ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Rappresento la Fondazione Vittorio Occorsio. Oggi è qui con noi Vittorio, che del nonno porta il nome.
Vengo da una generazione di magistrati che ha dovuto confrontarsi con sfide drammatiche. Vittorio Occorsio e Mario Amato, magistrati della Procura della Repubblica di Roma, affrontarono consapevolmente l'impegno gravoso che imponeva loro la funzione di pubblico ministero, che essi svolsero con grande coraggio e dignità, nonostante i violenti attacchi anche personali e l'isolamento, in alcuni momenti persino tra i colleghi e nel Foro.
La Fondazione Vittorio Occorsio, voluta dai suoi familiari, persegue la memoria di quel sacrificio. Una memoria attiva, che vive nel confronto, aperto ma non neutro. È per questa ragione che oggi sono qui, perché l’ANM è anch’essa aperta e oggi ha invitato i cittadini e le loro rappresentanze a condividere preoccupazioni e proposte.
Essere magistrati richiede coraggio. Oggi anche per decidere sulla richiesta di riconoscimento della protezione internazionale o sull’affidamento di un minore.
È per questo che la soggezione del giudice soltanto alla legge e l'imparzialità del pubblico ministero, rafforzata dal principio di obbligatorietà dell’azione, sono tutelati dalla Costituzione. Quando si mette in discussione pubblicamente e senza fondamento l'imparzialità della decisione del giudice o dell’azione del pubblico ministero, si mettono in crisi i principi costituzionali nel loro reale funzionamento e dunque la Costituzione in atto.
Certo, un così grande potere deve essere bilanciato dalla piena consapevolezza delle conseguenze del proprio agire sulla vita delle persone e quindi da una altrettanto grande professionalità e da responsabilità, in forme compatibili con l’indipendenza.
Per questo la magistratura italiana ha un sistema disciplinare così efficace. Questa affermazione è divenuta controintuitiva perché in contrasto con la falsità continuamente ripetuta, che la definisce spregiativamente come domestica per dire addomesticata (la disciplina è per sua natura domestica, interna al corpo). I dati sono ben diversi e non assimilabili, neppure lontanamente, a quelli assai minori delle altre magistrature o delle professioni a ordinamento pubblicistico. Basti leggere le relazioni del procuratore generale per l'anno 2024 e degli anni precedenti, tra cui anche quelle di chi parla. In esse vi è un’analisi documentata, nella quale si dà conto della gravità delle sanzioni irrogate e delle dimissioni volontarie dall'ordine giudiziario, assai frequenti quando il magistrato si trova a fronteggiare gravi contestazioni disciplinari.
Eppure, sulla falsa costruzione tante volte declamata e per questo solo divenuta vera, si vorrebbe fondare una riforma costituzionale, l'Alta Corte, che rischia di sottrarre il tema della disciplina alla continua elaborazione dei pari, alla piena comprensione del percorso professionale in cui la violazione ipotizzata si inserisce. La giustizia disciplinare è, e deve restare, diversa da un processo penale.
Se vi è da riformare, e la materia non manca, si parta però da un'attenta ricostruzione delle effettive esigenze.
Si parta, e parta anche la ANM, come mi sembra oggi stia facendo con il coinvolgere altri soggetti e interlocutori nel confronto su una riforma considerata rischiosa per gli interessi della collettività, della collettività, non della corporazione - dalla necessità di restituire alla giurisdizione effettività, anche nelle aree apparentemente minori ma che riguardano la vita quotidiana delle persone.
È positivo che finalmente, dopo mesi di chiusura, si avvii oggi il dialogo sulle riforme. Se è possibile che oggi il governo si apra al dialogo non è perché vi è un mutamento nella compagine che regge l'associazione: dopo Santalucia, straordinario presidente, oggi Parodi che con altrettanta determinazione saprà rappresentarla: è per il mandato unitario che oltre l'ottanta per cento dei magistrati, recandosi a votare e votando sulla convergenza nei principi fondamentali, ha dato alla sua dirigenza. In questi tempi difficili si potrebbe dire, con un po’ di esagerazione nell’autostima, che gli elettori dell’Associazione e della Germania tengono alta la rappresentanza elettorale, con percentuali di votanti superiori all’80%…
Un mandato che conferma che l'unità della magistratura non è rivendicazione corporativa, ma interesse della collettività.
Testo del discorso pronunciato da Giovanni Salvi al Cinema Adriano di Roma in occasione dello sciopero dei magistrati in difesa della Costituzione indetto dall'ANM il 27 febbraio 2025.
Dedichiamo l’8 marzo alle Madri Costituenti
In questa stagione difficile, in cui è costante il richiamo alla Costituzione e ai valori in essa scolpiti, è d’obbligo dedicare la giornata dell’8 marzo alle Madri Costituenti, che svolsero un ruolo importante e forse poco noto nei lavori dell’Assemblea, dando il loro fondamentale contributo alla realizzazione di una Repubblica democratica ispirata al principio personalista. Erano soltanto 21 sul totale di 556 rappresentanti eletti; 5 di loro entrarono a far parte della Commissione dei 75; nessuna fu chiamata a comporre il “Comitato di redazione” che aveva il compito di elaborare il testo definitivo della Carta. Più specificamente, Nilde Iotti e Angela Gotelli fecero parte della I Sottocommissione incaricata di occuparsi dei diritti e doveri dei cittadini; Maria Federici, Lina Merlin e Teresa Mattei andarono a comporre la III Sottocommissione, designata a trattare la materia dei rapporti economici e sociali; nessuna donna fece parte della II Sottocommissione incaricata dell’organizzazione costituzionale dello Stato.
Esse appartenevano a schieramenti politici diversi: 9 erano comuniste, 9 democristiane, 2 socialiste, una del Fronte dell’Uomo Qualunque. Erano tutte giovani, alcune giovanissime, e provenivano da diverse regioni d’Italia, così da rappresentare l’intero territorio nazionale. Quasi tutte erano laureate, alcune insegnanti, alcune giornaliste, due sindacaliste. Molte di loro avevano condiviso la militanza nella Resistenza, pagando un prezzo alto per questa scelta di lotta; a tutte era comune un forte impegno nell’associazionismo femminile e poi nella campagna elettorale del 1946.
Non è difficile indovinare il clima di diffidenza, di scetticismo, di odioso paternalismo con il quale esse dovettero da subito confrontarsi: di tale clima è peraltro agevole cogliere numerosi riscontri nei resoconti ufficiali dei lavori.
Fu grande merito delle Costituenti percepire immediatamente la necessità di fare gioco di squadra, nonostante le diversità dello loro storie professionali e delle loro radici culturali, così da formare un sodalizio forte e compatto capace di dar voce con coerenza ed efficacia ad un pensiero femminile nuovo, teso a delineare un ordinamento democratico fondato sulla eguaglianza e sulla tutela dei diritti e della dignità di ogni persona e al tempo stesso a demolire i molti pregiudizi ancorati alla cultura del passato che tuttora allignavano, specie in ordine ad alcuni temi sensibili, nelle idee di molti appartenenti a quel consesso.
Nell’impegno immane di ricostruzione delle fondamenta giuridiche del Paese esse seppero rivendicare il posto che loro spettava, con la stessa quota di responsabilità e di fatica. Con la forza di argomentazioni serrate, con la passione ideale maturata nella loro storia politica e personale esse seppero interpretare e farsi portavoce della legittima aspirazione delle donne italiane di emancipazione, di cittadinanza piena, di rispetto nella famiglia, nella società e nei luoghi di lavoro, facendo così emergere una nuova visione della figura femminile.
Si deve alla determinazione di quelle donne il passaggio da una concezione meramente formale ad una sostanziale del principio di eguaglianza, così chiaramente scolpito in Costituzione: fu grazie ad un intervento di Lina Merlin che l’espressione “di sesso” fu inserita nel primo comma dell’art. 3, nella prospettiva di una piena eguaglianza formale tra tutti i cittadini e le cittadine e nel segno di una decisiva rottura con certi schemi del passato. E fu Teresa Mattei a sollecitare l’inserimento dell’espressione “di fatto” nel secondo comma dello stesso art. 3, così ampliando la natura e la portata degli ostacoli da rimuovere al fine di realizzare il principio di eguaglianza sostanziale.
