ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Giudizi in corso e intervento legislativo. Dalla Consulta un altro arresto
di Tiziana Orrù
Il contenzioso sul trattamento economico del personale dell’Amministrazione affari esteri nei periodi di servizio in territori stranieri è l’occasione per la Corte costituzionale per rimettere un punto fermo sulla possibile interferenza della legge, giustificata da ragioni finanziarie, nell’attività giurisdizionale. Si rinnova così il dialogo con la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Sommario: 1. Premessa – 2. La disciplina: le indennità dovute al dipendente pubblico per il servizio all’estero – 3. Alcune travagliate vicende giurisprudenziali – 4. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione – 5. Le valutazioni giuridiche espresse dalla Consulta – 6. Conclusioni: c’è un giudice anche a Strasburgo.
1. Premessa
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 145 depositata il 13 giugno 2022 (relatrice prof.ssa Sciarra) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito con modificazioni nella l. 14 settembre 2011, n. 148, nella parte in cui dispone, per le fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore, che il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell'Amministrazione affari esteri, nel periodo di servizio all'estero, anche con riferimento allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno, non include l'indennità di amministrazione.
La decisione (allegata alla presente nota) ha ad oggetto il pagamento dell'indennità di amministrazione in favore del personale all'estero e pone termine ad un contenzioso “seriale” di ampia portata, che si è sviluppato in primo e secondo grado, circa la natura dell’art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 che, interpretando l’art. 170 del d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18 (Ordinamento dell’Amministrazione degli affari esteri), ha escluso l'indennità di amministrazione dal trattamento economico complessivo spettante ai dipendenti del Ministero degli Affari Esteri in servizio all'estero.
La sentenza della Consulta ha dichiarato l'incostituzionalità di tale interpretazione autentica limitatamente alle fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore per contrasto, tra l’altro, con l’art. 117, comma 1 Cost. in relazione all’art. 6 della CEDU.
La decisione desta un certo interesse non solo per il definitivo accertamento della natura innovativa del citato art. 1-bis, ma anche per il percorso argomentativo della Corte Costituzionale nella ricostruzione dei rapporti tra la normativa nazionale e quella sovranazionale soprattutto con riferimento all’ambito di applicazione della Carta dei diritti fondamentali.
La Corte Costituzionale, valorizzando la conoscenza delle reciproche aree di intervento, perfeziona e sviluppa un dialogo con la Corte EDU fondato su una reciproca opera di costruttiva cooperazione riaffermando con forza il principio
2. La disciplina: le indennità dovute al dipendente pubblico per il servizio all’estero.
Il d.lgs. n. 165 del 24 marzo 2001, testo unico sul lavoro pubblico, disciplina i rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e detta norme di carattere generale sulle retribuzioni dei dipendenti pubblici.
Coerentemente con la natura di disciplina organica e tendenzialmente completa del testo unico, il citato decreto legislativo classifica, fin dai primi articoli, le varie categorie di dipendenti pubblici, distinguendo tra personale in regime di diritto pubblico (i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e le Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia e altre puntuali specificazioni) e personale privatizzato, i cui rapporti di lavoro sono regolati con contratti individuali, disciplinati dalle disposizioni contenute nel codice civile (capo I, titolo II, libro V) e dalle legge sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa. Successivamente è intervenuta la c.d. riforma Brunetta, codificata con il d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, recante norme sull’attuazione della l. 4 marzo 2009, n. 15 in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, che ha introdotto una riforma organica della disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, di cui all'art. 2, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
Il medesimo d.lgs. n. 165 del 2001, all’art. 45, comma 1 dispone che il trattamento economico fondamentale ed accessorio, fatte salve alcune eccezioni, è definito dai contratti collettivi.[1]
Il successivo comma 5 prevede poi in particolare che le funzioni e i relativi trattamenti economici accessori del personale non diplomatico del Ministero degli affari esteri, per i servizi che si prestano all'estero, sono disciplinati, limitatamente al periodo di servizio ivi prestato, dalle disposizioni del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18 e successive modificazioni ed integrazioni nonché dalle altre pertinenti normative di settore del Ministero degli affari esteri.
L’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967 dispone:
"Il personale dell'Amministrazione degli affari esteri, oltre allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno, compresa l'eventuale indennità o retribuzione di posizione nella misura minima prevista dalle disposizioni applicabili, tranne che per tali assegni sia diversamente disposto, percepisce, quando è in servizio presso le rappresentanze diplomatiche e gli uffici consolari di prima categoria, l'indennità di servizio all'estero, stabilita per il posto di organico che occupa, nonché le altre competenze eventualmente spettanti in base alle disposizioni del presente decreto.
Nessun'altra indennità ordinaria e straordinaria può essere concessa, a qualsiasi titolo, al personale suddetto in relazione al servizio prestato all'estero in aggiunta al trattamento previsto dal presente decreto.
A norma dell'articolo 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 le disposizioni di cui all’art. 170 si interpretano nel senso che:
a) il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell'Amministrazione degli affari esteri nel periodo di servizio all'estero, anche con riferimento a "stipendio" e "assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno", non include né l'indennità di amministrazione né l'indennità integrativa speciale;
b) durante il periodo di servizio all'estero al suddetto personale possono essere attribuite soltanto le indennità previste dal decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18.
Al fine di una migliore comprensione della vicenda sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale giova premettere alcune considerazioni in merito agli istituti retributivi presi in considerazione dalle norme citate.
L’indennità di servizio all’estero disciplinata dall’art. 171 del d.P.R. n. 18 del 1967 non ha natura retributiva, essendo destinata a sopperire agli oneri derivanti dal servizio all'estero, ed è ad essi commisurata. Essa tiene conto della peculiarità della prestazione lavorativa all'estero, in relazione alle specifiche esigenze del servizio diplomatico-consolare; è onnicomprensiva; ha carattere di rimborso spese e, come tale, non è tassabile né pensionabile; ha carattere transitorio. È percepita, cioè, solo nei periodi in cui si permane all’estero (in tal senso Cass. 14112/2016; 6039/2018; 27345/2019).
L’indennità di amministrazione è stata istituita con il primo ccnl del Comparto Ministeri (1994/1997) in attuazione del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 72, comma 2 con la finalità di conservare nell'impiego privatizzato i trattamenti accessori corrisposti ai dipendenti ministeriali nel regime pubblicistico con carattere di generalità e continuità. Nei successivi rinnovi contrattuali gli importi previsti a titolo di indennità di amministrazione hanno tentato di agevolare il processo di perequazione delle retribuzioni complessivamente spettanti al personale del comparto ministeri. L'art. 17, comma 11, del ccnl integrativo del ccnl 1998/2001 ha poi specificamente previsto che l’indennità di amministrazione è corrisposta per dodici mensilità, ha carattere di generalità ed ha natura fissa e ricorrente.
In estrema sintesi può senz’altro essere affermato che l'indennità di amministrazione è una voce della retribuzione accessoria corrisposta continuativamente per dodici mensilità in tutte le amministrazioni dell'ex comparto Ministeri con importi diversi da amministrazione ad amministrazione, ma in misura fissa nell'ammontare in relazione a ciascuna posizione di inquadramento (in tal senso Cass. S.U. 13 luglio 2005 n. 14698 e successive conformi: Cass. 18196/2017; 22612/2015; 9313/2011; 11814/2008, 5118/2008, 2355/2007, 19564/2006).
L’indennità integrativa speciale (i.i.s.), istituita con l. n. 324 del 1959, a seguito di una costante evoluzione ad opera di numerosi interventi normativi e contrattuali collettivi (tra cui il ccnl di comparto del 24 luglio 2003 che ha previsto il c.d. conglobamento dell’indennità integrativa speciale nello stipendio tabellare) ha perduto nel tempo la sua connotazione originaria, per assumere definitivamente un carattere retributivo; attualmente costituisce per il personale pubblico contrattualizzato un assegno mensile, calcolato in misura diversa per le differenti Aree/posizioni economiche, avente lo scopo di adeguare le retribuzioni al costo della vita e viene corrisposto per tredici mensilità.
Tuttavia l’i.i.s., in considerazione delle diversità di regime normativo previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva, non ha un’applicazione uniforme per tutti i dipendenti pubblici in servizio all’estero.[2]
3. Alcune travagliate vicende giurisprudenziali.
La ricostruzione della diversità di natura e funzione delle voci retributive riconosciute al personale dipendente del MAECI in servizio all’estero ha determinato la composizione di un cospicuo contenzioso di natura seriale presente su tutto il territorio nazionale che spesso si è intersecato con il distinto contenzioso del personale scolastico in servizio all’estero.[3]
La giurisprudenza di merito e di legittimità ha, ad esempio, affermato la diversa natura dell’assegno di sede estera percepito dal personale scolastico in servizio all’estero rispetto alle speciali indennità previste dall’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967 per il personale dell’Amministrazione degli Affari Esteri.
La scelta ermeneutica ormai consolidata[4] si fonda sulla differente denominazione e struttura delle indennità riconosciute dall'art. 27 del d.lgs. 27 febbraio 1998, n. 62 (assegno di sede) per i dipendenti del Ministero dell'istruzione, ai quali non si applica il coefficiente di maggiorazione di sede stabilito dall'art. 5 del d.lgs. 27 febbraio 1998, n. 62 per il personale del servizio diplomatico consolare del Ministero degli esteri, al quale invece spetta una indennità di servizio estero quantificata in relazione alle specifiche esigenze del servizio diplomatico consolare in considerazione del tenore di vita e del decoro specificamente connessi agli "obblighi derivanti dalle funzioni esercitate”.
Corollario di tale interpretazione è che il richiamato art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011 (oggetto della pronuncia della Corte Costituzionale in commento) non si applica ai docenti che prestano servizio all’estero, in quanto la disposizione si riferisce esplicitamente all’indennità di servizio estero prevista per il personale dell’Amministrazione degli Affari Esteri, che è analoga ma non coincidente, neppure negli importi, con l’assegno di sede percepito dagli insegnanti.
Altra questione correlata al tema in discussione ha ad oggetto il pagamento dell'indennità integrativa speciale non corrisposta dall'Amministrazione degli Affari Esteri sullo stipendio percepito durante il periodo di servizio svolto all'estero, stante la pretesa non cumulabilità di quell'indennità con l'indennità di servizio all'estero erogata.
Il contenzioso ha trovato definitiva conferma dell’applicabilità alla fattispecie della norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138,[5] ritenuta costituzionalmente legittima.
La diversa opzione circa il sindacato di legittimità costituzionale della norma rispetto al cumulo tra indennità di amministrazione e indennità di sede estera (oggetto della decisione in commento) risiede nella natura e nella funzione degli emolumenti (i.i.s. e i.s.e.), entrambi corrisposti per sopperire ad esigenze correlate al costo della vita.
La giustificazione si rinviene nel fatto che la determinazione dei coefficienti di sede necessari per il calcolo dell’i.s.e. tiene conto delle variazioni del costo della vita, del corso dei cambi, dei disagi eventuali della sede, nonché dei costi per gli alloggi e per il personale domestico, indici tutti equivalenti all'indice del costo della vita, posto a base dell'aggiornamento annuale dell'indennità integrativa speciale.[6]
Lo stesso legislatore, nel ribadire la vigenza dell’indennità integrativa speciale con il d.lgs. n. 179 del 2009 (n. 1628 dell'allegato 1), all'art. 1, dopo aver indicato le modalità di calcolo della i.i.s., alla lettera d) del comma 2 ha stabilito che detta indennità “non è dovuta al personale civile e militare in servizio all'estero fornito dell'assegno di sede previsto dalla L. 4 gennaio 1951 n. 13 o da disposizioni analoghe”.
Differentemente per il personale scolastico (dipendente dal MIUR) che presta servizio nelle istituzioni estere la questione relativa alla compatibilità tra assegno di sede e indennità integrativa speciale è stata risolta sulla base della diversa disciplina che regola il rapporto di lavoro, sul presupposto che la norma di interpretazione autentica abbia riguardo al solo personale del MAECI, come chiaramente espresso dalla lettera b) dello stesso art. 1-bis, che prevede che durante il periodo di servizio all’estero al suddetto personale possono essere attribuite soltanto le indennità previste dal d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18.
Coerentemente, ed in ragione del ruolo attribuito alle parti sociali attraverso la contrattazione collettiva in relazione alla determinazione del trattamento economico dei dipendenti pubblici (d.lgs. n. 165 del 2001, art. 45), la clausola di cui alla nota a verbale dell'art. 76 del c.c.n.l. del comparto scuola del 24 luglio 2003 ha previsto specificamente che la ritenuta relativa all'indennità integrativa speciale sullo stipendio, ivi stabilita per il personale in servizio all'estero, non è applicabile a decorrere dal successivo c.c.n.l. comparto scuola del 29 novembre 2007, ove non è stata reiterata la relativa previsione, avendo detta indennità perso la sua iniziale funzione di adeguamento al costo della vita e concorrendo, ormai, a formare lo stipendio tabellare.[7]
Il contenzioso di cui si è invece occupata la Corte Costituzionale con la decisione in commento ha ad oggetto la cumulabilità, per i periodi di servizio all’estero, dell’indennità di sede estera con l’indennità di amministrazione.
4. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione.
Alcuni dipendenti del MAECI (già Ministero degli Affari Esteri - MAE) avevano presentato ricorso al giudice del lavoro chiedendo una pronuncia di accertamento del loro diritto a percepire, durante il periodo di servizio all’estero, l’indennità di amministrazione unitamente all’indennità di servizio estero prevista dall’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, con conseguente richiesta di condanna al pagamento delle somme dovute a titolo di indennità di amministrazione durante il periodo di servizio all’estero.
In sintesi, nel giudizio di fronte alla Corte di Cassazione contestavano l’illegittimità della mancata corresponsione dell’indennità di amministrazione prevista dalla contrattazione collettiva sulla base della non cumulabilità di tale emolumento con l’indennità di servizio estero prevista dall’art. 170 d.P.R. n. 18 del 1967 così come disposto art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011 n. 138, convertito, con modificazioni, in l. 14 settembre 2011 n. 148.
Specificavano che fino all’entrata in vigore della norma censurata la giurisprudenza di merito si era orientata prevalentemente a favore della tesi della cumulabilità, in coerenza con la natura retributiva e non compensativa dell’indennità di amministrazione, che la rendeva assimilabile agli “assegni a carattere fisso e continuativo”.
Assumevano la natura innovativa della disposizione del suddetto art. 1-bis e, dunque, la sua inapplicabilità ratione temporis alla fattispecie di causa e chiedevano, ove la Corte avesse invece ritenuto la norma di interpretazione autentica, di rimettere la questione alla Corte Costituzionale - per contrasto: con l'art. 6 della CEDU in relazione all'art. 10 Cost., comma 1 e art. 117 Cost., comma 1; con l'art. 1 del protocollo I addizionale alla CEDU, sempre in relazione all'art. 10 Cost., comma 1 e art. 117 Cost., comma 1; con gli artt. 101, 102, 104 Cost.; con gli artt. 3 e 36 Cost.
La Corte di Cassazione con ordinanza del 27/11/2020 n. 27174, previa declaratoria di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione, ha rimesso il giudizio alla Corte Costituzionale sul presupposto che l’efficacia retroattiva della norma (chiaramente espressa nel testo) entrerebbe in contrasto sul piano della ragionevolezza con molteplici valori costituzionalmente tutelati.[8]
L’esito del contenzioso sorto in epoca antecedente all’emanazione dell’art. 1-bis citato riteneva legittimo il cumulo dell’indennità di amministrazione e dell’indennità di sede estera in considerazione della natura e della funzione dei due emolumenti[9], che pertanto dovevano essere erogati a tutto il personale in servizio all’estero.
Il primo dubbio di legittimità costituzionale del d.l. n. 138 del 2011, art. 1-bis, attiene, secondo l’ordinanza di rimessione, alla violazione del parametro della ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., comma 1: la diversità tra la disciplina originaria e quella sopravvenuta, che presenta un insopprimibile elemento di novità nella indennità oggetto della interpretazione; qualifica l’art. 1-bis in termini di norma innovativa con efficacia retroattiva… che può costituire un indice, sia pure non dirimente, della irragionevolezza della disposizione impugnata.
Il secondo e terzo dubbio di legittimità costituzionale attengono alla violazione degli artt. 24 comma 1, 101, 102 e 104 Cost., sotto il profilo della compromissione dell’effettività della tutela giurisdizionale in quanto la norma è dichiaratamente finalizzata ad incidere su concrete fattispecie sub iudice.[10]
Il quarto profilo di contrasto con la Carta costituzionale è ravvisato nei confronti degli artt. 111 e 117, comma 1 Cost., - quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle Libertà Fondamentali - poiché la norma censurata, nel predeterminare l’esito dei giudizi in favore dell’amministrazione statale, si porrebbe in contrasto con il principio della parità delle parti, con il diritto a un equo processo e con la tutela dell’affidamento.[11]
L’ultimo sospetto di illegittimità costituzionale si configura, secondo l’ordinanza di rimessione, in riferimento all'art. 39 Cost., comma 1, in quanto l’intervento legislativo retroattivo operato sull’assetto del trattamento economico complessivo dei dipendenti del MAECI avrebbe leso l’autonomia delle parti sociali nella sede negoziale collettiva.
5. Le valutazioni giuridiche espresse dalla Consulta.
A seguito dell’udienza di discussione del 10 maggio 2022 la Corte Costituzionale ha depositato in data 13 Giugno 2022 la sentenza n. 145 con la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 nella parte in cui dispone, per le fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore, che il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell'Amministrazione affari esteri, nel periodo di servizio all'estero, anche con riferimento allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno, non include l'indennità di amministrazione.
La Corte, nel confermare la natura giuridica e la funzione dell’indennità di amministrazione e dell’indennità di sede estera così come ricostruite dalla giurisprudenza di legittimità, ha rilevato che l’efficacia retroattiva della legge deve trovare adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale, così come chiarito dalla Corte EDU in plurime occasioni.
La Corte Costituzionale richiama in apertura della motivazione la sentenza della medesima Corte n. 133 del 2020, in cui si ribadisce che una norma può essere qualificata di interpretazione autentica solo se esprime, anche nella sostanza, un significato appartenente a quelli riconducibili alla previsione interpretata, secondo gli ordinari criteri di interpretazione della legge, e che il legislatore può adottare norme che precisino il significato di altre disposizioni, anche in mancanza di contrasti giurisprudenziali, purché la scelta imposta dalla legge interpretativa rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario.
Nel caso di specie esclude che l’art. 1-bis costituisca una norma di interpretazione autentica quanto piuttosto una norma innovativa con efficacia retroattiva, precisando che l’efficacia retroattiva della legge deve trovare un’adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale, così come chiarito dalla Corte EDU in plurime occasioni.[12]
Prosegue specificando che nella relazione tecnica all’emendamento 1.0.35 presentato al Senato della Repubblica in sede di conversione in legge, con modificazioni, del d.l. n. 138 del 2011, si dava atto che il contenzioso riferito all’indennità di amministrazione constava di trentadue ricorsi, per un numero complessivo di 1131 dipendenti, dei quali 454 avevano ottenuto sentenza favorevole; che le sentenze di primo grado già emesse erano otto, ed altrettante erano le sentenze che avevano deciso in senso sfavorevole per l’Amministrazione. Si stimava inoltre il presumibile impatto economico di tale contenzioso nei successivi cinque anni.
La ratio della norma oggetto di emendamento era espressamente individuata nell’esigenza di chiarire la portata dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, per porre termine al contenzioso «seriale», riferito sia all’indennità di amministrazione, sia all’indennità integrativa speciale, dal quale possono derivare ingenti oneri a carico della finanza pubblica.
Rileva la Corte che i soli motivi finanziari, volti a contenere la spesa pubblica o a reperire risorse per far fronte a esigenze eccezionali, non bastano a giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso.
L’efficacia retroattiva della legge, finalizzata a preservare l’interesse economico dello Stato che sia parte di giudizi in corso, si pone in evidente e aperta frizione con il principio di parità delle armi nel processo e con le attribuzioni costituzionalmente riservate all’autorità giudiziaria.
Le leggi retroattive o di interpretazione autentica che intervengono in pendenza di giudizi di cui lo Stato è parte, in modo tale da influenzarne l’esito, comportano un’ingerenza nella garanzia del diritto a un processo equo e violano un principio dello stato di diritto garantito dall’art. 6 CEDU.
Conclusivamente la Corte Costituzionale ha evidenziato, sempre con riguardo alla norma censurata, che lo scopo dichiarato di porre fine al contenzioso «seriale», che aveva visto l’Amministrazione soccombente, non consente di invocare motivi imperativi di interesse generale, non esplicitati nei lavori preparatori e neppure ricavabili dall’esame del quadro normativo, in quanto le pretese delle parti coinvolte nel contenzioso risultano incardinate nelle fattispecie sorte prima dell’entrata in vigore della disposizione con efficacia retroattiva, proprio perché volte a preservare la corrispettività fra prestazioni svolte all’estero e trattamento retributivo complessivo.
6. Conclusioni: c’è un giudice anche a Strasburgo
La decisione in commento conferma le indicazioni rinvenibili nella giurisprudenza costituzionale rispetto al ruolo da riconoscersi alla giurisprudenza europea, quale espressione di una costruttiva cooperazione nell’ambito di complesse dinamiche interistituzionali.
Una questione centrale e continuamente ricorrente è quella relativa al ruolo da attribuire alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Non è questa la sede adatta per dilungarsi sul punto, tuttavia è bene ricordare che il problema del rispetto della giurisprudenza di Strasburgo è emerso con forza con le “sentenze gemelle” del 2007 n. 348 e n. 349, nelle quali la Corte Costituzionale ha affermato che la CEDU, come interpretata dalla Corte EDU, rappresenta, per effetto del rinvio mobile previsto dall’art. 117, primo comma, Cost., una fonte di rango sub-costituzionale attraverso la quale ricercare il più ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, comma 1, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.
L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale ha consentito di rafforzare il principio secondo il quale l’enucleazione dalle pronunce di Strasburgo di norme da porre a base del controllo di costituzionalità è possibile a condizione che esse riflettano uno stato consolidato di quella giurisprudenza, ovvero il suo diritto vivente, e che da esse derivi un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali.
La Corte Costituzionale ha in più occasioni favorito l’integrazione dell’ordinamento interno con i livelli sovranazionali di protezione dei diritti, accogliendo le interpretazioni fornite dalla Corte di Strasburgo che assicuravano un livello di tutela dei diritti più ampio di quello garantito dalle norme nazionali.[13]
Al contrario, ribadendo il suo ruolo di garante ultima delle libertà fondamentali consacrate dalla Carta costituzionale, la Corte ha negato l’integrazione del diritto nazionale alla giurisprudenza CEDU che non riconosceva adeguati standard di tutela.[14]
Mentre, infatti, la Corte EDU pronuncia con effetti limitati al caso concreto, la Corte Costituzionale è chiamata ad apprestare una tutela dei diritti sistemica e non frazionata, inquadrandoli nella cornice pluralistica della Costituzione.
Facendo applicazione di quanto sopra, anche nel caso in commento la Corte Costituzionale ha fatto propri i principi e le regole del diritto ultranazionale dei diritti umani, trasfondendoli nel diritto nazionale.
