ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Recensione di Giovanni Salvi a “Padri e Padrini delle Logge invisibili” di Piera Amendola
Il bel libro di Piera Amendola, Padri e Padrini delle Logge invisibili, ha per sottotitolo Alliata, Gran Maestro di rispetto. L’Autrice ricostruisce le vicende della massoneria italiana nei suoi legami internazionali e nelle sue compromissioni con alcune delle più gravi vicende giudiziarie della storia repubblicana. Il lavoro è basato sul ricco materiale archivistico al quale Amendola ha potuto accedere negli anni, anche per il suo prezioso ruolo di consulente della Commissione Parlamentare di inchiesta sulla Loggia P2, presieduto dalla indimenticata Tina Anselmi. A quel materiale nel tempo se ne è aggiunto molto altro proveniente da archivi, come il Fondo Alliata, o dai tanti processi che hanno riguardato la massoneria, sia come organizzazione che per i nessi con fatti delittuosi, emersi nel tempo a carico di appartenenti ad articolazioni massoniche. Un materiale, dunque, sterminato. Orizzontarsi nell’intreccio delle connessioni è una bella sfida per il lettore. Amendola è una guida sicura, ma sono i fatti in sé ad essere difficilmente districabili. Anche solo comprendere la complessa rete delle massonerie, delle diverse obbedienze e dei percorsi nel tempo di uomini e logge non è facile.
Le cronache politiche, troppo spesso basate su quelle giudiziarie, rimandano essenzialmente a Licio Gelli e alla Loggia Propaganda 2. Non poteva essere altrimenti, vista la gravità della minaccia alle fondamenta stesse della democrazia, derivante da un progetto di trasformazione della costituzione materiale del Paese, realizzato innanzitutto attraverso la penetrazione di ogni istituzione da membri della Loggia, molti dei quali non rimasero inattivi. Basti pensare al condizionamento delle principali strutture di sicurezza, totalmente nelle mani di “piduisti”. Questo condizionamento non fu limitato all’accaparramento di posizioni e di risorse ma si spinse fino all’utilizzo delle posizioni ottenute e delle risorse predate per interferire con alcune delle più significative vicende della vita del Paese. Dalla tanto vituperata Procura di Roma nacquero ad esempio le indagini sul c.d. SuperSismi, cioè sulla struttura interna al Servizio militare e gestita da membri della Loggia, e sulle attività che questa pose in essere per favorire gli esecutori materiali della strage di Bologna del 2 agosto del 1980. Per tali fatti vi sono state condanne nei confronti di alti esponenti del Servizio, mentre a Bologna proseguono i processi volti ad accertare le responsabilità dei mandanti, che sempre verso Gelli e la sua organizzazione sono indirizzati. In realtà, la capacità di penetrazione del SuperSismi anche negli ambienti internazionali fu accertata in processi – anche questi romani – di cui si è persa la memoria e che sono invece di grande importanza per comprendere ruoli e legami, come quello per il c.d. Billy Gate, trappolone efficacemente ordito in danno del presidente in carica degli Stati Uniti, Jimmy Carter, attirando il fratello Billy in affari con la Libia e fornendo così un contributo determinante per la elezione di Ronald Regan. Grazie a questo servizio, questa volta senza maiuscola …, gli uomini della P2 all’interno del Sismi assunsero un ruolo assai significativo nella intermediazione tra i nostri politici e la nuova amministrazione statunitense. Altri elementi della pervasività dell’azione della Loggia furono individuati, tra Roma e Napoli, con esiti non sempre processualmente positivi ma con la raccolta di impressionanti dati di fatto, nei rapporti con la Camorra e con organizzazioni terroristiche (si veda il sequestro dell’assessore Ciro Cirillo) o nella gestione del dopo terremoto dell’Irpinia.
Anche la magistratura fu sconvolta dalla penetrazione ad opera della Loggia P2 ai massimi livelli del CSM. ANM e Consiglio reagirono con grande fermezza, tra le poche istituzioni che compresero la gravità della minaccia. Questo va oggi ricordato, in un clima di velenoso disprezzo verso il sistema del governo autonomo e della magistratura associata.
Se dunque vi sono ottime ragioni perché l’attenzione giudiziaria e politica si concentri sulla Loggia P2 e su Licio Gelli e i suoi sodali, Amendola dipana una ben più complessa rete di fatti e legami, che attraversano la storia del Paese. Una storia, però, non tutta criminale e in cui forse a volte si appannano le distinzioni tra lecito e illecito.
Il filo conduttore della ricerca di Amendola è il principe Giovanni Francesco Alliata di Montereale. Figura straordinariamente interessante, dal punto di vista storico e – per quanto emerge dai rapidi tratteggi del libro – anche per la complessa personalità.
Una vita avventurosa, scrive Amendola, quasi un romanzo di Francis Scott Fitzgerald, tre mogli, un immenso patrimonio dilapidato e amicizie pericolose. Come Tommaso Buscetta, con il quale condivide il tavolo di poker.
Alliata sarebbe dietro tutte le trame, all’origine della strategia della tensione, recitano titolo e sottotitolo della ricerca di Giovanni Tamburino, edita pressoché contemporaneamente a quella di Piera Amendola, il cui lavoro documentale vi è spesso citato.
Leggere insieme i due volumi è di grande utilità. Ne emergono le radici politiche e culturali della feroce critica di Alliata ad una Repubblica imbelle, nata dal tradimento e incapace di resistere alla minaccia del comunismo, e le strategie complesse che ne discendono. Il centro dell’attenzione di Tamburino è la Rosa dei Venti, struttura oggetto di un’indagine che Egli, giudice istruttore, aveva potuto compiere per pochi mesi ma con grande profitto, prima che una decisione della Cassazione non lo spogliasse del processo per attribuirne la titolarità agli uffici romani, ove venne riunito agli altri, relativi ai preparativi di colpo di Stato dei primi anni ’70.
Amendola inserisce le indagini di Tamburino, che portarono all’emissione di un mandato di cattura rimasto ineseguito nei confronti di Alliata, nel più ampio contesto della sua appartenenza alla Loggia P2. Appartenenza non meramente formale, se Amendola ricostruisce con molti riscontri documentali il ruolo che Alliata vi svolse, nel più ampio contesto delle dinamiche delle obbedienze massoniche e delle scissioni e riunificazioni che ne segnano la vita e che sono accuratamente descritte.
Proprio la complessità dello scenario descritto da Amendola, e a cui fa riferimento Tamburino, rende davvero difficile individuare nelle strategie della destra eversiva del dopoguerra un disegno unico e meno ancora una Spectre o un burattinaio.
La stessa figura di Alliata attraversa l’intera storia del Paese, dall’immediato dopoguerra fino alla strategia della tensione degli anni ’70, ma è difficile riconoscervi il regista occulto di ogni trama. Anzi, proprio la sua storia anche parlamentare sembra essere la migliore descrizione della complessità e difficile decifrabilità delle manovre “anticomuniste”, su diversi piani.
Alliata, nella ricostruzione di Amendola, naviga nel mare vasto delle politiche anticomuniste, dalle aspirazioni di Andrea Finocchiaro Aprile per una Sicilia indipendente, ai Partiti monarchici, che a lungo rappresenta nel Consiglio comunale e nell’Assemblea regionale di Palermo e infine in Parlamento. La massoneria e le molte iniziative analoghe, dall’Accademia del Mediterraneo al Parlamento Mondiale, dall’Accademia di Alta Cultura, con Pino Mandalari, ai Centri trapanesi, tra cui il Circolo Antonio Scontrino, vengono ben ricostruite nelle loro origini e vicende volte a raccogliere la zona grigia, di cui si dirà innanzi.
Ciò che unisce i fili degli eventi è una larga strategia politica, le cui radici affondano quanto meno nella invasione alleata della Sicilia e nelle prospettive, allora ancora incerte, con cui Gran Bretagna e Stati Uniti dovettero confrontarsi, in un contesto internazionale (oggi si direbbe geopolitico) che andava rapidamente mutando e in cui i recenti alleati già si prefiguravano come i futuri nemici.
A questa strategia si adeguarono di volta in volta diversi attori, uniti da legami ideologici, organizzativi e finanziari ma difficilmente riconducibili ad unum.
La ricerca dell’organizzazione, regista delle strategie eversive e costituita da apparati dello Stato, ha a lungo impegnato gli investigatori, che faticosamente cercavano di individuarne l’esistenza a partire dai bandoli della matassa, che di volta in volta emergevano sin dall’inizio delle indagini sulla strategia della tensione. A partire da quelle milanesi e padovane sugli attentati del 12 dicembre 1969, e anche dall’indagine romana, condotta da Vittorio Occorsio, che si basa sugli elementi prospettati dal Ministero dell’Interno e che puntavano sul Circolo anarchico 22 Marzo e dunque su Pietro Valpreda, ma che già individuavano l’anomalia della presenza in quel circolo di militanti di Avanguardia Nazionale, e dunque di Stefano Delle Chiaie.
I processi per piazza Fontana, per gli attentati ai treni e infine per Piazza della Loggia fanno emergere complicità diffuse degli apparati informativi (allora non distinti dall’organizzazione dei ministeri della Difesa e dell’Interno) e non solo a copertura di altri soggetti. Si dice infine, riferendoci alla strage di piazza della Loggia a Brescia, non certo per ragioni temporali, ma perché è assai recente la condanna all’ergastolo della Fonte Tritone, Maurizio Tramonte, per un ruolo attivo nell’attentato.
Lo scenario diviene più chiaro con i processi sulla strage di Bologna, che soffrono sin dall’inizio di continui tentativi di depistaggio, ma giungono infine a disvelare l’intreccio tra apparati informativi, logge massoniche e un reticolo di movimenti stragisti. Quest’ultimo aspetto è di grande importanza. Lo stragismo nella destra eversiva non è frutto di infiltrazioni e condizionamenti esterni, ma di una reale elaborazione, risalente ai presupposti ideologici di una doppia morale, del superomismo, che rende poi possibile la strumentalizzazione. Un ruolo centrale è svolto da movimenti di origine ordinovista, che segnano in maniera nefasta la strategia delle stragi.
Questi aspetti emergono con chiarezza nella strage di Peteano, del 1972, originariamente attribuita ai rossi, secondo un preciso progetto, reso evidente dalla scelta dell’obiettivo (Carabinieri assassinati vigliaccamente con una 500 trappolata) e dal collegamento con attentati di eguale apparente direzione (il monumento ai Caduti di Latisana e ancora i treni). Peteano è una svolta per molte ragioni. Innanzitutto, perché l’attentato costituisce un esempio lampante della strategia della tensione. Poi, perché dalle indagini su quell’attentato emerse l’esistenza di una struttura occulta, alla cui protezione si mossero i favoreggiatori degli esecutori materiali.
Le indagini che ne scaturirono non consentirono di individuare in Gladio – Stay Behind l’occulto manovratore delle trame eversive. Tuttavia, pur nell’esito assolutorio del processo per i falsi per soppressione e ideologici contestati, in parte per prescrizione e in parte nel merito, credo si possa affermare con certezza che nel 1973, a seguito della scoperta del saccheggio di un deposito di armi della Gladio, il NASCO di Aurisina, e del sospetto che la struttura occulta potesse aver deviato dai suoi fini istituzionali, ed essere stata coinvolta in attività eversive, una radicale trasformazione della Organizzazione fu operata dalla nuova dirigenza del SID. Questa certezza deriva dalla consulenza archivistica che fu svolta nel corso delle indagini e che è stata la prima di questo genere nella storia giudiziaria. Non un mero accertamento tecnico sui documenti o una ricostruzione storica del periodo, ma l’impiego della scienza archivistica al fine di far emergere dalle serie documentali, dalla loro organizzazione, dalle caratteristiche formali di ogni documento, dalle relazioni tra documenti e strumenti d’archivio, dati di fatto prima ignoti. Una scienza, dunque, perché basata su regole condivise nella comunità scientifica e i cui metodi e risultati sono falsificabili.
Queste considerazioni ci riportano al lavoro di Amendola, che è innanzitutto archivistico e che consente di fornire alla storica la base delle sue argomentazioni.
La strategia che ha attraversato l’intera storia del dopoguerra, fino e oltra la caduta del Muro, non può essere ricondotta ad un singolo attore e tra questi certamente non alla massoneria. Essa è emersa negli anni ’70 come strategia della tensione, affidata all’eversione di destra ma sotto il lasco controllo di istituzioni diverse, ciascuna delle quali ha fatto la sua parte, dall’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno alle strutture di sicurezza, all’epoca facenti capo allo Stato Maggiore Difesa e al SID (prima ancora al SIFAR). In questo contesto è ormai accertato il ruolo di organizzazioni massoniche, tra cui innanzitutto la P2. Un magma autonomo di organizzazioni terroristiche ed eversive, solo apparentemente slegate tra loro, riconducibili in primo luogo alla matrice ordinovista, ha costituito un attore altrettanto importante e non necessariamente subordinato ai primi. La stessa eversione si è adeguata nel tempo alla trasformazione della “minaccia” e alle potenzialità che tali sviluppi offrivano nel progetto di destabilizzazione, che altri utilizzavano per la stabilizzazione dello status quo. La vicenda di Pierluigi Concutelli, autore dell’attentato mortale a Vittorio Occorsio, è rivelatrice della complessità dei percorsi politici e del loro intreccio con le appartenenze più insospettabili; secondo l’ipotesi di Amendola, anche a logge massoniche. Sta di fatto che quando fu assassinato, Occorsio stava lavorando a un procedimento di grande rilevanza, che aveva portato a emersione – attraverso la ricostruzione dei movimenti del denaro proveniente da sequestri di persona - l’esistenza di legami tra la criminalità organizzata, l’eversione di destra e quella che sarà cinque anni dopo rivelata con la perquisizione di Castiglion Fibocchi.
La parte più interessante del libro di Amendola è quella in cui si ricostruiscono i complessi legami tra massoneria e criminalità mafiosa. Se questi erano ormai ben noti, perché rivelati dalle indagini che ne avevano messo in luce spezzoni, è il quadro completo, offerto dalla ricostruzione storico-archivistica, che consente di comprenderne la profondità. Se Giovanni Falcone si indirizza verso i legami tra Cosa Nostra e le logge della Sicilia occidentale, tra cui il Circolo Scontrino di Trapani, indagine che non gli fu consentito di sviluppare, egli stesso e altri magistrati ancora individuano nel legame tra Cosa Nostra e la destra eversiva un punto di contatto di straordinario interesse.
La ricerca di Piera Amendola rende chiara la difficoltà della ricostruzione giudiziaria di queste trame; persino lì dove il centro della prova da formare nel giudizio è su singoli e ben determinati elementi e con fonti di prova ad essi strettamente correlati.
Se questo è vero per fatti circostanziati, si comprende come lo strumento della indagine penale è davvero inane a cogliere i nessi, a volte lontani e sottili, che costituiscono la trama sottesa alle strategie criminali di così alto livello.
Non si tratta di una prova di minor qualità, quella su cui si basa la certezza dello storico, ma che ha un oggetto diverso, non circoscritto dalla fattispecie tipica oggetto dell’accertamento, e approcci epistemici differenti, non basati sui limiti legali della prova e sul contraddittorio nella sua formazione come metodo necessario di accertamento, volto ad assicurare l’avvicinamento alla verità, probabilistica ma postulata come esistente e approssimabile.
Tornando ad Alliata, la cui appartenenza mafiosa ad alto livello è documentata, un principio di prova circa un suo ruolo attivo nella strategia anticomunista, avviata proprio in Sicilia nell’immediato dopoguerra, è nelle dichiarazioni di Gaspare Pisciotta, che lo indica quale mandante della strage di Portella delle Ginestre. Delitto fondativo della sistematica eliminazione della rete dei movimenti contadini e sindacali, attraverso l’omicidio e il terrore, che insanguinò l’Isola nel dopoguerra e che ne condizionò definitivamente la struttura politico – sociale. L’assassinio in carcere di Pisciotta, che segue alla morte di Salvatore Giuliano, chiude questa strada investigativa, che non verrà mai neppure percorsa. Resta questa prima indicazione proveniente da una fonte subito fatta inaridire, così come la figura di Alliata resterà sullo sfondo anche della Rosa dei Venti e del colpo di Stato dell’Immacolata, il Golpe Borghese.
Il lavoro storico-archivistico di Amendola consente di avere un quadro conoscitivo complesso, nel quale si stagliano i molti collegamenti tra le logge massoniche e la criminalità mafiosa e golpista. Impressionante sono il numero e la forza delle strutture massoniche, di varia denominazione, attraverso cui mafia e ‘ndrangheta consolidano le relazioni istituzionali e quelle imprenditoriali.
Di grande interesse è la ricostruzione del diverso atteggiarsi nel tempo del rapporto con la massoneria della mafia siciliana e della ‘Ndrangheta, quest’ultima in grado di utilizzarne strutturalmente le opportunità di condizionamenti politici e affaristici.
Se queste acquisizioni appaiono coerenti con l’interpretazione del reato che punisce l’associazione segreta, individuandone l’offensività nell’interferenza sull’esercizio di funzioni pubbliche, come ancora di recente affermato dalla Corte di cassazione[1] è anche evidente che l’anticipazione della punizione al mero carattere di segretezza dell’associazione, in aderenza al tenore letterale dell’art. 18 della Costituzione, potrebbe valere a punire condotte di notevole pericolosità, attualmente nel limbo tra il divieto costituzionale e l’attuazione nella fattispecie tipizzata.
Tuttavia, proprio alcune esperienze giudiziarie ci portano a riflettere sui rischi che potrebbero derivare da una eccessiva estensione della fattispecie tipica, se già l’attuale formulazione ha portato a ricerche a tutto campo. Penso alle indagini della Procura di Palmi che certamente hanno raccolto una impressionante messe di dati e informazioni, utili però allo storico più che al giudice. Forse potrebbe essere risolutiva, ai fini della costruzione di una fattispecie rispettosa del principio di tassatività, una più chiara definizione normativa di quando una associazione può definirsi propriamente segreta, ai fini della piena attuazione del precetto costituzionale.
Partono invece dall’individuazione di specifici legami tra logge massoniche e consorterie mafiose le indagini ficcanti in terra di Sicilia e di Calabria. Amendola ricostruisce, dalle fonti giudiziarie, un quadro preoccupante della zona grigia, nella quale è facilitato l’incontro tra mafiosi, imprenditori e politici. Particolarmente interessante è il capitolo nel quale è attestato non tanto l’ingresso del mafioso nella Loggia, quanto la costruzione di una strategia, volta a utilizzare queste opportunità per consentire a Cosa Nostra un salto di qualità. Amendola mette in parallelo un progetto di unificazione massonica, accuratamente descritto, con le dinamiche interne a Cosa Nostra che maturano alla fine degli anni ’70. Il finto sequestro di Michele Sindona e il ruolo che svolge Joseph Miceli Crimi costituiscono uno degli snodi di questo processo, unitamente a quello che parallelamente viene avviato da Michele Greco e da alti esponenti palermitani e catanesi.
Il libro di Amendola dà anche un chiaro messaggio a chi intenda su queste relazioni indagare, da storico o da giudice. Il tentativo di ricostruire la storia d’Italia partendo dal ruolo della massoneria non ha vita facile, per la complessità delle interazioni tra attori diversi e per la debolezza delle inferenze che ne discende. Conoscere questo retroterra è però indispensabile per comprendere molte delle singole vicende che compongono quel quadro.
[1] “Ai fini della sussistenza di un'associazione segreta, ai sensi dell'art. 1, legge 25 gennaio 1982, n. 25, la "interferenza" della stessa sull'esercizio delle funzioni di organi costituzionali o di amministrazioni pubbliche deve coincidere con l'adozione di decisioni al di fuori delle sedi istituzionali, che vengano eseguite dai suddetti organi, così da realizzare un vero e proprio "contropotere", e non una mera influenza sulle scelte di questi ultimi”; Sez. VI, 24 ottobre 2019 – 28 gennaio 2020, n. 3505.
Donne che aiutano donne: i centri anti-violenza come risposta sociale alla violenza di genere
Intervista di Marta Agostini a Teresa Manente
1) Quando si parla di violenza di genere, violenza sui minori, violenza intrafamiliare l’attenzione e le aspettative dei cittadini, talvolta veicolate dai media e da un certo modo di fare informazione, si focalizzano spesso sugli aspetti legati alla repressione e, di conseguenza, sull’intervento delle forze dell’ordine e dell’autorità giudiziaria. Si parla allora di tutela penale, di “codice rosso”, di politiche tese – giustamente – ad implementare gli strumenti a disposizione per contrastare il fenomeno criminale, come se l’unico scudo rispetto al dilagare drammatico dei femminicidi e degli abusi sui minori o sui soggetti vulnerabili siano le Procure della Repubblica. Ci si dimentica, talvolta, che esiste un mondo tra la vittima della violenza ed il processo penale al suo aggressore, un mondo fatto di enti, di associazioni, di volontari, di professionisti, che lavorano per tutelare e sostenere la persona che subisce maltrattamenti o abusi. Si tratta di una vera e propria rete di cui senz’altro i centri antiviolenza costituiscono il motore. Che cosa sono, come operano e cosa offrono i centri antiviolenza?
I centri antiviolenza e le case rifugio nascono dalla pratica politica delle donne come risposta indipendente alla necessità delle donne in situazione di violenza di porsi al riparo, insieme ai figli e alle figlie, dalle condotte illecite. Al contempo, nella pratica femminista si sono affermati come luoghi non solo di protezione, ma anche di rafforzamento individuale delle donne, le quali trovano lo spazio sicuro per intraprendere un percorso di rielaborazione del proprio vissuto al di fuori della diffusa narrazione colpevolizzante della violenza così come prodotta dalla cultura patriarcale che addossa alla donna per il ruolo di subordinazione assegnatole il peso e la causa di quanto subito nella relazione. I centri antiviolenza e le case rifugio femministi hanno sviluppato una metodologia che mira al rafforzamento delle donne alla loro presa di consapevolezza della situazione che tiene conto dei fattori sociali e storici sessisti che sono sottesi alla violenza maschile.
La pratica femminista sviluppata all’interno dei centri antiviolenza e delle case rifugio gestite da sole donne ha trovato riconoscimento per la sua efficacia nelle sedi istituzionali, consolidandosi come riferimento imprescindibile per la costruzione delle politiche di prevenzione e di contrasto della violenza nei confronti delle donne.
Dall’esperienza dell’associazione Differenza Donna, di cui sono parte, viene la conferma che è solo l’indipendenza e l’autonomia delle donne che gestiscono i centri e le case rifugio che possono garantire spazi di autentica pratica politica che sposta l’attenzione da una violenza intesa come “patologia” a una dinamica complessa di fattori sociali, culturali, economici, ossia politici, da comprendere e superare come singole e come collettività.
Nella raccomandazione del gruppo di esperti riunitisi nel 1999 in Finlandia per definire il quadro di politiche da implementare nei paesi dell’Unione europea, si chiariva, infatti, che diritto primario da garantire alle donne e ai figli è la protezione, anche mediante l’allontanamento del maltrattante , tuttavia gli Stati devono garantire un alloggio in un rifugio alle donne che preferiscono lasciare la casa di convivenza, predisponendo «un rifugio ogni 10.000 abitanti e un centro antiviolenza ogni 50.000 abitanti» .
Nella raccomandazione si riversavano altresì i capisaldi della pratica femminista di organizzazione e gestione dei centri antiviolenza e delle case rifugio: l’obiettivo primario è garantire protezione nell’immediatezza e strutturare nel lungo periodo un progetto individuale che rafforzi la donna nelle sue competenze e autonomia, nel rispetto della massima riservatezza di ciascuna.
L’accesso ai centri antiviolenza e alle case rifugio non dovrebbe mai essere subordinato a una valutazione della situazione finanziaria delle donne, ma consentito a tutte, comprese le donne senza figli, donne appartenenti a gruppi minoritari, vittime di qualsiasi forma di violenza, indipendentemente dallo status di soggiorno sul territorio, per il tempo necessario per valutare le decisioni da assumere.
La raccomandazione chiariva, infine, che i centri antiviolenza e le case rifugio devono essere gestiti da organizzazioni di donne, in formazione permanente, con una prospettiva femminista e che «credono nelle donne che aiutano le donne», implementando una strategia delineata a partire dalla comprensione delle discriminazioni delle dinamiche e dei meccanismi della violenza.
Nel corso dei tanti anni trascorsi dall’adozione della raccomandazione citata, sul territorio dell’UE i centri antiviolenza e le case rifugio si sono moltiplicati, confermandosi ovunque come luoghi di rafforzamento individuale delle donne, ma anche come motore di trasformazione della risposta pubblica alla violenza nei confronti delle donne, compresa quella giudiziaria.
Le operatrici delle case rifugio e dei centri antiviolenza portano infatti nelle aule giudiziarie la loro conoscenza e lettura del fenomeno che consente la corretta applicazione delle leggi introdotte e supporta le donne nel percorso legale stesso.
Tra le misure attuative degli obblighi di dovuta diligenza stabiliti dalla Convenzione di Istanbul si rinvengono quelle necessarie a fornire, secondo una ripartizione geografica appropriata, i servizi di supporto immediato specializzati, nel breve e lungo periodo, per ogni vittima di un qualsiasi atto di violenza che rientra nel campo di applicazione della Convenzione .
Gli Stati sono tenuti a predisporre rifugi adeguati, facilmente accessibili e in numero sufficiente per offrire un alloggio sicuro alle vittime, in particolare le donne e i loro bambini, «per aiutarle in modo proattivo», con una specializzazione sulle molteplici forme di violenza cui le donne sono esposte.
Il comitato redattore della Convenzione di Istanbul ha aderito alla pratica dei centri antiviolenza e delle case rifugio femministi, ritenendo che le funzioni dei servizi specializzati e delle case rifugio «vanno al di là dell'offrire un luogo di soggiorno sicuro» .
Si legge, infatti, nel rapporto esplicativo, che i centri antiviolenza e le case rifugio «forniscono sostegno alle donne e ai loro figli, consentono loro di affrontare le loro esperienze traumatiche, di abbandonare le relazioni violente, di recuperare la propria autostima e di gettare le basi per una vita indipendente a loro scelta» .
Inoltre, i centri di accoglienza per le donne svolgono un ruolo centrale nella creazione di reti, nella cooperazione tra più agenzie e nel-la sensibilizzazione nelle rispettive comunità.
Al fine di assicurare alle donne la conoscenza dei servizi territoriali dedicati alla prevenzione e protezione delle vittime di violenza di genere, oggi la legge prevede che sin dal primo contatto con le forze dell’ordine, queste ultime devono procedere a informativa completa alle donne sui centri antiviolenza e case rifugio presenti sul territorio.
2) Abbiamo parlato di rete proprio perché i protagonisti del circuito che ruota attorno al supporto e dell’assistenza alle vittime di violenza sono (o dovrebbero essere) tanti ed eterogenei. Penso agli operatori sanitari dei reparti di pronto soccorso che per primi, spesso, entrano in contatto con la donna che ha subito maltrattamenti o abusi; ai servizi sociali ed agli psicologi che lavorano con i minori e con le famiglie che presentano disagi o problematiche di ogni sorta; penso alle associazioni di volontariato del c.d. terzo settore, che a loro volta collaborano e cooperano con le amministrazioni pubbliche locali o con la Chiesa. Esiste davvero questa rete? Funziona? Dove e come potrebbe essere migliorata ed implementata?
La rete è sicuramente la chiave per una politica di prevenzione e protezione efficace ed è nella costruzione di relazioni e pratiche collaborative sul territorio che le case rifugio e i centri antiviolenza producono quel cambiamento culturale che necessariamente anche i soggetti istituzionali devono avviare.
E si cambia la cultura mettendo al centro delle pratiche e delle strategie l’esperienza delle donne in fuga dalla violenza: la loro realtà, le paure, le difficoltà, ma soprattutto le infinite risorse. È fondamentale infatti contrastare un approccio assistenzialista e che disconosce le competenze delle donne e le discrimina: questo è il rischio di un approccio vittimario che schiaccia le donne nel ruolo di soggetti passivi e che orienta purtroppo anche le letture giudiziarie che, in luogo di riconoscere nelle donne in fuga soggetti di diritto autodeterminati e capaci, rileva erroneamente una fragilità, una incapacità da cui discendono forme di controllo, soprattutto della genitorialità.
Dopo oltre trent’anni di lavoro costante di tessitura della rete territoriale e internazionale, è solida la consapevolezza che non si può mai mollare: la rete cresce e si rafforza laddove si coltivi capacità di ascolto e specializzazione, altrimenti si burocratizza, si definiscono procedure estranee all’esperienza delle donne ridotte a mero oggetto di intervento stereotipato.
3) Come giudica la situazione dell’organizzazione della tutela e della prevenzione dei reati contro le donne nel nostro paese rispetto agli altri paesi europei dove si è trovata ad operare?
Il nostro ordinamento è astrattamente idoneo a garantire attraverso il sistema normativo ad oggi implementato un’adeguata protezione e prevenzione della violenza maschile nei confronti delle donne. La corte di cassazione, come noto, definisce il corpus di disposizioni introdotte come “un arcipelago” di norme, così evidenziando al contempo la consistenza, ma anche l’assenza di organicità.
Le norme devono essere applicate in modo tempestivo e indossando lenti di genere, credendo alle donne e disvelando gli stereotipi sessisti che sottendono la violenza di genere: dal CSM, che sin dal 2009 ha periodicamente monitorato la risposta giudiziaria, alla commissione d’inchiesta parlamentare sul femminicidio e ogni forma di violenza nei confronti delle donne, a livello istituzionale è stato ormai documentato ufficialmente come il sistema sia indebolito da pregiudizi discriminatori nei confronti delle donne che ancora minano il principio di uguaglianza. In definitiva, come ha segnalato il comitato CEDAW nella decisione F. contro Italia del luglio 2022, in Italia la legge non è uguale per tutti, e soprattutto per le donne rimane ancora più diseguale.
Rimane grave la diffusa sottovalutazione del pericolo cui sono esposte le donne in uscita dalla violenza, le misure di protezione esistenti sono adottate poco e con ritardo e ciò perché alle donne non si da’ credito: in ogni sede, in particolare quella dei tribunali civili e minorili, la violenza rimane invisibile e mistificata nelle forme del conflitto familiare, si ignora la violenza assistita e diretta che subiscono i figli e le figlie, costretti a frequentare padri violenti anche se lo rifiutano fino a forme di loro istituzionalizzazione forzata. I fatti di violenza spariscono dietro letture stereotipate e scientificamente infondate veicolate dinanzi ai tribunali dagli “esperti” del conflitto coniugale (dagli assistenti sociali agli psicologi forensi a molteplici figure che si susseguono nei processi) che intrappolano le donne in un percorso a ostacoli defatigante e difficile che fa ammalare quanto la violenza da cui hanno tentato di fuggire.
4) Gli allarmi, l’aggressione, il processo e la protezione della donna all’esito del processo: in quale delle fasi in cui solitamente si realizza la violenza su una donna siamo più indietro e dovremmo migliorare?
Lo stato di applicazione della legge in Italia è disomogeneo a livello territoriale perché disomogenea e non monitorata è la formazione degli operatori. Deve rimanere al centro delle politiche di sensibilizzazione e della formazione la pratica femminista, che parte dall’esperienza delle donne e ne riconosce il valore di fonte affidabile, accantonando una volta per tutte la diffidenza che storicamente, anche attraverso il diritto, la società ha loro riservato. Se una donna chiede aiuto, la risposta deve essere immediata e deve concretizzarsi nelle misure di protezione esistenti, il processo deve essere “equo” e ciò significa che deve essere bandita, e punita, ogni forma di vittimizzazione secondaria. Giustizia non si trova nelle aule giudiziarie, quelle che cercano le donne è un’autentica responsabilizzazione della società tutta per produrre una trasformazione profonda delle relazioni. Ciò non può realizzarsi se a fronte di modifiche formale dell’ordinamento si continuano ad alimentare cornici di intervento che normalizzino le violenze maschili, inquadrandola come reazioni accettabili a torti subiti, come gelosia o troppo amore, come strumento per realizzare a tutti i costi la paternità. Su questa dovremmo interrogarci: lontana da una ridefinizione della genitorialità, la paternità rimane declinata come strumento di controllo e di sopraffazione nei confronti delle donne, declinata secondo i bisogni degli adulti, e non come responsabilità nei confronti dei figli e delle figlie, che almeno hanno diritto a delle scuse per poter pensare a una relazione con colui che hanno visto umiliare e punire la loro madre.
Gli approfondimenti della riforma Cartabia - 5. Le notificazioni dopo la Riforma Cartabia o “Come l’eroe tecnologico fu sconfitto dal temibile Mostro verde”
di Massimiliano Alagna
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il nuovo sistema delle notificazioni: l’apparente sconfitta del “Mostro verde” - 2.1. Le notifiche telematiche: domicilio “digitale” e “telematico” e l’attesa dei decreti attuativi - 2.2 Le altre modalità di notifica: le eccezioni che diventano regola - 2.3. Le notificazioni all’imputato - 2.3.1. La notifica all’imputato detenuto: l’art. 156 c.p.p. - 2.3.2 La notifica degli atti introduttivi: l’art. 157 ter c.p.p. e la “fine dell’era gloriosa” di elezione e dichiarazione di domicilio - 2.3.3. Prima notifica all’imputato non detenuto di atti diversi da quelli contenenti la vocatio in ius: lettura combinata degli artt. 157 e 161, comma 01, c.p.p. - 2.3.4. Notifiche successive alla prima all’imputato non detenuto: l’art. 157 bis c.p.p. - 2.3.5. Notifiche all’imputato irreperibile - 2.4. Le notificazioni agli altri soggetti - 2.5. Nuove nullità delle notificazioni - 2.6. Conclusioni: la potenza del “Mostro verde” e la sconfitta dei suoi avversari.
1. Introduzione
Ogni giovane Magistrato che si appresta per la prima volta allo studio di un fascicolo nel corso del proprio tirocinio non può che scontrarsi con lo sconforto derivante dall’esame della disciplina delle notificazioni: ciò che, infatti, viene usualmente imparato acriticamente – e, perché no, mnemonicamente – nel corso degli studi universitari, si abbatte inesorabilmente sull’inesperto operatore del diritto e sul suo rapporto con la relazione di notificazione, solitamente costituita dalla “cartolina verde”.
Ed ecco che, con sguardo perso nella relata di notifica, il giovane Magistrato inizia a scrutare quel biglietto, quasi come se fossero le istruzioni per il rinvenimento di un tesoro che neanche cercava, gelosamente custodite da quel “Mostro verde” imperturbabile, che lo guarda con aria di sfida e di impassibile arroganza, quasi a volergli dire: “Cambia lavoro o, quantomeno, girami che sono sottosopra e stai facendo la figura dell’incompetente”.
In quel momento si inserisce il provvidenziale intervento del Magistrato affidatario, che potrebbe godersi l’imbarazzo dell’imberbe collega o, più correttamente, armarsi di tutta la pazienza che dispone e iniziare a fare il suo lavoro, formando il giovane Magistrato. Non avendo vissuto la prima situazione, non mi resta che descrivere quello che mi è stato insegnato e che, parafrasando Denis Diderot[1], il saggio affidatario sintetizzò nell’espressione: “Il processo penale è un gigante dai piedi di argilla”.
Agli occhi del giovane Magistrato in tirocinio, allora, la “cartolina verde” e la sua arrogante impassibilità risultano rivisitate: quel fogliettino apparentemente insignificante, infatti, assume la dignità dovuta ai più importanti documenti contenuti nel fascicolo e anche quell’aria arrogante che il giovane discente gli aveva inizialmente addebitato, viene parzialmente riconsiderata, alla luce della consapevolezza che anima il “Mostro verde” circa il fondamentale ruolo assegnatogli dall’ordinamento.
Con questa prospettiva, allora, occorre avvicinarsi al delicato tema della disciplina delle notificazioni dopo la riforma operata con il D.Lgs. 150/2022, con la precisazione che il presente contributo, lungi dal costituire una puntuale ricostruzione della disciplina, intende limitarsi ad esaminare le novità introdotte e l’impatto sulla quotidiana attività d’udienza.
2. Il nuovo sistema delle notificazioni: l’apparente sconfitta del “Mostro verde”
2.1. Le notifiche telematiche: domicilio “digitale” e “telematico” e l’attesa dei decreti attuativi
La notificazione è lo strumento attraverso il quale un atto è formalmente portato a conoscenza del suo destinatario: la verifica sulla regolarità della notifica, allora, presuppone la conoscenza delle regole che presiedono a tale risultato conoscitivo e che sono puntualmente delineate dal Codice di rito agli artt. 148 e seguenti.
Nell’ottica della digitalizzazione della Giustizia penale, l’art. 148, comma 1, c.p.p.[2] ha posto la notifica telematica come regola di notificazione, da prediligere “salvo che la legge disponga altrimenti”.