Soccorrono al riguardo le parole di Teresa Mattei , la più giovane tra gli eletti e le elette, pronunciate nel suo primo bellissimo intervento in Assemblea: «…fra le più solenni dichiarazioni che rientrano nei 7 articoli di queste disposizioni generali, accanto alla formula che delinea il volto nuovo, fatto di democrazia, di lavoro, di progresso sociale, della nostra Repubblica, accanto alla solenne affermazione della nostra volontà di pace e di collaborazione internazionale, accanto alla riaffermata dignità della persona umana, trova posto, nell’ art. 7 (ora art. 3), la non meno solenne e necessaria affermazione della completa eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche. Questo basterebbe, onorevoli colleghi, a dare un preminente carattere antifascista a tutta la nostra Costituzione…»
Le Madri Costituenti furono determinanti nell’inserire nell’agenda politica dei lavori aspetti nuovi o fino a quel momento trascurati perché ritenuti marginali, come il valore supremo della persona e della dignità umana, la centralità della dimensione relazionale e delle formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo.
Fondamentale fu l’apporto di Nilde Iotti sui temi della famiglia, sul principio della pari dignità della coppia, sulla protezione dei figli nati fuori del matrimonio, così come a Nilde Iotti si deve la nuova concezione del lavoro femminile come strumento essenziale per la crescita personale e l’autonomia non solo economica delle donne, anche se nella formulazione di alcuni articoli (artt. 29, 30, 37) fu necessario addivenire a faticosi compromessi tra le posizioni ideologiche dei costituenti, al bivio tra il pieno riconoscimento del principio di parità e l’esaltazione di un familismo fondato sul ruolo tradizionale delle donne nello spazio domestico.
Quanto all’impegno nella lotta contro i pregiudizi, è sufficiente la lettura dei verbali dei lavori della III Sottocommissione e dell’Assemblea generale relativi alla possibilità per le donne di accedere a tutti gli uffici pubblici, ed in particolare alla magistratura, per comprendere che i tanti interventi di segno negativo svolti da illustri giuristi non costituivano voci isolate, ma riflettevano orientamenti profondamente radicati nella società, nella classe politica e tra gli operatori del diritto. A fronte di coloro che definivano la partecipazione delle donne all’ordine giudiziario “una innovazione estremamente ardita” o che evocando le parole di San Paolo invitavano le donne a far silenzio nei tribunali si elevava l’ammonimento di Teresa Mattei: «nessuno sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se esso non sia accompagnato da una piena emancipazione femminile».
Grazie dunque alle Madri Costituenti per esserci state.
Immagine: Le 21 donne alla Costituente, in La Domenica del Corriere, 4 agosto 1946, 19, firmato “il cronista di Montecitorio”.
L’applicabilità dell’art. 34, comma 3 c.p.a. nel giudizio di ottemperanza al giudicato (nota a Cons. Stato, 22 gennaio 2024, n. 664)
di Stefania Florian
Sommario: 1. La fattispecie concreta 2. I presupposti per la conversione dell’azione di annullamento in un’azione di accertamento ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a. 3. Brevi cenni sull’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato come azione costitutiva e sua convertibilità in un’azione di accertamento. 4. Conclusioni
1. La fattispecie concreta
La sentenza in commento viene resa su ricorso con il quale il Direttore di un ente parco, nominato con decreto del Presidente della Regione Lazio, chiedeva la riforma della sentenza resa in sede di ottemperanza dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, che accoglieva il ricorso con il quale la Dirigente della Regione Lazio e dell’area amministrativa presso l’ente parco naturale regionale in questione, in carica per quasi una decina d’anni, chiedeva l’annullamento del decreto di nomina del medesimo Direttore e i connessi atti presupposti, tra cui la nota con cui era stata individuata la terna di candidati per la nomina, dalla quale la stessa ricorrente per l’ottemperanza era stata esclusa.
La vicenda muove dalla necessità di aggiornare l’elenco regionale dei direttori degli enti di gestione delle aree naturali protette regionali promossa dalla regione Lazio, che aveva avviato una procedura per il conferimento del posto di Direttore dell’Ente Parco e, dopo quasi un mese dalla nota con cui era stata individuata la prima terna di candidati, che conteneva il nominativo della ricorrente in ottemperanza, il Presidente dell’ente trasmetteva una nuova terna, con la motivazione di dover emendare un errore contenuto nella prima nota[1]. Alla fine della procedura il Presidente della regione nominava con decreto un soggetto diverso dalla suindicata ricorrente, la quale ultima, perciò, proponeva ricorso per l’annullamento del medesimo decreto di nomina. Il soggetto nominato alla carica di Direttore presentava quindi le proprie dimissioni e il Presidente della regione, dopo aver comunicato una nuova terna di nomi, individuava il nuovo Direttore in un soggetto diverso dalla ricorrente. Quest’ultima impugnava nuovamente, in sede di cognizione, il decreto di nomina e la nota del Presidente dell’ente regionale, con la quale erano stati individuati i soggetti candidati alla nomina di Direttore. Il ricorso veniva accolto e, successivamente alla sentenza emessa in sede di cognizione, il Presidente della regione procedeva a una nuova nomina, entro una rosa di candidati tra cui non compariva il nominativo della ricorrente. Quest’ultima, pertanto, impugnava con ricorso per l’ottemperanza il decreto di nomina e la nota con cui erano stati individuati i soggetti candidati alla procedura, chiedendone la declaratoria di nullità in quanto assunti in violazione o elusione del precedente giudicato. Il TAR Lazio accoglieva il ricorso per l’ottemperanza e il nuovo Direttore dell’ente parco impugnava suddetta sentenza resa in sede di ottemperanza, riproponendo le difese avverso i motivi di ricorso proposti dalla ricorrente e dichiarati assorbiti dal TAR[2].
Nel merito del giudizio di impugnazione, anche la ricorrente riproponeva i motivi di ricorso che il TAR, in sede di giudizio di ottemperanza, aveva dichiarato assorbiti e evidenziava, con distinta memoria, che “il Consiglio di Stato - anche qualora accolga l’appello, non ritenendo sussistente la fattispecie di nullità dichiarata dal TAR - non potrà che consentire al ricorrente in primo grado di procedere alla riassunzione del giudizio dinanzi al medesimo TAR, innanzi al quale il processo potrà proseguire, con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda di annullamento, ai sensi dell’articolo 32, comma 2, c.p.a.” e che, per esserci la corretta ottemperanza al giudicato, l’ente parco avrebbe dovuto ““o inserire la dott.ssa – OMISSIS – nella terza terna dei candidati” oppure “quantomeno, prendere in considerazione la specifica posizione rivestita dalla dott.ssa – OMISSIS - […] esplicitando le ragioni sottese alla scelta di non inserirla nella terza terna dei candidati””[3].
Di contro, la Regione, che si era costituita in quanto cointeressata, depositava un documento dal quale emergeva il sopravvenuto collocamento a riposo della ricorrente, che, perciò, non avrebbe potuto essere nominata Dirigente. All’eccezione relativa all’insussistenza dell’interesse alla decisione sulla domanda di nullità per violazione o elusione di giudicato rappresentata dalla Regione Lazio, la ricorrente ribadiva la sussistenza del proprio interesse a ottenere la pronuncia sulla domanda di nullità ai fini risarcitori, ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a.
