai sensi della nuova disposizione di cui all’art. 111-bis cod. proc. pen., prevista in alternativa a quella della personale presentazione dell’atto, anche a mezzo di incaricato, nella predetta cancelleria.
L’osservanza delle disposizioni ora richiamate è prevista dal legislatore a pena di inammissibilità del ricorso.
Unitamente alla richiesta vanno inoltre depositati, con le medesime modalità, la sentenza o il decreto di condanna, la decisione emessa dalla Corte EDU e gli eventuali ulteriori atti e documenti che giustificano la richiesta: onere di allegazione, questo, che il legislatore non ha previsto a pena di inammissibilità[17].
6. Il giudizio dinanzi alla Corte di cassazione.
Sulla richiesta la Corte di cassazione decide in camera di consiglio a norma dell'art. 611 cod. proc. pen. e procede con rito camerale, di regola, non partecipato, anche se il rinvio operato dall’art. 628-bis, comma 4, cit. alla suddetta disposizione normativa sembra avere carattere generale e non esclude, pertanto, la possibilità di richiedere, o disporre d’ufficio, la trattazione del procedimento in pubblica udienza nelle ipotesi espressamente previste dall’art. 611, comma 1-bis, cit.
Una eventualità, questa, che il legislatore non sembra aver precluso sia per la ragione ora indicata, sia per il tipo di controllo esercitato dalla Corte, chiamata ad interpretare la portata del giudicato europeo in relazione a ricorsi che possono avere ad oggetto questioni di particolare rilevanza, in precedenza definite a livello nazionale da una sentenza interna pronunciata nei confronti del richiedente in dibattimento ovvero all’esito di un giudizio abbreviato, secondo il disposto di cui all’art. 611, commi 1-bis e 1-quater cit.
La Corte, inoltre, ricorrendone i presupposti, può disporre in via preliminare la sospensione dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza ai sensi dell'art. 635 cod. proc. pen.
Al riguardo la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la sospensione dell'esecuzione della pena prevista è un istituto di carattere eccezionale, poiché deroga al principio di obbligatorietà dell'esecuzione, e presuppone l'esistenza di situazioni in cui appaia verosimile l'accoglimento della domanda e la conseguente revoca della condanna, non essendo a tal fine sufficiente la positiva delibazione sull'ammissibilità dell'istanza[18].
Una previsione, questa, certamente opportuna, poiché consente di neutralizzare in limine gli effetti pregiudizievoli del giudicato colpito dalla Corte EDU, laddove nel previgente assetto normativo si riteneva che la mera pendenza di un ricorso individuale per l’asserita violazione dei principii del giusto processo non legittimasse il giudice dell'esecuzione a disporre la sospensione dell'esecuzione della pena, essendo tale possibilità subordinata solo all'accoglimento del ricorso in sede sovranazionale e alla successiva attivazione, da parte del condannato, della procedura di revisione europea introdotta a seguito della richiamata sentenza additiva della Corte costituzionale[19].
Il rinvio operato al disposto di cui all’art. 635 cit. sembra limitato alla possibilità di attivazione del solo meccanismo sospensivo dell’esecuzione, non essendo previsto dinanzi alla Corte di cassazione un sub-procedimento cautelare volto all’applicazione di una delle misure coercitive (ex artt. 281, 282, 283 e 284 cod. proc. pen.) che la Corte d’appello può invece disporre in qualunque momento del giudizio di revisione, quando sospende l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza.
Nel ricorrere dei presupposti di legge, le misure coercitive previste dall’art. 635, comma 1, cit. potranno essere applicate nel corso della eventuale, successiva, fase rescissoria del procedimento prevista dall’art. 628-bis, comma 5, cit., qualora la Corte di cassazione decida nel senso della riapertura del processo dinanzi ai giudici di merito.
7. Le decisioni della Corte.
7.1. La fase rescindente.
Al di fuori dei casi di inammissibilità, nella fase rescindente la Corte di cassazione deve anzitutto verificare, quale organo investito della richiesta di restitutio in integrum, se la violazione accertata dalla Corte EDU abbia avuto, per la sua natura e gravità, una “incidenza effettiva” sulla sentenza o sul decreto penale di condanna.
Il criterio incentrato sulla valutazione dell’incidenza effettiva è finalizzato evidentemente a riconoscere allo Stato parte, e per esso alla Corte di legittimità, un margine di apprezzamento rispetto alle indicazioni desumibili dal vincolo originato dal dictum europeo, la cui sostanza dovrà essere convertita in un vizio sostanziale o processuale rilevante, ossia riconoscibile nel testo della decisione interna e dotato di efficacia causale rispetto alla lesione del diritto convenzionale, dando luogo alla scelta dello strumento più idoneo, nel caso concreto, per rimuoverne gli effetti pregiudizievoli.
Il sindacato attribuito alla Corte investe, pertanto, sia l’an dell’incidenza della violazione sull’esito del processo, sia la valutazione del quomodo attraverso cui attuare la restitutio in integrum nell’ordinamento nazionale.
Una soluzione che se, da un lato, pare rispettosa della generale esigenza di mantenere in capo allo Stato nazionale un autonomo apprezzamento circa l’attualità delle conseguenze dannose e la sussistenza del nesso di causalità tra le violazioni accertate e l’epilogo del processo, dall’altro lato pone rilevanti problemi, di ordine generale e di natura propriamente applicativa, rispetto ai limiti strutturali del giudizio di legittimità e alle forme del sindacato che l’ordinamento interno affida alla cognizione della Corte di cassazione.
Si tutela, in tal modo, l’esigenza di rispettare il margine di apprezzamento nazionale, affidando al vaglio delibativo del giudice interno un potere di controllo preventivo al fine di rimuovere la barriera del giudicato penale nell’ambito di una logica di dialogo e collaborazione incentrata sul principio di sussidiarietà, secondo una scelta comune a diversi ordinamenti nazionali[20].
Pur non essendo consentiti accertamenti di fatto, v’è tuttavia il rischio, concreto, sia di un possibile sconfinamento nella ricerca della soluzione più appropriata nel caso concreto, sia di un contrasto fra le Corti, in considerazione della eterogeneità delle valutazioni del Giudice europeo e del Giudice di legittimità, essendo quelle del primo imperniate su una considerazione complessiva dell’equità processuale, che tiene conto delle ripercussioni della lesione convenzionale sul processo nel suo insieme e sul suo esito[21].
La necessaria valutazione dell’incidenza della violazione sull'esito del procedimento penale, che la Corte di cassazione deve svolgere alla luce dei criteri direttivi rappresentati dalla natura e dalla gravità del vizio riscontrato in sede europea, pone rilevanti questioni problematiche, poiché le indicazioni della Corte EDU nel senso della riapertura del processo risultano, di solito, abbastanza generiche e a carattere orientativo[22], sicché non pare agevole stabilire fin dove la Corte di legittimità possa spingersi nell'operare questo vaglio selettivo sul contenuto della res interpretata.
Il rischio è quello di sovrapporre alla esecutività del giudicato europeo una valutazione interna sulla effettività dell’incidenza della violazione oggetto di accertamento, che in caso di rigetto della richiesta potrebbe rimettere in discussione quanto deciso in maniera vincolante dalla Corte EDU[23].
Né è chiaro in quale misura la giurisprudenza convenzionale formatasi, ad es., in tema di "prova unica o determinante" possa fungere da congruo paradigma di riferimento ai fini del complessivo apprezzamento del precedente risultato probatorio, specie quando si tratti di stabilire l’ambito applicativo della regola dettata dal legislatore in ordine alla eventuale conservazione dell’efficacia degli atti pregressi (ex art. 628-bis, comma 5, cit.).
Sussistendo il presupposto dell’effettiva incidenza sul provvedimento adottato nei confronti dell’istante, la Corte di cassazione accoglie la richiesta, altrimenti la rigetta.
Se accoglie la richiesta, si apre la fase rescissoria, nel cui ambito si aprono due alternative decisorie.
7.2. La fase rescissoria.
Nell’ipotesi in cui non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto o risulti comunque superfluo il rinvio, la Corte assume essa stessa i provvedimenti idonei a rimuovere gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione, disponendo, ove occorra, la revoca della sentenza o del decreto di condanna (ad es., nel caso in cui la Corte EDU abbia ravvisato l’illegittimità convenzionale della pena per violazione dell’art. 7 CEDU e la Corte di legittimità possa rideterminarla sulla base delle statuizioni del giudice di merito, ai sensi dell’art. 620, comma 1, lett. l), cod. proc. pen.).
Siffatta evenienza procedimentale pare dunque configurabile nei casi in cui l’adeguamento ai principi convenzionali implichi solo una modifica del trattamento sanzionatorio, ovvero un “effetto cassatorio negativo”, che determini la cessazione degli effetti del giudicato “iniquo” in caso di violazioni sostanziali, attraverso l’annullamento della precedente decisione e l’emissione di una nuova pronuncia “liberatoria” in favore del ricorrente vittorioso dinanzi alla Corte di Strasburgo[24].
Nell’ipotesi in cui si rendano invece necessari ulteriori accertamenti, la Corte trasmette gli atti al giudice dell'esecuzione o dispone la riapertura del processo, dinanzi al giudice della cognizione, nel grado e nella fase in cui si procedeva al momento in cui si è verificata la violazione, stabilendo – dopo aver revocato la sentenza o il decreto penale di condanna - se e in quale parte conservino efficacia gli atti compiuti nel processo in precedenza svoltosi: in tale ultima evenienza, dunque, sembra trattarsi di una sorta di annullamento con rinvio, o meglio di un rinvio “atipico”, poiché non viene richiamato il giudizio previsto dall’art. 627 cod. proc. pen. e la sequenza procedimentale, depurata degli atti nulli o inutilizzabili, e dunque “riconfigurata” dalla Corte, viene riaperta, per dare luogo ad una nuova progressione orientata alla rimozione della lesione convenzionale secondo le indicazioni, vincolanti, di volta in volta dettate dal giudice di legittimità.
Non rientra nella sfera cognitiva della Corte la possibilità di svolgere accertamenti sul “fatto”, che dovranno essere, pertanto, affidati al giudice della fase rescissoria, in primo o in secondo grado, senza che la riapertura del processo implichi, necessariamente, la rinnovazione automatica dell’intero processo, come si verifica nella revisione ordinaria, o di suoi interi segmenti, potendosi eventualmente procedere, a seconda dei casi, alla rinnovazione dei soli atti cui si riferiscono le violazioni accertate dalla Corte EDU, ovvero alla riassunzione delle sole prove lesive delle garanzie convenzionali, o, infine, alla loro mera rivalutazione[25]: la precisa delimitazione del perimetro cognitivo del nuovo giudizio di merito discende, comunque, nel suo contenuto e nelle sue finalità, dalle indicazioni che la Corte di legittimità, una volta interpretata la portata del dictum pronunciato dalla Corte europea, riterrà di dettare all’esito del giudizio rescindente.
8. La riapertura del processo dinanzi ai giudici di merito.
Nell’ipotesi in cui i giudici di merito siano investiti della competenza a decidere a seguito della riapertura del processo disposta dalla Corte di legittimità, essi dovranno comunque attenersi al principio fissato all’esito della fase rescindente, poiché è attraverso la sua formulazione che si concretizza nell’ordinamento interno la portata delle affermazioni estraibili dal dictum della Corte europea.
La riapertura del processo può verificarsi, ad es., nel caso in cui la Corte EDU abbia ravvisato una violazione di carattere processuale dell’art. 6 CEDU, con riferimento alla lesione del diritto dell’imputato a confrontarsi con il proprio accusatore, ovvero nell’ipotesi in cui si debba intervenire sulla dosimetria della pena irrogata, perché ritenuta illegale o sproporzionata.
Le evenienze in concreto ipotizzabili sono numerose ed appaiono, talora, di problematico inquadramento a seconda della tipologia del vizio riscontrato in sede europea: nelle ipotesi in cui l'iniquità processuale derivi dalla lesione dei diritti difensivi dell'accusato, la lesione potrebbe ricondursi alle cause di nullità e il giudice della revisione dovrebbe procedere in virtù delle disposizioni di cui all'art. 185, commi 1-3, cod. proc. pen., ma potrebbe, ad es., accadere che la violazione convenzionale non sia assimilabile, neppure attraverso lo strumento dell’interpretazione convenzionalmente orientata, ad alcuna delle ipotesi d'invalidità contemplate nel nostro ordinamento. Evenienza, questa, che sembra verificabile allorquando la violazione riguardi il diritto all'imparzialità del giudice, considerato che, secondo la nostra consolidata giurisprudenza, le situazioni d'incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice, rilevabili o eccepibili entro termini perentori, non costituiscono una causa di nullità ex art. 178 cod. proc. pen., non essendo riconducibili alla nozione di capacità del giudice delineata dall'art. 33 cod. proc. pen.[26]
Né sembra possibile, alla luce del principio di tassatività dei casi di nullità, invocare il concetto di lesività in concreto del diritto di difesa, al fine di integrare l'art. 178 cit. con le violazioni di cui all'art. 6 CEDU[27].
Al riguardo è opportuno richiamare, in linea generale, le possibili implicazioni del principio affermato dalla Corte di cassazione[28], secondo cui il divieto di infliggere una pena più grave, di cui all'art. 597, comma 3, cod. proc. pen., non opera nel nuovo giudizio conseguente all'annullamento della sentenza di primo grado - impugnata dal solo imputato - disposto dal giudice di appello o dalla Corte di cassazione per nullità dell'atto introduttivo ovvero per altra nullità assoluta o di carattere intermedio non sanata. In tale ipotesi, infatti, si è ritenuto che il divieto di "reformatio in peius" non possa trovare applicazione a seguito dell'annullamento della precedente condanna ai sensi dell'art. 604, comma 4, cod. proc. pen.
Analoghe considerazioni possono svolgersi in relazione alle ipotesi in cui l’annullamento della sentenza di appello sia stato disposto per la rilevata violazione della regola prevista dall'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen.[29].
Non è da escludere, peraltro, che la Corte di cassazione sollevi essa stessa una questione di legittimità costituzionale della norma interna interessata dalla decisione della Corte EDU, nel caso in cui gli strumenti a disposizione siano inidonei a garantire l’effettiva operatività del nuovo istituto, ovvero nelle ipotesi in cui il giudice europeo individui un problema di portata generale dell’ordinamento nazionale: in tal modo, come suggerito dalla Relazione finale della Commissione Lattanzi, si potrebbe risolvere a monte la delicata questione dei cd. “fratelli minori”, i quali, non legittimati a proporre il nuovo rimedio, si potrebbero poi rivolgere al giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen.
Una possibilità, questa, che - pur limitata alle sole eventualità in cui la declaratoria di incostituzionalità riguardi una norma incriminatrice, ovvero una disposizione penale diversa, ma comunque incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, potendosi addivenire in tal caso ad una rimodulazione dello stesso in sede esecutiva, ove non ancora interamente eseguito[30] - consentirebbe di evitare il doppio passaggio della previa declaratoria di incostituzionalità, seguita dal ricorso al giudice dell’esecuzione, potendo il giudice di legittimità, una volta riscontrata la sussistenza di un problema strutturale interno, investire direttamente il Giudice delle leggi ed ottenere, in tal modo, in caso di esito positivo dello scrutinio di costituzionalità, una soluzione immediatamente percorribile dai c.d. “fratelli minori”[31].
Può inoltre verificarsi che la violazione riscontrata dal decisum europeo abbia ad oggetto profili attinenti alla disciplina delle prove, come potrebbe accadere, ad es., nel caso dell'impiego di prove vietate ovvero di dichiarazioni determinanti rese nel corso delle indagini da persone che la difesa non ha mai potuto interrogare e in assenza di valide garanzie compensative del deficit dialettico[32]: in tali evenienze sembra doversi escludere la regressione del procedimento nello stato o nel grado in cui si è realizzata la violazione, essendo ciò vietato esplicitamente dall'art. 185, comma 4, cit. e dalla regola dettata nell'art. 191 cod. proc. pen.[33].
Il giudice della revisione dovrebbe, di converso, espungere, ai sensi dell’art. 191 cit., le prove irrituali, disponendone la rinnovazione nel rispetto del contraddittorio, ovvero, senza giungere alla loro completa estromissione, modularne la valutazione in conformità al dictum europeo, nel caso in cui la Corte EDU abbia accertato l'iniquità del procedimento per l'impiego determinante di testimonianze unilaterali e in assenza di valide misure di bilanciamento: in tal caso, dunque, il giudice della revisione dovrebbe pronunciare la nuova decisione senza escludere necessariamente le prove unilaterali, ma valutandole in conformità alle indicazioni desumibili dalla sentenza della Corte europea, qualora il vizio che inficia la dinamica del procedimento probatorio risulti giustificato da un evento non imputabile all'autorità giudiziaria e compensato da solide garanzie procedimentali[34].