L’arresto della Corte Costituzionale ha, infatti, l’indubbio merito di consolidare il principio più volte espresso dalla giurisprudenza della Corte EDU[15] secondo il quale le considerazioni di natura finanziaria non possono, da sole, autorizzare il potere legislativo a sostituirsi al giudice nella definizione delle controversie, né consentire la retroattività di una norma. L’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia può essere giustificata solo per imperative ragioni di interesse generale.
[1] In sintesi la contrattazione collettiva è considerata come una fonte eteronoma di livello nazionale che determina il trattamento economico dei dipendenti della Pubblica Amministrazione. Questo è costituito dai compensi di natura fissa e continuativa (trattamento fondamentale) e da indennità di varia natura; alcune di esse concorrono con lo stipendio a formare il trattamento economico fondamentale, altre costituiscono il trattamento accessorio, ossia la componente variabile dello stipendio.
[4] Cfr. per tutte Cass. 30 ottobre 2014, n. 23058 e Cass. 16 novembre 2017, n. 27219.
[5] Cass. 17/12/2019, n. 33395 e successive conformi, tra le quali da ultimo Cass. 05/05/2021, n. 11759, per la quale la norma si è limitata ad enucleare una delle possibili opzioni ermeneutiche dell'originario testo normativo, alla quale si sarebbe comunque pervenuti per la natura e la funzione degli emolumenti: la chiara natura interpretativa, ha operato sul piano delle fonti, senza toccare la potestà di giudicare, poiché si è limitata a precisare la regola astratta ed il modello di decisione cui l'esercizio di tale potestà deve attenersi (v. ex plurimis, Corte Cost. n. 274 del 2006; n. 282 del 2005; n. 15 del 2005; n. 240 del 2007), definendo e delimitando la fattispecie normativa proprio al fine di assicurare la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico (v. Corte Cost. n. 209 del 2010), così da non vulnerare le attribuzioni del potere giudiziario e non incorrere in alcuna violazione dell'art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui impone al legislatore di conformarsi ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali e così a quello inerente al principio di preminenza del diritto ed a quello del processo equo, consacrati nell'art. 6 della CEDU, mentre, anche in considerazione delle interpretazioni rese plausibili dalla norma interpretata, difetta ogni elemento per potere desumere che sia stata diretta ad incidere sui giudizi in corso, per determinarne gli esiti (Corte Cost. n. 15 del 1995; n. 397 del 1994).
[6] La giurisprudenza amministrativa ha sempre evidenziato l’identità di funzione delle due indennità (v. Cons. Stato 25 maggio 2012, n. 3088; Consiglio di Stato 24 febbraio 2011, n. 1223.
[7] In tal senso Cass. n. 17134 del 2013, confermata da Cass., ord., 18/10/2019, n. 26617 che ha sottolineato il tema della non facile conciliabilità tra il disposto conglobamento della misura della indennità integrativa speciale nello stipendio tabellare e la natura non retributiva legislativamente qualificata - del d.lgs. n. 297 del 1994, art. 658 e successive modificazioni - dell’assegno di sede, con conseguente non agevole equiparabilità, sotto il profilo funzionale, dell’indennità integrativa speciale quale componente dello stipendio tabellare e l’assegno stesso.
[8] La Corte di Cassazione dubita che la norma sia sostenuta da adeguati motivi di interesse generale, sì da rappresentare un puntuale bilanciamento tra le ragioni della sua emanazione ed i valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi dall'efficacia a ritroso della norma adottata.
[9] V. infra § -1-
[10] L’Avvocatura dello Stato, nella memoria depositata per l’udienza pubblica del 4 marzo 2020, ha specificato che la ratio della norma risiede nella necessità "di fornire l'esatta interpretazione del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 170, al fine di porre termine al contenzioso seriale, riferito sia all'indennità di amministrazione sia all'indennità integrativa speciale, instauratosi nei confronti del MAE, dal quale possono derivare ingenti oneri a carico della finanza pubblica".
[11] La Corte di Cassazione richiama sia la giurisprudenza costante della Corte EDU, secondo cui è precluso
al legislatore di interferire sulle controversie in atto, salvo che ricorrano impellenti motivi di interesse generale, sia la giurisprudenza costituzionale che, in armonia con la giurisprudenza convenzionale, attribuisce rilievo, tra gli elementi sintomatici di un uso distorto della funzione legislativa, al metodo e alla tempistica dell’intervento del legislatore (sono richiamate le sentenze della Corte Costituzionale n. 174 del 2019 e n. 12 del 2018) sottolineando che i «motivi finanziari», esplicitati nella relazione tecnica dei lavori preparatori della norma censurata, non sarebbero sufficienti a giustificare l’intervento del legislatore
sul contenzioso in atto, né vi sarebbe stata l’esigenza di porre rimedio a imperfezioni del testo normativo
originario.
[12] In uno scrutinio stretto di costituzionalità, che si impone in questo caso, poiché serve riscontrare non “la mera assenza di scelte normative manifestamente irragionevoli, ma l’effettiva sussistenza di giustificazioni ragionevoli dell’intervento legislativo” (ex plurimis, sentenze n. 108 del 2019 e n. 173 del 2016), occorre verificare se le giustificazioni, poste alla base dell’intervento legislativo a carattere retroattivo, prevalgano rispetto ai valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi da tale efficacia a ritroso. Tali valori sono individuati nel legittimo affidamento dei destinatari della regolazione originaria, nel principio di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, nel giusto processo e nelle attribuzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (ex plurimis, sentenze n. 104 e n. 61 del 2022, n. 210 del 2021, n. 133 del 2020 e n. 73 del 2017).
[13] Ciò è avvenuto, ad esempio, con le sentenze in materia di risarcimento del danno derivante da appropriazione acquisitiva della pubblica amministrazione, meglio nota come “accessione invertita” (sentenza n. 349 del 2007); di computo del giusto indennizzo espropriativo (sentenza n. 338 del 2011); con la sentenza sulla revisione del processo penale per l’ipotesi in cui la sentenza di condanna sia stata resa in un giudizio che la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia considerato non equo per violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (sentenza n. 113 del 2011).
[14] Ciò è avvenuto con la sentenza n. 264 del 2012, relativa alla disciplina dei contributi previdenziali versati in Svizzera da lavoratori italiani. Al riguardo, la Corte di Strasburgo aveva ritenuto che contrastasse con la CEDU una legge italiana che modificava retroattivamente i trattamenti pensionistici di quei lavoratori. La Corte Costituzionale non si è allineata a tale pronuncia, considerando pienamente giustificata la disciplina retroattiva alla luce dei principi costituzionali di uguaglianza e solidarietà, non valutati dalla Corte di Strasburgo in sede di bilanciamento. La Corte italiana ha quindi ribattuto che, nel caso di specie, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretata dalla Corte EDU, non poteva integrare l’ordinamento interno.
[15] Ex plurimis, sentenze 29 marzo 2006, Scordino contro Italia, paragrafo 132; 31 maggio 2011, Maggio contro Italia, paragrafo 47; 15 aprile 2014, Stefanetti e altri contro Italia, paragrafo 39.
Il processo amministrativo sulle controversie PNRR e le sue criticità
di Francesco Volpe
Sommario: 1. Scopo dell’indagine. – 2. Ambito oggettivo di applicazione dell’art. 3, d.l. 7 luglio 2022, n. 85. – 3. Applicabilità del nuovo rito anche quando sia occulta alle parti e al giudice l’esistenza di un finanziamento PNRR. – 4. La diversità di regime, secondo che sia stata introdotta o no un’istanza cautelare. – 5. La cessazione degli effetti della misura cautelare. - 6. La cessazione degli effetti della misura cautelare e i giudizi introdotti prima dell’entrata in vigore del d.l. 7 luglio 2022, n. 85. – 7. Ricadute sistematiche della cessazione degli effetti della misura cautelare sul processo cautelare in generale e sul processo di ottemperanza. – 8. La fissazione dell’udienza di merito e i termini a difesa delle parti. – 9. Una nuova parte necessaria nel processo amministrativo: l’amministrazione titolare dell’intervento PNRR. Aspetti problematici e profili contraddittori. – 10. La nuova parte necessaria e i giudizi già pendenti. – 11. Conclusioni.
1. Scopo dell’indagine
Per come vengono frequentemente utilizzati, i decreti-legge sono diventati una sorta di disegni di legge rafforzati del Governo, assunti in modo da ottenere una calendarizzazione sollecita da parte delle Camere e in modo da godere di una specie di efficacia cautelare preventivarispetto al momento della loro approvazione parlamentare, che è data dalla legge di conversione.
Come tutti i disegni di legge, quindi, anche il decreto-legge che sia impiegato con queste finalità (affatto distorte) si presta a essere oggetto di modifiche, in occasione della sua definitiva approvazione.
Per questo motivo, l’art. 3, d.l. 7 luglio 2022, n. 85 è forse destinato a assumere contenuti diversi da quelli attuali.
Il rilievo incoraggia a proporne un’esegesi, non fosse altro che per suggerire, a chi volesse tenerne conto, alcuni emendamenti che possano superare le difficoltà di regime che il testo attuale sembra suscitare.
2. Ambito oggettivo di applicazione dell’art. 3, d.l. 7 luglio 2022, n. 85
Detta disposizione introduce l’ennesimo rito speciale nel processo amministrativo.
In ragione della priorità che si vuole riconoscere alle controversie che interessano l’attuazione del PNRR, queste ultime vengono a godere di un giudizio accelerato, la cui disciplina, tuttavia, non si esaurisce nella mera applicazione degli artt. 119 e 120 cpa, connotandosi, invece, per ulteriori peculiarità.
È preliminare a ogni altra indagine definire i limiti oggettivi del nuovo rito.
Esso si riferisce ai giudizi (il testo del decreto, tuttavia, parla di “ricorsi”) che abbiano “ad oggetto qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR”.
Dalla formula emergono due profili di immediata evidenza.
Il primo profilo attiene all’ampiezza e, per così dire, anche a una sorta d’indeterminatezza dei casi in cui la nuova normativa si applica.
È verosimilmente erroneo sostenere che il nuovo rito si riferirebbe alle sole controversie che investano le procedure a evidenza pubblica o le procedure espropriative collegabili in modo diretto ai medesimi finanziamenti.
Se così fosse, sarebbe difficile comprendere perché la riforma riconduca tali liti sotto la disciplina dell’art. 119 cpa, dal momento che esse, almeno in gran parte, già vi rientrerebbero per quanto esplicitamente disposto da quest’ultimo articolo.
A sostegno della tesi secondo la quale gli interventi, a cui si riferisce l’art. 3 in commento, non si limiterebbero ai procedimenti di realizzazione di opere pubbliche militano, peraltro, anche alcuni argomenti testuali.
Vi è, innanzi tutto, il comma 8 del medesimo art. 3, il quale (nel riferirsi alle liti instaurate prima dell’entrata in vigore del decreto-legge) precisa che esse riguardano “opere e interventi”, a dimostrazione del fatto che la norma prende in considerazione interventi che non consistono in opere.
Inoltre, l’art. 3 - nel riformare l’art. 48, comma 4, d.l. 31 maggio 2021, n. 77, e applicando alle relative controversie il regime dell’art. 125 cpa - contrappone ancora una volta le impugnazioni “degli atti relativi alle procedure di affidamento di cui al comma 1 e nei giudizi che riguardano le procedure di progettazione, autorizzazione, approvazione e realizzazione delle opere finanziate in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR e relative attività di espropriazione, occupazione e di asservimento” a quelle relative a “qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR”.
Se ne ricava, così, la volontà di ricondurre al nuovo rito tutti i procedimenti che siano in qualsiasi modo collegati con i finanziamenti del Piano nazionale; questo a valere tanto per il caso in cui il collegamento sia diretto, tanto per il caso in cui esso sia solo indiretto[1].
Concepito in un modo a tal punto esteso l’ambito di riferimento dell’art. 3, va rammentato, d’altra parte, che gli interventi del PNRR, nel complesso delle loro sei missioni, spaziano dall’ambiente, all’energia, all’istruzione, scolastica e universitaria, all’agricoltura, alla logistica e all’innovazione digitale, con la conseguenza che i medesimi finanziamenti possono essere il presupposto di una congerie altrettanto vasta di provvedimenti amministrativi (per lo più con funzioni di controllosull’attività economica dei privati) dipendenti da quello in cui è stato deciso il finanziamento stesso, i quali, allo stato, sono difficilmente individuabili, pur potendo essere suscettibili di sussunzione nella nuova previsione normativa.
Non si può escludere, perciò, che nel rito riformato debba ricadere, ad esempio, l’impugnazione degli esiti di un concorso universitario, se il posto a ruolo fosse in tal modo finanziato o che (sempre esemplificativamente) vi possa rientrare l’impugnazione da parte del terzo di un titolo edilizio o ambientale rilasciato a chi, per realizzare un impianto di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, abbia ottenuto un preventivo e analogo finanziamento, ancorché sulla scorta di una serie procedimentale distinta e indipendente.
Più in generale (se è consentita l’enfasi), quasi ogni attività amministrativa, in questo momento storico, “è PNRR”, Perciò, quasi ogni attività amministrativa è anche astrattamente riconducibile all’art. 3, d.l. 7 luglio 2022, n. 85, così da esporsi a un regime processuale che, per quel che si cercherà di esporre, non è privo di criticità.
3. Applicabilità del nuovo rito anche quando sia occulta alle parti e al giudice l’esistenza di un finanziamento PNRR
Un secondo profilo, che si ritiene di evidenziare in via preliminare, attiene al carattere oggettivo del collegamento della lite con i finanziamenti del PNRR, affinché il rito speciale si debba applicare.
Ciò significa che il nuovo rito è destinato ad imporsi indipendentemente dalla conoscenza (in capo a chi proponga il ricorso o, in tesi, anche in chi lo subisca) dell’esistenza del finanziamento.
Questo sembra evincersi dalla locuzione “qualora risulti anche sulla base di quanto rappresentato dalle amministrazioni o dalle altre parti del giudizio” contenuta nel citato art. 3 ai fini della sua stessa applicazione. Quell’“anche” allude all’ipotesi in cui l’esistenza del finanziamento non emerga dall’attività delle parti essendo, invece, oggetto di investigazione diretta del giudice, il quale, a tal fine, può dunque utilizzare gli strumenti istruttori d’ufficio che gli competono in forza degli artt. 63 ss. cpa.
Da questi rilievi deriva che l’applicabilità del nuovo rito alla specifica controversia potrebbe essere occulta, perché occulto potrebbe essere lo stesso finanziamento, in quanto erogato in seno a un procedimento amministrativo presupposto di cui le parti (ivi compresa la stessa amministrazione resistente) potrebbero non avere nessuna precisa contezza.
Salvo, poi, doversi ammettere che la medesima applicabilità potrebbe emergere nel corso del giudizio, causando – lo si nota incidentalmente - potenziali criticità per il caso in cui, in modo incolpevole[2], non sia stata rispettata la dimidiazione dei termini successivi a quelli di notificazione del ricorso, dei motivi aggiunti o dell’incidentale[3].
In sintesi, si è di fronte a una nuova forma di processo il cui ambito di applicazione è potenzialmente imponente, incerto e, in concreto, persino ignoto alle parti e al giudice stesso della concreta lite controversa, pur essendo comunque in grado di incidere sul regime degli atti processuali.
Questo aspetto della riforma in commento non può non destare perplessità, le quali sembrano accresciute per il fatto che l’incremento in termini assoluti del numero dei riti accelerati si riflette, in modo negativo, sulla stessa efficacia dell’iniziativa assunta.
È evidente, infatti, che quanto maggiore è il contenzioso ricondotto alle varie forme di abbreviazione del processo, tanto minori sono le possibilità di attuare, in concreto, un’effettiva accelerazione della definizione delle liti, perché se tutto è più celere, nulla è più celere.
Il tutto va valutato, anche non volendo considerare il preliminare rilievo per cui, in generale, l’intensificazione dei riti accelerati conduce, indirettamente, a relegare le residue cause ordinarie(che pur sempre godono di una loro dignità) a una sorta di binario morto e a spingerle verso una probabile perenzione ultraquinquennale, con conclusivo e sostanziale diniego di giustizia.
4. La diversità di regime, secondo che sia stata introdotta o no un’istanza cautelare
Le problematicità che derivano dalla nuova disposizione non si limitano a quanto sinora illustrato.
Ferma restando la dimidiazione dei termini (che è indipendente da ogni attività delle parti e applicabile a tutte le controversie del PNRR), alcune peculiarità del nuovo rito acquistano rilievo solo per l’ipotesi in cui il ricorrente abbia chiesto e ottenuto un provvedimento cautelare.
Altre peculiarità, più limitate, si applicano, invece, anche quando tale provvedimento non sia stato reso.
A ben vedere, pertanto, i riti speciali introdotti con l’art. 3 in esame sono due, secondo che sia stata rilasciata o no la misura interinale.
L’art. 3, cit., stabilisce, infatti, che solo in caso di accoglimento dell’istanza cautelare, “il tribunale amministrativo regionale, con la medesima ordinanza, fissa la data di discussione del merito alla prima udienza successiva alla scadenza del termine di trenta giorni dalla data di deposito dell'ordinanza”.
Viceversa, nel caso in cui un’istanza cautelare non sia stata proposta o, nel caso in cui l’istanza cautelare, pur proposta, non sia stata concessa, non vi è dovere, in capo al giudice, di fissare l’udienza di merito, ma il processo è sottoposto comunque a una disciplina speciale che si esprime, soprattutto, nella previsione della partecipazione al contraddittorio di un nuovo tipo di parte necessaria, identificata nell’“amministrazione titolare dell’intervento PNRR”.
Viene così a delinearsi un regime mutevole in ragione dell’impulso della parte ricorrente (alla quale spetta la decisione di presentare o no l’istanza cautelare), che desta qualche perplessità, ma che, soprattutto, sembra incoerente con la finalità di favorire una definizione accelerata delle controversie PNRR.
A tal riguardo, è sufficiente che il ricorrente (o l’appellante) ometta di presentare la domanda cautelare, affinché il giudizio segua le modalità di svolgimento dell’art. 119 cpa (fatte salve la peculiarità a cui si è accennato, relativa alla nuova parte necessaria), con nessuna garanzia di una sua sollecita conclusione[4].
5. La cessazione degli effetti della misura cautelare
In ogni caso, prendendo innanzitutto in esame la prima delle due eventualità ora tratteggiate, si deve aggiungere, a completare il quadro normativo, che particolari disposizioni contenute nell’art. 3 regolano l’ipotesi in cui il provvedimento reso ex art. 55 cpa sia rilasciato a seguito di appello cautelare[5], nonché l’ipotesi in cui la misura cautelare sia stata assunta in cause già pendenti al momento dell’entrata in vigore del decreto-legge.
In ispecie, anche per detta ultima ipotesi al giudice spetta di fissare la trattazione della lite nel merito entro il medesimo termine di cui si è fatto cenno (comma 8).
Oltre alla descrizione di un regime di valutazione del periculum in mora che - similmente a quanto già previsto per altri casi già noti[6], presuppone una comparazione degli interessi in gioco (secondo il comma 2 dell’art. 3 cit., “nella decisione cautelare e nel provvedimento di fissazione dell'udienza di merito, il giudice motiva espressamente sulla compatibilità della misura e della data dell'udienza con il rispetto dei termini previsti dal PNRR”) - è soprattutto rimarchevole il fatto che, per il caso in cui la discussione del merito non venga fissata dal giudice entro la prima data di udienza successiva al suddetto termine di trenta giorni, il provvedimento cautelare sia destinato a perdere automaticamente efficacia.
Il testo del decreto-legge riecheggia, così, l’art. 120, comma 8-bis cpa, il quale, per il rito sugli appalti, stabilisce che “il collegio, quando dispone le misure cautelari di cui al comma 4 dell'articolo 119, ne può subordinare l’efficacia, anche qualora dalla decisione non derivino effetti irreversibili, alla prestazione, anche mediante fideiussione, di una cauzione di importo commisurato al valore dell’appalto e comunque non superiore allo 0,5 per cento del suddetto valore. Tali misure sono disposte per una durata non superiore a sessanta giorni dalla pubblicazione della relativa ordinanza, fermo restando quanto stabilito dal comma 3 dell'articolo 119”.
Rispetto a quella più antica disposizione, l’art. 3 si distingue per l’automatismo della cessazione degli effetti, con il verificarsi della descritta condizione risolutiva, laddove, nella disciplina dell’art. 120, comma 8- bis, cpa, è compito del giudice cautelare stabilire il termine finale di efficacia dell’ordinanza, sia pure entro il limite massimo indicato dalla legge.
Si coglie altresì una certa assonanza con quanto statuito dall’art. 61 cpa per le misure cautelari monocratiche rese ante causam, le quali sono parimenti destinate a cessare i propri effetti, nel caso in cui entro quindici giorni dalla loro emanazione non venga notificato il ricorso con la domanda cautelare ed esso non sia depositato nei successivi cinque giorni, ovvero nel caso in cui, entro sessanta giorni dalla loro pronuncia, dette misure non siano state sottoposte all’esame del Collegio per l’eventuale conferma.
Mentre, tuttavia, la cessazione automatica dei provvedimenti cautelari, assunti sulla base dell’art. 61 cpa, è fatto che deriva, quasi esclusivamente, dall’inerzia di chi le abbia richieste e ottenute (cosicché l’istante non avrebbe nessuna ragione di dolersene), la cessazione degli effetti delle misure cautelari rese in forza dell’art. 3, d.l. 7 luglio 2022, n. 85, è fatto imputabile solo al giudice che non abbia fissato l’udienza di merito entro il termine prescritto e non è in alcun modo imputabile alla parte.
E poiché, fatti salvi casi molto particolari, è difficile comprendere il motivo per il quale il giudice intenderebbe limitare indirettamente (astenendosi dal fissare con tempestività l’udienza)[7] l’efficacia dei propri provvedimenti cautelari entro un termine così breve, vi è da interrogarsi sulla ragionevolezza della previsione.
Tanto più tali perplessità sussistono, perché la medesima previsione presuppone, nei destinatari dell’ordinanza, la conoscenza di taluni documenti i quali costituiscono una sorta di acta interna corporis in quanto essi sono conosciuti solo dall’organizzazione dell’ufficio giudiziario e, al più, da chi lo frequenta, ma che, non necessariamente, sono noti all’esterno, pur essendo in grado d’incidere in modo diretto sul perdurare dell’efficacia del provvedimento cautelare e, quindi, sulla regolamentazione della fattispecie sostanziale dedotta in giudizio.
Ci si riferisce, in ispecie, alla conoscenza del calendario delle udienze pubbliche stabilito da ogni sede giudiziaria, giacché è solo sulla base di detto documento che è possibile individuare la “prima udienza successiva alla scadenza del termine di trenta giorni dalla data di deposito dell'ordinanza” a cui si riferisce l’art. 3, primo comma.
Questo calendario potrebbe non essere noto all’Amministrazione resistente o ai controinteressati, specie ove questi non fossero costituiti in giudizio e non fossero assistiti da un difensore tecnico che li possa informare[8].
6. La cessazione degli effetti della misura cautelare e i giudizi introdotti prima dell’entrata in vigore del d.l. 7 luglio 2022, n. 85
I rilievi critici sul rito cautelare introdotto dall’art. 3 si aggravano ove si consideri la sorte dei provvedimenti cautelari rilasciati in quei giudizi lambiti dal PNRR che siano già pendenti[9].