L’innovazione informatica prospettata dal Legislatore, allora, presuppone la preliminare comprensione di cosa debba intendersi per notificazione telematica e di quale sia il suo ambito di operatività.
Orbene, deve considerarsi telematica la notificazione effettuata presso il “domicilio digitale” del destinatario, la cui definizione può trarsi dall’art. 1, comma 1 lettera n-ter), del C.A.D.[3], che lo individua come “un indirizzo elettronico eletto presso un servizio di posta elettronica certificata (PEC) o un servizio elettronico di recapito certificato qualificato, come definito dal regolamento (UE) 23 luglio 2014 n. 910 del Parlamento europeo e del Consiglio in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno e che abroga la direttiva 1999/93/CE, di seguito "Regolamento eIDAS", valido ai fini delle comunicazioni elettroniche aventi valore legale”.
Tale previsione generale risulta, però, ridimensionata nella sua portata applicativa in ambito processuale dall’art. 16 ter del D.L. 179/2012, che con riferimento ai processi civili, penali, amministrativi, contabili e per la materia stragiudiziale ha imposto che le notifiche telematiche siano effettuate presso domicili digitali reperiti all’interno di pubblici elenchi.
Ne consegue che le notifiche telematiche fin qui descritte possono essere effettuate solo agli indirizzi tratti dai pubblici elenchi attualmente esistenti, ovvero:
- il registro INI-PEC, nel quale risultano inseriti professionisti e imprese[4] e nel quale confluisce il Registro delle imprese;
- il REGINDE, gestito dal Ministero della Giustizia, nel quale risultano inseriti gli utenti esterni abilitati al processo telematico;
- il Registro delle P.A. per le Pubbliche Amministrazioni[5], nonché l’Indice delle P.A.[6].
Per i cittadini non rientranti in tali registri, l’art. 6 quater del C.A.D. ha introdotto il registro INAD, gestito dall’AgID, nel quale sono inseriti i domicili digitali delle persone fisiche, dei professionisti e degli altri enti di diritto privato non tenuti all’iscrizione in albi, elenchi o registri professionali o nel registro delle imprese.
In tale elenco, poi, confluiscono ai sensi del comma 2 dell’articolo in esame i domicili digitali dei professionisti iscritti in albi, salvo che il singolo professionista non indichi un indirizzo ulteriore e personale (non professionale, quindi): ne consegue che, in mancanza di tale opzione, l’indirizzo tratto dal registro INI-PEC confluisce nel registro INAD.
Se, dunque, la regola generale è costituita dalla notifica telematica presso il domicilio digitale avente le caratteristiche descritte, l’art. 161, comma 1, c.p.p. – per il cui esame puntuale si rinvia al paragrafo 2.3.5 - pone la possibilità per l’imputato di indicare un indirizzo PEC non inserito negli elenchi pubblici, che può definirsi, per garantire una ragionevole distinzione terminologica dal “domicilio digitale”, come “domicilio telematico”: ne consegue, che, in assenza di espressa elezione di un domicilio telematico, se il destinatario non dispone di un domicilio digitale - ovvero di un indirizzo PEC inserito in pubblici registri- la notifica non potrà avvenire in modalità telematica.
Ad ogni modo, l’entrata a regime della rivoluzione informatica fin qui descritta risulta attualmente impedita dall’art. 87 delle disposizioni transitorie, che rinvia ad un successivo decreto del Ministro della Giustizia - da adottarsi entro il 31.12.2023 - e a consequenziali indicazioni del DGSIA per l’individuazione delle regole tecniche per le notificazioni telematiche.
2.2. Le altre modalità di notifica: le eccezioni che diventano regola
Nel prosieguo si evidenzierà come l’ipotesi per antonomasia di notifica per la quale la legge impedisce di procedere telematicamente è quella degli atti di vocatio in ius destinati all’imputato, ma è lo stesso art. 148 c.p.p. che prevede ulteriori deviazioni dal criterio generale.
Al comma 2 di tale disposizione, infatti, viene ribadita la previsione precedentemente posta dal comma 5 dell’art. 148 c.p.p., secondo la quale la notifica di provvedimenti e avvisi ai soggetti presenti o che debbano considerarsi tali - come, ad esempio, agli imputati che, pur assenti, sono rappresentati da un procuratore speciale per l’accesso a riti alternativi, come previsto dal nuovo art. 420, comma 2 ter, c.p.p. – può essere surrogata dalla lettura dell’atto in udienza.
Invariata, poi, resta la possibilità di consegna di documento analogico[7] al destinatario a cura della Cancelleria, ipotesi prevista dopo la riforma al comma 3 e precedentemente positivizzata al comma 4: in questo caso, tuttavia, il pubblico ufficiale deve annotare sull’originale dell’atto l’avvenuta consegna e la data in cui vi ha provveduto.
La consapevolezza da parte del Legislatore del carattere futuristico di una notificazione telematica prevalente, tuttavia, ha determinato la previsione al successivo comma 4 dell’art. 148 c.p.p. di un criterio residuale: laddove non sia possibile effettuare la notifica telematica – per divieto di legge, per assenza o inidoneità di un domicilio digitale del destinatario o per impedimenti tecnici – si dovrà ricorrere alle ulteriori forme di notifica previste dalle disposizioni successive.
Assolutamente innovativa, invece, risulta la limitazione del ricorso alle notifiche effettuate tramite la Polizia Giudiziaria, nel dichiarato intento di ridurre l’impiego delle Forze dell’Ordine in tale incombente: il novello comma 6, infatti, permette il ricorso a tale sistema “nei soli casi previsti dalla legge”, sebbene dietro a tale apparente limitazione si nasconda la previsione di molteplici ipotesi nelle quali l’Autorità giudiziaria può procedere con tale modalità, quanto meno con riferimento agli atti contenenti la vocatio in ius dell’imputato (come si preciserà nel prosieguo).
Proprio le peculiarità che contraddistinguono le notificazioni dirette all’imputato, allora, determinano la necessità di una considerazione differenziata della disciplina regolante tali ipotesi rispetto a quella relativa alle notificazioni dirette agli altri soggetti.
2.3. Le notificazioni all’imputato
La rilevanza costituzionale che riveste nel nostro ordinamento l’esercizio del diritto di difesa ha determinato la previsione di regole particolarmente stringenti per le notifiche all’imputato, finalizzate ad assicurare il più alto livello possibile di corrispondenza tra conoscenza formale dell’atto – attestata dall’avvenuta consegna dello stesso – e conoscenza sostanziale dello stesso e del suo contenuto.
La precedente disciplina codicistica, così, distingueva tra imputato detenuto e non detenuto e, con riferimento alla seconda ipotesi, la prima notifica (art. 157, commi da 1 a 8, c.p.p.) dalle successive (art. 157, comma 8 bis, c.p.p.).
Dopo la Riforma in commento resta inalterata la differenza tra imputato detenuto e non detenuto e quella ulteriore tra prima notifica e successive, ma viene aggiunta un’ulteriore peculiarità nel caso di notifica di atti contenenti la vocatio in ius dell’imputato.
2.3.1. La notifica all’imputato detenuto: l’art. 156 c.p.p.
Una lettura veloce e poco attenta del novello art. 156 c.p.p. potrebbe indurre all’erronea convinzione che nulla sul punto sia mutato: in realtà, però, la Riforma ha aggiunto poche parole, sufficienti tuttavia a dettare una regola generale e assoluta, tale per cui tutte le notificazioni all’imputato detenuto vanno effettuate mediante consegna di copia analogica.
Irrilevanti, pertanto, risultano eventuali dichiarazioni o elezioni di domicilio[8], ma, addirittura, anche la circostanza che si tratti di notifiche successive rispetto alla prima, in relazione alle quali la regola generale posta dal Legislatore è quella della notifica al Difensore.
Ciò costituisce la logica conseguenza della peculiare condizione nella quale si trova il soggetto ridotto in vinculis, non avendo lo stesso una totale libertà di relazione con il proprio Difensore, in considerazione del limite fisico dovuto alla restrizione patita: in questo senso, allora, si è preferito eliminare ogni intermediario rispetto alla conoscenza degli atti da parte dell’imputato, al quale va sempre consegnata copia di ciò che gli deve essere notificato.
Meno comprensibile, invece, risulta l’ulteriore previsione di cui al comma 3 dell’art. 156 c.p.p., che vieta le notifiche telematiche anche nel caso in cui l’imputato sia detenuto in luogo diverso dagli istituti penitenziari: in tali ipotesi recupera vigore ogni ulteriore modalità di notifica di cui all’art. 157 c.p.p. e, quindi, anche quella mediante consegna al Difensore, se sono stati forniti gli avvertimenti di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p. (di cui si dirà a breve).
Va, allora, evidenziato criticamente come, se la restrizione in carcere rende evidente l’impraticabilità delle notificazioni telematiche in favore dell’imputato, alla stessa conclusione non può giungersi rispetto all’eventuale notifica all’imputato che, per esempio, si trovi in stato di detenzione domiciliare e sia titolare di un indirizzo PEC inserito nei pubblici registri informatici o, comunque, indicato ai sensi dell’art. 161, comma 1 c.p.p.
2.3.2 La notifica degli atti introduttivi: l’art. 157 ter c.p.p. e la “fine dell’era gloriosa” di elezione e dichiarazione di domicilio
Analoga esclusione di ogni forma di notifica telematica è, poi, prevista dall’art. 157 ter c.p.p. per la comunicazione all’imputato non detenuto degli atti contenenti la vocatio in ius, ovvero:
- il decreto di fissazione dell’udienza preliminare;
- il decreto di citazione a giudizio di cui agli artt. 450, comma 2, 456, 552 e 601;
- il decreto penale di condanna.
In questi casi, allora, la notifica va fatta o presso il domicilio dichiarato o eletto oppure presso l’indirizzo PEC dall’imputato comunicati ai sensi dell’art. 161, comma 1, c.p.p.: in mancanza dell’acquisizione di tali indicazioni, quindi, la notifica deve essere effettuata secondo le modalità previste dall’art. 157 c.p.p.
Di particolare rilievo risulta, allora, anche il nuovo ruolo affidato dal Legislatore agli “approdi sicuri” solitamente rappresentati dalla dichiarazione o elezione di domicilio.
Risulta, infatti, solo parzialmente riproposto il tradizionale sistema delineato dalla precedente disciplina con l’art. 161, comma 1, c.p.p., posto che con l’entrata in vigore della Riforma, con il primo atto che si svolge alla presenza dell’indagato o dell’imputato, il Giudice, il P.M. o la Polizia giudiziaria invitano lo stesso a dichiarare o eleggere domicilio oppure ad indicare un indirizzo PEC (cioè un domicilio telematico) per la ricezione degli atti contenenti la vocatio in ius, con l’avviso che in caso di rifiuto, inidoneità o mutamento non comunicato di tali dati, si procederà alla notificazione al Difensore.
Orbene, accanto alla novità costituita dall’indirizzo PEC, balza in maniera prorompente come le dichiarazioni o elezioni di domicilio in esame producano un effetto limitato alla sola notifica degli atti di vocatio in ius: non a caso, l’art. 157 ter c.p.p. è l’unica norma relativa alla notifica degli atti all’imputato che richiama l’art. 161, comma 1, c.p.p.
D’altra parte, la limitazione dell’efficacia della dichiarazione o elezione di domicilio risulta espressamente delineata dall’art. 164 c.p.p., che non a caso recita: “La determinazione del domicilio dichiarato o eletto è valida per le notificazioni dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale, salvo quanto previsto dall’articolo 156, comma 1”.
Ne consegue che la dichiarazione o elezione di domicilio incide solo sulle notifiche degli atti introduttivi, per il resto trovando applicazione le modalità di cui all’art. 157 c.p.p. e cioè: notifica telematica; in via subordinata notifica al Difensore in presenza degli avvertimenti di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p. (anche forniti dall’Autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 157, comma 8 ter, c.p.p., come si dirà a breve); da ultimo, notifica a mani o nelle altre forme di cui all’art. 157 c.p.p.
Ulteriore conseguenza di quanto indicato è che la Polizia giudiziaria, nel primo atto che compie alla presenza dell’indagato – ad esempio l’arresto o il verbale di identificazione – deve procedere ad acquisire la dichiarazione o l’elezione di domicilio per gli atti introduttivi e a formulare l’avviso di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p., ove sia già in grado di indicare le norme violate e gli altri requisiti previsti da tale norma.
Volendo fare un esempio che si verificherà comunemente, allora, nel caso in cui la Polizia giudiziaria proceda a redigere un verbale di identificazione e in quella sede fornisca gli avvisi di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p., l’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p. sarà notificato dal P.M. tramite consegna al Difensore; diversamente, se la Polizia giudiziaria non ha fornito gli avvisi, la Pubblica Accusa – salvo l’ipotesi, in questa prima fase residuale, di una possibile notifica telematica al domicilio digitale - dovrà procedere nelle forme ordinarie poste dall’art. 157 c.p.p. anche in presenza di una dichiarazione o elezione di domicilio (anche telematico), inserendo altresì nell’atto l’avvertimento di cui al comma 8 ter dell’art. 157 c.p.p.; il successivo decreto di citazione diretta a giudizio dovrà, invece, essere notificato presso il domicilio eletto o dichiarato (anche telematico), salvo che le indicazioni fornite dall’imputato siano inidonee o mancanti, nel qual caso si dovrà procedere con notifica al Difensore ex art. 161, comma 4, c.p.p. o, in assenza di un contatto con l’imputato per la dichiarazione o elezione di domicilio, nelle forme di cui all’art. 157 c.p.p.
Ad ogni modo, dell’elezione di domicilio presso il Difensore deve essere immediatamente informato l’Avvocato ai sensi dell’art. 161, comma 4 bis, c.p.p. il quale, nel caso in cui sia nominato d’ufficio, deve accettare l’elezione affinché si perfezioni l’elezione ai sensi dell’art. 162, comma 4 bis, c.p.p.: sotto tale ultimo profilo, allora, la normativa è rimasta inalterata dopo la novella operata con la L. 103/2017, sebbene con la Riforma Cartabia sia stato aggiunto l’onere per il Difensore d’ufficio che rifiuta la domiciliazione di attestare l’avvenuta comunicazione del rifiuto all’imputato o le ragioni che hanno impedito tale comunicazione. Ad ogni modo, il mancato assolvimento a tale onere non risulta sanzionato e non può certamente condurre ad un perfezionamento dell’elezione, che, come indicato, richiede un’accettazione espressa.
2.3.3. Prima notifica all’imputato non detenuto di atti diversi da quelli contenenti la vocatio in ius: lettura combinata degli artt. 157 e 161, comma 01, c.p.p.
Al di fuori degli atti specificamente indicati all’art. 157 ter c.p.p., e pur continuando ad operare in generale la distinzione tra prima notifica e successive - già delineata nella vecchia disciplina – occorre ribadire come la regola introdotta dalla Riforma sia quella della notifica telematica, seguendo a tale via l’ipotesi subordinata della notifica al Difensore e in via estremamente subordinata quella nelle forme dell’art. 157 c.p.p.
L’art. 157 c.p.p., infatti, delimita il proprio ambito di operatività alle ipotesi di cui all’art. 148, comma 4, c.p.p., ovvero a quelle in cui la notifica telematica non possa essere effettuata per espressa previsione di legge, per l’assenza o l’inidoneità di un domicilio digitale o per problemi tecnici.
In simili circostanze, poi, trova applicazione la notificazione al Difensore, laddove all’indagato o imputato siano stati forniti gli avvertimenti di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p.
Tale disposizione - tralasciando la discutibile scelta di numerazione - prevede che con il primo atto compiuto alla presenza dell’indagato o dell’imputato, la Polizia giudiziaria, se è in condizione di farlo, gli indichi gli articoli di legge violati, la data e il luogo di consumazione del reato e l’Autorità procedente, avvisandolo che gli atti successivi saranno notificati al Difensore di fiducia o d’ufficio, al quale ha l’onere di comunicare i propri recapiti.
Nel caso in cui tale attività sia stata compiuta dalla Polizia giudiziaria, allora, anche la prima notificazione all’imputato non detenuto deve avvenire mediante consegna dell’atto al Difensore, come si può ricavare dall’interpretazione letterale dell’art. 157, comma 1, c.p.p., secondo il quale la prima notifica si deve effettuare a mani “all’imputato non detenuto, che non abbia già ricevuto gli avvertimenti di cui all’articolo 161, comma 01”. Solo nel caso di inoperatività di tale innovativo sistema, allora, la notifica dovrà essere effettuata all’imputato personalmente o nelle altre forme previste dall’art. 157 c.p.p., sostanzialmente analoghe a quanto previsto in passato (consegna a mani proprie, in via subordinata ad un convivente ecc.).
Proprio al fine di garantire la massima operatività del sistema di notifica semplificato al Difensore di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p., infine, il comma 8 ter dell’art. 157 c.p.p. prevede che l’Autorità giudiziaria che proceda alla prima notifica all’imputato che non abbia ricevuto in precedenza gli avvertimenti di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p. dalla Polizia giudiziaria, debba inserire l’avvertimento che le notificazioni successive – diverse da quelle contenenti la vocatio in ius - saranno effettuate al Difensore di fiducia o d’ufficio e dell’onere di comunicare i propri recapiti allo stesso.
2.3.4. Notifiche successive alla prima all’imputato non detenuto: l’art. 157 bis c.p.p.
La norma ha preso il posto del vecchio art. 157, comma 8 bis, c.p.p., in parte semplificando il quadro.
La nuova previsione, infatti, permette di effettuare – ad eccezione degli atti di vocatio in ius – le ulteriori notifiche al Difensore di fiducia o d’ufficio, mentre il vecchio art. 157, comma 8 bis, c.p.p. operava solo in caso di Difensore di fiducia.
Tale semplificazione, tuttavia, è soggetta a delle importanti limitazioni nel caso di Difesa d’ufficio: in tale ipotesi, infatti, la notifica degli atti successivi al primo mediante invio al Difensore opera solo laddove:
- l’imputato abbia ricevuto gli avvisi di cui agli artt. 161, comma 01, c.p.p. dalla Polizia giudiziaria o quelli di cui all’art. 157, comma 8 ter, c.p.p. dall’Autorità giudiziaria;
- vi sia stata, in assenza della condizione precedente, una precedente notifica a mani o la stessa sia stata effettuata in favore del convivente o del portiere.
In caso contrario (si immagini una notifica presso la Casa comunale), dovrà procedersi nelle forme dell’art. 157 c.p.p. e tale modalità dovrà continuare ad essere adottata finché non sia comunicato all’imputato l’avvertimento di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p. (o art. 157, comma 8 ter, c.p.p.) o si concretizzi una notifica a mani, al convivente o al portiere: da tale momento troverà applicazione il meccanismo semplificato, che permetterà di effettuare le successive notifiche mediante invio al Difensore.
2.3.5. Notifiche all’imputato irreperibile
Non risulta coinvolta da particolari innovazioni la disciplina delle notifiche all’irreperibile, restando identiche sia le ricerche che l’art. 159 c.p.p. impone prima dell’emissione del decreto di irreperibilità, sia la previsione delle notifiche al Difensore dopo l’adozione di tale provvedimento.
Viene, tuttavia, ridotto il periodo di efficacia del decreto di irreperibilità: prima della Riforma, infatti, il decreto emesso in sede di indagini perdeva efficacia con il provvedimento che definiva l’udienza preliminare o, nel caso di reato a citazione diretta, con la chiusura delle indagini preliminari.
Tale impostazione determinava che, per esempio, il G.u.p. potesse procedere sulla base dell’irreperibilità decretata dal P.M., sebbene per la notifica del decreto che dispone il giudizio – in quanto atto successivo al provvedimento definitorio dell’udienza preliminare – fosse richiesta l’emissione di un nuovo decreto di irreperibilità[9]; allo stesso modo, nei procedimenti a citazione diretta il P.M. che aveva decretato l’irreperibilità per la notifica dell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p. doveva procedere a nuove ricerche e all’emissione di un nuovo decreto di irreperibilità per la notifica del decreto di citazione a giudizio, posto che l’atto conclusivo delle indagini preliminari è costituito proprio dall’informazione di garanzia[10].
In questo sistema la Riforma Cartabia è intervenuta riducendo il tempo di efficacia del decreto di irreperibilità, che viene ancorato alla notificazione dell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p. – o, nel caso in cui questo manchi, alla chiusura delle indagini -: ne consegue che, in presenza di reati per i quali è prevista la celebrazione dell’udienza preliminare, ad un primo decreto di irreperibilità emesso dal P.M. in sede di indagini ne dovrà seguire uno ulteriore per la notifica del decreto di fissazione dell’udienza dinanzi al G.u.p.
2.4. Le notificazioni agli altri soggetti
La regola generale delle notificazioni telematiche ha determinato la riforma dell’art. 153 c.p.p., in conseguenza della quale le notifiche al P.M. vanno effettuate telematicamente sia dalle parti che dalla Cancelleria, salvo impedimenti tecnici che rendano necessaria la notifica di copia analogica.
Altra importante novità è costituita dalle notifiche alla persona offesa, rispetto alle quali la Riforma ha operato una distinzione a seconda che la stessa sia anche querelante.
Così, l’art. 153 bis c.p.p. disciplina le notifiche alla persona offesa querelante, disponendo che la stessa in querela[11] indichi un indirizzo PEC o formuli una dichiarazione o elezione di domicilio; un’eventuale inottemperanza in tale fase può, in ogni caso, essere successivamente sanata con una indicazione di tali dati mediante raccomandata autenticata da notaio o avvocato o tramite dichiarazione in Cancelleria o Segreteria, forme mediante le quali devono essere comunicate eventuali variazioni.
Ciò posto, ove la persona offesa querelante goda del patrocinio di un Difensore, la regola generale è costituita dalla notifica allo stesso: si tratta, evidentemente, di un’ipotesi residuale nella prassi, soprattutto per quanto attiene alla notifica degli atti introduttivi, quando raramente la persona offesa dispone già di una Difesa tecnica.
Ad ogni modo, la norma prevede che “le notificazioni al querelante che non ha nominato un difensore” siano eseguite secondo la regola generale introdotta dalla Riforma, ovvero in modalità telematica: solo nelle ipotesi di cui all’art. 148, comma 4, c.p.p. – ovvero ove manchi o sia inidoneo il domicilio digitale o vi siano impedimenti tecnici -, poi, potrà procedersi nelle forme della notifica dell’atto analogico presso il domicilio dichiarato o eletto.
La vera innovazione operata sul punto dalla Riforma e tesa ad uno snellimento delle notifiche è, allora, rappresentata dall’ipotesi in cui la persona offesa querelante non abbia né nominato un Difensore né dichiarato o eletto domicilio (o gli stessi siano inidonei o insufficienti): in questa ipotesi, infatti, si dovrà procedere alla notificazione mediante deposito in Cancelleria o Segreteria.
Emerge, allora, una responsabilizzazione della persona offesa querelante, la quale, dopo aver avviato la complessa macchina del processo, ha un onere di semplificare il proprio rintraccio da parte dell’Autorità giudiziaria, dovendo in caso contrario assumersi il rischio della mancata conoscenza del processo, con conseguente possibile frustrazione del proprio interesse a costituirsi parte civile. D’altra parte, la responsabilizzazione della persona offesa querelante nel progetto della Riforma è evincibile non solo nell’esclusione dell’impiego dei sistemi di ricerca di cui all’art. 157 c.p.p. nei suoi confronti, ma anche dalla novella previsione contenuta nell’art. 152, comma 3 n. 1, c.p., che individua un’ipotesi di remissione tacita di querela nella mancata comparizione senza giustificato motivo della persona offesa all’udienza nella quale è stata citata in qualità di testimone[12] .
Occorre ad ogni modo evidenziare come la disposizione transitoria di cui all’art. 86 del D.Lgs. 150/2022 abbia derogato con riferimento a tale disposizione di semplificazione al principio tempus regit actum, operante comunemente in tema di notificazioni.
Ed invero, dalla Relazione illustrativa alla Riforma emerge come l’operatività delle modalità semplificate di notificazione – mediante deposito in Cancelleria o Segreteria – costituisca la conseguenza del mancato assolvimento ad un obbligo imposto alla persona offesa querelante e del quale la stessa è stata messa a conoscenza con l’informativa che le è dovuta ai sensi del novello art. 90 bis c.p.p.: in assenza di tale obbligo, quindi, si è ritenuto di non far ricadere sulla persona offesa la conseguenza di tale omissione incolpevole, quantomeno con riferimento alle querele presentate in data antecedente all’entrata in vigore della Riforma, con conseguente operatività in simili ipotesi della tradizionale notifica nelle forme previste dall’art. 157 c.p.p.
Con orientamento condivisibile, tuttavia, l’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte Suprema di Cassazione[13] ha precisato che, trattandosi di disposizione transitoria e, quindi, di stretta interpretazione ai sensi dell’art. 14 delle preleggi, la stessa operi esclusivamente nei casi di mancata dichiarazione o elezione di domicilio e non anche nelle diverse fattispecie di domicilio insufficiente o inidoneo: in tale ipotesi, allora, troverà applicazione la notificazione con modalità semplificata, ovvero quella mediante deposito in Cancelleria o Segreteria.
L’art. 154 c.p.p. disciplina, invece, la differente ipotesi della notifica alla persona offesa non querelante.
In questo caso, ove manchi la nomina di un Difensore e non siano stati indicati (o sono insufficienti o inidonei) dalla persona offesa un domicilio dichiarato o eletto, ritornano a trovare applicazione i meccanismi di cui all’art. 157 c.p.p.: il deposito in Cancelleria o Segreteria, pertanto, ritorna ad essere una via residuale.
In caso di conoscenza di un indirizzo all’estero, infine, la persona offesa deve essere invitata con raccomandata con avviso di ricevimento a dichiarare o eleggere domicilio nel territorio dello Stato o ad indicare un indirizzo PEC per le notifiche, con l’avviso che in mancanza (o insufficienza o inidoneità) di tali comunicazioni nel termine di venti giorni, si procederà mediante deposito in Cancelleria o Segreteria.
Da ultimo e conclusivamente, si precisa come le notificazioni alla parte civile, al responsabile civile e al civilmente obbligato per la pena pecuniaria che si siano già costituiti in giudizio sono eseguite mediante invio al Difensore. Il responsabile civile e il civilmente obbligato per la pena pecuniaria non ancora costituiti, poi, riceveranno la notifica telematica e, laddove non dispongano di un domicilio digitale, hanno l’obbligo di dichiarare o eleggere domicilio nel luogo in cui si procede o indicare un indirizzo PEC, pena l’operatività della forma semplificata di notificazione con deposito in Cancelleria.
2.5. Nuove nullità delle notificazioni
L’ingresso di nuove modalità di notificazione come quella telematica e l’estensione generalizzata della notifica al Difensore anche per la prima notifica – ad eccezione degli atti contenti la vocatio in ius – nel caso in cui siano stati forniti gli avvertimenti di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p., ha imposto la previsione all’art. 171 c.p.p. di due nuove ipotesi di nullità delle notificazioni, ovvero quelle della:
- notifica telematica che non rispetti i requisiti di cui all’art. 148 comma 1 c.p.p., ovvero avvenuta con modalità tali da non assicurare l’identità di mittente e destinatario, l’integralità del documento trasmesso e la certezza, anche temporale, dell’avvenuta trasmissione e ricezione;
- notifica al Difensore senza che sia stato dato l’avviso all’imputato di tale modalità di notifica dalla Polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 161, comma 01, c.p.p. o dall’Autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 157, comma 8 ter, c.p.p.
2.6. Conclusioni: la potenza del “Mostro verde” e la sconfitta dei suoi avversari
Alla luce delle riflessioni fin qui esposte, non può che evidenziarsi come, a fronte del meritorio sforzo di semplificazione, il “Mostro verde” sia stato ferito, ma non abbattuto.
Ed invero, da un lato è sicuramente un passo verso la semplificazione l’individuazione di una disciplina del deposito in Cancelleria degli atti diretti alla persona offesa in tutte le ipotesi sopra descritte; nello stesso senso, poi, depone la generale estensione delle notifiche al Difensore, con la previsione della possibilità di procedere in tal modo anche con riferimento alla prima notifica all’imputato non detenuto che abbia ricevuto gli avvertimenti di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p. (sempre che non si tratti di atti di vocatio in ius).
Dall’altro lato, però, risulta attualmente inapplicabile la disciplina delle notificazioni telematiche e, anche quando la stessa verrà puntualmente disciplinata nei suoi tratti operativi, non può che evidenziarsene il limite operativo, a fronte di una non obbligatorietà per ogni cittadino di dotarsi di un indirizzo PEC da inserire nel registro INAD. Ne consegue che la semplificazione telematica in esame sarà limitata ai pochi casi di notifiche a professionisti, imprese e P.A., per il resto continuando a trovare applicazione nella maggior parte dei casi la disciplina ante riforma.
Tale conclusione emerge con tanto maggiore prorompenza nei casi di espressa esclusione legislativa di ricorso alle notifiche telematiche, ovvero non solo nelle ipotesi – comprensibili - di imputato detenuto, ma anche di notifica degli atti di vocatio in ius all’imputato non detenuto: tale ultima scelta, sebbene orientata a garantire la certezza della conoscenza dell’atto da parte dell’imputato, palesa una profonda diffidenza verso la tecnologia, a dire il vero del tutto inspiegabile.
Ed infatti, il Legislatore ha ritenuto più garantista accertare che l’imputato abbia ricevuto la notifica in una delle forme di cui all’art. 157 c.p.p. che non presso la propria casella PEC inserita in pubblici registri, modalità che restituisce la certezza di ora e giorno dell’avvenuto invio e della consegna al destinatario: tralasciandosi l’ipotesi – in vero residuale nella prassi, se non si ricorre alla notifica per il tramite della Polizia giudiziaria - della consegna in mani proprie, allora, come può ritenersi che la consegna ad un perfetto estraneo, come il portiere dello stabile, garantisca maggiormente l’imputato rispetto al recapito dello stesso atto nella casella PEC di quest’ultimo, e, quindi, nella maggior parte dei casi, direttamente nel taschino della giacca, dei pantaloni o della borsa dove custodisce lo smartphone?
Dinanzi ad una simile considerazione, ancora più paradossale nei casi estremi di deposito dell’atto presso la casa comunale o, addirittura, di compiuta giacenza del plico inviato tramite il servizio postale, può, allora, concludersi come con riferimento alle ipotesi più importanti – in quanto incidenti anche sull’eventuale dichiarazione di assenza – di notifica degli atti introduttivi all’imputato si sia preferito mantenere quel sistema arcaico che è causa della lentezza dell’instaurazione del contraddittorio e che con la Riforma si intendeva scardinare.
Dovremo, quindi, continuare a fare i conti col “Mostro verde”, che, silenzioso e spesso sottosopra tra le mani dei meno esperti, continuerà a guardare con ancora maggiore arroganza il povero Magistrato in tirocinio, consapevole di essere sopravvissuto anche alla modernità.
[1] Con riferimento alla Russia di Caterina II, definita un “colosso dai piedi di argilla”.
[2] Recependo l’art. 1, comma 5 lett. a), della legge delega, secondo il quale era demandato al Legislatore delegato il compito di “[...] prevedere che nei procedimenti penali in ogni stato e grado il deposito di atti e documenti, le comunicazioni e le notificazioni siano effettuati con modalità telematiche; prevedere che le trasmissioni e le ricezioni in via telematica assicurino al mittente e al destinatario certezza, anche temporale, dell’avvenuta trasmissione e ricezione, nonché circa l’identità del mittente e del destinatario; prevedere che per gli atti che le parti compiono personalmente il deposito possa avvenire anche con modalità non telematica”.
[3] Si tratta del testo unico denominato Codice dell’Amministrazione Digitale, istituito con il D.Lgs. 82/2005 e successivamente modificato e integrato con il D.Lgs. 179/2016 e, da ultimo, con il D.Lgs. 217/2017.
[4] Di cui all’art. 6 bis del C.A.D., richiamato dall’art. 16 ter del D.L. 179/2012.
[5] Previsto dall’art. 16 co. 12 del D.l. 179/2012.
[6] Indicato dall’articolo 6 ter del D.Lgs. 82/2005, dopo le modifiche dettate dall’art. 28 del D.L. 76/2020 che ha modificato l’art. 16 del D.L.179/2012.
[7] Definito dall’art. 1, lett. p-bis) del C.A.D. come “la rappresentazione non informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”.
[8] In linea con quanto graniticamente sostenuto dalla Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 12778 del 27.02.2020 - dep. 22.04.2020 - Rv. 278869 - 01
[9] In tal senso, ad esempio, Cass. Pen., Sez. 5, sentenza n. 50080 del 14.09.2017 - dep. 02.11.2017 - Rv. 271540 – 01.
[10] Impostazione accolta, ex multis, da Cass. Pen., Sez. 4, sentenza n. 29771 del 24.03.2015 - dep. 10.07.2015 - Rv. 264042 – 01.
[11] Avendo ricevuto gli avvisi di cui all’art. 90 bis, comma 1 lettere da “a bis)” fino ad “a quinquies)”, c.p.p.
[12] Tale previsione, in realtà, costituisce la positivizzazione di un granitico orientamento giurisprudenziale, da ultimo sostenuto da Cass. Pen., Sez. 4, sentenza n. 5801 del 29.01.2021 - dep. 15.02.2021 - Rv. 280484 – 01. Deve, però, evidenziarsi come risulti innegabile il vantaggio derivante dalla previsione normativa di tale ipotesi di revoca tacita, posto che in tal modo si elimina l’ulteriore passaggio imposto in precedenza, ovvero la notificazione della citazione con l’avviso espresso che non comparendo senza addurre una giustificazione, il comportamento della persona offesa sarebbe stato inteso quale condotta incompatibile con la volontà di coltivare il processo.
[13] Relazione n. 68/2022 del 07.11.2022, pag. 12.
L’Ufficio per il processo: la parola ai funzionari (la Corte d’Appello penale)
Intervista di Ernesto Aghina a Ilaria Buonaguro (Napoli) e Domenico D’Agostino (Reggio Calabria)
Proseguendo nella disamina delle valutazioni sulla funzionalità dell’Ufficio per il processo offerte dai funzionari chiamati a comporlo (iniziate su questa rivista con la Corte di Cassazione: L’Ufficio per il processo: la parola ai funzionari (la Corte di Cassazione), si offrono ora le considerazioni di alcuni funzionari delle Corti d’Appello (di Napoli e di Palermo) che espongono le specifiche attività loro demandate, le principali criticità emerse nella fase di esordio, il rapporto tra supporto ai giudici ed alle cancellerie e (soprattutto) alle modalità di affiancamento alla specifica attività giudiziaria, in cui si rileva la principale difformità organizzativa tra i vari uffici.
Il confronto delle risposte offerte, per il settore penale, dalla dott.ssa Ilaria Buonaguro (per la Corte d’Appello di Napoli) e dal dott. Domenico D’Agostino (per la Corte d’Appello di Palermo), attivi in uffici molto gravati da un arretrato particolarmente complesso.
Nel campione analizzato si evidenziano non poche differenze operative (ad es. riferibili alla percentuale di attività demandata al supporto della cancelleria, alla partecipazione all’udienza), ma resta comune l’entusiasmo per l’attività di collaborazione intrapresa e la percezione dell’utilità dell’apporto agli uffici.
Anche nel settore penale vengono evidenziate diffuse criticità di carattere logistico ed il disagio per le progressive scoperture degli organici, ragionevolmente (e del tutto prevedibilmente) derivate dall’accesso a situazioni lavorative meno precarie.
Resta costante la richiesta di un intervento inteso a garantire la continuità operativa dell’U.P.P.
Più in generale, per una verifica dell’attività degli U.P.P.P., si segnala l’analisi operata dall’A.N.M. (se pure relativa ad un campione ridotto di distretti), in occasione del recente congresso nazionale, e consultabile sul sito web: Microsoft PowerPoint - Presentazione_UPP_XIV_CommissioneANM _ 6.1.pptx (associazionemagistrati.it) .
1. La formazione iniziale è risultata coerente rispetto alle attività da svolgere?
(BUONAGURO) La formazione dei funzionari dell’Ufficio per il processo della Corte d’Appello di Napoli si è innanzitutto articolata in una parte teorica, svolta da remoto nel corso di una settimana circa, e di una parte pratica, proseguita nelle cancellerie delle sezioni di rispettiva assegnazione. Per quanto riguarda la parte c.d. teorica, essa è consistita in primo luogo in una serie di lezioni online, fruibili su una piattaforma creata ad hoc dal Ministero; in secondo luogo ed a completamento delle lezioni, nella consultazione di materiale vario, reso disponibile sulla pagina personale del dipendente. In entrambi i casi era possibile “misurarne” lo stato di avanzamento, senza tuttavia esservi un vero e proprio monitoraggio dello stesso. Infine, si è dato corso ad una serie di webinar facoltativi, e di cui si è inteso precisare la natura meramente informativa, in quanto tenuti da personale tecnico di supporto del Ministero, e vertenti principalmente sull’uso di applicativi informatici.