Entro tale prospettiva, l'utilizzo della testimonianza unilaterale dovrebbe essere subordinato allo svolgimento di un'attività istruttoria nel giudizio di merito che garantisca il contraddittorio con la sua fonte, ovvero all'introduzione di nuove prove che ne riducano il peso probatorio privandola del carattere di "prova unica o determinante", o quanto meno - e sempre che l'assenza nel dibattimento sia imprevedibile - costituiscano adeguate garanzie compensative a fronte del mancato inserimento della fonte di prova determinante all'interno del circuito dialettico[35].
Analoghe considerazioni potrebbero svolgersi con riferimento all’ipotesi dei testimoni assenti e alla riconosciuta esigenza di supportare le dichiarazioni oggettivamente irripetibili in dibattimento con adeguati elementi di riscontro, poiché il ricorso alla corroboration[36] potrebbe rivelarsi inidoneo a surrogare la condotta negligente dell'autorità che non abbia compiuto tutti gli sforzi necessari per garantire la comparizione in dibattimento del testimone determinante[37].
La disposizione contemplata nell’ultimo comma dell’art. 628-bis prevede, infine, che l’istituto trovi applicazione – in luogo della rescissione del giudicato – anche nell’ipotesi in cui la Corte di Strasburgo abbia disposto la rinnovazione del processo per avere accertato la violazione del diritto a partecipare personalmente al procedimento: in tal caso, come osservato[38], non sembra esservi spazio per un’autonoma valutazione da parte della Corte in merito all’incidenza causale dell’assenza involontaria dell’imputato.
9. Gli effetti della riapertura.
Una delle conseguenze rilevanti della riapertura del processo è legata alla “riassunzione” della qualità di imputato, che viene disciplinata con apposita modifica della disposizione di cui all’art. 60, comma 3, cod. proc. pen.; analogo effetto “riassuntivo”, peraltro, è previsto nell’ipotesi della riapertura del processo a seguito della rescissione del giudicato.
Ulteriori conseguenze della riapertura del processo sono legate alla ripresa dei termini di prescrizione del reato e all'improcedibilità dell'azione penale:
a) se la Corte di cassazione dispone la riapertura del processo davanti al giudice di primo grado, la prescrizione riprenderà il suo corso dal momento della pronuncia della Corte;
b) se, invece, la riapertura del processo è disposta davanti alla Corte di appello, fermo restando quanto previsto dall'art. 624 cod. proc. pen. (ossia, la formazione dell’eventuale giudicato parziale), si osservano le disposizioni in materia di improcedibilità per superamento dei termini del giudizio di impugnazione (commi 1, 4, 5, 6 e 7 dell'art. 344-bis cod. proc. pen.) e il termine di durata massima del processo decorre dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine di cui all'art. 128 cod. proc. pen. (ossia del termine di cinque giorni per il deposito del provvedimento).
Nel caso della prescrizione, dunque, la pronuncia di riapertura del processo viene sostanzialmente assimilata all’annullamento rilevante agli effetti di cui all’art. 161-bis cod. pen.
Altrettanto evidente il meccanismo di assimilazione previsto dal legislatore ai fini dell’improcedibilità, poiché nell’ipotesi della riapertura del processo innanzi alla Corte di appello, come si è visto, viene dettata una disposizione corrispondente a quella prevista dall’art. 344-bis, comma 8, cod. proc. pen., con la sola differenza che il termine di durata massima del processo decorre dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine di cui all’art. 128 cit.[39].
10. La disciplina intertemporale.
La disciplina normativa sinora illustrata è quella prevista dal legislatore nella sua proiezione temporale ordinaria, ossia rispetto alle decisioni della Corte EDU divenute definitive nella vigenza del d.lgs. n. 150 del 2022, quindi a partire dalla data del 30 dicembre 2022.
Il legislatore delegato, peraltro, vi ha opportunamente affiancato una disciplina transitoria, valevole per le decisioni divenute definitive anteriormente all’entrata in vigore del citato decreto legislativo, quindi sino alla data del 29 dicembre 2022.
Al riguardo, infatti, la disposizione di cui all’art. 91 d.lgs. cit. regola i profili di diritto transitorio, stabilendo che:
a) nelle ipotesi in cui, in epoca anteriore all’entrata in vigore del decreto, dunque fino al 29 dicembre 2022, sia divenuta definitiva la decisione con cui la Corte EDU ha accertato la violazione, ovvero abbia disposto la cancellazione dal ruolo del ricorso a seguito del riconoscimento unilaterale della violazione da parte dello Stato, il termine di novanta giorni per la proposizione del nuovo rimedio decorre dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto, quindi dal 31 dicembre 2022;
b) per i reati commessi in data anteriore al 1° gennaio 2020 - ovvero prima della legge n. 3 del 2019, che ha introdotto il cd. “blocco” della prescrizione al momento della pronuncia della sentenza di primo grado -, la prescrizione riprende il suo corso in ogni caso in cui la Corte di cassazione disponga la riapertura del processo, e non solo allorquando quest’ultima venga disposta innanzi al giudice di primo grado[40].
11. I rapporti con gli altri rimedi impugnatori post iudicatum.
Nell’ambito dei nuovi rimedi post iudicatum l’accertamento della lesione delle garanzie partecipative ai sensi dell’art. 6 CEDU, come si è visto, è rimediabile attraverso il ricorso al nuovo strumento di impugnazione in esame, che consente la riapertura del processo interno assicurando alla vittima una piena conformazione al giudicato europeo con l’annullamento della sentenza e il conseguente rinvio al giudice dinanzi al quale si è verificata la violazione.
All’istituto rescissorio previsto dall’art. 629-bis cod. proc. pen., invece, può farsi ricorso per le sole lesioni delle garanzie partecipative accertate nel corso dell’iter processuale nazionale con riferimento alla dichiarazione di assenza emessa in mancanza dei presupposti previsti dall’art. 420-bis cod. proc. pen., tenendo conto della sua natura di rimedio restitutorio interno, alla luce della clausola di esclusione espressamente prevista nel primo comma della richiamata disposizione rispetto ai casi disciplinati dall’art. 628-bis cit.
Appaiono piuttosto limitate, all’interno del nuovo strumento riparatorio, le possibilità di ricorso all’incidente di esecuzione di cui all’art. 670 cit., poiché in caso di lesione di una garanzia convenzionale che si rifletta sull’an della sentenza di condanna interna o sulle modalità di determinazione del trattamento sanzionatorio, la stessa Corte di cassazione, ove consentito, potrebbe direttamente procedere alla eliminazione del vulnus con una sentenza di annullamento senza rinvio della decisione censurata dalla Corte EDU.
Al nuovo rimedio, azionabile nella fase post iudicatum, si aggiunge un altro importante istituto, cui la stessa Corte di legittimità può fare ricorso nella prospettiva di una preventiva riduzione delle possibili aree di conflitto con il sistema delle garanzie convenzionali, qualora emerga la possibilità di attribuire al fatto una diversa definizione giuridica.
A seguito delle modifiche apportate alla forma procedimentale prevista dall’art. 611 cod. proc. pen., il legislatore delegato ha infatti previsto, in ottemperanza all’ultima parte dell’art. 1, comma 13, lett. m), della legge delega, un nuovo comma 1-sexies, ove si introduce un’ulteriore eccezione alla regola generale del rito cartolare nel giudizio di legittimità, operante nel caso in cui la Corte di cassazione ritenga di dare al fatto una definizione giuridica diversa: evenienza, questa, in cui il giudice della nomofilachia sarà tenuto a disporre con ordinanza il rinvio per la trattazione del ricorso in udienza pubblica o in camera di consiglio partecipata.
La disposizione mira ad evitare la possibilità di riqualificazioni “a sorpresa” nel giudizio di cassazione, assicurando il rispetto sia della giurisprudenza convenzionale (a partire dalla sentenza della Corte EDU nel caso Drassich c. Italia), sia di quella nazionale formatasi in materia[41].
12. I limiti di un successivo controllo “esterno” sull’esito del procedimento interno di revisione delle condanne ritenute “inique” dalla Corte EDU.
Sotto altro, ma connesso profilo, è opportuno richiamare le riflessioni sviluppate dalla Corte EDU sul ruolo che la Convenzione europea attribuisce al Comitato dei Ministri in relazione all’esecuzione delle sentenze emesse dalle autorità nazionali[42], poiché le misure intraprese da uno Stato parte per porre rimedio alla violazione accertata dalla Corte di Strasburgo possono a loro volta sollevare nuove questioni non assorbite dal precedente giudizio: ciò sta a significare che, in linea generale, la Corte si ritiene legittimata ad esaminare una doglianza relativa ad una nuova violazione della Convenzione commessa nell’ambito di un procedimento di riesame svolto a livello nazionale per dare attuazione ad una delle sue sentenze[43].
Riguardo alla possibile applicazione dei principii stabiliti in tema di equo processo dall’art. 6, par. 1, CEDU al procedimento di revisione delle sentenze interne censurate in sede europea, la Corte ha affermato, nella su menzionata decisione, il principio secondo cui, non potendosi essa trasformare in una sorta di “quarto grado di giudizio”, deve escludersi la possibilità di sindacare le scelte assunte dai giudici interni con riferimento al su indicato parametro convenzionale, a meno che le stesse non risultino arbitrarie o manifestamente irragionevoli: solo nel caso in cui le motivazioni addotte dall’organo giurisdizionale nazionale siano completamente mancanti, o comunque frutto di automatismi decisionali o di stereotipi, può effettivamente riconoscersi l’esistenza di un vero e proprio diniego di giustizia.
Nel valutare le motivazioni addotte dalla Suprema Corte portoghese per giustificare il suo provvedimento di diniego, la Corte EDU ha pertanto osservato che la riapertura dei processi, pur essendo uno strumento spesso idoneo a garantire la rimozione della violazione convenzionale oggetto del suo accertamento, non è comunque un rimedio obbligato per lo Stato condannato, sicché la decisione assunta nel caso di specie, pur fondandosi su un’autonoma e personale interpretazione della sentenza europea di condanna, non poteva solo per questa ragione ritenersi arbitraria, apparendo al contrario compatibile con il margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati parti in relazione all’esecuzione delle pronunce di Strasburgo.
Una soluzione, questa, particolarmente problematica, perché assunta da una ristretta maggioranza di giudici e, da un lato, ritenuta, a contrario, eccessivamente “morbida” e minimalista in una delle opinioni dissenzienti, dall’altro lato, decisamente criticata da un nutrito gruppo di altre opinioni dissenzienti, secondo cui, in base all’art. 46 CEDU, la Corte europea deve invece ritenersi priva di qualsiasi competenza nel campo dell’esecuzione delle sue sentenze: una preclusione, questa, che coprirebbe anche i procedimenti di revisione conseguenti all’accertamento di una violazione della Convenzione, non potendo essi integrare un “nuovo fatto rilevante” idoneo a giustificare la presa in carico di un nuovo giudizio a opera della Corte.
Secondo tali opinioni, pertanto, la Grande Camera avrebbe dovuto declinare la propria giurisdizione in favore del Comitato dei Ministri.
Allo stato, dunque, deve ritenersi che, sebbene l'art. 46 CEDU individui nel Comitato dei Ministri il titolare del potere di verificare autonomamente l'esecuzione delle sentenze della Corte EDU, la proposizione di un nuovo ricorso dinanzi a tale Corte non è impedita nel caso in cui si lamenti l'iniquità convenzionale determinata proprio dal rifiuto del giudice nazionale di riaprire il procedimento: l'art. 6 CEDU, pertanto, verrebbe in rilievo anche dopo il sopraggiungere del nuovo giudicato e, quindi, a favore di un soggetto tecnicamente non più definibile come accusato, a condizione che l'intervento del giudice nazionale sulla richiesta di ammissibilità della revisione implichi comunque una nuova valutazione di merito sulla fondatezza dell'accusa[44].
L’incidenza di tali affermazioni, peraltro, viene limitata dalla stessa Corte europea nell’escludere, come si è visto, la violazione dell'equità processuale allorché il diniego di riaprire il procedimento non possa considerarsi arbitrario, ma rientri nel margine di apprezzamento concesso ai giudici nazionali, in ragione del principio di sussidiarietà sotteso alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Un discrimen, quello sinora tracciato dalla Corte EDU, che appare piuttosto precario e di incerta interpretazione con riferimento alla trattazione dei casi concreti, ove si consideri che la competenza della Corte viene radicata sulla base argomentativa di una “new application” involgente nuovi profili o aspetti non emersi nell’iniziale giudizio.
Che la questione sia tuttora aperta e ancora da approfondire lo dimostra non solo l’acceso dibattito verificatosi all’interno della Corte EDU, ma anche la posizione espressa dalla nostra Corte costituzionale (sent. n. 93 del 27 aprile 2018), che, nel richiamare la decisione della Grande Camera, ha rigettato per infondatezza una questione di legittimità volta ad estendere la revocazione ex artt. 395 e 396 c.p.c. nei casi in cui questa si rendesse necessaria a garantire il riesame nel merito della sentenza civile emessa a seguito di un processo ritenuto iniquo dalla Corte di Strasburgo, affermando che «la riapertura dei processi interni, finanche penali, a seguito di sopravvenute sentenze della Corte EDU di accertamento della violazione di diritti convenzionali, non è un diritto assicurato dalla Convenzione».
13. La rinnovata centralità del ruolo nomofilattico affidato alla Corte di cassazione: problemi e prospettive.
La centralità del ruolo nomofilattico affidato alla Corte di cassazione, vero e proprio baricentro istituzionale del nuovo sistema unitario di rimedi post iudicatum, ne esalta l’attività di conformazione dell’ordinamento interno al fine di individuare e garantire l’osservanza della forma di tutela più adeguata dei diritti fondamentali, nei casi che hanno costituito oggetto di una violazione accertata dalla Corte europea.
Al tempo stesso, però, tale modello di controllo “polivalente”, accentrato in capo al supremo organo di nomofilachia interna, rischia di condizionarne l’esercizio della funzione interpretativa generale per l’esigenza di calarsi direttamente nella prospettiva di una garanzia sistematica della sostanza dei diritti fondamentali in concreto interessati dal vulnus convenzionale, senza la possibilità di attivare un canale dialogico in grado di evitare asimmetrie nella formulazione dei principii rispettivamente affermati nel giudizio europeo e in quello di legittimità chiamato a regolarne le forme e modalità di esecuzione nell’ordinamento interno.
Proprio perché rivolta alla disamina del caso concreto ed immersa, alla luce dei principii di equità e proporzionalità, nella verifica delle caratteristiche della vicenda processuale nel suo complesso, la Corte di Strasburgo può essere adita solo dopo l’esaurimento di tutti i controlli interni, occupandosi di casi già definiti in ambito nazionale, perché coperti dal giudicato.
Un insieme di fattori, questi, che dovrebbero agevolare sia l’individuazione di vicende simili, sia, di conseguenza, la costruzione di modelli di decisione uniformi e vincolanti per i casi futuri, sulla base di una solida e coerente ratio decidendi: un prerequisito strutturale ed argomentativo che, tuttavia, nelle pronunce della Corte risulta a volte carente. Nonostante il suo duplice ruolo di giudice del caso concreto e di interprete ufficiale della Convenzione, è spesso difficile isolare nelle sue decisioni le regole dai fatti e “…comprendere quanto esse si presentino davvero con una valenza generale e quanto siano invece il precipitato di scelte modellate sulle specificità fattuali di una particolare vicenda giudiziaria”[45].
Sotto altro, ma connesso profilo, si è rilevato che se il principio del precedente, inteso come giurisprudenza “costante”, opera certamente nella giurisprudenza della Corte EDU, in funzione sia della legittimazione della Corte sia della creazione di un acquis in materia di diritti umani dal quale in linea di principio non si può retrocedere, è pur vero che si è di fronte ad un concetto fluido in relazione alle molteplici particolarità del sistema convenzionale, della struttura e delle prassi giurisprudenziali della Corte[46].
La Corte di Strasburgo, infatti, non agisce come strumento di uniformazione del diritto interno degli Stati contraenti, che conservano le loro caratteristiche di fondo e di procedura nel quadro dei principii della sussidiarietà e del margine di apprezzamento, ma opera quale strumento di armonizzazione minima del diritto degli Stati contraenti che hanno «un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto», come affermato nel preambolo alla Convenzione: il giudice europeo non è un organo che si colloca al vertice di un sistema giudiziario organizzato in modo gerarchico, sicché è più corretto parlare di precedente solo in senso orizzontale, salvo che nella relazione tra Camera e Grande Camera, che è di tipo verticale.