La questione di rilievo che il Collegio affronta nella sentenza in commento è, perciò, l’applicabilità dell’art. 34, comma 3 c.p.a., nella parte in cui prevede il meccanismo di “conversione” della pronuncia costitutiva di annullamento, ex art. 29 c.p.a., in una pronuncia di accertamento dell’illegittimità dell’atto “se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”, anche in sede di ottemperanza al giudicato, nel caso in cui sia sopravvenuta la carenza di interesse a una pronuncia di nullità per violazione o elusione del giudicato. A riguardo del rilievo dell’interesse alla pronuncia risarcitoria, la sentenza in commento richiama la sentenza del 13 luglio 2022, n. 8, secondo cui, per procedere all’accertamento dell’illegittimità dell’atto, ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a, sarebbe sufficiente la mera dichiarazione di un interesse anche solo strumentale e morale alla domanda risarcitoria[4]. Tale interesse sarebbe configurabile nel caso di specie, poiché “malgrado l’avvenuto pensionamento, la ricorrente conserva comunque un interesse almeno morale alla decisione del ricorso ex art. 112 c.p.a., trattandosi di questioni comunque attinenti alla sua sfera professionale e alle gratificazioni, anche di carattere personale, che si possono ritrarre anche solo dalla possibilità di una nomina a un incarico apicale”[5]. La sentenza in commento ravvisa, perciò, la possibilità di convertire, nel giudizio di impugnazione della sentenza resa in sede di ottemperanza, l’azione di nullità in un’azione di accertamento dell’illegittimità dell’atto, in forza del fatto che la ratio dell’art. 34 comma 3 c.p.a. sarebbe quella di garantire, “in coerenza con l’art. 1 del c.p.a., una «tutela effettiva» del cittadino anche nel caso in cui – «nel corso del giudizio» – sia divenuta impossibile la tutela in forma specifica tramite l’annullamento dell’atto, ma si possa (e si debba) comunque fornire una tutela per equivalente. Il risarcimento diventa, così, l’unica forma di tutela cui l’interessato – illegittimamente colpito da un provvedimento viziato e lesivo – può aspirare”[6]. Pertanto, rileva il Collegio, “anche se il dettato del comma 3 dell’art. 34 fa esplicito riferimento (soltanto) all’azione di annullamento, la medesima ratio legisimpone di ritenere […] che il meccanismo di conversione possa essere invocato anche da chi rischia di perdere il bene della vita non a causa di un provvedimento illegittimo tout court, di cui «non risulta più utile l’annullamento», ma a causa di un provvedimento nullo per violazione di un giudicato, nel caso in cui – sempre «nel corso del giudizio» – sia sopravvenuta la carenza d’interesse a una pronuncia sulla sussistenza di questo profilo di illegittimità. Tale conclusione discende dalla inderogabile necessità, per la giurisdizione amministrativa, di assicurare anche nel giudizio di ottemperanza «una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo», secondo quanto stabilito dall’art. 1 c.p.a.. Questa norma, che pone all’inizio del codice del processo il fondamentale principio di effettività, deve assurgere a guida esegetica anche per l’interpretazione e l’applicazione delle altre disposizioni del codice, ivi compreso l’art. 34, comma 3, qui in questione. In caso contrario, la mera inerzia dell’amministrazione di fronte a una pronuncia del giudice rischierebbe di rendere inutile la pretesa del cittadino alla sua esecuzione, con perdita definitiva (anche «per equivalente») del bene della vita cui è preordinata la domanda di nullità per violazione o elusione del giudicato e conseguente lesione anche del principio di effettività della tutela”[7]. Il Collegio, pertanto, propone un’interpretazione estensiva dell’art. 34, comma 3 c.p.a., che costituirebbe “estrinsecazione di un principio generale che, in ossequio a consolidati canoni processuali, consente l’emendatio riduttiva di ogni domanda volta all’accertamento dell’invalidità del provvedimento amministrativo, ivi compresa la patologia più radicale di cui all’art. 21 septies della legge n. 241 del 1990. Alla stregua di quanto esposto, anche chi ha proposto azione di ottemperanza ex art. 112 c.p.a. potrà (limitarsi a) domandare – come avvenuto nel caso di specie – l’accertamento dell’illegittimità dell’atto ai fini esclusivamente risarcitori ex art. 34, comma 3, del medesimo codice”[8].
Il Consiglio di Stato (Sez. IV), in sede giurisdizionale, pertanto, accoglie l’interpretazione dell’art. 34, comma 3 c.p.a. per cui sarebbe possibile convertire l’azione di nullità in una declaratoria di illegittimità del provvedimento e degli atti impugnati e respinge l’appello, confermando la sentenza impugnata con diversa motivazione nella parte in cui la sentenza impugnata obbliga la Regione Lazio “a vagliare l’opportunità di individuare il Direttore dell’Ente Parco fra i candidati presenti nella prima terna elaborata” [9], che esula dal perimetro del giudicato.
2. I presupposti per la conversione dell’azione di annullamento in un’azione di accertamento ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a.
Come noto nel processo amministrativo la conversione della domanda è disciplinata dall’art. 32 comma 2, secondo periodo c.p.a. La norma, dopo aver disposto che il giudice qualifica la domanda sulla base degli elementi sostanziali della stessa e, perciò, “superando l’eventuale nomen iuris scelto dalla parte”[10], afferma che “sussistendone i presupposti il giudice può sempre disporre la conversione delle azioni”. Con riguardo alla conversione di domande nel giudizio di ottemperanza, la giurisprudenza ha ravvisato la possibilità di una conversione ex officio[11], ad esempio, nel caso in cui a seguito dell’annullamento di un atto da parte del giudice amministrativo, l’atto emanato dall’Amministrazione, quando rinnova l’esercizio delle sue funzioni, sia impugnato “«[…]davanti al giudice dell’ottemperanza lamentando la violazione o elusione del giudicato ovvero la presenza di nuovi vizi di legittimità nella rinnovata determinazione[…]»”[12]. In tal caso, si è affermato che “«[…] il giudice dell’ottemperanza è quindi chiamato, in primo luogo, a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all'ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell'azione amministrativa, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori; nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall'amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, ne dichiara la nullità, con la conseguente improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda (quella cioè volta a sollecitare un giudizio sulla illegittimità dell'atto gravato); viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità, il giudice dispone la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione, ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.a.» ed inoltre, «ove ne sussistano i presupposti processuali, tale azione sia proposta non già entro il termine proprio dell’actio iudicati (dieci anni, ex art. 114, co. 1, cui rinvia l’art. 31, co. 4, cpa), bensì entro il termine di decadenza previsto dall’art. 41 cpa»”[13]. La giurisprudenza rileva anche la possibilità di convertire ex art 32 co. 2 c.p.a. un ricorso in ottemperanza in un giudizio avverso il silenzio, ex art. 31 e 117 c.p.a., nel caso in cui “il ricorso per ottemperanza sia esperito per l’ottemperanza a una sentenza di annullamento di diniego di concessione, che contenga anche un esplicito riferimento alla necessità/obbligatorietà del Comune di pronunciarsi”[14].
L’art. 32, co. 2 c.p.a., pertanto, consente al giudice di disporre la conversione dell’azione in tutti i casi in cui sussista un rapporto di continenza tra le due domande, per cui la domanda “convertita” costituirebbe un minus rispetto alla domanda “da convertire”, in quanto già implicitamente formulata[15]. Con riguardo, in particolare, alla convertibilità dell’azione di annullamento in un’azione di accertamento ai sensi dell’art. 34, comma 3 c.p.a., la giurisprudenza evidenzia la necessità di ravvisare anche un collegamento tra l’azione di accertamento e la domanda risarcitoria eventualmente formulata successivamente. A questo riguardo, l’Adunanza Plenaria, nella stessa sentenza n. 8/2022 evidenzia come secondo un orientamento minoritario, ai fini della conversione dell’azione di annullamento in una domanda di accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato ai sensi dell’art. 34, comma 3 c.p.a., sarebbe necessario che l’interessato alleghi i “presupposti della successiva domanda risarcitoria o, almeno, sarebbe necessario che sia comprovato sulla base di elementi concreti il danno ingiustamente subito […]”[16]. Di contro, secondo un orientamento maggioritario cui ha aderito anche l’Adunanza Plenaria con la sentenza del 13 luglio 2022, n. 8, l’art. 34, comma 3 c.p.a. deve intendersi nel senso che l’obbligo di accertare l’illegittimità dell’atto impugnato sussista in caso di espressa dichiarazione di interesse della parte ricorrente, non essendo necessaria l’allegazione degli elementi che dimostrino il danno concretamente subito[17]. Inoltre, con riguardo al rapporto tra la domanda di annullamento e la domanda risarcitoria si è rilevato che “se fosse stata proposta domanda di risarcimento in cumulo con la domanda di annullamento, il giudice, pur avendo accertato l’improcedibilità della domanda di annullamento, per il carattere autonomo della domanda risarcitoria, sarebbe comunque tenuto a pronunciarsi sulla stessa per il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.a., incorrendo, altrimenti, nel vizio di omessa pronuncia. In tale ricostruzione, pertanto, la disposizione contenuta nell’art. 34, comma 3, c.p.a. sarebbe del tutto superflua; essa, invece, si rende necessaria proprio per l’assenza di rituale domanda risarcitoria che la parte ben potrebbe proporre successivamente in autonomo giudizio, una volta ottenuto dal giudice l’accertamento dell’illegittimità dell’azione amministrativa”[18].