La parte c.d. pratica invece è consistita nell’affiancamento dei cancellieri o assistenti giudiziari nello svolgimento delle principali attività amministrative.
Ricostruito così brevemente il quadro formativo, ciò che è emerso è stata una pressoché totale assenza di corrispondenza tra i contenuti delle lezioni online e le mansioni poi svolte dai funzionari dell’U.P.P., quantomeno nell’ambito del settore penale della Corte d’Appello di Napoli.
Le lezioni infatti, tenute esclusivamente da personale amministrativo, hanno impegnato argomenti, come ad esempio gli adempimenti relativi alle spese di giudizio e al c.d. foglio notizie, che non hanno avuto attinenza alcuna con le attività poi concretamente assegnate agli addetti U.P.P., essendo l’esecuzione dei provvedimenti divenuti definitivi, così come quella in materia di spese di giustizia rimasta appannaggio dei funzionari giudiziari e di altro personale.
Per quanto riguarda la formazione prettamente giuridica, invece, va detto che essa, in senso proprio, è in realtà mancata, probabilmente (si può provare ad ipotizzare) in considerazione dei titoli già acquisiti e delle esperienze formative pregresse della maggior parte dei funzionari dell’U.P.P. Pertanto, il lavoro di supporto alla giurisdizione si è andato costruendo, in un primo momento, sulla base di indicazioni provenienti rispettivamente dal Presidente di sezione, dal Presidente di collegio e sulla base di ordini di servizio interni; ed, in un secondo momento, in forza del rapporto diretto col magistrato assegnatario.
(D’AGOSTINO) La formazione iniziale, sia quella su piattaforme online predisposte dal Ministero della Giustizia, Dipartimento delle risorse umane e/o dalla D.G.S.I.A., che quella in presenza presso le cancellerie e quella con l’ausilio dei magistrati, nonostante abbia avuto carattere necessariamente generalista, è stata ampiamente idonea a prepararci per i successivi compiti da svolgere in relazione all’incarico che ciascun addetto all’ufficio per il processo ha avuto assegnato.
2. Quale il rapporto percentuale tra attività di supporto alla cancelleria e ai giudici?
(BUONAGURO) Nel caso specifico della Corte d’Appello di Napoli, ed in particolare dell’ufficio della mia sezione, il rapporto percentuale tra attività di supporto alla cancelleria e attività di supporto ai giudici tende, allo stato attuale, ad equilibrarsi, tenuto conto di due fattori.
In primo luogo, l’introduzione delle giornate di lavoro in regime di smart working, accompagnate allo stesso tempo dalla previsione, contenuta in un apposito ordine di servizio, di dedicare tali ore lavorative esclusivamente alla attività di supporto al proprio magistrato. Questo ha avuto fin da subito il prioritario vantaggio di realizzare una separazione più netta tra le due tipologie di attività e il tempo da assegnare alle stesse, evitando una caotica commistione delle mansioni da svolgere all’interno dell’ufficio (da intendersi, in questo caso, come luogo fisico), considerato altresì che l’alternanza tra le due tipologie di attività era da sempre stata lasciata, da una parte, all’autonomia di ciascun funzionario U.P.P., dall’altra continuamente subordinata alle esigenze estemporanee dell’ufficio, tanto di natura amministrativa quanto di supporto al lavoro dei giudici.
In secondo luogo, le giornate di udienza (in regime di una o due udienze a settimana) costituiscono occasione di confronto con i rispettivi giudici e di assistenza nello svolgimento di alcune specifiche attività di tipo giurisdizionale.
In tal modo, la ripartizione delle due diverse attività segue, a grandi linee, il seguente “schema organizzativo”: due (o una, a seconda della scelta del singolo funzionario U.P.P.) giornate di lavoro in regime di smart working, destinate ad attività di supporto al proprio giudice assegnatario; una o due giornate di udienza dedicate in parte ad attività amministrativa, in parte al lavoro “di affiancamento” al giudice; ed, infine, una o due giornate dedicate esclusivamente all’attività amministrativa.
(D’AGOSTINO) È difficile dare una risposta univoca e completa, nonché esaustiva per l’intero Ufficio Giudiziario Corte di Appello di Reggio Calabria, riscontrandosi notevoli differenze fra il settore penale e quello civile, fra la sezione lavoro e la sezione civile, fra la Corte d’Appello e la Corte d’Assise e la Corte di Assise di Appello. Ciò posto la percentuale minima di attività di supporto ai giudici non scende mai al di sotto del 50%, assestandosi, per quanto riguarda la Corte di Assise e la Corte di Assise di Appello, a circa il 90%; mantenendosi a circa il 70% per quanto riguarda la seconda sezione penale ed a circa il 55-65% per quanto riguarda la prima sezione penale, a seconda dei periodi e dei carichi di lavoro della cancelleria.
3. Quali compiti ti sono concretamente attribuiti nella collaborazione all’attività giudiziaria? Partecipi all’udienza?
(BUONAGURO) Le mansioni individuate per coadiuvare lo svolgimento dell’attività giurisdizionale sono state assegnate, indistintamente, a tutti i funzionari della mia sezione – sebbene alcune differenze in relazione al singolo magistrato assegnatario comunque sussistano – e coprono un ventaglio molto ampio e diversificato di attività. In particolare, esse spaziano dalla redazione dei decreti di citazione e delle schede ex art. 165 disp. att. c.p.p. alla redazione dei dispositivi d’udienza, e ancora dalla redazione dei decreti di ammissione al gratuito patrocinio e dei decreti di liquidazione, fino alla redazione delle sentenze di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione, alla redazione delle ordinanze in materia di incidenti d’esecuzione adottate de plano ai sensi del combinato disposto degli artt. 676 e 667, co. 4 c.p.p., e alla redazione delle relazioni introduttive delle cause e delle bozze di sentenze ordinarie.
Per quanto riguarda specificamente la redazione delle sentenze ex art. 129 c.p.p., si tratta di un lavoro massiccio che ha coinvolto i funzionari del mio ufficio, così come di tutta la Corte d’Appello di Napoli, fin dal nostro ingresso e che ci ha impegnato in particolare nei primi mesi di “avviamento” del nuovo ufficio. Il lavoro è consistito innanzitutto nella fase preliminare del calcolo della prescrizione (con una meticolosa verifica delle cause e dei relativi periodi di sospensione ex art. 159 c.p.p.) relativi ai fascicoli assegnati alla sezione a partire dal 2016 e non ancora definiti.
In tal modo si è consentito di avere una reale contezza della mole effettiva dei processi realmente pendenti, abbattendo significativamente il numero di partenza mediante la successiva ed ultima fase delle redazione e deposito della sentenze ex art. 129 c.p.p.
Per quanto attiene al mio caso specifico, essendo stata assegnata al Presidente di sezione, mi occupo inoltre di una serie di attività connesse ai fascicoli di nuova assegnazione, che consistono, anche in questo caso, nel calcolo della prescrizione, come pure – nel caso di imputati sottoposti a misura cautelare – nel calcolo dei termini di cui all’art. 303 c.p.p. e, ove necessario, nella redazione di ordinanze di sospensione dei predetti termini di custodia.
Sulla base della mia esperienza posso affermare che non è prevista, per tutti i funzionari dell’ufficio della mia sezione, la partecipazione all’udienza né alle camere di consiglio, e tanto vale, a quanto mi consta, per i funzionari di tutta la Corte d’Appello.
(D’AGOSTINO) Oggi a regime collaboro a 360 gradi con il collegio a cui sono stato assegnato assieme ad altri 3 colleghi (partecipo all’udienza, sia come uditore, sia come assistente d’udienza, partecipo alla camera di consiglio con interattività piena con il Collegio Giudicante, predispongo le bozze della sentenze di tutti i fascicoli dei quali mi occupo, sia di quelli “in odore” di prescrizione che di quelli ordinari, redigo e collaboro con i giudici per tutti in provvedimenti interlocutori – decreti, ordinanze – e nei provvedimenti “accessori” ai fascicoli processuali – istanze relative all’esecuzione dei provvedimenti cautelari in attesa del giudizio di appello, istanze di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, istanze di liquidazione del patrocinio a spese dello Stato), dopo un percorso graduale che mi ha visto dapprima coadiuvare la cancelleria (io sono assegnato alla prima sezione penale), poi predisporre le bozze delle sentenze c.d. “pre-dibattimentali”, successivamente curarne tutto l’iter fino alla irrevocabilità ed alla restituzione del fascicolo al primo grado, nonché alla predisposizione di tutti gli adempimenti esecutivi.
4. Lo smart-working è utilizzato? Se sì, in che rilievo? È stato utile? E che tipo di attività è stata assegnata?
(BUONAGURO) Quasi allo scadere del periodo di formazione, della durata di quattro mesi – svolto prevalentemente in presenza – a partire dalla data del 6 giugno è stato dato avvio ad un periodo di prova, della durata di quattro settimane, del lavoro c.d. agile, da svolgere fino ad un massimo (a scelta del singolo funzionario U.P.P.) di due giorni settimanali. I giorni (o il giorno) di smart working sono stati individuati discrezionalmente da ciascun funzionario – ma, allo stesso tempo, d’intesa col proprio magistrato assegnatario – sulla base di un prospetto interno della sezione (elaborato dai medesimi funzionari dell’Ufficio), che tenesse conto tanto della cadenza settimanale delle udienze, quanto delle esigenze di carattere amministrativo dell’ufficio, e facendo in modo di garantire sempre la presenza di un numero adeguato di funzionari. È seguita poi l’approvazione del presidente di Sezione, del direttore amministrativo ed infine del dirigente amministrativo.
Come già detto sub 2), le ore di smart working sono state destinate sin da subito ed esclusivamente alle attività di supporto alla giurisdizione – e, fra queste, principalmente alla redazione di bozze di sentenze – con una serie di effetti positivi sull’andamento del lavoro dell’Ufficio e sulla distribuzione del carico.
In particolare, scegliendo di riservare al lavoro da remoto le attività per cui è necessariamente richiesta una maggiore concentrazione e uno studio approfondito da parte dei funzionari, si è realizzata una auspicata più netta cesura tra le ore da dedicare all’una piuttosto che all’altra tipologia di attività di competenza del medesimo ufficio. Non solo. L’introduzione dello smart working ha di fatto intensificato il rapporto con il proprio giudice assegnatario, responsabilizzando i funzionari rispetto all’obiettivo di redazione di bozze di provvedimenti e consentendo, al tempo stesso, un margine di flessibilità nella gestione del tempo da dedicarvi.
In ultimo, l’introduzione del lavoro agile ha consentito una migliore gestione degli spazi destinati all’ufficio, spazi – come ben si sa, e come avvenuto nel caso della mia sezione – ricavati da locali precedentemente in uso ad altri uffici e non sempre pienamente e tempestivamente adeguati ad accogliere, proprio da un punto di vista numerico, il nuovo personale.
L’esito ampiamente positivo dello smart working, anche in termine di resa della produttività dell’ufficio, è certamente confermato dalla proroga dello stesso fino alla fine dell’anno, decisa dalla dirigenza amministrativa alla scadenza del periodo di prova.
(D’AGOSTINO) Lo smart-working è stato utilizzato in fase di formazione e nel prosieguo dell’emergenza pandemica anche per due giorni a settimana ed è stato particolarmente utile per approfondire la formazione teorica attraverso le piattaforme predisposte dal Ministero della Giustizia. Attualmente, terminata l’emergenza pandemica, in linea con le direttive ministeriali, noi addetti UPP siamo in lavoro agile per un giorno a settimana, durante il quale, oltre all’attività di formazione, riusciamo ad espletare quasi tutte le funzioni tipiche rientranti nelle nostre mansioni: in particolare i colleghi, applicati alla sezione civile ed alla sezione lavoro e previdenza, riescono a espletare tutti i compiti, grazie al P.C.T. che consente loro di svolgere tanto la funzione para-giurisdizionale e di supporto alla giurisdizione, quanto la funzione para-amministrativa e propriamente amministrativo-burocratica di supporto alle cancellerie da remoto; mentre per noi applicati al penale, non tutte le funzioni ed i compiti possono essere espletati da remoto, soprattutto quelli legati allo smaltimento dell’arretrato o comunque collegate alla consultazione di fascicoli esclusivamente cartacei, allo spoglio dei fascicoli, all’espletamento di funzioni da svolgersi in presenza quali il ricevimento dell’utenza, qualificata e non, avvocati e cittadini, il rilascio di copie cartacee dei provvedimento, il deposito/pubblicazione dei provvedimenti, la notifica dei provvedimenti, la partecipazione alle udienze, le riunioni con esterni all’amministrazione giudiziaria e così via dicendo.
5. L’organizzazione dell’UPP prevede una attribuzione del funzionario al singolo magistrato o alla materia? Quali i vantaggi o le criticità della scelta organizzativa adottata?
(BUONAGURO) In base ad un provvedimento interno a firma del Presidente di sezione, di poco successivo all’avvio dell’Ufficio, ciascun funzionario dell’U.P.P. è stato assegnato ad un collegio e, all’interno di questo, ad un singolo magistrato, il quale, pertanto, è divenuto il referente tendenzialmente esclusivo del compendio di attività di natura giurisdizionale.
Il vantaggio indubbio che ne è conseguito è stato, anche in questo caso, una migliore e più ordinata distribuzione del carico di lavoro dell’ufficio, creando una prima divisione dei fascicoli da “gestire” sulla base del giudice relatore, responsabilizzando ciascun funzionario U.P.P. rispetto al magistrato di propria assegnazione e contribuendo ad alimentare il confronto tra giudice e funzionario U.P.P., in vista di un obiettivo condiviso.
(D’AGOSTINO) In Corte ciascuna sezione ha adottato una scelta organizzativa differente: nella prima sezione penale e nella assise ed assise d’appello si è privilegiato il lavoro di gruppo o di equipe, in quanto gruppi di funzionari, composti da 3-4 persone, sono assegnati ai collegi che si compongono per l’espletamento delle funzioni giurisdizionali. Nello specifico, l’assegnazione al singolo magistrato crea una collaborazione simbiotica magistrato/UPP di modo che la produzione giurisdizionale accelera progressivamente migliorando quantitativamente e qualitativamente in relazione al rapporto di fiducia personale che si crea fra i due operatori del diritto, assolutamente fondamentale per l’efficacia e l’efficienza dell’UPP, in quanto la responsabilità dei provvedimenti è e resta sempre in capo al magistrato, che avrà meno disponibilità a “fidarsi” del funzionario qualora i rapporti siano occasionali e frammentari, anziché continui e strutturati. Invece, l’assegnazione per gruppi, teams o equipe, adottata da una parte della Corte di Appello di Reggio Calabria, ha il merito di inserire i funzionari stabilmente nella “vita” della sezione e del collegio di assegnazione, facendoli di fatto diventare dei “magistrati aggiunti”. In sostanza il primo metodo descritto, più in linea con lo spirito ed il dettato normativo mira, a lungo andare, a creare l’Ufficio per il Processo, composto da più soggetti ed in tale contesto a formare i funzionari quali componenti dell’Ufficio con connotazione “ibrida”, prevalentemente giurisdizionale ma anche di raccordo con l’attività di cancelleria fino alla sostituzione e/o surroga dei compiti della cancelleria nei casi di necessità, di urgenza o di sostituzione, vera e propria, delle unità di personale adibite ai servizi di cancelleria.
Il secondo metodo tende a indirizzare i funzionari UPP verso una sorte di uditorato giudiziario preparatorio all’accesso alla carriera nella magistratura ordinaria o anche in quella onoraria.
La soddisfazione complessiva tanto dei funzionari UPP da un lato che dei magistrati dall’altro dimostrano che, allo stato, non si siano per nulla rilevate criticità di sorta, nonostante la eterogeneità dei metodi di svolgimento e delle articolazioni dell’UPP per ogni singola e diversa sezione giurisdizionale.
6. Le mansioni svolte si sono rivelate in linea con le tue aspettative?
(BUONAGURO) Certamente non tutte le mansioni svolte si sono rivelate coincidenti con le aspettative riposte sull’ufficio di nuova costituzione. Prime fra tutte, con buona evidenza, le mansioni di natura amministrativa, seppur anticipate dal ricchissimo mansionario stilato e diffuso dal Ministero della Giustizia.
Per quanto attiene invece alle attività di supporto alla giurisdizione, le mansioni svolte si sono rivelate anche in questo caso numerosissime e lontane, in alcuni casi, dallo studio “puramente” finalizzato alla scrittura di bozze di provvedimenti. Ma si è trattato, nel mio caso e secondo il mio punto di vista, di lacune che sono contenta di aver colmato e che hanno contribuito al completamento della mia formazione lato sensu giuridica.
(D’AGOSTINO) Assolutamente si. Dopo il periodo iniziale nel quale, di fronte a molte incertezze ermeneutiche sull’interpretazione normativa della disciplina dell’UPP, soprattutto in fase sperimentale di prima applicazione, che hanno dato vita a non pochi malumori ed a veri e propri “conflitti” sul ruolo, sulle funzioni e sull’impiego dei funzionari addetti all’UPP, grazie alla sinergia fra l’apparato giurisdizionale e quello burocratico-amministrativo, nonché grazie ai chiarimenti forniti dal Dipartimento risorse umane del Ministero della Giustizia, le mansioni svolte si sono correttamente incanalate verso la ratio costitutiva dell’UPP e cioè il supporto giurisdizionale a 360 gradi, completato dalla collaterale erogazione dei servizi di cancelleria, intesi come funzionali alla maggiore efficacia ed efficienza della giurisdizione e come necessari ad evitare il “collasso” della struttura di cancelleria, già di per sé oberata dalle ordinarie incombenze, che, mai, avrebbe potuto sopportare il peso di un così importante incremento produttivo dell’attività giurisdizionale.
7. Quali sono state le maggiori criticità riscontrate nello svolgimento del lavoro?
(BUONAGURO) Inizialmente le maggiori criticità hanno riguardato, come già fatto emergere in precedenza, la commistione (e alle volte, più propriamente, la confusione) delle attività da svolgere in mancanza di una compiuta organizzazione; il problema logistico e, dunque, la condivisione degli spazi, non sufficientemente adeguati e in ritardo rispetto alla presa di possesso dei funzionari U.P.P; e, troppo spesso, il mancato coordinamento tra i magistrati e i responsabili dell’attività amministrativa.
Si tratta indubbiamente di difficoltà insite, da una parte, nella creazione e messa in atto di un ufficio pubblico nuovo; dall’altra, tali difficoltà sono state acuite dalla c.d. natura ibrida dell’ufficio e dalla ricerca di un equilibrio tra le sue componenti, spesso però lasciata all’improvvisazione e rimessa alle emergenze del quotidiano.
(D’AGOSTINO) Le maggiori criticità riscontrate nello svolgimento del lavoro possono essere riassunte in due tronconi: uno comune a tutti gli uffici giudiziari perché tipico della struttura dell’amministrazione giudiziaria italiana, mentre l’altro tipico del distretto giudiziario e dell’ufficio giudiziario cui appartengo.
Per quanto riguarda la criticità di sistema si deve segnalare l’enorme differenziazione esistente e sempre più crescente fra l’area penale e quella civile: l’informatizzazione e la telematizzazione del processo, in origine pensata per il penale, è oggi realtà consolidata nell’area civile, senza alcuna problematica rilevante o disfunzionalità grave, ma, semmai, con grande soddisfazione dell’utenza; purtroppo ciò non è vero, per nulla, per quanto concerne l’area penale.
Il proliferare di applicativi, spesso non comunicanti fra loro, la mancanza di logica unitaria di sistema, ancor oggi, impedisce al processo penale di sganciarsi dalla carta e da tutto ciò che ne consegue.
E’ fin troppo evidente il conseguente corollario a cascata sull’UPP: esiste un UPP civile, lavoro e previdenza con annessa protezione internazionale implementabile con altre materie e procedimenti, futuribile, snello, funzionale, insomma come si direbbe oggi smart; e per contro esiste un UPP penale che grava sulle spalle dei funzionari, costretti a fare letteralmente i salti mortali e sforzi fisici rilevanti per la “movimentazione dei fascicoli”, insomma di fronte a chi corre sempre più veloce per anticipare il futuro, c’è chi arranca ed a stento cammina, sotto il peso di decine di chili di carta.
Per quanto riguarda il Distretto di Reggio Calabria, alla criticità “comune”, si aggiunge la carenza, l’assenza e l’inidoneità delle sedi giudiziarie. Il PNRR ha previsto solo come ultimo step l’edilizia giudiziaria: in molti distretti ciò potrà essere la “ciliegina sulla torta” per l’UPP; a Reggio Calabria ed in molti distretti del sud Italia manca proprio la “torta”.
Nel nostro caso specifico, l’assenza di idonei ed adeguati spazi-lavoro rallenta di molto ed impedisce in alcuni casi il corretto svolgimento delle funzioni. In quest’ottica, il completamento del nuovo palazzo di giustizia avrebbe dovuto essere necessariamente ed assolutamente preliminare anche alla presa di servizio dei funzionari addetti UPP.
8. Si è avuta una generale percezione dei progressi organizzativi e operativi dell’ufficio di appartenenza?
(BUONAGURO) Una volta concluso il periodo di formazione e così potendo iniziare l’U.P.P. a lavorare a pieno regime, i risultati dell’impiego delle risorse del mio ufficio sono risultati immediatamente visibili. In particolare, il lavoro, di cui si è già detto, relativo alle prescrizioni e alle correlate sentenze ex art. 129 c.p.p., ha avuto un impatto immediato sulla quantità di fascicoli presenti nella cancelleria della sezione, residuando ormai i soli fascicoli utilmente fissati sul ruolo.
A tale lavoro, aggiungo, ne è inoltre seguito un altro, del medesimo impatto in termini di numeri, che è stato denominato direttamente da parte della dirigenza amministrativa congiuntamente alla presidenza della Corte d’Appello di “bonifica delle false pendenze”, consistito nella verifica sul Sistema Informativo della Cognizione Penale dei processi effettivamente pendenti presso la sezione, a partire da una lista predisposta dall’ufficio di statistica. Anche all’esito di tale lavoro meticoloso di controllo e di raffronto di dati, si è constatata l’esistenza di un numero di processi realmente pendenti di gran lunga inferiore rispetto a quello indicato inizialmente (ed erroneamente) dall’ufficio di statistica.
Anche il contributo prestato all’attività amministrativa ha prodotto subito i suoi effetti. Essi si riscontrano agilmente nel numero di processi che sono trattati per singola udienza e nel maggior numero di notifiche regolari, così come nei tempi più rapidi del deposito dei provvedimenti (nonostante – è giusto dirlo – il numero elevato degli stessi) il cui incremento è a sua volta dovuto all’apporto costante fornito dai funzionari dell’Ufficio per il processo all’attività giurisdizionale.
(D’AGOSTINO) Assolutamente si. Di fronte all’iniziale scetticismo tanto della magistratura, per forma mentis più avvezza alla “monocraticità” della funzione o, tutt’al più, alla “collegialità ristretta” della giurisdizione, quanto delle cancellerie, che hanno guardato con sospetto ai funzionari come quelli che, a seconda dei casi, o riducevano spazi, lavoro e spazi di lavoro, oppure, all’opposto, come quelli che aumentavano i carichi di lavoro già enormi, dopo oltre sette mesi la generale percezione dei progressi organizzativi ed operativi che l’UPP ha introdotto, generato e continua ad implementare, oltre ad essere chiaramente sotto gli occhi di tutti e, soprattutto, dell’utenza ed in special modo dell’utenza qualificata (avvocatura – magistratura inquirente), ha creato un clima di fiducia verso l’UPP di modo che, se in un primo momento si guardava ai funzionari addetti UPP come coloro i quali possono fare il lavoro di altri e quindi con connotazione meramente sostitutiva, oggi si vede nei funzionari un’opportunità per delegare funzioni, per concentrarsi sulle tematiche più complesse, attribuendo all’UPP un ruolo propulsivo, di stimolo e di accelerazione del sistema.
I giudici, oggi, apprezzano le tante applicazioni della “collegialità allargata” anche in camera di consiglio, mentre le cancellerie, rasserenate dalla divisione del lavoro, beneficiano della riduzione dell’utenza, in maggior parte canalizzata verso l’UPP, e godono dei benefici di una “macchina” che funziona meglio, si inceppa meno, va più veloce e difficilmente si blocca.
9. In che misura percentuale si rilevano attualmente scoperture nell’organico dell’ U.P.P. presso la tua Corte di Appello?
(BUONAGURO) Non potendo avere contezza del quadro complessivo dell’organico dell’U.P.P. della Corte, mi limiterò ancora una volta all’esperienza del mio ufficio. In data prossima alla presa di servizio dei funzionari dell’U.P.P. presso gli uffici giudiziari di merito (avvenuta nell’ultima settimana di febbraio), al mio ufficio erano stati assegnati 11 funzionari su 12, in cui l’unità mancante era dovuta alle rinunce dei vincitori del concorso (le assunzioni erano state approssimativamente 140 su all’incirca 160 funzionari).
Tengo a precisarlo perché, se nel corso dei mesi successivi (e in particolare nel mese di maggio), si è da una parte provveduto a coprire il numero dei posti lasciati vacanti a causa delle rinunce procedendo allo scorrimento degli idonei in graduatoria, e così assegnando un nuovo funzionario al mio ufficio, dall’altro ci sono state già due dimissioni di due funzionari immessi a febbraio, che non verranno invece integrate dall’immissione di nuovi funzionari. Allo stato attuale, pertanto, l’organico del mio ufficio comprende dieci funzionari, divisi equamente per i due collegi della sezione, ma non rispettando il rapporto di 2:1 funzionari U.P.P. per magistrato che era stato pur previsto inizialmente.
(D’AGOSTINO) Le attuali scoperture nell’organico UPP sono nella misura dell’8,33 % del totale. In verità a fronte di 60 unità costituenti l’organico della Corte di Appello di Reggio Calabria, intesa come Ufficio Giudiziario e non come Distretto, ai sensi del DM – Ministero della Giustizia del 28 settembre 2021, contenente “Determinazione della pianta organica del personale amministrativo a tempo determinato addetto all’ufficio del processo”, ad oggi risultano in servizio 55 funzionari.
Il problema è, tuttavia, di non poco momento laddove si pensi che la presa di servizio è avvenuta tra il 21 ed 23 febbraio 2022 e che un numero sempre crescente di funzionari sta optando per altri incarichi ed assunzioni a tempo indeterminato in assenza di garanzie precise sul futuro dell’UPP ed in mancanza di regole dettagliate sul percorso professionale successivo alla scadenza dei 31 mesi di contratto.
Si assiste, quindi, per un verso, alla “precarizzazione” ed alla mancanza di funzionalità dell’UPP legata ad un turn-over randomizzato ovvero alla non programmabile copertura di scoperture improvvise, soprattutto laddove il numero di funzionari assegnati è di per sé esiguo: è infatti lapalissiano che nei casi in cui, come il mio, in cui ci sia l’assegnazione di un gruppo di lavoro, 4 unità, ad un collegio che svolge un’udienza settimanale, l’essere rimasti, dapprima, senza un’unità (nel caso di specie il collega è diventato dirigente dell’amministrazione penitenziaria minorile) per qualche mese e poi l’essere stati reintegrati numericamente nelle 4 unità, ma con un funzionario immesso in servizio ben 7 mesi dopo quelli già in servizio, si crea l’effetto “porte girevoli” con funzionari in entrata ed in uscita quasi mensile dal ruolo di addetti UPP con chiaro detrimento della funzionalità organizzativa dell’ufficio e depauperamento della funzione di supporto giurisdizionale.
De iure condendo appare necessario ed improcrastinabile un intervento normativo d’urgenza che “garantisca” se non il “posto” dei funzionari, quanto meno la continuità ed operatività dell’UPP, pena il fallimento, per esaurimento delle risorse umane, di un istituto che ha dato risultati eccellenti sia in termini di smaltimento dell’arretrato “atavico” del sistema giustizia, sia in termini di produttività tanto dal punto di vista quantitativo che qualitativo.
Gli approfondimenti sulla riforma Cartabia - 3. Pensieri sparsi sul nuovo giudizio penale di appello (ex d.lgs. 150/2022)
di Carlo Citterio
Sommario: 1. Premessa: la Riforma Cartabia ha un’anima, e sollecita una modifica culturale degli operatori – 2. Sintesi introduttiva – 3. Le novità in tema di introduzione del giudizio (3.1 La dichiarazione o elezione di domicilio e lo specifico mandato per impugnare; 3.2 Il deposito dell’atto di appello) – 4. Il contraddittorio cartolare nuovo rito ordinario del giudizio penale di appello; La trattazione in presenza – 5. Il concordato anche con rinuncia ai motivi di appello – 6. L’assenza nel giudizio di appello – 7. La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale – 8. Alcune questioni rimaste aperte nel rito cartolare (8.1 La riunione ai sensi dell’art. 17 - 8.2 La rinnovazione istruttoria documentale - 8.3 Il coordinamento tra i termini di presentazione delle conclusioni e la disciplina che gli artt. 107 e 108 danno nei casi di rinuncia, revoca, incompatibilità, abbandono, in ordine al termine a difesa) – 9. La specificità estrinseca (581.1-bis) e lo spoglio preliminare (9.1 Il concetto di punto della decisione - 9.2 Aspecificità e manifesta infondatezza del motivo – 9.3 Riproposizione di questioni già disattese - 9.4 581.1-bis norma di interpretazione autentica - 9.5 Effetti dell’inammissibilità del singolo motivo per genericità estrinseca) – 10. Il recupero del principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale: quando l’azione penale si è esaurita, quale ne sia la ragione, l’azione civile prosegue davanti al giudice civile (10.4 Un ripensamento dell’approccio di giudici e avvocati alla tematica risarcitoria nel processo penale – 10.5 La necessità della espressa previsione di casi rimettibili alle Sezioni Unite in composizione mista) – 11. Il probabile rilevante impatto sul giudizio di appello delle novità in materia di sanzioni – 12. Questioni dalla (infelice) disciplina transitoria.
1. Premessa: la Riforma Cartabia ha un’anima, e sollecita una modifica culturale degli operatori
1.1 La legge 134/2021 (parte delega, parte immediatamente efficace), con il conseguente decreto legislativo 150/2022, non nasce come riforma organica del codice di procedura penale e del codice penale. Per varie ragioni (di tempi ed opportunità politiche) muove invece dal precedente progetto del ministro Bonafede (che aveva anche visto alcuni punti condivisi dalle associazioni di magistrati e avvocati penalisti) e innesta prima il lavoro della Commissione Lattanzi e quindi, dopo le valutazioni e scelte governative, dei Gruppi ministeriali di lavoro per concretizzare le diverse parti della delega. Un esempio per tutti: l’istituto dell’improcedibilità nasce perché, intoccabile per contingenti ragioni politiche l’inoperatività della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, è sostanzialmente l’unico rimedio per evitare il “fine processo mai”, un processo che (nel contesto dato di carenza di risorse umane e di mezzi, di permanente incapacità di procedere finalmente ad autentica organica ed efficace depenalizzazione ([1]), di non percorribilità politica della strada dell’amnistia per accompagnare l’impatto e le scelte delle modifiche strutturali ai codici vigenti) ha come unico evento certo di cessazione la morte dell’imputato.
Ciononostante la Riforma ha un’anima identificabile e coerente nei suoi molteplici e complessi interventi: necessita pertanto di uno studio (anche da parte dell’Accademia) non parcellizzato, perché molte soluzioni nei diversi istituti ricevono reciproca o multipla coerenza e si integrano in un disegno complessivo che può riassumersi nel cercare di portare a maggior numero di conclusione definitiva (e nel merito e non in rito) i procedimenti, prima del giudizio e comunque entro il giudizio di primo grado, evitando la prosecuzione di procedimenti non sorretti da ragionevole previsione di affermazione di responsabilità ed anticipando già in queste fasi, nel caso di condanna, la possibilità di definizione con applicazione di pene sostitutive che finora (le stesse) potevano essere applicate solo dal giudice di sorveglianza dopo anche tre gradi di giudizio. L’obiettivo palese della Riforma è quindi quello di contribuire a dare efficacia al principio costituzionale della “giustizia giusta in tempi ragionevoli”.
Tale intento tuttavia sollecita e pretende un mutamento culturale degli operatori: pubblici ministeri, avvocati difensori e giudici. E’ questo uno snodo essenziale. Occorre infatti comprendere il senso sistematico e le opportunità offerte dalle novità della Riforma ed adeguare i propri criteri di valutazione e le proprie prassi alla svolta indicata dal legislatore.
È in particolare indispensabile la consapevole accettazione e la promozione di una relazione dinamica e propositiva tra le parti e tra loro ed il giudice, ciascuno consapevole del ruolo e delle nuove responsabilità che la Riforma gli attribuisce.
Tre esempi, tra tutti:
1) gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna: ne devono conseguire archiviazione (408) o sentenze di proscioglimento (udienza preliminare, 425.3; udienza di comparizione predibattimentale a seguito di citazione diretta, 554-ter.1), senza andare a giudizi a quel punto solo esplorativi ([2]);
2) il giudice ha ora la possibilità di invitare il pubblico ministero a riformulare l’imputazione e, in mancanza, di deliberare d’ufficio la nullità del capo di imputazione disponendo la restituzione degli atti al pubblico ministero (554.bis, udienza di comparizione predibattimentale e 421.1, udienza preliminare): ciò che nasce male, in modo inadeguato, deve essere riassestato subito o subito stoppato, e questo controllo diviene responsabilità diretta anche del giudice;
3) le pene sostitutive delle pene detentive brevi [parliamo di semilibertà e detenzione domiciliare sostitutiva (4 anni), lavoro di pubblica utilità sostitutivo (3 anni), pena pecuniaria sostitutiva (1 anno)] possono essere applicate da subito, anziché dopo tre gradi di giudizio: già dalla fase delle indagini preliminari, comunque nel giudizio di primo grado (così l’imputato si sottrae alle conseguenze negative di una lunga pendenza procedimentale ed evita soprattutto le inevitabili implicazioni sulla propria vita futura di una sanzione che va applicata dopo anni).
Un nuovo approccio culturale, dunque: pubblico ministero e giudici chiuderanno il procedimento quando a bocce ferme non è probabile (non vi è la ragionevole previsione) la condanna? Il giudice fermerà il processo nato male, pretendendone il necessario assestamento o la rivisitazione dell’intenzione di procedere a un giudizio viziato? Il pubblico ministero che riceve una notizia di reato ‘vestita’ spedirà il decreto di citazione o farà al sottoposto alle indagini ed al suo difensore una saggia proposta di definizione? e il difensore confiderà solo nell’improcedibilità deliberata nei successivi eventuali gradi di impugnazione o si attiverà per chiudere subito la pendenza con la soluzione di merito più favorevole nell’interesse dell’imputato e della sua vita anche futura? e il giudice favorirà questa definizione equa e tempestiva?
1.2 Il nuovo giudizio di appello a contraddittorio scritto come rito ordinario (sempre salva la discrezionale possibilità di chiedere la trattazione in presenza) è soluzione coerente e convergente, dal punto di vista sistematico, a questo nuovo approccio culturale, quindi a questa giurisdizione responsabile che sollecita esercizio consapevole e responsabile dei poteri, dei diritti, della libertà di scelta. È e deve essere infatti attivato da un imputato appellante che (con il mandato specifico ad impugnare e comunque con la dichiarazione o elezione di domicilio rinnovate o formulate per la prima volta) associa alla volontà di promuovere il giudizio di impugnazione la conseguente assunzione di una responsabile consapevolezza dello svolgimento del grado di giudizio che lui ha chiesto.
Deve quindi essere particolarmente evidenziato che, con questo intervento, viene a sanarsi (nei limiti in cui era possibile, non trattandosi appunto di un intervento di radicale reimpostazione dell’intero processo penale) quello che era stato forse il peggior limite del codice Vassalli, esito di un lavoro preparatorio nel quale non vi era stato dialogo tra i due gradi del merito, così ciascuno risultato rispondere a logiche sostanzialmente tra loro indifferenti.
2. Sintesi introduttiva
La legge 134/2021 e il decreto legislativo 150/2022 consegnano un giudizio di appello totalmente nuovo rispetto al rito ordinario consegnatoci dal d.P.R. 447/1988 e applicato fino all’entrata in vigore della legislazione emergenziale dell’art. 23-bis decreto legge 137/2020 e successive modifiche: la soluzione sarebbe stata difficilmente immaginabile prima della grave vicenda pandemica. Il nuovo rito (camerale cartolare come regola, con trattazione orale a richiesta insindacabile di una delle parti) diviene così quello ordinario, con due peculiarità: nella sua struttura essenziale è già stato sperimentato per circa un biennio, secondo i dati statistici è stato in concreto largamente condiviso anche dalla classe forense.