La Corte EDU, infatti, adotta una “nozione autonoma” di precedente, come è dimostrato dal fatto che nelle sue decisioni fa ricorso ai “precedenti” per ricordare le regole d’interpretazione delle norme convenzionali prima dell’analisi relativa alle similarità fattuali, ovvero anche a prescindere da tale analisi: in tal modo, non risulta chiaramente affermato o non viene affatto esplicitato il nesso che lega il precedente al nuovo caso sottoposto all’esame del giudice europeo, il che è particolarmente evidente quando i precedenti citati fanno riferimento a contesti fattuali e normativi completamente diversi dalla fattispecie concreta che costituisce oggetto del thema decidendum.
Entro tale prospettiva, è evidente che un ulteriore incremento delle prerogative della Corte di legittimità, funzionale, al contempo, ad uno sfoltimento del contenzioso pendente innanzi alla Corte EDU, potrebbe derivare dalla ratifica del Protocollo addizionale n. 16 alla Convenzione europea, che prevede, come è noto, un meccanismo di consultazione preventiva affidato alle più alte giurisdizioni nazionali, al fine di richiedere “pareri” facoltativi e non vincolanti «su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli[47].
L’inesistenza di una gerarchia tra le fonti e la configurazione dei rapporti interordinamentali in termini di equiordinazione o di parità orizzontale impone la costante ricerca di ragionevoli prospettive di compatibilità e giustifica la necessità del dialogo fra le Corti, nel rispetto del principio di leale collaborazione e cooperazione, in vista del comune fine di concretizzazione dei diritti fondamentali e di garanzia della rule of law[48].
Acquisisce, in tal modo, una centrale rilevanza il ricorso a prassi di collaborazione e coordinamento che, oltre alla ricerca ex post di soluzioni virtuose, consentano di scongiurare ex ante le aporie del sistema, prevenendo il rischio di eventuali contrasti ermeneutici nel confronto fra le Corti supreme e le giurisdizioni sovranazionali, in modo da comporre le antinomie e salvaguardare, nel contempo, l’autonomia dei protagonisti dell’orizzonte interpretativo[49].
Sotto altro profilo, tuttavia, va sottolineata la natura non vincolante del parere consultivo, che fa salva l’autonomia decisionale del giudice nazionale, ferma restando la facoltà della parte interessata di adire successivamente la Corte EDU in sede giurisdizionale. S’intravede, nella previsione della richiesta di un parere consultivo, non solo la possibilità di una funzione deflattiva della mole dei ricorsi proposti dinanzi alla Corte di Strasburgo, ma anche, e soprattutto, l’agevolazione dei compiti di armonizzazione dei giudicati nazionali (siano essi di natura costituzionale o di legittimità), con la conseguente istituzionalizzazione di un canale privilegiato per il dialogo fra le Corti, per certi versi analogo al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
Appare probabile, entro tale prospettiva, la conseguenza di un avvicinamento della fisionomia della Corte EDU e del suo ruolo istituzionale a quelli di una Corte costituzionale, con una decisa valorizzazione della centralità del giudice nazionale, e in particolare di quello di ultima istanza, chiamato a scegliere discrezionalmente se attivare o meno la relativa procedura, completando, anche attraverso la via alternativa di un’eventuale interpretazione conforme alle norme convenzionali, la sua connaturale funzione di giudice della nomofilachia[50].
Nel rapporto che deve instaurarsi tra le Corti supreme e la Corte EDU è rinvenibile dunque “lo spirito di un dialogo decisorio cooperativo”, dove l’intervento in fase consultiva della Corte europea “non chiude la partita dell’interpretazione” ma contribuisce alla sua evoluzione, prospettando nuclei argomentativi ai quali il giudice nazionale, se del caso, potrà contrapporne altri, patrocinando una diversa possibile opzione esegetica che potrebbe in seguito assumere un rilievo decisivo qualora si pervenisse alla fase del giudizio dinanzi alla Corte EDU[51].
Il dialogo, peraltro, deve essere connotato in senso bidirezionale, mirando a realizzare un’opera comune, animata dalla buona fede e dal rispetto della prospettiva altrui. La costruzione della giurisprudenza europea, infatti, “necessita dei mattoni che i giudici nazionali le offrono a fondamenta dell’edificio ed esige ascolto reciproco”[52].
È dunque necessario che la Corte di cassazione venga coinvolta sia in via preventiva, quale "Alta giurisdizione" che formula richieste di parere consultivo alla Corte EDU, sia ex post quale giudice dell'esecuzione delle condanne emesse da quest'ultima: dalla “sinergia che deriverà dalle due nuove competenze funzionali della Suprema Corte, che in concreto saranno innescate l'una dal ricorso individuale alla Corte europea, se vittorioso, l'altra dalla richiesta di parere alla Corte stessa”[53], dipenderà in larga parte il buon funzionamento e, in definitiva, il successo del nuovo istituto previsto dal legislatore con l’introduzione dell’art. 628-bis cit.
[1] R.M. GERACI, Un’attesa lunga vent’anni: il ricorso straordinario per l’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo, in Proc. pen. e giust., 2022, n. 1, p. 189
[2] Cfr. la Relazione dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione, n. 96, 6 ottobre 2022, p. 24 ss.
[3] Al riguardo v., ad es., Corte EDU, 31 ottobre 1995, Papamichalopoulos c. Grecia, n. 14556/89; Corte EDU, 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta c. Italia, nn. 9221/98 e 41963/98; Corte EDU, 23 gennaio 2001, Brumarescu c. Romania, n. 28342/95; Corte EDU, GC, 8 aprile 2004, Assanidzé c. Georgia, n. 71503/01; Corte EDU, GC, 12 maggio 2005, Oçalan c. Turchia, n. 46221/99; Corte EDU, GC, 1° marzo 2006, Sejdovic c. Italia, n. 56581/00; Corte EDU, GC, 21 ottobre 2013, Del Río Prada c. Spagna, n. 42750/09.
[4] In linea generale, anche per gli opportuni riferimenti bibliografici, v. A. DI STASI, Il sistema convenzionale di tutela dei diritti dell’uomo: profili introduttivi, in AA.VV., CEDU e Ordinamento italiano (2010-2015), cura di A. DI STASI, Cedam, 2016, p. 59 ss.; A. BULTRINI, La questione (cruciale) dell’attuazione delle sentenze della Corte nella prospettiva del futuro del sistema convenzionale, in AA.VV., La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’ordinamento italiano. Problematiche attuali e prospettive per il futuro, a cura di S. SONELLI, Giappichelli, 2015, p. 119 ss.; G. CALAFIORE, Obbligo di esecuzione delle sentenze della Corte dei diritti dell’uomo versus giudicato penale: il discrimen fra violazioni procedurali e sostanziali, in Studi sull’integrazione europea, 2018, p. 715 ss.; G. GRASSO, F. GIUFFRIDA, Gli effetti della giurisprudenza della Corte EDU sull’ordinamento italiano: prospettive di diritto penale sostanziale, in G. GRASSO, A.M. MAUGERI, R. SICURELLA (a cura di), Tra diritti fondamentali e principi generali della materia penale. La crescente influenza della giurisprudenza delle Corti europee sull’ordinamento penale italiano, Pisa, 2020, p. 261 ss.; R. KOSTORIS, Diritto europeo e giustizia penale, in AA.VV., Manuale di procedura penale europea, Giuffrè, 2022, p. 66 ss.
[5] Sul tema v. A. CANNONE, Violazione dei diritti umani derivanti da problemi sistemici o strutturali e Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, Cacucci, 2018, p. 35 ss.
[6] Su tali profili v. Corte EDU, GC, Moreira Ferreira c. Portogallo, 11 luglio 2017, (n. 2), n. 19867/12; Corte EDU, GC, Guòmundur Andri Astraòsson c. Islanda, 1° dicembre 2020; M.S. MORI, Da un reato bagatellare la sfida all'O.K. Corral sull'esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo, in www.giurisprudenzapenale.com., 2017; L. PARLATO, Verso la revisione europea 2.0., in AA.VV. Riforma Cartabia e rito penale. La Legge Delega tra impegni europei e scelte valoriali, a cura di A. MARANDOLA, Cedam, 2022, p. 259 ss.
[7] Il testo della Raccomandazione si trova tradotto in italiano in Dir. pen. proc., 2000, p. 391 ss.
[8] Sez. 1, n. 50919 del 13/07/2018, Frascati, Rv. 274878.
[9] Sez. 5, n. 16226 del 04/02/2022, Frascati, Rv. 283395.
[10] Sez. U, n. 8544 del 24/10/2019, dep. 2020, Genco, Rv. 278054.
[11] R.M. GERACI, Sentenze della Corte E.D.U. e revisione del processo penale, I. Dall’autarchia giudiziaria al rimedio straordinario, Dike, Roma, 2012, p. 85 ss.; B. LAVARINI, Il sistema dei rimedi post-iudicatum in adeguamento alle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, Torino, 2019, p. 37 ss.
[12] Corte EDU, GC, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia; Corte EDU, 1° marzo 2006, Sejdovic c. Italia; Corte EDU, 13 luglio 2000, Scozzari c. Italia.
[13] Cfr. la Risoluzione del Comitato dei Ministri nel caso Lucà c. Italia, n. 86/2005, adottata il 12 ottobre 2005, nonché Corte EDU, GC, 1° marzo 2006, Sejdovic c. Italia.
[14] Su tali profili critici della legge delega v. R.M. GERACI, Un’attesa lunga vent’anni: il ricorso straordinario per l’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo, cit., p. 190 ss.
[15] V. L. PARLATO, cit., p. 275; A. MARANDOLA, Reati violenti e Corte europea dei diritti dell’'uomo: sancito il diritto alla vita e il "diritto alle indagini ", in www.sistemapenale.it., 22 settembre 2020. In linea generale, sul tema, v. l’ampia analisi di A. DI STASI, Il diritto alla vita e all’integrità della persona con particolare riferimento alla violenza domestica (artt. 2 e 3 CEDU), in AA.VV., CEDU e Ordinamento italiano (2016-2020), cura di A. DI STASI, Cedam, 2020, p. 1 ss.
[16] R. CASIRAGHI, La revisione, in Trattato di procedura penale, a cura di G. UBERTIS e G. P. VOENA, Giuffrè, 2020, p. 291.
[17] R. BRICCHETTI, Prime riflessioni sulla riforma Cartabia: ricorso per cassazione e impugnazioni straordinarie in Il Penalista, 18 novembre 2022, p. 4 ss.
[18] Sez. 1, n. 35873 del 27/11/2020, Favara, Rv. 280096.
[19] Sez. 1, n. 41307 del 06/05/2015, Palau, Rv. 264955.
[20] M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della riforma Cartabia (profili processuali), in Sistema penale, 2022, p. 84 ss.
[21] R. M. GERACI, cit., p. 196.
[22] L. PARLATO, cit., p. 265.
[23] Sul punto v. G. ESPOSITO, Verso un celere riconoscimento del dictum della Corte EDU, In Arch. pen., 2022, n. 3, p. 27.
[24] R.M. GERACI, Un’attesa lunga vent’anni: il ricorso straordinario per l’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo, cit., p. 193.
[25] R.M. GERACI, op. ult. cit., p. 193.
[26] R. CASIRAGHI, La revisione, in Trattato di procedura penale, XL, a cura di G. UBERTIS e G. P. VOENA, Giuffrè, 2020, p. 296 ss.
[27] R. KOSTORIS, La revisione del giudicato iniquo e i rapporti tra violazioni convenzionali e invalidità processuali secondo le regole interne, in Leg. pen., 2011, p. 479, ss.
[28] Sez. U, n. 17050 del 11/04/2006, Maddaloni, Rv. 233729.
[29] Sez. 6, n. 27383 del 06/06/2022, Rachele, Rv. 283493.
[30] Sez. U, 29/05/2014, n. 42858, Gatto.
[31] R.M. GERACI, cit., p. 193.
[32] Corte EDU, GC, 15/12/2015, Schatschaschwili c. Germania, in Cass. pen., 2016, p. 2626, con nota di R. CASIRAGHI.
[33] G. UBERTIS, La revisione successiva a condanne della Corte di Strasburgo, in Argomenti di procedura penale, Giuffrè, 2016, p. 20.
[34] R. CASIRAGHI, cit., p. 295.
[35] Corte EDU, GC, 15/12/2015, Schatschaschwili c. Germania, cit.; Corte EDU, GC, 15/12/2011, Al Khawaja e Tahery c. Regno Unito, par. 144.
[36] Sez. U, 25/11/2010, D.F., in Cass. pen., 2012, p. 858.
[37] R. CASIRAGHI, cit., p. 296; Corte EDU, 12/10/2017, Cafagna C. Italia, par. 45 ss.
[38] M. GIALUZ, cit., p. 84 ss.
[39] Cfr. la Relazione dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione, n. 68/22, 7 novembre 2022, in www.cortedicassazione.it, p. 22 ss.
[40] Relazione dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione, n. 68/22, cit., p. 22 ss.
[41] Cfr. la Relazione di accompagnamento, p. 339.
[42] Corte EDU, GC, 11 luglio 2017, Moreira Ferreira c. Portogallo (n. 2), cit.
[43] Su tali questioni v. S. BERNARDI, La Grande Camera di Strasburgo sulle competenze della Corte in materia di esecuzione delle sentenze europee da parte degli Stati: una scelta di self restraint?, in www.penale contemporaneo.it, 10 novembre 2017.
[44] Corte EDU, Moreira Ferreira C. Portogallo, cit., parr. 60-67.
[45] R. KOSTORIS, Per una «grammatica» minima del giudizio di equità processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 1678 ss., il quale rileva come «l’entrata in vigore del Prot. n. 16 alla Conv. eur. dir. uomo il 1˚ agosto 2018, che prevede la possibilità per i giudici nazionali di presentare un interpello preventivo alla Corte europea per ottenere un parere consultivo sull’interpretazione da dare a una norma CEDU il cui impiego sia rilevante per la decisione di un caso giudiziario pendente presso di loro, potrebbe forse contribuire ad allontanare in parte la Corte dal suo ruolo di giudice dei casi concreti, potenziandone il ruolo nomofilattico e inducendola conseguentemente ad attribuire maggiore rilievo alla trama argomentativa delle sue interpretazioni, lontano dalla contaminazione con i fatti».
[46] Cfr. sul punto i rilievi di M.G. CIVININI, Il valore del precedente nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in F. BUFFA, M.G. CIVININI (a cura di), La Corte di Strasburgo, Gli Speciali di Questione Giustizia, 2019, n. 4, p. 128 ss.
[47] R. M. GERACI, cit., p. 198.
[48] Sul tema, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, sia consentito il riferimento a G. DE AMICIS, Corti europee e giudici nazionali nel prisma della tutela dei diritti fondamentali, in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies, 2022, n. 1, p. 5 ss.
[49] G. CANZIO, Dire il diritto nel XXI secolo, Giuffrè, 2022, p. 355 ss.
[50] A. RANDAZZO, La tutela dei diritti fondamentali tra CEDU e Costituzione, Giuffrè, 2018, p. 334.
[51] Su tali profili problematici v. le considerazioni espresse da G. LATTANZI, Dialogo tra le Corti e il caso Taricco, in R. CHENAL, I. A. MOTOC, L. A. SICILIANOS, R. SPANO (eds.), Intersecting Views on National and International Human Rights Protection: Liber Amicorum Guido Raimondi, Wolf Legal Pubns, 2019, p. 417 ss.
[52] G. LATTANZI, cit., p. 420 ss.
[53] L. PARLATO, cit., p. 269.
Domenica 5 febbraio l’Associazione Nazionale Magistrati ha approvato all’unanimità una mozione sul disegno di legge governativo sulla separazione delle carriere.
Si tratta di un documento importante che dà voce alla preoccupazione dell’intera magistratura sulle intenzioni di modifica dell’assetto costituzionale della separazione dei poteri dello Stato in nome di un paventato timore di squilibrio tra le parti del processo che non ha alcuna rispondenza nella realtà dei fatti.
Giustizia Insieme condivide integralmente il contenuto della mozione e ritiene necessaria la pubblicazione della stessa per far propri i timori e il disagio ivi espressi e la necessità di difendere le conquiste di civiltà faticosamente acquisite e sancite dalla nostra Carta costituzionale e di cui l’unicità della giurisdizione e la separazione dei poteri costituiscono architravi irrinunciabili.