Con riguardo al primo orientamento, l’Adunanza Plenaria del 13 luglio 2022, n. 8 rileva che la manifestazione di interesse all’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato in un giudizio in cui sia pendente una domanda risarcitoria si ponga in termini di contraddizione logica con quest’ultima, poiché mentre nel caso del sopravvenuto difetto di interesse alla pronuncia di annullamento, la pronuncia di accertamento rappresenta “una modifica in senso riduttivo di una domanda già proposta, quella di annullamento”[19], nel caso in cui penda un’azione di risarcimento del danno “l’accertamento mero si palesa inutile ed è assorbito da quello che deve svolgersi in sede di esame della domanda risarcitoria”[20]. A tali conclusioni, la giurisprudenza è pervenuta coordinando l’art. 34, comma 3, c.p.a. con la disciplina processuale dell’azione di risarcimento contenuta nel codice del processo amministrativo, ossia con l’art. 30, co 5 c.p.a. [21], che consente di proporre l’azione risarcitoria nel corso del giudizio o comunque, entro 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento. È quindi evidente che il termine ultimo di decadenza per la proposizione dell’azione risarcitoria, che si pone oltre la definizione del giudizio di annullamento, non consentirebbe di ammettere la conversione dell’azione di annullamento in un accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato se fossero allegati alla domanda di annullamento i presupposti che consentirebbero la proposizione di un’azione risarcitoria. Pertanto, “l’interesse risarcitorio ai fini di una pronuncia di accertamento di illegittimità dell’atto impugnato si correla al termine ultimo previsto dalla disposizione ora menzionata, in forza della quale è possibile promuovere giudizi in successione per ottenere quella «tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo» enunciata dall’art. 1 c.p.a. quale principio fondamentale della giurisdizione amministrativa. Nella cornice così definita, contraddistinta da un’ampia possibilità di scelta per il privato di modulare la propria strategia processuale a tutela dei suoi diritti ed interessi, la manifestazione dell’interesse risarcitorio ai fini dell’eventuale azione di risarcimento dei danni dell’atto originariamente impugnato, ma per il cui annullamento è venuto meno l’interesse nel corso del giudizio, consente al medesimo privato di ricavare dal giudizio di impugnazione un’utilità residua, impeditiva della pronuncia in rito ex art. 35, comma 1, lett c), c.p.a., nella futura prospettiva di una tutela per equivalente monetario che il codice consente di fare valere […]”[22]. L’Adunanza Plenaria rileva, quindi, come anche da altre disposizioni del codice del processo amministrativo, ai fini della sussistenza di un interesse ai fini risarcitori posto a condizione della pronuncia di accertamento dall’art. 34, comma 3 c.p.a., emerga la sufficienza di una mera dichiarazione di interesse alla pronuncia risarcitoria – da rendersi nelle forme e nei termini previsti dall’art. 73 c.p.a., a garanzia del contraddittorio nei confronti delle altre parti – perché sorga l’obbligo per il giudice di accertare l’eventuale illegittimità dell’atto impugnato. Tra queste disposizioni, la giurisprudenza in esame evidenzia il rilievo del “l’art. 35, comma 1, lett. c), che prevede l’improcedibilità del ricorso «quando nel corso del giudizio sopravviene il difetto di interesse delle parti alla decisione», soggetta non solo all’eccezione di parte ma anche al rilievo officioso del giudice” [23] e dell’ “art. 104, comma 1, che nell’enunciare il c.d. divieto dei nova in appello, per cui «non possono essere proposte nuove domande”, precisa che resta «fermo quanto previsto dall’art. 34, comma 3»”[24]. Pertanto, osserva la giurisprudenza in esame, “dal punto di vista processuale il fenomeno è inquadrabile nella c.d. emendatio della domanda, in senso riduttivo quanto al petitum immediato, non integrante un mutamento non consentito nell’ambito del principio della domanda, come evincibile dalla clausola di salvezza rispetto al c.d. divieto dei nova in appello previsto dall’art. 104, comma 1, c.p.a., sopra richiamato. A sua volta, la dichiarazione di interesse risarcitorio in funzione dell’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato mira a provocare una pronuncia che seppur non modificativa della realtà giuridica, come invece quella demolitoria di annullamento, verte comunque su un antecedente logico-giuridico dell’azione risarcitoria, per la quale è conseguentemente predicabile l’attitudine a divenire cosa giudicata in senso sostanziale ai sensi dell’art. 2909 del codice civile”[25]. Pertanto, rileva il Collegio nella sentenza in esame, “sulla base di quanto ora esposto si trae l’ulteriore corollario per cui l’accertamento richiesto è esattamente quello che il giudice avrebbe dovuto svolgere nell’esaminare nel merito la domanda di annullamento, donde […] la necessità di svolgere un’istruttoria laddove necessario, con la sola differenza che in caso positivo tale accertamento non va a costituire il presupposto per la pronuncia costitutiva di annullamento dell’atto impugnato, ma esaurisce il contenuto della pronuncia (di accertamento mero) con cui il giudizio è definito”[26]. Pertanto, la ratio sottesa all’art. 34, comma 3, c.p.a., che consente l’applicabilità della norma anche a fattispecie diverse da quella indicata e, perciò, anche in sede di giudizio di ottemperanza, non può che essere ravvisato nella previsione della possibilità di esperire un’azione di mero accertamento, che non si limita a momento logico propedeutico al giudizio sulle altre azioni di cognizione (di condanna e costitutiva), ma esaurisce in sé lo scopo del processo[27]. “Con la particolarità che qui l’incisione della situazione giuridica sostanziale non consiste nella condizione di incertezza, obiettiva e pregiudizievole, originata dalla contestazione di controparte, che si intende con l’azione di mero accertamento eliminare. L’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), piuttosto, è integrato dalla necessità di economizzare un giudizio già instauratosi (ma destinato a concludersi in rito, per via di sopravvenienze), deragliandone il percorso in funzione dell’accertamento di una parte (quella riferita alla illegittimità dell’atto) dei fatti costitutivi necessari ai fini dell’accoglimento della (eventuale) azione risarcitoria (in sostanza, dall’annullamento dell’atto si passa ad una sentenza generica su di una frazione dell’ an della pretesa risarcitoria)”[28].
3. Brevi cenni sull’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato come azione costitutiva e sua convertibilità in un’azione di accertamento.
Con riguardo al problema della conversione dell’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato in una pronuncia di accertamento si ritiene utile richiamare l’art. 31, comma 4 c.p.a. che, disciplinando l’azione di nullità, dispone un regime giuridico diverso a seconda della singola fattispecie di nullità che, di volta in volta, è configurabile nel caso di specie. La letteratura pare concorde nel ritenere che la fattispecie di nullità per carenza assoluta di potere sia inquadrabile in un’ipotesi di nullità-inesistenza e, perciò, sia riconducibile alla giurisdizione del giudice ordinario[29]. Diversa, invece, è l’azione di nullità relativa ai casi di nullità testuale, per cui la previsione di un termine di decadenza di 180 giorni per la proposizione della domanda conduce a presumere che le fattispecie di nullità riconducibili al regime giuridico di cui all’art. 31, comma 4 c.p.a. siano quelle in cui l’atto nullo è idoneo a produrre conseguenze sul piano giuridico. Si è quindi affermato come la pronuncia di nullità di cui all’art. 31, comma 4 c.p.a. sia più propriamente da considerarsi come una sorta di “annullabilità rafforzata”[30] poiché, non essendo possibile, dopo la scadenza del termine, contestare la nullità del provvedimento, non sarebbe neppure possibile contestare che quel provvedimento, pur essendo invalido, continui ad esistere e a produrre effetti. A tale ricostruzione non osta la Costituzione, che all’art. 113, comma 3 Cost., nel disporre che la legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa, sembra consentire al legislatore di prevedere conseguenze diverse dall’annullamento di teoria generale a fronte di un provvedimento illegittimo[31], purchè sia garantita una tutela non inferiore rispetto a quella che sarebbe garantita dalla pronuncia di annullamento[32]. L’annullamento, pertanto, non è la conseguenza necessaria, ma una conseguenza possibile dell’“illegale” esercizio del potere, potendo il legislatore disporre anche una tutela risarcitoria o di nullità come sanzione dell’illegittimità. Decorso il termine di decadenza di 180 giorni, quindi, l’atto diventa inoppugnabile e i suoi effetti non possono più essere contestati. Con la conseguenza che quegli effetti esistono e, pertanto, l’azione di nullità in esame sembra avere una natura costitutiva.