La caratteristica essenziale del nuovo rito rimane quella dell’attribuzione all’appellante, e comunque sempre anche all’imputato e al suo difensore [598-bis.2], della scelta discrezionale (che viene espressamente precisato essere irrevocabile [598-bis.2]) sulla modalità di trattazione dell’impugnazione: quella cartolare in camera di consiglio, tipologia ordinaria, o quella orale con la partecipazione in presenza delle parti. Mutano innanzitutto le modalità per la presentazione dell’atto di appello e i termini per pervenire alla deliberazione [601, commi 1 e 3; 585.1-bis]; mutano i termini anche per la eventuale richiesta di un concordato per l’accoglimento di motivi [599-bis commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, con l’abrogazione dei limiti oggettivi: 98 d. lgs. 150/2022], vi è il significativo recepimento dell’ormai consolidato parametro giurisprudenziale anche della specificità estrinseca del motivo [581.1-bis]; mutano altresì, parzialmente, la disciplina della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale [603.3-bis e 3-ter] e quella afferente la tematica della conoscenza del grado di giudizio [604.5-bis, 5-ter e 5-quater].
Radicale è invece il mutamento della relazione tra l’azione penale comunque definita e la prosecuzione dell’azione civile, nel senso del recupero pieno del principio di accessorietà della seconda nel processo penale [573, 578.1-bis].
Divengono inappellabili anche le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la nuova pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, nonché le sentenze di proscioglimento relative a delitti puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa [593.3, 428.3-quater]([3]).
3. Le novità in tema di introduzione del giudizio
3.1 La dichiarazione o elezione di domicilio e lo specifico mandato per impugnare
3.1.1 Per la proposizione dell’impugnazione è ora innanzitutto previsto che con l’atto di impugnazione delle parti private e dei difensori debba sempre essere depositata anche la dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio ([4]). La sanzione è quella dell’inammissibilità dell’atto di impugnazione [581.1-ter]. L’indicazione pare inequivoca nel senso di un deposito contemporaneo dei due documenti (l’atto di impugnazione e la dichiarazione o elezione di domicilio), con la conseguenza che, in ogni caso, solo se il secondo documento sarà depositato entro la scadenza del termine per impugnare l’appello sarà ammissibile (prescindendo da ogni altra questione sulla sua autonoma ammissibilità formale).
La presenza di tale indicazione formale del proprio domicilio da parte dell’imputato dovrà pertanto essere oggetto di specifica verifica già nello spoglio preliminare dei fascicoli pervenuti.
Si è scelto di evitare alcun automatismo, con una imposta elezione di domicilio presso il difensore che assiste l’imputato, perché foriero di potenziali problematiche sull’effettiva conoscenza della citazione per quanto attiene all’evoluzione possibile del rapporto e contatto tra difensore (pur diligente) ed assistito, dopo la proposizione dell’impugnazione. La dichiarazione o elezione di domicilio (che appunto va depositata anche quando l’atto sia materialmente redatto e depositato dal difensore) deve, per logica sistematica, essere successiva alla deliberazione della sentenza impugnata: essa infatti è appunto finalizzata a consentire la efficace e tempestiva citazione per quel giudizio di appello che proprio dall’imputato e nel suo interesse viene espressamente richiesto. Nelle indagini preliminari e nel giudizio di primo grado è fisiologico che sia lo Stato a dover cercare la persona nei cui confronti si procede e informarlo dei passaggi essenziali del procedimento e, in particolare, della fase processuale. Ma quando appellante è solo la parte privata, che è pertanto il soggetto processuale che attiva il secondo grado di giudizio che impedisce l’immediata irrevocabilità della prima decisione, era e rimarrebbe francamente poco comprensibile che l’ “attore” si possa poi sottrarre al tempestivo rintraccio per atti che sono indispensabili per giungere a quel giudizio rivisitante che proprio lui ha chiesto.
La dichiarazione o elezione di domicilio (ovviamente quest’ultima anche presso il difensore che assiste l’imputato al momento del deposito dell’atto di appello) deve quindi essere depositata sia che l’imputato abbia presenziato al giudizio sia in caso di sua assenza dichiarata dal primo giudice ([5]).
3.1.2. Per i soli imputati dichiarati assenti, invece, per proporre l’atto di impugnazione il difensore deve essere munito di specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza, da intendersi anche solo la pubblicazione del dispositivo. Tale mandato deve contenere anche la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio [581.1-ter] ([6]).
La previsione dello specifico mandato ad impugnare da parte dell’assente (per il presente si è ritenuto che la conoscenza dell’esito del primo giudizio rendesse superfluo l’incombente) mira all’evidenza ad assicurare che ogni giudizio di impugnazione si svolga in esito alla consapevole determinazione dell’imputato, così ponendosi termine alla ormai frequente casistica di giudizi di impugnazione che, attivati dal difensore, di fiducia o di ufficio, senza un previo contatto con l’assistito, vengono poi vanificati al momento dell’esecuzione della sentenza irrevocabile per accertata inconsapevolezza dell’interessato della trattazione dei relativi gradi.
È in proposito certamente opportuno richiamare il contrasto avvenuto tra le Sezioni Unite e la Corte costituzionale sul tema dell’unicità del diritto di impugnazione e quindi sulla sua possibile definitiva consumazione da parte del difensore (di fiducia o di ufficio), contrasto che contribuisce a spiegare la indilazionabile necessità dell’intervento. Le Sezioni Unite (sentenza 6026/2008) avevano affermato che l’impugnazione proposta dal difensore nell’interesse dell’imputato contumace (o latitante) precludeva alcuna restituzione in termini dell’imputato per (ri)proporre l’impugnazione già proposta e deliberata. Corte costituzionale sent. 317/2009 prende atto di tale diritto vivente e giudica la soluzione contraria alle regole costituzionali, concludendo che “è costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 24, 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost., l'art. 175, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non consente la restituzione dell'imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato”.
Ora, se è quindi apprezzabile l’impostazione deontologica che la classe forense richiama per sostenere una propria anche autonoma competenza a contestare una sentenza ritenuta ‘ingiusta’, nel ritenuto interesse obiettivo pure dell’assistito non reperito e non consapevole, occorre tuttavia prendere atto della potenziale inutilità del complesso dell’attività giurisdizionale e amministrativa cui si dà in tal modo seguito ogni qualvolta le impugnazioni non siano state giudicate fondate (la casistica è ricca di vanificazione di entrambi i gradi di impugnazione, merito e legittimità; e si tratta di attività che oltretutto, quando l’attività difensiva avviene in contesto suscettibile di liquidazione dei compensi da parte dell’Erario, risulta ulteriormente onerosa anche oltre il mero impiego a vuoto delle scarse risorse, di uomini e mezzi, disponibili).
D’altra parte, ed è rilievo ricorrente ed essenziale nello studio e nell’apprezzamento della Riforma che esce dalla legge 134/2021 e dal decreto legislativo 150/2022, questo peculiare aspetto non può non essere valutato ed apprezzato alla luce della ulteriore stretta che la disciplina dell’assenza riceve sia per il primo grado [nuovi 420-bis, 420-ter.1, 420-quater, 604.5-bis] che per il giudizio di appello [604.5-ter e 604.5-quater]. Proprio tale articolata disciplina, volta ad aumentare l’aspettativa che alla regolarità formale della citazione corrisponda l’effettiva consapevolezza dell’interessato relativa alla trattazione processuale, concorre efficacemente a creare le premesse fattuali per sollecitare l’attivazione dei difensori ad un contatto personale con l’assistito, che sia caratterizzato dall’articolata spiegazione del seguito procedimentale e della necessità di una non sostituibile responsabilizzazione dello stesso interessato.
È stato condivisibilmente osservato che il mandato specifico è ora necessario anche per il sostituto del difensore assente, nominato ai sensi dell’art. 97.4 e dalla giurisprudenza di legittimità considerato legittimato a proporre autonomo efficace atto di appello ([7]), con la conseguenza che certamente ora il tema della relazione tra difensore formalmente titolare, difensore sostituto nominato ex art. 97, comma 4, e imputato assistito, si apre pure a ulteriori peculiari profili deontologici.
Consequenziale e coerente al necessario contatto personale anche in esito alla deliberazione della sentenza impugnanda è la correlativa previsione di un aumento di quindici giorni dei termini ordinari previsti dall’art. 585 per impugnare in favore dell’imputato giudicato in assenza [585.1-bis], innovazione che pure vuole contribuire a determinare le premesse fattuali per agevolare la concretezza del contatto e l’assunzione di responsabilità da parte dell’imputato.
3.2. Il deposito dell’atto di appello
Importanti innovazioni, anche rispetto alla disciplina emergenziale, sono introdotte per il deposito dell’atto di appello.
È previsto il deposito telematico, con le modalità di cui al nuovo art. 111.bis secondo le modalità che saranno previste, anche con regolamenti [nuovo 582.1]. Ad esso si accompagna la possibilità, per le sole parti private, del deposito personale anche a mezzo di incaricato nelle cancellerie del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato [582, nuovo 1-bis]. Vengono così meno la possibilità di invio a mezzo posta [è abrogato l’art. 583] e quella del deposito presso la cancelleria del tribunale o del giudice di pace dove l’appellante si trova o davanti agente consolare all’estero [abrogato il 582 comma 2] ([8]).
Si tratta di innovazione certamente idonea ad accelerare i tempi di trattazione (tema particolarmente rilevante con l’introduzione dell’istituto della improcedibilità per superamento dei termini di durata massima dei giudizi di impugnazione). Essa specialmente evita, finalmente, le incertezze nell’individuazione immediata del termine di eventuale irrevocabilità del provvedimento non impugnato, evitando così, a monte, il sorgere di situazioni delicate con riguardo tanto all’individuazione del giudice competente a deliberare su eventuali istanze (in particolare in materia di libertà personale o quanto al contenuto possibile dei relativi provvedimenti) quanto alla sussistenza effettiva dei presupposti per iniziare l’eventuale esecuzione ([9]). Con le stesse modalità si depositano motivi aggiunti [585.4] e memorie.
4. Il contraddittorio cartolare nuovo rito ordinario del giudizio penale di appello - La trattazione in presenza
4.1 Il rito camerale cartolare diviene pertanto il nuovo rito ordinario di trattazione del giudizio penale di appello, quando non vi sia una specifica tempestiva (e come detto assolutamente discrezionale) istanza di trattazione in presenza, con la conseguente oralità del contraddittorio.
La disciplina del nuovo rito si applica anche ai procedimenti davanti alla corte di assise di appello ([10]) ed agli appelli avverso le sentenze del giudice di pace ([11]). Più problematica la questione per gli appelli (ricorsi li definisce l’art. 10 d. lgs. 159/2011) nei procedimenti per le misure di prevenzione ([12]). Certamente non si applica alle procedure in cui la Corte è giudice unico del merito (mentre specialmente per gli incidenti di esecuzione o i procedimenti per riparazione per ingiusta detenzione attribuire ai difensori istanti la scelta del rito avrebbe evitato le statisticamente numerose sostituzioni di ufficio, per i primi).
Gli articoli 598-bis, 599, 599-bis, 601 e 602 disciplinano la citazione a giudizio verso la forma cartolare e la richiesta di trattazione in presenza, alla quale consegue la celebrazione in rito camerale partecipato o dibattimentale, secondo i casi. La nuova disciplina si innesta su quella emergenziale, con alcune significative modifiche.
La sequenza procedimentale vede la spedizione di un decreto di citazione al giudizio di appello che [nuovo 601.3] deve contenere anche l’avviso all’imputato e alla persona offesa che hanno facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa e gli avvisi relativi alla trattazione camerale senza la partecipazione delle parti salva la esplicita e tempestiva richiesta di trattazione orale (con l’indicazione delle pertinenti modalità) ([13]). Il termine a comparire non può essere inferiore a quaranta giorni, anche per i difensori [601.3 e 5].
Legittimati alla richiesta di trattazione orale sono le parti che hanno appellato. Ma l’imputato ed i suoi difensori sono sempre legittimati a chiedere la trattazione in presenza, anche quando non appellanti.
La significativa estensione del termine a comparire (da venti a quaranta giorni) trova spiegazione nel mutamento della disciplina per la richiesta di trattazione in presenza e per la dichiarazione di concordato per l’accoglimento di uno o più motivi, nonché dei nuovi termini nel rito cartolare per la presentazione di richieste, motivi nuovi e memorie, oltre che per possibili repliche.
4.2.1. Infatti, il termine per la richiesta di trattazione in presenza è ora collegato non alla data dell’udienza ma alla data della notifica della citazione (per l’imputato rileva ovviamente il giorno dell’ultimo avviso tra imputato e difensore/i): la richiesta di trattazione in presenza (“di partecipare all’udienza”) deve essere presentata a pena di decadenza nel termine di quindici giorni da notifica o avviso dell’udienza. La parte privata può tuttavia presentarla esclusivamente a mezzo del difensore [598-bis.2.terzo periodo].
La richiesta di trattazione in presenza è espressamente dichiarata irrevocabile ([14]).
Ritorna il problema se l’imputato possa richiedere direttamente al giudice la trattazione orale, bypassando il proprio difensore: questione ancor più rilevante quando l’imputato è detenuto o agli arresti domiciliari. Il testo della norma è parzialmente diverso dal testo corrispondente nel comma 4 dell’art. 23-bis, d.l. 137/2020 e modifiche. Quest’ultimo dopo aver parlato genericamente dell’onere di richiedere la trattazione orale nei quindici giorni - liberi - precedenti l’udienza, prevedeva specificamente che l’imputato era tenuto al rispetto del medesimo termine e doveva formulare la richiesta di partecipare all’udienza a mezzo del difensore. Il secondo comma dell’art. 598-bis, dopo aver previsto nel primo periodo il diritto dell’appellante e, in ogni caso, dell’imputato o del suo difensore di chiedere di partecipare all’udienza nel termine decadenziale dato, ed aver precisato appunto l’irrevocabilità della richiesta, nel periodo successivo recita che “la parte privata può presentare la richiesta esclusivamente a mezzo del difensore”. E’ stato sostenuto che la nuova norma consentirebbe quindi all’imputato di rivolgere la sua richiesta direttamente alla cancelleria del giudice (l’ufficio matricola per il detenuto), senza informare e comunque senza veicolare la richiesta a mezzo del difensore.
In realtà non pare che la situazione giuridica sia mutata. Escludere dalle parti private che possono presentare la richiesta esclusivamente a mezzo del difensore l’imputato priverebbe la specificazione di efficace senso sistematico, posto che tutte le altre parti eventuali stanno in giudizio solo a mezzo del difensore. La indicazione dei soggetti legittimati nel primo periodo e la previsione sia del termine decadenziale di quindici giorni da notifica o avviso (primo periodo del secondo comma) che dell’irrevocabilità della richiesta nel secondo periodo, danno una disciplina generale e compiuta. Che la precisazione contenuta nel periodo successivo con la locuzione “parte privata” introduca una disciplina speciale per “parti” che nel giudizio di appello non potrebbero prendere la parola, essendo in giudizio solo a mezzo di un difensore, escludendo l’unica (l’imputato) che solo ha diritto autonomo di chiedere la trattazione in presenza (e quindi in realtà sul piano logico sarebbe l’unico interessato a norma altrimenti inutile) pare operazione esegetica francamente forzata. La relazione illustrativa non fornisce informazioni sul tema.
Quindi, se è vero che anche l’imputato può autonomamente chiedere di partecipare all’udienza, se la sua richiesta perviene direttamente alla cancelleria senza il “mezzo” del difensore non sarebbe efficace ([15]).
Il mutamento del termine di riferimento (la data della notifica della citazione in luogo della data dell’udienza) spiega il venir meno della previsione che i giorni per la richiesta debbano essere “liberi”.
4.2.2. Può convenirsi che, in ordine alla distinzione tra i due riti possibili (cartolare e in presenza), la soluzione più efficace, sotto il profilo della gestione dei ruoli di udienza e dell’impiego efficace della risorsa tempo per magistrati e avvocati, sarebbe stata quella di un sistema che consentisse che già al momento della spedizione della citazione a giudizio e dei relativi avvisi si conoscesse con quale rito il singolo processo sarebbe stato trattato, così favorendo la suddivisione delle udienze in dedicate alle trattazioni cartolari ed a quelle in presenza. E tuttavia l’unica soluzione concreta e non caratterizzata da percorsi procedimentali (come formali interpelli preventivi e simili), per loro natura complessi e forieri di molteplici impegni di notifiche e comunicazioni non compatibili con il senso della trattazione cartolare (sua speditezza) e con le risorse di cancelleria (almeno finchè anche il giudizio penale di appello non vedrà un processo telematicamente efficace per tutto ciò che attiene alle comunicazioni e citazioni delle parti) ([16]), sarebbe stata quella indicata nell’originario progetto cd Bonafede: l’indicazione della scelta già al momento del deposito dell’atto di appello. Ma è significativo che l’ampia maggioranza di coloro (magistrati e avvocati) che hanno esperienza della quotidiana giurisdizione d’appello abbiano sempre convenuto che tale soluzione avrebbe affossato il rito cartolare, tante essendo le variabili che, quantomeno per prudenza professionale, avrebbero comunque sollecitato, quando non addirittura imposto, al difensore appellante la non immediata richiesta di trattazione cartolare.
4.2.3. Dunque, per la trattazione in presenza la richiesta va depositata nel termine perentorio di quindici giorni dall’ultima notifica o avviso e, per le parti private, a mezzo del difensore.
Viene quindi confermato che anche l’imputato è legittimato alla richiesta di trattazione in presenza, ma pure che la sua richiesta deve essere depositata (nel termine perentorio) esclusivamente dal difensore. Ciò vale evidentemente anche per l’imputato che sia detenuto, o ristretto agli arresti domiciliari, per la causa per cui si procede o per altra causa (in assenza di alcuna diversa specifica previsione.
Nuovamente viene allora in rilievo il senso della nuova regola del mandato speciale ad impugnare per l’appello dell’imputato assente e della dichiarazione o elezione di domicilio per l’imputato dichiarato assente o presente al primo giudizio. E’ evidente che la visione del giudizio di appello come critica specifica alla prima decisione che introduce un ulteriore grado del processo (altrimenti conclusosi con la prima deliberazione), quando attivato a esclusiva domanda e per l’interesse dell’imputato sollecita una sua responsabilizzazione che si caratterizza innanzitutto per un contatto effettivo con il difensore, di fiducia o di ufficio che sia. Contatto effettivo che crea la precondizione pure per le informative finalizzate alla conoscenza consapevole delle modalità del seguito procedimentale.
Quanto agli imputati detenuti o altrimenti ristretti, i quindici giorni da notifica/avviso paiono sufficienti al contatto informativo da parte del difensore diligente ([17]).
4.2.3. Quando la richiesta di trattazione in presenza è ammissibile ([18]), la corte dispone che l’udienza si svolga con la partecipazione delle parti ed indica il rito con cui si procederà, camera di consiglio [599] o pubblica udienza [602]. Quindi, ad ogni richiesta di trattazione orale deve seguire il provvedimento della Corte che la dichiara ammissibile ed indica il rito, camerale o dibattimentale, con cui nella udienza già fissata si procederà nel contraddittorio orale, provvedimento che deve essere notificato ai difensori e comunicato al procuratore generale.
Nel caso di processo con pluralità di parti, è sufficiente la richiesta di trattazione orale di una sola di esse per determinare il rito in presenza per tutte le parti del processo ([19]).
4.2.4. La trattazione in presenza delle parti può essere disposta d’ufficio anche dalla corte “per la rilevanza delle questioni sottoposte al suo esame” ([20])[598-bis.3] e “in ogni caso” quando, procedendo con la trattazione cartolare, ritenga necessario disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale a norma dell’art. 603 [598-bis.4].
Nel secondo caso deve ritenersi che la determinazione di procedere alla rinnovazione istruttoria sorga in camera di consiglio, sicché la corte definirà l’udienza con un’ordinanza, che sarà comunicata alle parti con l’indicazione della data di udienza successiva in trattazione orale ([21]).
Nel primo caso la Corte può disporre la trattazione orale prima della spedizione del decreto di citazione o dopo. Le due alternative emergono chiare dal testo [598-bis.3] laddove si dispone che il provvedimento deve essere comunicato al procuratore generale e notificato ai difensori, salvo che ne sia stato dato avviso con il decreto di citazione di cui all’art. 601. Poco comprensibile un “preavviso” alle parti prima della spedizione del decreto di citazione (inizio del processo di appello), evidentemente la comunicazione al di fuori del decreto riguarda appunto il caso in cui, successivamente alla spedizione dello stesso, emerga dallo studio o dalla discussione del caso l’opportunità del contributo orale delle parti.
Quanto al termine ultimo dell’esercizio del potere d’ufficio dopo la spedizione del decreto di citazione, paiono ipotizzabili due soluzioni. La prima indica tale ultimo momento nella scadenza del termine decadenziale dei quindici giorni dall’ultima notifica/avviso. Questo termine si riferisce alle facoltà delle parti ma, oggettivamente, dopo la sua scadenza il rito è già incardinato nel cartolare camerale, con l’attivazione degli oneri delle di presentazione delle conclusioni. La seconda indica il momento ultimo nella discussione della camera di consiglio non partecipata: quella che dovrebbe concludersi con il dispositivo da comunicare alle parti [167-bis disp. att.].
Mentre la prima potrebbe apparire formalisticamente più corretta sul piano sistematico, la seconda valorizza proprio la discussione camerale, quindi il momento della decisione: è in quel momento infatti che si realizza la pienezza della conoscenza del processo e delle sue problematiche, sicchè fisiologicamente potrebbe sorgere proprio e solo in quel contesto l’esigenza di segnalare alle parti aspetti da approfondire o su cui avere un contraddittorio orale (fermo restando che, disposto il rito in presenza, nessun limite potrebbe essere posto alla discussione, salvo il solo caso dell’eventuale riqualificazione giuridica [[22]]). Ora, considerando che tendenzialmente la trattazione orale appare più adeguata per questioni “rilevanti” (in fatto o in diritto), in assenza di un espresso limite temporale ultimo normativamente indicato e tenuto conto che anche nel secondo caso, quello della rinnovazione istruttoria, vi è un passaggio dalla trattazione cartolare a quella orale, appare preferibile la seconda soluzione.
4.3.1. Scaduto il termine per la richiesta di trattazione in presenza, si è nel cartolare non partecipato, caratterizzato dal deposito di conclusioni scritte. Il riferimento rimane sempre alla data dell’udienza, ma sono mutati i termini assegnati alle parti per le proprie conclusioni.
Non vi sono più termini differenziati per la parte pubblica (erano dieci giorni) e per le parti private (cinque giorni) e viene meno l’onere di comunicazione a cura della cancelleria del giudice delle conclusioni del procuratore generale alle parti private ([23]). Ora, il procuratore generale “presenta le sue richieste” e “tutte le parti” “possono presentare motivi nuovi e memorie” fino a quindici giorni prima dell’udienza. “Tutte le parti” (evidentemente anche il procuratore generale) “possono presentare” memorie di replica fino a cinque giorni prima. L’indicazione dei quindici giorni ha consentito di assorbire la disciplina dei termini per il deposito dei motivi nuovi ex art. 585.
Si tratta di termini che debbono ritenersi tutti, anche quelli per il deposito di conclusioni/memorie, perentori: lo ha ormai affermato con insegnamento consolidato la giurisprudenza di legittimità per i termini corrispondenti previsti dal cartolare emergenziale e i nuovi testi non offrono argomento alcuno per discostarsene.
Sulle conseguenze dell’eventuale mancato deposito delle conclusioni della parte pubblica e sulla natura ordinatoria o perentoria dei due termini (quindici e cinque giorni), da intendersi comunque “non liberi” (perché non così normativamente qualificati), occorrerà nel silenzio della disciplina aver presente l’articolata giurisprudenza di legittimità formatasi prevalentemente sui corrispondenti punti e termini per il giudizio di cassazione nella precedente disciplina emergenziale (che poneva analoghi problemi interpretativi) ([24]).
La conservazione della diversa terminologia (“presenta le sue richieste”, per la parte pubblica, “possono presentare”, per le parti private) rende evidente che il procuratore generale deve presentare le sue conclusioni, mentre per le parti private tale deposito è una mera facoltà ([25]).
Nelle conclusioni possono essere depositate, per le parti civili e per gli imputati ammessi al patrocinio a spese dello Stato, le note spese con le richieste di liquidazione. L’udienza di trattazione cartolare è udienza a tutti gli effetti e il deposito delle conclusioni è attività difensiva con piena efficacia e rappresenta la modalità di partecipazione al contraddittorio cartolare, titolo che consente anche per tale fase l’indicazione della voce per la discussione, se e nei termini spettanti.
4.3.2. Avendo parificato il termine per tutte le parti (pubblica e private) ed avendo escluso alcun obbligo di comunicazione da parte della cancelleria del giudice di appello, si pone la questione di come le parti possano avere informazione del contenuto di richieste, memorie e motivi aggiunti, anche al fine di esercitare utilmente la possibilità di depositare repliche. Normativamente, la soluzione appare quella dell’attivazione della singola parte interessata, per la visione del fascicolo o la richiesta di pertinente informazione presso la cancelleria: si tratta tuttavia di problematica di elezione per buone prassi concordate tra uffici giudicanti e requirenti d’appello e avvocatura ([26]).
4.3.3. L’udienza a contraddittorio cartolare si svolge in presenza, i magistrati in camera di consiglio e un assistente, in aula, che verbalizza la trattazione dei singoli procedimenti, dando conto delle conclusioni pervenute e dei pertinenti provvedimenti adottati, man mano che gli vengono passati.
La normativa delegata ha riprodotto la previsione della comunicazione alle parti del dispositivo eventualmente deliberato, chiarendo espressamente che “il provvedimento emesso in seguito alla camera di consiglio è depositato in cancelleria al termine dell’udienza. Il deposito equivale alla lettura in udienza ai fini di cui all’articolo 545”. Quindi risulta chiarito che è il deposito, e non la comunicazione disposta dall’art. 167-bis disp. att., che per sé costituisce “pubblicazione della sentenza”, sicchè l’eventuale ritardo della comunicazione non ha alcun effetto sulla decorrenza dei termini per impugnare ([27]).
5. Il concordato anche con rinuncia ai motivi di appello
5.1. La normativa emergenziale pandemica non aveva disciplinato espressamente il coordinamento tra la procedura cartolare non partecipata e la richiesta di definizione del processo di appello con applicazione dell’istituto del concordato anche con rinuncia ai motivi di appello, lasciando così alla prassi la soluzione delle connesse inevitabili problematiche: fino a che momento la richiesta poteva essere presentata, come era acquisito il parere di condivisione del procuratore generale, qual era il rapporto tra la richiesta di applicazione del concordato e la presentazione delle conclusioni pure per l’evenienza del suo non accoglimento, qual era lo sviluppo corretto del procedimento quando il giudice d’appello nella camera di consiglio cartolare non riteneva di accogliere la richiesta.
La nuova disciplina risolve i dubbi.
5.2. La dichiarazione di concordato è ammissibile sia nel rito cartolare che in quello in presenza.
L’art. 599-bis comma 1 chiarisce che il riferimento è solo alla dichiarazione congiunta (o a due dichiarazioni distinte ma convergenti): quindi deve ritenersi che la proposta di concordato, quella che proviene solo dall’imputato o dal procuratore generale sia inammissibile, non essendo prevista alcuna procedura d’ufficio per l’eventuale acquisizione del consenso dell’altra parte (ad opera del giudice o della sua cancelleria), salvo che nel termine dei quindici giorni pervenga il consenso della controparte.
In entrambi i riti la dichiarazione di concordato deve essere presentata, a pena di decadenza e con le eventuali rinunce ad alcuni dei motivi (nelle forme dell’art. 589), entro quindici giorni (non richiesti come liberi) prima dell’udienza. Quindi nel caso di rito cartolare il termine coincide con quello per il deposito dei motivi nuovi, delle memorie e delle richieste.
Ciò significa che la parte interessata dovrà attivarsi tempestivamente per depositare entro i quindici giorni dalla data di udienza la richiesta che abbia già acquisito il consenso e quindi l’accordo dell’altra parte.
Essendo il termine dei quindici giorni previsto a pena di decadenza, la prospettiva del concordato risulta preclusa se quel termine risulta superato.
5.3. La norma chiarisce ora che, a fronte del tempestivo deposito di dichiarazione di concordato con eventuale rinuncia parziale ai motivi, quando il giudice ritiene di non poter accogliere la richiesta concordata tra le parti, se si procede con rito cartolare dispone la prosecuzione in udienza con la partecipazione delle parti, indicando se con rito camerale o in udienza pubblica; il provvedimento è notificato e comunicato alle parti, con l’indicazione della data di nuova udienza [599-bis comma 3]. In tal caso, richiesta e rinuncia parziale perdono efficacia, ma possono essere riproposte in udienza.
Se invece si sta procedendo con la partecipazione delle parti (udienza pubblica o camerale), quando ritiene di non poter accogliere la richiesta concordata dalle parti il giudice dispone la prosecuzione del giudizio [599-bis comma 3-bis] ([28]).
In ogni caso richiesta e rinuncia non hanno effetto se la corte decide in modo difforme dall’accordo [599-bis comma 3-ter]
5.4. Quanto alla possibilità di modificare il contenuto del concordato non accolto, l’unico riferimento espresso ad una riproposizione è quello contenuto nel nuovo comma 3 dell’art. 599-bis: quando la corte, procedendosi con rito cartolare, non ritiene di accogliere la richiesta concordata tra le parti, dispone la prosecuzione con nuova udienza in presenza delle parti. In tal caso, come ricordato, richiesta ed eventuali connesse rinunce parziali ai motivi di appello perdono efficacia.
Ma, ecco il punto, richiesta e rinuncia possono essere riproposte nella successiva udienza in presenza. Certamente ciò che è possibile in quella nuova sede è che in presenza le parti persuadano il collegio ad accogliere la stessa originaria richiesta avendo l’opportunità di meglio spiegare ed integrare le ragioni che hanno condotto all’accordo. Sicchè il medesimo collegio non è vincolato dalla precedente decisione di non accoglimento, deliberata nella camera di consiglio cartolare.
La questione che si pone è però se, giunti all’udienza in presenza o all’esito del rigetto del concordato deliberato nell’udienza già in presenza (sono appunto le due alternative in rito possibili), le parti possano riproporre una richiesta in termini diversi da quelli contenuti nella specifica dichiarazione di concordato depositata, a pena di decadenza, originariamente [599-bis nuovo comma 1].
Il silenzio sulla possibilità di presentare richiesta di diverso contenuto dopo il rigetto della proposta originaria, nell’udienza già originariamente in presenza [599-bis, comma 3-bis], e il senso compiuto della mera riproponibilità della medesima richiesta nel caso di rito originariamente cartolare, prima esposto, uniti alla previsione di decadenza che accompagna l’originaria compiuta richiesta congiunta potrebbero ineccepibilmente condurre a ritenere che non sia possibile/legittima la proposizione di una nuova, differente richiesta concordata.
La conclusione pare tuttavia poter essere diversa.
Deve muoversi dal caso di una dichiarazione originaria, presentata nel termine a pena di decadenza, che presenti errori nelle modalità di determinazione del calcolo della pena finale, pur a fronte di una quantificazione finale giudicabile congrua. L’interpretazione letterale rigorosa di cui si è dato conto dovrebbe condurre a considerare non emendabile l’errore, né tanto più modificabile la pena finale una volta corretto il percorso del computo, anche quando questo sia l’esito di un mero nuovo calcolo aritmetico che si limita ad essere coerente alla correzione dell’errore, fermi i presupposti condivisi e in ipotesi congrui. L’impossibilità di correggere l’esito quantitativo tenendo fermi i presupposti (riconoscimento o esclusione di circostanze aggravanti, aumento imposto per una continuazione ritenuta, ecc.) parrebbe esito interpretativo incoerente alla natura dell’istituto. Ancor più, la stessa previsione di un imposto differimento dell’udienza, insieme con il mutamento del rito (fatti procedimentali di particolare impatto nella gestione dei ruoli, in contesti di scarsità di risorse e di necessità di attenta utilizzazione del prezioso bene rappresentato dal ‘tempo di udienza’), parrebbe soluzione francamente disequilibrata se finalizzata ad un mero ripensamento sui medesimi presupposti.
Può quindi concludersi che dal punto di vista sistematico vi siano chiare indicazioni sul favore per l’applicazione dell’istituto, che ha sicuramente una portata semplificatoria e di risparmio dei complessivi tempi di lavoro di tutti gli operatori protagonisti del singolo procedimento, non solo del grado di appello ma pure dell’eventuale giudizio di cassazione (che per le sentenze deliberate con applicazione dell’art. 599-bis prevede il rito de plano per l’esito che dichiari l’inammissibilità [art. 610.5-bis]).
5.5. Concorrono al rilievo sistematico di favore per il senso dell’istituto le ragioni che hanno condotto all’abrogazione del comma 2 dell’art. 599-bis, norma che prevedeva alcune esclusioni oggettive per taluni reati.
Si tratta infatti di un intervento che ha posto fine ad un’anomalia strutturale evidente, che avrebbe dovuto fondare una seria questione di legittimità costituzionale.
A differenza dell’istituto dell’applicazione della pena su richiesta [444], il concordato sui motivi ex art. 599-bis non prevede affatto benefici sanzionatori (che tale invece è la diminuzione fino a un terzo del ‘patteggiamento’) bensì si risolve nell’accoglimento di uno o più motivi: quindi, ecco il punto essenziale, costituisce semplicemente una richiesta di deliberazione che il giudice di appello potrebbe adottare autonomamente, negli stessi termini richiesti, all’esito della discussione. Nessuna riduzione di pena che all’esito del giudizio mai potrebbe essere accordata, quindi: invece la pena dell’istituto dell’art. 444 può essere pena che mai il giudice all’esito del processo avrebbe potuto applicare, proprio perché l’accesso al rito alternativo porta un bonus potenziale di riduzione sotto il minimo edittale proprio del reato e, comunque, una modifica migliorativa della ‘pena di giustizia’ che il giudice all’esito del processo avrebbe applicato secondo i parametri generali dell’art. 133 cod. pen.. Ecco perché le esclusioni oggettive dall’istituto hanno un senso sistematico nel ‘patteggiamento’ ma non ne hanno alcuno nel concordato anche con rinuncia ai motivi.
Questa abrogazione, e le ragioni sistematiche che l’hanno fondata, contribuiscono allora ad arricchire di valenza sistematica la soluzione più favorevole: poiché il giudice di appello potrebbe comunque all’esito del giudizio adottare una deliberazione esattamente conforme alla possibile rimodulazione dell’originaria richiesta di concordato, una lettura impeditiva si risolverebbe in una preclusione francamente priva di ragione sistematica alcuna.
5.6. In definitiva, ammettere la possibilità di rimodulazione rispetto alla formulazione originaria del concordato, conduce ad unità i vari aspetti: l’istituto non è caratterizzato da premialità sanzionatoria ([29]); risponde al principio costituzionale della ragionevole durata anche per il regime impugnatorio; il favore per il contatto di persona con il giudice promuove il confronto chiarificatorio; la previsione del termine di decadenza per il deposito del concordato è funzionale ad ottimizzare i tempi di studio e lavoro e a favorire il confronto; in concreto in definitiva si arriva ad un’anticipazione di decisione che avrebbe comunque potuto essere poi adottata con possibilità di impugnazione ordinaria ed i conseguenti tempi e incombenti.
5.7. Abrogazione dei divieti previsti dall’art. 599.2 e passaggio dal rito cartolare alla trattazione orale nel caso di non accoglimento del concordato proposto in quella sede realizzano certamente un rafforzamento della negozialità in chiave deflattiva.
Molto puntuale è in proposito il rilievo ([30]) che ad essi va aggiunta la riduzione di un sesto di pena a quella applicata in esito a rito abbreviato, quando la sentenza non venga impugnata: si è notato tra l’altro che il sesto diminuisce una pena già ridotta di un terzo per il rito (pervenendosi in concreto nei pressi della metà della pena giusta ex art. 133 cod. pen.). E certamente questa disciplina [442.2-bis] pone inevitabilmente anche una indicazione forte di politica giudiziaria, rispetto al fenomeno degli appelli proposti solo per cercare di ottenere, con il concordato, diminuzioni ulteriori di pena in appello. La presenza di questa opzione (un sesto in meno per la mancata impugnazione) non può che influire sulle quantificazioni di eventuali riduzioni di pena ai sensi dell’art. 599-bis, che non dovrebbero essere pari o superiori al sesto (fatti ovviamente salvi i casi in cui a diminuzioni superiori si debba giungere a seguito di accoglimento di motivi sicuramente fondati su punti della decisione che hanno influito in modo strutturale nel percorso di calcolo della pena finale).