La pubblicazione della mozione segue il solco degli articoli già pubblicati su questo tema nelle settimane precedenti (Inaugurazione dell’Anno giudiziario 2023: l’intervento del Procuratore generale Luigi Salvato, Separazione delle carriere a Costituzione invariata. Problemi applicativi dell’art. 12 della legge n. 71 del 2022 di Pasquale Serrao d’Aquino, La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum di Paola Filippi) e costituisce occasione per annunciare la prossima pubblicazione di una serie di approfondimenti sulla figura del Pubblico Ministero, in lavorazione.
Mozione sul d.d.l. costituzionale in materia di separazione delle carriere
Negli ultimi mesi si sono intensificati interventi e anche proposte di riforma per dare attuazione ad un progetto risalente che minerebbe alle fondamenta l’assetto costituzionale della Magistratura Italiana.
La Commissione Affari Costituzionali della Camera ha messo in calendario, dal 2 febbraio 2023, la discussione una proposta di legge che chiede di attuare la definitiva separazione delle carriere di pubblici ministeri e giudici.
La proposta normativa si muove su alcune direttrici di fondo che destano profondo allarme: oltre alla separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura requirente, la introduzione di distinti organi di autogoverno, che peraltro non vedranno più al loro interno la prevalenza numerica dei componenti togati, voluta dalla Costituzione proprio per assicurare il giusto equilibrio tra poteri e quindi l’autonomia della Magistratura.
Ancora più preoccupante la progettata abolizione dell’art. 107 comma 3 della Costituzione che, nel prevedere la distinzione dei magistrati solo per funzioni, ne rappresenta la massima garanzia di indipendenza, impedendo derive verticistiche all’interno degli uffici giudiziari.
Una rigida separazione delle carriere porterà ad un pubblico ministero sempre più lontano dalla cultura della giurisdizione, per divenire un "avvocato dell'accusa" pericolosamente piegato ai desiderata del potere politico.
Non è necessario spendere argomenti per confutare il presupposto che il giudice sia “culturalmente adesivo” alla prospettazione del pubblico ministero, essendo “collega”.
È la realtà dei fatti che smentisce l’assunto, perché nel 48% dei giudizi penali di primo grado l’esito è di assoluzione, il 45% di condanna, il resto ha esito misto.
E chi insiste a sostenere che la separazione è soluzione ai problemi della giustizia dimentica, evidentemente, che dal 2006 la media dei trasferimenti da una funzione all’altra è di 50 magistrati all’anno, e solo 21 nell’anno appena terminato.
Il pubblico ministero disegnato dalla riforma, quindi, rischia di allontanarsi dal ruolo di primo tutore delle garanzie individuali e dei diritti costituzionali
Non a caso, il progetto di legge interviene anche sull’obbligatorietà dell’azione penale che verrebbe esercitata esclusivamente «nei casi e nei modi previsti dalla legge», con il rischio di ledere il principio di uguaglianza dei cittadini nelle scelte di esercizio dell’azione penale.
La nostra Costituzione ha voluto realizzare una magistratura pienamente autonoma e indipendente da ogni altro potere. Oggi la prima garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia della Magistratura è data dalla forte cultura comune che unisce, e deve sempre unire, i giudici e pubblici ministeri, costruendo in ogni magistrato una precisa identità radicata nel ruolo di tutela dei diritti fondamentali dei cittadini contro ogni arbitrio, ogni violenza, ogni forma di criminalità.
La terzietà del giudice, fondamentale come condizione per la sua imparzialità, va attuata e rafforzata all’interno del processo, con una piena applicazione dei principi fissati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e non certo con soluzioni che ci allontanano non solo dalla nostra tradizione giuridica, ma anche dalle linee di tendenza più significative presenti nel panorama europeo e internazionale.
Purtroppo, in Italia, già oggi a seguito degli interventi normativi verificatisi a partire dal 2006, sono pochissimi i passaggi da una funzione all’altra. Eppure, già nel 2000 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, che ha un’impronta fortemente garantista, aveva raccomandato a tutti i Paesi di “consentire di svolgere successivamente le due funzioni”, le quali richiedono “analoghe garanzie in termini di qualifiche, competenze e status”. Si era precisato che “tale disposizione costituisce anche un'ulteriore tutela per il pubblico ministero”. La prospettiva del Consiglio d’Europa merita di essere condivisa con convinzione proprio alla luce dell’esperienza italiana.
La comune cultura della giurisdizione, che attualmente impone una comune formazione - iniziale e permanente - del Giudice e del Pubblico Ministero, costituisce un argine potente contro ogni rischio di pericolose derive del Pubblico Ministero. Cambiare sarebbe in controtendenza con una lunga tradizione italiana, che è un importante modello di riferimento in ambito europeo.
L’ANM ritiene che l’appartenenza dei magistrati ad un unico corpo professionale, espressamente voluta dal Costituente, rappresenti una conquista da preservare, coltivare e valorizzare.
L’autonomia e l’indipendenza potranno dirsi effettive solo se assicurate anche ai magistrati del pubblico ministero che non possono diventare avvocati dell’accusa, preoccupati degli esiti favorevoli dei processi, prima che dell’esito di giustizia.
L’autonomia e l’indipendenza della magistratura sono garanzie poste a presidio delle libertà dei cittadini, certo non dei magistrati e, al contempo, limiti a possibili compressioni da parte delle contingenti maggioranze di governo.
Del resto la formazione di due CSM renderebbe abnorme il potere dei pubblici ministeri: ora sono 5 su 20 membri del CSM, con la riforma diventerebbero la totalità dei membri togati del consiglio dedicato. Una concentrazione di potere di questo genere non potrà che sfociare, prima o poi, nell’individuazione di un referente nel potere esecutivo, e l’inevitabile compressione nella tutela dei diritti dei cittadini, siano essi persone offese o imputati.
Questo esito non è desiderabile per i cittadini, non serve ad una efficiente repressione dei reati o alla tutela delle garanzie individuali e non ci sembra desiderabile neanche dall’Avvocatura e, comunque, da chi abbia a cuore i diritti costituzionali.
Regionalismo differenziato e permanenza della specialità*
di Fabrizio Tigano
Sommario: 1. Le origini e le attuali declinazioni del regionalismo in Italia - 2. L’attuazione del disegno costituzionale: alcune riflessioni - 3. Il rapporto tra regioni ed enti locali negli anni ’90; l’avvento della riforma costituzionale del 2001 - 4. La difficile attuazione del nuovo Titolo V nell’ambito dei perduranti divari Nord-Sud - 5. Alcuni problemi legati al processo di differenziazione - 6. Le proposte di attuazione dell’art. 116 c. 3 Cost. - 7. Il nuovo rapporto tra autonomia speciale e differenziata - 7.1. Le carenze del regime duale, tra istanze identitarie e funzionaliste - 7.2. La lacunosa disciplina del regionalismo differenziato - 7.3. Le prospettive della differenziazione - 8. La condizione di insularità come recupero della specialità - 9. Brevi considerazioni conclusive.
1. Le origini e le attuali declinazioni del regionalismo in Italia
È noto che il regionalismo italiano abbia attraversato diverse stagioni e che, anzi, sia stato costruito, parafrasando Giorgio Bocca, sulla scorta di un fil rouge che è rimasto carsicamente sotto traccia sin dall'unificazione e dal subito tramontare delle proposte federaliste che si sono ripetutamente affacciate - forse ancora oggi è così - senza produrre risultato.
L'unità e indivisibilità della Repubblica, accompagnate dal decentramento discendente centro-periferia - e poi, dopo il titolo V in senso ascendente - nella complessa e tutto sommato riuscita formulazione dell'art. 5 della Carta costituzionale, serba in sè la traccia, l'impronta di una condizione politico-territoriale - e poi anche economica - nella quale le regioni sono sempre esistite.
Il problema è sempre stato fare gli italiani, non perchè il senso di appartenenza, dolorosamente consolidatosi anche attraverso conflitti mondiali e guerre d'indipendenza, sia realmente mancato, ma perchè le divisioni territoriali, il retaggio comunale, i particolarismi e le particolarità reali dei territori hanno segnato l'accidentato percorso dell'autonomia nel suo complesso.
In questo contesto, la distanza tra Stato ed enti locali - chiaramente percepibile negli allegati A e B della legge sull'unificazione amministrativa, n. 2248 del 1865 - ha segnato anche la storia del Paese (si pensi a fenomeni come il banditismo ed il brigantaggio).
La creazione di un livello di governo intermedio che fosse in grado di colmare questa distanza, da cui era discesa una ulteriore compressione delle autonomie in epoca fascista, all'indomani del secondo conflitto mondiale costituiva, pertanto, una necessità avvertita trasversalmente ed indeclinabilmente.
La dialettica centro-periferia, all'indomani della scelta di dar corpo ad un ordinamento regionale, d'altro canto, ha aperto la strada ad una concezione della democrazia che fosse fondata dal basso, al di là del fatto che il principio di sussidiarietà troverà consacrazione nel testo costituzionale solo nel 2001, in esito alle c.d. "riforme Bassanini", il cui merito, fosse solo questo il loro portato, resta evidente.
2. L’attuazione del disegno costituzionale: alcune riflessioni
La vicenda regionale - come quella, connessa, dell'autonomia locale - ha seguito un percorso notoriamente accidentato.
Già in sede costituente è stata percepita la necessità di istituire, all'interno del genus regionale, speciesdiverse di autonomia, una differenziazione ante litteram o forse, più semplicemente, una prima differenziazione, di cui l'argomento del presente dibattito è - non si sa bene, se ultima - propaggine.
All'interno delle autonomie speciali regionali e di quella provinciale di Trento e Bolzano, tutte legate a ragioni storiche, politiche, amministrative ed economiche, si registrano tempi di attuazione e contenuti differenziati sui quali operare una reductio ad unum non era affatto semplice.
La Sicilia, in particolare, anche in ragione del fatto che la seconda guerra mondiale vide la sua conclusione reale ed effettiva nell'autunno del 1943 (a differenza delle regioni continentali, soprattutto di quelle più settentrionali, dove si consumarono gli ultimi drammatici momenti del regime, tanto da potersi considerare conclusa convenzionalmente il 25 aprile 1945), reclamò da subito - mutuando una espressione particolarmente cara ad Ignazio Marino - una forma di autonomia molto vicina alla secessione.
È, anzi, noto come nell'isola presero vita istanze di emancipazione dal potere centrale che, anticipando di gran lunga quanto avverrà a partire dagli anni '90 nel settentrione, si spinsero fino ad assumere il carattere di veri e propri movimenti secessionisti. A differenza dei moti di Bronte - come noto, inutilmente soppressi nel sangue da Nino Bixio - vi furono esperienze come la repubblica di Comiso, proclamata il 6 gennaio 1945, che si spinsero a chiedere l'indipendenza e la sovranità (il limite che la Corte costituzionale ha sempre posto anche alla più estrema delle autonomie speciali, tra cui la stessa Sicilia), forse anche la federazione agli Stati Uniti d'America.
Tanto basta per fare della Sicilia - in linea con un retaggio storico caratterizzato da diverse e sempre contrastate dominazioni - un unicum nel panorama delle autonomie speciali. Non a caso, lo statuto siciliano risale al 1946 e, al di là del suo "travaso" in legge costituzionale, non è mai stato realmente allineato alla sopravvenuta Carta costituzionale, costituendo, così, per mutuare una espressione cara a Salvatore Raimondi, privilegio e condanna del popolo siciliano.
Occorre aggiungere che, in generale, l'attuazione del disegno costituzionale regionale, così come preconizzato all'interno del Titolo V, non è stata più semplice, perchè a lungo fagocitata da una fase politica estremamente complessa, segnata dalla dialettica tra sinistra e partito popolare, risoltasi solo dopo che è apparso chiaro a tutti che i tempi per l'avvento delle prime alla guida del Governo non fossero ancora maturi.
Il disegno regionalista del 1948, inoltre, ha progressivamente mostrato la corda anche nella sua fase di attuazione: le Regioni ordinarie, tardivamente istituite, soprattutto nell’esercizio delle funzioni amministrative hanno finito per duplicare e persino mettersi in competizione con gli enti locali, cui ordinariamente era destinato, per il loro tramite, il decentramento preconizzato dall’art. 5 e declinato dall'art.118 della Carta costituzionale.
Si tratta di un tema assai delicato, frutto della – forse ineliminabile – politicizzazione dei centri di potere regionale, ma anche della burocratizzazione delle attività amministrative, mancando così di costituire quel necessario tassello di unitarietà dell’ordinamento che, e necessitate, doveva contemplare anche gli enti locali, la cui legge fondamentale, ex art. 128 Cost., è intervenuta solo nel 1990, cioè vent’anni dopo l’istituzione delle regioni ordinarie.
3. Il rapporto tra regioni ed enti locali negli anni ’90; l’avvento della riforma costituzionale del 2001
Gli elementi sommariamente ricordati hanno fatto sì che si delineasse - al di là della differenza tra gli statuti - un sistema a più velocità, scoordinato nella sua attuazione – come ebbe modo di rilevare già Calamandrei – ancorchè il disegno avesse una precisa (e condivisibile) logica.
Da un lato, l’istituzione delle regioni a statuto speciale è avvenuto “a singhiozzo” e non sempre in linea con la Carta costituzionale, segnando – come nel caso della Sicilia – addirittura ragioni di contrasto mai risolte; dall’altro lato, l’istituzione delle regioni a statuto ordinario – teoricamente più semplice – ha sofferto di ritardi legati a contingenze storico-politiche dissipatesi solo dopo la metà degli anni ’60; dall’altro lato ancora, gli enti locali, veri destinatari dei benefici dell’istituzione dell’ordinamento regionale, sono rimasti relegati – almeno fino all’avvento della legge n. 142 del 1990 (e forse anche dopo) – ad un ruolo marginale, non recuperando il gap già segnato dagli allegati a) e b) della legge n. 2248 del 1865 ed in fondo ribadito dal t.u. della metà degli anni ’30.
Le esigenze dei territori e dei cittadini sono così rimaste per lungo tempo sullo sfondo di un centralismo mai sopito, che a quello statale ha visto sommarsi quello regionale.
La “spinta” discendente dall’attuazione dell’art. 128 della Costituzione ha segnato, quasi per paradosso, il de profundis della medesima norma, nel senso che la tardiva attuazione dello schema originario posto dall’art. 5 e dal titolo V ha fatto sì che, una volta compiuto il quadro, questo, quasi come nel ritratto di Dorian Gray, mostrasse già tutti i segni del tempo.
Le riforme Bassanini, come noto, sono intervenute, soprattutto al fine di dar luogo, dopo la controversa esperienza degli anni ’70, ad un nuovo trasferimento organico di funzioni amministrative, fondato sui principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
Preso atto, però, della difficoltà di operare le riforme “a Costituzione invariata” e del coevo fallimento della Bicamerale D’Alema, pur a colpi di maggioranza, è stata, infine, varata la riforma del Titolo V con la legge costituzionale n.3 del 2001, laddove gli assetti originari sono stati certamente modificati, forse non sconvolti, a dire il vero (della legge n. 3/2001, infatti, esiste una duplice lettura: profondamente riformatrice e riformatrice ma fortemente ancorata a precedenti vocazioni centraliste).
La norma più “ad effetto” è, probabilmente, l’art. 114, che capovolge il regime delle competenze alla luce del principio di sussidiarietà, ponendo, in tesi, sullo stesso piano i diversi livelli di governo in funzione del principio di leale collaborazione, declinato sulla risposta più immediata ed efficace alle varie ed assai complesse realtà territoriali del Paese (tutti aspetti ancora oggi di piena attualità).
Le norme di più forte impatto sono gli articoli da 116 a 120, in quanto disegnano i tratti fondamentali del nuovo regionalismo – almeno, tendenzialmente cooperativo, sicuramente non competitivo nelle intenzioni – riconoscendo un ruolo di maggiore momento al già stanco assetto regionale ordinario, rimasto fagocitato dalla sua tardiva attuazione, dal difficile trasferimento delle risorse e delle competenze, dalle inefficienze di una burocrazia restia ad amministrare ponendosi al centro dei rapporti stato-enti locali. Anzi, il moderno disegno della legge 142 del 1990, dando fortissimo impulso allo sviluppo di Province e Comuni (si pensi, a titolo di esempio, all’elezione diretta dei Sindaci ed alle “primavere” comunali da essa germinata, ma non solo), ha finito per costituire il traino per attribuire nuova linfa alla stessa struttura regionale, ponendo in tratto di dubbio quel “regionalismo di uniformità” che proprio l’art. 116 c. 3 tende a scardinare, al di là delle nuove competenze legislative primarie e del superamento del principio del parallelismo in nome del principio di sussidiarietà.