Lo stesso art. 34, comma 4 c.p.a. dispone, infine, che tale regime giuridico non si applica alle nullità di cui all’art. 114, comma 4, lettera b, ossia ai casi di nullità per violazione o elusione del giudicato, per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV. Sembra opportuno chiarire, a questo punto, se l’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato abbia, anch’essa, una natura costitutiva oppure meramente dichiarativa poiché, se fosse configurabile una natura dichiarativa, si presenterebbero alcune criticità con riguardo alla possibilità di individuare il criterio della continenza – per cui sarebbe possibile convertire un’azione in un’altra solo entro una logica “riduttiva”[33] – come riferimento per applicare l’istituto della conversione. Infatti, già altri hanno dubitato della continenza come criterio utile a individuare i presupposti della conversione[34]. Tale criterio “si rivela ancor più critico nel caso della conversione reciproca tra giudizio di ottemperanza e giudizio ordinario, poichè consente la conversione in via unidirezionale, dall’azione di nullità a quella di annullamento e nel caso dell’implicita conversione dell’azione di annullamento in annullamento ex nunc, posto che la continenza pare giustificare la mutilazione dell’azione di annullamento”[35]. La dottrina in esame, pertanto, rileva la necessità di una maggiore valorizzazione della vicenda sostanziale rispetto alla conversione, “restituendo centralità […] alle allegazioni delle parti e, dunque, al generale principio della domanda”[36]. Perciò, “si potrebbe anche dire […] che si realizza un’ulteriore ipotesi di «continenza», atteso che le domande convertite devono essere «contenute» nelle allegazioni delle parti: si tratterebbe, dunque, di una continenza differente, non basata su indici quantitativi, ma fondata sulla centralità della vicenda sostanziale prospettata dal ricorrente e dettagliata nel contradditorio fra le parti”[37].
Tuttavia, l’applicazione del criterio della continenza, così come elaborato dalla giurisprudenza maggioritaria, nel caso di conversione dell’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato in un’azione di accertamento non sembra comportare particolari problemi. Infatti, non dissimilmente dai casi di nullità testuale pare che anche l’atto adottato in violazione o elusione del giudicato, in mancanza di impugnazione nel termine di prescrizione decennale, continui ad esistere e ad avere la forza necessaria per modificare la realtà giuridica sostanziale preesistente[38]. Infatti, tale atto non può che avere la stessa forza che aveva l’atto emanato in prima battuta dall’Amministrazione, prima della sua impugnazione e della formazione del giudicato. Tuttavia, mentre, nel giudizio di cognizione, all’illegittimità dell’atto segue il suo annullamento, alla reiterata violazione della medesima norma che regola l’esercizio del potere l’ordinamento riconduce la nullità per violazione o elusione del giudicato, dal momento che il ricorso per l’ottemperanza rappresenta un mezzo di coercizione più incisivo rispetto a quello offerto nell’ordinario giudizio di legittimità[39], in quanto strumentale al pieno soddisfacimento della stessa tutela di legittimità[40].
4. Conclusioni
Se, pertanto, la pronuncia di nullità per violazione o elusione del giudicato concretizza una sentenza costitutiva, il cui presupposto logico necessario è l’accertamento della violazione della medesima norma d’azione accertata nel giudizio di cognizione, sembra potersi ritenere che non dissimilmente dai casi di annullabilità del provvedimento per i quali è ammessa la conversione dell’azione costitutiva in un’azione di accertamento se sussiste un interesse ai fini risarcitori, anche nei casi di nullità di cui alla sentenza in commento possa applicarsi l’art. 34, comma 3 c.p.a. Come la pronuncia costitutiva di annullamento, infatti, sembra che anche la sentenza di nullità per violazione o elusione del giudicato possa scindersi in un effetto dichiarativo, coperto dal giudicato, e un effetto costitutivo. Sicchè, nel caso in cui venga meno l’interesse alla pronuncia costitutiva, il giudice possa limitarsi a accertare l’illegittimità del provvedimento per violazione o elusione del giudicato, che funge, a sua volta, da presupposto per la condanna al risarcimento del danno per equivalente.
Le ragioni che giustificano una interpretazione estensiva dell’art. 34, comma 3 c.p.a. sembrano potersi ricondurre non solo a elementi di carattere strutturale della tutela di nullità di cui all’art. 114, comma 4, lettera b c.p.a., ma anche, come rilevato dalla sentenza in commento, all’esigenza di garantire una tutela piena e effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo così come recepiti dall’ 1 c.p.a. La conversione dell’azione di nullità in un’azione di accertamento, infatti, consente di garantire una tutela per equivalente laddove la tutela in forma specifica, in sede di giudizio di ottemperanza[41], non sia più possibile. Tale tutela per equivalente, peraltro, oltre a essere un riflesso delle esigenze di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 1 c.p.a., è esplicitamente garantita dall’art. 112, comma 3, c.p.a., per cui può essere proposta, anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza […] azione di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione. Il ricorrente vittorioso, tuttavia, potrebbe esperire suddetta tutela risarcitoria per equivalente anche successivamente alla “declaratoria” di nullità per violazione del giudicato in forza dell’art. 30, comma 5 c.p.a.. L’art. 30, comma 5 c.p.a., infatti, sebbene disponga che l’azione risarcitoria può essere proposta sino a 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento, sembra applicabile anche nel giudizio reso in sede di ottemperanza se si considera che il regime giuridico dell’azione di condanna di cui all’art. 30 c.p.a. vale anche per i casi di giurisdizione esclusiva, cui sembra rientrare anche il giudizio di ottemperanza (che tutela il diritto di pretendere dall’Amministrazione la prestazione dovuta) giacchè la tassatività dei casi di giurisdizione esclusiva, non esclude che si possa riconoscere i caratteri di tale giurisdizione in fattispecie già pienamente regolate dalla legge[42].
[1] Testualmente Cons. Stato, Sez. IV, 22 gennaio 2024, n. 664, sub 3.3.
[2] Cons. Stato, cit., sub 8.1.
[3] Cons. Stato, cit., sub 8.5.
[4] Cons. Stato, cit., sub 10.2.
[5] Cons. Stato, cit., sub 10.4.
[6] Cons. Stato, cit., sub 10.2.
[7] Cons. Stato, cit., sub 10.3.
[8] Cons. Stato, cit., sub 10.3.
[9] Cons. Stato, cit., sub 11.6.
[10] S. FRANCA, La conversione dell’azione tra potere officioso e principio della domanda: dal criterio della continenza alla centralità della vicenda sostanziale, in Dir. proc. amm., 1/2024, 148.
[11] V. per tutti Cons. Stato, Ad. pl. 15 gennaio 2013, n. 2, sub 4.
[12] Cons. Stato sez. IV, 30 agosto 2023, n. 8050, sub 12.
[13] Cons. Stato, cit., sub 12. Cfr. T.A.R. Lazio, sez. I - Roma, 25 agosto 2020, n. 9262.
[14] T.A.R. Lazio ,sez. I - Latina, 24 ottobre 2022, n. 825, massima dejure.it.