Non pare che sussistano dubbi, invero, sull’estensione del regime di cessazione automatica dell’efficacia anche ai provvedimenti cautelari pronunciati prima dell’entrata in vigore del decreto-legge.
L’art. 3, comma 8, prevede, infatti, che “in tale ipotesi si applicano le ulteriori disposizioni contenute nel presente articolo” e tra queste si annovera proprio quella che stabilisce la cessazione degli effetti delle misure cautelari di cui si è sin qui trattato[10].
Viene così in rilievo un problema di grave incertezza del diritto, stante il fatto che, quando quei provvedimenti cautelari sono stati rilasciati, essi non erano sottoposti ad alcuna condizione risolutiva, cosicché le parti erano giustificate nel ritenerli pienamente operativi, essendo stata solo la sopravvenuta, generale e astratta volontà del legislatore d’urgenza a stabilire la caducazione degli effetti.
In questi casi, sussiste, per di più, un’ulteriore incertezza relativa al dies a quo del termine, la cui decorrenza (insieme all’eventuale mancata fissazione dell’udienza di merito) concorre a costruire la condizione risolutiva stessa, atteso che lo stesso art. 3, comma 8, stabilisce che “l'udienza per la discussione del merito è anticipata d'ufficio entro il termine del comma 1”[11] e quindi decorso il termine di trenta giorni “dalla data di deposito dell'ordinanza”.
Se tale deposito fosse, dunque, avvenuto prima dell’entrata in vigore del decreto-legge, la condizione potrebbe essersi già avverata nel momento stesso della sopravvenienza della nuova fonte, nel caso in cui il termine di trenta giorni fosse già integralmente spirato e fossero già state tenute udienze di merito successive alla sua scadenza.
In modo solo apparentemente meno grave, con l’entrata in vigore del decreto-legge il termine potrebbe risultare essere ampiamente consumato, sì da comprimere i poteri di difesa delle parti ai fini della produzione di documenti e memorie in vista dell’udienza di trattazione.
Un’interpretazione alternativa a quella ora proposta potrebbe essere quella di sostenere che il termine debba decorrere, per i provvedimenti cautelari anteatti, non già dal loro deposito, ma proprio dal giorno di entrata in vigore del decreto-legge stesso[12].
Detta ricostruzione consentirebbe, in effetti, di superare, almeno in parte, i problemi a cui si è accennato.
Essa si porrebbe, tuttavia, in contrasto con la lettera della fonte normativa; da qui deriva la difficoltà di seguirla.
Infine, sempre con riguardo alle misure cautelari precedenti al d.l. 7 luglio 2022, n. 85, si pone il non secondario problema, per il giudice, d’individuare le loro puntuali ricorrenze e d’identificare le specifiche controversie del PNRR in cui i provvedimenti cautelari siano stati pronunciati.
Anche a tale riguardo, vanno ripetute le osservazioni già esposte circa la possibilità che queste liti PNRR siano occulte, quando non sia palese l’esistenza del relativo finanziamento (pur restando ferma l’oggettiva applicabilità dell’art. 3 in esame).
Emerge così l’eventualità, nel caso in cui alcune delle relative liti dovessero sfuggire all’indagine del Tribunale, che i provvedimenti cautelari assunti abbiano perso i propri effetti nella piena inconsapevolezza delle parti.
Il risultato complessivo del nuovo regime dimostra, in definitiva, l’insorgenza di gravi fenomeni di incertezza del diritto che la nuova disciplina sembra suscitare sia con riferimento al processo, sia con riferimento al modo con cui la fattispecie sostanziale dedotta in giudizio è interinalmente regolata dai provvedimenti cautelari del giudice.
7. Ricadute sistematiche della cessazione degli effetti della misura cautelare sul processo cautelare in generale e sul processo di ottemperanza
La cessazione degli effetti dell’ordinanza cautelare, insieme al dovere (per il giudice) di fissare l’udienza entro il termine già illustrato, comporta alcune conseguenze anche sullo stesso impianto generale del giudizio cautelare e su quello di ottemperanza.
Quanto al primo, deve ritenersi che, per quanto attiene alle controversie del PNRR, l’art. 55, comma 10, cpa (il quale consente al giudice, in accoglimento di una conforme istanza cautelare, di fissare la data della discussione del ricorso nel merito, ove egli ritenga che le esigenze del ricorrente siano apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio), sia stato implicitamente riformato in deroga.
Una tale soluzione del processo cautelare sembra, infatti, incompatibile con l’art. 3 ora in esame, salvo che non si ritenga – e la soluzione pare plausibile – che, vertendosi in una lite del tipo qui considerato, il giudice, in applicazione del medesimo art. 55, comma 10, possa pur sempre accogliere l’istanza cautelare limitandosi a fissare l’udienza di merito, con l’avvertenza che, in tal caso, egli debba rispettare il termine indicato dallo stesso art. 3[13].
Per quanto attiene, invece, ai rapporti con il giudizio di ottemperanza, sembra significativo il punto in cui l’art. 3 statuisce che, con la cessazione degli effetti dell’ordinanza cautelare, vengano meno anche gli effetti conformativi, volti “a determinare un nuovo esercizio del potere da parte della pubblica amministrazione”.
In realtà, si deve ritenere che tali effetti, nelle controversie a cui si riferisce l’art. 3, siano inesistenti fin dall’inizio, giacché risulta impossibile obbligare l’Amministrazione a rideterminarsi prima che la lite venga trattata nel merito.
Sulla base dell’art. 87, comma 3, cpa, infatti, l’udienza per la discussione del giudizio di ottemperanza, a tal fine introdotto, non potrebbe essere fissata prima che siano decorsi trenta giorni dalla scadenza del termine di costituzione delle parti intimate e quindi prima di sessanta giorni dalla notificazione del relativo ricorso (vigendo il principio della dimidiazione dei termini anche nei riti in Camera di consiglio), sì da superare il termine di trenta giorni indicato dall’art. 3.
Quando, infine, la lite che avesse originato il provvedimento cautelare fosse decisa nel merito, il medesimo provvedimento cautelare risulterebbe, eventualmente, assorbito dalla sentenza e sarebbe questa, e non già l’ordinanza cautelare, a produrre gli effetti conformativi.
8. La fissazione dell’udienza di merito e i termini a difesa delle parti
Sempre con riguardo al regime della fase cautelare, va segnalato un altro profilo di potenziale incertezza relativo agli oneri defensionali da cui sono gravate le parti, in vista dell’udienza di trattazione nel merito della lite.
L’art. 3, cit., stabilisce che la discussione della causa debba essere celebrata non oltre la prima udienza successiva alla scadenza del termine di trenta giorni dalla data di deposito dell’udienza cautelare.
Ciò comporta che la data di discussione potrebbe[14] essere fissata senza che sia stato rispettato il termine a ritroso di sessanta giorni previsto dall’art. 71, comma 5, cpa, così che neppure si possano rispettare gli ulteriori termini indicati dall’art. 73 dello stesso codice per il deposito dei documenti e delle memorie.
D’altra parte, dall’art. 3 in commento non si ricava entro quali termini le parti siano chiamate a svolgere tali adempimenti nel nuovo rito.
Il problema, tuttavia è, in questo caso, solo apparente.
Poiché si ricade in controversie per le quali vige la dimidiazione dei termini, è ragionevole sostenere che anche il termine di sessanta giorni dell’art. 71 cpa debba considerarsi ridotto a trenta. E poiché l’art. 3, per sua definizione, prevede che l’udienza debba essere fissata oltre la scadenza di trenta giorni dal deposito (e quindi dalla contestuale comunicazione) dell’ordinanza cautelare, il suddetto termine dimidiato, quale si desume dal combinato disposto degli artt. 119 e 71 cpa, deve ritenersi necessariamente rispettato.
Conseguentemente vanno adeguati, secondo i consueti principi della dimidiazione, anche i termini a difesa indicati dall’art. 73 cpa.
9. Una nuova parte necessaria nel processo amministrativo: l’amministrazione titolare dell’intervento PNRR. Aspetti problematici e profili contraddittori
Vi è, infine, un ultimo profilo che emerge dalla nuova disciplina processuale e che, pure, merita di essere analizzato.
Si allude alla previsione secondo la quale sono parti necessarie di tutte le controversie del PNRR (siano stati richiesti o no i provvedimenti cautelari) le “amministrazioni centrali titolari degli interventi previsti nel PNRR, ai sensi dell'articolo 1, comma 1, lettera l), del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2021, n. 108”[15].
Anche a voler trascurare la difficoltà d’individuare quali siano, nel caso concreto, siffatte amministrazioni[16] e dato per ragionevole che per tali debbano intendersi tutte le amministrazioni che, a qualunque titolo, partecipino all’intervento del PNRR a cui si riferisce l’impugnazione (e non solo una di esse), l’inquadramento sistematico di queste nuove figure è incerto e verosimilmente porta all’introduzione di un nuovo tipo di parte processuale, che si affianca a quelle tradizionali e già note.
Le amministrazioni titolari dell’intervento, infatti, non possono coincidere né con l’amministrazione resistente né con i controinteressati sostanziali, atteso che, se così fosse, la loro partecipazione al contraddittorio sarebbe necessaria già di per sé, sulla base delle regole generali del processo amministrativo[17].
Ma è difficile ipotizzare, anche, che tali amministrazioni rivestano il ruolo di una sorta di controinteressati indiretti (i quali non sono parti necessarie, perché privi di un interesse diretto personale e attuale a contestare l’accoglimento del ricorso), investiti di una sorta di legittimazione straordinaria a contraddire.
La funzione di queste ulteriori parti necessarie, invero, non è precisata dall’art. 3, cit.
Sebbene il nuovo rito miri a “consentire il rispetto dei termini previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza”, detta finalità non può, tuttavia, essere l’unica a cui debbono sovrintendere le amministrazioni titolari degli interventi.
Le stesse - si reputa - non possono non essere incaricate di curare, oltre alla sollecita realizzazione degli interventi del Piano, anche la migliore destinazione dei finanziamenti, a meno che non si voglia accettare il principio per cui quegli interventi debbano comunque progredire, quali essi siano e in qualunque modo siano attuati.
Pertanto, nulla esclude che le nuove parti necessarie partecipino al giudizio non solo al fine di contestare l’accoglimento del ricorso, ma, in tesi, anche al fine di promuoverne l’accoglimento, per il caso in cui il provvedimento impugnato, in quanto illegittimo, comporti un cattivo utilizzo delle risorse pubbliche.
Se su questo si conviene, ne segue che le nuove parti necessarie sembrano svolgere un ruolo simile a quello di una sorta di promotore dell’interesse pubblico, per certi (molto imprecisi) aspetti accostabile a una specie di pubblico ministero, con ricadute (lo si nota incidentalmente) forse impreviste e forse anche indesiderate verso una concezione oggettivistica del processo amministrativo.
Non sarà necessario investigare ulteriormente su quale sia l’utilità effettiva di tali nuove parti e su quale sia il concreto apporto che le medesime possano aggiungere al contraddittorio, perché dette questioni attengono al merito delle valutazioni operate dal legislatore d’urgenza.
Preme, tuttavia, illustrare le difficoltà che la loro presenza nel processo reca, proprio con riguardo al fine di favorire una sollecita realizzazione degli interventi del PNRR.
Soprattutto nell’ipotesi in cui l’esistenza del finanziamento PNRR sia occulto alle parti ordinarie del giudizio (oltre che al giudice) e nell’ipotesi in cui il finanziamento sia sopravvenuto in corso di causa, l’eventuale mancata intimazione di queste nuove parti necessarie è causa di appellabilità, per l’incompletezza del contraddittorio, della sentenza di primo grado, con conseguente rinvio al giudice di prime cure, secondo quanto previsto dall’art. 105 cpa.
Non diversamente, è sostenibile che, in forza di quanto stabilito dall’art. 108 cpa, le medesime parti siano legittimate a proporre opposizione di terzo ordinaria contro la sentenza, sia di primo che di secondo grado, pronunciata senza la loro partecipazione al giudizio[18].
La partecipazione di dette amministrazioni al giudizio si rivela essere, così, incoerente con le stesse finalità di raggiungere una celere definizione delle controversie, perché essa si presta a lungaggini (la cui necessità non era sin qui avvertita) e a ripetizioni, forse non indispensabili, di alcuni gradi del giudizio.
10. La nuova parte necessaria e i giudizi già pendenti
Né si possono trascurare i problemi minori che queste nuove parti necessarie recano.
Non è del tutto certo, in particolare, se le amministrazioni titolari degli interventi siano chiamate a partecipare anche ai giudizi che, pur astrattamente rientrando nell’ambito di applicazione dell’art. 3, siano stati, tuttavia, introdotti prima dell’entrata in vigore del decreto.
A seguire l’argomento letterale, le amministrazioni titolari degli interventi dovrebbero essere intimate solo nell’ipotesi in cui, nelle liti anteatte, sia stata chiesta e ottenuta una misura cautelare, perché solo per tale eventualità l’art. 3, u.c., stabilisce che “si applicano le ulteriori disposizioni contenute nel presente articolo”[19].
Ma questa è una conclusione che, per altri versi, si rivela insoddisfacente sotto il profilo sistematico, giacché essa introduce una diversità di regime processuale – su uno degli aspetti fondamentali della lite, qual è quello della completezza del contraddittorio – che è conseguenza di un fatto accidentale (qual è dato dalla emanazione di un provvedimento cautelare) e che soprattutto dipende dall’impulso del ricorrente, al quale non può, neppure indirettamente, riferirsi il potere di stabilire in che modo il contraddittorio debba ritenersi integrato[20].
Ancora più problematica, infine, è l’ipotesi in cui una lite del PNRR, pur essendo stata definita in primo grado prima dell’entrata in vigore del decreto-legge, pervenga in appello solo dopo tale data.
In tale caso, non sembrano sussistere dubbi sul fatto che le nuove parti necessarie debbano essere chiamate a integrare il contraddittorio nel giudizio d’appello, perché l’art. 3 in esame (comma 6) stabilisce che “le disposizioni del presente articolo si applicano anche nei giudizi di appello, revocazione e opposizione di terzo” e perché, secondo il principio tempus regit actum, l’impugnazione segue il regime vigente al momento della sua celebrazione.
Un’integrazione del contraddittorio operata solo in secondo grado, tuttavia, priverebbe le nuove parti necessarie di un grado di giudizio e porterebbe, probabilmente, il giudice dell’appello ad annullare d’ufficio[21] la sentenza impugnata con rinvio al giudice di primo grado, sì da provocare una dispersione dei tempi processuali nonché la vanificazione delle finalità acceleratorie a cui l’art. 3 si è ispirato.
11. Conclusioni
Si possono a questo punto trarre le conclusioni dell’indagine sull’art. 3, d.l. 7 luglio 2022, n. 85.
Chi scrive ritiene che si sia di fronte a una disposizione indeterminata nel suo ambito di applicazione, asistematica nel suo impianto e foriera di gravi problematicità.
Né si può sottacere che, sullo sfondo, essa sembra manifestare una complessiva inclinazione a comprimere o, quanto meno, a limitare l’effettività delle tutele[22], a vantaggio di una accelerazione del rito che non è neppure certo che si riesca a raggiungere.
L’opportunità di assicurare una sollecita attuazione degli interventi previsti dal PNRR non può, dunque, essere portata a giustificazione di riforme processuali che non solo sembrano di dubbia compatibilità con lo Stato di diritto, ma che, per di più, rischiano di compromettere il raggiungimento stesso degli obiettivi proposti.
Si auspica, perciò, che il testo della riforma venga rivisitato e che, soprattutto, esso non funga da modello per ulteriori, e più ampi, interventi di riforma del processo amministrativo.
[1] Sembra aderire a questa impostazione T.A.R. Lazio, II, 15 luglio 2022, n. 4602 (ord.): “… le disposizioni in questione sono applicabili al giudizio de quo, tenuto conto:
1) ratione temporis, della natura processuale delle stesse e, quindi, della loro applicabilità ai giudizi in corso, in difetto di apposita norma transitoria (cfr., quam multis, Cons. St., sez. VI, 15 giugno 2010, n. 3759; TAR Lazio, Roma, sez. III, 16 giugno 2010, n. 18131; Tar Cagliari, sez. I, 13.1.2011, n.16);
2) ratione materiae, in riferimento all’art.3, co.1 del d.l. n.85/2022, della sussumibilità della gara in oggetto nell’ambito della nozione di “procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR”; al riguardo, peraltro, non rileva, in senso ostativo all’applicazione della citata disposizione, la previsione recata dal co.5 del predetto art.3, dal momento che l’evidente finalità di tale norma è quella di rendere applicabili le disposizioni ivi considerate (artt.119, co.2 e 120, co.9 cpa) del rito appalti (con la prevista riduzione dei termini processuali) a tutte le controversie afferenti alle procedure amministrative che impattano sul PNRR (anche se non riferite, quindi, all’affidamento di contratti pubblici) e non già quella di sottrarre le controversie sui contratti pubblici alle ulteriori disposizioni acceleratorie introdotte dal d.l. n.85/2022”.
[2] Alla parte non resterebbe, a quel punto, null’altro, se non invocare l’errore scusabile, rammentando che “nel processo amministrativo il rimedio del riconoscimento dell'errore scusabile, oggi codificato dall' art. 37 c.p.a ., presuppone una situazione di obiettiva incertezza normativa o di grave impedimento di fatto tale da provocare - senza alcuna colpa della parte interessata - menomazioni o maggiore difficoltà nell'esercizio dei diritti di difesa” (Cons. di Stato, III, 8 febbraio 2021, n. 1129; Cons. di Stato, VI, 10 maggio 2021, n. 3640).
[3] Né si esclude che possa sopravvenire una sorta di mutamento del rito in pendenza di causa. Come, infatti, possono esistere finanziamenti PNRR sin dall’origine occulti, non si esclude che possano prospettarsi pure finanziamenti PNRR sopravvenuti, per il caso in cui l’intervento a cui si riferisce la lite riceva un finanziamento PNRR quando la causa che lo riguarda sia già stata introdotta.
In questo caso, per il ricorrente potrebbe, peraltro, risultare estremamente difficile venire a conoscenza di questa nuova circostanza, con la conseguenza che una causa introdotta secondo il regime ordinario potrebbe ricadere poi nel regime delle liti a termini dimidiati, senza che le parti ne abbiano consapevolezza.
[4] Va, d’altronde, segnalato che l’art. 3, riformando l’art. 48, d.l. 31 maggio 2021, n. 77, ha esteso alle controversie del PNRR l’applicazione dell’art. 125 cpa, così sostituendo la tutela costitutiva avverso gli eventuali contratti stipulati in attuazione del finanziamento con la tutela risarcitoria. Più in generale sembra così doversi ricavare che l’obiettivo del legislatore sia quello di evitare la caducazione immediata degli atti e che, a tal fine, sia disposto a concedere che le amministrazioni possano essere chiamate patrimonialmente a rispondere. In tal senso, il fatto che una lite PNRR possa rimanere a lungo pendente, perché il ricorrente abbia omesso di presentare istanza cautelare, è una eventualità in un certo coerente con questo stesso obiettivo.
Si evidenzia, in ogni caso, che l’estensione dello stesso art. 125 cpa alle controversie del PNRR è in sé problematica, poiché il citato art. 48, così come riformato, la prevede sia con riferimento all’impugnazione degli atti relativi alle procedure di affidamento sia con riferimento a “qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR”. Se, tuttavia, nella prima ipotesi è facile immaginare l’esistenza di contratti “non annullabili” ai sensi dell’art. 125, meno facile è comprendere come gli stessi possano ricorrere nelle fattispecie procedimentali del secondo tipo.
[5] L’art. 3, pur considerando l’ipotesi della misura cautelare rilasciata in forza dell’appello cautelare contro l’ordinanza (di rigetto) di primo grado, non considera l’ipotesi in cui, a un analogo effetto, si pervenga perché la sentenza di rigetto di primo grado sia sospesa in grado di appello, con effetti cautelari estesi sino al provvedimento amministrativo impugnato. Il comma 6 della disposizione, peraltro, stabilisce che che “le disposizioni del presente articolo si applicano anche nei giudizi di appello, revocazione e opposizione di terzo”, il che porta a sostenere che, in detta ipotesi, il Consiglio di Stato debba fissare udienza di merito alla prima udienza pubblica successiva al decorso di trenta giorni dal deposito dell’ordinanza.
[6] Da ultimo, si rammenti quanto previsto dall’art. 120, comma 8, cpa: “Nella decisione cautelare, il giudice tiene conto di quanto previsto dagli articoli 121, comma 1, e 122, e delle esigenze imperative connesse a un interesse generale all' esecuzione contrattuali del contratto, dandone conto nella motivazione” e dall’art. 125, comma 2, cpa: “In sede di pronuncia del provvedimento cautelare, si tiene conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell'opera, e, ai fini dell'accoglimento della domanda cautelare, si valuta anche la irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente, il cui interesse va comunque comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle procedure”.
[7] Non si può, in effetti, escludere che il giudice valuti di concedere di concedere una misura cautelare a termine finale, deliberatamente omettendo di rispettare il termine della discussione di merito indicato dall’art. 3.
[8] I calendari di udienza del giudice amministrativo sono ormai pubblici nelle pagine istituzionali di ogni singolo ufficio giudiziario. Tuttavia, la circostanza non è necessariamente nota e, per dipiù, è dubbia l’ufficialità e la comprovabilità di tale forma di pubblicità.
[9] Sull’applicabilità dell’art. 3 ai giudizi già pendenti, peraltro desumibile dalla lettera della disposizione, v. T.A.R. Lazio, III – bis, 18 luglio 2022, n. 10163
[10] Al contrario, quando, con l’art. 40, d.l. 24 giugno 2014, n. 90, è stato inserito il comma 8-bis nel codice di rito, si è inteso precisare che la nuova disciplina si sarebbe applicata solo “ai giudizi introdotti con ricorso depositato, in primo grado o in grado di appello, in data successiva alla data di entrata in vigore del presente decreto”, in tal modo superando i problemi di applicazione ai giudizi già pendenti di cui si tratta nel testo.
[11] L’anticipazione, tuttavia, non può considerarsi, per ovvie ragioni, automatica, ma presuppone un provvedimento esplicito del giudice in tal senso orientato.
[12] È questa la soluzione a cui aderisce la, forse, prima pronuncia del giudice d’appello che ha dato applicazione della nuova disciplina. V. Cons. di Stato, 15 luglio 2022, n. 3387 (decreto): “Rilevato altresì che, con riferimento allo specifico ambito in trattazione, è recentissimamente intervenuto, nelle more tra la pubblicazione dell’ordinanza cautelare qui appellata e la proposizione dell’odierno appello, l’art. 3 del decreto-legge 7 luglio 2022, n. 85, ai sensi del quale, tra l’altro:
1) per “qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR”, tra cui per consenso unanimemente espresso dalle parti in causa rientra l’opera ferroviaria di cui qui trattasi, è disposta d’ufficio l’anticipazione della “data di discussione del merito alla prima udienza successiva alla scadenza del termine di trenta giorni dalla data di deposito dell'ordinanza” (da intendersi nella specie, per effetto del ricordato ius superveniens, come data di entrata in vigore di detto decreto-legge, ossia dal giorno 8 luglio 2022) – di tal ché, in forza di tale sopravvenuta disposizione di legge, il giudice di primo grado ha anticipato l’udienza di trattazione del merito al 28 settembre 2022 – altresì processualmente sanzionata con la previsione che, nel “caso in cui l'udienza di merito non si svolga entro i termini previsti dal presente comma, la misura cautelare perde efficacia, anche qualora sia diretta a determinare un nuovo esercizio del potere da parte della pubblica amministrazione”.