4. La difficile attuazione del nuovo Titolo V nell’ambito dei perduranti divari Nord-Sud
L’attuazione del nuovo titolo V, come noto, è risultata tutt’altro che semplice, non essendo state dipanate alcune questioni di fondo ancora oggi presenti nel dibattito scientifico (oltrechè politico ed economico) che hanno costituito e tuttora costituiscono il limite profondo ed immanente ad ogni tentativo di riforma.
Il divario nord-sud, la complessità dei trasferimenti finanziari provenienti dallo Stato, la relazione con i territori e con gli enti locali, la trasversalità di alcune materie di legislazione concorrente, il mai risolto tema dei diritti sociali e, più in generale, dei diritti fondamentali dei cittadini, la simmetria “possibile e sostenibile” tra le regioni (si pensi, per tutte, alla questione del diritto alla salute), le relazioni con Governo e Parlamento (anche alla luce dell’elezione diretta dei governatori regionali), la debolezza politica delle regioni, convertitesi in centri di gestione e di amministrazione, la sovrapposizione ed il mancato coordinamento delle competenze con gli enti locali, sono solo alcune delle questioni sul tappeto.
Una prima risposta, sulla quale ancora oggi dovrebbe lavorarsi, è stata le legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale, i cui decreti attuativi, in particolare il n. 216 del 2010, hanno affrontato lo scottante tema della scelta, nel finanziamento pubblico, tra costi storici e costi standard in vista della individuazione dei LEP con riferimento ai diritti civili e sociali da realizzare sull’intero territorio ai sensi dell’art. 117 c. 2 lett. m).
Si tratta, però, di un processo che paga fatalmente le crisi che, a partire dal 2008, quasi ininterrottamente, hanno colpito la struttura economica e finanziaria dello Stato, determinando una serie di tagli lineari che hanno colpito in misura assai rilevante le regioni e gli enti locali. Il 2012, in particolare, segna l’avvento di una riforma costituzionale che apre una fase particolarmente faticosa per rientrare nei parametri dell’Euro (e non solo), in funzione di politiche eurounitarie improntate ai parametri dell’austerità accompagnata dalla sollecitazione ad operare riforme profonde per modernizzare e rendere efficiente la macchina amministrativa italiana, a tutti i livelli.
A tale fase è corrisposta, giocoforza, una risposta articolata dei territori e della autorità regionali e locali. Ma, mentre queste ultime hanno subito, per lo più, le difficoltà dell’austerità, ad un tratto, la reazione, tra il 2018 ed il 2019, si è (nuovamente) manifestata da parte di alcune regioni, segnatamente la Lombardia il Veneto e l’Emilia Romagna (ma poi anche di altre, tra cui la Campania), nel rivendicare il proprio ruolo istituzionale attraverso la richiesta di ulteriori e più estese forme di autonomia, differenziandosi dal resto del Paese, facendo appello ad una norma di complessa attuazione come l’art. 116 c. 3 del novello titolo V.
Nasce da qui quello che viene oggi battezzato come “regionalismo differenziato”, che, se rapportato al complessivo disegno costituzionale regionalista, in effetti, costituisce ulteriore differenziazione all’interno di un quadro nel quale campeggiavano (e si differenziavano per qualità degli statuti) le regioni ordinarie e quelle speciali.
Non si devono avere prese di posizione preconcette su questo punto: le rivendicazioni delle regioni a statuto ordinario sono pienamente legittime sul piano costituzionale (bisognerebbe vedere in quello amministrativo) e forse hanno una logica precisa in un contesto, anche a livello europeo, nel quale una struttura regionale maggiormente protagonista, pur nel rispetto dei limiti dell’interesse nazionale, delle scelte economiche, fiscali e politiche potrebbe costituire un motivo di forza e di sviluppo dei territori, una realizzazione della cittadinanza in armonia con gli artt. 174 e 175 del TFUE e, nel contempo, uno snellimento della struttura centrale, non sempre in grado di provvedere adeguatamente.
Vi è, però, che il regionalismo differenziato non può costituirsi prescindendo dalla risoluzione dei problemi che hanno caratterizzato l’ordinamento regionale nel suo complesso, dal divario Nord – Sud (il recupero del gap è, come risulta pacifico da tutte le relazioni stese sul punto, compresa quella della Banca d’Italia, fondamentale per la crescita del Paese), cui è connesso il corretto riparto delle risorse (finora non paritario), alla previa determinazione dei LEP sulla base dei costi storici e/o standard, dal mantenimento di un fondo perequativo, tale da non determinare un regionalismo competitivo e rimanere – come richiede la Corte costituzionale – nell’ambito di un regionalismo cooperativo.
Nel merito, le richieste rischiano di determinare un vero e proprio svuotamento della legislazione concorrente, aspetto che, in sé potrebbe risultare persino paradossale.
Nel metodo, la scelta è caduta – come pare ormai assodato – sull’utilizzo di una legge rafforzata di attuazione dell’art. 116 c. 3, che, però, nelle attuali formulazioni, mostra una sorta di “amministrativizzazione” non del tutto convincente. Immaginare, in particolare, come prevedeva il disegno di legge “Boccia”, si possa procedere oltre anche laddove non siano stati previamente determinati i LEP, facendo ricorso ai costi standard rischia di fare degenerare il processo di differenziazione, che, in tesi, mira ad ottenere risultati proficui in termini di efficienza e gestione delle risorse, anziché aggravare i divari esistenti, che non servono ad alcuno, anche in termini economici (Castronuovo).
5. Alcuni problemi legati al processo di differenziazione
Sul processo di differenziazione pendono altri problemi di fondo: il suo porsi in controtendenza con le scelte politiche di “accentramento” post Covid 19 ribadite dal PNRR, non avendo, peraltro, le Regioni dato sempre piena prova di riuscire a superare le attuali fasi di crisi (altro discorso è quello della competenza legislativa statale per materia). La pandemia ha certamente evidenziato la necessità di procedere ad una corretta riorganizzazione amministrativa sui territori che, da una parte, agevoli i processi di sviluppo, dall’altro non fagociti i diritti fondamentali dell’intera cittadinanza.
Anche le notevoli risorse destinate al Mezzogiorno dal PNRR, finalizzate allo sviluppo dei territori ed alla salvaguardia dei diritti di cittadinanza, passa attraverso la capacità di operare gli interventi e, concretamente, di "metterli in campo" (Manganaro).
Vi è un’altra obiezione all’immediata attuazione del regionalismo differenziato – fra le tante, non si pensa di esaurirle tutte – ossia il ruolo del principio di sussidiarietà posto dall’art. 118 della Costituzione novellata nel 2001, al centro del quale campeggia il Comune e non la Regione.
L’attuazione del regionalismo differenziato potrebbe dar luogo ad una sorta di riproposizione del parallelismo, ma rovesciato, non consentendo l’attribuzione delle funzioni amministrative ai Comuni. In altri termini, se è forse anche corretta l’idea secondo la quale la dipendenza dallo Stato costituisca la propaggine di un centralismo da scardinare – ancorché attualmente in una delle sua fasi di maggiore fulgore – in nome dell’originario disegno costituente posto dall’art. 5 (rispetto al quale la riforma del 2001 non può dirsi in contrasto), sarebbe stato preferibile riconoscere maggiore rilevanza alla sussidiarietà posta dall’art. 118, prima ancora che giungere a proposte, che, senza la soluzione dei nodi problematici che accompagnano il regionalismo italiano, rischiano di tradursi in ulteriori divisioni, al limite della secessione (beninteso, non si può parlare di secessione tout court), non utili allo sviluppo ed alla crescita dell’Italia.
Ciò per tacere del tema della fiscalità, che, come noto, è agganciata a principi che prescindono dalla produttività dei singoli territori e comunque è improntata alla redistribuzione equa tra tutti, ma anche del fatto che la neutralità del trasferimento non sarebbe facilmente considerabile né garantibile. In tal senso, va ricordato il contributo di Luciano Vandelli, il quale evidenzia la presenza di due pilastri: l’art. 118 in nome della differenziazione adeguatezza e sussidiarietà; quello costituito da “valori unitari e gli strumenti per la loro tutela, i livelli essenziali, la perequazione e la solidarietà del sistema finanziario, i principi fondamentali nelle materie concorrenti, la leale collaborazione, eccetera ex art. 117 e 119”.
In altri termini, si tratta di un contesto nel quale ben vengano le richieste autonomistiche delle regioni a statuto ordinario. Ma senza prescindere da una visione complessiva, a pena di determinare una fase nella quale venga ad incrinarsi gravemente, se non proprio a spezzarsi, l’unità dell’ordinamento.
6. Le proposte di attuazione dell’art. 116 c. 3 Cost.
Viene, così, a delinearsi un quadro di luci ed ombre, attraversato dal dubbio che mascherati intenti egoistici dei “più ricchi” vadano a discapito dei “più poveri”.
Si tratta di una vulgata, a volte anche echeggiata in alcune affermazioni di carattere politico, a cui non si può e non si deve credere. Lo stesso Ministro Calderoli a più riprese ha chiarito che non si mira affatto a creare divisioni ed ingiustizie tra regioni e territori, ma a promuovere il sistema regionale, quello degli enti locali e lo sviluppo dei territori e del Paese (bisognerà vedere, però, cosa accadrà in concreto).
D’altro canto, sia nella bozza informale sia nel disegno di legge governativo, ciò risulta abbastanza chiaramente, pur con tutta una serie di perplessità che riguardano la stipula ed il valore delle intese e soprattutto il ruolo del Parlamento, a lungo esautorato da decisioni che riguardano l’intera collettività, la cui centralità va recuperata soprattutto in una fase politica nella quale sembrano archiviate le – pur necessarie – esperienze “tecniche” o “di larghe intese”, esperienze di governo non diretto frutto della volontà popolare.
Se, infatti, come insegna la quasi totalità della scienza costituzionale, i governi tecnici, pur pagando in termini di rappresentatività, sono perfettamente legittimi, d’altro canto, la parentesi storica che li ha contemplati è stata forse eccessiva.
La “tecnicizzazione” delle scelte politiche (come, in fondo, di quelle prettamente amministrative), del resto, porta con sé vantaggi e svantaggi: da una parte si tratta di scelte difficilmente discutibili, anche perché sovente necessitate dalla contingenza; dall’altra parte, però, la diretta legittimazione popolare e la possibilità (come è attualmente) di godere di una solida maggioranza (almeno nei numeri), consente di operare scelte "propriamente" espressione dell’indirizzo politico, cui non si vede perché rinunciare.
In un recente disegno di legge presentato dall’opposizione viene segnalato – anche questo è un importante aspetto sul quale riflettere – che diverse materie di legislazione concorrente previste dall’art. 117 (“produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, le “grandi reti di trasporto e di navigazione”, le “casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito fondiario e agrario a carattere regionale”) richiedano un diverso riparto delle competenze, anche in funzione dell’attuale nuova fase storica e dei rapporti con l’Unione europea. Ma viene anche ricordato, segnatamente con riferimento alla bocciatura della richiesta regionale di trattenere i 9/10 dei tributi riscossi a livello regionale, che l’autonomia differenziata “come insegna anche la storia delle regioni a statuto speciale, non può essere considerata un fine in sé, quasi si trattasse di realizzare una statualità propria della regione richiedente, ma come un processo in cui sperimentare il miglioramento delle politiche pubbliche in un quadro di sussidiarietà che non intacchi l’unità nazionale”. Ovvero, si tratta di “competenze, quali quelle in materia di politiche attive del lavoro, di integrazione fra politiche attive e politiche passive, di organizzazione delle fondazioni ITS, di realizzazione di un sistema integrato di istruzione professionale e di istruzione e formazione professionale, di sostegno all’internazionalizzazione delle imprese, di governo del territorio funzionale alla rigenerazione urbana e alla prevenzione del rischio sismico°, che le regioni “possono gestire adattandole proficuamente ai diversi sistemi d’impresa che caratterizzano i nostri territori”.
Nel disegno di legge di cui si tratta – ovviamente, ben più definito della iniziale “bozza Calderoli” del novembre scorso (ma non pare con esso in totale contrasto) – viene precisato che l’attribuzione delle competenze alle regioni presuppone il rispetto degli artt. 118, 2 e 5 della Costituzione, “sentiti gli enti locali e tenuto conto delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane definite dalla legislazione statale, ai sensi dell’art. 117 c. 2 lett. p) della Costituizone”; inoltre, l’attribuzione delle competenze, ove riguardino materie che costituiscano livelli essenziali delle prestazioni (art. 117 c. 2 lett. m) possano essere attribuire alle regioni richiedenti solo dopo la definizione dei LEP.
In ogni caso il Parlamento (dopo una prima fase governativa ove si ha la sottoscrizione dell’intesa), è consultato con l’acquisizione del parere da parte della Commissione parlamentare per le questioni regionali e poi nella fase successiva alla sua sottoscrizione definitiva, con la trasmissione dello schema di disegno di legge di ratifica alle Camere ai sensi dell’art. 116 c. 3, con eventuale previo invio di una relazione dettagliata governativa circa eventuali difformità dalle indicazioni espresse dal Parlamento.
Vi è, poi, il profilo relativo ai LEP, che vanno previamente determinati, entro e non oltre un anno dalla entrata in vigore della legge, nonché il nodo delle risorse strumentali e finanziarie in uno al trasferimento delle competenze alle regioni, in base a quattro fondamentali principi: 1) il rispetto del principio di equilibrio dei bilanci pubblici; b) la tendenziale neutralità finanziaria e il rispetto degli equilibri di finanza pubblica; c) l’integrale copertura delle funzioni, ai sensi dell’art. 119; d) il periodico aggiornamento del quadro finanziario in rapporto all’evoluzione del quadro macro economico, nel rispetto della neutralità finanziaria.
Aspetto sul quale pare ci sia una convergenza tra maggioranza ed opposizione è quello del riferimento ai costi standard, ossia le risorse da assegnare in sede di intesa, risorse finanziarie assegnate in termini di compartecipazione al gettito dei tributi erariali del territorio regionale. Fino alla definizione dei costi standard, le risorse sono attribuite alla regione con riferimento alla spesa permanente sostenuta dallo Stato per l’erogazione delle corrispondenti funzioni.
Una differenza tra la bozza Calderoli ed il disegno di legge governativo è sul passaggio finale in sede parlamentare.
Mentre l’art. 2 c. 6 della bozza prevedeva la mera approvazione dell’intesa, adesso il riferimento è al solo art. 116 c. 3 della Costituzione. In realtà, il procedimento descritto nel disegno di legge governativo tende dichiaratamente a salvaguardare il ruolo del Parlamento, prevedendo la possibilità di esprimersi con atti di indirizzo. Occorrerà verificare cosa accadrà davvero.
7. Il nuovo rapporto tra autonomia speciale e differenziata
Il 116 c. 3 non va inteso pregiudizialmente come contenente una clausola idonea a fondare un tertium genus di regionalismo: si tratta, invero, di uno strumento di razionalizzazione e perfezionamento del regionalismo ordinario, su matrice volontaria, opzionale e non obbligatoria.
Eppure, è stato sostenuto che l’art. 116, introdotto in modo approssimativo ed all’ultimo minuto, costituisca un modo per non affrontare la questione più profonda, che è quella della “federalizzazione” dell’ordinamento (Frosini), da cui dovrebbe discendere, quale primo passo, l’abolizione della specialità, in quanto, in uno stato federale, tutte le regioni sono “speciali”.
Da altra parte, poi – ed è una tesi ricorrente – si considera inattuabile l’art. 116 c. 3 perché carente “di strumenti flessibili di integrazione tra unità e differenziazione, tra competizione e cooperazione” (Palermo). Il rischio è che “una volta innescato il meccanismo differenziale, non sarà più possibile tornare indietro, almeno con decisione unilaterale dello Stato”, essendo l’accordo governabile solo attraverso soluzioni politiche e non istituzionali. Si creerebbe, cioè, altra specialità con un procedimento diverso da quello degli Statuti speciali e delle norme di attuazione, queste ultime, caratterizzate da riserva e separazione.
La c.d. “clausola di asimmetria” contenuta nell’art. 116 c. 3 è accompagnata da una serie di previsioni utili a compensare gli effetti negativi che riguardo alla distribuzione delle risorse, potevano scaturire da una differenziazione esasperata: la istituzione di un fondo perequativo generale per i territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119) e la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale ex art. 117 c. 2 lett. m).
A ben guardare, però, l’attuazione dell’art. 116 c. 3 non è, almeno formalmente (ma su questo il disegno di legge governativo pare consentire maggiore ottimismo), subordinata alla istituzione del fondo perequativo ed alla fissazione dei LEP: in tesi, dunque, la sua attuazione potrebbe avvenire prescindendone, cioè senza le garanzie necessarie a salvaguardare la coesione economico-sociale del Paese e l’unità nazionale. Il fondo perequativo non è ancora stato istituito e non sono stati fissati in diversi importanti settori i LEP, né è stato applicato il principio dei fabbisogni standard per il calcolo dei costi delle funzioni.