[15] Cons. Stato, sez. V, 28 luglio 2014, n. 3997, sub 5. Sul rapporto di continenza nel caso di conversione di domande v. anche Consiglio di Stato sez. V, 02 luglio 2020, n. 4253, Cons. Stato, sez. VI, 4 maggio 2018, n. 2651; Cons. Stato, sez. IV, 16 giugno 2015, n. 2979; Cons. Stato, sez. V, 28 luglio 2014, n. 3997.
[16] Cons. Stato, Ad. Pl., 13 luglio 2022, n. 8, sub 1. Cfr. Cons. Stato, sez. V, 14 agosto 2017, sub 4.1.
[17] Sul rilievo dell’allegazione dei presupposti per la successiva proposizione dell’azione risarcitoria o comunque degli elementi concreti che comprovino il danno successivamente subito v. Cons. Stato, sez. V, 15 marzo 2016 n 1023.
[18] Cons. Stato, Sez. V, 29 gennaio 2020, n 727, sub 3.2.
[19] Cons. Stato, Ad. Pl., 13 luglio 2022, n. 8, sub 22.
[20] Cons. Stato, cit., sub 21.
[21] Ibidem.
[22] Cons. Stato, cit., sub 16.
[23] Cons. Stato, cit., sub 9.
[24] Ibidem
[25] Cons. Stato, cit., sub 18
[26] Cons. Stato, cit., sub 19
[27] T.A.R. Lombardia, sez. I – Milano, 24 ottobre 2013, n. 2367, sub III.1.
[28] Ibidem
[29] Consiglio di Stato sez. VI, 27/01/2012, n.372; T.A.R. Torino, (Piemonte) sez. I, 22/01/2015, n.137; T.A.R. Pescara, (Abruzzo) sez. I, 09/10/2013, n.473; T.A.R. Roma, (Lazio) sez. II, 06/03/2013, n. 2432; Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 16/07/2019, n.674. In dottrina v. C. E. GALLO, Sulla nullità del provvedimento amministrativo, in Dir. amm., 1/2017, 57-58 rileva: “Nella gran parte delle ipotesi in cui si contesta la nullità del provvedimento per carenza di potere o per difetto di attribuzione la giurisdizione è del giudice ordinario perché il provvedimento asseritamente nullo è l'atto con il quale l'amministrazione si confronta con il cittadino, meglio incide sulla sua posizione giuridica: l'accertamento della nullità impedisce, perciò, la lesione (si pensi alla nullità del decreto di espropriazione, anche nel caso in cui la nullità dipenda da un vizio di un atto del procedimento, quale è la dichiarazione di pubblica utilità, che, però, ha l'effetto di privare di potere l'amministrazione in sede di adozione dell'atto ablativo)”. Sulla nullità per violazione o elusione del giudicato v. R. FUSCO, Il sindacato giurisdizionale sulla riedizione del potere amministrativo a seguito del giudicato, in Dir. proc. amm., 1/2024, 67-109.
[30] Configura la “declaratoria” di nullità sottoposta al termine di decadenza di 180 giorni come “annullabilità rafforzata” B. SASSANI, Riflessioni sull’azione di nullità, in Dir. proc. amm., 2011, 275 s. Rileva D. CORLETTO, Sulla nullità degli atti amministrativi, in giustamm.it.: “Se l’atto amministrativo è lo strumento principale della concreta azione pubblica, se esso è, tanto per non mascherare la sostanza, la manifestazione del potere di comando e di controllo si di una società, è essenziale che sia efficace, che raggiunga i suoi scopi, e in sostanzia che sia obbedito. Le esigenze della effettività del potere pubblico, fino a che si vuole che un potere pubblico vi sia, sono evidentemente incompatibili con un regime di inefficacia radicale degli atti, tale da autorizzare la disobbedienza al provvedimento, la piena irrilevanza di questo. Il regime della nullità, per essere compatibile, o anche solo pensabile con riferimento agli atti del potere pubblico, non può configurarsi quindi altrimenti che ammettendo che l’atto sia comunque per l’intanto efficace, se può e riesce ad esserlo, fino a che la nullità non viene dichiarata o accertata. Sotto questo aspetto (efficacia fino a contraria dichiarazione) il regime della nullità non può ragionevolmente differire da quello della annullabilità”.
[31] F. VOLPE, La non annullabilità dei provvedimenti amministrativi illegittimi, in Dir. proc. amm., 2/2008, 342-350.
[32] F. VOLPE, ult. op. cit., 346-348.
[33] S. FRANCA, La conversione dell’azione tra potere officioso e principio della domanda: dal criterio della continenza alla centralità della vicenda sostanziale, in Dir. proc. amm., 1/2024, 151.
[34] S. FRANCA, ult. op. cit., 153-169.
[35] S. FRANCA, ult. op. cit., 177.
[36] Ibidem.
[37] S. FRANCA, ult. op. cit., 178.
[38] Rileva come nell’atto adottato in violazione o elusione del giudicato sia configurabile una “violazione del dovere di esercitare il potere secondo la disciplina del caso data dal giudicato” D. CORLETTO, Sulla nullità, cit. Sulla nullità per violazione o elusione del giudicato v. anche M. D’ORSOGNA, Violazione ed elusione del giudicato nella nuova disciplina delle nullità dei provvedimenti amministrativi, in giustamm.it.
[39] F. VOLPE, Norme di relazione, norme d’azione e sistema italiano di giustizia amministrativa, Padova, 2004, 534.
[40] F. VOLPE, ult. op. cit., 533.
[41] Rileva come il giudizio di ottemperanza sia uno “strumento volto a garantire l’effettività della tutela costitutiva di annullamento erogata in fase di accertamento dal giudice amministrativo” F. FRANCARIO, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm. 4/2016, 1033.
[42] S. GIACCHETTI, Un nuovo abito per il giudizio di ottemperanza, in Foro amm., I, 1979, 2623.
Lo sciopero del 27 febbraio: un’“uditrice” fa sentire la sua voce, i mot uniti contro la separazione delle carriere
“Cambiando lavoro, stai cambiando anche tu?” Il seme del fico sacro, Mohammad Rasoulof
Nel corso del dibattito pubblico svoltosi al cinema Adriano di Roma il 27 febbraio scorso, in concomitanza con lo sciopero dei magistrati a difesa della costituzione, ho dismesso le vesti di magistrata ordinaria in tirocinio, sfidando la mia inesperienza a parlare in pubblico fra illustri relatori, per lanciare un messaggio alla società civile.
Come noto agli addetti ai lavori, il magistrato ordinario in tirocinio (cd. M.O.T.), è colui che, dopo il superamento del concorso in magistratura, affianca per un periodo, nel nostro caso della durata di un anno, un magistrato affidatario, collaborando e assistendolo nello svolgimento delle sue funzioni. Come suggerisce il termine stesso di “uditore”, con cui eravamo definiti fino al 2007, in questo periodo dovremmo dedicarci principalmente all’apprendimento e alla comprensione di un mondo nuovo e complesso, come quello al quale siamo approdati.
Tuttavia, in un’occasione come questa, far sentire la voce anche di un MOT era un diritto e, allo stesso tempo, un dovere.
Il nostro diritto di intervenire derivava non solo dagli intensi anni di studio che, con i miei 598 colleghi di tirocinio, abbiamo affrontato preparando il concorso in magistratura, e che ci hanno consentito di superare una selezione rigidissima, come è giusto che sia, e come spero che rimarrà sempre. Ma anche dalla tenacia e dalla forza di volontà che abbiamo dimostrato nel non arrenderci, continuando a studiare negli anni giorno dopo giorno, imperterriti e senza alcuna scadenza ravvicinata. Per chi partecipa al concorso in magistratura ormai è un dato scontato, che tende ad accettare come stato delle cose. Ma non è superfluo evidenziare che fra il momento della iscrizione al bando e quello delle prove scritte passano in media 8-9 mesi, cui segue la correzione degli elaborati (10 mesi di media), lo svolgimento degli orali (8-10 mesi), cui si aggiungono infine altri due mesi per l’approvazione del DM di nomina e della celebrazione del giuramento. Ciò significa che, eccettuati i colleghi che riescono a superare il concorso al primo tentativo, chi invece non si arrende ai primi insuccessi, continua a studiare negli anni, nonostante il tempo che scorre, destreggiandosi fra il lavoro, costosissimi costi di preparazione, e, talvolta, anche le necessità familiari.