[13] Una tale soluzione potrebbe esprimere anzi un adeguato contemperamento tra le aspettative del ricorrente e la valutazione, imposta al giudice, sulla compatibilità della misura cautelare con il rispetto dei termini previsti dal PNRR.
[14] Possa e non necessariamente debba. La discussione del merito potrebbe essere fissata nel termine di sessanta giorni previsto dall’art. 71 per il caso in cui, nei trenta giorni successivi alla scadenza del termine di trenta giorni dal deposito dell’ordinanza cautelare, non sia stata calendarizzata nessuna udienza di merito.
[15] L’art. 3, comma 43, d.l. 7 luglio 2022, n. 85, richiamando (attraverso il rinvio all’art. 49 del codice di rito) l’istituto dell’integrazione del contraddittorio implicitamente chiarisce che l’omessa notificazione del ricorso, entro il termine decadenziale di sua proposizione, a queste non nuove parti necessarie non comporta l’irricevibilità del gravame.
[16] Secondo l’art. 1, comma 1, lettera l), d.l. 31 maggio 2021, n. 77, si intende per “«amministrazioni centrali titolari di interventi previsti nel PNRR», i Ministeri e le strutture della Presidenza del Consiglio dei ministri responsabili dell'attuazione delle riforme e degli investimenti previsti nel PNRR”,
[17] Il rilievo porta un ulteriore argomento a favore della tesi secondo la quale gli interventi a cui allude l’art. 3 in esame comprendano tutte le procedure comunque ricollegabili ai finanziamenti PNRR e non solo le procedure di evidenza pubblica e espropriative che ne costituiscano diretta applicazione, con riferimento alle quali le amministrazioni titolari dell’intervento sarebbero parti resistenti e, dunque, già parti necessarie del processo.
[18] Si pone, così, un ulteriore problema, che concerne l’opponibilità, da parte delle nuove parti necessarie di sentenze del giudice amministrativo già passate in giudicato. Ove, infatti, si dovesse dare una risposta affermativa al quesito, il decreto-legge consentirebbe, indirettamente, la possibilità di ridiscutere fattispecie processuali ormai definitivamente stabilite. Sul punto, chi scrive reputa che si debba dare, tuttavia, una risposta contraria, atteso che, proprio in ragione dell’ormai raggiunta definizione del processo, è incerto che si possa applicare il principio tempus regit actum e, soprattutto, perché si attuerebbe, in tal modo, un’ingerenza del Potere legislativo su quello giudiziario.
[19] Si osservi, incidentalmente, che, per gli stessi motivi, a questa conclusione si dovrebbe pervenire anche con riferimento all’applicabilità ai giudizi anteatti dei termini dimidiati previsti dall’art. 119 cpa.
[20] A tale conclusione si oppone, inoltre, anche il fatto che, una volta raggiunto il grado d’appello, il contraddittorio dovrebbe essere ugualmente integrato, secondo quanto si ritiene di dimostrare dappresso.
[21] Cons. di Stato, ad. pl. 30 luglio 2018, n. 15: “Per completezza è ancora opportuno evidenziare che la disciplina dei rapporti tra giudice di primo grado e giudice di appello e dei casi di annullamento con rinvio di cui all’articolo 105 presenta evidenti profili di indisponibilità, perché è diretta a tutela interessi di ordine pubblico che attengono al regolare svolgimento del processo, realizzando un delicato bilanciamento di valori costituzionali (fra i quali, in primis, quelli del giusto processo e della sua ragionevole durata).
Deve escludersi, quindi, che in tale materia la volontà delle parti possa condizionare l’esercizio dei poteri del giudice.
Ciò implica, fermo restando ovviamente l’onere di articolare specifici motivi di appello e il generale principio di conversione della nullità in motivi di impugnazione, che in presenza di una delle ipotesi di cui all’art. 105 Cod. proc. amm., il giudice d’appello deve procedere all’annullamento con rinvio anche se la parte omette di farne esplicita richiesta o, addirittura, formula una richiesta contraria, chiedendo espressamente che la causa sia direttamente decisa dal giudice di appello. Così, ad esempio, se il T.a.r. ha erroneamente declinato la giurisdizione, il rinvio al primo grado risulta doveroso, anche se la parte, che impugna il capo sulla giurisdizione, chiede che la causa venga direttamente decisa nel merito in sede di appello”.
[22] Depongono in tal senso soprattutto il secondo comma dell’art. 3, dove è previsto che “nella decisione cautelare e nel provvedimento di fissazione dell'udienza di merito, il giudice motiva espressamente sulla compatibilità della misura e della data dell'udienza con il rispetto dei termini previsti dal PNRR” e il successivo sesto comma, che, in riforma dell’art. 48, d.l. 31 maggio 2021, n. 77, stabilisce: “In sede di pronuncia del provvedimento cautelare si tiene conto della coerenza della misura adottata con la realizzazione degli obiettivi e il rispetto dei tempi di attuazione del PNRR”. Dette disposizioni, ormai non sconosciute all’impianto del processo amministrativo, causano, a giudizio di chi scrive, uno sostanziale squilibrio delle armi processuali.
Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei giudizi amministrativi relativi a opere o interventi finanziati con il PNRR
L’art. 3 del d.l. 7 luglio 2022 n. 85 ha dettato disposizioni per l’accelerazione dei giudizi amministrativi relativi a opere o interventi finanziati con il PNRR manifestamente rivolte a vanificare l’effettività della tutela giurisdizionale erogabile dal giudice amministrativo e che allontanano il processo amministrativo dal rispetto dal principio fondamentale del giusto processo.
Il Comitato di redazione della Sezione diritto e processo amministrativo della rivista Giustiziainsieme, pur consapevole dello sforzo che nell’attuale momento storico è richiesto all’intero ordinamento per assicurare la massima efficienza possibile dell’azione amministrativa per non pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi PNRR, intende manifestare al riguardo la propria preoccupazione sulla grave compromissione che le nuove norme arrecano alla tutela giurisdizionale erogabile dal giudice amministrativo, nel fermo convincimento che il giudice amministrativo rappresenti una risorsa da salvaguardare e non un fattore di crisi dell’efficienza amministrativa.
Il Comitato di redazione ritiene di fare proprie e di esprimere nei termini essenziali di seguito riportati le considerazioni critiche che emergono a prima lettura dalle norme introdotte dall’art 3 del dl 7 luglio 2022 n. 85, auspicando che ciò sia utile affinché vengano apportate le opportune modifiche e correzioni al testo normativo.
Problema dell’individuazione dei giudizi che abbiano ad oggetto “una procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR”.
Il comma 5 prevede l’applicazione in ogni caso a questi giudizi dell’art 119, c. 2 (oltre che dell’art 120, c 9) del c.p.a.; ovvero la dimidiazione dei termini processuali con conseguenti rischi di inammissibilità delle impugnazioni delle sentenze, di improcedibilità dei ricorsi non tempestivamente depositati, in genere di caos sui termini di deposito delle memorie, dei documenti e delle repliche (oltre che delle sentenze e dei dispositivi). Sarebbe necessario prevedere che i Presidenti dei Tribunali o delle Sezioni cui sono assegnati i ricorsi, indicassero, con inserimento sul sito, sentite le p. A. (o soggetti equiparati) parti del giudizio o la Presidenza del Consiglio dei Ministri, se questo rientra o meno tra quelli interessati dalla disposizione, tanto ai fini della certezza dei termini di “scambio” degli atti e dei documenti in vista dell’udienza, quanto ai fini della scusabilità dell’errore di chi, in assenza di una tale indicazione, non rispettasse i termini. Sussiste inoltre un problema di coordinamento con il comma 3, laddove prevede che le p.A. sono tenute a rappresentare che il ricorso ha a oggetto una procedura amministrativa rientrante nella disposizione, ma non stabilisce alcun termine per tale adempimento.
Il comma 1 prevede all’ultimo periodo che, nel caso in cui l’udienza pubblica non sia celebrata nei termini (estremamente stringenti) previsti dallo stesso comma, la misura cautelare perde efficacia.
Il ricorrente è quindi pregiudicato dalle tempistiche fissate dal giudice. La disposizione, più rigida di quella introdotta dal comma 8-bis dell’art. 120 c.p.a. (che prevede che le misure cautelari siano “disposte” per una durata non superiore a 60 gg. dalla pubblicazione della relativa ordinanza, “fermo restando quanto previsto dal comma 3 dell’articolo 119” e sembra dunque più dare una “guida” al giudice, da coordinare con la sollecita fissazione del merito, che stabilire un tempo massimo di efficacia della misura concessa, facendola automaticamente decadere al suo spirare) è tanto più assurda e grave in quanto si applica ai giudizi in corso e non è neppure esplicitato che (come sembra corretto ritenere) vi si applichi la sospensione feriale.
Il comma 1 fissa tempistiche iper-accelerate per la definizione dei giudizi in caso di accoglimento dell’istanza cautelare e il comma 2 condiziona la decisione del giudice in sede cautelare (oltre che per la fissazione di merito) all’onere di motivare sul rispetto dei tempi del PNRR.
Si riduce, ulteriormente, la possibilità di concedere misure cautelari e si chiede in sostanza al giudice di rinunciare al suo ruolo di dare giustizia, impedendo, se del caso, che un atto illegittimo produca i suoi effetti (come pure imposto dalla direttiva UE 2007/66), pur di non compromettere il rispetto dei tempi del PNRR; come se questa tempistica possa di per sé consentire di derogare ai principio di legalità dell’azione amministrativa, di effettività della tutela giurisdizionale e alle norme anti corruzione.
Il comma 1 prevede che, in caso di accoglimento dell’istanza cautelare, il giudice disponga il deposito dei documenti necessari e l’acquisizione delle eventuali altre prove occorrenti.
La previsione è sicuramente apprezzabile, ma dovrebbe valere sempre, in forza degli artt. 55, comma 12 e 65 c.p.a., e non essere collegata all’accoglimento dell’istanza cautelare.
Il comma 3 dispone che “Le pubbliche amministrazioni sono tenute a rappresentare che il ricorso ha ad oggetto una procedura amministrativa che riguarda interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR”.
Non è però, come detto, previsto un termine entro il quale le pubbliche amministrazioni debbono rappresentare quanto richiesto, né le modalità con cui debbano farlo; e neppure un obbligo delle segreterie degli uffici giudiziari di darne immediata comunicazione alle altre parti. Con quanto ne consegue in termini di incertezza sui termini processuali.
Il comma 4 individua come parti necessarie del processo, facendo espresso riferimento anche all’obbligo di integrazione del contraddittorio, “le amministrazioni centrali titolari degli interventi previsti nel PNRR ai sensi dell’art 1, c 1, lett l), dl 77/21”.
Il rinvio all’art 1, c 1, lett l), dl 77/21 è privo di qualsivoglia utilità perché fa anch’esso generico riferimento a “ministeri e strutture della Presidenza del Consiglio dei ministri responsabili dell’attuazione delle riforme e degli investimenti previsti dal PNRR. L’integrazione del contraddittorio, oltre ad essere già di per sé complessa per la difficile individuazione delle suddette parti, va peraltro manifestamente nel senso opposto alle esigenze di accelerazione, in nome delle quali si impone addirittura al giudice di rinunciare al suo ruolo e di anticipare d’ufficio le udienze già fissate sui ricorsi pendenti.
La tardiva opposizione al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e la (in)applicabilità dell’art. 48, comma 3, c.p.a. (nota a Cons. Stato, Sez. I, parere 15 febbraio 2022, n. 361)
di Giuseppe La Rosa
Sommario: 1. Il caso e il principio di diritto. - 2. Irricevibilità e inammissibilità nel processo amministrativo. - 3. Irricevibilità e inammissibilità oltre il processo amministrativo. - 4. Natura, presupposti e finalità dell’opposizione al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Il caso e il principio di diritto.
La questione origina dalla proposizione di un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica per l’annullamento del decreto emesso dalla Corte di Appello di Roma con cui è stato dichiarato inamissibile il ricorso per la revocazione di un provvedimento giurisdizionale in quanto proposto dalla parte personalmente, senza l’assistenza di un difensore.Nel dettaglio il ricorso straordinario è stato depositato in data 12 marzo 2021 presso la Corte di Appello e da questa trasmesso al Ministero della Giustizia il 15 aprile 2021, il quale, dunque, ha proposto opposizione il 7 giugno 2021. Nonostante l’opposizione, tuttavia, il Consiglio di Stato non ha dichichiarato improcedibile il ricorso straordinario, sull’assunto che la stessa fosse stata tardivamente proposta, dovendo farsi decorrere il termine di sessanta giorni dal 12 marzo 2021 (data di deposito del ricorso presso la Corte di Appello), anziché dal successivo 15 aprile (data in cui il Ministero ne ha ricevuto formale notizia). E’ stato, quindi, affermato il principio di diritto secondo cui “spetta al Consiglio di Stato nella sede della trattazione del ricorso straordinario l’esame e la decisione della questione della tempestività o tardività della notifica dell’opposizione”.
Tale conclusione è riposta su ragioni sia normative sia sistematiche.
Quanto ai profili di ordine normativo, il Consiglio di Stato richiama, da un lato, l’art. 48, comma 3, c.p.a., secondo cui “qualora l’opposizione sia inammissibile, il tribunale amministrativo regionale dispone la restituzione del fascicolo per la prosecuzione del giudizio in sede straordinaria” (il cui contenuto troverebbe altresì conferma nell’art. 10, comma 3, d.p.r. n. 1199/1971) e, dall’altro, l’art. 35 c.p.a. che, nel disciplinare le pronunce di rito adottabili dal Giudice amministrativo, mantiene distinta l’ipotesi di irricevibilità da quella di inammissibilità. Ne deriverebbe, dunque, che il richiamo da parte dell’art. 48, comma 3, cit., alla sola inammissibilità dell’opposizione esprimerebbe la voluntas legis di riconoscere al Giudice amministrativo, nella sede giurisdizionale, la cognizione di tutte le questioni di inammissibilità dell’opposizione, esclusa però la (distinta) questione di tardività dell’opposizione, che resterebbe di conseguenza attribuita alla Sezione consultiva del Consiglio di Stato chiamata a conoscere del ricorso straordinario.
Con riferimento alle questioni di sistema, si è ritenuto che l’opzione ermeneutica che voglia affermare l’improcedibilità del ricorso straordinario, anche nell’ipotesi in cui emerga la tardività dell’opposizione, potrebbe provocare un serio rischio di diniego di giustizia per la parte ricorrente, la quale, considerata la tardività dell’opposizione, potrebbe in buona fede non procedere alla trasposizione, confidando sulla prosecuzione della trattazione dell’affare nella sede straordinaria. E ciò determinerebbe l’impossibilità per la parte ricorrente di ottenere una pronuncia di merito, essendole preclusa sia la via giustiziale, attesa la pronuncia di improcedibilità, sia quella giurisdizionale, non avendo appunto in tesi proceduto alla tempestiva riassunzione.
La decisione che si annotta sollecita una riflessione sui concetti di irricevibilità e inammissibilità, consolidatisi tanto nel processo amministrativo (par. 2), quanto negli altri ambiti processuali (par. 3), nonché sulla natura dell’atto di opposizione al procedimento straordinario (par. 4). Tale riflessione è, dunque, condotta con la finalità di valutare la condivisibilità o meno della pronuncia laddove, applicando all’atto di opposizione le categorie di irricevibilità e inammissibilità giunge a limitare la portata dell’art. 48, comma 3, c.p.a.
2. Irricevibilità e inammissibilità nel processo amministrativo.
A tacere della loro diversa origine etimologica[i], irricevibilità e inammissibilità sono termini che fanno indiscutibilemte parte del tradizionale glossario comunemente in uso tra gli operatori del processo amministrativo[ii], sebbene la loro concreta portata sia di incerta perimetrazione. Originariamente, tanto la l. 1034/1971 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), quanto il r.d. 643/1907 (Regolamento di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato) e il r.d. 1054/1924 (Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato) recavano generici riferimenti alla irricevibilità e alla inammissibilità, mancando, tuttavia, di definire in modo puntuale i casi nei quali si sarebbe configurata l’una o l’altra. Infatti, l’art. 26 l. 1034/1971 si limitava a stabilire che “il tribunale amministrativo regionale, ove ritenga irricevibile o inammissibile il ricorso, lo dichiara con sentenza” (comma 1) e che “nel caso in cui ravvisino la manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso, il tribunale amministrativo regionale e il Consiglio di Stato decidono con sentenza succintamente motivata” (comma 3), così palesando che tanto la irricevibilità quanto la inammissibilità si contrappongono alle statuizioni nel merito del ricorso, senza tuttavia precisare quali circostanze determinassero l’una o l’altra dichiarazione, né chiarire in che cosa le stesse si differenziassero[iii]. Né utili spunti definitori erano rinvenibili nel r.d. 643/1907 e nel r.d. 1054/1924: il primo conteneva unicamente il riferimento alla irricevibilità, riconoscendola nel caso di “omessa notificazione del ricorso all’autorità dalla quale emana l’atto o il provvedimento impugnato o per altro motivo” (art. 17, comma 3); il secondo, invece, omesso qualsiasi riferimento alla irricevibilità, si riferiva solamente alla inammissibilità, stabilendo che “il ricorso incidentale non è efficace, se venga prodotto dopo che siasi rinunziato al ricorso principale, o se questo venga dichiarato inammissibile, per essere stato proposto fuori termine” (art. 37) e che “ove non dichiari inammissibile il ricorso, decide anche nel merito” (art. 45).
Il difettoso coordinamento delle richiamate disposizioni ha determinato una certa varietà di orientamenti[iv], su cui la più attenta dottrina ha proposto alcune ipotesi di sistematizzazione. In particolare, prendendo le mosse dalla distinzione tra presupposti di ammissibilità e di ricevibilità, è stato ritenuto[v] che alla prima categoria fossero ascrivibili le ipotesi relative alla legittimazione e all’interesse processuale, nonché alla mancanza di cause preclusive alla corretta instaurazione del processo, quali l’acquiescenza; mentre, nell’alveo della seconda categoria fossero riconducibili le ipotesi relative all’esistenza e alla regolare presentazione del ricorso, nonché alla regolarità del contraddittorio. Secondo una diversa ipotesi ricostruttiva[vi], invece, la distinzione tra inammissibilità e irricevibilità sarebbe più apparente che reale, con la conseguenza che le due ipotesi sarebbero invero riconducibili ad unità, dovendosi farsi unicamente riferimento alla inammissibilità quale pronuncia che preclude l’indagine sul merito della questione[vii].
Nella giurisprudenza amministrativa si è tradizionalmente consolidata l’interpretazione secondo cui l’irricevibilità del ricorso deriva dalla tardività della notificazione o del deposito del ricorso, sebbene non siano mancate letture volte a ricondurre pure tali ipotesi nel generale alveo della inammissibilità[viii]; mentre, di inammissibilità si parla tutte le volte che sussiste una originaria carenza dell’azione che ne preclude l’esame nel merito. Questa impostazione ha trovato conferma legislativa nell’art. 35 c.p.a. che mantiene distinta la irricevibilità dalla inammissibilità, riconducendo alla prima “la tardività della notificazione o del deposito” del ricorso (comma 1, lett. a) e alla seconda le ipotesi in cui “è carente l’interesse o sussistono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito” (comma 1, lett. b).
Il tenore delle richiamate disposizioni consente di circoscrivere l’irricevibilità ad una unica e sola ipotesi, ossia: al caso in cui il ricorso (di primo o di secondo grado; rectius, l’atto introduttivo del giudizio) sia tardivo, perché notificato o depositato oltre i termini di decadenza[ix]; qualsiasi altra ipotesi preclusiva all’esame del merito del ricorso deve essere ricondotta nell’alveo della inammissibilità. Tale lettura sembra poter essere confermata da due concorrenti ragioni.
In primo luogo, pare assumere rilevanza la lettura combinata delle lett. a) e b) dell’art. 35, comma 1, cit. Partendo dall’assunto che le due ipotesi ivi previste sono accomunate dalla circostanza che entrambe ostano parimenti alla decisione nel merito del giudizio, troncando il processo prima che lo stesso giunga al suo naturale sbocco di rendere giustizia fra le parti[x], non può non rilevarsi come esse stiano tra loro in rapporto di genere a specie. Segnatamente, l’inammissibilità si verifica laddove risulti carente l’interesse ovvero sussistano altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito (lett. b), diverse, tuttavia, dalla tardività della notificazione o del deposito del ricorso, sanzionata, come detto, con la irricevibilità (lett. a). Pare dunque di immediato riscontro come l’irricevibilità sia riscontrabile nell’unica ipotesi espressamente prevista dalla lett. a), determinando qualsiasi altra ragione ostativa alla pronuncia di merito (anche non espressamente prevista, ma comunque ostativa alla decisione di merito) inammissibilità del ricorso.
In secondo luogo, le ipotesi che comportano inammissibilità dell’azione hanno una natura assai eterogenea tra loro, mentre la natura monolitica della irricevibilità non consente di ricondurre alla stessa ipotesi di tardività o mancato rispetto dei termini diversi da quelli espressamente previsti per la notifica e il deposito del ricorso introduttivo. Tale considerazione trova conferma nella lettura sistematica del codice del processo amministrativo. I termini irricevibile/irricevibilità sono utilizzati in cinque occasioni e sempre assieme ai termini inammissibile/inammissibilità: oltre che nel già richiamato art. 35, essi sono utilizzati agli artt. 49 e 95, con riferimento all’integrazione del contraddittorio, all’art. 74, con riferimento alla sentenza in forma semplificata e all’art. 99, per il caso in cui l’Adunanza Plenaria può pronunciare il principio di diritto nell’interesse della legge. I termini inammissibile/inammissibilità, invece, sono utilizzati, oltre che nei cinque casi sopra riferiti con riferimento anche all’irricevibilità, in ulteriori cinque previsioni: ossia, all’art. 18, con riferimento alle ipotesi di ricusazione; all’art. 40, riguardo alla formulazione dei motivi di ricorso in modo non specifico; all’art. 48, nel caso di inammissibilità dell’opposizione al ricorso al PdR; all’art. 95, quanto alla necessità che l’impugnazione sia notificata ad almeno una delle parti interessate a contraddire; all’art. 96, per l’ipotesi in cui l’impugnazione incidentale perde efficacia nel caso di inammissibilità dell’impugnazione principale. Per l’analisi che qui si intende condurre sembra utile rilevare come l’inammissibilità sia prevista in ipotesi assai eterogenee tra loro, comprendendo anche il caso di violazione di termini previsti per il compimento di atti endo-processuali. È quanto si ricava dal richiamato art. 18, il quale, dopo avere stabilito che “la ricusazione si propone, almeno tre giorni prima dell'udienza designata, con domanda diretta al presidente, quando sono noti i magistrati che devono prendere parte all'udienza; in caso contrario, può proporsi oralmente all'udienza medesima prima della discussione” (comma 2), afferma che “il collegio investito della controversia può disporre la prosecuzione del giudizio, se ad un sommario esame ritiene l'istanza inammissibile o manifestamente infondata” (comma 4) e che “il giudice, con l'ordinanza con cui dichiara inammissibile o respinge l’istanza di ricusazione, provvede sulle spese” (comma 7). La norma in parola, in sostanza, prevede quale conseguenza in casi di vizi nella proposizione dell’istanza, tra i quali deve ricomprendersi anche la tardività, che la stessa sia considerata inammissibile[xi].