Sta di fatto che il modello cui le regioni a statuto ordinario hanno guardato – anche questa è una communis opinio, seppure più fondata della precedente vulgata – è quello dell’autonomia speciale, ancorchè si tratti di un modello astratto, in quanto concretamente attuato in misura diversa da regione a regione. Ciò si ricava anzitutto dalla formulazione del quesito posto nel referendum consultivo del 2017 Veneto (l’unico fatto salvo dalla Corte costituzionale n. 118 del 2015), dal numero di materie (23) in cui è stata chiesta l’attivazione della clausola di asimmetria – non consentendo di parlare di una funzione integrativa e complementare rispetto alla vigente articolazione delle competenze, rinviando all’idea di un vero e proprio statuto speciale – e dalla previsione nelle bozze d’intesa che le modalità per l’attribuzione delle risorse finanziarie, umane e strumentali e le forme di raccordo con le amministrazioni centrali per l’esercizio delle funzioni devolute dovrebbero essere determinate da un’apposita commissione paritetica, simile a quelle previste nelle regioni a statuto speciale.
Viene, però, in dottrina, rilevato che la composizione di queste commissioni è meno garantista delle paritetiche (in quanto ne fanno parte soggetti designati da organi di rappresentanza elettiva anziché dall’esecutivo) e che, a differenza dei decreti di attuazione degli statuti speciali (atti con forza di legge previsti da leggi costituzionali ed emanati dal P.d.R.) gli atti previsti dalle bozze d’intesa sarebbero decreti del P.d.Consiglio, privi di forza di legge e dall’incerta natura, mal celando l’intento di “privatizzare” il trasferimento di funzioni alle regioni, riservandolo al rapporto tra esecutivo nazionale e regionale (Morelli).
L’autonomia differenziata può, dunque, essere intesa come un modo per giungere all’autonomia speciale per altra via rispetto a quella dello statuto speciale di rango costituzionale? E poi: la riforma del 2001 ha, in qualche modo, decostituzionalizzato il procedimento di riconoscimento dell’autonomia speciale?
A questi quesiti si può rispondere in vario modo: la risposta più probabile è quella negativa, dal momento che il costituente ha distinto in modo chiaro tra regioni a statuto speciale e regioni a statuto ordinario.
Altro discorso, ovviamente, è interrogarsi circa la perdurante utilità del regime duale esistente, in quanto integrato da regioni ordinarie differenziate.
Al proposito, in dottrina si è parlato di una nuova “specialità diffusa” (Ruggeri), predicando, cioè l’abbandono del modello duale in nome di nuovi percorsi autonomistici regionali e locali nei quali il tema della coesione politica e sociale, anche per quel che concerne i diritti sociali e di cittadinanza, istituendo fondi perequativi, fissando LEP, sia diversamente articolato. Preso atto dei percorsi possibili cui può dare la stura l’attuazione dell’art. 116 c. 3, infatti, vi è l’opportunità – e persino la necessità – “di abbandonare una buona volta e senza rimpianto alcuno il vecchio regime duale fondato sull’articolazione dell’autonomia in ordinaria e specie, mirando piuttosto (e decisamente) all’impianto di un sistema complessivo di specialità diffusa, eretto e incessantemente rinnovato con il fattivo concorso delle stesse regioni in forme idonee a salvaguardarne l’autonomia, nella cornice dalla unità-indivisibilità della Repubblica. Si tratta di un percorso che, tuttavia, richiede l’obbligatorio ricorso alla revisione costituzionale, non potendosi aggirare le norme della Carta fondamentale”.
Si è anche rilevato che l’attuale processo di differenziazione, diversamente da quanto prefigurato nel 2006 e poi nel 2018, segue una prospettiva di differenziazione generalizzata, ponendo in crisi la stessa distinzione rispetto alla tradizionale “specialità”. Nel silenzio dell’art. 116, tale circostanza metterebbe seriamente in discussione l’attuale impianto costituzionale, nel quale vige una ordinarietà governata dal Titolo V, con parziali deroghe per le regioni speciali.
Infine, è stato posto il problema della sostenibilità per la finanza pubblica di un regime differenziato generalizzato.
Insomma, il tema è se sia messa in discussione la stessa sopravvivenza della specialità, oltre alla potenziale integrale disattivazione dell’intero Titolo V, dando ragione a chi sostiene che debba abbandonarsi il regime duale in nome di una specialità diffusa. Unica vera alternativa è l’adeguamento degli statuti (ex art. 10 l. cost. n. 3/2001). Laddove il regionalismo differenziato sconfinasse in quello speciale, del resto, si potrebbe parlare di una surrettizia (e pericolosa) forma di violazione della Costituzione.
In tal senso, è stato rilevato che non è possibile far transitare tutte le Regioni ordinarie nel modello della differenziazione e, d’altro canto, non può porsi un vero e proprio limite quantitativo e temporale senza condurre un discorso maggiormente organico. La rivendicazione generalizzata della differenziazione incide e forse trasforma la stessa forma di Stato, perché diventano oggetto di discussione i modelli regionali. Il modello della differenziazione, dunque, va, molto probabilmente, inserito in un quadro costituzionale già esistente, senza assimilazione al modello della specialità.
Il "116" serve a trasferire ulteriori competenze legislative (o pezzi di esse), quindi il suo impatto è tutt’altro che irrilevante. Se si trattasse solo di trasferire funzioni amministrative sarebbe sufficiente l’art. 118 ed una legge ordinaria, non vi sarebbe ragione di ricorrere al 116 c. 3. In ogni caso, non vi è alcuna obiezione in relazione al fatto che il trasferimento di funzioni legislative coinvolga anche quelle amministrative, come dimostra il previo coinvolgimento degli enti locali in nome, evidentemente, del principio di sussidiarietà.
7.1. Le carenze del regime duale, tra istanze identitarie e funzionaliste
Quali sono, eventualmente, le ragioni che giustificano la permanenza del regime duale? La specialità risponde ad una logica top down, discendente e imposta dall’alto, frutto di negoziazione politica; il 116 c. 3 risponde alla logica bottom up, giacchè l’attribuzione delle condizioni particolari di autonomia discende da una legge approvata a maggioranza assoluta, a seguito di negoziazione politica e sulla base di un’intesa tra lo Stato e la Regione interessata.
Mentre l’autonomia differenziata può essere istituita solo nelle materie indicate dall’art. 117, cui rinvia il 116 c. 3, l’autonomia speciale ha, in potenza, un ambito di estensione più ampio, perché non conosce limiti precostituiti, se non l’inserzione nelle leggi costituzionali di approvazione degli statuti speciali.
Dunque, l’autonomia speciale, in tesi, è complessivamente superiore rispetto a quella differenziata.
Ma quali esigenze le due forme di autonomia sono chiamate a soddisfare? L’autonomia speciale, in tesi, risponde ad una logica prevalentemente identitaria (e forse anche ideologica), quella differenziata ad una visione funzionalista, ossia come strumento per assicurare un’amministrazione efficace ed efficiente.
Sull’autonomia speciale, vi sono tesi opposte: vi è chi la ritiene un caposaldo storico dell’ordinamento italiano (D’Atena), pertanto sottratto alle volizioni politiche contingenti (Silvestri); ma anche chi considera le autonomie speciali come alcune tra le possibili declinazioni del principio autonomistico di cui all’art. 5, che, come tale, potrebbe trovare diverse (e forse anche più soddisfacenti) realizzazioni (Pajno).
In astratto, i modelli sono distinti: si trovano di fronte forme di autonomia speciale intangibile se non con il procedimento di revisione costituzionale, rispetto a potenziali autonomie differenziate, orientate da parametri di efficienza amministrativa e contenute entro i limiti dell’art. 119.
Ovviamente, passando dall’astratto al concreto, il discorso può trovare altra declinazione, considerato che le istanze identitarie e quelle funzionaliste non stanno in conflitto tra loro e possono anche convergere. La contrapposizione tra la declinazione politico-identitaria e quella funzionalista dell’autonomia “non deve essere enfatizzata alla luce del fatto che, anche se nella configurazione istituzionale di un livello territoriale di governo, si parte dell’esigenza di soddisfare al meglio gli interessi, non si può prescindere dalle risultanze storico-sociali e dalle intrecciate ragioni economiche legate alla comunità di riferimento” (Tarli Barbieri).
Le autonomie speciali, a loro volta, non costituiscono una categoria omogenea, nel senso che ogni statuto speciale presenta caratteri propri e peculiari (quelli che giustificano, in linea di principio, la specialità) ed anzi è noto che, per alcune regioni (soprattutto quelle insulari), la specialità ha finito per costituire un freno anziché una risorsa per lo sviluppo dei relativi territori.
Né gli orientamenti del legislatore e del giudice delle leggi hanno mai attraversato stagioni di particolare fulgore, nel senso che le aspirazioni di tutte le autonomie, regionali, ordinarie e speciali, hanno subito, in misura più o meno ampia, gli effetti di una logica orientata più all’omologazione che alla differenziazione.
7.2. La lacunosa disciplina del regionalismo differenziato
Il 116 c. 3 è, indubbiamente formulato in modo non chiaro ed esaustivo: un intervento integrativo e correttivo di stampo costituzionale potrebbe, per vero, risultare molto utile, prima dell’adozione di una legge attuativa, peraltro non richiesta dalla stessa norma. Un intervento con legge costituzionale sarebbe giustificato da più ampie esigenze di sistema e soprattutto dalla necessità di impedire che già sul piano procedurale si producano discriminazioni in base al colore politico del governo della regione interessata alla trattativa, giacchè le regole procedurali non possono divenire oggetto di negoziazione politica.
La soluzione prescelta, fin dal 2018, tuttavia è quella della legge quadro, cui paiono coerenti le ulteriori e più recenti proposte. Ma anche tale legge (viene anche fatto riferimento, vista l’iniziativa regionale, all’art. 121 Cost.) non convince del tutto nel senso che non si offre alcun elemento riguardo alla tempistica e soprattutto ai principi cui informare il momento generativo dell’intesa tra Stato e regione.
La clausola di asimmetria, d'altro canto, si ritiene concerna solo le regioni a regime ordinario. A favore di tale tesi, a parte il dato testuale, vi è il fatto che per le regioni a statuto speciale, la via istituzionale è quella che prevede la revisione dei rispettivi statuti con legge costituzionale. Va, però, rilevato che nei due procedimenti la Regione ha un ruolo differente: nel primo caso (revisione costituzionale) meramente consultivo, nel secondo caso più probabilmente paritario. Quindi, se è vero che l’ampliamento dell’autonomia speciale, di regola, presuppone la revisione degli Statuti, in una prospettiva sperimentale (Morelli) il procedimento di differenziazione potrebbe servire per fare acquisire alle autonomie speciali competenze in materie di cui esse non avessero già la disponibilità. Tali competenze non verrebbero inserite negli statuti speciali, ma nulla impedirebbe, in caso di accordo politico con lo Stato, che tali competenze trovino inserimento in seguito negli statuti, in ossequio, peraltro, alla clausola di maggior favore prevista dalla legge cost. 3/2001, in quanto l’introduzione nello statuto speciale della previsione di una delle competenze oggetto di differenziazione, dopo un “periodo di prova”, rafforzerebbe, in via transitoria, la competenza stessa.
A questo si obietta che l’art. 10 varrebbe solo per le condizioni di autonomia di cui al Titolo V e non anche per quelle poste dall’art. 116 c. 3: di contro può osservarsi che la differenziazione è prodotto logico e diretto dell’attuazione del 116 c. 3, sicché non si vede perché escludere la possibilità di avvalersi della procedura che lo riguarda, ponendosi, a ben guardare, in contrasto con la ratio della stessa clausola di maggior favore, in quanto sarebbe impedito transitoriamente, in attesa della revisione degli statuti, alle regioni speciali di avere accesso al regionalismo differenziato.
Peraltro, l’art. 11 della legge n. 131/2003, nel richiamare l’art. 10 della legge costituzionale n. 3/2001 precisa che “le Commissioni paritetiche previste dagli statuti delle Regioni a statuto speciale, in relazione alle ulteriori materie spettanti alla loro potestà legislativa ai sensi dell’articolo 10 della citata legge costituzionale n. 3 del 2001, possono proporre l’adozione delle norme di attuazione per il trasferimento dei beni e delle risorse strumentali, umane e organizzative, occorrenti all’esercizio delle ulteriori funzioni amministrative”. Le norme di attuazione, in applicazione dell’art. 10 possono prevedere altresì “disposizioni specifiche per la disciplina delle attività regionali di competenza in materia di rapporti internazionali e comunitari”. Secondo D’Atena, “una volta rovesciata l’enumerazione delle competenze legislative, il mantenimento dell’autonomia speciale nella sua originaria consistenza avrebbe posto gli enti che ne erano dotati in posizione deteriore rispetto agli altri. Per l’evidente ragione che le competenze individuate dai rispettivi statuti, con tecnica enumerativa, avevano un’estensione decisamente inferiore rispetto a quelle assicurate alle regioni ad autonomia ordinaria dalla clausola residuale”.
7.3. Le prospettive della differenziazione
Il regionalismo differenziato, nato in chiave funzionalista, attualmente ha finito per assumere una valenza simbolica ed identitaria, in vista del raggiungimento dell’autonomia speciale. Su questo nessuna obiezione, come si è detto. E tuttavia, una volta avviato il processo di differenziazione, la "via del ritorno" pare preclusa, anzi non è proprio prevista, evidenziandosi così una evidente lacuna normativa. Nonostante, infatti, sia prevista una revisione periodica dell’intesa dopo un decennio dall’entrata in vigore della legge attributiva delle nuove forme di autonomia, il ritorno al passato porrebbe enormi problemi pratici (anche nella riorganizzazione degli uffici) e sarebbe certamente interpretato come una sorta di spoliazione da parte del centro rispetto alla regione. Una legge costituzionale che disciplinasse questo passaggio sarebbe, quindi, auspicabile, potendo costituire, peraltro, parametro di legittimità costituzionale.
Una volta attuata la differenziazione, del resto, non è prevedibile immaginare quali conseguenze si avrebbero nelle relazioni con le regioni a statuto speciale.
Deve immaginarsi la crescita del contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale, la quale potrebbe fare ricorso a tutta la precedente giurisprudenza in tema di leale collaborazione, ragionevolezza e proporzionalità, per assicurare istanze unitarie, ridimensionando gli effetti della differenziazione in nome dell’interesse nazionale.
Un problema non secondario potrebbe porsi in rapporto alla tenuta economica complessiva del Paese, laddove si manchi di valorizzare le regioni della solidarietà interterritoriale.
8. La condizione di insularità come recupero della specialità
Le ragioni della specialità, soprattutto per le regioni insulari (Sicilia e Sardegna) trovano oggi particolare ed ulteriore fondamento in funzione del riconoscimento della condizione di insularità, le cui caratteristiche geografiche, economiche, demografiche e sociali sono assolutamente specifiche, sfidando le stesse politiche europee in ragione del mercato limitato e della difficoltà di realizzare economie di scala. Si pensi ai costi di trasporto sicuramente più elevati, alle relazioni inter-industriali, ai deficit di infrastrutture e di offerta di servizi per le imprese (rispetto alle realtà continentali), alla compressione dei servizi sociali e formativi ai cittadini, nonché in relazione ai recenti fenomeni migratori. Le misure di riequilibrio e di perequazione per la condizione geografica e di discontinuità territoriale devono consentire pari opportunità di sviluppo e accesso al mercato unico europeo anche rispetto alle altre regioni. Insularità e perifericità producono un incremento dei costi e creano ritardi e debolezze nel processo di sviluppo e coesione (Armao).
Significativa, sul punto la sentenza n. 9 del 2019 della Corte costituzionale per la quale il fattore insulare va declinato opportunamente sia sul piano dell’identità e specialità, sia con riferimento alle opportunità di studiare e lavorare, come anche di assicurare la libera circolazione dei beni, dei trasporti e delle persone garantendo l’esercizio dei loro diritti economici. La Corte costituzionale ha, infatti, ritenuto illegittimo l’art. 1 c. 851 l.n. 205/2019 “nella parte in cui non prevede, nel triennio 2018-2020, adeguate risorse per consentire alla regione autonoma Sardegna una fisiolgica programmazione nelle more del compimento, secondo canoni costituzionali, della trattativa finalizzata alla stipula dell’accordo di finanza pubblica”. La Corte, peraltro, aveva già ritenuto necessario un rapporto di leale collaborazione con le autonomie territoriali nella gestione delle politiche di bilancio (c.d. “tirannia” della ragione erariale). Il meccanismo della priorità dell’intervento finanziario, sempre secondo il Giudice delle leggi, connota “il principio dell’equilibrio dinamico come giusto contemperamento, nella materia finanziaria, tra i precetti dell’articolo 81 della Costituzione, la salvaguardia della discrezionalità legislativa e l’effettività delle pronunce del giudice costituzionale”.