6. L’assenza nel giudizio di appello
6.1 La nuova disciplina ha rimodulato a fondo la possibilità del giudizio in assenza, in particolare con la rivisitazione degli artt. 420-bis e 420-quater. La notifica deve tendenzialmente avvenire a mani proprie o di persona espressamente delegata al ritiro dell’atto; occorre altrimenti che vi siano indicazioni inequivoche di una assenza dovuta a scelta consapevole e volontaria; vengono meno le presunzioni ‘nominate’, occorre una motivazione specifica su fatti procedimentali specifici; se non è possibile spiegare quest’ultima (nelle sue varie articolazioni) non si sospende ma si delibera sentenza di improcedibilità per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato: sentenza in rito, con avvisi sulle modalità del prosieguo e prescrizione sospesa, revocabile quando l’imputato é rintracciato e ha ricevuto la notifica della sentenza di (temporanea) improcedibilità. Quando l’imputato è dichiarato assente e il processo è in corso, se compare ricorrendo determinate condizioni può essere rimesso in termini per esercitare le facoltà da cui è decaduto.
6.2 Quando si procede in appello con trattazione orale, se l’imputato è appellante e le notificazioni sono regolari si procede sempre in assenza anche fuori dei casi dell’art. 420-bis. Si tratta di un corollario del fatto che l’appello è stato proposto da lui o nel suo interesse da difensore eventualmente munito di mandato speciale e che per l’atto l’imputato ha depositato la dichiarazione o elezione di domicilio. Se le notificazioni sono regolari ma l’imputato non è appellante e non ricorrono le condizioni di cui all’art. 420-bis, commi 1, 2 e 3, la Corte sospende il procedimento e dispone le ricerche per la notifica della citazione [598-ter.2]. Quando infine si procede con rito cartolare, accertata la regolarità della notifica ovviamente non è dichiarata l’assenza; se tuttavia l’imputato non è appellante e non ricorrono le condizioni di cui all’art. 420-bis, commi 1, 2 e 3, la Corte provvede con l’ordinanza di sospensione e ricerche.
La differente soluzione con il primo grado (che procede a sentenza di improcedibilità per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato: 420-quater) è data ovviamente dal fatto che vi è ormai una sentenza di merito deliberata che non potrebbe essere travolta da una seconda successiva sentenza di improcedibilità sostanzialmente temporanea.
La durata della sospensione è potenzialmente indeterminata. Se si procede per reato consumato dopo il 01/01/2020 si applica infatti la disciplina dell’art. 344-bis comma 6. Se si procede per reato consumato entro il 31/12/2019 si applica l’art. 159.1.n.3-bis ([31])
6.3 La rivisitazione della disciplina in primo grado ha un’immediata ricaduta in quella delle questioni di nullità nel giudizio di appello. La dichiarazione di assenza quando mancavano le condizioni dei primi tre commi dell’art. 420-bis determina la nullità della sentenza di primo grado, che però deve essere eccepita con specifico motivo di appello ([32]) altrimenti è sanata [604, nuovo 5-bis]: non può pertanto essere rilevata d’ufficio. Se dichiara la nullità il giudice di appello dispone la trasmissione degli atti al giudice che procedeva quando la nullità si è verificata.
Non sussiste comunque nullità [604, nuovo 5-bis, ultima parte] se risulta che l’imputato era a conoscenza della pendenza del processo ed era nelle condizioni di comparire in giudizio prima della pronuncia della sentenza impugnata.
Occorre quindi un’accurata conoscenza e valutazione di cosa è accaduto nel corso del procedimento e dalle notificazioni della citazione a imputato e difensore/i. Questa indicazione, inequivoca, pone almeno un problema nuovo, che presenta profili delicati.
Il giudice di primo grado [e quello di appello che deve valutare se sussista questa sorta di condizione ostativa alla possibilità di eccepire o rilevare ([33]) la nullità] non ha né può consultare il fascicolo del pubblico ministero, per cui diviene onere del rappresentante della parte pubblica, nei due gradi, acquisire e rappresentare i fatti di possibile pertinente rilievo procedimentale che si sono verificati nella fase delle indagini preliminari e fino all’eventuale udienza preliminare.
Ma, soprattutto, nel nuovo sistema diviene nevralgica la comprensione di quale sia stato il rapporto tra l’imputato ed il suo difensore, di fiducia o di ufficio che sia, in particolare dal momento in cui il difensore ha ricevuto l’avviso di fissazione dell’udienza. E questo aspetto, essenziale nell’economia della disciplina al fine di poter affermare o escludere anche la conoscenza della pendenza del processo, è nella conoscenza del solo difensore, quando l’imputato non sia presente ovvero manchino elementi documentali (una nomina, un’istanza, la presentazione di un certificato medico, ecc.) dal cui contenuto si possa evincere esaustivamente, anche solo sul piano logico, il dato della conoscenza della pendenza del processo (e non già del solo procedimento), se non specificamente della data dell’udienza.
Ed allora diviene fisiologia della relazione tra giudice e parti, con la nuova disciplina, che il primo nelle situazioni di incertezza possa, o debba in realtà, interpellare il difensore su quali siano stati i suoi contatti con l’imputato dal momento delle notifiche per applicare correttamente la norma. Ovvero che debba essere riconosciuto uno speculare obbligo del difensore, di fiducia o di ufficio, di rappresentare al giudice di primo grado (e dedurre specificamente e analiticamente nell’eventuale motivo di appello) l’assenza di ogni rapporto e le ragioni che la hanno determinata.
Tema nuovo nella pregnanza con cui si pone, ma che pare francamente ineludibile ([34]).
6.4 Il nuovo comma 3-ter del medesimo art. 604 prevede poi i casi nei quali, al di fuori delle ipotesi di nullità considerate dal comma precedente, il giudice di appello restituisce l’imputato nel termine per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto (quando per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento si è trovato nell’assoluta impossibilità di comparire e, incolpevolmente, di comunicare tempestivamente l’impedimento; se, quando l’assenza è stata dichiarata fuori dei casi di notifica a mani o a persona espressamente incaricata del ritiro o rinuncia espressa a comparire o far valere un impedimento, provi di non aver avuto effettiva conoscenza del processo e non esser potuto intervenire, incolpevolmente, per esercitare le facoltà da cui è decaduto). In questi casi [604, 5-quater], se la facoltà riguarda la richiesta di applicazione dell’art. 444 ovvero l’oblazione ovvero la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ([35]), provvede direttamente il giudice di appello (e se questi rigetta le richieste di applicazione della pena o di oblazione le stesse non possono più essere riproposte).
Negli altri casi il giudice di appello annulla la sentenza e trasmette gli atti al giudice della fase nella quale può essere esercitata la facoltà da cui l’imputato è decaduto [604.5-quater].
Trattandosi di annullamento per decadenza dall’esercizio di una facoltà, va posta la questione se l’annullamento prescinda dalla specifica e vincolante dichiarazione di voler esercitare tale facoltà ovvero debba essere automatico, quindi ritenendosi poi fisiologico che restituito nel termine davanti al giudice ‘naturale’ l’imputato possa poi scegliere di non esercitare quella facoltà della cui decadenza si è doluto ottenendo l’annullamento della sentenza di primo grado. Si pensi al caso di decadenza incolpevole dalla facoltà di chiedere il rito abbreviato: presupposto dell’annullamento è la richiesta (vincolante) che si proceda con rito abbreviato ovvero la retrocessione avviene anche se solo ‘esplorativa’, riservandosi quindi l’imputato di esercitare o meno la facoltà di chiederlo?
Il principio costituzionale di ragionevole durata del processo parrebbe ostare ad una retrocessione formalistica, non strettamente funzionale al soddisfacimento di un concreto ed effettivo interesse, ed effetto, ‘riparatorio’. D’altronde, quando la richiesta di restituzione nel termine è proposta, con specifico motivo di appello o con richiesta presentata prima della discussione di appello ([36]), l’istante ha già avuto la possibilità di una piena conoscenza degli atti sia processuali (fascicolo per il dibattimento) che di indagine preliminare (fascicolo del pubblico ministero). Non pare decisiva a sostenere la tesi opposta la lettera della locuzione: “giudice della fase nella quale può essere esercitata la facoltà dalla quale l’imputato è decaduto”. Il tempo presente del verbo risulta compatibile con entrambe le interpretazioni.
La norma prevede che in ogni caso rimane ferma la validità degli atti regolarmente compiuti in precedenza [604.5-ter].
6.5 La disciplina dei nuovi commi 5-bis e 5-ter dell’art. 604 riceve un seguito specifico nella disciplina dell’annullamento con rinvio nel rito di cassazione. Infatti l’art. 623, comma 1, inserisce una lettera bb), disponendo che nel caso del comma 5-bis la Corte di cassazione disponga la trasmissione degli atti direttamente al giudice del grado e della fase in cui si è verificata la nullità; nei casi disciplinati dal comma 5-ter la trasmissione avviene al giudice del grado e della fase in cui può essere esercitata la facoltà da cui l’imputato è decaduto.
Tuttavia in entrambi i casi l’annullamento non può essere disposto se “risulta che l’imputato era a conoscenza della pendenza del processo e nelle condizioni di comparire a giudizio prima della pronuncia della sentenza impugnata”. Va notato che nella disciplina dei commi 5-bis e 5-ter questa condizione inibente è prevista solo per la nullità disciplinata dal primo. La discrasia parrebbe attribuire alla Corte di cassazione un potere di apprezzamento di merito (sia pure in relazione ad una questione procedimentale) che il giudice di appello non ha. Del resto i limiti di rilevanza dell’operatività delle ipotesi del comma 5-ter sono già indicati (ed in parte diversi) all’interno delle due ipotesi previste.
7. La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale
Due le novità, riguardanti la riformulazione del comma 3-bis e un nuovo comma 3-ter.
7.1 Sono anche due le novità nel comma 3-bis.
La prima è data dal richiamo espresso ai primi tre commi dell’art. 603. Si tratta di un chiarimento volto a ribadire che i limiti entro i quali il comma 3-bis (anche nella sua interpretazione giurisprudenziale) impone la rinnovazione di prove dichiarative lasciano tuttavia impregiudicata ogni possibilità del giudice di appello di procedere comunque alla rinnovazione quando ricorrono le condizioni indicate nei primi tre commi della norma ([37]).
La seconda porta a soluzione normativa il disagio interpretativo determinato dall’estensione, operata da SU sent. 27620 del 28/04/2016, ric. Dasgupta (e subito confermata da SU sent. 18620 del 19/01/2017, ric. Patalano) dell’obbligo di esaminare d’ufficio i dichiaranti, nei casi di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, anche ai giudizi svoltisi con rito abbreviato nei quali nessun dichiarante era stato esaminato dal giudice (nelle due ipotesi possibili degli artt. 438.5 e 441.5).
In concreto in tale ipotesi si andava in realtà ad una prima escussione procedimentale da parte di un giudice.
La modifica normativa trae spunto anche dall’evoluzione della giurisprudenza europea che aveva dato origine all’introduzione dell’art. 603.3-bis ([38]).
7.2 Il nuovo comma 3-ter dell’art. 603 dispone che quando si procede alla rinnovazione a seguito di accoglimento di richiesta ex art. 604.5-ter e 5-quater, se nel giudizio di primo grado si è proceduto in assenza perché l’imputato latitante si era volontariamente sottratto alla conoscenza della pendenza del processo [420-bis.3], la rinnovazione è disposta nei limiti previsti dall’art. 190-bis.
8. Alcune delle questioni rimaste aperte nel rito cartolare
Il raccordo tra le regole processuali del rito ordinario pre-covid19 e il rito cartolare non sempre è stato ed è agevole.
Alcune delle problematiche evidenziate dall’esperienza in corso neppure nella nuova disciplina, che rende il rito cartolare forma ordinaria del contraddittorio di appello, troveranno immediata soluzione.
8.1 Una prima problematica riguarda la possibilità di disporre la riunione ai sensi dell’art. 17 (quindi i casi della connessione ex art.12 e dell’art. 371.2 lett. b) quando appunto più procedimenti relativi al medesimo imputato sono autonomamente fissati alla stessa udienza con rito a contraddittorio cartolare.
Si pensi al caso di un (presunto) truffatore o ladro seriale, che sia stato giudicato in primo grado per reati della medesima indole in più processi, per i quali pendano autonomi procedimenti di appello: si tratta di situazioni che generalmente attivano poi uno o in genere più procedimenti in fase di esecuzione per l’eventuale riconoscimento della continuazione. In altri casi l’omogeneità delle modalità di consumazione dei reati ha un potenziale immediato rilievo probatorio sulla tematica della ripetutamente dedotta mancanza di elemento soggettivo.
Va distinta l’ipotesi che in tutti i procedimenti l’imputato sia assistito da un unico difensore da quella di un’assistenza di più difensori, ed eventualmente alcuni di fiducia ed altri di ufficio. Nel secondo caso la riunione appare obiettivamente impraticabile con il rito cartolare, per l’articolazione delle conseguenze (in presenza di più difensori di fiducia dovrebbero ‘saltare’ dopo la riunione le nomine d’ufficio e comunque anche di alcuni difensori di fiducia, in applicazione della norma sul limite dei due soli difensori che possono assistere l’imputato nell’unico procedimento, quale diviene quello di più remota iscrizione che incamera gli altri. In ogni caso la riunione assegnerebbe uno o più difensori a procedimenti il cui contenuto è loro ignoto, con la necessità quantomeno di un differimento che per sé farebbe venire meno la condizione della riunione che, secondo l’art. 17, non deve determinare un ritardo nella definizione degli stessi).
Quando però l’imputato è assistito in tutti i procedimenti dal medesimo difensore, che ha quindi redatto e presentato tutti gli autonomi atti di appello, si realizzano le condizioni della piena conoscenza che nessun pregiudizio riceverebbe dalla riunione in unico procedimento.
In questo caso si pone una questione ulteriore, riguardante la modalità di applicazione dell’art. 19, norma che richiede che la riunione (come la separazione) sia preceduta dalla interlocuzione delle parti. Deve ritenersi che l’essere il medesimo difensore destinatario informato di tutti gli autonomi decreti di citazione per la medesima udienza lo metta nelle condizioni di interloquire anche sull’opportunità della riunione, divenendo irrilevante che poi in ipotesi nelle sue conclusioni scritte autonome per ciascun procedimento non vi sia un espresso richiamo al tema della riunibilità, posto che ciò che solo rileva è l’essere stato messo nella possibilità di concludere efficacemente ([39]).
8.2. Altra questione riguarda la rinnovazione istruttoria documentale quando appunto si procede inizialmente con rito cartolare.
8.2.1. In rito si danno due diverse situazioni: quando la documentazione di cui si chiede (nella prassi non sempre specificamente per il vero) ammissione e valutazione è allegata all’atto di appello; quando la stessa viene allegata alle conclusioni se non addirittura a memorie di replica.
Nel merito, poi, paiono due le possibili tipologie di documentazione: quella che ha effettiva valenza di prova (la prova documentale) quindi in grado di influire sulla deliberazione del punto della decisione devoluto da precedente singolo motivo specifico; quella che introduce aspetti di fatto idonei a influire su punti della decisione specifici relativi al solo trattamento sanzionatorio (su cui la eventuale parte civile mai potrebbe interloquire essendo nel giudizio solo per l’esercizio di un’azione civile) e, comunque, alla situazione personale, o cautelare, dell’imputato.
8.2.2. Innanzitutto è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che, sotto il profilo formale, l’acquisizione di una prova documentale nel giudizio di appello postula che la prova richiesta sia rilevante e decisiva rispetto al quadro probatorio in atti ([40]), mentre non è necessaria la formale ordinanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ([41]). L'acquisizione di documenti dev'essere operata dopo che al riguardo sia stato assicurato il contraddittorio fra le parti, con la sanzione, in caso contrario, della inutilizzabilità dell'atto ai fini della deliberazione, ai sensi dell'art. 526 comma primo cod. proc. pen. ([42]).
Ancora una volta, però, il rispetto del contraddittorio non comporta un autonomo incombente formale di effettivo confronto sul punto, ma impone che le parti siano poste in condizione di interloquire e far valere le loro ragioni in ordine all'assunzione di una prova: quindi conoscenza della richiesta di introduzione del documento e possibilità di interloquire, non effettiva interlocuzione specifica ([43]).
Quanto ai documenti costituenti prova documentale in senso tecnico, nessun problema di rispetto del diritto al contraddittorio pone il caso dell’allegazione del documento che si chiede di acquisire avvenuta con l’originario atto di appello. In questo caso, infatti, le altre parti che debbono o possono presentare le conclusioni sono nelle condizioni di aver conosciuto il contenuto dell’atto di impugnazione ed i suoi eventuali allegati, sicchè sono certamente stati messi nelle condizioni per potere concludere anche, o pur solo, su tale aspetto: che poi non lo facciano è irrilevante. Ciò sembrava potersi dire anche nel caso di richiesta contenuta nei motivi aggiunti ex art. 585, sempre che la stessa fosse pertinente ad uno dei punti della decisione devoluti con i motivi specifici originari (ma ora v. nota 44).
Quando i documenti costituenti prova vengano allegati alla memoria con le conclusioni e le richieste, la soluzione preferibile pare quella della loro inammissibilità: si è conclusa la fase delle richieste probatorie e delle allegazioni a sostegno dei motivi, fase che non può essere riaperta nella procedura cartolare modificando il quadro probatorio. Si tenga presente – ed è rilievo di ordine generale – che il rito cartolare deve caratterizzarsi per la tendenziale speditezza: chi intende riaprire l’istruttoria dibattimentale o comunque approfondire in necessario contraddittorio problematiche probatorie ha la via maestra ed agevole, fisiologica verrebbe da dire, della richiesta di trattazione orale, quindi non c’è alcun motivo sistematico di forzare l’estensione del rito cartolare a contraddittorio scritto ([44]). Per questo ogni situazione che per consentire l’ammissione imponga un differimento di udienza per integrare le condizioni del possibile contraddittorio dovrebbe tendenzialmente condurre all’originaria inammissibilità della richiesta per tardività non compatibile con il rito.
Anche questa volta quindi il problema va affrontato avendo attenzione al doveroso rispetto del diritto al contraddittorio in ordine all’acquisizione ed alla valutazione del documento. Nel caso di prova documentale la cui acquisizione è stata tempestivamente richiesta dovrà quindi procedersi al differimento del procedimento con passaggio alla trattazione orale in successiva udienza in presenza ([45]).
Per i documenti che si sottraggono ad un’esigenza di contraddittorio perché destinati a introdurre fatti situazioni e contesti utili alle valutazioni relative al trattamento sanzionatorio [su cui la parte civile, che esercita appunto solo un’azione civile, non può interloquire ([46])] non sussistono invece ragioni per pretendere limiti temporali anticipati rispetto alle conclusioni.
Vi è poi la situazione dell’imputato appellante che sia in misura cautelare, custodiale o meno, e colga, fisiologicamente, l’udienza di trattazione del suo appello come occasione per richiedere la rivisitazione del suo stato cautelare ([47]). Si pone il problema dell’interlocuzione con la persona offesa (costituita o meno parte civile) quando si stia procedendo per delitti che la richiedano: spesso la richiesta è infatti contenuta solo nelle conclusioni. Deve ritenersi che se l’appellante e la sua difesa non si sono per tempo attivati per far conoscere specificamente la loro istanza alla persona offesa, con rispetto dei due giorni successivi alla notifica per una loro eventuale memoria, nessuna deliberazione possa essere presa contemporaneamente alla deliberazione del dispositivo. In particolare, neppure sembra corretta la soluzione che sia sufficiente depositare le conclusioni, contenenti pure l’istanza, nei termini previsti per le stesse previsti: l’istanza di rivisitazione dello stato cautelare attiene infatti a situazione del tutto autonoma e diversa rispetto ai punti della decisione devoluti con gli originari motivi di appello, sicché non può sostenersi sussistere un onere di diligenza fisiologica della persona offesa costituita parte civile di acquisire conoscenza delle conclusioni dell’imputato per verificare che in esse non vi siano anche richieste cautelari.
8.3 Una questione particolare è quella del coordinamento tra i termini di presentazione delle conclusioni e la disciplina che gli artt. 107 e 108 danno nei casi di rinuncia, revoca, incompatibilità, abbandono, in ordine al termine a difesa, che deve essere non inferiore a sette giorni, spettante al nuovo difensore di fiducia o al difensore d’ufficio nominato dal giudice.
Due gli aspetti che vengono in rilievo.
Il primo si è posto con la disciplina emergenziale, che individuava in cinque giorni il termine per il deposito delle conclusioni della parte. Quando la nomina del nuovo difensore avveniva sei giorni prima, la tempestiva richiesta del termine a difesa avrebbe imposto al difensore revocato o rinunciante di presentare lui entro i cinque giorni le conclusioni.
Ma analogo problema si poneva nei casi in cui la rinuncia/revoca e la nomina del nuovo difensore fossero avvenute meno di sette giorni prima della scadenza del termine per concludere.
Con la nuova disciplina dei termini per concludere (quindici giorni dalla udienza) viene meno il problema del termine rispetto alla data dell’udienza, ma permane quello di una nomina del nuovo difensore che intervenga oltre il ventiduesimo giorno prima dell’udienza, quando il nuovo difensore chieda i termini a difesa.
In questa situazione dal punto di vista sistematico dovrebbe ritenersi che, quando la richiesta del termine a difesa presentata dal nuovo difensore sia stata tempestivamente comunicata al difensore revocato o rinunciante, nulla impedisca di ritenere operante il principio della permanenza dell’onere di difesa fino alla scadenza del termine assegnato al nuovo difensore (appunto art. 107, commi 3 e 4) in capo al precedente difensore, onerato pertanto della presentazione tempestiva delle conclusioni ([48]).
8.4. Ha invece già ricevuto soluzione appagante la questione del legittimo impedimento di difensore ed imputato in relazione all’udienza con contraddittorio cartolare in assenza.
Pacifica l’irrilevanza dell’impedimento dell’imputato (ha scelto il processo in assenza, non ha alcuna sua personale attivazione procedimentalizzata una volta che non abbia scelto la trattazione orale tramite il difensore), è irrilevante anche l’impedimento del difensore che non incida sul periodo immediatamente precedente la scadenza del termine per la presentazione delle conclusioni, in concreto impedendola ([49]).
9. La specificità estrinseca (581.1-bis) e lo spoglio preliminare
Nell’art. 581 è introdotto il comma 1-bis, volto a disciplinare la cd. specificità estrinseca, che può essere definita come la esplicita correlazione dei motivi di impugnazione con le ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata ([50]). In particolare, quindi, l’appello non può ignorare, o fuggire, il confronto argomentativo con le ragioni che il giudice ha esposto in sentenza per sostenere e spiegare la propria deliberazione sui singoli punti della decisione. Ovviamente questo confronto è proporzionale all’impegno argomentativo del giudice: quanto meno la statuizione su un punto della decisione è argomentata, tanto minore è l’onere di confronto argomentativo dell’appellante.
Chiaro il senso del requisito della specificità estrinseca: dare necessaria serietà all’atto di impugnazione, innalzandone la qualità e indirizzandolo verso una ricostruzione del giudizio di appello non “giudizio a tutto campo” ma “controllo sul giudizio” ([51]). Il nostro appello penale non è un gravame, tantomeno attribuente al giudice del grado successivo la possibilità di spaziare in una rivisitazione autonoma del primo giudice, officiosa e senza limiti (come, ad esempio, è nel riesame o nell’opposizione a decreto penale). E’ invece contestazione e critica del dispositivo di primo grado in relazione al contenuto degli atti processuali. Se quel dispositivo, nelle sue articolazioni, è sorretto da motivazione a sua volta specifica, sarebbe sistematicamente irragionevole consentire all’appellante di prescindere del tutto dal confronto argomentativo con le ragioni esposte dal giudice quale base necessaria della sua deliberazione: la richiesta di controllo del giudizio e sua conseguente rivisitazione che ignori le ragioni spiegate per fondare quel giudizio introduce generalmente ad una mera perdita di tempo.
Si è criticata una sorta di cassazionalizzazione dell’appello: ma è critica fuorviante, il controllo richiesto è innanzitutto controllo di merito del punto della decisione devoluto dal singolo motivo specifico; il confronto tra le argomentazioni della sentenza e le argomentazioni del motivo, sul singolo punto della decisione devoluto, può essere solo momento di partenza del lavoro del giudice d’appello, non lo esaurisce. Il giudice di cassazione confronta sentenza impugnata e motivo di ricorso; il giudice di appello confronta dispositivo e contenuto probatorio e procedimentale (secondo che il motivo censuri il merito o il rito) ed esprime apprezzamenti, “vaglia i discorsi narrativi” ([52]).
Alla specificità estrinseca si affianca la cd. specificità intrinseca: la richiesta non può essere sorretta da considerazioni generiche o astratte, o comunque non pertinenti al caso concreto, buone per tutti i casi e quindi specifiche per nessuno; occorre indicare un percorso logico-giuridico, degli elementi di fatto di quel singolo caso e di quello specifico imputato, delle considerazioni potenzialmente idonee (quando fondate) ad indirizzare effettivamente la decisione verso la riforma sollecitata dalla singola richiesta. Accertatane la presenza grafica, poi il giudice d’appello valuterà se quel percorso è idoneo o se da esso può muovere un anche diverso percorso che conduce al medesimo risultato richiesto nelle conclusioni dell’atto di appello.
Entrambe sono necessarie per determinare la specificità ([53]), e quindi l’ammissibilità, del singolo motivo che sostiene la singola richiesta di riforma.
Il testo della norma muove dal richiamo espresso alla mancanza di specificità dei motivi e abbina l’obbligo di enunciare in forma “puntuale ed esplicita” i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto ad ogni richiesta. Non pare pertanto che possa sorgere incertezza sul fatto che il riferimento all’esigenza di specificità sia solo alla lettera d) del primo comma dell’art. 581 ed alla lettera c) per i casi in cui la richiesta anche istruttoria abbia dato vita ad un motivo autonomo di contestazione di contraria deliberazione nel primo giudizio. Del resto, l’attuale comma 1 dell’art. 581 già prevede l’inammissibilità per la mancata enunciazione specifica dei requisiti indicati dalle altre lettere.
9.1. Il concetto di punto della decisione è essenziale nel giudizio di appello: delinea infatti l’ambito di ciò che concretamente e solo è devoluto al giudice del secondo grado di merito (597.1: “l’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti”) e conseguentemente della parte di motivazione con cui l’appellante si deve confrontare ([54]).
Ogni volta che si parla di specificità del motivo di appello occorre dunque avere chiara la nozione codicistica di punto della decisione, chiarita e ribadita da almeno tre sentenze delle Sezioni Unite: 1/2000, Tuzzolino; 10251/2007, Michaeler; 8825/2017, Galtelli (2.2): “tutte le statuizioni suscettibili di autonoma considerazione necessarie per ottenere una decisione completa su un capo” ([55]).
9.2. L’aspecificità del motivo è quindi cosa diversa dalla sua eventuale manifesta infondatezza ([56]). Nel giudizio di appello, differentemente dal giudizio di cassazione, appunto solo la prima porta all’inammissibilità del motivo, rilevabile d’ufficio e anche con mera ordinanza de plano.
9.3. Il giudizio di appello è infatti giudizio di merito. Quindi, differentemente dal ricorso per cassazione, non è inammissibile il motivo che, purché (estrinsecamente ed intrinsecamente) specifico, riproponga questioni già prospettate al primo giudice e da quello motivatamente disattese ([57]). Perché l’apprezzamento del secondo giudice su quelle stesse questioni può essere diverso, e può condividere nel merito valutazioni non condivise dal primo giudice (si pensi al tema dell’adeguatezza della pena, punto della decisione dove la logica può sorreggere un’indicazione, salvandola dall’illogicità manifesta, ma per sé mai può spiegare esaustivamente perché tra il minimo e il massimo sarebbe giusta unicamente una determinata pena posta all’interno della forbice edittale).
9.4. Il principio di diritto che afferma la nozione di specificità estrinseca è stato affermato dalle Sezioni Unite Galtelli vigendo il testo originario degli artt. 581 e 591. Pertanto, è contenuto proprio già della originaria nozione codicistica di specificità ([58]) e di fatto costituisce diritto vigente perché giurisprudenza consolidata. Ciò vale ad escludere la fondatezza di alcuna deduzione di illegittimità della dichiarazione di inammissibilità del motivo di appello per aspecificità estrinseca per gli atti di appello depositati prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo 150/2022: la si dichiarava prima, si continua a dichiararla dopo il decreto, per tutti gli atti di appello, quale che sia la data del loro deposito. Sostanzialmente, l’inserimento del comma 1.bis nell’art. 581 può qualificarsi mera norma di interpretazione autentica, la cui emanazione ‘non sorprende’ alcuno .
9.5. Per completezza, due sono gli effetti dell’inammissibilità del motivo per aspecificità estrinseca.
Innanzitutto la sua rilevabilità già in sede di spoglio preliminare dei fascicoli quando pervengono in corte di appello dal primo grado (con la conseguente definizione del procedimento con ordinanza de plano secondo l’art. 591), nel caso in cui l’atto di appello contenga quel solo motivo ovvero quando tutti i motivi siano così viziati (conseguenza: tempestiva ordinanza di inammissibilità dell’appello). Quando invece l’atto di appello contenga anche motivi ammissibili, l’inammissibilità del singolo motivo per aspecificità estrinseca permane e va rilevata in sede di camera di consiglio e conseguente motivazione della sentenza su quel punto della decisione, dovendo questa limitarsi a darne atto senza alcun ulteriore onere di argomentazione diversa dalla spiegazione succinta delle ragioni della genericità ([59]).
10. Il recupero del principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale: quando l’azione penale si è esaurita, quale ne sia la ragione, l’azione civile prosegue davanti al giudice civile
È indubbio che una delle più rilevanti innovazioni introdotte dal d. lgs.150/2022 sia la disciplina della sorte dell’azione civile, esercitata nel processo penale, una volta che l’azione penale si esaurisca, quale ne sia la ragione (proscioglimento, per assoluzione o estinzione del reato, non impugnato dalla parte pubblica; ora, anche improcedibilità per decorso dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione ex art. 344-bis; impugnazione dei soli capi civili: 573.2): il giudice dell’impugnazione penale (appello o cassazione) rinvia al giudice civile competente per lo stesso grado, il quale decide sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile.
Quindi, non un nuovo giudizio, ma la prosecuzione del precedente che giungerà al giudice civile (giudice o sezione civile competente) attraverso la riassunzione della parte interessata.
10.1. Può muoversi dalla sentenza n. 176/2019 della Corte costituzionale: investita della richiesta di dichiarare non più costituzionalmente legittima (sostanzialmente per sopravvenuta irrazionalità) la previsione dell’art. 576 secondo cui l’appello della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento, quando la sentenza risulta all’esito del decorso dei termini pertinenti impugnata solo dalla parte privata e pertanto il giudizio di appello riguarda ormai solo la pretesa civilistica, deve essere trattato dal giudice penale anziché dal giudice civile, la Corte dichiarava infondata la questione (pur confermando la natura solo accessoria dell’azione civile nel processo penale) e indicava nell’azione del legislatore i rimedi alle disfunzioni sistematiche ([60]).
Ora il legislatore è intervenuto.
Rimane fermo il potere di impugnazione della parte civile (disciplinato dall’intonso art.576) avverso i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, avverso la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio (anche abbreviato quando la parte civile abbia accettato quel rito a prova contratta) ([61]).
Ma quando la sentenza, scaduti i termini per impugnare, risulta impugnata per i soli interessi civili [dalla parte civile ma pure dall’imputato ([62])] il nuovo comma 1-bis dell’art. 573 dispone che il giudice penale prima valuti l’ammissibilità dell’appello (o del ricorso se in Cassazione) e poi, in caso di ritenuta ammissibilità, “rinvii per la prosecuzione” al giudice civile o (se corte di appello o di cassazione) alla sezione civile del medesimo Ufficio giudiziario (tabellarmente) competente.
Questa (valutazione preliminare dell’ammissibilità dell’impugnazione e, se esito positivo, rinvio al giudice o alla sezione civile competente) è la soluzione anche nei casi di dichiarazione di improcedibilità per decorso dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione (art. 578.1-bis in relazione all’art. 344-bis).
10.2 Due i principali non semplici problemi in rito.
10.2.1 Il primo si articola in due questioni: la tipologia di provvedimento con il quale il giudice penale rinvia a quello civile e il rito per deliberarlo.
Va premesso che l’inammissibilità dell’impugnazione ai soli fini civili deliberata dal giudice penale viene senz’altro dichiarata con ordinanza de plano, perché non vi è deroga specifica rispetto alla disciplina generale dell’art. 591.2.
Per il provvedimento di rinvio al giudice civile, quando invece l’appello è originariamente ammissibile, la soluzione parrebbe dover essere diversa secondo che si proceda ai sensi dell’art. 578.1-bis o dell’art. 373.1-bis.
10.2.1.1 Nel primo caso la statuizione di rinvio deve essere contenuta nel provvedimento che dichiara l’improcedibilità, trattandosi di statuizioni contestuali. Ed allora il provvedimento non pare poter essere che la sentenza, atteso che la dichiarazione di improcedibilità vanifica e sostituisce la sentenza di primo grado ([63]).
10.2.1.2 Nel secondo caso il provvedimento di rinvio parrebbe dover essere adottato con ordinanza.
Perché, irrevocabili le statuizioni ai fini penali (proscioglimento definitivo, condanna irrevocabile subito eseguibile), per le statuizioni civili si tratta – volontà esplicita del legislatore cui anche la giurisprudenza di legittimità dovrà adeguarsi, perché tradottasi in norma di legge – di un rinvio per la prosecuzione del medesimo giudizio, appunto trattato in sede penale in primo grado e da trattarsi (quando l’impugnazione è stata valutata ammissibile) nei gradi successivi in sede civile. La lettera delle norme (573.1-bis, 578.1-bis) è inequivoca. Ed è confermata dal fatto che il giudice civile che poi decide nella sede propria deve utilizzare le prove acquisite nel processo penale, insieme con quelle eventualmente acquisite nel giudizio di impugnazione (o rinvio).
10.2.2. La seconda questione in rito è se la deliberazione per il rinvio debba essere adottata in udienza aperta al contraddittorio, almeno cartolare, delle parti ovvero, quantomeno nella situazione procedimentale ex art. 373.1-bis, con provvedimento de plano.
Effettivamente, nel caso ex art. 578.1-bis la contestualità con la sentenza di improcedibilità rende la soluzione dipendente da quella, più generale, che riguarda le modalità di dichiarazione dell’improcedibilità. Sul presupposto della necessità in tal caso di un provvedimento/sentenza, il fatto che l’improcedibilità sia rinunciabile e che la prima occasione procedimentale fisiologica che l’interessato ha per esprimere la propria volontà di rinuncia coincide con il momento della dichiarazione di improcedibilità rende preferibile la soluzione della fissazione di un’ordinaria (maxi…) udienza cartolare, che del tutto verosimilmente vedrà singole trattazioni in presenza per i soli casi di volontà di rinuncia all’improcedibilità o di ragionevole timore di una dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione da contrastare con contraddittorio in presenza.
10.3. Il secondo problema riguarda modalità e contenuto della riassunzione davanti al giudice civile, nonché l’individuazione delle regole di giudizio del processo “rinviato” “per proseguire”, una volta riassunto davanti al giudice civile ([64]).
Dovendosi escludere il materiale passaggio del fascicolo integrale del processo penale al giudice civile (essendo da tutti escluso che quest’ultimo debba applicare il rito penale), la soluzione necessaria pare quella della riassunzione a mezzo atto di citazione (art. 392 cod. proc. civ., da ultimo richiamato anche dalle Sezioni Unite penali 22065/2021 Cremonini).
La questione se il giudizio davanti al giudice civile dopo il rinvio disposto dal giudice penale costituisca la prosecuzione del medesimo processo o un nuovo giudizio civile appare in buona parte solo nominalistica. Le stesse SU Cremonini (in particolare i paragrafi 17.1, 17.5 e 18) e, prima, le SU penali sent. 46688/2016, Schirru (sulla sorte della parte civile in caso di sopravvenuta irrilevanza penale del fatto per cui si procedeva) hanno argomentato sulle conseguenze del passaggio conseguente al rinvio, in termini di rito, materiale probatorio da porre a base della decisione, regole di valutazione delle prove, tutela delle aspettative di chi esercita l’azione civile nel processo penale e, specularmente, dell’imputato nei cui confronti viene esercitata l’azione civile in quella sede, indicando anche la possibilità e la rilevanza della emendatio libelli nella citazione in riassunzione. Quegli insegnamenti non sono incoerenti al concetto di “prosecuzione” contenuto nella nuova disciplina (373.1-bis e 578.1-bis). E’ infatti certo che il processo civile dopo il rinvio non è un processo che può ignorare quanto accaduto nel processo penale che si è chiuso per la definizione della relativa azione, quindi un processo che riparte sostanzialmente ‘da zero’: il materiale probatorio acquisito nel processo penale entra a far parte del compendio probatorio del giudice civile, insieme a quello eventualmente acquisito in quella nuova sede; il giudice civile deve utilizzarlo, ancorché con libertà di apprezzamento e pur non dovendo applicare le regole processuali penalistiche ([65]); la parte interessata ad attivare la riassunzione dopo il rinvio ha nell’atto di citazione la possibilità di emendare la propria impostazione in ragione dell’art. 2043 cod. civ. rispetto al diffuso sostanziale automatismo del richiamo all’art. 185 cod. pen.. Di ciò chi sceglie di esercitare l’azione civile nel processo penale è quindi avvertito.