E il diritto di parlare lo abbiamo rivendicato per spiegare il motivo per cui i MOT, prima ancora di prendere le funzioni, hanno deciso di scioperare, ed esprimere così, assieme ai colleghi più anziani, le ragioni del loro dissenso alla riforma.
La gioia per l’agognato successo si è subito infatti per noi colorata di amarezza nell’apprendere che, dopo questo lungo e faticoso percorso ad ostacoli, ad attenderci al nostro ingresso in magistratura si stagliava la riforma costituzionale. Una riforma che vorrebbe snaturare quella giurisdizione unitaria di cui abbiamo a lungo sognato di far parte: quell’ordine composto da individui indipendenti, autonomi e imparziali, che applica una legge “uguale per tutti”, tutela i diritti dei cittadini, invera il principio di legalità e quello dello stato di diritto, e così facendo protegge la democrazia.
L’amarezza è suscitata anche dal fatto che, grazie alle settimane trascorse alla Scuola Superiore della Magistratura, abbiamo sperimentato il sentimento di appartenenza ad un ordine unico. In questa sede i MOT di tutta Italia, futuri giudici e futuri PM, frequentano la stessa formazione, condividono idee, confrontano visioni e sviluppano così un’unica cultura della giurisdizione. Ma la riforma costituzionale ci vorrebbe separare e dovremmo distruggere ciò che abbiamo costruito, e dimenticare il sentimento di appartenenza comune che abbiamo sviluppato, come se tutto ciò non fosse mai avvenuto.
A maggio sceglieremo in ordine di graduatoria il nostro primo Tribunale di assegnazione e le funzioni che vogliamo ricoprire, se giudicante o requirente, e saremo noi ad assistere alla prima stortura della riforma in ordine cronologico. Perché ci saranno bravissimi e preparatissimi potenziali futuri PM che ben si guarderanno dallo scegliere una funzione che, se la riforma costituzionale venisse approvata, uscirebbe dall’ordine giurisdizionale così come lo conosciamo per divenire altro. Altro che rischia di ricadere nell’orbita di influenza dell’esecutivo e perdere il connotato di indipendenza che caratterizza il potere giurisdizionale. Ci saranno invece altri colleghi che, per ragioni di graduatoria, sceglieranno una funzione che non rispecchia la loro vocazione, senza poter ambire nemmeno una volta a poter cambiare funzioni correggendo il tiro, come accade nel sistema attuale. Ed è veramente un’occasione mancata quella di non assecondare appieno le inclinazioni, e non sfruttare al massimo le potenzialità e le rinnovate energie di 599 nuovi giovani colleghi, che si accingono a mettersi a servizio della società.
Dall’11 novembre stiamo frequentando le aule dei tribunali a fianco dei nostri affidatari e collaboriamo con loro con entusiasmo, impegno e dedizione, per poter arrivare il primo giorno della presa di funzioni più preparati che possiamo per svolgere un ruolo che ci appare quasi sacrale: amministrare la giustizia in nome del popolo italiano.
Siamo consapevoli della difficoltà tecnica del nostro lavoro e della pregnanza di ogni nostra singola decisione sui diritti fondamentali delle persone. Ci sentiamo da un lato onorati, dall’altra non lo nego, un po' tesi, e ben consci che, accingendoci a prendere le funzioni, dovremmo impiegare tutte la nostra cultura giuridica, la nostra sensibilità e il nostro equilibrio per essere sin da subito all’altezza del nostro delicatissimo ruolo.
In una situazione fisiologica, non dovremmo preoccuparci di altro, e questo già basterebbe a riempire i nostri pensieri. Sono, del resto, queste le stesse sensazioni descritte da tutti i colleghi più anziani nei racconti a proposito della loro esperienza come magistrati di prima nomina.
Tuttavia, i miei 598 colleghi di tirocinio, e i circa 800 futuri MOT che arriveranno dopo l’esaurimento dei due concorsi successivi in svolgimento, dovranno convivere anche con un’ulteriore e legittima preoccupazione.
Quella di non riuscire, nostro malgrado, a tutelare adeguatamente i diritti dei singoli, a non assumere le funzioni timorosi e impauriti, ad evitare meccanismi di giustizia difensiva, se la riforma costituzionale dovesse essere approvata, se, come è stato ventilato da giuristi ben più esperti di noi, dovesse vacillare il principio di indipendenza della magistratura. Se il nostro organo di autogoverno, cd. pietra angolare della nostra autonomia e indipendenza, diviso ed eletto per sorteggio, dovesse uscirne svilito, delegittimato, diviso e indebolito. Se, come paventato da parte di alcuni, la stessa ANM dovesse separarsi.
E volgiamo lo sguardo dalla riforma stessa al contesto generale in cui questa si inserisce.
Dovremo insediarci a dicembre nei tribunali di assegnazione (il più delle volte, tribunali di frontiera), e, come i colleghi più avanti di noi nel percorso ci raccontano, saremo verosimilmente chiamati a smaltire l’arretrato dovuto alla vacanza di organico che ha preceduto la nostra assegnazione. Talvolta anche a sopperire anche ad una problematica strutturale: le inefficienze del sistema giustizia. Ciò di cui la riforma, che è riforma della magistratura, e non della giustizia, non si occupa. E la giustizia, banalmente, avrebbe bisogno di maggiori risorse, umane e materiali, senza alcuna necessità di modificare la Costituzione.
È paradossale, per utilizzare un eufemismo, che la maggior parte delle persone guardi ai magistrati come una potentissima e irraggiungibile casta quando, appena entrati in magistratura, una delle prime evidenze che apprendiamo sono le condizioni in cui molti colleghi sono costretti a lavorare: facendo del loro meglio, lottando eroicamente contro dotazioni informatiche insufficienti, talvolta obsolete e mal funzionanti, personale amministrativo e polizia giudiziaria numericamente carente, tribunali fatiscenti, carceri sovraffollate.
Come se tutto ciò non bastasse, noi magistrati di prima nomina potremmo avere un compito aggiuntivo, e quanto mai arduo da assolvere: prendere decisioni che riteniamo giuste nel merito, esatte tecnicamente ma che sappiamo essere sgradite, in un contesto di continui attacchi del potere politico alla magistratura tutta (in ultimo, anche quella internazionale) e ai magistrati come singoli. In un contesto di ormai perenne violenza verbale e toni esasperati, in cui nell’ultimo mese abbiamo assistito, senza soluzione di continuità, alla vicenda delle mancate convalide del trattenimento dei migranti in Albania, alla vicenda Almasri a quella Lo Voi. In un contesto in cui i dettagli delle vite personali di coloro che assumono provvedimenti non graditi al potere vengono scandagliati e divulgati dagli organi di stampa.
In un contesto in cui la riforma costituzionale della separazione delle carriere viene brandita come un’arma contro di noi e presentata all’elettorato come una punizione a una magistratura troppo debordante, invadente, ostativa. Noi, nel frattempo, guardando indietro ai sacrifici compiuti per inseguire un sogno, increduli ci chiediamo: abbiamo studiato tanti anni per essere ostativi o non ostativi o per applicare la legge uguale per tutti e tutelare i diritti delle persone?
Ed ecco che, in questa contingenza storica, il diritto di parlare degli ultimi arrivati diventa un dovere civico. Quello di mettere in guardia la società civile rispetto alle concrete conseguenze per tutti dell’erosione del principio di indipendenza della magistratura: il grave e serio pregiudizio alla tutela dei diritti fondamentali di ognuno.
E volevamo che l’opinione pubblica fosse ben conscia del fatto che anche noi, appena entrati in magistratura, ci opponiamo alla riforma costituzionale. E che questo smentisce nei fatti l’addebito che viene continuamente mosso ai magistrati, quello di opporsi alla riforma per difendere uno status quo. Uno status quo che noi, per definizione, ancora nemmeno conosciamo. Per evidenziare che la tutela dell’indipendenza della magistratura è quanto di più lontano dall’essere un interesse corporativo, ma è interesse, prima di tutto, dei cittadini. Quello a non incappare mai in un giudice impaurito, condizionabile, non imparziale e indipendente.