Quanto alla condizione di insularità, pur essendo venuto meno l’esplicito riferimento un tempo contenuto nell’art. 119 c. 3 Cost., resta il dato normativo costituito dall’art. 27 della l.n. 42/2009 che garantisce l’adozione di meccanismi di perequazione fiscale ed infrastrutturale volti a garantire il riequilibrio dei divari: “in relazione alla mancata ridefinizione delle relazioni finanziarie tra Stato e regione autonoma .. secondo i canoni fissati dall’art. 27 della legge n. 42 del 2009, va sottolinea come, a quasi dieci anni dall’emanazione di tale legge, il problema dell’insularità non sia mai stato preso in considerazione ai fini di ponderare complessivamente le componenti di entrata e di spesa dell’autonomia territoriale” dato lo svantaggio economico determinato da tale condizione.
In tal senso, depongono le norme del TFUE, segnatamente l’art. 174 in tema di coesione sociale, economica e territoriale, al fine di ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle Regioni attraverso il rafforzamento delle politiche di coesione, con particolare attenzione alle regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali, come le isole.
9. Brevi considerazioni conclusive
Il percorso del regionalismo differenziato è tuttora in fieri, avendo conosciuto nuova e significativa accelerazione sul piano politico.
Le perplessità riguardano, da un lato, la (in)completezza dell’art. 116 c. 3 della Carta costituzionale ed il modo migliore per darvi attuazione; dall’altro, gli effetti che ne possono derivare sul piano istituzionale e delle relazioni fra i livelli di governo.
Le regioni a statuto speciale solo apparentemente – cioè, perché il 116 c. 3 ad esse non fa riferimento – sono spettatrici di questo processo, ma, a ben guardare, ne sono coinvolte sotto molteplici profili, forse anche in forza dell'apposita clausola (art. 10) contenuta nella legge costituzionale n. 3/2001.
Ci si chiede, in primo luogo, cosa ne sarà dell’originario dualismo tra autonomia speciale ed ordinaria: in particolare, quali effetti potrà produrre, nelle reciproche relazioni, questo sensibile mutamento di assetto sia in termini di funzioni legislative, sia con riferimento a quelle amministrative.
Ci si chiede, in secondo luogo, se, una volta attuato il regionalismo differenziato, abbia ancora senso distinguere tra regioni a statuto ordinario e speciale, se, cioè, come pure sostenuto in dottrina, si dovrà pervenire ad una “specialità diffusa”, la cui attuazione, però, richiede e necessitate una riforma costituzionale.
Ci si chiede, in terzo luogo, cosa ne sarà delle relazioni tra regioni, Stato ed Unione europea, se, cioè, l’autonomia differenziata determinerà un differente assetto, in grado di conferire alle regioni “differenziate” una “speciale” qualità ed un nuovo ruolo nella interlocuzione con gli organi comunitari.
Ci si chiede, infine, se, al di là delle buone intenzioni (la buona fede si presume), l’attuazione del regionalismo differenziato preluda a (o, comunque, finisca per) minare gli equilibri profondi del Paese – soprattutto quelli economici e sociali, considerato l’enorme e crescente divario Nord/Sud – preservati fino ad oggi, da singole e specifiche, quanto giustificate, specialità e se questo sia il tempo per rivendicare nuova autonomia o esercitare bene quella che già si ha.
*L’articolo riproduce l’intervento al seminario tenuto nell’ambito de I Lunedì di Giustiziainsieme il 9 gennaio 2023 sul tema Novità e possibilità dell’autonomia differenziata nelle più recenti proposte di riforma.
Il primo giorno della mia vita. Recensione di Dino Petralia
In una combinazione degli opposti in cui primo e ultimo s’identificano, la sorte benigna di quattro personaggi, colti nell’attimo fatale del suicidio, autorizza una loro momentanea sopravvivenza, affidando al rispettivo arbitrio la decisione di una conferma della fine o di un vitale ripensamento. Una sopravvivenza asensoriale e diafana, priva di bisogni primari ed invisibile al prossimo, relegata in un solitario albergo cittadino ma non espropriata del corredo sentimentale utile a ciascuno per valutare quella diversa prospettiva che un ignoto traghettatore ha proposto loro. E per agevolarne la scelta l’innominato concede ai quattro invisibili spettatori la possibilità di uno sguardo sull’immediato futuro, sia nella versione del dopo morte in fotogrammi di una vita che prosegue comunque in loro assenza, sia in una fugace sequenza esistenziale, organizzata come proiezione in una sala vuota di un cinema antico di una Roma notturna e deserta, di un futuro questa volta in loro vitale presenza. A sostegno della decisione soccorre anche la concessione di una giornata di libera uscita tra la gente, con momenti di sensorialità capaci di far gustare - o continuare a ripudiare - la vita perduta, come il pranzo fisicamente realistico sul trabocco e l’allegra conoscenza che tra i quattro sospesi fa Emilia - la giovane ginnasta insoddisfatta del suo eterno secondo posto - di un coetaneo che le si siede accanto con invitante sorriso. Ancora un desiderio a scelta da esaudire e il catalogo dei vantaggi loro concessi è completo; si tratta adesso di scegliere ritornando all’istante dell’atto e così decidere se continuare ad assecondare la pulsione suicida o piuttosto virare gli eventi verso una nuova prospettiva esistenziale, consci che la felicità è di pochi ma che la vita riserva e promette comunque.
La sopravvivenza del dolore nell’anomalo gruppo viene tuttavia lentamente erosa dal progressivo insinuarsi di un fremito sentimentale, evolvendo in una languida e sottintesa nostalgia di felicità; è così che al cospetto di un palpito filiale di Arianna verso il piccolo Daniele che ne assapora il calore materno, al segnale di una scossa d’interesse di Emilia per il giovane avventore che le si avvicina sorridente, l’amore per la vita sigla il suo primato vincente sulla morte.
Non per tutti allo stesso modo però.
Mentre la morte della figlia adolescente per Arianna, la frustrante delusione da eterna seconda di Emilia, la esagerata voracità di ciambelle indotta dal padre in Daniele per guadagnare primati di followers in rete, erano tutti motivi palpabili di insofferenza esistenziale, l’assenza di una ragione giustificante in Napoleone e la presenza in lui di un malessere abissale, così intimo e irrazionale, non gli danno tregua né sollievo neppure in quel limbo di vita sospesa, non esonerandolo dal gesto che sceglie di compiere nuovamente lanciandosi dal ponte. Ed è proprio in quel frammento scenico che il timbro del regista compone la sua impronta finale, offrendola agli spettatori ancora una volta come messaggio di macerante ma concreto ottimismo: Napoleone muore ma al tempo stesso rivive negli analoghi panni del suo momentaneo traghettatore, afflitto in vita dal male oscuro e suicidatosi pure lui gettandosi giù da un ponte. E da rinnovato motivatore d’anime, come il suo provvidenziale angelo s’impegna da quel momento a riacciuffare la vita degli altri nell’attimo fuggente del loro volontario trapasso, assegnando ad ogni eletto una seconda chance di libera autodeterminazione.
Esattamente com’è il jazz, libero e improvvisante, non a caso canticchiato dall’ignoto autista nell’iniziale transito verso l’albergo.
L’artificio filmico e la volutamente meccanica recitazione d’interpreti di qualità - Servillo (l’ignoto) e la Buy (Arianna) che fanno qui ancora una volta egregiamente Servillo e la Buy, la giovane Sara Serraiocco (Emilia), il giovanissimo Gabriele Cristini (Daniele) e un sempre efficace Mastandrea nei panni di Napoleone, oppresso da un incrollabile male di vivere - compongono un lavoro che riflette e fa riflettere, coerente con la linea narrativa del Paolo Genovese di Perfetti sconosciuti e The Place, curioso delle intime dissonanze e attento alle pieghe dei disagi esistenziali, in un’ottica analitica che la maestria del regista adegua al linguaggio filmico con accurata abilità.
Sulla definizione di algoritmo (nota a Consiglio di Stato, Sezione Terza, 25 novembre 2021, n. 7891)
di Carmine Filicetti
Sommario: 1. Premessa - 2. La vicenda conteziosa - 3. L’interpretazione delle clausole di gara - 4. Il termine algoritmo - 5. Conclusioni.
1. Premessa
Le nuove tecnologie offrono degli innovativi strumenti capaci di migliorare i livelli di efficienza amministrativa, l’ingerenza della scienza tecnologica nella materia amministrativa[1] è, ormai, inarrestabile; il legislatore e il giudice non possono non conoscere le nuove definizioni, quali algoritmo[2] o intelligenza artificiale[3] al fine di tutelare gli interessi della collettività nel processo di trasformazione cibernetica che sta avvenendo all’interno del settore pubblicistico.
Le PP.AA., in un’ottica di ammodernamento e innovazione, sono onerate ed obbligate a far proprie tali nozioni in quanto, tale terminologia, è sempre più presente nelle norme, nei capitolati e nei bandi di gara.
Nondimeno, la loro interpretazione, in alcune ipotesi, necessita di uno sforzo considerevole, in ragione dello specifico ambito che non può prescindere dal buon senso e dallo specifico contesto in sono inserite.
A tal proposito, tale commento, vuole soffermarsi sul delicato tema dei rapporti intercorrenti tra la nozione di intelligenza artificiale e quella di algoritmo, in relazione al complesso processo di integrazione in atto, necessario al fine di coadiuvare la convivenza di tali nuove tecnologie all’interno dell’apparato amministrativo.
2. La vicenda contenziosa
La sentenza in commento concerne l’esatta perimetrazione della nozione di algoritmo di trattamento nel contesto di una procedura nazionale di gara per la fornitura di pacemaker di alta fascia[4].
Nella procedura di affidamento, la Commissione di gara riteneva soddisfatto il possesso degli algoritmi sia per la prevenzione che per il trattamento, tuttavia il massimo punteggio era ottenibile esclusivamente nel caso di algoritmi automatici[5]. La questione veniva portata all’evidenza del primo giudice amministrativo e, in tale occasione, questi puntualizzava come bastasse la sola presenza di un algoritmo ti trattamento, senza specificare il genus dello stesso[6].
Nell’estendere la sentenza, il primo giudice, al fine di meglio circoscrivere il concetto, aggiungeva delle importati affermazioni, in ordine alla nozione di algoritmo in luogo dell’intelligenza artificiale: “non deve confondersi la nozione di “algoritmo” con quella di “intelligenza artificiale”, riconducibile invece allo studio di “agenti intelligenti”, vale a dire allo studio di sistemi che percepiscono ciò che li circonda e intraprendono azioni che massimizzano la probabilità di ottenere con successo gli obiettivi prefissati….. sono tali, ad esempio, quelli che interagiscono con l’ambiente circostante o con le persone, che apprendono dall’esperienza (machine learning), che elaborano il linguaggio naturale oppure che riconoscono volti e movimenti”.
Definita la nozione di algoritmo, in contrapposizione a quella di intelligenza artificiale, il Tar concludeva il suo percorso argomentativo, sancendo che: “l’algoritmo di trattamento dell’aritmia non è altro che l’insieme di passaggi (di stimoli creati dal pacemaker secondo istruzioni predefinite) necessari al trattamento del singolo tipo di aritmia. Questo concetto non include necessariamente, invece, come erroneamente ritenuto dalla stazione appaltante, che il dispositivo debba essere in grado di riconoscere in automatico l’esigenza (quindi di diagnosticare il tipo di aritmia) e somministrare in automatico la corretta terapia meccanica (trattamento). In altre parole, il dato testuale della lettera di invito non richiede che l’algoritmo di trattamento, al verificarsi dell’episodio aritmico, sia avviato dal dispositivo medesimo in automatico. Tale caratteristica attiene a una componente ulteriore, non indicata nella legge di gara, vale a dire a un algoritmo di intelligenza artificiale nella diagnosi dell’aritmia e avvio del trattamento. Fondatamente, pertanto, Abbott ha dedotto l’erroneità della valutazione della commissione di gara che – pur in presenza di un algoritmo di trattamento delle aritmie nel proprio dispositivo (vale a dire l’algoritmo NIPS, pacificamente definibile come tale) – ha attribuito soli 7 punti anziché 15 al dispositivo offerto. Infatti, la commissione ha confuso, sovrapponendoli indebitamente, il concetto di algoritmo con quello di avvio automatico del trattamento”.
Tale, singolare, ricostruzione veniva appellata e, nel ricorso del giudizio di secondo grado, si segnalava come questa risultava ampiamente generica. Ulteriormente, veniva ribadito che l’evoluzione del settore è sempre più permeata dall’introduzione di algoritmi maggiormente complessi[7], capaci di adattare la terapia da somministrare in ordine alle caratteristiche individuali, inclusa, anche, la capacità di riconoscere, prevenire e trattare episodi aritmici, quali le aritmie atriali, come acclarato nell’ambito della letteratura clinica.
Ancora, l’appellate, sottolineava come il concetto di algoritmo era ben lontano da quello di intelligenza artificiale, in quanto basato su uno schema tipico (input-elaborazione-riposta) connaturato alla funzione di sorvegliare continuativamente il ritmo cardiaco, che nulla aveva in comune con i meccanismi di machine learning [8], evocati in prime cure.
Di contro, per l’appellante, non trovavano alcun fondamento, nella nozione di algoritmo, le funzioni di test (come il NIPS) attivabili a mezzo del collegamento, in ambiente ospedaliero, del pacemaker ad una strumentazione esterna, sotto il diretto controllo del personale medico, chiamato a decidere, in base ai risultati del test, le azioni di stimolazione da far eseguire al pacemaker in modo temporaneo e sempre sotto supervisione.
L’appellata replicava ai suddetti assunti, ribadendo che la nozione di algoritmo informatico era del tutto compatibile con la fase di input attivata da un umano e, in tale ipotesi, non poteva darsi rilievo alla circostanza che i dispositivi da fornire erano di “alta fascia”, poiché è fuor di dubbio che tali dispositivi gestivano funzioni comuni anche ai dispositivi “bassa fascia” che si attivano attraverso un programmatore o l’intervento del clinico. La mancata specificazione da parte della lex gara del carattere “automatico” o “intelligente” dell’algoritmo avrebbe dovuto dunque indurre la commissione ad interpretare in modo letterale ed ampio la nozione di algoritmo, a beneficio del principio di massima partecipazione e della par condicio.
3. L’interpretazione delle clausole di gara
Il Consiglio di Stato, prima di entrare nel merito della vicenda, chiariva alcuni importanti profili in ordine all’interpretazione delle clausole della lex gara. Il primo giudice, riportava il dominante orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, secondo il quale ‘l'interpretazione degli atti amministrativi, ivi compreso il bando, soggiace alle stesse regole dettate dall'art. 1362 e ss. c.c.[9] per l'interpretazione dei contratti, tra le quali assume carattere preminente quella collegata all'interpretazione letterale, in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, perché gli effetti degli atti amministrativi devono essere individuati solo in base a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere, anche in ragione del principio costituzionale di buon andamento, che impone alla P.A. di operare in modo chiaro e lineare, tale da fornire ai cittadini regole di condotte certe e sicure, soprattutto quando da esse possano derivare conseguenze negative[10]; con la conseguenza che “la dovuta prevalenza da attribuire alle espressioni letterali, se chiare, contenute nel bando esclude ogni ulteriore procedimento ermeneutico per rintracciare pretesi significati ulteriori e preclude ogni estensione analogica intesa ad evidenziare significati inespressi e impliciti, che rischierebbe di vulnerare l'affidamento dei partecipanti, la par condicio dei concorrenti e l'esigenza della più ampia partecipazione”[11].
4. Il termine algoritmo
Chiariti i profili interpretativi delle clausole del bando di gara il Collegio si soffermava a ricostruire le modalità in cui il termine “algoritmo” andava interpretato all’interno di un bando di gara.
In primis, chiariva che non si trattava di una singola clausola stabilente condizioni di partecipazione o regole per la competizione, ma di un vero e proprio criterio di attribuzione del punteggio tecnico; chiara espressione delle preferenze dell’amministrazione rispetto alle caratteristiche funzionali e tecniche del bene da reperire sul mercato.