Le considerazioni che precedeno consentono di ritenere che nell’attuale sistematica codicistica: (i) l’irricevibilità è unicamente ed espressamente riferita all’ipotesi di tardività della notifica o del deposito dell’atto introduttivo del giudizio; (ii) qualsiasi ulteriore vizio originario, tanto dell’atto introduttivo del giudizio, quanto di atti endo-processuali rileva quale ipotesi di inammissibilità, salve le ipotesi di improcedibilità; (iii) il rapporto di genere a specie che sussiste tra inammissibilità e irricevibilità non consente di applicare la seconda oltre i confini tipologici espressamente previsti dall’art. 35, comma 1, lett. a, c.p.a.
3. Irricevibilità e inammissibilità oltre il processo amministrativo.
Valicando i confini del processo amministrativo la distinzione tra irricevibilità e inammissibilità perde di assoluta consistenza, venendo utilizzato ora l’uno ora l’altro termine per ricomprendere tutte le ipotesi che, concretandosi in un vizio originario, impediscono di giungere alla decisione del merito.
Nel processo civile e in quello tributario si riscontra unicamente il riferimento alla inammissibilità, mancando qualsiasi rilievo alla irricevibilità.
Nel Codice di procedura civile, l’inammissibilità trova una disciplina discontinua[xii] ed è richiamata con riferimento alle impugnazioni in generale (artt. 342, 448-bis, 348-ter, 350, 357), al ricorso per Cassazione (artt. 360-bis, 365, 366, 366-bis, 375, 380-bis, 391-bis), alla revocazione (art. 398), alla opposizione di terzo (art. 404), al ricorso in appello (artt. 434, 436-bis), ricomprendendo fattispecie molto eterogenee tra loro che attengono alla violazione dei requisiti di forma degli atti processuali previsti dalla legge, nonché a violazioni aventi natura più propriamente sostanziale, quali l’insussistenza originaria del potere impugnatorio, la maturazione di decadenze processuali e il contraddittorio difettoso.
Anche la disciplina del processo tributario non contiene alcun riferimento all’irricevibilità, riconducendo ogni profilo originario impeditivo della decisione di merito nell’alveo della inammissibilità. In particolare, il d.lgs. n. 546/1992 prevede la sanzione della inammissibilità del ricorso, tra l’altro, nell’ipotesi di violazione del principio di tassatività degli atti impugnabili (art. 19), di mancato rispetto delle formalità per la costituzione del ricorrente (art. 22), di proposizione dell’azione oltre i termini di decadenza previsti per la impugnazione dell’atto (art. 21), di difetto di difesa tecnica e di sottoscrizione (artt. 12 e 18).
Unicamente all’inammissibilità, inoltre, fa riferimento il d.p.r. n. 1199/1971 con riguardo al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: in particolare, l’art. 13, recante “Parere su ricorso straordinario”, prevede, quale contenuto del parere, la “dichiarazione di inammissibilità, se riconosce che il ricorso non poteva essere proposto”, così evidentemente ricomprendendo nell’alveo della inammissibilità qualsiasi causa ostativa alla decisione del merito, compresa la tardività della sua proposizione[xiii].
Spostando l’attenzione all’ordinamento euro-unitario, invece, è possibile rilevare come la disciplina relativa ai procedimenti giurisdizionali avanti al Tribunale di primo grado[xiv], alla Corte di Giustizia della Unione europea[xv] e alla Corte europea dei diritti dell’uomo[xvi] faccia unicamente riferimento all’irricevibilità quale generale categoria alla quale ricondurre qualsiasi ipotesi che non consenta al giudice l’esame del ricorso nel merito e che, quindi, determini un prematuro arresto del giudizio.
La rassegna che precede, seppur condotta con la brevità imposta dall’economia del presente lavoro, consente di lumeggiare la mancanza di una terminologia comunemente e trasversalmente diffusa nei diversi ambiti processuali e, di conseguenza, l’impossibilità di utilizzare i concetti di irricevibilità o inammissibilità oltre il circoscritto ambito nel quale li stessi sono previsti, assumendo, evidentemente, consistenza differente a seconda dello specifico ordinamento processuale nel quale vengono utilizzati.
4. Natura, presupposti e finalità dell’opposizione al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
Si ritiene ora necessario richiamare, seppur brevemente, i principali elementi caratterizzanti l’atto di opposizione e la successiva (eventuale) fase di trasposizione del ricorso nella sede giurisdizionale. L’argomento non può essere trattato senza collocare l’istituto nell’alveo del principio di alternatività, in ragione del quale la proposizione dell’azione in via giustiziale o giurisdizionale preclude la proposizione del rimedio alternativo. Il principio in parola si fonda su una pluralità di ragioni concorrenti: da un lato, evitare il rischio che sulla medesima questione vi siano due pronunce di organi distinti e, quindi, preservare l’esigenza di non incorrere nella violazione del principio del ne bis in idem[xvii]; dall’altro, garantire ragioni di economia processuale, che suggeriscono di evitare che sulla medesima vicenda contenziosa siano sollecitati più organi decisionali[xviii]. Tuttavia, la preclusione del rimedio giurisdizionale, derivante dall’applicazione del ridetto principio di alternatività, rischierebbe di violare il diritto di difesa, costituzionalmente garantito dall’art. 113 Cost., se ai soggetti nei confronti dei quali è stato proposto il ricorso straordiario (anziché quello giurisdizionale, per scelta del ricorrente) fosse preclusa la facoltà di optare per la via processuale, richiedendo, appunto, che il ricorso fosse trasposto avanti al TAR[xix]. Per tale ragione, la parte[xx] nei cui confronti è stato proposto ricorso straordinario al Presidente della Repubblica ha facoltà di notificare, nel termine di sessanta giorni, atto di opposizione, chiedendo la trasposizione del ricorso nella sede giurisdizionale. Il ricorrente che voglia insistere nel ricorso, quindi, è onerato di depositare nella segreteria del giudice amministartivo competente l’atto di costituzione in giudizio[xxi], dandone avviso mediante notificazione alle controparti. L’opposizione determina l’improcedibilità del ricorso straordinario, con la conseguenza che ogni questione, anche connessa all’atto di opposizione stesso, sarà oggetto di valutazione nella sede giurisdizionale. In sostanza, con la proposizione dell’opposizione si determina la sopravvenuta carenza di potere decisionale in capo tanto al Consiglio di stato in sede consultiva, quanto al Presidente della Repubblica, con la conseguenza che il decreto del Capo dello Stato adottato nonostante la proposizione dell’opposizione è affetto da nullità per assoluta carenza di potere.
L’instaurazione del giudizio avanti al Tribunale amministrativo, a seguito della trasposizione di un ricorso straordinario, quindi si realizza attraverso un procedimento composito che consta di due atti tra loro - ontologicamente - distinti, ossia: l’atto di opposizione e il successivo, eventuale, atto di trasposizione. Questi due atti, benché entrambi volti al concorrente scopo di determinare lo “spostamento” del giudizio dalla sede amministrativa a quella giurisdizionale, hanno natura diversa. Se è pacifica la natura giudiziale dell’atto di trasposizione – come, peraltro, confermato dall’espressa disciplina contenuta nell’art. 48 c.p.a. - con la conseguente soggezione dello stesso alle regole processuali (ad esempio, quanto ai requisiti formali, all’assistenza tecnica e alla necessaria specialità della relativa procura, nonché alla applicabilità della sospensione feriale al termine per la sua proposizione), lo stesso non può dirsi con riferimento all’atto di opposizione. Questo, infatti, precedendo l’instaurazione del giudizio avanti al Giudice amministrativo, non si inserisce in alcuna sequenza di rito, non potendogli, dunque, riconoscere natura processuale. La natura amministrativa dell’atto in questione, peraltro, giustificherebbe l’inapplicabilità della sospensione feriale al termine previsto per la proposizione dell’opposizione[xxii] e la non necessità dell’assistenza obbligatoria di un avvocato[xxiii]. E non può assumere dirimente rilievo, a parere di chi scrive, la circostanza che l’atto di opposizione sia espressamente richiamato all’art. 48 c.p.a., né che il rimedio straordinario sia stato sottoposto a un processo di giurisdizionalizzazione. Sembra infatti necessario evidenziare come, nonostante i richiami contenuti nel c.p.a. (il riferimento è non solo all’art. 48, ma anche all’art. 7, comma 8) e all’indubbio rafforzamento della natura giurisdizionale del rimedio, anche ad opera della l. 69/2009, che ha previsto la vincolatività del parere del Consiglio di Stato, il ricorso straordinario continua a trovare la sua disciplina agli artt. 8 ss. del d.p.r. 1191/1971, in disposizioni ancora in vigore non essendo state né integralmente riprodotte, né espressamente abrogate dal c.p.a., residuando profili non assorbiti. E ciò è significativamente vero proprio con riferimento alla disciplina dell’opposizione posta dall’art. 10d.p.r. 1191/1971, mentre l’art. 48 c.p.a. disciplina la fase della trasposizione[xxiv]. I due plessi normativi, adunque, offrono conferma di come le due fasi (opposizione e trasposizione) assurgano a due momenti cronologicamente e ontologicamente differenti, a cui corrisponde la diversità di natura giuridica.
Venendo alla questione che più direttamente rileva nell’ambito delle presenti riflessioni, l’art. 10, comma 2, d.p.r. n. 1191/1971 dispone che “il collegio giudicante, qualora riconosca che il ricorso è inammissibile in sede giurisdizionale, ma può essere deciso in sede straordinaria dispone la rimessione degli atti al Ministero competente per l'istruzione dell'affare”. La portata di questa disposizione – che evidentemente sembra fare un generico riferimento a qualsiasi ipotesi di inammissibilità – deve essere circoscritta in ragione del tenore dell’art. 48, comma 3, c.p.a., secondo cui “qualora l'opposizione sia inammissibile, il tribunale amministrativo regionale dispone la restituzione del fascicolo per la prosecuzione del giudizio in sede straordinaria”. Dal combinato disposto delle richiamate disposizioni deriva che l’effetto restitutorio e la prosecuzione del giudizio nelle sede straordinaria non si determina per vizi che riguardino l’atto di trasposizione o l’inammissibilità originaria del ricorso straordinario[xxv], ma viene unicamente determinata dalla inammissibilità dell’atto di opposizione. In particolare, è stato precisato in giurisprudenza che la remissione in sede straordinaria si verifica laddove l’atto di opposizione manchi di un elemento essenziale, sia stato proposto da un soggetto non legittimato[xxvi] ovvero sia stato tardivamente proposto[xxvii].
5. Considerazioni conclusive
Le analisi sopra condotte inducono a ritenere la decisione che qui si annota non pienamente condivisibile, dal momento che, da un lato, trascura la natura e gli elementi caratterizzanti l’atto di opposizione e, dall’altro, estende il concetto di irricevibilità oltre i confini propri del processo amministrativo.
Come rilevato sopra, l’atto di opposizione non ha natura processuale, non inserendosi in alcuna sequenza di rito, come conferma anche la circostanza che esso trova la sua disciplina all’art. 10 d.p.r. 1191/1971, mentre all’art. 48 c.p.a. è rimessa unicamente la disciplina della diversa fase della trasposizione, avente pacifica natura processuale. Tale circostanza rende non condivisibile la soluzione adottata dal Consiglio di Stato, laddova ha ritenuto di ricondurre l’ipotesi di tardiva proposizione dell’atto di opposizione nell’alveo della irricevibilità, con la conseguenza che il ricorso straordinario non diverebbe improcedibile, non potendo trovare applicazione il meccanismo di cui all’art. 48, comma 3, c.p.a. che, riferendosi espressamente alla inammissibilità dell’opposizione, esprimerebbe la voluntas legis di mantenere il vaglio circa le questioni di tardività in capo al Consiglio di Stato in sede consultiva. Invero, la irricevibilità, a cui non può essere riconosciuto alcun significato trasversalmente applicabile nei diversi ordinamenti processuali, nel processo amministrativo ha un significato esclusivamente circoscritto all’ipotesi di tardiva notifica o deposito dell’atto introduttivo del giudizio, dovendo qualsiasi altra ipotesi originaria preclusiva all’esame del merito della vertenza essere ricondotta nell’alveo della inammissibilità. E ciò non può che valere con riferimento a un atto, come l’opposizione, che non solo non è qualificabile quale atto introduttivo del giudizio, ma ha natura procedimentale, non potendo allo stesso applicarsi regole e categorie espressamente elaborate per il diverso ambito processuale. A ben vedere, peraltro, la decisione che si commenta giunge finanche a dequotare la natura dell’atto di opposizione. Infatti, l’opposizione al ricorso straordinario è considerata quale rimedio necessario perché il sistema di tutela giustiziale risulti compatibile con l’art. 113 Cost., consentendo alla parte nei cui confronti è proposto il ricorso straordinario di manifestare la propria volontà a che la questione sia decisa dal TAR, con la conseguenza che la sua proposizione non potrebbe che determinarne l’automatica improcedibilità, spogliando – in modo automatico – il Consiglio di Stato, in sede consultiva, di ogni ulteriore potere decisionale. Tale automatica conseguenza, peraltro, non può riguardare unicamente il merito della questione controversa, ma deve estendersi a qualsiasi profilo, anche di rito, tra cui non può escludersi la tempestività o meno della stessa proposizione dell’atto di opposizione. Diversamente opinando, si giungerebbe al risultato di equiparare, sul piano degli effetti giuridici, la condizione dell’atto di opposizione nullo, perché carente dei requisiti essenziali affinché possa idoneamente manifestare la volontà della parte, a quello, pur valido, ma tardivamente proposto. Sembra doversi rilevare, sul punto, come nullità e tardività attengano a due fasi ontologicamente differenti da cui non possono che derivare effetti differenti, anche con riferimento alla questione che qui ci occupa. Infatti, mentre la nullità è conseguenza della carenza dei requisiti sostanziali dell’atto di opposizione, di guisa che non può darsi luogo alla valida manifestazione di volontà della parte e, dunque, non potrebbe determinarsi l’improcedibilità del procedimento straordinario; la tardiva proposizione non incide sulla presupposta valida manifestazione di volontà a che la questione sia trasposta in sede giurisdizionale, limitando i suoi effetti sul piano meramente procedimentale, ossia alla concreta possibilità che il giudizio possa proseguire avanti al TAR. Da qui può dedursi, sul piano sistematico, la conseguenza che la validità/nullità dell’atto di opposizione rientra nel sindacato del Consiglio di Stato in sede consultiva, spettando a questi la verifica circa la validità sostanziale dell’atto. Una volta che l’atto sia ritenuto valido - e dunque idoneamente espressivo della volontà di trasferire la questione in sede giurisdizionale - non può che conseguirne l’automatico arresto del procedimento straordinario. Laddove il ricorrente provveda alla trasposizione del giudizio avanti il TAR, dunque, spetterà a quest’ultimo il sindacato su tutti gli ulteriori profili di rito, che riguardino anche il rispetto delle formalità e delle tempistiche previste in sede procedimentale, tra i quali, oltre che i pacifici rilievi relativi alla fase di proposizione del ricorso straordinario, devono essere compresi anche ogni profilo relativo alla valida proposizione dell’atto di opposizione.
[i] Cfr. F. Ancora, Irricevibilità e inammissibilità nel processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 2022
[ii] A. Lugo, in Inammissibilità e improcedibilità (Diritto processuale civile), in Nss., Torino 1962, pp. 483.
[iii] Così, si v. R. Villata, Inammissibilità e improcedibilità. III) Procedimento e processo amministrativo, in Enc. giur., 1988.
[iv] In argomento, si v. O. Savini Nicci, Le sanzioni a difesa del rito giurisdizionale dinanzi al Consiglio di Stato, in Scritti giuridici in onere di Santi Romano, Padova, 1940, spec. 584 e P. Virga, La tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, Milano, 1982, spec. 355, che riconducono alla irricevibilità unicamente le ipotesi di tardività nella proposizione dell’azione; diversamente, R. Alessi, Principi di diritto amministrativo, Milano, 1971, 817 e G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, Milano, 1958, spec. 318, ritengono di ricondurre nell’alveo della irricevibilità fatti ostativi alla proposizione del ricorso, quali l’acquiescenza e la rinuncia.
[v] Il riferimento è a A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, 1187.
[vi] Così R. Villata, Inammissibilità e improcedibilità. III) Procedimento e processo amministrativo, cit.
[vii] In questo senso, cfr. E. Presutti, Istituzioni di diritto amministrativo italiano, Milano, 338, che ritiene sussistere una sostanziale equipollenza tra i termini di inammissibilità e irricevibilità.
[viii] In questo senso, si v. TAR Emilia Romagna, Parma, Sez. I, 25 maggio 2010, n. 213; TAR Campania, Napoli, Sez. I, 12 giugno 2009, n. 3259; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 23 marzo 2009, n. 2972; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 13 marzo 2009, 1908. Una lettura critica di questa impostazione è offerta da A. Marra, Il termine di decadenza nel processo amministrativo, Milano, 2012, 127.
[ix] Contra F. Ancora, Irricevibilità e inammissibilità nel processo amministrativo, cit., il quale ritiene che la disposizione non chiarirebbe se il ricorso può essere dichiarato irricevibile anche per altre ipotesi e, dunque, non è idonea a stabilire una relazione biunivoca tra tardività e irricevibilità.
[x] G. Corso, Commento all’Art. 35, in (a cura di A. Quaranta, V. Lopilato) Il processo amministrativo: commentario al D.lgs. 104/2010, Milano, 2011, 348. Sulle sentenze di rito nel processo amministrativo, ex multis, si v. F Francario, Sentenze di rito e giudizio di ottemperanza, in Dir. proc. amm., 2007, 52-85, nonché C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005.
[xi] In questi termini si esprime la giurisprudenza amministrativa, secondo cui “è manifestamente inammissibile perché tardiva l'istanza di ricusazione del Collegio giudicante se proposta non già nel termine perentorio di cui all'art. 18 comma 2, c.p.a., ma successivamente al suo decorso” (Cons. Stato, Sez. IV, 3 luglio 2015, n. 3320).
[xii] Tra la vasta dottrina in materia, per una sistematica della problematica, si ritiene utile il richiamo a F. Carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano, Roma, 1956, 336; V. Andrioli, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, spec. 823 ss.; M. Formini, Orientamenti in tema di improponibilità, inamissibilità e improcedibilità, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1981, 1318; si v. A. C. Canova, Inammissibilità e improcedibilità. I) Diritto processuale civile, in Enc. giur., 1988.
[xiii] Ad eccezione delle ipotesi che si sostanziano in irregolarità sanabili, per le quali è prevista l’assegnazione al ricorrente di un termine per la regolarizzazione, e, se questi non vi provvede, la dichiarazione di improcedibilità del ricorso.
[xiv] Il riferimento è al Regolamento di procedura del Tribunale di primo grado, 2 maggio 1991, in GU 136 del 30 maggio 1991, che richiama la irricevibilità con riguardo ai vizi di forma del ricorso (art. 44), alla ipotesi in cui il gratuito patrocinio può essere negato (art. 94), al caso di decisione in forma di ordinanza (art. 111), alla rilevabilità d’ufficio delle questioni di irricevibilità di ordine pubblico (art. 113) ovvero alla forma con cui la parte può sollevare contestazione di irricevibilità (art. 114), nonché alla impugnazione (art. 145).
[xv] Nel dettaglio il Regolamento di procedura della Corte di giustizia, 25 settembre 2012, in GU 265 del 29 settembre 2012, richiama la irricevibilità in plurime dispsozioni, tra cui quelle relative all’ordine di trattazione delle cause (art. 53), ai vizi di forma dell’atto (art. 122), alle modalità e ai tempi di rilievo della irricevibilità (artt. 150, 159-bis), al contenuto dell’atto di impugnazione e alle carenze formali (art. 168) e alle modalità di decisione della impugnazione (art. 181) e agli effetti della irricevibilità sulle impugnazioni incidentali (art. 183).
[xvi] Il Regolamento della CEDU del 1 gennaio 2020 richiama ripetutamente la irricevibilità, pur senza fornirne una puntuale definizione, con riferimento alle modalità di decisione di un ricorso irricevibile (artt. 49, 52, 53, 54), alle modalità e ai tempi di formulazione della contestazione (art. 55), alle conseguenze in caso di mancato riscontro alle richieste di indormazioni o documenti formulati dalla Corte (pt. IV, indicazioni operative).
[xvii] Cfr. Cons. Stato, Sez. III, 1 agosto 2014, n. 4099, ove viene rilevato che “la regola dell’alternatività del ricorso straordinario al Capo dello Stato rispetto al ricorso giurisdizionale risponde ad una ratio di tutela non già dei privati bensì della giurisdizione, avendo lo scopo di evitare il rischio di due decisioni contrastanti sulla medesima controversia (divieto del “ne bis in idem”) e trova applicazione, pertanto, quando si tratta della medesima domanda o dell'impugnazione dello stesso atto, ovvero vi è identità del bene della vita oggetto del rimedio giustiziale esperito”, evidenziando altresì che tale regola “è stata, peraltro, interpretata con elasticità dalla giurisprudenza, nel senso che deve trovare applicazione, ad es., anche nel caso di due impugnative rivolte dal medesimo soggetto avverso punti diversi dello stesso atto (Consiglio di Stato, sez. II, 1/10/2013, n. 4489); oppure quando si tratta di atti distinti, ma legati tra loro da un nesso di presupposizione (Consiglio di Stato, sez. V, 3/09/2013, n. 4375); in sostanza, secondo la giurisprudenza, la regola dell'alternatività tra il ricorso straordinario al Capo dello Stato e quello giurisdizionale, sancita dall'art. 8 del d.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199, deve sempre ritenersi operante nei casi nei quali le due diverse impugnative siano sostanzialmente caratterizzate dall'identità del contendere e della relativa "ratio"”.
[xviii] Si v. L. Ragnisco, M. Rossano, I ricorsi amministrativi, Roma, 1954, 337.
[xix] Cfr. M. Immordino, La tutela non giurisdizionale. Il ricorso straordinario al Capo dello Stato, in (a cura di F.G. Scoca) Giustizia amministrativa, Torino, 2013, 631. Si v. anche Corte Cost. n. 78/1966, secondo cui “importa soltanto rilevare che il principio contestato, dando alla parte piena libertà di adire alla tutela giurisdizionale, e facendo dipendere dalla libera determinazione di lei la decadenza da quella tutela, non la rende né impossibile, né difficile, né fittizia: la legge anzi offre, in seno allo stesso ordinamento amministrativo, una protezione ai diritti soggettivi o agli interessi legittimi, che si aggiunge a quella giurisdizionale quando la parte ritiene di poterne fare a meno o da essa é decaduta. E in questo senso essa aumenta la possibilità di reazioni contro l'atto amministrativo illegittimo”. Nella giurisprudenza più recente, si v. TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, 14 gennaio 2022, n. 41; Cons. Stato, sSez. III, 7 gennaio 2020, n. 112, secondo cui “listituto dell'opposizione rappresenta, infatti, lo strumento di ciascuna parte per adire il giudice precostituito per legge, in quanto il ricorso straordinario, rimedio alternativo a quello giurisdizionale, presuppone una concorde volontà di tutte le parti all'utilizzo di tale rimedio”.