Ancor più ora è avvertito, visto che il legislatore espressamente lo allerta con l’introduzione di un importante, essenziale, inciso nell’art. 78.1 lett. d): aver infatti prescritto che la dichiarazione di costituzione deve contenere l’esposizione delle ragioni che giustificano la domanda “ai fini civili” risponde esplicitamente all’intento di assicurare un espresso allertamento, fin dall’ingresso nel processo penale, di quale potrebbe essere l’esito del procedimento, con un passaggio ad altro giudice e con regole in parte diverse, nel caso in cui l’azione penale si esaurisse senza la contestuale definizione della pretesa civilistica ([66]).
Problematiche peculiari sono poi poste per l’impugnazione del solo responsabile civile, che dall’art. 575 è legittimato in proprio all’impugnazione contro le disposizioni della sentenza riguardati la responsabilità dell’imputato e contro quelle relative alle restituzioni, al risarcimento del danno e alla rifusione delle spese processuali ([67]).
10.4. Certo, queste problematiche generali che le novità normative inducono (specialmente per i casi del solo appello di parte civile avverso le sentenze di proscioglimento e dell’improcedibilità dichiarata in processo dove è presente la parte civile) impongono, altresì e comunque, un ripensamento dell’approccio di giudici e avvocati alla tematica risarcitoria nel processo penale.
È così necessario innanzitutto che il giudice rifletta su una maggiore e migliore applicazione del proprio potere di deliberare una statuizione potenzialmente definitiva dell’azione civile già dal primo grado, limitando le liquidazioni generiche ai casi in cui ciò è inevitabile ed assicurando, in quelle ipotesi, un accorto impiego dell’istituto della provvisionale, acquisendo sempre maggiore esperienza nella capacità di indicare autorevolmente alle parti, con una saggia provvisionale, una somma effettivamente idonea a guidare le parti private ad accordi transattivi prima dell’esaurimento dei successivi gradi di giudizio.
In secondo luogo, per il difensore, appare importante l’abbandono di una prassi diffusa di inerte accodarsi a quel che fa, o si auspica faccia, il pubblico ministero, alle clausole di stile per la costituzione di parte civile e per le richieste pertinenti, ponendo invece una particolare attenzione ad introdurre tempestivamente elementi fattuali e prove pertinenti la propria domanda civile e, al momento della presentazione delle conclusioni, non solo alla migliore e più completa loro formulazione (la provvisionale non può essere assegnata se non è espressamente richiesta…; così è pure per la provvisoria esecuzione della liquidazione definitiva), ma anche alla loro realistica adeguatezza economica.
10.5. È utile anche evidenziare che la successione delle giurisprudenze penale e civile sul rapporto tra i due settori (di cui si dà particolare conto nella nota n. 64) ed i loro contrasti ripropongono l’attualità di un problema ordinamentale particolarmente delicato: la necessità della espressa previsione di casi rimettibili alle Sezioni Unite in composizione mista (civile e penale) per evitare contrasti insuperabili tra i due settori, con grave conseguenza sul ruolo nomofilattico dell’Istituzione Corte di cassazione ma, pure, sulla sua autorevolezza.
10.6. Appare infine opportuno segnalare un ulteriore peculiare aspetto, attinente sempre al versante organizzativo, che interessa in particolare le corti di appello. Invero, inevitabilmente, un conto è che l’esito del ‘rinvio’ avvenga con destinazione ad un ufficio diverso. Tutt’altro è il caso della gestione dell’istituto dell’improcedibilità per decorrenza dei termini di trattazione dell’appello quando nel procedimento sia presente la parte civile: qui il rinvio avviene all’interno del medesimo ufficio. Certamente non ultroneo sarebbe allora porsi tempestivamente il tema dell’apporto che i magistrati addetti al settore civile potrebbero utilmente dare al settore penale, nel contesto di un’intelligente organizzazione di udienze dedicate, per consentire la definizione ‘nei termini’ del maggior numero di procedimenti penali nei quali è stata esercitata l’azione civile (così ottenendosi il duplice risultato positivo della decisione nel merito, e non in rito, di entrambe le azioni, penale e civile).
11. Il probabile rilevante impatto sul giudizio di appello delle novità in materia di sanzioni
Da ultimo, deve qui pur solo accennarsi al rilevante impatto che sul giudizio penale di appello potrebbero avere le importanti novità in tema di trattamento sanzionatorio introdotte dagli artt. 1 (inserimento dell’art. 20-bis cod. pen., pene sostitutive di pene detentive brevi, e 95; modifica dell’art. 131-bis); 2 e 3 (introduzione della procedibilità a querela e modifiche del trattamento sanzionatorio per numerosi reati); 90 (in relazione all’aumento dei reati per i quali si può richiedere la messa alla prova: art. 169-bis cod. pen. e nuovo 550.2).
Dato per scontato che tutte le pene sostitutive, in quanto migliorative della pena detentiva, possano trovare applicazione, ed anche d’ufficio, ai giudizi pendenti, non vi è dubbio che le incombenze [545-bis] relative in particolare alla messa alla prova, alla semilibertà ed al lavoro di pubblica utilità poco si concilino con la struttura del rito cartolare eventualmente pendente. Appare anzi prevedibile che, in mancanza della richiesta della parte interessata, siano le corti di appello a dover attivare il rito in presenza, più coerente ed efficace al contatto costruttivo che tali istituti in realtà pretendono tra giudice, parti, servizi dedicati.
In ogni caso, occorre riflettere sull’impatto che una procedura che prevede necessariamente più contatti tra parti e giudice determinerà nella gestione delle modalità di fissazione e trattazione dei ruoli di appello, giudizio che tendenzialmente si dovrebbe caratterizzare per la trattazione in unica udienza con sola discussione e immediata decisione. Occorre quindi approfondire anche il tema della eventuale configurabilità, in appello, di un aggiuntivo possibile peculiare requisito di specificità di richieste e programmi in tema di pene sostitutive e della necessaria tempestiva diligente attivazione della parte interessata, il rito d’appello non tollerando sistematici rinvii sostanzialmente esplorativi ([68]).
12. Questioni dalla (infelice) disciplina transitoria
Sono opportune due premesse.
12.1.1 La prima. Le modifiche alla disciplina dei giudizi di impugnazione sono contenute negli artt. 33, 34 e 35 del d. lgs. 150/2022. Il primo riguarda le norme generali sulle impugnazioni, il secondo il giudizio di appello, il terzo il giudizio di cassazione.
In particolare l’art. 33 interviene sugli articoli 573, 578, 581, 582, 585, 589, 591; introduce il nuovo art. 578-ter (poi, l’art. 98 abroga il 583 e il 582.2).
L’art. 34 interviene sugli artt. 593, 595, 599, 599-bis, 601, 602, 603, 604; introduce i nuovi artt. 598-bis e 598-ter.
12.1.2. La seconda. L’art. 94.2, nel testo originario, prevedeva una disciplina transitoria solo per alcune delle innovazioni introdotte dall’art. 34, differendone l’entrata in vigore al 31/12/2022 (la Gazzetta ufficiale che ha pubblicato il d. lgs. 150/2022 reca la data del 17/10/2022, con entrata in vigore secondo il termine ordinario dei 15 giorni, quindi al 01/11/2022).
Il d.l. 31/10/2022 n. 162 ha successivamente disposto che l’intero provvedimento entrasse in vigore il 30/12/2022. Da questa data quindi sono in vigore tutti gli interventi normativi operati dagli artt. 33 e 98.
12.2. Quindi, primo rilievo, le innovazioni relative agli artt. 573, 578, 581, 582, 585, 589, 591, il nuovo art. 578-ter e l’abrogazione degli artt. 583 e 582.2 non sono oggetto di differimento rispetto al termine ordinario, entrando subito in vigore.
12.3. Quanto all’art. 34, il testo originario dell’art. 94, comma 2 disponeva il differimento al 31/12/2022 degli interventi sugli artt. 598-bis, 599, 599-bis, 601.2, 601.3 e 601.5, 602.1. Si trattava, si noti, della sola disciplina che regolamenta la gestione del nuovo giudizio cartolare ordinario, anche nell’innesto della richiesta di trattazione orale e della presentazione dell’accordo per l’accoglimento di uno o più motivi con eventuale rinuncia ad altri.
Chiaro pertanto il senso complessivo dell’intervento: il “sistema” accesso al nuovo cartolare (inteso nella sua ampia e completa articolazione: anche passaggio alla trattazione orale e accesso e definizione con il concordato) viene differito, il resto entra in vigore.
12.4. La legge n. 199 del 30/12/2022 (pubblicata sulla ormai frequenta Gazzetta ufficiale notturna, nel caso la 304 di pari data) ha mantenuto la differenza temporale: in vigore le innovazioni dell’art. 33 al 30/12/2022; il nuovo cartolare opera per gli atti di appello che saranno depositati dal 01/07/2023.
Ha però scelto un’altra via espositiva. Anziché richiamare le singole norme codicistiche, ha richiamato, decretandone la proroga, alcune norme della disciplina del cartolare emergenziale, in particolare gli artt. 23, commi 8, primo secondo terzo, quarto e quinto periodo (per il giudizio di legittimità), 23, comma 9 (camere di consiglio anche con collegamenti da remoto, applicabile anche alla deliberazione della corte di appello ex art. 23-bis, comma 3, pure espressamente richiamato), 23-bis, commi 1 (cartolare salvo richiesta di trattazione orale), 2 (disciplina dei termini, emergenziale), 3 (appunto possibilità di camera di consiglio con collegamenti individuali da remoto), 4 (modalità di richiesta della trattazione orale) e 7 (applicabilità del rito cartolare emergenziale anche ai procedimenti di appello per le misure di prevenzione ed agli appelli cautelari, reali 322-bis e personali 310) [[69]].
Stanno così sorgendo dubbi sulla doverosità di applicare subito, almeno parzialmente, alcune delle norme, o loro porzioni, che erano richiamate dall’art. 94.2 nella stesura originaria, tra quelle modificate o introdotte dall’art. 33.
Si sostiene così, ad esempio, che, in vigore subito gli artt. 601, comma 5, e 599-bis, comma 1, le rispettive previsioni del termine a comparire di quaranta giorni e di quindici giorni prima dell’udienza per la presentazione del concordato dovrebbero comunque trovare immediata applicazione.
Insomma, per transitare i processi dal cartolare emergenziale al nuovo cartolare ordinario il legislatore avrebbe scelto di operare il passaggio dando, intanto, vita ad un terzo genus, un ibrido che apporterebbe al cartolare emergenziale alcuni pezzi delle novità del nuovo cartolare ordinario. A ciò, si dice, condurrebbe la interpretazione letterale delle nuove norme, chirurgicamente lette dopo aver tolto ciò che, e solo, è espressamente disciplinato nella porzione di art. 23.9 e 23-bis espressamente richiamata dall’ultima edizione dell’art. 94.2.
12.5. La soluzione esposta è palesemente priva di alcun senso sistematico, il che deve indurre l’interprete a disattendere l’interpretazione letterale chirurgica irrazionale che la sostiene.
Muoviamo dal commento alla prima proposta di modifica al testo originario dell’art. 94 del decreto legislativo 150/2022, operato dalla relazione illustrativa. Questa spiegava con estrema chiarezza che la disciplina transitoria era prevista per coordinare l’applicazione delle nuove disposizioni sull’udienza non partecipata in appello con le disposizioni “emergenziali” attualmente in vigore ed efficaci fino al 31 dicembre 2022, dettate al medesimo scopo. Dava atto che al cessare del periodo di efficacia delle disposizioni “emergenziali” sul giudizio “cartolare” in appello e cassazione, avrebbero trovato applicazione le nuove disposizioni, non del tutto sovrapponibili a quelle precedenti, ma comunque improntate allo snellimento procedurale, con elezione a modello generale di udienza quella “non partecipata” e che, a seguito del differimento dell’entrata in vigore del d.lgs. 150/2022, la cessazione dell’efficacia del modello emergenziale viene esattamente a sovrapporsi all’entrata in vigore del nuovo regime. In tale contesto si rendeva necessaria una disciplina transitoria, perché “il nuovo modello di udienza non partecipata implica la preventiva adozione di un decreto di citazione con determinati avvisi e requisiti, che sono rimodulati diversamente i termini entro i quali le parti hanno l’onere di richiedere la partecipazione in udienza e, per il giudizio di appello, per la notifica alle parti sono introdotti termini dilatori più ampi di quelli precedentemente previsti, è indispensabile dettare una disciplina transitoria che chiarisca le modalità di transizione dal precedente regime a quello nuovo”.
Da qui, tra l’altro, la soluzione della individuazione della proposizione dell’atto di impugnazione quale atto del procedimento che individua il presupposto del passaggio dal cartolare emergenziale al nuovo cartolare disciplinato dal d.lgs. 150/2022.
Quindi, la volontà del legislatore della transizione è inequivoca: cambiano i decreti di citazione ed i termini, l’immediato passaggio determinerebbe stasi nella fissazione dei processi o nella loro celebrazione.
È pertanto evidente, e comunque espressamente dichiarato, che si tratta di passaggio tra due sistemi che ruotano su termini e relazioni tra le parti differenti, due ‘pacchetti’ che sono però omogenei al loro interno: l’intento è il passaggio diretto, è quindi privo di senso sistematico, e contrario alle dichiarate intenzioni del legislatore, giungere ad un terzo sistema, ibrido e palesemente irrazionale.
I due ’pacchetti’ hanno infatti logiche stringenti nella relazione tempi/facoltà da esercitare, tra loro in parte diverse: i quaranta giorni, rispetto ai venti giorni, hanno senso solo perché sono aumentati i termini dall’udienza entro i quali presentare le conclusioni e perché per la richiesta di trattazione orale ha termine che decorre dalla notifica/avviso e non più dalla data di udienza. L’interpretazione che vorrebbe scorporare i quaranta giorni del nuovo applicandoli all’emergenziale non trova logica razionale, se non una lettura chirurgica che è però già essa stessa scelta di lettura sistematica che non trova sistema di riferimento. Associare il termine di quindici giorni dall’udienza per la presentazione dell’accordo di concordato al cartolare emergenziale, sganciandolo però dall’articolata disciplina del passaggio alla trattazione orale, non prevista dalle norme emergenziali pur richiamate, impone analogo apprezzamento (e oltretutto, nel già originario silenzio della disciplina emergenziale sulla gestione del 599-bis, inventa un termine gravoso rispetto alla situazione precedente che di fatto consentiva di proporre il concordato fino al giorno prima dell’udienza o ai cinque giorni previsti per il deposito delle conclusioni delle parti private: termine che, invece, ha piena coerenza nel nuovo, e solo nel nuovo, sistema, dove tutti concludono entro i quindici giorni prima dell’udienza, perché hanno avuto notizia del processo almeno 25 giorni prima).
Anche l’asserzione che il sistema emergenziale non comprendeva il termine a comparire di venti giorni, evinto dalla disciplina codicistica precedente, è del tutto asistematica: tutti i termini del cartolare emergenziale hanno come presupposto di partenza il termine a comparire di venti giorni, che costituisce quindi parte integrante del sistema prorogato.
In altri termini: non c’è spazio né ragione sistematica per un’interpretazione che si risolva nel creare un terzo genere di cartolare oltre il ‘vecchio’, emergenziale per gli appelli proposti fino al 30 giugno 2023, il ‘nuovo’ per le impugnazioni depositate dal 01/07/2023.
12.6. Il legislatore ha, come visto, scelto la presentazione dell’atto di appello quale atto del procedimento che àncora temporalmente il passaggio al processo cartolare ordinario.
Sia permesso dire che si tratta di una scelta quantomeno inaccorta.
Avere ancorato il momento dirimente alla data di presentazione dell’atto di appello anziché al momento di spedizione del decreto di citazione consegna al rito cartolare emergenziale tutta la pendenza alla data del 30 giugno 2022. La conseguenza è che quel rito continuerà ad essere applicato per alcuni anni (da tre ad almeno sei, attese le pendenze di alcune corti di appello) e, conseguentemente, probabilmente da settembre/ottobre 2023 per alcuni anni coesisteranno due diversi riti cartolari, quello emergenziale e quello della Riforma. Due cartolari con diversità di termini, facoltà e oneri, che si applicano contemporaneamente, determineranno sicuramente errori e incertezze, una confusione che ragionevolmente coinvolgerà innanzitutto la classe forense e, conseguentemente, i diritti delle persone interessate al processo, per la tutt’altro che improbabile falcidia da inammissibilità che la prolungata concorrenza dei due diversi regimi rende certo non solo ipotetica.
Avrebbe dovuto essere scelta, per evidenti ragioni sistematiche, la soluzione che consentiva la più anticipata partenza generalizzata del nuovo rito, che è divenuto quello ordinario: se si fosse scelto il parametro della data di emissione dei decreti di citazione, i nuovi decreti di citazione avrebbero potuto essere emessi anche sulla pendenza, senza pregiudizio (perché vi è solo rivisitazione dei tempi ma le facoltà rimangono le stesse), ed in tempi brevi (pochi mesi) il doppio regime sarebbe stato definito. E’ davvero auspicabile un ripensamento tempestivo sul punto.
12.7. Fortunatamente è stata prevista, per il deposito di impugnazioni e atti/istanze varie, la prosecuzione dell’invio dalle pec dei difensori alle pec dedicate degli uffici, già in uso. Viene così evitata la situazione, francamente irragionevole, del deposito cartolare solo presso la cancelleria del giudice a quo, che si prospettava in relazione all’abrogazione degli artt. 582.2 e 583.
12.8. In definitiva, ed in prima approssimazione.
Immediata applicazione delle abrogazioni (tra cui quelle importanti del 599-bis.2, 582.2, 583) e delle norme introdotte o modificate dall’art. 33 (tra cui il rinvio al giudice civile degli appelli di sola parte civile o sulle sole statuizioni civili, ex art. 573).
Prosecuzione del cartolare emergenziale nei termini finora applicati per tutti i procedimenti nel quale il primo atto di appello sia stato depositato prima del 30/06/2023. Primi decreti di citazione, e processi, con il nuovo cartolare ordinario per i procedimenti in cui il primo atto di appello sia stato depositato dal 01/07/2023.
Per il nuovo cartolare ordinario, quindi, se ne parlerà non prima di ottobre novembre di questo nuovo anno.
[1] È forse più che simbolico il fatto che uno dei primi atti della nuova esperienza di governo sia la introduzione di un nuovo reato, con l’art. 633-bis (legge 199/2022).
[2] Tema da approfondire rimane quello della rilevanza di questa nuova regola decisoria sulla configurabilità della gravità indiziaria quale presupposto di applicazione delle misure cautelari.
[3] L’inappellabilità opera anche per gli appelli delle sole parti civili avverso le sentenze di proscioglimento, determinandone inammissibilità assorbente rispetto al (nuovo) rinvio al giudice civile [573.1-bis]: si pensi, solo esemplificativamente, ai reati ex artt. 570.1 e 570-bis o 388, commi 1 e 5, e 328.2 cod. pen..
L’art. 88-ter del decreto legislativo 150/2022, nel testo finale modificato dalla legge 199/2022 prevede che le nuove inappellabilità connesse alla modifica dell’art. 428 operino per le sole sentenze deliberate dopo la data di entrata in vigore del decreto (quindi 01/01/2023). Non pare esservi il richiamo esplicito anche alle nuove inappellabilità introdotte dalla sostituzione del comma e dell’art. 593. Mentre l’omissione ha ragione sistematica nel fatto che la pena sostitutiva riguarderà solo le sentenze future, per le sentenze di proscioglimento non se ne coglie con immediatezza la ragione: deve ritenersi che la soluzione non possa essere diversa perché, nel silenzio del legislatore, solo l’interpretazione che parifica le due situazioni risulta coerente a razionalità costituzionale, la differenza strutturale tra improcedibilità e giudizio non parendo idonea a giustificare questa differenza. Sul tema non si rinvengono spunti utili nel la pregevole relazione dell’Ufficio del massimario (n. 68/22 del 07/11/2022, p. 58 s.).
[4] In realtà per la parte civile le notificano avvengono già sempre presso il difensore: art. 154.4. Anche per responsabile civile e civilmente obbligato per l’ammenda l’impugnazione ne presuppone l’avvenuta costituzione (84, 89.2). Rimarrebbe il querelante condannato alle spese (576.2).
[5] Gli artt. 157-ter e 161.4 (modificato dall’art. 10.1 lettere ‘l’ ed ‘o’ n. 6) indicano gli effetti di tale dichiarazione o elezione. Si ricordi che l’art. 157.8-bis è stato espressamente abrogato: art. 98.1, lett. a, d. lgs. 150/2022).
[6] Il codice prevedeva originariamente lo specifico mandato per l’impugnazione della sentenza contumaciale, tuttavia rilasciato con la nomina o anche successivamente nelle forme per esso previste [571, comma 3, seconda parte]. La previsione venne esclusa dall’art. 49 della legge 479/1999. E’ interessante rilevare che la ragione addotta nei lavori parlamentari dalla Relazione fu di consentire la possibilità dell’impugnazione della sentenza contumaciale anche al difensore d’ufficio, oltre che al difensore di fiducia, operando la soppressione dell’ultima parte del comma 3 dell’articolo 571 del codice di procedura penale, in base alla quale il difensore può proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale solo se munito di apposito mandato. Non venne quindi, apparentemente, messa in discussione la coerenza sistematica del principio che il difensore di fiducia per impugnare le sentenze contumaciali dovesse munirsi di un mandato speciale, ma si ritenne che ciò finisse per discriminare potenzialmente i difensori di ufficio, per i quali l’acquisizione di un mandato speciale, sia pure limitato alla legittimazione ad un atto di impugnazione altrimenti inibito (mandato che, pertanto, poteva non modificare la natura ufficiosa dell’assistenza legale), appariva difficoltosa. Si tenga conto che l’intervento normativo avviene prima dello sviluppo del contrasto tra Sezioni Unite (sent. 6026/2008) e Corte costituzionale (sent. 317/09), di cui si da subito conto nel testo (par.3.1.2).
[7] G. Biondi in Il giudizio di appello penale dopo la “Riforma Cartabia”, in Giurisprudenza penale web, 2022,12, p.8. Si veda per tutte Cass. Sez. 5, sent. 10697/2021.
[8] In via transitoria (nuovo art. 87-bis del d. lgs. 150/2022 come modificato dalla legge 199/2022) potrà proseguire il deposito a mezzo pec agli indirizzi dedicati attualmente in uso. Soluzione opportuna, l’altrimenti indispensabile accesso all’ufficio che ha emesso il provvedimento apparendo palesemente irrazionale e gravatorio. E’ prorogata altresì la possibilità di deposito ad agente consolare estero (art. 87 nuovo comma 6).
[9] Va ricordato in proposito che il termine del successivo grado di impugnazione decorre dai 90 giorni successivi alla scadenza del termine che il giudice ha indicato nel dispositivo per il deposito della sentenza. Il deposito a mezzo posta o in ufficio giudiziario diverso da quello che ha deliberato il provvedimento impugnato, quando in particolare avvenga, come da prassi diffusa, l’ultimo giorno utile, ‘consuma’ pertanto parte (a volte significativa) del tempo utile a far pervenire il fascicolo al giudice del grado successivo entro i 90 giorni. Il deposito telematico permette invece all’appellante di poter operare il deposito da qualsiasi luogo, senza vincolarlo ad una anacronistica e vessatoria sola presenza fisica nell’ufficio deliberante, dall’altra di avere in tempo reale notizia e visione dell’atto di impugnazione, anche al fine di individuare con tempestiva certezza il momento dell’eventuale irrevocabilità (evitando sia intempestivi inizi di esecuzione sia intervalli di incerta attribuzione della competenza a deliberare su eventuali istanze, in particolare cautelari).
[10] Cass. Sez.1 sent. 10392/2022.
[11] La nuova disciplina, infatti, costituisce il rito ordinario dell’impugnazione di appello, cui fare riferimento, in quanto compatibile, per tutti i casi in cui il giudizio di appello non sia specificamente diversamente disciplinato. Così è per l’appello avverso le sentenze deliberate dal giudice di pace, posto che l’art. 2 d. lgs. 274/2000 prevede, per l’appello avverso le sentenze penali del giudice di pace, l’applicazione della disciplina codicistica, ora modificata. Le uniche norme derogatorie sono infatti in tema di legittimazione e individuazione di provvedimenti impugnabili (artt. 36-39-bis).
[12] Gli artt. 10 e 27 disciplinano autonomamente le impugnazioni avverso le misure di prevenzione, quanto a tempi e modi. Nel periodo emergenziale era stata introdotta specifica deroga alla disciplina speciale ordinaria, con l’art. 23-bis, comma 7, d.l. 137/2020, secondo cui le disposizioni del medesimo art. 23-bis si applicavano, in quanto compatibili, anche nei procedimenti di cui agli articoli 10 e 27 del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Tale specifica estensione normativa, infatti, era necessaria per consentire le deroghe in particolare per la trattazione cartolare e da remoto. Venuto meno il regime emergenziale e non essendo stata abrogata o modificata la disciplina degli artt. 10 e 27, quella disciplina speciale riprende la propria piena efficacia. Del resto va osservato che la disciplina della prevenzione in effetti dettaglia specificamente: soggetti legittimati, termine per l’impugnazione, modalità di trasmissione del fascicolo del pubblico ministero, mancanza di effetto sospensivo dell’impugnazione, tempi per il giudizio della corte di appello, possibili esiti. Quanto all’udienza, la previsione è di un giudizio camerale, che diviene di pubblica udienza su espressa richiesta dell’interessato. L’art. 10, comma 4, precisa poi che per la proposizione e la decisione dei ricorsi si osservano, in quanto applicabili, le norme riguardanti la proposizione e la decisione dei ricorsi relativi all'applicazione delle misure di sicurezza (quindi l’art. 680 cod. proc. pen. che, tuttavia, richiama a sua volta le disposizioni generali delle impugnazioni: Cass. Sez. 1 sent. 8644/2009).
Vi sarebbe allora spazio sistematico per sostenere invece che, divenuto il cartolare in assenza il rito ordinario dell’impugnazione di appello, il decreto della corte possa (debba?) fissare un’udienza cartolare assegnando contestualmente termine per la presentazione di conclusioni scritte e memorie, ferma la possibilità dell’interessato di richiedere la trattazione in presenza (da svolgersi con rito camerale partecipato salvo che la richiesta si estenda pure alla pubblica udienza). La richiesta di trattazione in presenza e pubblica udienza che potrebbe essere richiesta dall’interessato anche quando sia il pubblico ministero a “ricorrere” avverso un decreto che abbia respinto la sua richiesta di applicazione della misura.
Va tuttavia avvertito che la proroga di applicazione anche del comma 7 dell’art. 23-bis fino al 30 giugno 2023, disposta dall’art. 94, comma 2, nel testo sostituito dalla legge 199/2022, determinerà la prosecuzione fino a tale data del regime emergenziale pure per i procedimenti in materia di misure di prevenzione e mafia.
[13] Si tratta di innovazione importante, se si tiene presente che la giurisprudenza di legittimità in relazione alla precedente disciplina emergenziale ha sostenuto che “non era causa di nullità del decreto di citazione l'omesso avvertimento all'imputato della celebrazione del giudizio con rito camerale non partecipato ai sensi dell'art. 23-bis del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, in quanto requisito non richiamato dall'art. 601, comma 6, cod. proc. pen.” (Sez. 2 sent. 45188/2021 e Sez.6 sent. 14728/2022).
[14] Si tratta di una previsione normativa idonea a risolvere la questione, che nel silenzio della disciplina emergenziale sul punto aveva avuto soluzioni giurisprudenziali diverse [nel senso della irrevocabilità già Cass. Sez.2 sent. 42410/2021 e Sez.6 sent. 22248/2021], e soprattutto sollecita i difensori ad un uso accorto e consapevole della richiesta. L’esperienza del periodo retto dalla normativa emergenziale ha invero visto non infrequenti usi disinvolti della stessa, seguita da dichiarazioni di revoca per le nel frattempo mutate condizioni dei rapporti tra le parti o per una rivisitazione dell’interesse concreto stante l’evoluzione dei rapporti tra assistito e difensore, usi disinvolti che ignoravano del tutto il fatto che le due strade (trattazione in presenza e trattazione senza la partecipazione delle parti) una volta intraprese danno vita a due percorsi procedimentali caratterizzati da oneri di attivazione e termini del tutto differenti, non recuperabili. Va quindi fin d’ora evidenziato che ad ogni richiesta di trattazione orale consegue un onere organizzativo per l’effettiva presenza del difensore istante, personale o a mezzo sostituto ex art. 102, l’assenza ponendo probabili questioni deontologiche (si tenga pure presente che una volta disposta la trattazione orale tutte le difese, oltre la parte pubblica, sono onerate della presenza, almeno quando si proceda con il rito dibattimentale della pubblica udienza: né l’eventuale ripresa della triste prassi di richiedere sostituzioni di ufficio ex art. 97.4, nel nuovo contesto di trattazione in presenza solo a seguito di una specifica richiesta della parte che poi si disinteressa, parrebbe soluzione immune da possibili rilievi deontologici; d’altra parte, anche quando l’udienza in presenza dovesse svolgersi ex art. 127, l’assenza - legittima per il rito - di chi ha pur chiesto la trattazione in presenza, imposta alle altre parti che in ipotesi nulla abbiano da dire, parrebbe porre valutazione analoga da richiedere agli organismi forensi competenti).
Incidentalmente si ricordi che pure la mancata allegazione agli atti processuali delle conclusioni inviate (tempestivamente) dalla difesa a mezzo PEC, con la loro documentata omessa valutazione, integra nullità ai sensi dell’art. 178 lett. c): Cass. Sez. 6 sent. 3913/2022 e Sez.6 sent. 46026/2021.
[15] Cass. Sez.6 sent. 15139/2022, richiamata da G.Biondi, op.cit., p. 16, a sostegno della tesi contraria, con la conseguente nullità dell’udienza e della sentenza se il processo è stato trattato con rito cartolare nonostante la richiesta diretta del solo imputato, svolge pregevoli argomentazioni non immediatamente persuasive. L’assenza di un’espressa previsione di inammissibilità o irricevibilità pare ragione decisiva: basti pensare al fatto che proprio la giurisprudenza di legittimità è pervenuta ad attribuire sostanzialmente al termine ultimo di cinque giorni per la presentazione delle conclusioni un’efficacia decadenziale, proprio e solo argomentando dal significato sistematico “imprescindibilmente” funzionale di quell’indicazione a consentire il corretto svilupparsi del contraddittorio tra le parti (Cass. Sez.6 sent. 18483/2022). Oltretutto, il diverso testo dell’attuale art. 598-bis.2 ha rinforzato la previsione con un inequivoco avverbio “esclusivamente”, con ciò in concreto affermando il carattere vincolante della previsione. Del resto, anche nella richiesta di trattazione in presenza la previsione del passaggio necessario dal difensore assume un carattere funzionale essenziale, per assicurare l’attivazione consapevole e tempestiva del medesimo e le opportune scelte strategiche. Ciò supera il possibile rilievo che ora, nel caso di ammissione della richiesta di trattazione in presenza, la corte deve emettere un decreto che viene comunicato a procuratore generale e difensori: 598-bis.2, ultimo periodo, mentre la sopravvenuta previsione (123.2-bis), secondo cui “Le impugnazioni, le dichiarazioni, compresa quella relativa alla nomina del difensore, e le richieste, di cui ai commi 1 e 2, sono contestualmente comunicate anche al difensore nominato”, dovrebbe al più porre un problema di possibile intempestività della richiesta del difensore cui sia stata comunicata la richiesta dell’assistito detenuto, che si risolve con la restituzione nel termine quando il ritardo sia causato dall’Amministrazione.
Quanto al richiamo ai principi sovranazionali, dovrebbe osservarsi che qui non si nega all’imputato il diritto di chiedere la trattazione in presenza, ma di esercitarlo con le regolamentate modalità, certo non irrazionalmente vessatorie e, in realtà, coerenti alla nuova consapevole responsabilizzazione dell’appellante di cui si è sopra argomentato.
[16] La Relazione illustrativa al d.lgs. 150/2022 rinvia <<alle “prassi virtuose” l’eventuale soluzione di far precedere la citazione in giudizio da un “interpello”, ove ritenuto utile ai fini di una più ordinata calendarizzazione delle udienze>> [p. 335, GU 19.10.2022 supplemento straordinario n.5].
[17] D’altra parte, va ricordato: che l’art. 601 nuovo comma 3 impone che il decreto di citazione avverta espressamente l’imputato destinatario dell’atto che la richiesta di partecipazione può essere presentata dall’interessato ma esclusivamente a mezzo del difensore e nel termine perentorio di quindici giorni; che l’art. 123.2-bis prevede che “Le impugnazioni, le dichiarazioni, compresa quella relativa alla nomina del difensore, e le richieste, di cui ai commi 1 e 2, sono contestualmente comunicate anche al difensore nominato”. Vi sono pertanto le premesse fattuali perché al difensore giunga anche autonomamente l’indicazione della volontà dell’assistito.
[18] Come detto, la richiesta è discrezionale, non soggetta ad alcuna condizione o ad alcun requisito attinenti al merito. Pertanto il richiamo all’ammissibilità attiene solo al rispetto del termine a pena di decadenza ed alla legittimazione. Le parti non legittimate (procura generale e parte civile quando non anch’essi appellanti) potranno solo eventualmente sollecitare la corte all’esercizio del potere di disporre d’ufficio la trattazione in presenza [598-bis.3].
[19] Cass. Sez. 1 sent. 8863/2021.
[20] Opportunamente la previsione è generica ma al tempo stesso chiara: la “rilevanza delle questioni” sottoposte all’esame della corte è locuzione che comprende così ogni aspetto, anche in fatto, che può fondare l’esigenza del giudice di appello di avere una interlocuzione diretta con le parti. Se si considera che il contraddittorio orale (quando vi è materia per approfondire e contraddire oltre quanto si è già scritto, delimitando insuperabilmente l’ambito del devoluto) è certamente la forma più idonea ad assicurare l’eliminazione di spazi che avrebbero dovuto o potuto essere riempiti per completare il percorso logico-giuridico che conduce alle proprie richieste, la ‘clausola aperta’ che la locuzione attribuisce a chi ha il dovere di deliberare va apprezzata favorevolmente. Evita tra l’altro l’inopportuno fenomeno delle cd ‘sentenze a sorpresa’.
Questo spunto normativo potrebbe essere anche l’occasione per approfondire finalmente il tema del senso, dei peculiari limiti e delle potenzialità della discussione orale nel giudizio di appello, in particolare affrontando in termini laici, e non ideologici, l’aspetto serio della possibilità ‘fisiologica’ che il collegio indichi espressamente alle varie parti i temi su cui sollecita un approfondimento (senza correre il rischio di una ricusazione…).
[21] Si pone qui un problema formale: l’ordinanza pare dover essere notificata e non solo ‘comunicata’ ai sensi dell’art. 167-bis disp. att., atteso che la Relazione illustrativa precisa che quest’ultima deve essere considerata <<mera comunicazione “di cortesia”, senza alcun valore costitutivo della conoscenza del provvedimento>> [Rel. ill. p. 335]. Ovviamente, essendo il destinatario, per le parti private, solo il difensore, quando le modalità dei due diversi istituti (‘comunicazione’ e ‘notificazione’) fossero sovrapponibili, il tutto si riduce a questione solo nominalistica.
[22] La previsione del differimento con passaggio alla trattazione in presenza (nei due possibili riti della pubblica udienza e della camera di consiglio) è per il vero espressamente prevista solo per il giudizio di cassazione (611.1-sexies). Tuttavia non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che la probabilità di una riqualificazione giuridica che apra nuovi scenari nel processo possa comunque costituire una di quelle “questioni rilevanti sottoposte all’esame” del giudice di appello che gli consentono di disporre d’ufficio la trattazione in presenza.
[23] Anche la disciplina emergenziale non prevedeva invece alcun obbligo di comunicazione di ufficio delle conclusioni di una parte privata alle altre parti, così pure ovviamente per le eventuali repliche.
[24] Sulla natura perentoria del termine dei cinque giorni per il deposito di memorie: Cass. Sez. 6, in tema di dichiarazione di astensione dalle udienze in procedimento cartolare, sent. 18483/2022 Cass. Sez. 1 sent. 35305/2021 e Sez.6 sent. 13434/2021 (che ha pertanto escluso la costituzione tempestiva nel giudizio di impugnazione della parte civile).