Il giudice ripercorreva un iter argomentativo volto a far emergere, sia da un punto di vista funzionale che logico, che le esigenze dell’amministrazione sono la fonte dalla quale il procedimento di gara si dipana e, se è vero che l’amministrazione adisce il mercato per ricercare un bene, tali esigenze non potevano essere certamente mese a repentaglio da interpretazioni dubbie capaci di imporre all’amministrazione un bene che essa non necessita.
Il giudice sottolineava, infatti, che cosi ragionando, per assurdo, si darebbe vita ad un processo fine a sé stesso, suscettibile di tramutare la procedura da strumento servente e utile all’approvvigionamento ad un mero vincolo condizionante lo stesso fabbisogno della stazione appaltante.
Ancora, l’amministrazione dichiarava espressamente, a mezzo degli atti a base di gara, di voler reperire dispositivi di “alta fascia” e di preferire, fra questi, quelli dotati di “Algoritmo di prevenzione+trattamento delle tachiaritmie atriali” (premiati con punti 15) rispetto a dispositivi dotati “del solo algoritmo di prevenzione o del solo trattamento delle tachiaritmie atriali” (valorizzati con punti 7).
Dall’attribuzione, quasi doppia, di punteggio è chiaro come l’intento dell’amministrazione era quello di preferire un apparecchio tecnologicamente avanzato, dotato di un grado di automazione capace di coprire sia l’area della prevenzione che quella del trattamento.
Il giudicante, dunque, si interrogava in ordine a cosa, realmente, l’amministrazione aveva richiesto predisponendo il bando di gara e il proprio “invito ad offrire” soffermandosi, poi, sullo specifico punteggio da attribuire al prodotto dalla controinteressata (15 punti oppure 7).
In ordine al primo interrogativo, il Tar così descriveva la propria valutazione: “l’algoritmo di trattamento dell’aritmia non è altro che l’insieme di passaggi (di stimoli creati dal pacemaker secondo istruzioni predefinite) necessari al trattamento del singolo tipo di aritmia. Questo concetto non include necessariamente, invece, come erroneamente ritenuto dalla stazione appaltante, che il dispositivo debba essere in grado di riconoscere in automatico l’esigenza (quindi di diagnosticare il tipo di aritmia) e somministrare in automatico la corretta terapia meccanica (trattamento). In altre parole, il dato testuale della lettera di invito non richiede che l’algoritmo di trattamento, al verificarsi dell’episodio aritmico, sia avviato dal dispositivo medesimo in automatico. Tale caratteristica attiene a una componente ulteriore, non indicata nella legge di gara, vale a dire a un algoritmo di intelligenza artificiale nella diagnosi dell’aritmia e avvio del trattamento.
Tale ricostruzione, tuttavia, non trovava appoggio da parte del Collegio che, dissentendo, criticava la nozione fornita dal primo giudicante, quando questi si limitava a definire l’algoritmo come “semplicemente una sequenza finita di istruzioni, ben definite e non ambigue, così da poter essere eseguite meccanicamente e tali da produrre un determinato risultato” .
È da sottolineare che una definizione di algoritmo di tale tenore risulta, estremamente ampia e, seppure corretta, nella sua estensione, ai fini del bando avrebbe finito per ricomprendere elementi che nulla aggiungevano al valore del prodotto, questo perché l’algoritmo in questione era la base del punteggio tecnico aggiuntivo e visto che tale punteggio era volto proprio ad individuare soluzioni tecnicamente più avanzate, non sarebbe stato logico, nel caso, dare il punteggio massimo tanto a un software che dipendeva integralmente dall’azione umana, quanto ad uno che automaticamente interviene in alcuni contesti, apportando un significativo vantaggio al prodotto[12].
Ciononostante, il Consiglio di Stato osserva come la nozione di algoritmo, applicata a sistemi tecnologici, è ineludibilmente collegata al concetto di automazione, ovvero sistemi di azione e controllo idonei a ridurre l’intervento umano: maggiore è il grado di estraneità dell’intervento umano e maggiore è la complessità e dall’accuratezza dell’algoritmo che la macchina è chiamata a processare[13].
Di tutt’altra natura è, invece, la nozione di intelligenza artificiale, in questo caso, infatti, l’algoritmo riflette dei meccanismi di machine learnig e crea un sistema che non si limita solo ad applicare le regole sofware e i parametri preimpostati (come fa invece l’algoritmo “tradizionale”) ma, al contrario, elabora costantemente nuovi criteri di inferenza tra dati e assume decisioni efficienti sulla base di tali elaborazioni, secondo un processo di apprendimento automatico.
In sostanza, per ottenere la fornitura di un dispositivo con elevato grado di automazione, l’amministrazione non doveva far riferimento agli elementi dell’intelligenza artificiale, ma era sufficiente soffermarsi al concetto di algoritmo, ossia ad istruzioni capaci di fornire un efficiente grado di automazione, ulteriore rispetto a quello di base, sia nell’area della prevenzione che del trattamento delle tachiaritmie atriali, in modo da assecondare le esigenze della P.A., refluite nel bando di gara, in ordine alla preferenza della presenza congiunta di algoritmi di prevenzione e trattamento delle “tachiaritmie atriali”.
In ultimo, il Collegio si soffermava sull’aspetto tecnico della funzione “Non invasive program stimulation” (NIPS), assicurata, per l’area del trattamento, dal prodotto offerto dalla controinteressata[14].
Di contro, la controinteressata, a mezzo della riproposizione dei motivi assorbiti, sosteneva che anche il dispositivo offerto dalla ricorrente era privo del trattamento automatico delle tachiaritmie atriali.
Tuttavia, la Commissione, composta da comprovati esperti (clinici e ingegneri biomedici), riteneva - sulla base di valutazioni che non apparivano affette da manifesta erroneità o vizi logici - che tale algoritmo consentiva in maniera automatica di contrastare il ritmo prefibrillatorio e che in sostanza, avendo il contrasto del ritmo prefibrillatorio anche una valenza terapeutica, questo era da annoverare nella categoria dell’algoritmo di trattamento. Il Collegio si determinava per l’accoglimento dell’appello ribaltando quanto sostenuto in primo grado.
5. Conclusioni
La sentenza in commento è utile al fine di valutare quelle che sono le possibili problematiche legate alle nuove terminologie tecnologiche presenti nella materia amministrativa.
La pronuncia offre notevoli spunti interpretativi della lex specialis connessi alla problematica definizione di algoritmo, non ancora permeata placidamente nel classico apparato amministrativo e, in parte, ancora decontestualizzata e capace di creare dei dubbi interpretativi. È sufficiente soffermarsi sul fatto che, erroneamente, il Tar aveva ritenuto che l’automazione non fosse tanto un concetto da ricollegarsi agli algoritmi, bensì all’intelligenza artificiale[15]. Si è precisato, invece, che per automatizzare è sufficiente costruire una relazione logica tra input e output, che non necessita alcuna attività di machine learning[16]. Gli spunti riflessivi restano molteplici, una mera interpretazione della definizione di “algoritmo” risulta, ad oggi, in grado da fungere da spartiacque tra l’accoglimento o il rigetto del ricorso giurisdizionale, oltre che a modificare l’esito dell’aggiudicazione stessa. Ciononostante la definizione di algoritmo[17]è ancora lontana da una sua completa statuizione definitiva, tuttavia l’interpretazione dei bandi di gara, non può prescindere da un approccio sistemico, lontano da una mera e asettica interpretazione letterale, il tutto al fine di agevolare le stazioni appaltanti nella ricerca dei beni sul mercato, che mai dovrebbero scontrarsi con delle frizioni di carattere interpretativo, capaci di creare contraddizioni, inefficienza e, a cascata, contezioso.
[1] Per approfondire, D.U. Galetta e J. G. Corvalán, Intelligenza Artificiale per una Pubblica Amministrazione 4.0? Potenzialità, rischi e sfide della rivoluzione tecnologica in atto in Federalismi. n.3/2019, federalismi.it; M. C. Cavallaro e G. Smorto, Decisione pubblica e responsabilità dell’amministrazione nella società dell’algoritmo in Federalismi. n.16/2019 4 Settembre 2019; G. Iozzia, L’Intelligenza artificiale deve essere “spiegabile”, ecco i progetti e le tecniche in Agendadigitale.eu, 25 Novembre 2019; R. Pardolesi e A. Davola, Algorithmic legal decision making: la fine del mondo (del diritto) o il paese delle meraviglie? in Questione Giustizia n.1/2020; A. Longo e G. Scorza, Intelligenza Artificiale, L’impatto sulle nostre vite, diritti e libertà in Mondadori Università, 2020; E. Errichiello, Algoritmi nella PA: accesso al software e diritti del produttore, i paletti del Consiglio di Stato in Agendadigitale.eu, 5 Febbraio 2020; B. Raganelli, Decisioni pubbliche e algoritmi: modelli alternativi di dialogo tra forme di intelligenza diverse nell’assunzione di decisioni amministrative in federalismi.it, 22 Luglio 2020; D. Coyle, The tensions between explainable AI and good public policy, Brookings Institution Press. September 15, 2020, R. Rolli e M. D’Ambrosio, Consenso e accountability: i poli del commercio dei dati personali online, P.A. Persona e Amministrazione, 2022.
[2] In tema di algoritmo il Consiglio di Stato si è più volte pronunciato, cfr. Cons. di Stato n. 881/2020, n. 2270/2019, n. 30/2020, n. 8472/2019.
[3] Ne parlava già G. Sartor, Le applicazioni giuridiche dell’intelligenza artificiale. La rappresentazione della conoscenza, Bologna 1990, P.L.M Lucatuorto, Intelligenza artificiale e diritto: le applicazioni giuridiche dei sistemi esperti, in Cyberspazio e diritto, 2006.
[4] Nello specifico, la lex gara prevedeva tra i criteri di valutazione dell’offerta tecnica, il parametro tabellare “Algoritmo di prevenzione+trattamento delle tachiaritmie atriali” al quale assegnare 15 punti per l’ipotesi di presenza di entrambi gli algoritmi e 7 punti nel caso di “presenza del solo algoritmo di prevenzione o del solo trattamento delle tachiaritmie atriali”.
[5] Si legge nella sentenza in commento che “La commissione come algoritmo di trattamento automatico per Microport ha considerato l’accelerazione su PAC frequenti che consente in maniera automatica di contrastare il ritmo prefibrillatorio costituito dal riconoscimento di frequenti ectopie atriale e trattato mediante riduzione/omogeneizzazione dei periodi refrattari atriali. L’algoritmo denominato NIPS (Noninvasive program stimulation) e presente nel prodotto offerto da Abbott costituisce invece uno studio elettrofisiologico eseguito in office da un operatore specialistico”.
[6] Il Tar adito sanciva che “la legge di gara richiede unicamente la presenza di un algoritmo di trattamento (senza altro specificare)” e “con esso ci si richiama, semplicemente, a una sequenza finita di istruzioni, ben definite e non ambigue, così da poter essere eseguite meccanicamente e tali da produrre un determinato risultato (come risolvere un problema oppure eseguire un calcolo e, nel caso di specie, trattare un’aritmia)”.
[7] Specialmente nei dispositivi di c.d. alta fascia oggetto della gara de qua.
[8] Il Machine Learning (ML) è un sottoinsieme dell'intelligenza artificiale (AI) che si occupa di creare sistemi che apprendono o migliorano le performance in base ai dati che utilizzano. Intelligenza artificiale è un termine generico e si riferisce a sistemi o macchine che imitano l'intelligenza umana. I termini machine learning e AI vengono spesso utilizzati insieme e in modo interscambiabile, ma non hanno lo stesso significato. Un'importante distinzione è che sebbene tutto ciò che riguarda il machine learning rientra nell'intelligenza artificiale, l'intelligenza artificiale non include solo il machine learning. Attualmente, il machine learning è utilizzato ovunque. Quando interagiamo con le banche, acquistiamo online o utilizziamo i social media, vengono utilizzati gli algoritmi di machine learning per rendere la nostra esperienza efficiente, facile e sicura. Il Machine Learning e la tecnologia associata si stanno sviluppando rapidamente e noi abbiamo appena iniziato a scoprire le loro funzionalità, in oracle.com
[9] Atteso che l'accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito, il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli articoli 1362 e seguenti del codice civile, non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti. A tale fine, l'estrapolazione del singolo brano della motivazione del provvedimento che si intenda censurare deve associarsi a una puntuale evidenziazione del vizio, dissolvendosi altrimenti la deduzione critica in un'astratta enunciazione di principio, in Guida al diritto 2022, 49.
[10] Così, tra le tante, Cons. Stato, V, 13 gennaio 2014 n. 72.
[11] Cfr. Cons. Stato, V, 15 luglio 2013, n. 3811 e Cons. Stato, V, 12 settembre 2017, n. 4307.
[12] Sul punto, Focus sentenze G.A. su decisioni algoritmiche – Cosa si intende per algoritmo? Serve buonsenso!
13 Settembre 2022, in irpa.eu.
[13] V. MANCUSO, Intelligenza delle macchine e libertà dell’uomo, Relazione al convegno “Uomini e macchine”, Roma, 30 gennaio 2018, in cui l’Autore conclude: «Sono stato invitato a parlare di “Intelligenza delle macchine e libertà dell’uomo” e io concludo con l’auspicio che le macchine non ci tolgano il caos. È dal caos, infatti, come insegnano tutte le antiche cosmogonie, che prende forma la natura, anche la natura umana, la quale, tra tutte le manifestazioni naturali, è la più caotica, e per questo la più libera».
[14] Il nodo da sciogliere era quello relativo alla qualificazione di tale funzione come algoritmo di trattamento delle tachiaritmie atriali e, dall’esame degli atti di causa, emerge che il NIPS è una funzione che deve qualificarsi come test elettrofisiologico: in sostanza il test NIPS è attivato solo presso ambulatori cardiologici attraverso un programmatore esterno, che viene utilizzato dall’operatore clinico per assumere temporaneamente il controllo del pacemaker e per impartire, sulla base della valutazione in tempo reale del ritmo cardiaco, una sequenza di stimoli da erogare a scopo terapeutico (che possono essere interrotti e/o modificati ad ogni evento avverso), mentre le normali funzioni di sensing e di risposta automatica del pacemaker sono provvisoriamente inibite. Il test NIPS per converso non consente di correggere automaticamente le aritmie al momento dell’insorgere della disfunzione.
In tal senso depone anche l’estratto dell’“elenco sistematico delle procedure diagnostiche e terapeutiche del Ministero della Salute”, dove la stimolazione elettrica non invasiva programmata NIPS è classificata nell’ambito delle procedure ospedaliere/ambulatoriali e in particolare all’interno della categoria “procedure diagnostiche sul cuore e sul pericardio” ; così come la letteratura di settore (cfr. Tabella riassuntiva 3 del contributo pubblicato su EuroPace 2009, vol. 11, pagg. 1272-1280 “Novel pacing algorithms: do they represent a beneficial proposition for patients, physicians, and the health care system?” Simantirakis E. N., Arkolaki E. G.) che non ricomprende la funzione NIPS negli elenchi di riferimento degli algoritmi incorporati nei pacemakers per la gestione del ritmo cardiaco in continuo e in automatico.
A nulla vale osservare che anche il test NIPS funziona sulla base di un algoritmo interno. Il Collegio non lo mette in dubbio e tuttavia confida di aver chiarito che siffatto algoritmo, che sovrintende al test diagnostico, non interviene in funzione di automazione delle funzioni di prevenzione e trattamento delle tachiaritmie atriali come richiesto dall’amministrazione, e dunque correttamente l’amministrazione non lo ha considerato ai fini del punteggio.
[15] Affermava infatti che “il dato testuale della lettera di invito non richiede che l’algoritmo di trattamento, al verificarsi dell’episodio aritmico, sia avviato dal dispositivo medesimo in automatico. Tale caratteristica attiene a una componente ulteriore, non indicata nella legge di gara, vale a dire a un algoritmo di intelligenza artificiale nella diagnosi dell’aritmia e avvio del trattamento”.
[16] Il Consiglio di Stato evidenziava come “Cosa diversa è l’intelligenza artificiale. In questo caso l’algoritmo contempla meccanismi di machine learning e crea un sistema che non si limita solo ad applicare le regole software e i parametri preimpostati (come fa invece l’algoritmo “tradizionale”) ma, al contrario, elabora costantemente nuovi criteri di inferenza tra dati e assume decisioni efficienti sulla base di tali elaborazioni, secondo un processo di apprendimento automatico”.
[17] Cfr. La nozione di algoritmo “tecnologico” secondo una recente decisione del Consiglio di Stato, 13 Gennaio 2022, in irpa.eu.
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