ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Quando il minore è vittima di tortura. Brevi note a Cass n. 37171/2024 e n. 39722/2024
di Claudia Terracina
Sommario: 1. Premessa -2. Due bruttissime storie - 3. La tortura privata - 4. Una norma di difficile applicazione? - 5. Non solo bullismo.
1. Premessa
Cinque anni dopo la pubblicazione, su Giustizia Insieme, della nota di Calogero Ferrara alla sentenza Sez. 5, n. 47079 8 luglio 2019, che contiene elementi fondamentali per la ricostruzione ermeneutica del reato di tortura commessa da privati[1], può avere un senso interessarsi nuovamente di questo delitto, contemplato dall’art. 613-bis cod. pen. e introdotto dalla legge 14 luglio 2017, n. 110. L’occasione è fornita dalla pubblicazione di due sentenze della Corte di Cassazione[2], la n. 37171/2024 della prima Sezione e la n. 39722/2024 della quinta Sezione, in cui la Corte, partendo da vicende coinvolgenti minori che – come nella totalità dei casi – non è esagerato definire agghiaccianti, coglie l’occasione per soffermarsi sulla struttura e gli elementi essenziali del delitto e, in particolare, sull’oggetto giuridico tutelato.
In questi anni, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha provato a delineare maggiormente i confini della fattispecie, la cui maggiore criticità è rappresentata dalla mancanza di una sua specifica connotazione, rendendo problematica la distinzione rispetto ad altre fattispecie limitrofe, in particolare il maltrattamento, con cui condivide – malgrado la diversa collocazione nel codice – una serie di elementi, potenziale fonte di incertezze interpretative[3]. Queste due sentenze, proseguendo un cammino già percorso in sede di legittimità, contribuiscono a delineare lo scopo della norma, indicandone espressamente la funzione di tutela della dignità umana nel suo complesso, a fronte di una condotta specifica di reificazione della persona, crudelmente deprivata dagli affetti e bisogni essenziali e ridotta a strumento di crudeltà e vendetta.
2. Due bruttissime storie
Il dramma sotteso alla pronuncia della prima Sezione, che contiene anche osservazioni sul tema della premeditazione c.d. “condizionata”, nasce da un femminicidio: un uomo, sottoposto alla misura del divieto di avvicinamento nei confronti della ex compagna che lo aveva denunciato per maltrattamenti, dopo che la donna si era rivolta alle forze dell’ordine per denunciare la violazione della misura e una aggressione ai suoi danni, la seguiva mentre si era rifugiata in un bar e, in presenza delle figlie minori della donna, la colpiva con un coltello riducendola in fin di vita. La portava via in macchina, agonizzante, insieme alle sue due bambine (l’età non è nota, ma si tratta di minori infraquattordicenni, di cui una affetta da grave disabilità) che erano costrette, dopo aver assistito all’aggressione, anche ad assistere alla agonia della madre. Caricava poi la donna sanguinante in auto con le due bambine, e, dopo essersi recato da un amico dove lasciava la donna morire, profittando dell’intervento di un medico, fuggiva con le due bambine (di cui una in preda a crisi convulsive) che restavano in auto con lui. L’uomo teneva le bambine “impietrite dalla paura” nella sua auto tutta la notte e, una volta rintracciato dalle Forze dell’ordine, trascinava le minori in una fuga pericolosa, fino alla cattura. Le bambine, di cui una veniva ridotta in fin di vita per le crisi distoniche e la desaturazione di ossigeno, riportavano lesioni e gravissimi traumi psichici.
Nei due giudizi di merito, l’uomo veniva condannato per i reati di omicidio aggravato, sequestro di persona ai danni della donna e delle minori, resistenza aggravata, porto di arma e per il reato di tortura di cui all’art. 613-bis, commi primo e quarto, cod. pen.
Sollecitata dal ricorso dell’imputato, che lamentava, sotto il profilo dell’erronea applicazione dell’art. 613-bis cod. pen., l’insussistenza dei presupposti del delitto di tortura in danno delle minori, in quanto “in alcun modo le stesse sono state oggetto della condotta” dell’imputato, “eventualmente rivolta nei soli confronti della donna”, La Corte rigettava il ricorso ricostruendo la fattispecie e i suoi elementi e confrontandola con le condotte accertate nel merito. La ricostruzione è dogmatica e – per quanto si possa dire di una fattispecie così recente – classica, proprio in quanto richiama nozioni giuridiche consolidate in anni di giurisprudenza sui reati contro la persona.