[xx] L’atto di opposizione può essere proposto dal controinteressato, a cui espressamente si riferisce l’art. 10, comma 1, d.p.r. 1199/1971, dall’entepubblico, diverso dallo Stato, che ha emanato l'atto impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (cfr. corte cost., 29 luglio 1982, n. 148) e anche dalle Amministrazioni statali, giusta il tenore dell’art. 48 c.p.a. che si riferisce unicamente alla “parte”, così facendo ritenere che nel suo alveo sia da ricomprendere qualsiasi soggetto, anche l’Amministrazione statale: così, in dottrina, cfr. secondo parte della dottrina (si v. P. Carpentieri, Commento all’art. 48, in (a cura di R. Garofoli, G. Ferrari) Codice del processo amministrativo annotato con dottrina, giurisprudenza e formule, Molfetta, 2012, 782) e in giurisprudenza Cass. Sez. Un., 19 dicembre 2012, n. 23464 e Cons. Stato, Ad. Plen. 6 maggio 2013, nn. 9 e 10. Parte della succesiva giurisprudenza (cfr. TAR Firenze, Sez. I , 27 maggio 2019, n. 793) ha poi ampliato la nozione di parte, al punto da ricomprendervi anche i cointeressati (in particolare, è stato rilevato che “la nozione di parte, nei confronti della quale sia stato proposto ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, ricomprende i controinteressati, i cointeressati e la pubblica amministrazione che ha emanato l'atto impugnato, nozione quest'ultima che assicura il pieno rispetto del contraddittorio e la generalizzazione della facoltà di opposizione, testimoniata dall'uso di una formula che comprende anche lo Stato, oltre alle altre pubbliche amministrazioni, ai controinteressati e ai cointeressati. Pertanto, anche i cointeressati sono legittimati a proporre opposizione ai sensi dell' art. 10 d.P.R. n. 1199/1971 , ovvero a chiedere la trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale”); contra, si v. Cons. Stato, Sez. II, 20 ottobre 2020, n. 6318; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 3 settembre 2020, n. 9332 e TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 3 giugno 2015, n. 1289.
[xxi] Sulla trasposizione, ex multis, si v. G. Pellegrino, Commento all’art. 48, in (a cura di A. Quaranta, V. Lopilato), Il Processo amministrativo, Milano 2011, 463.
[xxii] La questione è, tuttavia, dibattuta in giurisprudenza: secondo un primo orientamento, “in tema di ricorso straordinario al Capo dello Stato è applicabile il periodo di sospensione dei termini feriali alla fase di opposizione: in conseguenza dell'entrata in vigore del nuovo codice del Processo Amministrativo si è progressivamente attenuata la diversità tra natura amministrativa e giurisdizionale delle decisioni conclusive, rispettivamente dei ricorsi al Capo dello Stato e delle sentenze del g.a. e, anche laddove non si intenda valorizzare le analogie tra i due giudizi, va rilevato che il termine di 60 giorni per l'opposizione dei controinteressati all'ulteriore corso del rimedio straordinario e per il trasferimento in sede giurisdizionale della controversia (previsto dall'art. 10, d.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199), ha natura processuale, in quanto concernente il giudizio davanti al g.a. e non viceversa il ricorso straordinario; pertanto, si applicano le norme sulla sospensione dei termini in periodo feriale” (TAR Veneto, Sez. II, 11 dicembre 2013, n. 1406); secondo opposta impostazione, invece, l’atto in parola non avrebbe natura processuale, non potendo, dunque, beneficiare della sospensione feriale (Cons. Stato, Sez. V, 2 marzo 2010, n. 1186).
[xxiii] Così TAR Sardegna, Cagliari, Sez. I, 557/2011.
[xxiv] Così G. Pellegrino, Commento all’art. 48, in (a cura di A. Quaranta, V. Lopilato), Il Processo amministrativo, Milano 2011, 463; contra, F. Saitta, Il ricorso straordinario, in (a cura di B. Sassani, R. Villata) Il codice del processo amministrativo, Milano, 2012, 1304).
[xxv] Si v. Cons. Stato, Sez. V, 2 marzo 2009, n. 1194; id., Sez. VI, 7 febbraio 2014, n. 593. Contra, si v. l’isolata pronuncia resa da Cons. Stato, sez. VI, 9 ottobre 2012, n. 5248.
[xxvi] Cfr. Cons. Stato, Sez. II, 20 ottobre 2020, n. 6318; TAR Toscana Sez. II n. 663/2013; TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 3 giugno 2015, n. 1289, secondo cui “è legittimato alla proposizione dell'”opposizione” al ricorso straordinario la sola “parte nei cui confronti sia stato proposto ricorso straordinario”, non anche soggetti terzi, processualmente estranei al ricorso stesso. Pertanto, i cointeressati non possono chiedere che il ricorso sia trasposto in sede giurisdizionale”.
[xxvii] Si v. tra le altre CGA 2 luglio 2019, n. 631.
La responsabilità amministrativo-contabile degli avvocati e degli ordini professionali: profili sistematici
di Letterio Donato
Sommario: 1. Premessa - 2. I danni recati dal pubblico dipendente avvocato - 3. I danni recati dall’avvocato libero professionista - 4. Il caso dei danni arrecati dal libero professionista al proprio ordine professionale - 5. Conclusioni.
1. Premessa
Le responsabilità dell’avvocato possono essere di ordine civile, penale e disciplinare.
La responsabilità amministrativo-contabile, in particolare, può essere configurata a certe condizioni, ad essa proprie e peculiari, la cui giurisdizione, ove sia stata promossa la relativa azione dalla Procura, è devoluta alla Corte dei conti, tenuto conto dell’art. 1 c. 1 del Codice di giustizia contabile, d. lgs. n. 174/2016 - secondo cui “La Corte dei conti ha giurisdizione nei giudizi di conto, di responsabilità amministrativa per danno all'erario e negli altri giudizi in materia di contabilità pubblica” – e dell’art. 103 c. 2 della Costituzione (“la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge”[i]).
La vexata quaestio circa i confini della giurisdizione contabile, come noto, ha conosciuto latitudini assai oscillanti, tanto che si è parlato in dottrina di una vis expansiva a partire dalla seconda metà degli anni ’90, non senza sottolinearne gli eccessi[ii]. Non a caso, infatti, il legislatore (v. il c.d. “lodo Bernardo”[iii] ed oggi gli interventi del c.d. “decreto semplificazioni”[iv]) è talora intervenuto per evitare il moltiplicarsi delle responsabilità amministrative a vario titolo, in un continuo alternarsi di stagioni nelle quali la giurisdizione contabile ha conosciuto fortune alterne, anche al di là dei suoi pregi e dei suoi difetti. Non vi è dubbio, infatti, che la “aziendalizzazione”, la “privatizzazione”, l’introduzione di sistemi di valutazione delle performance, gli stringenti vincoli di bilancio, la rigidità dei procedimenti di spesa (soprattutto nella materia dei contratti pubblici), uniti al deficit dello Stato e delle Regioni, con gravissime ripercussioni sugli enti locali (in questi anni costretti a fare di necessità virtù), tutti riportati – condivisibilmente – ad una (ri)lettura dell’art. 97 della Costituzione (integrato dalla legge costituzionale n. 1/2012), abbiano condotto ad una nuova impostazione dei rapporti tra amministrazioni e tra esse e i cittadini, con particolare rilievo alla materia dei servizi pubblici, vera e propria cartina di tornasole su cui misurare i tratti della democraticità effettiva[v].
Segnatamente, il principio di buon andamento, in collegato con il vincolo di equilibrio di bilancio, ha assunto una dimensione assiologica ben più significativa e pregnante, ponendosi come clausola in grado di catalizzare le variabili dell’equazione che vede in gioco la legalità e l’efficienza, la trasparenza e l’anticorruzione, persino, in una certa misura, il sindacato diffuso sull’operato delle pubbliche amministrazioni. E se, in passato, tale principio era oscurato dall’imparzialità, tradotta dal giudice amministrativo all’interno dell’eccesso di potere, oggi può affermarsi che esso abbia trovato il suo “giudice naturale”, ossia la Corte dei conti, in un processo di biunivoca rispondenza e valorizzazione, tale che entrambi hanno trovato una nuova e fondamentale collocazione nell’ordinamento[vi].
L’anzidetta espansione delle ipotesi di illecito in grado di determinare l’inverarsi di fattispecie di responsabilità amministrativa ha investito anche l’ambito dei rapporti tra pubbliche amministrazioni e professionisti, siano essi medici, avvocati, ingegneri, geologi, architetti o commercialisti.
Le responsabilità da attività professionale discendono essenzialmente dalla inosservanza delle best practices, dei protocolli, della diligenza richiesta ad un professionista, ossia ad un soggetto la cui perizia e competenza si presumono una volta “abilitato” all’esercizio della professione stessa e iscritto all’Ordine di appartenenza[vii].
Quanto detto vale, ovviamente, anche per gli avvocati, relativamente ai quali – come per alcuni altri professionisti - occorre distinguere se del libero foro o alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Se è vero, infatti, che la perizia richiesta ad un avvocato è tendenzialmente la medesima, occorre anche considerare che la responsabilità amministrativo-contabile richiede, seppure in termini lati, un rapporto di servizio. Sicchè, è evidente che questo presupposto sarà rinvenibile nell’avvocato dipendente di una amministrazione, mentre, se del caso, dovrà essere rinvenuto nel caso dell’avvocato libero professionista, incaricato di un certo affare, ma solo a certe condizioni[viii].
Anticipando un discorso che sarà sviluppato ulteriormente di seguito, basti ricordare come, di recente, la giurisprudenza si sia occupata del tema, pervenendo a fissare alcuni punti fondamentali.
In un caso assai noto quanto recente, è giunta nella sede giurisdizionale contabile una vicenda nella quale un avvocato dell’Inps aveva omesso, in tesi, di presentare appello avverso una sentenza in presenza di pacifici indirizzi contrari della Corte di cassazione. La rilevanza del caso è legata al fatto che era stata emessa condanna a carico dell’ente di corrispondere quasi tre milioni per indennità di accompagnamento e per assegno sostitutivo di accompagnatori militari, sicchè il mancato appello era, in tesi, causa efficiente di danno erariale[ix].
In altro caso esemplificativo, è stata affermata la responsabilità per danni arrecati da liberi professionisti quali componenti del Consiglio dell'Ordine nel conferimento di incarichi professionali ad esperti esterni[x].
Mentre la responsabilità amministrativo-contabile è di più agevole e pressoché pacifica configurazione per gli avvocati dipendenti di pubbliche amministrazioni, come si vedrà, più complessa è la vicenda quando questa riguardi liberi professionisti.
Tra gli avvocati pubblici dipendenti, peraltro, rientrano gli Avvocati dello Stato, gli avvocati degli enti pubblici, gli addetti agli uffici contenziosi, anche se non avvocati.
In ogni caso, la configurazione della responsabilità professionale deve porsi in linea con la necessaria autonomia dell’avvocato nello svolgimento dell’attività libero professionale[xi]. L’ampiezza di tale autonomia è, infatti, inversamente proporzionale all’inverarsi di responsabilità colpose (quelle dolose sono escluse dal presente discorso per ovvie ragioni).
Si stima, dunque, di procedere ordinatamente, esaminando le diverse posizioni degli avvocati e le rispettive condizioni di responsabilità.
2. I danni recati dal pubblico dipendente avvocato
Se le responsabilità per danno erariale dei dipendenti pubblici – tra i quali i professionisti legati da un rapporto di servizio, anche occasionale – rientrano senza dubbio nella giurisdizione della Corte dei conti, altro discorso riguarda l’attività difensiva o consultiva.
I legali facenti parte delle avvocature degli enti pubblici sono iscritti nell’apposito elenco speciale annesso all’albo[xii]. In questo senso depone l’art. 23 della l. n. 247/2012, ai sensi del quale, i professionisti facenti parti di tali uffici interni, finché gli enti “siano partecipati prevalentemente da enti pubblici”, hanno garanzia di “piena indipendenza ed autonomia nella trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell’ente”. Essi godono di un trattamento “adeguato alla funzione professionale svolta”. Nel contratto di lavoro sono garantite “l’autonomia e l’indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica dell’avvocato”[xiii]. Sul piano della responsabilità, l’iscrizione nell’elenco speciale dell’albo non li esime dal potere disciplinare del Consiglio dell’Ordine[xiv].
Discorso differente concerne gli Avvocati e i Procuratori dello Stato, per i quali non è richiesta alcuna iscrizione all’albo professionale ai sensi del t.u. del 1933 che li riguarda. Ma anche per essi, si pongono le medesime questioni, circa possibili profili di responsabilità anzitutto laddove vi sia una cattiva gestione del contenzioso.
A queste due macro-categorie se ne aggiunge una terza, ovvero quella dei dirigenti o funzionari preposti alla difesa dell’ente pur non appartenendo ai ruoli legali dello stesso, in tutti i casi in cui non sia necessaria la difesa tecnica, ossia con il patrocinio di un avvocato. Anche a costoro, nei limiti dell’attività svolta e della perizia richiesta, ovviamente, si estendono possibili profili di responsabilità.
Tutti costoro, in caso di cattiva gestione del contenzioso, laddove ne derivi un danno erariale (diretto o indiretto), possono essere esposti alla giurisdizione della Corte dei conti.
La casistica è la più varia, e discende, per lo più, dal diverso atteggiamento che, a volte, le amministrazioni (in primis) e gli stessi professionisti (in secundis) assumono nelle difese svolte o nei giudizi promossi o che si è colpevolmente omesso di promuovere.
Il tema è, invero, assai delicato, perché investe non solo la perizia e la professionalità del soggetto, rientrante nelle categorie di cui sopra, ma anche il comportamento delle stesse amministrazioni.
Le ipotesi immaginabili sono numerose, ma, si badi, non devono mai essere interpretate ex postinvestendo i profili della discrezionalità delle amministrazioni pubbliche, le quali possono legittimamente difendere il proprio operato senza il timore di venire dopo investite da responsabilità.
Si pensi, ad esempio, al mancato appello nei confronti di una sentenza che dichiari l’esistenza di mobbing, ove l’ente locale – anche questo è un caso reale ed assai diffuso prima della legge Gelli/Bianco nei confronti dei sanitari pubblici dipendenti – invece di appellare (anche su richiesta del diretto interessato che non era parte del giudizio, svoltosi tra il presunto danneggiato e l’Amministrazione), ha transatto la controversia, “scaricando” il danno sul malcapitato dipendente.
Da questo punto di vista, due osservazioni valgano incidenter tantum: a) la riconosciuta risarcibilità del danno inferto all’interesse legittimo, come anche le nuove ipotesi di responsabilità (esemplare, il c.d. danno da ritardo), hanno ampliato il novero dei casi di potenziale responsabilità amministrativo-contabile dei dipendenti pubblici, ancorchè, occorra dire che il giudice amministrativo pare, in linea di principio, non particolarmente incline ad assumere la fisionomia del giudice da “risarcimento del danno”[xv] (come, del resto, accade sovente dinanzi al giudice ordinario quando si tratti di disapplicare un provvedimento amministrativo o di far valere vizi che attengano alla sua legittimità); b) l’istruttoria contabile, anche prima della riforma del 2016, si caratterizza per una decisa autonomia, fatta eccezione per gli elementi di fatto accertati soprattutto in sede penale (ma anche in sede amministrativa) dei quali tiene conto, sicchè non è affatto detto che una condanna al risarcimento del danno dinanzi al giudice ordinario o amministrativo avrà analogo esito nei confronti del responsabile per danno indiretto. Anzi, la casistica dimostra che non di rado l’esito sarà differente. Infatti, può avvenire che il danno accertato (e corrisposto dalla p.a.) in altre sedi giurisdizionali sia frutto anche di difese non particolarmente attente, mentre il diretto interessato, affidandosi ad un libero professionista e ben conoscendo la vicenda, sovente si difende meglio e consente un accertamento che può portare anche all’assoluzione dall’imputazione.
Il fatto che le amministrazioni, talora, non si difendano al meglio è “strutturale” e forse anche “fisiologico”, al punto che, talora, lo stesso giudice – assumendosi un compito non completamente suo, ma comprensibilissimo – si erge esso stesso a difensore “aggiunto” delle p.a. “sonnecchianti”. Si consideri quanto ciò possa refluire sull’avvocato dell’ente pubblico, in molti casi “sovrastato” dal numero e dall’ampiezza del contenzioso in relazione ad un ufficio di modeste dimensioni ed al cospetto di collaboratori non sempre “rodati” all’agone del libero foro, talora abituè di casi seriali, al di fuori dei quali fanno fatica. Non solo. Spesso – non sempre, non si intende fare di tutta l’erba un fascio – le amministrazioni, impegnate nell’attività amministrativa ordinaria e negli adempimenti (in molti casi formali e non utili) posti dalla normativa più recente, non sono in grado di fornire tempestivamente la documentazione difensiva più appropriata o di redigere relazioni informative la cui importanza è fondamentale. Quest’ultima ipotesi, in realtà, può riguardare anche il professionista del libero foro incaricato della difesa dell’ente (quando il ricorso alla difesa “esterna” è consentito, beninteso), spesso privo di documentazione e dotato di procura (e deliberazione a stare in giudizio) solo in prossimità dell’udienza.
Analogo problema può investire anche la difesa erariale par excellence, ossia l’Avvocatura dello Stato, costituita da professionisti esperti e di altissimo profilo, anch’essi costretti a “scegliere” gli atti difensivi da redigere con più cura (ammesso che la documentazione ed un minimo di relazione giunga loro per tempo), trascurando le Camere di consiglio o “andando a braccio” (gli avvocati del libero foro sanno quanto pericolosa sia questa prassi) per difendere l’ente. In altri casi – si pensi ai giudizi in materia di concorsi pubblici – l’Avvocatura ora si limita a depositare gli atti con una memoria di forma, ora redige atti difensivi di grande spessore.
In termini generali, dunque, parlare di responsabilità dell’avvocato “pubblico” richiede una grande attenzione, rifuggendo dalla ricerca dell’addebito, semplicemente perché la p.a. è risultata soccombente in giudizio, con probabile condanna alle spese. Se nel caso del giudizio di ottemperanza che si traduca in un esborso evitabile – si pensi agli interessi maturati sul credito o alla nomina del Commissario ad acta – la responsabilità non è dell’avvocato, ma dell’amministrazione, la proposizione di un appello palesemente infondato o la resistenza meramente tuzioristica costituiscono un vulnus alla stessa giurisdizione, impegnando i Tribunali in controversie agevolmente risolvibili in via stragiudiziale. Il tema porterebbe assai lontano e non può qui essere affrontato: basti rammentare come l’uso dei poteri di autotutela, in funzione anche della funzione deflattiva propria della partecipazione al procedimento, abbia ceduto il posto alla (apparentemente più comoda) scelta di lasciare che il contenzioso si svolga, per poi vedere il da farsi[xvi].
La “crisi” dell’autotutela, d’altro canto, non può considerarsi una novità: il paradosso, semmai, è che essa sia ancora oggi (forse anche in misura maggiore rispetto al passato) direttamente collegata con il metus della responsabilità[xvii]. Si tratta di un paradosso perché il mancato ricorso all’autotutela sovente costituisce, in fin dei conti, un boomerang che conduce parimenti (e in condizioni nelle quali è assai più difficile la difesa) dinanzi al giudice contabile, il quale sanziona con particolare vigore le responsabilità omissive piuttosto che quelle commissive. Le prime sono, infatti, legate ad una incapacità di decidere, le seconde possono discendere da errori o sviste che, laddove non particolarmente evidenti – contrassegnate, cioè, da colpa grave, secondo la provvida riforma del 1994 – non dovrebbero portare ad addebito alcuno.
Ciò apre un ulteriore tema, qui solo accennato perché collaterale al tema trattato, ovvero quello della corretta interpretazione della presenza della colpa grave: la Corte dei conti, talora, non ne ha valorizzato l’importanza, “appiattendo” la colpa grave anche su ipotesi di colpa “lieve”, facendo perdere l’effetto voluto dal legislatore, che è quello di sollevare ragionevolmente l’amministratore nel trattare le questioni a lui sottoposte[xviii].
Tutte queste riflessioni convergono nel delineare un quadro composito delle responsabilità dei soggetti di cui si sta parlando, sia in quanto professionisti (esclusi i dirigenti e funzionari incaricati), sia in quanto dipendenti pubblici. La loro responsabilità – è questo il dato più evidente – non può che discendere da fatti gravi, evidenti omissioni (tra cui è stata fatta rientrare, ad esempio, l’omessa comunicazione di una udienza) o acquiescenze a tesi avversarie chiaramente infondate.
Ovviamente, quanto sopra non vale nel caso in cui l’attività difensiva sia contrassegnata da dolo, fermo restando che la dolosità del comportamento va debitamente accertata e non presunta (come pure talora accade concretamente).
È prassi, ad esempio, l’utilizzo del c.d. “copia e incolla” da parte degli uffici legali (anche dell’Avvocatura di Stato), della proposizione di appelli o di giudizi in Cassazione palesemente infondati fino alla lite temeraria (come nel caso di crediti prescritti), ovvero giudizi che non avrebbero dovuto intraprendersi, talora mediante l’utilizzo di strumenti transattivi e/o conciliativi e dello stesso potere di autotutela (non esercitato correttamente).
Le strategie processuali possono rilevare, ma qui il confine con l’autonomia del legale è labile e quindi occorre estrema attenzione per non sbilanciare la responsabilità oltre la misura della mancata diligenza richiesta.
Altra ipotesi che si verifica in concreto – anche nell’ambito delle difese spiegate da avvocati “esterni” – è quella concernente la “reinterpretazione” delle ragioni per le quali un certo atto sia stato adottato (o non adottato). Ci si chiede, infatti, se il difensore esorbiti dal mandato nella misura in cui tenti di “riannodare” i fili della legittimità dell’operato dell’amministrazione difesa, oltreché con strategie processuali dilatorie, sostanzialmente “correggendo il tiro” rispetto a quanto affermato dall’amministrazione medesima.
In questo caso si aprono due tematiche: una afferente l’attività processuale ed i limiti del mandato di rappresentanza; l’altra concernente la consulenza che (soprattutto) un ufficio legale interno (così come l’Avvocatura dello Stato riguardo alle amministrazioni difese ope legis), prima di intraprendere un giudizio o di svolgere una difesa, deve rendere.
Per quanto concerne il primo profilo, spetta anzitutto al giudice verificare la discrasia tra le posizioni dell’ente e quelle difensive “integrative”. In ogni caso, si tratta di una prassi che ha forse una sua logica processuale, ma che resta inaccettabile nella misura in cui, invece di tradursi in una consulenza legale nei confronti dell’ente per condurlo a rivedere i propri errori, senza informare l’ente assistito, accetti la difesa, anche laddove temeraria o comunque palesemente priva di argomenti giuridici in linea con gli orientamenti pacifici della giurisprudenza (come della dottrina) in materia.