Sulla non configurabilità di nullità generale ai sensi dell’art. 178 lett. b) e c) nel caso di deposito tardivo delle conclusioni del procuratore generale, purché sia stata assicurata alle altre parti la possibilità di concludere: per tutte, Sez. 5 sent. 6207/2021 e Sez.6 sent. 28032/21, Sez.2 sent. 34914/2021; Sez.4 sent. 35057/2020 conferma la non configurabilità di nullità generale ma indica il rimedio del rinvio dell’udienza nel caso di comprovato effettivo pregiudizio delle altre parti; Sez.6 sent. 10216/2022 e Sez.5 sent. 20885/2021hanno ritenuto l’omesso invio telematico delle conclusioni del procuratore generale nullità ex art. 178.1 lett. c) da eccepire entro la presentazione delle conclusioni scritte presentate, nel caso, dal difensore (soluzione che pare preferibile per la gestione equilibrata dei principi configgenti e la responsabilizzazione della parte in ipotesi pregiudicata). Secondo Sez. 6 sent. 26459/2021 la nullità configurabile è quella ex art. 178 lett. b).
[25] Però Sez.1 sent. 14766/2022 ha ritenuto insussistente alcuna nullità per l’omessa presentazione delle conclusioni del procuratore generale ritenendo la partecipazione del procuratore generale al procedimento cartolare solo eventuale. La conclusione non soddisfa, sembrando sovrapporre la non necessaria presenza del rito camerale partecipato ex art. 127 o 611 con la presenza cartolare del rito senza la partecipazione fisica delle parti. In particolare la sentenza, pur articolatamente motivata, pare non confrontarsi con il dato letterale che pare francamente insuperabile quando nello stesso periodo, come rilevato nel testo, associa il “presenta” della parte pubblica al “possono presentare” delle altre parti. Con il che, quali che siano le altre discipline e le loro logiche sistematiche, nel nostro caso vi è una complessiva locuzione che inequivocamente differenzia i ruoli della parte pubblica e delle parti private.
[26] Sul punto il periodo emergenziale ha imposto modifiche organizzative a tutti, cancellerie e parti, che hanno avuto impatto rilevante sulle prassi precedenti e dovranno essere comunque riadattate all’auspicata cessazione effettiva del problema pandemico. Si tratta comunque di un settore aperto alla condivisione di prassi virtuose concordate tra i singoli uffici giudiziari giudicanti di appello, le procure generali e l’avvocatura, idonee a perseguire il risultato di un’efficace tempestiva conoscenza con il minimo impegno organizzativo, pubblico e privato.
In proposito sia consentito richiamare il Protocollo sottoscritto il 21/07/2022 dalla Corte di Appello di Venezia con la locale Procura generale e con i Consigli dell’Ordine di sei dei sette circondari del distretto che, sul punto, indica la buona prassi per cui “I difensori, ricevute le conclusioni del Procuratore Generale, depositeranno le conclusioni a mezzo PEC con invio sia alla Cancelleria della sezione competente che alla stessa Procura generale e alle altre eventuali parti, risultanti dal decreto di citazione a giudizio di appello agli indirizzi PEC in esso espressamente indicati. L’onere di invio agli indirizzi PEC delle altre parti indicate nel decreto di citazione a giudizio in appello sarà esteso anche alle memorie ex art. 121 c.p.p., alle conclusioni della Parte Civile, alle richieste di modifica e/o revoca della misura cautelare ed a qualsivoglia tipologia di atto che le parti ritengano di voler depositare in vista della celebrazione dell’udienza”.
[27] La Relazione illustrativa (p. 335) precisa espressamente sul punto che: <<Si tratta di mera comunicazione “di cortesia”, senza alcun valore costitutivo della conoscenza del provvedimento, che resta connessa al deposito del provvedimento in udienza. A tale riguardo, è espressamente previsto, nel nuovo art. 598-bis c.p.p., che il deposito della sentenza equivale alla lettura in udienza ai fini di cui all’art. 545 c.p.p., con disposizione che consente anche di individuare inequivocabilmente il dies a quo per il computo dei termini per impugnare, ai sensi dell’art. 585, comma 2, c.p.p.>>
[28] La norma viene così a confermare che non sussiste alcuna incompatibilità tra il rigetto, anche doverosamente motivato, della dichiarazione di concordato e la prosecuzione della trattazione da parte del medesimo giudice d’appello. E’ conclusione già esito di consolidato insegnamento di legittimità (per tutte, Sez.3 sent. 12061/2020 e Sez. 4 sent. 26904/2019). La soluzione ovviamente rileva anche per il caso del passaggio dalla trattazione cartolare a quella in presenza, da parte del medesimo collegio.
[29] Va ovviamente tenuta distinta la formale premialità sanzionatoria, che si risolve in una diminuzione di pena che trova origine esclusivamente nella scelta dell’istituto e può condurre a pena che altrimenti mai avrebbe potuto essere applicata per quel caso in quel processo, dalla congruità della pena che, all’interno dei limiti edittali complessivi (quindi anche tenendo conto delle riduzioni proprie di circostanze e relativi bilanciamenti, aumenti per la continuazione, ecc.), avrebbe comunque potuto essere fisiologicamente applicata dal giudice. D’altra parte il legislatore ha da tempo previsto anche una responsabilizzazione specifica della parte pubblica nel giudizio di appello, quanto alla concreta applicazione dell’istituto del concordato [599-bis.4].
[30] M. Gialuz, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della Riforma Cartabia. Profili processuali in Sistema penale, scheda 02 novembre 2022, p. 80, anche per i rilievi che la rinuncia sollecitata dalla norma è quella all’appello e non pure al solo successivo ricorso per cassazione e chela previsione temporale anticipata per il deposito del concordato è riconducibile comunque alla delega, per via della attribuita generale rivisitazione del rito cartolare.
[31] Sul punto per approfondimenti: G. Biondo, op. cit., p. 35.
[32] Sulla necessità che la deduzione di nullità in rito sia sorretta da una specifica ricostruzione del fatto procedimentale che la determinerebbe, per tutte: Cass. Sez.6 sent. 30897/2015 [è inammissibile, per difetto di specificità del motivo, il ricorso per cassazione con cui si deduca la nullità assoluta della notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello effettuata presso lo studio del difensore di fiducia, anziché nel domicilio dichiarato o eletto dall'imputato, ove il ricorrente non alleghi elementi idonei a dimostrare credibilmente che, nonostante l'esistenza del rapporto fiduciario, l'imputato sia rimasto all'oscuro della "vocatio in ius" (Fattispecie in cui la Corte ha escluso l'idoneità di una dichiarazione del difensore nella quale si affermava che l'imputato si era negato per mesi al telefono ed al portalettere, ma non si prospettava alcuna spiegazione di tale atteggiamento rispetto ai tentativi di contattarlo)]
[33] Sul presupposto che l’uso dei due termini, rilevata o eccepita, nell’ultima parte del comma 5-bis si riferisca all’iniziativa del giudice o della parte, non è agevole comprendere il richiamo al rilevare, una volta che la norma precisa che la nullità è comunque sanata dal non essere stata eccepita nell’atto di appello, all’evidenza con autonomo specifico motivo di impugnazione.
[34] È in proposito significativo che proprio la giurisprudenza richiamata alla nota 32 e quella precedente pertinente sul tema [Sez.3 sent. 44880/2014; Sez.6 sent. 490/2017; Sez.6 sent. 28971/2013; Sez.6 sent. 34558/2012] giustifichino la necessità della specificità della ricostruzione della vicenda proprio muovendo da quanto deve ritenersi avvenga fisiologicamente tra difensore ed assistito a fronte di una citazione a giudizio.
Appare in proposito rilevante anche il peculiare dovere di verità indicato dal n. 5 dell’art. 50 del codice deontologico forense: 5. L’avvocato, nel procedimento, non deve rendere false dichiarazioni sull’esistenza o inesistenza di fatti di cui abbia diretta conoscenza e suscettibili di essere assunti come presupposto di un provvedimento del magistrato. Deve ritenersi che il tema del contatto informativo con l’assistito in relazione alla fissazione e trattazione del processo ben possa costituire “fatto di cui si ha diretta conoscenza e presupposto di un provvedimento del magistrato”. Si tratta comunque e appunto di tema delicato, meritevole di approfondimento comune, ma davvero ineludibile.
[35] Qui il riferimento pare sia ai casi disciplinati dall’art. 603 più che alla rinnovazione dell’intera istruttoria di primo grado.
Il nuovo comma 3-ter dell’art. 603 prevede comunque che quando la rinnovazione è disposta a seguito di accoglimento di richiesta ex art. 604.5-ter e 5-quater, se si è proceduto in assenza in applicazione dell’art. 420-bis.3 (imputato latitante o volontariamente sottratto alla conoscenza della pendenza del processo) la rinnovazione è disposta nei limiti previsti dall’art. 190-bis.
[36] Il problema sorge perché il comma 5-ter formalmente non ripropone la preclusione costituita dalla necessità di una richiesta contenuta nell’atto di appello, espressamente invece prevista dal comma 5-bis. E’ pur vero che la locuzione “fuori dei casi previsti dal comma 5-bis” può essere intesa come riferita alla sola casistica e non anche alla disciplina, con la conseguenza che la preclusione ad eccepire/richiedere la decadenza incolpevole dalla facoltà dovrebbe comunque essere contenuta nell’atto di appello, come motivo specifico.
[37] Significativa in proposito è Sez.2 sent. 37136/2020, in caso di riforma di sentenza di assoluzione previa reiezione della richiesta dell’imputato di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per essere egli decaduto in primo grado dalla prova testimoniale, che ricorda la necessità di un autonomo apprezzamento sull’obbligo di esercitare i poteri di acquisizione anche d’ufficio dei mezzi di prova indispensabili per la decisione, in applicazione dell’art. 603.3.
[38] Il ‘ritorno’ alle Sezioni unite con una seconda pronuncia dopo soli nove mesi dalla prima deliberazione è stato palese sintomo delle reazioni di alcune sezioni allo ‘strappo’ compiuto dalla sentenza Dasgupta rispetto alla consolidata giurisprudenza di legittimità che aveva sempre escluso l’applicazione anche d’ufficio dell’art. 603 per i processi celebrati con rito abbreviato semplice. La stessa sentenza Dasgupta aveva affermato il principio con un sostanziale obiter dictum, in quanto il caso che doveva decidere riguardava un processo celebrato in udienza pubblica. E’ significativo che l’articolata motivazione abbia una sorta di salto sistematico quando passa dalla persuasiva motivazione sulla sussistenza dell’obbligo di riesaminare, esercitando gli stessi poteri esercitati dal primo giudice, prove dichiarative già esaminate e valutate in termini contestati dall’appellante, il diverso apprezzamento delle quali diviene la condizione per il passaggio dalla sentenza di proscioglimento alla sentenza di (prima) condanna, all’assunto che ragioni epistemologiche impongono che il ribaltamento della valutazione del contenuto dichiarativo debba essere preceduto sempre dal contatto orale diretto tra la fonte della prova e il giudice (quale che sia stata la modalità di assunzione della prova dichiarativa, scritta o orale, nel primo giudizio). Argomento serio, tuttavia in sé esaustivo ed idoneo a rendere assorbito il precedente ragionamento relativo ai pari poteri ed approcci tra il giudice di primo e quello di secondo grado nei processi dibattimentali.
Indubbiamente anche la recente sentenza C. eur. dir. uomo, Sez. I, 25 marzo 2021, Di Martino e Molinari c. Italia, ric. n. 15931/15 e 16459/15 ha contribuito all’intervento normativo ‘correttivo’. Tale sentenza ha infatti confermato non costituire la reformatio in peius della sentenza di assoluzione violazione dell’art. 6 §§ 1 e 3 lett. d) Cedu, anche quando non preceduta dall’esame orale delle prove dichiarative, in quanto tali prove dichiarative non erano state assunte, in entrambi i gradi di giudizio, nel contraddittorio tra le parti, a fronte della scelta dell’imputato di accedere al rito abbreviato. Sul tema v. https://www.sistemapenale.it/it/scheda/corte-edu-di-martino-molinari-overturning-appello-assoluzione-abbreviato, nonché M. Gialuz, op. cit., p. 79.
[39] Già Sez.5 ord. 936/1992 aveva chiarito che l’interlocuzione per la riunione non richiede un’autonoma preventiva convocazione delle parti in camera di consiglio, essendo sufficiente che le parti siano informate e messe nelle condizioni interloquire, secondo i casi e nel modo più consono alla fase o allo stato del processo. Il principio della rilevanza del solo essere stati messi nelle condizioni di concludere, con la conseguente sufficienza anche del passivo silenzio, è stato sostanzialmente confermato da Sez.6 sent. 6621/2006.
In termini ancor più determinanti per la nostra questione, l’inoppugnabilità dei provvedimenti di riunione o separazione, sulla base del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, a volte affermato anche per la mancata audizione delle parti (per tutte, Sez. 3, sent. 17368/2019 che richiama tutti gli artt. 17, 18 e 19, e Sez. 2 sent. 57761/2018).
Certamente l’inserimento nei decreti di citazione relativi a procedimenti per i quali si ponga il tema della riunione di un allertamento specifico potrebbe costituire buona risolutiva prassi.
Il Protocollo veneto 21/07/2022, già richiamato, nel caso in cui vengano fissati più procedimenti nei confronti del medesimo imputato innanzi alla stessa Sezione della Corte d’Appello per i quali sussistano i requisiti dell’art. 17 c.p.p. invita le parti, in caso di trattazione scritta, ad esplicitare già nelle conclusioni l’eventuale richiesta e/o adesione in merito alla riunione dei procedimenti.
[40] Per tutte, Sez.3 sent. 37879/2015.
[41] Per tutte, Sez.3 sent. 34949/2020; SU sent. 33748/2005.
[42] S.U. sent. 33748/2005.
[43] Sez.5 sent. 32427/2015.
[44] Con il nuovo rito, come già detto, vi è ora un unico termine per il deposito dei motivi aggiunti ex art. 585, delle conclusioni e delle memorie: quindici giorni prima dell’udienza. La sovrapposizione temporale tra motivi aggiunti e conclusioni pare dover quindi condurre ad escludere che, nel rito cartolare, i motivi aggiunti siano ancora momento tempestivo utile per la richiesta di acquisizione di documenti senza porre problemi di contraddittorio.
[45] In tal caso ponendosi poi la questione, cui si è già accennato, se il successivo contraddittorio orale debba essere limitato alla sola acquisizione dei documenti, salvi comunque i casi in cui la natura del contenuto del documento imponga necessariamente la rivalutazione integrale del punto della decisione, anche riconoscendo alle controparti il diritto a loro nuove produzioni o richieste di prove orali.
[46] Sicchè la Corte di cassazione esclude l’interesse della parte civile a concludere e la possibilità di rifusione delle spese di difesa per il grado: per tutte, Sez. 4 sent. 22697/2020.
[47] La deliberazione di appello è la fase tendenzialmente conclusiva dell’apprezzamento di merito complessivo sul fatto e quindi sull’adeguatezza del trattamento sanzionatorio e delle effettive prognosi cautelari.
[48] Poi, rimane sempre la considerazione della differenza tra ciò che attiene alla legittimità e ciò che attiene all’opportunità. Sempre, però, facendo attenzione al caso delle condotte di possibile abuso del diritto: SU sent. 155/2012.
[49] Cass. Sez.6 sent. 18483/2022 ha ritenuto irrilevante la dichiarazione del difensore di adesione ad iniziativa associativa di astensione dalle udienze proclamata per data successiva alla scadenza dei cinque giorni (considerati perentori).
Nel rito a trattazione orale, invece, rileva l’impedimento anche dell’imputato: Sez.6, sent. 1167/2022.
[50] Finora principio di diritto enunciato della giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite (sent. 8825/2017, ric. Galtelli), secondo la quale l'appello è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata.
“L’appello presuppone decisioni soggette a critica” (F. Cordero, Procedura penale nona edizione, p. 1115), il che rende del tutto appropriata la pretesa giurisprudenziale che il motivo devolvente il singolo punto della decisione spieghi innanzitutto le ragioni di confutazione anche del percorso argomentativo della sentenza che si impugna.
[51] M. Gialuz, op. cit., p. 76 e 78.
[52] F. Cordero, op. cit., p. 1117 (“Sul punto se e quanta fede meriti il testimone, affiorano residui d’una logica del sentimento: terreno vietato al supremo laboratorio”).
Sia qui consentito un ricordo personale dell’esperienza, straordinaria, in Corte di cassazione: “Avvocato, niente sprazzi di vita in Cassazione” l’intervento bloccante di un autorevole presidente di sezione al difensore di parte civile che, per sostenere una tesi e dimentico del contesto del giudizio di legittimità, aveva iniziato a commentare le implicazioni di affermata sofferenza cagionata da una certa condotta in un certo contesto.
[53] “Quel che conta, invece, è che, al di là della dispositio prescelta, vengano rivelati, con evidenza e precisione, quali siano i temi controversi e le ragioni del “perché no” agli argomenti del giudice a quo, per un verso, e del “perchè sì” alle richieste difensive per un altro”, E.Fragasso, Appunti sparsi sull’inammissibilità delle impugnazioni, in Archivio penale, 2018, n. 1, 5 s..
[54] La distinzione tra giudizio di merito e giudizio di legittimità è tutta qui: il ricorso per cassazione, infatti e invece, “attribuisce alla Corte di cassazione la cognizione del procedimento limitatamente ai motivi proposti” (609.1).
Conseguentemente, investito della cognizione dell’intero punto della decisione da un motivo specifico ad esso pertinente, il giudice di appello può accogliere la richiesta per ragioni del tutto diverse da quelle enunciate nel motivo, così come può rigettare il motivo per ragioni del tutto diverse da quelle argomentate dal primo giudice (nel secondo caso non si ha allora quella che tecnicamente si definisce una ‘doppia conforme’, perché muta il percorso argomentativo logico-giuridico e quindi il ricorrente può proporre alla Cassazione tutte le censure anche non proposte al giudice di secondo grado). In altri termini, investito della cognizione sul singolo punto della decisione da un motivo specifico, il giudice di appello verifica con pieni poteri se giudica condivisibile il dispositivo su quel punto o no, all’esito di un confronto tra il dispositivo ed il contenuto degli atti processuali, ‘guidato’ anche dal motivo specifico: nel primo caso conferma, nel secondo modifica in tutto o in parte la prima sentenza. Il giudice di cassazione, invece, deve limitarsi a valutare fondatezza, infondatezza o inammissibilità del singolo motivo; giudica il motivo solo in relazione alla motivazione della sentenza e conseguentemente annulla, con o senza rinvio, la sentenza di appello (quando il motivo è fondato), altrimenti rigetta o dichiara inammissibile il ricorso, a prescindere da cosa personalmente ritenga in ordine all’adeguatezza del dispositivo al caso: valuta, quindi, che la decisione d’appello è stata presa senza violazioni di legge e vizi di motivazione, non se essa è anche adeguata al caso. Splendida, sul punto, la sintesi di Ernesto Lupo in Alla ricerca di linee guida affidabili per una motivazione concisa, Rivista Giustizia Insieme – 2-3/2009 – Aracne editrice: “L’atteggiamento del magistrato della Cassazione che mira a risolvere il caso a lui affidato nel modo che ritiene giusto (andando, se mai, al di là dei risultati di una mera verifica della correttezza logica della sentenza impugnata), se può sembrare espressione di uno scrupolo positivo (se non, addirittura, encomiabile), non tiene conto che a tale Istituzione è affidato il privilegio di dire l’ultima e definitiva parola sulla controversia, ma tale privilegio trova, nell’ordinamento, il proprio contrappeso nel rispetto dell’accertamento di fatto, il quale è riservato al giudice del merito; onde la soluzione legale e giusta della controversia deve essere il risultato finale della somma dei compiti propri dei due tipi di giudicanti; il che implica un atteggiamento dei giudici di legittimità di self restraint nell’esame e nella valutazione del giudizio di fatto”.
[55] SU Michaeler: “la nozione di "capo della sentenza" è riferita soprattutto alla sentenza plurima o cumulativa, caratterizzata dalla confluenza nell'unico processo dell'esercizio di più azioni penali e dalla costituzione di una pluralità di rapporti processuali, ciascuno dei quali inerisce ad una singola imputazione; tanto che per capo deve intendersi ciascuna decisione emessa relativamente ad uno dei reati attribuiti all'imputato. Può quindi affermarsi che il capo corrisponde ad "un atto giuridico completo, tale da poter costituire da solo, anche separatamente, il contenuto di una sentenza: "la decisione" che conclude una fase o un grado del processo" può, dunque, "assumere struttura monolitica o composita, a seconda che l'imputato sia stato chiamato a rispondere di un solo reato o di più reati"; nel primo caso, nel processo è dedotta un'unica regiudicanda mentre, nel secondo, "la regiudicanda è scomponibile in tante autonome parti quanti sono i reati per i quali è stata esercitata l'azione penale".
“Il concetto di "punto della decisione" ha una portata più ristretta, in quanto riguarda tutte le statuizioni suscettibili di autonoma considerazione necessarie per ottenere una decisione completa su un capo, tenendo presente, però, che non costituiscono punti del provvedimento impugnato le argomentazioni svolte a sostegno di ciascuna statuizione: se ciascun capo è concretato da ogni singolo reato oggetto di imputazione, i punti della decisione, ai quali fa espresso riferimento l'art. 597, comma 1, c.p.p., coincidono con le parti della sentenza relative alle statuizioni indispensabili per il giudizio su ciascun reato; in primo luogo, l'accertamento della responsabilità e la determinazione della pena, che rappresentano, in tal senso, due distinti punti della sentenza. Ne consegue che ad ogni capo corrisponde una pluralità di punti della decisione, ognuno dei quali segna un passaggio obbligato per la completa definizione di ciascuna imputazione, sulla quale il potere giurisdizionale del giudice non può considerarsi esaurito se non quando siano stati decisi tutti i punti, che costituiscono i presupposti della pronuncia finale su ogni reato, quali l'accertamento del fatto, l'attribuzione di esso all'imputato, la qualificazione giuridica, l'inesistenza di cause di giustificazione, la colpevolezza, e - nel caso di condanna - l'accertamento delle circostanze aggravanti ed attenuanti e la relativa comparazione, la determinazione della pena, la sospensione condizionale di essa, e le altre eventuali questioni dedotte dalle parti o rilevabili di ufficio. Alla stregua della distinzione tra capi e punti della sentenza - applicata nell'esperienza giudiziaria non sempre con la dovuta chiarezza - deve ritenersi che la cosa giudicata si forma sul capo e non sul punto, nel senso che la decisione acquista il carattere dell'irrevocabilità soltanto quando sono divenute irretrattabili tutte le questioni necessarie per il proscioglimento o per la condanna dell'imputato rispetto ad uno dei reati attribuitigli. Nel caso di processo relativo ad un solo reato la sentenza passa in giudicato nella sua interezza, mentre nell'ipotesi di processo cumulativo o complesso la cosa giudicata può coprire uno o più capi e il rapporto processuale può proseguire per gli altri, investiti dall'impugnazione, onde, in una simile situazione, è corretto utilizzare la nozione di giudicato parziale. I punti della sentenza non sono, invece, suscettibili di acquistare autonomamente autorità di giudicato, potendo essere oggetto unicamente della preclusione correlata all'effetto devolutivo delle impugnazioni (tantum devolutum quantum appellatum) ed al principio della disponibilità del processo nella fase delle impugnazioni, da cui consegue che - in mancanza di un motivo di impugnazione afferente una delle varie questioni la cui soluzione è necessaria per la completa definizione del rapporto processuale concernente un reato - il giudice non può spingere la sua cognizione sul relativo punto, a meno che la legge processuale non preveda poteri esercitabili ex officio (v. art. 597.5: ndr)”.
In particolare, non può essere condiviso il pensiero di Franco Cordero relativamente alla ricostruzione del trattamento sanzionatorio come unico punto della decisione, del quale le varie articolazioni (entità pena base, singole circostanze e loro eventuale bilanciamento, ecc.) sarebbero mere ‘questioni’: dedotta una (l’entità della pena) tutte le altre lo sarebbero, e pretendere la devoluzione con motivo specifico delle singole ‘questioni’ comporterebbe assimilare il motivo di appello al motivo di ricorso, che perderebbe la flessibilità del gravame, oltretutto generando motivi fluviali (F. Cordero, op. cit., 1130 s.). La ricostruzione delle Sezioni Unite (punti della decisione quali statuizioni suscettibili di autonome considerazioni per giungere alla decisione finale, il resto essendo argomenti a sostegno delle statuizioni o richieste sui singoli punti) è più convincente e, soprattutto, è l’unica che consente quei limiti dell’effetto evolutivo (597.1), superabile solo nei tassativi casi del 597.5, che altrimenti salterebbe. Del resto, fondata la lettura del Maestro, parrebbe non avere senso sistematico la limitazione del potere d’ufficio al solo riconoscimento delle attenuanti (597.5), a quel punto la mera richiesta di riduzione di pena contenendo tutte le possibili alternative dell’intero percorso logico-giuridico per giungere alla pena finale.
[56] Lo hanno ribadito e ben spiegato le Sezioni Unite Galtelli: “il sindacato sull'ammissibilità dell'appello, condotto ai sensi degli artt. 581 e 591 cod. proc. pen., non può ricomprendere - a differenza di quanto avviene per il ricorso per cassazione (art. 606, comma 3, cod. proc. pen.) o per l'appello civile - la valutazione della manifesta infondatezza dei motivi di appello. La manifesta infondatezza non è infatti espressamente menzionata da tali disposizioni quale causa di inammissibilità dell'impugnazione. Dunque, il giudice d'appello non potrà fare ricorso alla speciale procedura prevista dall'art. 591, comma 2, cod. proc. pen., in presenza dì motivi che siano manifestamente infondati e però caratterizzati da specificità intrinseca ed estrinseca”. Questo insegnamento inequivoco non risulta certamente superato dall’endiadi (“in forma puntuale ed esplicita”) inserita nel nuovo comma 1-bis dell’art. 581) che secondo alcuni avrebbe aperto anche alla inammissibilità per manifesta infondatezza del motivo: in realtà basta osservare che “forma puntuale ed esplicita” è locuzione che si riferisce all’esistenza e non alla valutazione di merito di un contenuto critico specifico alla motivazione che sorregge nella sentenza impugnata la deliberazione sul singolo punto della decisione (v. anche G. Biondi, cit., p.4). E’ in proposito significativo che la Relazione illustrativa indichi essere avvenuta (solo) la codificazione del requisito della genericità estrinseca dei motivi di impugnazione: in definitiva, lettera e ragione della norma non consentono affatto di sostenere legittimata pure l’inammissibilità per manifesta infondatezza (il che non necessariamente è positivo: se è comprensibile la preoccupazione della classe forense sulla astratta possibilità di un’anticipazione di un apprezzamento di pieno merito sottratta al contraddittorio che potrebbe essere solo differito, con la presentazione di un ricorso per cassazione, tuttavia l’esperienza giurisdizionale quotidiana manifesta tutt’altro che infrequente la presenza di motivi di appello che, formalmente specifici anche estrinsecamente, presentano palese inconsistenza).
[57] S.U. Galtelli: “E proprio la diversità strutturale tra i due giudizi deve indurre ad escludere che la riproposizione di questioni già esaminate e disattese in primo grado sia di per sé causa di inammissibilità dell'appello. Il giudizio di appello ha infatti per oggetto la rivisitazione integrale del punto di sentenza oggetto di doglianza, con i medesimi poteri del primo giudice ed anche a prescindere dalle ragioni dedotte nel relativo motivo. Invece il giudizio di cassazione può avere per oggetto i soli vizi di mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione, tassativamente indicati nella lettera e) dell'art. 606 cod. proc. pen.; con la conseguenza che il motivo di ricorso non può, per definizione, costituire una mera riproposizione del motivo di appello, perché deve avere come punto di riferimento non il fatto in sé, ma il costrutto logico-argomentativo della sentenza d'appello che ha valutato il fatto. Per contro - lo si ribadisce - se nel giudizio d'appello sono certamente deducibili questioni già prospettate e disattese dal primo giudice, l'appello, in quanto soggetto alla disciplina generale delle impugnazioni, deve essere connotato da motivi caratterizzati da specificità, cioè basati su argomenti che siano strettamente collegati agli accertamenti della sentenza di primo grado”.
[58] Si tenga presente che le Sezioni Unite Galtelli sono precedenti anche alla modifica dell’art. 581 introdotta dalla cd legge Orlando, n. 103 del 23/06/2017, pubblicata sulla GU 154 del 04/07/2017 ed entrata in vigore il 03/08/2017. La sentenza delle Sezioni Unite infatti è stata deliberata all’udienza del 27/10/2016 e depositata il 22/02/2017.
[59] Non esiste infatti una sorta di proprietà transitiva dell’ammissibilità da un motivo ammissibile a quelli inammissibili.
[60] “Su un piano diverso, rileva il lamentato aggravio nei ruoli d’udienza dei giudici penali dell’impugnazione in una situazione di elevati carichi di lavoro – denunciato, pur non senza ragione, dalla Corte rimettente – che richiede adeguati interventi diretti ad approntare sufficienti risorse personali e materiali, rimessi alle scelte discrezionali del legislatore in materia di politica giudiziaria e alla gestione amministrativa della giustizia”.
[61] Sentenza che nei casi indicati dall’art. 652 fa stato anche nei confronti del danneggiato nel giudizio civile per le restituzioni ed il risarcimento del danno.
[62] Giova ricordare che, in tal caso, l’impugnazione per i soli interessi civili non sospende l’esecuzione delle disposizioni penali del provvedimento impugnato: 573.2. Il che comporta, tra l’altro, che nei procedimenti relativi a reati consumati prima del 01/01/2020, cui si applica ancora l’istituto della prescrizione, se la sentenza è impugnata ai soli fini civili deve essere messa subito in esecuzione, a nulla rilevando l’ulteriore decorso del tempo ai fini di una futura eventuale prescrizione, ormai irrilevante.
[63] Che, secondo il nuovo art. 175-bis disp. att., nel caso di rinvio per dichiarata improcedibilità dell’azione penale ai sensi dell’art. 344-bis deve essere deliberata entro sessanta giorni successivi al maturare dei termini di durata massima.
Dopo la sentenza Corte costituzionale 111/2022 parrebbe che l’udienza con rito cartolare sia la soluzione più congrua (sussistendo un interesse al confronto quantomeno sull’ammissibilità dell’appello e la sentenza della Corte delle leggi lasciando nessun spazio a procedure che concludendosi con sentenza non prevedano alcuna forma di contraddittorio prima della deliberazione).
[64] Ricordato che l’art. 193 dispone che “nel processo penale non si osservano i limiti di prova stabiliti dalle leggi civili, eccettuati quelli che riguardano lo stato di famiglia o di cittadinanza”, é necessaria una pur sintetica storia della vicenda del giudizio di rinvio in sede civile, in applicazione dell’art. 622:
1. Le acque quiete:
-1.1. S.U. 35490/2009 Tettamanti (se 129.2 evidenza, se PPC 530.2):
- In presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129 comma secondo, cod. proc. pen. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento.
- All'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, oppure ritenga infondata nel merito l'impugnazione del P.M. proposta avverso una sentenza di assoluzione in primo grado ai sensi dell'art. 530, comma secondo, cod. proc. pen..
-1.2. Sez. U., Sentenza n. 40109/2013, Sciortino:
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite, può così essere enunciata: «se, nel caso in cui il giudice di appello abbia dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato, senza 3 motivare in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini delle statuizioni civili, a seguito di ricorso per cassazione proposto dall'imputato, ritenuto fondato, debba essere disposto l'annullamento della sentenza con rinvio allo stesso giudice penale che ha emesso il provvedimento impugnato ovvero al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell'art. 622 cod. proc. pen.»…
…A diversa conclusione non può condurre neppure la considerazione che la disciplina che rinvia al giudice civile ogni questione superstite sulla responsabilità civile nascente dal reato rende inevitabile l'applicazione delle regole e delle forme della procedura civile, che potrebbero ritenersi meno favorevoli agli interessi del danneggiato dal reato rispetto a quelle del processo penale, dominato dall'azione pubblica di cui può ben beneficiare indirettamente il danneggiato dal reato. Si tratta però di evenienza che il danneggiato può ben prospettarsi al momento dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale, di cui conosce preventivamente procedure e possibili esiti, comprese le eventualità che in presenza di cause di estinzione del reato o di improcedibilità dell'azione penale venga a mancare un accertamento della responsabilità penale dell'imputato e che in caso di translatio judici l'azione per il risarcimento del danno debba essere riassunta davanti al giudice civile competente per valore in grado di appello. Resta naturalmente fermo che, in presenza di un danno da reato, il danneggiato, in sede di rinvio, può sollecitare davanti al giudice civile anche il riconoscimento del danno non patrimoniale, negli ampi termini definiti dalla giurisprudenza civile (per tutte, da ultimo, Sez. U civ., n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605490 e 605491). Sul versante delle aspettative dell'imputato, poi, il perseguimento dell'interesse a un pieno accertamento della sua innocenza, anche ai fini della responsabilità civile, può ben essere assicurato dall'opzione di rinuncia alla prescrizione (art. 157, comma settimo, cod. pen.) o all'amnistia (ex Corte cost., sent. n. 175 del 1971). 12. Va conseguentemente enunciato il seguente principio di diritto: «In ogni caso in cui il giudice di appello abbia dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato (o per intervenuta amnistia), senza motivare in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini delle statuizioni civili, a seguito di ricorso per cassazione proposto dall'imputato, ritenuto fondato dalla corte di cassazione, deve essere disposto l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell'art. 622 cod. proc. pen.».
-1.3. Sez. 4, Sentenza n. 5901/2019:
Nel caso di accoglimento del ricorso per cassazione della parte civile avverso una sentenza di assoluzione in tema di responsabilità medica per reato omissivo improprio, nel conseguente giudizio civile l'accertamento del nesso causale tra la condotta omessa e l'evento verificatosi va svolto facendo applicazione della regola di giudizio propria del giudizio penale, vale a dire quella della ragionevole, umana certezza dell'esito salvifico delle condotte omesse, alla stregua delle informazioni in ordine all'ordinario andamento della patologia riscontrata e delle peculiarità del caso concreto, non mutando la natura risarcitoria della domanda proposta, ai sensi dell'art. 74 cod. proc. pen, innanzi al giudice penale.
Sez. 4, Sentenza n. 27045/2016:
Nel caso di accoglimento del ricorso per cassazione della parte civile avverso una sentenza di assoluzione, nel conseguente giudizio di rinvio, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità commissiva, il giudice civile è tenuto ad applicare le regole di giudizio del diritto penale e non quelle del diritto civile, essendo in questione, ai sensi dell’art. 185 cod. pen., il danno da reato e non mutando la natura risarcitoria della domanda proposta, ai sensi dell’art. 74 cod. proc. pen., innanzi al giudice penale.
-1.4. La Cassazione civile si adegua parzialmente, rivendicando autonomie di valutazioni ma non in termini sistematici generali
(sintesi da brano di Sez.3 civ 15859/2019, che richiama per confutare) “È stato affermato, da una giurisprudenza peraltro risalente (e non utile ai fini che occupano il collegio, come meglio si dirà più innanzi) che, pur quando si tratti di rinvio dopo annullamento delle sole disposizioni civili di sentenza penale, i limiti e l'oggetto del giudizio di rinvio sono fissati dalla sentenza di cassazione, sicché anche in questo caso il giudice di rinvio è chiamato a compiere l'esame della controversia, rimanendo entro il solco tracciato da questa ultima sentenza" (Cass. 26 luglio 1985, n. 4353; 22 marzo 1991, n. 3063; 29 aprile 1994, n. 4164), precisandosi ancora che l'efficacia preclusiva riconosciuta alla sentenza di cassazione riguarda non soltanto le questioni dedotte nel giudizio di legittimità ma anche quelle che in tale giudizio avrebbero potuto essere prospettate dalle parti o rilevate d'ufficio dalla Corte di cassazione quale necessario presupposto della sentenza, come ad esempio l'esistenza di un giudicato interno. Pertanto anche in caso di rinvio dopo annullamento delle sole disposizioni civili di sentenza penale, i limiti e l'oggetto del giudizio di rinvio sono fissati esclusivamente dalla sentenza di cassazione, la quale non può essere sindacata o elusa dal giudice di rinvio neppure se fosse eventualmente erronea (Cass. 28 giugno 1997, n. 5800). 12.2.1. In ordine al contenuto dell'atto di riassunzione, appare poi consolidato l'insegnamento (di recente, Cass. 19 dicembre 2017, n. 30529) secondo cui "l'atto di riassunzione della causa innanzi al giudice di rinvio, poiché non dà luogo ad un nuovo procedimento, ma ad una prosecuzione dei precedenti gradi di merito, non deve contenere, ai fini della sua validità, la specifica riproposizione di tutte le domande, eccezioni e conclusioni originariamente formulate, essendo sufficiente che siano richiamati l'atto introduttivo del giudizio ed il contenuto del provvedimento in base a cui avviene tale riassunzione. Ne consegue che il giudice innanzi al quale sia stato riassunto il processo non incorre nel vizio di ultrapetizione qualora pronunci su tutta la domanda proposta nel giudizio ove fu emessa la sentenza annullata e non sulle sole diverse conclusioni formulate con il suddetto atto di riassunzione". 12.3. Quanto alla disciplina processuale, si è ritenuto che anche il regime dei nova sia quello proprio del giudizio di rinvio disciplinato dall'art. 394 cod. proc. civ., cioè quello "del divieto per le parti di nuova attività assertiva o probatoria, che non si renda necessaria in conseguenza della pronuncia di cassazione". 12.3.1. In particolare, con riguardo alla delicata tematica dell'utilizzabilità o meno, nel giudizio di rinvio, della testimonianza resa dalla persona offesa in sede penale, si è ritenuto … che essa conservi il suo valore di prova giacchè in tal caso continuano ad applicarsi in parte qua le regole proprie del processo penale e la deposizione giurata della parte civile, ormai definitivamente acquisita ed ineludibile, deve essere esaminata dal giudice di rinvio esattamente come avrebbe dovuto esaminarla il giudice penale se le due azioni non si fossero occasionalmente separate (Cass. 14 luglio 2004, n. 13068).