Durante l’assistenza prestata nel corso della lunga malattia di mio padre ho incontrato moltissimi medici, e ricordo bene che le peggiori decisioni di cura, o dovrei dire non cura, sono state prese da quei medici che avevano perso di vista l’interesse che dovevano tutelare, quello di chi avevano davanti, del paziente, perché troppo indaffarati a ponderare le conseguenze legali delle loro scelte terapeutiche e assorbiti dalle loro strategie di medicina difensiva. Avendo vissuto tutto questo dalla parte del paziente, non vorrei mai e poi mai, da cittadino, avere a che fare con un magistrato simile.
La partecipazione dei MOT e dei giovani magistrati alle iniziative di dialogo con la società civile organizzate in tutta Italia, in concomitanza con lo sciopero del 27 febbraio a tutela della costituzione, è stata massiccia e particolarmente sentita. Fino a raggiungere picchi come quelli di Bologna (31 MOT su 35).
Del resto, proprio una collega MOT in servizio presso il Tribunale di Bologna aveva coraggiosamente e orgogliosamente preso la parola all’assemblea straordinaria indetta all’ANM lo scorso 15 dicembre. Quella stessa assemblea che ha deliberato, fra le altre cose, la giornata di sciopero del 27 febbraio.
I MOT che il giorno del 27 febbraio erano impegnati nella formazione alla Scuola Superiore di Scandicci non si sono arresi (ormai ci siamo abituati), e hanno in via del tutto spontanea manifestato il loro sostegno e la loro vicinanza, come da foto in apertura a questo articolo.
In un momento storico caratterizzato da conflitti, scontri e future separazioni, noi MOT, nel rispetto delle reciproche differenze di sensibilità di ognuno di noi, rimaniamo uniti in difesa della nostra Costituzione.
Il “posto” del diritto nelle regressioni democratiche ed il ruolo dei giuristi
Da costituzionalista e comparatista, intervengo con gratitudine, e preoccupazione, a questo evento in difesa della Costituzione.
La difesa della Costituzione, la difesa della democrazia costituzionale, è purtroppo più attuale che mai in questa epoca, in Italia e nel mondo.
Infatti, ormai da quasi venti anni, dopo la grande espansione della democrazia costituzionale (quella, per intendersi, delineata dall’art. 1, comma 2, della Costituzione italiana, intorno ai due pilastri della sovranità popolare e dei limiti che essa incontra) avvenuta negli anni 1990, siamo di fronte a un fenomeno nuovo, definito della “regressione democratica”, che investe non solo le nuove democrazie, come la Polonia, l’Ungheria, il Messico, la Turchia, ma si affaccia anche in quelle stabilizzate, come l’India, Israele, l’Italia, per non parlare degli Stati Uniti.
Si tratta – e questa è la principale novità nuovo rispetto agli autoritarismi del passato, che si instauravano con l’uso della forza, tramite colpi di Stato – di una erosione della democrazia costituzionale che avviene attraverso il diritto, in particolare il diritto costituzionale: esso è utilizzato sempre più, anziché come strumento di tutela dei diritti e delle libertà, quale meccanismo di conservazione e accentramento del potere, al punto che i regimi che scaturiscono da tali processi vengono anche etichettati come forme di autocratic legalism.
Lo scivolamento verso regimi non democratici è graduale, e per questo anche difficilmente individuabile: esso avviene attraverso una sequenza di mutamenti istituzionali (revisioni costituzionali, riforme legislative, abbandono di prassi e consuetudini costituzionali), che spesso, presi uno per uno, non paiono pericolosi, ma considerati nel loro insieme fanno entrare in crisi gli elementi strutturali della democrazia costituzionale, determinando la perdita di indipendenza del potere giudiziario, la limitazione dei poteri o addirittura la «cattura» delle corti costituzionali e degli organi indipendenti da parte delle maggioranze politiche, il controllo dei media ad opera del governo, la compressione dell’autonomia locale. Questi processi sono orientati a una concentrazione dei poteri in capo ai governi, spesso sostenuti da ampie e durature maggioranze elettorali.
È la tecnica preferita dei populismi, movimenti politici, guidati da leader carismatici, che pretendono di parlare in nome del popolo (del “vero popolo”, dell’“ordinary people”, come risuona nella retorica populista, cui vengono contrapposte le élite corrotte), come se il popolo fosse uno e avesse un’unica voce. Tale pretesa, la cui caratteristica più evidente è il carattere anti-pluralista, implica la negazione della mediazione e del compromesso, caratteristiche della democrazia rappresentativa, la richiesta che il popolo si esprima direttamente (preferibilmente con un sì o un no, su quesiti o persone) e senza limiti.
La strategia si ripete, un paese dopo l’altro, nell’ambito dell’Unione europea lo abbiamo visto in Ungheria e Polonia: appena saliti al potere, spesso attraverso elezioni svoltesi con sistemi elettorali fortemente premianti, i populisti prendono di mira la parte istituzionale della costituzione, i checks and balances nella forma di governo e l’indipendenza degli organi di garanzia, ovvero quell’insieme di meccanismi volti a limitare i governi e le maggioranze politiche che caratterizza la forma di Stato democratico-pluralista. Una volta insediatisi al potere, l’obbiettivo è creare le condizioni per non perderlo. Soltanto in un secondo momento procederanno ad attaccare direttamente le norme sui diritti, la parte valoriale delle costituzioni, imponendo la propria agenda politica che mira a scardinare, pezzo per pezzo, i valori fondanti delle democrazie pluraliste, in primo luogo la loro qualità di società aperte e inclusive.
L’esito è costituito da regimi che i politologi definiscono «ibridi»: infatti, essi non presentano tutti i tradizionali caratteri dei regimi autoritari, in quanto i diritti di libertà non sono totalmente soppressi e si fa scarso ricorso alle norme penali, mentre le elezioni continuano ad avere formalmente carattere competitivo (perciò la denominazione di competitive authoritarianism), benché di fatto le opposizioni si trovino ad essere private della possibilità di diventare maggioranza. Questo genera, a sua volta, corruzione e clientelismo, che rendono ancora più difficile una alternanza al potere.
È un fenomeno insidioso, benché ormai noto e studiato. C’è una grande difficoltà a mobilitare le opinioni pubbliche, in quanto si tratta di interventi normativi assai tecnici, difficili da spiegare ai non addetti ai lavori, e ai quali è arduo far appassionare le persone: la questione della composizione dei diversi Consigli e della Corte disciplinare nella revisione costituzionale in itinere ne costituisce un esempio lampante. Spesso, tra l’altro i sostenitori di queste “riforme” si avvalgono di argomenti tratti dal diritto comparato, manipolati e decontestualizzati, per mostrare che quel pezzetto di norma esiste in un qualche altro paese del mondo, un paese democratico, dove non ha provocato involuzioni autoritarie, secondo quello che viene definito il “comparativismo abusivo”, ovvero un uso improprio del diritto comparato, che isola alcuni istituti dal contesto e li assembla in un inimmaginabile “Frankenstate” autoritario.
Che fare, questo è l’interrogativo impellente. Un interrogativo che, in tutto il mondo, investe innanzitutto i giuristi, che si trovano in prima linea nelle regressioni democratiche, proprio in quanto il diritto è il principale strumento del quale si avvalgono i nuovi autocrati per mantenersi al potere. Mantenersi integri, ovviamente. E poi vigilare, studiare, replicare, informare, protestare, per generare una consapevolezza di quel che sta accadendo: altro da fare non c’è. Ciascuno nel suo ruolo, accademici, operatori del diritto tutti, inclusi i magistrati, libera stampa, forze politiche fedeli alla democrazia costituzionale, società civile. Il punto chiave è trovare il modo per comunicare temi complicati in modo chiaro, semplice, corretto e, se possibile, attraente. Da qui l’importanza di questa giornata, come momento iniziale di un percorso di consapevolezza per il nostro paese, per la nostra costituzione e la nostra democrazia.
Intervento nell’assemblea pubblica al cinema Adriano, Roma, nell’ambito dello sciopero dei magistrati a difesa della Costituzione.
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