Tale primo profilo si interseca, a ben guardare, con il secondo, in quanto l’assistenza legale, soprattutto quella erogata dagli uffici interni e dall’Avvocatura dello Sato, non può limitarsi a sostenere le tesi dell’ente – pur palesemente infondate – e/o a tentare surrettiziamente di modificarle in modo da renderle plausibili. Il danno che ne può discendere, in questo caso, è riferibile a colui il quale abbia omesso di rendere edotta la p.a. assistita degli errori commessi (e dei rischi connessi).
Altro discorso è se quest’ultima perseveri nell’errore: in tal caso, la difesa – non potendo essere abbandonata nel caso di avvocati “interni” – si impegnerà a limitare i danni, anche attraverso la formulazione di eccezioni in grado di paralizzare la pretesa avversaria (il che è perfettamente legittimo).
Ciò detto, occorre, tuttavia, tenere presente che le controversie in cui è parte una amministrazione pubblica non possono essere equiparate de plano alle questioni tra privati: mentre il privato, cioè, è “libero” di assumere su di sè il rischio di liti temerarie – che debbono essere rigidamente sanzionate dall’organo giurisdizionale adito – o, nel caso dell’avvocato, di comportamenti processuali scorretti (quando non fraudolenti), in violazione degli artt. 88 e ss. del c.p.c. e delle stesse norme del codice deontologico forense, la pubblica amministrazione non può consapevolmente perseguire fini diversi da quelli “legali” per ovvie ragioni attinenti alla funzione pubblica che ne connota l’attività.
La responsabilità degli avvocati “pubblici”, anche quando non ci si trovi in presenza di un contenzioso in essere, può discendere dal rilascio di pareri le cui indicazioni siano palesemente errate, abnormi, del tutto incoerenti con i pacifici orientamenti della giurisprudenza e dunque in grado di indirizzare l’ente assistito in una direzione incongrua dalla quale discende direttamente il danno o in termini di esborso o di apertura di un contenzioso. È stato, infatti, correttamente affermato che uno dei parametri attraverso i quali valutare la congruità (e comunque la non abnormità) di un parere pro veritate sia la c.d. “consapevole decisione” alla quale ogni avvocato, sia esso professionista del libero foro, sia esso avvocato di enti pubblici (o dello Stato), deve soggiacere. Il parere, cioè, può non essere completo e/o esaustivo, ed anche denunciare alcuni limiti di approfondimento senza che da questo possa derivare alcuna responsabilità civile o amministrativa. Il diretto interessato, sia esso l’ente o il privato, ne farà l’uso che crede e, se del caso, seguirà altre strade. Tuttavia, laddove il convincimento dell’ente o del privato sia effettivamente e decisivamente “coartato”, “indirizzato inderogabilmente”, “condotto indissolubilmente” ad una soluzione del tutto improvvida ed incongrua, foriera di danni non altrimenti evitabili con l’ordinaria diligenza (e competenza, quando si tratti di uffici dirigenziali), è assai probabile immaginare profili di responsabilità civile, nel caso del privato (salvo quanto appresso si dirà) e amministrativa nel caso di una pubblica amministrazione.
Deve essere chiaro che si tratta di situazioni “limite”, laddove la consulenza abbia prospettato soluzioni certamente errate ed abbia rappresentato con assoluta certezza esiti favorevoli nella soluzione di un certo contenzioso, sia esso potenziale o in essere.
Quando l’avvocato, cioè, si renda conto della assoluta impossibilità di impostare una certa difesa e far valere certe posizioni giuridiche, anche in relazione al suo ruolo di soggetto impegnato nella corretta esplicazione della giurisdizione e della legalità in genere, dovrà suggerire al proprio cliente, compreso l’ente pubblico, un percorso transattivo impegnato nella chiusura stragiudiziale della vicenda sottopostagli.
Qui, però, deve rilevarsi che, pur con interessanti e condivisibili temperamenti, gli orientamenti della Corte dei conti non sono sempre in linea con quanto detto. Le transazioni, anche in ottica di trasparenza e di corretto utilizzo della spesa pubblica, sono spesso viste con sospetto, al punto che le amministrazioni pubbliche addivengono alla stipula di atti transattivi solo ove la controparte rinunci a qualcosa (generalmente gli interessi e la rivalutazione sulla sorte capitale), così da dimostrarne la convenienza, anche quando, ad esempio, vi sarebbe spazio per coltivare l’appello[xix]. È questa una delle ragioni per le quali, pur laddove l’Avvocato suggerisca, anche in sede di consulenza orale, di trovare soluzioni stragiudiziali, gli enti pubblici sono sovente restii ad agire in tal senso, preferendo un contenzioso incongruo e dispendioso, presumibilmente diluito nel tempo, ad un accordo (compresi quelli previsti dall’art. 11 della l. n. 241/1990[xx]). Eppure, anche a parità di spesa, l’alternativa consensuale può spesso essere complessivamente più conveniente, consentendo un’azione amministrativa più efficace ed efficiente (si pensi, ad esempio, alle controversie in materia espropriativa, laddove il quadro delineato dalle recenti Adunanze plenarie sull’art. 42 bis suggerisce forme di definizione che non attingano alla sfera processuale[xxi]).
L’Avvocato impegnato ad assistere un ente pubblico, dunque, si trova sovente in una condizione nella quale non gli è agevole esplicare la propria consulenza ed indirizzare un ente che chiede solo di essere difeso nel migliore dei modi (possibili), ma non intende intervenire attraverso strumenti transattivi (giudiziali o stragiudiziali), accordi o attivando i propri poteri di autotutela.
Da questo punto di vista, il giudice amministrativo, con frequenza ormai elevata, sanziona le omissioni, le inerzie, le incoerenze e le cattive scelte delle amministrazioni pubbliche, trasmettendo gli atti – anche nel giudizio in materia di silenzio – alle procure contabili. E’ stato, in particolare, ritenuto legittimo un intervento in autotutela di un affidamento diretto di un servizio in presenza di una segnalazione, da parte della competente Procura contabile, circa la sua illegittimità e incongruità sul piano della sua economicità[xxii]. Occorrerebbe, da questo punto di vista, che fossero più chiari i meccanismi della responsabilità dei dipendenti e soprattutto dei dirigenti pubblici, i quali sono oggi impegnati in una serie di adempimenti formali, prima ancora che nell’amministrazione attiva, a risorse invariate e sul presupposto che essi debbano attendere ad ogni cosa, tanto che lo stesso giudice contabile considera esimente da responsabilità la gestione di un ufficio pletorico e di un numero di pratiche elevato con risorse non adeguate[xxiii]. L’Avvocato, dal canto suo, ai sensi degli artt. 1176 e 2236 c.c., dovrà assolvere al suo mandato sollecitando il cliente a dargli tutte le informazioni necessarie, per poi informarlo adeguatamente circa lo svolgimento dello stesso ed ai suoi esiti.
Nella configurazione della responsabilità amministrativa concorrono tutti questi aspetti, i quali convergono poi nei presupposti per il suo concreto esercizio.
L’elemento psicologico, come si è detto, è la colpa grave.
La diligenza richiesta discende dalla natura dell’incarico, dalla sua complessità e quindi dalla conoscenza delle specifiche normative applicabili alla specie. A maggior ragione tale elemento potrà essere oggetto di esame ove si tratti di avvocati “specialisti”, come previsto dal d.m. Min. Giustizia n. 144/2015, recentemente modificato con d.m. n. 163/2020. E’ indubbio che, chi si rivolga ad un avvocato “certificato” dal Consiglio Nazionale Forense come specialista, si aspetti una prestazione adeguata nella specifica materia[xxiv].
Il nesso causale è comune a tutti gli avvocati, nel senso che esso ha normalmente natura omissiva, ma non solo, in quanto ancorato ad una serie di parametri come “la ragionevole certezza” o “il più probabile che non”[xxv]. Pertanto, la responsabilità, sia essa civile sia essa amministrativa, seguirà questa linea, in ragione della quale essa discenderà dalla frustrazione di “serie ed apprezzabili possibilità di successo” (non dalla certezza dell’esito favorevole del giudizio, ad esempio, dalla proposizione di un appello o di una opposizione ad una sanzione o ad un decreto ingiuntivo). La responsabilità si configura, nella buona sostanza, solo ed esclusivamente nel caso in cui si verifichi una vera e propria perdita di chance di vittoria, cioè dalla ragionevole probabilità che, laddove l’attività omessa (o l’attività in senso lato) fosse stata esplicata (o o esplicata correttamente), in termini di ordinaria diligenza professionale, l’esito avrebbe potuto essere differente e significativamente più favorevole. Si tratta, come noto, di orientamenti della Corte di Cassazione, che anche la Corte dei conti, per quel che concerne gli avvocati pubblici, può seguire.
Altro tema, del quale si è già fatto cenno, è quello della insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, sancita, per la Corte dei conti, dall’art. 1 c. 1 della legge n. 20/1994. Secondo le Sezioni Unite, infatti, “l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali compiute da soggetti sottoposti, in astratto, alla giurisdizione della Corte di Conti, non ne comporta la sottrazione a ogni possibile controllo. L'insindacabilità nel merito sancita all'art. 1, comma 1, L. n. 20 del 1994, infatti, non priva la Corte dei conti della possibilità di accertare la conformità alla legge dell'attività amministrativa, verificandola anche sotto l'aspetto funzionale, in ordine, cioè, alla congruità dei singoli atti compiuti rispetto ai fini imposti, in via generale o in modo specifico, dal legislatore; limite all'insindacabilità delle scelte discrezionali della P.A. è l'esigenza di accertare che l'attività svolta si sia ispirata a criteri di ragionevole proporzionalità tra costi e benefici. La Corte dei conti, quindi, nella sua qualità di giudice contabile, può verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell'ente pubblico”[xxvi]. Ed ancora: “La Corte dei Conti, nell’ambito della sua giurisdizione, può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell'ente pubblico, che, ai sensi dell'art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241, devono essere ispirati a criteri di economicità e di efficacia - secondo il canone indicato nell'art. 97 Cost. – che assumono rilevanza sul piano della legittimità, non della mera opportunità, dell'azione amministrativa; pertanto, la verifica della legittimità dell'attività amministrativa deve estendersi alle singole articolazioni dell'agire amministrativo e, quindi, apprezzare se gli strumenti utilizzati dagli amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei ai fini di interesse pubblico da perseguire con risorse pubbliche, e non potendo, comunque, prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti”[xxvii].
Ciò determina la sindacabilità di iniziative giudiziarie temerarie (sia dal lato attivo che da quello passivo), fondate su un parere chiaramente errato, il mancato appello rispetto a pretese completamente infondate (a nulla rilevando l’errore del giudice di prime cure), riversandosi de plano sul piano della responsabilità amministrativa riferita agli organi deputati alla difesa legale dell’ente (ma non solo, dipende dalle specifiche ipotesi).
Ovviamente, occorre distinguere: gli avvocati pubblici in senso lato (v. supra) arrecano il danno all’amministrazione ove prestano servizio (seppure qui si ponga l’ipotesi della responsabilità per danni ad altre amministrazioni), gli Avvocati dello Stato, in ragione dell’ampia delega difensiva ope legis e della totale autonomia nella gestione dei giudizi (anche, se del caso, di proporre appello o meno ad una sentenza, pur su invito della stessa amministrazione in specie rappresentata), ad una platea ben più vasta.
Altro tema, sul quale opinioni divergenti si sono manifestate – e sul quale già alcuni cenni sono stati fatti in sede introduttiva – riguarda il c.d. “doppio binario”, ossia la possibilità, da parte degli enti pubblici, di attivare essi stessi giudizi risarcitori nei confronti dei propri dipendenti a prescindere dall’azione delle Procure contabili: in linea di massima è ammessa la concorrenza di azioni, fermo restando il divieto della doppia condanna.
In realtà, non è la stessa cosa.
Il giudizio dinanzi al giudice ordinario e dinanzi alla Corte dei conti segue regole, procedure, riti, istruzione differenti e soprattutto – eccettuato il caso dei sanitari dopo la riforma operata dalla legge Gelli-Bianco[xxviii] – su differenti presupposti in merito all’elemento psicologico, che è la colpa lieve nel primo caso e la colpa grave nel secondo. In tesi, dunque, potrebbe persino essere più conveniente, per il dipendente pubblico, l’unificazione della giurisdizione in materia contabile, in quanto le garanzie – pur con tutti i dubbi espressi sulla corretta qualificazione della colpa grave in sede giuscontabile – sono maggiori dinanzi alla Corte dei conti, la quale, peraltro, oltre alla compensatio lucri cum damno, gode del potere riduttivo, la cui portata può avere latitudini assai significative laddove l’azione dannosa non sia contrassegnata da dolo, venendo in evidenza l’intero comportamento tenuto in specie dal pubblico dipendente[xxix].
Il quantum è anzitutto legato agli esborsi conseguenti alla condanna, anche alle spese del giudizio. Ma non è escluso che possano rientrare in tale voce anche i costi da disservizio, ossia i costi relativi all’impiego del personale per impostare difese del tutto inutili.
Va, poi, ricordato che la responsabilità amministrativo-contabile è personale e non solidale, dunque ancorata all’effettivo apporto causale dell’Avvocato.
Riprendendo un tema sul quale ci si è già soffermati, è evidente che un importante ruolo in tal senso può svolgerlo l’Amministrazione, la quale richieda, ad esempio, la proposizione dell’azione infondata o la resistenza in giudizio priva di ragioni giuridiche. Se il professionista del libero foro, in tesi, può rifiutarsi di accettare l’incarico, ben più difficile è la posizione dell’Avvocato dell’ente, il quale, ove si allinei a tale indirizzo – non avendo, si badi, potestà amministrative in tale veste – vedrà scemare notevolmente il proprio apporto causale. Ben diverso, ma lo si è detto, è il caso in cui il contenzioso sia avallato ed anzi promosso apertamente, attraverso una attività consulenziale (rientrante nei doveri d’ufficio come nel mandato difensivo) in grado di “deviare” la volontà dell’ente.
3. I danni recati dall’avvocato libero professionista
Quando una pubblica amministrazione conferisce un incarico di consulenza o di difesa ad un professionista esterno, in caso di gravi errori nell’attività difensiva o di pareri abnormi produttivi di danni all’ente, non è possibile, in linea di principio, configurare un rapporto di servizio, ma un rapporto contrattuale, come tale caratterizzato da ampio mandato e cioè non sottoposto a veri e propri vincoli da parte della p.a, anche sotto forma di direttiva.
Se, dunque, il danno si è verificato, la giurisdizione non potrà che essere del giudice ordinario e non di quello contabile.
D’altro canto, come si accennava nelle premesse, il concetto di “rapporto di servizio” ha conosciuto, soprattutto negli ultimi decenni, una elaborazione giurisprudenziale assai cospicua. La giurisdizione della Corte dei conti, dunque, è stata estesa a soggetti, inseriti a qualsiasi titolo (dunque, onorario, volontario o coattivo, di fatto, oltrechè, ovviamente, titolari di un vero e proprio contratto d’impiego pubblico) nell’apparato organizzativo di una amministrazione pubblica e che, in tale veste, esercitino in modo continuativo un’attività improntata alle regole proprie dell’azione amministrativa. Tale effettivo inserimento organizzativo è dunque ritenuto sufficiente (e necessario, per altro verso) per radicare la giurisdizione contabile. Si parla, in questo caso, da parte delle Sezioni Unite di una relazione funzionale tra l’autore dell’illecito e l’amministrazione pubblica, che, in particolare, prescinde dalla formale instaurazione di un rapporto d’impiego, ma postula la “compartecipazione del soggetto all’attività dell’amministrazione pubblica”[xxx]. Di converso, in presenza di prestazioni saltuarie (anche se ripetute) e quindi di mancato inserimento organizzativo all’interno dell’ente pubblico, la giurisdizione della Corte dei conti dovrà ritenersi esclusa.
La casistica concernente professionisti inclusi a vario titolo è la più varia: essa ricomprende ingegneri, architetti, commercialisti, anche in qualità di consulenti tecnici d’ufficio. Per quanto concerne gli Avvocati liberi professionisti, se, ordinariamente, non sono soggetti a responsabilità amministrativa (ma restano responsabili civilmente degli eventuali danni prodotti alla p.a. conferente), non è escluso che questi possano, in circostanze determinate, essere soggetti alla giurisdizione contabile.
Occorre, qui, una ulteriore precisazione: gli incarichi esterni non sono liberamente conferibili da parte delle Amministrazioni pubbliche. Anzi, l’idea che sembra prevalere ultimamente – determinando anche una serie di problematiche in materia di affidamento dei servizi legali degli enti pubblici, che ha coinvolto anche l’Anac[xxxi] – è quella di riservare la trattazione delle controversie ordinarie ad un ufficio legale interno appositamente costituito (ottenendo, nel contempo, un’economicità complessiva ed una conoscenza degli sviluppi del contenzioso che, parcellizzando gli incarichi conferiti all’esterno, non vi è[xxxii]; in ogni caso, non deve trattarsi di attività ordinarie, che l’amministrazione può svolgere con le risorse a sua disposizione[xxxiii].
Il conferimento di incarichi esterni, deve rispettare una serie di criteri tra i quali si segnalano i seguenti[xxxiv]:
a) anzitutto deve trattarsi di una controversia che non è gestibile, per qualsiasi ragione, dall’avvocatura interna;
b) in secondo luogo, deve trattarsi di un incarico di consulenza o di affidamento di una difesa in sede giudiziale che presupponga particolare specializzazione;
c) in terzo luogo, non deve comportare una spesa incongrua rispetto ai tariffari esistenti tenuto conto della complessità e specializzazione dell’incarico stesso.
Laddove manchino questi presupposti, potrà inverarsi un caso di responsabilità amministrativa a carico degli amministratori dell’ente che hanno conferito l’incarico, non, in linea di principio, del libero professionista, il quale accetta l’incarico e lo esegue sulla scorta di un contratto stipulato con l’ente.
Una ipotesi particolarmente rilevante è quella costituita dagli avvocati consiglieri dell’Ordine professionale i quali abbiano apposto il visto obbligatorio ad una parcella, consentendo al richiedente di ottenere un pagamento spropositato a danno dell’ente al quale la parcella è stata poi presentata[xxxv]. Altra ipotesi di responsabilità amministrativa a carico di un avvocato libero professionista sta nell’appropriazione di somme frutto di esecuzioni immobiliari curate su delega del giudice[xxxvi].
In linea di principio, dunque, resta ferma l’esclusione, nelle ipotesi “ordinarie”, della giurisdizione della Corte dei conti nei confronti dei liberi professionisti.
4. Il caso dei danni arrecati dal libero professionista all’ordine professionale
Gli ordini professionali sono enti pubblici economici ad appartenenza necessaria.
Ai sensi dell’art. 24 c. 3 della legge n. 247/2012 “il CNF e gli ordini circondariali sono enti pubblici non economici a carattere associativo istituiti per garantire il rispetto dei principi previsti dalla presente legge e delle regole deontologiche, nonché con finalità di tutela della utenza e degli interessi pubblici connessi all’esercizio della professione e al corretto svolgimento della funzione giurisdizionale. Essi sono dotati di autonomia patrimoniale e finanziaria, sono finanziati esclusivamente con i contributi degli iscritti, determinano la propria organizzazione con appositi regolamenti, nel rispetto delle disposizioni di legge, e sono soggetti esclusivamente alla vigilanza del Ministro della giustizia”.
Il tema della responsabilità – se civile o amministrativo-contabile - si pone per gli Avvocati facenti parte dei consigli degli ordini professionali o anche delle casse previdenziali.
Ciò pone un primo problema, concernente la natura giuridica di tali enti.
Che si tratti di enti pubblici non economici ad appartenenza necessaria è fuor di dubbio. Ai sensi dell’art. 24 c. 3 della legge n. 247/2012, essi sono “istituiti per garantire il rispetto dei principi previsti dalla presente legge e delle regole deontologiche, nonché con finalità di tutela dell’utenza e degli interessi pubblici connessi all’esercizio della professione e al corretto svolgimento della funzione giurisdizionale”. A parte queste nobili finalità, altresì, “sono dotati di autonomia patrimoniale e finanziaria, sono finanziati esclusivamente con i contributi degli iscritti, determinano la propria organizzazione con appositi regolamenti, nel rispetto delle disposizioni di legge, e sono soggetti esclusivamente alla vigilanza del Ministro della Giustizia”.
Il quadro testé tratteggiato evidenzia una posizione “ibrida”, in quanto, da un lato gli ordini professionali perseguono finalità pubblicistiche e di chiara matrice costituzionale, dall’altro lato, sono dotati di una notevole autonomia, soprattutto sul piano patrimoniale e finanziario. Tutti i mezzi di finanziamento derivano sostanzialmente dalle diverse tipologie di contributo versate dagli iscritti, le quali, però, sono obbligatorie in quanto direttamente collegato all’esercizio dell’attività professionale. Tali contributi, peraltro, sono riscossi coattivamente tramite ruoli, quindi utilizzando procedure che, in caso di controversia, innestano – come pacificamente affermano le Sezioni Unite della Cassazione e lo stesso Consiglio Nazionale Forense[xxxvii] – la giurisdizione tributaria.
Si tratta di elementi in una certa misura contraddittori, che parrebbero suggerire, in capo agli ordini professionali, un ruolo analogo quello delle pubbliche amministrazioni, con tutte le conseguenze che ne derivano in materia di personale (assunzioni, licenziamenti, mobilità e relative controversie giurisdizionali), di uso delle procedure di evidenza pubblica in genere per gli acquisti di beni e servizi, l’applicazione delle norme in tema di procedimento amministrativo ed anticorruzione, consentendo di ipotizzare la giurisdizione contabile in capo agli avvocati-consiglieri per i danni arrecati all’ordine in tale veste.
In realtà, la giurisdizione della Corte dei conti per i danni discendenti dall’attività degli avvocati componenti dei consigli dell’ordine (o della cassa) è stata oggetto di un dibattito che ha impegnato la giurisprudenza e la dottrina più accreditata.
In giurisprudenza la casistica segnala la riconosciuta responsabilità amministrativa degli organi dei consigli per ammanchi di cassa, derivanti dall’omesso versamento di contributi ad un dipendente (da cui il pagamento di interessi moratori e delle connesse spese), dal mancato versamento dei contributi da parte degli iscritti, dall’attribuzione di consulenze in violazione dei vincoli posti, in particolare, dall’art. 7 della l.n. 165/2001 e così via.
A questi si aggiungano il cattivo uso dei beni, come anche la loro gestione infruttifera, il percepimento di rimborsi spese non dovuti perché non riferibili ad attività istituzionali, l’acquisto di forniture senza procedura di evidenza pubblica, i danni da lite temeraria dovuta al mancato esercizio dell’autotutela quando questo ragionevolmente si imponeva, il cattivo uso del potere disciplinare nei confronti di un avvocato palesemente inidoneo, il quale, con evidente imperizia, abbia recato danno a terzi senza che l’ordine, pur a conoscenza di questa deprecabile condizione, sia mai intervenuto.
Il dibattito ha trovato un significativo momento a seguito dell’orientamento manifestato nel 2013 dalla sezione giurisdizionale per il Veneto, dal quale è discesa l’esclusione della giurisdizione della Corte dei conti in presenza di un indebito conferimento di incarichi esterni[xxxviii].