2. La tempesta perfetta
- 2.1. La Cassazione civile “si ribella” ai principi enunciati nella giurisprudenza penale:
Sez. 3, Sentenza n. 15859/2019
“Nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p. si determina una piena "translatio" del giudizio sulla domanda civile, sicché la Corte di appello civile competente per valore, cui la Cassazione in sede penale abbia rimesso il procedimento ai soli effetti civili, applica le regole processuali e probatorie proprie del processo civile e, conseguentemente, adotta, in tema di nesso eziologico tra condotta ed evento di danno, il criterio causale del "più probabile che non" e non quello penalistico dell'alto grado di probabilità logica, anche a prescindere dalle contrarie indicazioni eventualmente contenute nella sentenza penale di rinvio…
[61 pag. di motivazione, con la teorizzazione sistematica della materia]
… Si deve conseguentemente dubitare che la Corte di cassazione penale abbia il potere di stabilire, in sede di annullamento con rinvio al giudice civile, quali siano le regole e le forme da applicare in tale giudizio, poiché tale compito deve ritenersi demandato integralmente al giudice civile di appello, ed alla stessa Corte di cassazione civile investita dell'eventuale impugnazione della decisione emessa in sede di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen… …Va, pertanto, definitivamente affermato che, essendo ormai intervenuto un giudicato agli effetti penali, ed essendo venuta meno, con l'esaurimento della fase penale del giudizio, la ragione stessa di attrazione dell'illecito civile nell'ambito delle regole della responsabilità penale, risulta coerente con la stessa ragion d'essere dell'intero assetto normativo destinato a disciplinare la materia che la domanda risarcitoria, quale precipitato di una complessa chimica interdisciplinare, venga esaminata secondo le regole proprie dell'illecito aquiliano - regole le cui peculiarità appaiono consolidata conseguenza della attuale funzione della responsabilità civile, volta all'individuazione del soggetto su cui, secondo il sistema del diritto civile, far gravare le conseguenze risarcitorie del danno verificatosi nella sfera giuridica della vittima, e non (più) a comminargli una sanzione (penale)…
Ma già:
Sez. 3, Sentenza n. 9358/2017
In materia di rapporti tra processo penale e civile, la sentenza di proscioglimento dell’imputato per intervenuta prescrizione del reato, passata in giudicato, non esplica alcuna efficacia vincolante nel giudizio civile di danno, anche quando lo stesso si svolga nelle forme del giudizio di rinvio conseguente a quello penale, ex art. 622 c.p.p., giacché rispetto ad esso, sebbene regolato dagli artt. 392-394 c.p.c., non è ipotizzabile un vincolo paragonabile a quello derivante dall’enunciazione del principio di diritto ex art. 384, comma 2, c.p.c.
Sez. 3, Sentenza n. 19430/2016
Il principio, affermato dalla Corte EDU, secondo cui l'art. 6 della CEDU impone di rinnovare l'istruzione dibattimentale ogni qualvolta si intenda riformare la sentenza assolutoria di primo grado (cd. "overturning") ha rilievo solo in ambito penalistico e non è applicabile ai giudizi risarcitori civili, governati - in tema di accertamento del nesso causale tra condotta illecita e danno - dalla diversa regola probatoria del "più probabile che non", e ciò tanto più ove venga richiesta in appello l'affermazione della responsabilità del presunto danneggiante negata, invece, dal giudice di primo grado (cfr. Corte EDU 21 settembre 2010, Marcos Barrios c. Italia).
Sez. 3, Ordinanza n. 9799/2019
Premesso che, nell'accertamento della sussistenza di determinati fatti, il giudice civile valuta liberamente le prove raccolte in sede penale, in modo del tutto svincolato dal parallelo processo penale, l'utilizzabilità o meno delle dichiarazioni rese da una coimputata ai sensi dell'art. 192 c.p.p. è questione che riguarda esclusivamente le regole che presiedono alla formazione della prova nell'ambito del processo penale, non assumendo alcun rilievo nel giudizio civile, teso a verificare la fondatezza degli addebiti mossi ai fini della decisione sulla domanda di risarcimento civile.
- 2.2. La Cassazione penale si ritrae (…sia allora il giudice penale a trattare anche il solo civile, se entrato nel processo penale, quando deve continuare a discutersi di responsabilità…)
Sez. 6, Sentenza n. 28215/2020
In caso di annullamento, per mancata rinnovazione dell'assunzione di prove dichiarative decisive, della sentenza di appello, che, in accoglimento del gravame della parte civile, abbia riformato, con condanna ai soli effetti civili, la decisione assolutoria di primo grado, il rinvio per nuovo giudizio va disposto dinanzi al giudice penale, in quanto non è applicabile l'art. 622 cod. proc. pen., permanendo, nonostante l'irrevocabilità della sentenza di assoluzione, un interesse penalistico alla vicenda, sotto il profilo della necessaria applicazione del principio di rilievo costituzionale del "giusto processo", anche in presenza di questioni relative ai soli profili civilistici della stessa.
Sez. 4, Sentenza n. 11958/2020
In caso di annullamento, per mancata rinnovazione dell'assunzione di prove dichiarative decisive, della sentenza di appello che, in accoglimento del gravame della parte civile, abbia riformato, con condanna ai soli effetti civili, la decisione assolutoria di primo grado, il rinvio per nuovo giudizio va disposto dinnanzi al giudice penale. (Conf. Sez. 4, n. 12174/2020, non massimata).
<<…11. Prima di affrontare il concreto thema decidendum, è opportuno chiarire che è ad esso estraneo il contrasto interpretativo maturato tra Corte penale e Corte civile in ordine alle regole che la Corte d'appello civile è tenuta ad applicare una volta investita, dalla Corte di cassazione penale, del rinvio ai sensi dell'art. 622 c.p.p. E neppure è questa la sede per prendere posizione in favore dell'uno o dell'altro orientamento, semmai solo per pronosticare che arroccamenti, sull'una o sull'altra, potrebbero pregiudicare l'unità della nomofilachia della Corte. È sufficiente, dunque, e solo per ragioni di completezza, ricordare che la contesa ermeneutica, originata dal silenzio serbato in proposito dall'art. 622 citato, vede schierate, da un lato, la Corte penale, secondo la quale il giudice civile del rinvio è tenuto, per evitare il rischio di aggirare l'accertamento del reato compiuto dal giudice penale e di determinare un danno da reato che prescinda dai limiti e dall'oggetto fissati nella sentenza penale, a valutare la sussistenza della responsabilità dell'imputato secondo i parametri decisori e le regole probatorie del diritto penale (si pensi, ad es. alla prova della sussistenza del rapporto di causalità tra condotta ed evento e al canone "dell'oltre ogni ragionevole dubbio" posto a presidio della valutazione degli elementi per pronunciare condanna) e non facendo applicazione delle regole proprie del giudizio civile (sez. 4 n. 5901 del 18/1/2019, Oliva Paolo c/ Navarra Giuseppe, Rv.275122; n. 5898 del 17/1/2019, Borsi Marco, Rv. 275266; n. 412 del 16/11/2018, dep. 2019, De Santis Raffaele, Rv. 274831; sez. 6 n. 43896 del 8/2/2018, Luvaro Angela, Rv. 274223; sez. 4, n. 34878 del 8/6/2017, Soriano, Rv. 271065; sez. 2, n. 28959 del 10/5/2017, Fasulo, Rv. 270364); dall'altro, la Corte civile che mette in campo una serie di argomentazioni per giungere a conclusioni diametralmente opposte (cfr., in particolare, Sez. 3 n. 15859 del 18 aprile 2019)… … Occorre, dunque, ripensare l'art. 622 cod. proc. pen. quale norma funzionale a ottenere il bilanciamento del principio di economia processuale, per il quale deve evitarsi il permanere di questioni civili nei ruoli penali, con la necessità, propria del principio del giusto processo tratteggiato nei termini anzidetti, di cristallizzare davanti al giudice penale l'accertamento del fatto illecito da cui origina il danno. Pertanto, il problema della individuazione, ai sensi dell'art. 622 o dell'art. 623 cod. proc. pen., del giudice al quale va devoluta la cognizione delle questioni civili residue, originariamente correlate a un fatto-reato, non può prescindere dalla verifica dell'oggetto della cognizione devoluta al giudice penale, chiamato a decidere degli effetti civili di una vicenda in cui l'accusato sia stato assolto in via definitiva, a seconda, cioè, che l'accertamento del fatto-reato possa dirsi o meno definitivamente concluso davanti al giudice penale, investito delle questioni civili in virtù del meccanismo processuale definito dall'art. 576, comma 1, primo periodo, ultima parte; accertamento regolato, nonostante l'assoluzione definitiva, dalle regole proprie del giudizio 21 penale, ivi compreso l'art. 603, comma 3, cod. proc. pen., nella lettura datane dal diritto vivente. Un ruolo decisivo, a tal fine, gioca proprio la forza "espansiva" dello statuto inderogabile dell'imputato: i suoi effetti si riverberano direttamente sul versante della definitività dell'accertamento del fatto-reato devoluto al giudice penale, in virtù del meccanismo processuale sopra richiamato, ancor prima che sul piano del condizionamento conoscitivo dell'accertamento penale rispetto al giudizio civile che consegue all'applicazione dell'art. 622 cod. proc. pen. Si tratta di interpretazione del tutto coerente con il testo della norma: l'utilizzo dell'avverbio "solamente" autorizza, infatti, una lettura dell'art. 622 cod. proc. pen. secondo la quale non rientra nell'annullamento "solamente" delle "disposizioni o ... capi che riguardano l'azione civile" un thema decidendum in cui ancora si controverta della sussistenza del fatto-reato secondo le regole proprie del processo penale, allorché le doglianze in tal senso formulate dall'accusato abbiano trovato positivo riscontro nella decisione di annullamento del giudice di legittimità penale. Solo allorché tale accertamento sia compiuto, nel rispetto dei canoni di giudizio del giusto processo, potrà effettivamente apprezzarsi quella dissoluzione del collegamento tra la pretesa risarcitoria del privato e l'accertamento del fatto-reato come operato nel processo penale e, quindi, il venir meno di ogni interesse penalistico correlato a quella vicenda, che giustifica il trasferimento al giudice civile della cognizione sui residui aspetti civilistici di essa, nei termini già sopra ampiamente chiariti, anche alla stregua dei precedenti di questa Corte di legittimità, penale e civile. Rispetto a tale profilo specifico, si dissente infatti dalle argomentazioni rinvenibili nella sentenza n. 15859 del 18 aprile 2019 della terza sezione civile di questa Corte: non è l'intervento del giudicato assolutorio agli effetti penali a far venir meno la ragione dell'attrazione dell'illecito civile nell'ambito delle regole della responsabilità penale, bensì il venir meno di ogni residuo della cognizione del giudice penale in ordine a un impianto accusatorio rispetto al quale l'accusato/danneggiante ha approntato la sua difesa nel processo penale, perché così previsto dalla legge. Tale lettura … consente anche di neutralizzare i profili di problematicità che attengono al diverso e dibattuto piano del condizionamento gnoseologico tra giudizio penale e processo civile. Viene, infatti, meno ogni necessità di ribadire la valenza extra penale di principi cardine dell'ordinamento posti a presidio di diritti fondamentali, come quello dell'accusato ad avere un processo giusto anche ai fini dell'accertamento del fatto di reato produttivo del danno, oggetto della domanda civile azionata nel processo penale, e di proseguire, dunque, il confronto che contrappone il comparto civile a quello penale e sul quale si apprezza lo sforzo interpretativo operato dalla sezione terza civile di questa Corte nella sentenza più volte richiamata… Il rinvio al giudice penale anziché a quello civile, peraltro, costituisce una garanzia del diritto di tutte le parti a non vedere stravolte, alla fine di un lungo processo, le regole probatorie e quelle logiche sulla responsabilità che lo hanno governato fino a quel momento, determinandone il progressivo posizionamento>>
3. L’indirizzo per la soluzione (in costruzione…)
- 3.1. Corte costituzionale 176/2019 respinge un tentativo disperato sul 576 (ma davvero è ora, visti i carichi conseguenti alla scarsa influenza dei riti alternativi, razionale che il giudice penale mandi in prescrizione i reati per trattare le sole pretese civilistiche, dopo un primo compiuto apprezzamento di infondatezza: quando pertanto la ‘ex-vittima’ è ormai solo attore puro?)
- 3.2 (In relazione ad art.6.2 CEDU, giurisprudenza Cedu e disciplina sulla presunzione di innocenza) Corte costituzionale 182/2021, chiamata a pronunciarsi sull’art. 578, sostanzialmente vira: (pare dire) nessuna violazione del principio di innocenza: attenti alle parole e comunque parametri civilisti già nel processo penale [prezioso il contributo sulla sentenza di B. Lavarini, Presunzione di innocenza “europea” e azione civile nel processo penale: un difficile compromesso fra tutela del prosciolto e salvaguardia del danneggiato in Giurisprudenza costituzionale, 4/2021, p. 1785]:
<<…Secondo la Corte EDU, terza sezione, sentenza 20 ottobre 2020, Pasquini contro Repubblica di San Marino, «senza una tutela che garantisca il rispetto dell’assoluzione o della decisione di interruzione in qualsiasi altro procedimento, le garanzie del processo equo di cui all’art. 6 [paragrafo] 2, rischiano di diventare teoriche o illusorie», sicché, in seguito ad un procedimento penale conclusosi con un’assoluzione o con una interruzione, la persona che ne è stata oggetto è innocente agli occhi della legge e deve essere trattata in modo coerente con tale innocenza in tutti i successivi procedimenti che la riguardano, a meno che si tratti di procedimenti giudiziari che diano luogo ad una nuova imputazione penale, ai sensi della Convenzione… In realtà – per le ragioni che si vengono ora ad esporre – si ha che, nella situazione processuale di cui alla disposizione censurata, che vede il reato essere estinto per prescrizione e quindi l’imputato prosciolto dall’accusa, il giudice non è affatto chiamato a formulare, sia pure “incidenter tantum”, un giudizio di colpevolezza penale quale presupposto della decisione, di conferma o di riforma, sui capi della sentenza impugnata che concernono gli interessi civili… Da una parte il principio di diritto (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 maggio-15 settembre 2009, n. 35490 [è la sentenza Tettamanti] – secondo cui, in deroga alla regola generale, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, quando, in sede di appello, sopravvenuta l’estinzione del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili – presuppone, per un verso, il carattere “pieno” o “integrale” della cognizione del giudice dell’impugnazione penale (il quale non può limitarsi a confermare o riformare immotivatamente le statuizioni civili emesse in primo grado, ma deve esaminare compiutamente i motivi di gravame sottopostigli, avuto riguardo al compendio probatorio e dandone poi conto in motivazione); per altro verso, non presuppone (né implica) che il giudice, nel conoscere della domanda civile, debba altresì formulare, esplicitamente o meno, un giudizio sulla colpevolezza dell’imputato e debba effettuare un accertamento, principale o incidentale, sulla sua responsabilità penale, ben potendo contenere l’apprezzamento richiestogli entro i confini della responsabilità civile … può accedersi all’interpretazione conforme agli indicati parametri interposti… Il giudice dell’impugnazione penale, nel decidere sulla domanda risarcitoria, non è chiamato a verificare se si sia integrata la fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice, in cui si iscrive il fatto di reato di volta in volta contestato; egli deve invece accertare se sia integrata la fattispecie civilistica dell’illecito aquiliano (art. 2043 cod. civ.). Con riguardo al “fatto” – come storicamente considerato nell’imputazione penale – il giudice dell’impugnazione è chiamato a valutarne gli effetti giuridici, chiedendosi, non già se esso presenti gli elementi costitutivi della condotta criminosa tipica (commissiva od omissiva) contestata all’imputato come reato, contestualmente dichiarato estinto per prescrizione, ma piuttosto se quella condotta sia stata idonea a provocare un “danno ingiusto” secondo l’art. 2043 cod. civ., e cioè se, nei suoi effetti sfavorevoli al danneggiato, essa si sia tradotta nella lesione di una situazione giuridica soggettiva civilmente sanzionabile con il risarcimento del danno. Nel contesto di questa cognizione rilevano sia l’evento lesivo della situazione soggettiva di cui è titolare la persona danneggiata, sia le conseguenze risarcibili della lesione, che possono essere di natura sia patrimoniale che non patrimoniale. La mancanza di un accertamento incidentale della responsabilità penale in ordine al reato estinto per prescrizione non preclude la possibilità per il danneggiato di ottenere l’accertamento giudiziale del suo diritto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, la cui tutela deve essere assicurata, nella valutazione sistemica e bilanciata dei valori di rilevanza costituzionale al pari di quella, per l’imputato, derivante dalla presunzione di innocenza… … Una volta dichiarata la sopravvenuta causa estintiva del reato, in applicazione dell’art. 578 cod. proc. pen., l’imputato avrà diritto a che la sua responsabilità penale non sia più rimessa in discussione, ma la parte civile avrà diritto al pieno accertamento dell’obbligazione risarcitoria… …Con la disposizione censurata il legislatore ha operato un bilanciamento tra le esigenze sottese all’operatività del principio generale di accessorietà dell’azione civile rispetto all’azione penale (che esclude la decisione sul capo civile nell’ipotesi di proscioglimento) e le esigenze di tutela dell’interesse del danneggiato, costituito parte civile >>
[La domanda rimasta aperta: ma allora lo schema è 1) verifica 129, 2) prescrizione e definizione azione penale, 3) valutazione della responsabilità ai soli fini civili e con criteri civili - nel merito, sulle prove? – e se la domanda civile viene rigettata pure per il parametro ex 530.2 cod. proc. pen. niente più assoluzione penale e quindi superamento della giurisprudenza sul punto chiarissima di SU Tettamanti? . Da tener presente che qui la peculiarità è che le due decisioni, quella che delibera la prescrizione e quella che statuisce sulla responsabilità ai soli fini civili, sono contenute nel medesimo dispositivo e quindi ‘nascono’ contestualmente, solo la successione logico sistematica distinguendole temporalmente]
3.3. S.U. 22065/2021 Cremonini conferma l’originaria interpretazione dell’art. 622 quanto all’individuazione del destinatario del rinvio, ma apre al mutamento dei criteri di valutazione dopo il rinvio al giudice civile: “Può dunque essere enunciato il seguente principio di diritto: "In caso di annullamento ai soli effetti civili, da parte della Corte di Cassazione, per la mancata rinnovazione in appello di prova dichiarativa ritenuta decisiva, della sentenza che in accoglimento dell'appello della parte civile avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, abbia condannato l'imputato al risarcimento del danno, il rinvio per il nuovo giudizio va disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello".
<<…Punto di partenza non può che essere l'incipit dell'art. 622, così letteralmente formulato: "fermi gli effetti penali della sentenza". Al riguardo, tale formulazione induce a ritenere che la stessa voglia significare che tutto ciò che riguarda il versante penale del fatto non può più essere posto in discussione e la cognizione delle questioni di natura civilistica passa, quando occorre, al giudice civile competente per valore in grado di appello, come emerge dal testo della norma. La ratio dell'art. 622 va ravvisata, cioè, in linea con la richiamata autonomia e separatezza dell'azione civile, nella volontà di escludere la perdurante attrazione delle pretese civili nel processo penale una volta che siano definitive le statuizioni di carattere penale… 12. Applicando tale principio alla fattispecie de qua non vi è dubbio che anche un'assoluzione dell'imputato in primo grado, oggetto di appello ex art. 576 cod. proc. pen. della sola parte civile, ribaltata in appello ai soli fini della responsabilità civile, determina il passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione agli effetti penali e non può più essere posta in discussione. Anche in tale caso, si tratta di effetti penali che restano "fermi" (secondo la formulazione del richiamato art. 622), con conseguente rinvio - in ipotesi di accoglimento del ricorso dell'imputato - al giudice civile competente per valore in grado di appello. Dunque, se anche l'art. 573 cod. proc. pen. prevede che «l'impugnazione per i soli effetti civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale», non possono residuare dubbi, senza neppure la necessità di evocare a conforto la citata sentenza delle Sezioni Unite Sciortino, sull' esigenza che il rinvio in conseguenza della pronuncia di annullamento debba essere disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello … 15. Tirando le fila del ragionamento, la Corte ritiene che la definitività e l'intangibilità della decisione adottata in ordine alla responsabilità penale dell'imputato, determinate dalla pronuncia con cui la Corte di cassazione annulla le sole disposizioni o i soli capi che riguardano l'azione civile (promossa in seno al processo penale), ovvero accoglie il ricorso della parte civile avverso il proscioglimento dell'imputato, provoca il definitivo dissolvimento delle ragioni che avevano originariamente giustificato, a seguito della costituzione della parte civile nel procedimento penale, le deroghe alle modalità di istruzione e di giudizio dell'azione civile, imponendone i condizionamenti del processo penale, funzionali alle esigenze di speditezza del procedimento. Con l'esaurimento della fase penale, essendo ormai intervenuto un giudicato agli effetti penali ed essendo venuta meno la ragione stessa dell'attrazione 36 dell'illecito civile nell'ambito della competenza del giudice penale, risulta coerente con l'assetto normativo interdisciplinare sopra descritto che la domanda risarcitoria venga esaminata secondo le regole dell'illecito aquiliano, dirette alla individuazione del soggetto responsabile ai fini civili su cui far gravare le conseguenze risarcitorie del danno verificatosi nella sfera della vittima. L'annullamento e il conseguente rinvio al giudice civile competente comporta, in caso di riassunzione, l'assunzione della veste di attore-danneggiato della parte civile e di convenuto-danneggiante da parte di colui che nel processo penale rivestiva il ruolo di imputato… 17.1. Alla luce di quanto sopra esposto va affermato che il giudizio avanti al giudice civile designato ex art. 622 cod. proc. pen. è da considerarsi come un giudizio civile disciplinato dagli artt. 392 e ss cod. proc. civ. a seguito di riassunzione dopo l'annullamento della Corte di Cassazione ai soli effetti civili. In tal senso depongono la rubrica e il testo del citato art. 622 che utilizzano il verbo "rinvia" con riferimento all'effetto della statuizione penale, così evocando l'istituto del "rinvio" in sede civile quale disciplinato dagli artt. 392 e ss cod. proc. civ. … E proprio in ragione della scissione determinatasi a seguito della valutazione compiuta dal giudice penale non può, invece, ipotizzarsi il potere della Corte di cassazione penale di enunciare il principio di diritto al quale il giudice civile del rinvio deve uniformarsi. Lo stesso tenore letterale dell'art. 393 cod. proc. civ. - secondo il quale alla ipotesi di mancata, tempestiva riassunzione del giudizio consegue l'estinzione dell'intero processo - avalla la tesi della fase autonoma del giudizio civile di "rinvio" a seguito di annullamento da parte della Corte di cassazione penale. Dall'affermata natura del giudizio conseguente alla pronuncia di annullamento come giudizio riconducibile alla disciplina del giudizio ex art. 392 cod. proc. civ. 41 consegue che la Corte di cassazione penale non ha il potere di enunciare il principio di diritto al quale il giudice civile dovrà uniformarsi. Verificatosi un giudicato agli effetti penali, appare ragionevole che all'illecito civile tornino ad applicarsi le regole sue proprie, funzionali all'individuazione del soggetto su cui, secondo il sistema del diritto civile, far gravare il costo di un danno e non la sanzione penale. 17.2. La configurazione del giudizio conseguente all'annullamento in sede penale ai soli effetti civili (art. 622) come giudizio autonomo rispetto a quello svoltosi in sede penale consente alle parti di introdurlo nelle forme civilistiche previste dall'art. 392 cod. proc. civ. nonché di allegare fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno diversi da quelli che integravano la fattispecie di reato in ordine alla quale si è svolto il processo penale. Ciò giustifica anche l'emendatio della domanda ai fini della prospettazione degli elementi costitutivi dell'illecito civile, sempre che la domanda così integrata risulti connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio. L'emendatio, ma non la mutatio della domanda, garantisce al danneggiato di "espandere" la domanda risarcitoria allegando elementi rientranti nella fattispecie di responsabilità prevista dall'art. 2043 cod. civ. Al contempo, l'emendatio consente al danneggiante di evitare di subire la perdita di un grado di giudizio in conseguenza della scelta della controparte. 17.3. La natura autonoma del giudizio civile comporta conseguenze anche con riferimento all'individuazione delle regole processuali applicabili in tema di nesso causale e di prove, in ragione della diversa funzione della responsabilità civile e della responsabilità penale e dei diversi valori in gioco nei due sistemi di responsabilità. Il giudizio penale mette al centro dell'osservazione la figura dell'imputato e il suo status libertatis, quello civile il danneggiato e le sue posizioni soggettive giuridicamente protette. Le Sezioni Unite civili, con la sentenza n. 576 del 11/01/2008, hanno affermato che il nesso di causa nella responsabilità civile trae origine dallo stesso fondamento normativo dettato dagli artt. 40 e 41 cod. pen. per la responsabilità penale, secondo il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, attenuato dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base della quale, all'interno della serie causale, occorre dare rilievo solo a quegli eventi che non appaiano, ad una valutazione ex ante, del tutto inverosimili; tuttavia il nesso causale si differenzia quanto al regime probatorio applicabile in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi, vigendo, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, la 42 regola della preponderanza dell'evidenza "del più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio". 17.4. Le questioni attinenti al diritto di difesa delle parti possono essere risolte alla luce dei principi che governano l'istruzione probatoria nel processo civile e, cioè, il principio di disponibilità delle prove (art. 115 cod. proc. civ.) e quello del libero convincimento (art. 116 cod. proc. civ.) che giustificano il potere del giudice civile di apprezzare le prove, anche cd. atipiche, ovvero tutti quegli strumenti probatori che, seppure non tipizzati nell'elencazione codicistica, siano astrattamente idonei a concorrere all'accertamento dei fatti di causa. Il mutamento delle regole probatorie a seguito dell'annullamento ex art. 622, contrariamente a quanto sostenuto dall'orientamento minoritario, non pone problemi sotto il profilo delle esigenze difensive delle parti, danneggiato e danneggiante, che fino a quel momento hanno scelto e commisurato la loro attività difensiva a regole probatorie diverse. 17.5. La già richiamata sentenza Sez. U, Schirru, ha affermato che «il diritto della parte civile già costituita nel processo penale che si conclude con l'annullamento dei capi della sentenza concernenti i suoi interessi non rimane, peraltro, menomato al punto da dovere - quella- espletare il proprio onere probatorio come se l'istruttoria già compiuta in sede penale fosse rimasta totalmente azzerata». La giurisprudenza civile di legittimità riconosce, infatti, al giudice civile, adito per il risarcimento del danno, l'onere del riesame dei fatti emersi nel procedimento penale, pure conclusosi con sentenza assolutoria. Oltre le già citate (al paragrafo 15) Sez. U civ., n. 1768/2011 e Sez. 3 civ., n. 1665/2016, è opportuno ricordare l'orientamento ormai consolidato in sede civile secondo il quale, alla luce del diritto vivente, mancando una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti se ed in quanto non smentite dal raffronto critico - riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato - con le altre risultanze del processo; quindi, la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, con la conseguenza che è insindacabile, in sede di legittimità, il" peso probatorio" di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto ad un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice (Sez. 3, n. 19430 del 30/06/2016, Rv. 642595; 43 I r Sez. 3, n. 11511 del 23/5/2014, Rv. 631448-01; Sez. 3, n. 13054 del 10/06/2014, Rv. 631274-01). In conclusione, l'art. 622 cod. proc. pen. permette la restituzione della cognizione dell'azione civile al giudice naturale, confermando che il fatto integra illecito civile, così preservando le peculiarità che distinguono la responsabilità civile rispetto a quella penale. 18. La conclusione sopra prospettata non comporta la violazione delle regole del giusto processo e dello statuto dell'imputato - convenuto danneggiante - il quale, con pienezza di diritti e nel rispetto del contraddittorio, può prospettare le sue tesi dinanzi al giudice civile. Sotto tale ultimo profilo va sottolineato che la regola del contraddittorio (art. 2697 cod. civ.) permea il giudizio civile al pari di quello penale. Non può neanche ravvisarsi la violazione della ragionevole durata del processo, in quanto la parte civile ha la possibilità di far valere l'azione civile, senza la necessità di instaurare ex novo un giudizio risarcitorio e il giudice civile dovrà tener conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale…>>
- 3.4. Da ultimo, in relazione all’istituto introdotto dall’344-bis, il nuovo art. 578, comma 1-bis ha disposto che Quando nei confronti dell'imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, e in ogni caso di impugnazione della sentenza anche per gli interessi civili, il giudice di appello e la Corte di cassazione, se l'impugnazione non e' inammissibile, nel dichiarare improcedibile l'azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell'articolo 344- bis, rinviano per la prosecuzione al giudice o alla sezione civile competente nello stesso grado, che decidono sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile.
[65] Che le prove acquisite nel processo penale non possano essere ignorate dal giudice civile cui il processo è “rinviato” (altra cosa il punto dei criteri di loro valutazione) è ora esito di specifico obbligo di legge. Gli artt. 578.1-bis, primo comma ultimo periodo e 573.1-bis dettano regola inequivoca: il giudice civile cui il processo è stato rinviato “decide sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel processo civile”. Le due norme sono dichiaratamente di raccordo per il passaggio, manifestazione inequivoca della volontà di un legislatore che sta disciplinando espressamente e solo gli effetti di quel passaggio, sicchè il giudice civile ne è vincolato (in altri termini, il contesto è del tutto diverso dai possibili contrasti tra giurisprudenze di legittimità penali e civili, come accaduto nel passato: qui il legislatore si è espresso).
[66] In assenza di una disciplina transitoria specifica, la ragione sistematica dell’inserimento di questo inciso di intensa rilevanza sistematica potrebbe fondare l’individuazione del momento di applicabilità della nuova disciplina dell’appello di sola parte civile (quindi il rinvio al giudice civile ex art. 573) ai soli processi per i quali la costituzione di parte civile è avvenuta dopo l’entrata in vigore della Riforma. La soluzione tuttavia non solo è strettamente legata alla sorte che viene data al quesito sugli eventuali limiti di emendatio libelli consentita in sede di citazione per riassunzione del giudizio davanti al giudice civile, dopo il rinvio disposto dal giudice penale, ma in realtà deve ora tener conto del fatto che le SU Cremonini hanno insegnato il loro principio di diritto (argomentato come appena sopra esposto) sulla situazione normativa ancora precedente la modifica della lettera d) dell’art. 78, la quale così viene a chiarire ed indirizzare piuttosto che a innovare radicalmente. In ogni caso, l’intervento in corso sulle discipline transitorie, come approvato dal Senato, non riguarda il nuovo testo dell’art. 373, da ritenersi quindi in vigore per gli atti di appello depositati dopo il 01/01/2023.
[67] Per la sua impugnazione relativa alle sole statuizioni civili, che non contestino la responsabilità dell’imputato, le nuove regole dell’art. 573, comma 1-bis, e 578, comma 1-bis, trovano sicuramente applicazione, così come per le sue impugnazioni sulle spese, nei casi disciplinati dagli articoli 541.2 e 542.
Più problematica appare invece la futura applicazione dell’art. 587.2, il quale prevede che l’impugnazione proposta dal responsabile civile, purché non fondata su motivi esclusivamente personali, giovi all’imputato anche agli effetti penali. Qui ci troviamo di fronte ad una impugnazione che, in relazione alla natura ed alla legittimazione del soggetto che la propone, è per i soli interessi civili: quando si tratti dell’unica impugnazione, pertanto, se ammissibile l’appello deve essere rinviato al giudice civile per la trattazione. Ma quell’appello, se devolve il punto della decisione relativo all’affermazione di responsabilità, quando accolto, e non in relazione a motivi esclusivamente personali, giova all’imputato anche agli effetti penali: l’imputato, nonostante l’irrevocabilità della sua condanna, non impugnata, dovrebbe pertanto essere assolto (con formula adeguata alle ragioni dell’accoglimento dell’appello del responsabile civile). Ma certamente non può essere il giudice civile a dare applicazione all’effetto estensivo dell’art. 587.3, quindi assolvendo il già imputato. Sembra miglior soluzione assegnare quindi al giudice penale dell’esecuzione (per tutte, Cass. Sez. 6, sent. 29408/2018), attivato da istanza dell’imputato o della parte pubblica che abbia notizia di quell’esito, la competenza a pronunciarsi sull’effetto estensivo della sentenza emessa dal giudice civile nei confronti del responsabile civile. Naturalmente, tale apprezzamento dovrà tener conto dei parametri probatori utilizzati dal giudice civile per accogliere l’appello del responsabile civile, ragionevolmente dovendosi escludere l’effetto penale assolutorio quando tale accoglimento sia stato determinato da criteri probatori diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nel processo penale.
[68] Utile in proposito è il richiamo alla giurisprudenza consolidata in tema di applicazione degli artt. 464-bis e 464-ter (per tutte, quanto alla produzione del programma di trattamento o di richiesta, da intendersi tempestiva, della sua elaborazione: Cass. Sez. 6, sent. 9197/2020).
[69] Art. 23-bis
1. … fuori dai casi di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, per la decisione sugli appelli proposti contro le sentenze di primo grado la corte di appello procede in camera di consiglio senza l'intervento del pubblico ministero e dei difensori, salvo che una delle parti private o il pubblico ministero faccia richiesta di discussione orale o che l'imputato manifesti la volontà di comparire.
2. Entro il decimo giorno precedente l'udienza, il pubblico ministero formula le sue conclusioni con atto trasmesso alla cancelleria della corte di appello per via telematica ai sensi dell'articolo 16, comma 4, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, o a mezzo dei sistemi che sono resi disponibili e individuati con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati. La cancelleria invia l'atto immediatamente, per via telematica, ai sensi dell'articolo 16, comma 4, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, ai difensori delle altre parti che, entro il quinto giorno antecedente l'udienza, possono presentare le conclusioni con atto scritto, trasmesso alla cancelleria della corte di appello per via telematica, ai sensi dell'articolo 24 del presente decreto.
3. Alla deliberazione la corte di appello procede con le modalità di cui all'articolo 23, comma 9 [23.9 Nei procedimenti civili e penali le deliberazioni collegiali in camera di consiglio possono essere assunte mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Il luogo da cui si collegano i magistrati e' considerato Camera di consiglio a tutti gli effetti di legge. Nei procedimenti penali, dopo la deliberazione, il presidente del collegio o il componente del collegio da lui delegato sottoscrive il dispositivo della sentenza o l'ordinanza e il provvedimento e' depositato in cancelleria ai fini dell'inserimento nel fascicolo il prima possibile. Nei procedimenti penali le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle deliberazioni conseguenti alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio, svolte senza il ricorso a collegamento da remoto].
Il dispositivo della decisione e' comunicato alle parti.
4. La richiesta di discussione orale e' formulata per iscritto dal pubblico ministero o dal difensore entro il termine perentorio di quindici giorni liberi prima dell'udienza ed e' trasmessa alla cancelleria della corte di appello attraverso i canali di comunicazione, notificazione e deposito rispettivamente previsti dal comma 2. Entro lo stesso termine perentorio e con le medesime modalità l'imputato formula, a mezzo del difensore, la richiesta di partecipare all'udienza.
7. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche nei procedimenti di cui agli articoli 10 e 27 del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, e agli articoli 310 e 322-bis del codice di procedura penale. In quest'ultimo caso, la richiesta di discussione orale di cui al comma 4 deve essere formulata entro il termine perentorio di cinque giorni liberi prima dell'udienza.
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