In particolare, tale sezione ha ritenuto mancare, nella specie, la natura pubblica delle risorse impiegate (e potenzialmente distratte), pur in presenza di una attività resa da un ente pubblico, mettendo in crisi il criterio oggettivo per radicare la giurisdizione contabile, sostenuto da due presupposti fondamentali: la natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse impiegate. Secondo la sezione Veneto mancherebbe, in specie, il secondo presupposto, trattandosi di contributi provenienti da soggetti privati, in totale assenza di finanziamenti pubblici, escludendo, così, la possibilità di parlare di danno erariale.
Tale orientamento è stato ribaltato in sede d’appello nel 2016 e poi ha trovato nel 2019 l’avallo della Cassazione sul rilievo che, in realtà, i contributi privati hanno una destinazione pubblicistica, date le finalità degli ordini professionali, tenuto conto che la stessa attività libero-professionale presuppone necessariamente l’iscrizione all’albo[xxxix]. Peraltro, si tratta, come si è anticipato, di contributi obbligatori rispetto ai quali è ammessa la riscossione coattiva tramite ruoli, incardinando la giurisdizione tributaria.
La III Sezione Centrale ha rimarcato la natura pubblica dell’ente, del suo patrimonio e dei fini perseguiti, rilevando che la natura privata dei contributi percepiti non va risolta solo alla stregua dell’autofinanziamento per finalità, appunto, private, ma si riversa e si risolve in una prospettiva teleologicamente orientata al bene pubblico, al corretto esercizio della funzione giurisdizionale, alla tutela del diritto alla difesa, ma anche alla stessa tenuta degli albi ed all’esercizio del potere disciplinare ed a tutta una serie di attività la cui desinenza pubblicistica è fuor di dubbio.
5. Conclusioni
Gli avvocati sono, in misura correlata al proprio ruolo ed alla concreta attività espletata, soggetti alla responsabilità amministrativa, e con essi, a certe condizioni, i componenti dei loro ordini professionali, rispetto ai quali – sia detto per incidens – parrebbe esclusa la funzione di controllo contabile in ragione della non appartenenza alla c.d. “finanza pubblica allargata” trattandosi di risorse di provenienza privata.
L’esperienza giurisdizionale, con le sue concrete latitudini e la indubbia tassonomia, può essere ricomposta sulla scia di alcune traiettorie fondamentali, sulle quali è necessario discutere evitando petizioni di principio “innocentiste” o “giustizialiste”, sia nell’inverarsi delle responsabilità, sia nell’estendere la giurisdizione contabile.
Il rischio non è da poco, né può dirsi che la classe forense, attualmente, conosca una stagione particolarmente felice per numerose e ben note questioni irrisolte, dall’esame di abilitazione, ai costi dell’accesso alla professione, ad un mercato estremamente complicato da parcellizzazioni esasperate come dalla presenza di grossi studi associati in grado di assorbire le quote più interessanti di mercato (in modo del tutto legittimo, sia chiaro), dagli obblighi contributivi piuttosto onerosi anche per i neo iscritti.
Si consideri, infine, anche il rapporto con la Magistratura – non sempre felicissimo – la stretta fiscale (si parla dei regimi agevolati) ed i costi fissi dei giudizi (ad es., il contributo unificato, soprattutto in sede di giurisdizione amministrativa), nonché la disciplina in tema di condanna alle spese che assume a volte dimensioni eccessive e spropositate per il semplice fatto della soccombenza, persino quella virtuale.
Quanto si è andato osservando, dunque, va letto in un contesto maggiormente ampio, che concerne lo stato e le prospettive dell’avvocatura, del suo ruolo, quale soggetto impegnato nella corretta esplicazione della funzione giurisdizionale e della giustizia in senso lato. La caleidoscopica varietà della casistica, di cui si è dato solo un cenno, conduce ad essere prudenti nell’attribuzione di responsabilità che discendano meramente dall’esito dei giudizi e non da palesi sviste professionali, ferma restando l’evidente disparità con gli appartenenti all’ordine magistratuale, la cui responsabilità è assai vaga e rarefatta.
Non si invocano responsabilità per altri, ovviamente, ma è bene che il quadro sia compiuto secondo logiche di sistema e non affidate ad interventi estemporanei della giurisprudenza civile o contabile. Sono in gioco, infatti, l’autonomia e la professionalità degli avvocati – siano essi dipendenti di enti pubblici o liberi professionisti – ai quali deve essere consentito di svolgere gli incarichi conferiti con la debita serietà e serenità.
[i] A. Monorchio-L. Mottura, Compendio di contabilità dello Stato, Bari 2021, 455 ss.; AA.VV., La pubblica Amministrazione (Commentario della Costituzione, fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso: artt.97-98), Bologna 1994; F. Tigano, Corte dei conti e attività amministrativa, Torino 2008, 117 ss.; AA.VV., Potere discrezionale e controllo giudiziario, a cura di V. Parisio, Milano 1998; AA.VV., Buon andamento della pubblica amministrazione e responsabilità degli amministratori, Milano 1985; AA.VV., Il nuovo processo davanti alla Corte dei conti. Commento sistematico al codice della giustizia contabile (D.Lgs. n. 174/2016), come modificato dal D.Lgs. n. 114/2019), a cura di A. Canale, F. Freni, M. Smiroldo, Milano 2021.
[ii] F.G. Scoca, Fondamento storico ed ordinamento generale della giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa, in Responsabilità amministrativa e giurisdizione contabile (ad un decennio dalle riforme), Milano 2006, 37 ss.
[iii] Ci si riferisce, in specie, all'art. 17, comma 30-ter, decreto legge 1 luglio 2009, n. 78, convertito in legge 3 agosto 2009, n. 102 e modificato dall'art. 1, comma 1, lett. c), n. 1), decreto legge 3 agosto 2009, n. 103, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141.
[iv] Cfr. legge n. 29 luglio 2021, n. 108 (G.U. n. 81 del 30 luglio 2021), che ha convertito con modificazioni il decreto legge 31 maggio 2021, n. 77; in proposito, L. Carbone, Riflessioni a prima lettura dopo il c.d. 'decreto semplificazioni', in Federalismi n. 30 del 4.11.2020, in www.federalismi.it.
[v] F. Tigano, Efficienza amministrativa, principio di buon andamento e ruolo della Corte dei conti, in AA.VV., La cultura del controllo indipendente nell'ordinamento italiano, a cura di R. Scalia, Bari 2020, 123 ss.
[vi] A. Buscema, Il ruolo di garanzia della Corte dei conti e il sistema camerale (lectio magistralis), in www.corteconti.it.
[vii] Pubblicazione fondamentale sull'argomento, AA.VV., L'avvocato e le sue quattro responsabilità, a cura di V. Tenore, Napoli 2014, passim. Ad essa si deve buona parte delle seguenti riflessioni.
[viii] Cons. Stato, V, 27 gennaio 2016 n. 279: “Il professionista privato incaricato dalla P.A. deve ritenersi inserito in modo continuativo, ancorché temporaneo, nell'apparato organizzativo della P.A., tutte le volte in cui, assumendo particolari vincoli ed obblighi funzionali, contribuisca ad assicurare il perseguimento delle esigenze generali e, cioè, tutte le volte in cui la relazione tra l'autore dell'illecito e l'ente pubblico danneggiato integri un rapporto di servizio in senso lato. La nozione di rapporto di semplice servizio (in senso lato) è quindi configurabile tutte le volte in cui il soggetto, persona fisica o giuridica, benché estraneo alla P.A., venga investito, anche di fatto, dello svolgimento, in modo continuativo, di una determinata attività in favore della medesima P.A., nella cui organizzazione, perciò, si inserisce, assumendo particolari vincoli ed obblighi funzionali ad assicurare il perseguimento delle esigenze generali, cui l'attività medesima, nel suo complesso, è preordinata”.
[ix] Corte conti, sez. giur. Emilia Romagna, 30 aprile 2020 n. 40, in www.corteconti.it.
[x] Corte conti, s.g. III appello, 28 luglio 2016 n. 366 (riforma decisione Corte conti, Veneto, 12 giugno 2013 n. 199).
[xi] Tar Campania, Sa, sez. II 28 maggio 2015 n. 1197.
[xii] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 25 febbraio 2015 n. 937: “Gli avvocati dipendenti di enti pubblici, iscritti nell’albo speciale annesso all’albo professionale, sono abilitati al patrocinio esclusivamente per le cause e gli affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro opera, onde la cessazione del rapporto di impiego (per morte, dimissioni o pensionamento), determinando la mancanza di legittimazione a compiere e a ricevere atti processuali relativi alle cause proprie dell’ente, comporta il totale venir meno dello “ius postulandi” per una causa equiparabile a quelle elencate dall’art. 301 cod. proc. civ., con conseguente interruzione dei processi in cui gli stessi siano costituiti, non potendosi equiparare l’ufficio legale di un’amministrazione pubblica all’Avvocatura dello Stato dotata "ex lege" di mandato collettivo”.
[xiii] Tar Friuli Venezia Giulia, Ts, sez. I, 4 gennaio 2017 n. 3; Tar Campania, Na, sez. V, 24 gennaio 2013 n. 547 sanziona il caso in cui sia introdotto l’uso del badge anche per gli avvocati degli enti locali: “E’ illegittima la delibera con la quale un Comune ha disposto la rilevazione automatica delle presenze anche per i dipendenti avvocati, esistendo un’incompatibilità logica e strutturale fra le mansioni implicate dal profilo professionale degli avvocati dipendenti del Comune e il sistema automatico di rilevazione fondato sul cd. "badge" che è stato loro fornito, dato che tale sistema si risolve, quanto meno in astratto, (anche al di là delle intenzioni di chi decide di adottarlo), in uno strumento idoneo obiettivamente a introdurre una limitazione dei profili di autonomia professionale e di indipendenza che vanno invece riconosciuti alla figura dell’avvocato, per prassi amministrativa, dalla costante giurisprudenza e soprattutto nel rispetto della vigente legislazione”; in proposito, anche Tar Lazio, sez. IIIq, 14 giugno 2019 n. 7713: “L’attività degli avvocati, anche se pubblici dipendenti, è soggetta a scadenze e ritmi di lavoro che sfugge alla potestà organizzativa delle Amministrazioni, dipendendo dalle esigenze dei processi in corso nei quali essi sono impegnati, l’esercizio dell’attività di avvocato pubblico comportando, infatti, operazioni materiali (precipuamente procuratorie) ed intellettuali (esemplificatamente studio della controversia e predisposizione delle difese) necessitate dai tempi delle scadenze processuali e proiettate all’esterno, direttamente ascrivibili alla responsabilità del professionista che le svolge; ne deriva che il principio da tenere fermo è che gli avvocati dipendenti da Enti Pubblici, nell’esercizio delle funzioni di rappresentanza e difesa giudiziale e stragiudiziale dell’Amministrazione, in attuazione del mandato in tal senso ricevuto, sono dei professionisti i quali non possono essere costretti ad un’osservanza rigida e rigorosa dell’orario di lavoro alla stessa stregua degli altri dipendenti, senza tenere conto della peculiarità dell’attività da loro svolta”.
[xiv] Tar Basilicata, sez. I, 11 ottobre 2014 n. 728.
[xv] Sulla distinzione tra indennizzo e risarcimento da ritardo, v. Tar Campania, Na, sez. V, 12 aprile 2021 n. 2346; sui presupposti (insufficienza solo annullamento provvedimento lesivo), Tar Lombardia, Bs, sez. I, 22 giugno 2020 n. 465; emblematico, Tar Lazio, Rm, sez. III stralcio, 13 gennaio 2020 n. 280.
[xvi] M. Trimarchi, L'inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli 2018; C. Napolitano, L'autotutela amministrativa. Nuovi paradigmi e modelli europei, Napoli 2018.
[xvii] C. Rizzo, Prime osservazioni sul nuovo abuso d’ufficio, in Federalismi, n. 14 del 21.6.2021, in www.federalismi.it; S. Perongini, L'abuso d'ufficio. Contributo a una interpretazione conforme alla Costituzione. Con una proposta di integrazione della riforma introdotta dalla legge n. 120/2020, Torino 2020.
[xviii] F. Tigano, Inquadramento della responsabilità amministrativa, in AA.VV., Le responsabilità in ambito sanitario, a cura di G. Vecchio, S. Aleo, R. De Matteis, II, Milano 2014, 909 ss.
[xix] Molto puntuale ed interessante, da questo punto di vista, Corte conti, sez. contr. Lombardia n. 108/2018/PAR, la quale richiama la costante giurisprudenza in materia, i limiti ed i presupposti per la stipula delle transazioni:
"- i limiti alla stipulazione della transazione da parte di enti pubblici sono quelli propri di ogni soggetto dell'ordinamento giuridico, e cioè la legittimazione soggettiva e la disponibilità dell'oggetto, e quelli specifici di diritto pubblico, e cioè la natura del rapporto tra privati e pubblica amministrazione. Sotto quest'ultimo profilo va ricordato che, nell'esercizio dei propri poteri pubblicistici, l'attività degli enti territoriali è finalizzata alla cura concreta di interessi pubblici e quindi alla migliore cura dell'interesse intestato all'ente. Pertanto, i negozi giuridici conclusi con i privati non possono condizionare l'esercizio del potere dell'Amministrazione pubblica sia rispetto alla miglior cura dell'interesse concreto della comunità amministrata, sia rispetto alla tutela delle posizioni soggettive di terzi, secondo il principio di imparzialità dell'azione amministrativa;
- la scelta se proseguire un giudizio o addivenire ad una transazione e la concreta delimitazione dell'oggetto della stessa spetta all'Amministrazione nell'ambito dello svolgimento della ordinaria attività amministrativa e come tutte le scelte discrezionali non è soggetta a sindacato giurisdizionale, se non nei limiti della rispondenza delle stesse a criteri di razionalità, congruità e prudente apprezzamento, ai quali deve ispirarsi l'azione amministrativa. Uno degli elementi che l'ente deve considerare è sicuramente la convenienza economica della transazione in relazione all'incertezza del giudizio, intesa quest'ultima in senso relativo, da valutarsi in relazione alla natura delle pretese, alla chiarezza della situazione normativa e ad eventuali orientamenti giurisprudenziali;
- ai fini dell'ammissibilità della transazione è necessaria l'esistenza di una controversia giuridica (e non di un semplice conflitto economico), che sussiste o può sorgere quando si contrappongono pretese confliggenti di cui non sia possibile a priori stabilire quale sia giuridicamente fondata. Di conseguenza, il contrasto tra l'affermazione di due posizioni giuridiche è la base della transazione in quanto serve per individuare le reciproche concessioni, elemento collegato alla contrapposizione delle pretese che ciascuna parte ha in relazione all'oggetto della controversia. Si tratta di un elemento che caratterizza la transazione rispetto ad altri modi di definizione della lite;
- la transazione è valida solo se ha ad oggetto diritti disponibili (art 1966, co. 2 cod. civ.) e cioè, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, quando le parti hanno il potere di estinguere il diritto in forma negoziale. E' nulla, infatti, la transazione nel caso in cui i diritti che formano oggetto della lite siano sottratti alla disponibilità delle parti per loro natura o per espressa disposizione di legge. In particolare, il potere sanzionatorio dell'amministrazione e le misure afflittive che ne sono l'espressione possono farsi rientrare nel novero delle potestà e dei diritti indisponibili, in merito ai quali è escluso che possano concludersi accordi transattivi con la parte privata destinataria degli interventi sanzionatori (cfr. Sez. Lombardia n. 1116/2009 cit.);
- requisito essenziale dell'accordo transattivo disciplinato dal codice civile (artt. 1965 e ss.) è, in forza dell'art. 1321 dello stesso codice, la patrimonialità del rapporto giuridico".
[xx] G. Greco, Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto, Torino 2003; F. Tigano, Commento all'art. 11, in AA.VV., Codice dell'azione amministrativa, a cura di M.A. Sandulli, Milano 2017, 654 e ss.
[xxi] F. Tigano, Indennizzo “reale” ed attività espropriativa nel caleidoscopio dei poteri ablatori. Il punto delle Sezioni Unite, in Giustiziainsieme.it.
[xxii] Tar Piemonte, sez. I, 12 settembre 2016 n. 1139.
[xxiii] Sul punto, di recente, AA.VV., La responsabilità dirigenziale tra diritto ed economia, a cura di M. Immordino e C. Celone, Napoli 2020; V. Tenore, Profili ricostruttivi della responsabilità amministrativo-contabile dell’avvocato pubblico dipendente o del libero foro, in www.lexitalia.it.
[xxiv] Cfr., Decreto Min. Giustizia 1 ottobre 2020 n. 163 “Regolamento concernente modifiche al decreto del Ministro della giustizia 12 agosto 2015, n. 144, recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista, ai sensi dell'articolo 9 della legge 31 dicembre 2012, n. 247”.
[xxv] B. Tassone, Responsabilità contrattuale, prova del nesso, concause e «più probabile che non»: Cassazione civile, sez. III, sentenza 14/11/2017, n. 26824, in Foro It., n. 2/2018, 562 ss.
[xxvi] SS.UU., 19 gennaio 2018 n. 1408.
[xxvii] SS.UU., 15 marzo 2017 n. 6820.
[xxviii] Legge 8 marzo 2017, n. 24; in tema, AA.VV., Responsabilità sanitaria, a cura di S. Aleo, P. D’agostino, R. De Matteis, Milano 2018.
[xxix] G. Bottino, Rischio e responsabilità amministrativa, Napoli 2017.
[xxx] SS.UU., 12 aprile 2012 n. 5756.
[xxxi] Cfr. Delibera ANAC 24 ottobre 2018 (G.U. n. 264 del 13 novembre 2018), Linee guida n. 12 recanti “Affidamento dei servizi legali” (Delibera n. 907).
[xxxii] Si veda, tuttavia, Tar Campania, Sa, sez. II, 16 luglio 2014 n. 1383.
[xxxiii] Corte dei Conti, Sez. II centr. App., 16 maggio 2022 n. 222; notorio il c.d. “Caso Alemanno”, laddove Corte dei conti, s.g. Lazio, con sentenza 29 maggio 2017 n. 124, si è espressa nei seguenti termini: “Sussiste la responsabilità amministrativa nei confronti del Sindaco di un Comune che ha conferito incarichi giudiziali a legali esterni, pur in presenza di un ufficio legale interno, senza una preventiva – seria e concreta - verifica in ordine alla effettiva impossibilità di ricorrere a risorse interne, imposta sia dalle disposizioni regolamentari e più in generale, da norme di legge ordinaria, dovendo l’incarico essere adeguatamente motivato con specifico riferimento all’assenza di strutture organizzative o professionalità interne all’ente in grado di assicurare i medesimi servizi. L’affidamento dell’incarico deve essere preceduto, perciò, da un accertamento reale, che coinvolge la responsabilità del dirigente competente, sull’assenza di servizi o di professionalità, interne all’ente, che siano in grado di adempiere l’incarico”; così anche il c.d. “caso Formigoni”, laddove Corte dei conti, s.g. Lombardia 4 luglio 2017 n. 102 ha parimenti affermato: ” Sussiste la responsabilità amministrativa dei componenti della Giunta regionale per la decisione di avvalersi, per un giudizio innanzi alla Corte di Cassazione, di un legale esterno, atteso che tale scelta appare ultronea, considerato che l’Avvocatura regionale annoverava, all’epoca dei fatti in contestazione, ben diciassette Avvocati di ruolo di cui sette abilitati al patrocinio in Cassazione, fra cui anche i due Avvocati che furono poi effettivamente impiegati oltre al legale esterno per il ricorso in Cassazione”.
[xxxiv] Tar Calabria, Cz, sez. I, 28 settembre2016 n. 1879; Tar Campania, Na, sez. V, 30 marzo 2020 n. 1301, nel ribadire l’autonomia organizzativa dell’Ufficio legale, precisa: “Anche se è vero che l'attività delle amministrazioni deve essere ordinariamente svolta dai propri organi e uffici, tuttavia sussiste la possibilità di far ricorso a professionalità esterne sia pure esclusivamente nei casi previsti dalla legge o in relazione ad eventi e situazioni straordinarie non fronteggiabili con le disponibilità tecnico-burocratiche esistenti. In particolare, il conferimento di un incarico legale ad un professionista esterno deve tener conto sia dell'esistenza o meno di un ufficio legale interno ma soprattutto della qualificata prestazione da rendere in giudizio in relazione alla particolare complessità della questione controversa; l'accertamento della sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi, da compiersi in via preventiva da parte del soggetto pubblico conferente, devono evidenziarsi nella motivazione della delibera di conferimento dell'incarico, che puntualmente deve riportare le ragioni della scelta compiuta”.
[xxxv]Laddove, invece, il visto non sia obbligatorio la giurisdizione contabile non si radica; cfr. Corte conti, s.g. Friuli Venezia Giulia, 17 gennaio 2013 n. 2.
[xxxvi] Quanto alla differenza strutturale e funzionale tra avvocati degli enti pubblici e professionisti privati, il Consiglio di Stato, sez. VI, 23 dicembre 2016 n. 5448, osserva quanto segue: “Sussistono varie differenze tra avvocati dipendenti da enti pubblici ed avvocati del libero foro, atteso che mentre questi ultimi, sul piano strutturale, stipulano con i clienti un contratto di prestazione d’opera professionale che è retto interamente dalle regole di diritto privato, con conseguente responsabilità secondo i principi civilistici, gli avvocati degli enti pubblici, invece, stipulano, da un lato, un contratto di lavoro con l’ente pubblico, in veste di datore di lavoro, che li inserisce, con qualifiche di funzionario o dirigente, nell’organizzazione dell’ente, dall’altro, un contratto di prestazione d’opera professionale con il medesimo ente pubblico, in veste di “cliente unico”, con il quale viene conferito, secondo modalità dipendenti dalla tipologia di Ente che viene in rilievo, incarico di svolgere una determinata attività difensiva. Sul piano funzionale, l’attività che gli avvocati degli enti pubblici pongono in essere deve essere eseguita in piena autonomia al fine di assicurare il rispetto delle regole che operano per tutti gli avvocati, con la conseguenza che non sono ammesse interferenze da parte dell’Ente “cliente” in grado di condizionare le scelte difensive da assumere, ferma la responsabilità dell’avvocato secondo le regole generali nei confronti del rappresentante legale dell’Ente medesimo. Un secondo ambito attiene al contenuto “esterno” dell’attività e cioè al suo inserimento nell’ambito della complessiva organizzazione pubblica, in relazione alla quale l’Ente “datore di lavoro” conserva i suoi poteri privati e pubblici volti ad assicurare, mediante ad esempio la previsione di un orario di servizio, l’inserimento coordinato dell’attività svolta dall’avvocato nell’ambito della propria organizzazione, che rispetti sempre il proprium dei compiti assegnati”.
[xxxvii] Cfr. Parere del Consiglio Nazionale Forense reso nell’adunanza del 15 dicembre 2017.
[xxxviii] Cfr. Corte dei conti, s.g. Veneto, 12 giugno 2013 n. 199.
[xxxix] Cfr. Corte dei conti, sez. centr. App. 28 luglio 2016 n. 366 e SS.UU., 26 giugno 2019 n. 17118.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.