“Quanto alla struttura dell'incriminazione, il delitto di cui all'art. 613-bis, comma primo, cod. pen. è un reato comune (potendo essere realizzato da chiunque); è reato a forma vincolata (essendo richiesto, come è stato anticipato, un requisito modale della condotta e potendo il reato essere commesso solo mediante violenze o minacce gravi oppure agendo con crudeltà); è un reato di evento (dovendo essere cagionate acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico); è un reato eventualmente abituale improprio (soltanto per talune modalità della condotta -ossia per le violenze o le minacce gravi, che perciò costituiscono di per sé reato e che devono necessariamente estrinsecarsi in condotte plurime - è richiesta la reiterazione della condotta, requisito non previsto per altre modalità di realizzazione della fattispecie incriminatrice ovvero qualora si agisca con crudeltà); è un reato a dolo generico (non avendo il legislatore recepito la tripartizione in tortura giudiziaria, punitiva e discriminatoria fatta propria dall'articolo l della Convenzione ONU del 1984), che ammette la forma del dolo eventuale (potendo le acute sofferenze fisiche o il verificabile trauma psichico costituire eventi semplicemente accettati e voluti dal soggetto attivo, secondo il modello proprio del dolo eventuale); la limitazione della
libertà personale, la relazione di affidamento e la condizione di minorata difesa sono presupposti della condotta (comunque rientrando nel fuoco del dolo); il fatto di reato, infine, deve essere commesso mediante più condotte (nel senso che la reiterazione non deve esaurirsi in un ristretto ambito temporale, ma deve essere cronologicamente consistente) oppure, quando è richiesta per l'integrazione della fattispecie la commissione di un'unica condotta, deve conseguire da essa, oltre agli eventi tipici (acute sofferenze fisiche o verificabile trauma psichico), anche un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Si tratta di ulteriori elementi costitutivi del reato, e non condizioni obiettive di punibilità, i quali afferiscono, rispettivamente, alla condotta o all'evento”.
La sentenza della quinta Sezione ha per oggetto il maltrattamento, travalicato nella tortura, del figlio di due anni ad opera di un uomo. Il bambino, da sempre tenuto in condizioni di degrado e sottoposto con la madre ad atti di maltrattamento, nei suoi ultimi due giorni di vita era stato oggetto di una escalation di violenza gratuita che lo aveva condotto alla morte dopo acute sofferenze. Il bambino era stato sottoposto a bruciature, morsicature, con lacerazioni corporee, colpi al capo e al torace che lo avevano condotto alla morte. La sentenza della Corte di appello era stata annullata dalla Corte (Sez.1, n. 27321 del 13/01/2023) che aveva rilevato come alla condotta maltrattante ai danni del bambino fosse seguita una “escalation” che aveva condotto ad una fase caratterizzata da lesività estrema. La sentenza del giudice del rinvio, confermata dalla Corte, aveva invece valorizzato il passaggio ad un grado estremo di brutale violenza con trasformazione del piccolo in oggetto di sfogo di istinti bestiali.
3. La tortura privata
Il delitto contestato nei due casi è la tortura “tra privati” o “orizzontale”, in cui non viene in considerazione il rapporto con l’autorità pubblica. In entrambi, tuttavia, vi è il riferimento al rapporto di affidamento che il minore ha con l’adulto che lo prende in carico, nel caso del piccolo ucciso, il padre.
La sentenza della prima Sezione descrive espressamente il reato come “comune”[4]. La norma prevede d’altra parte al primo comma dell’art. 613-bis cod. pen. la condotta di “chiunque” tenga la condotta descritta, mentre al secondo comma è comminata una pena più grave quando il reato sia commesso da una pubblica autorità “con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”.
Il secondo comma contempla invece certamente un reato proprio, sia nel soggetto sia nelle modalità dell’azione.
Dai lavori preparatori della legge 110/2017 si evince la costruzione della tortura “pubblica” come fattispecie circostanziale. Si legge infatti che nella norma “la commissione del reato da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio costituisce, anziché un elemento costitutivo, una fattispecie aggravata del delitto di tortura”[5]. Già dai primi commenti al testo, anche nel corso dell’iter parlamentare di approvazione, emerge sul punto un certo dissenso[6].
Anche le prime pronunce di legittimità adottano questa linea interpretativa, talune in obiter dicta, come ad esempio Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019, altre investite della correttezza dell’operazione di bilanciamento operata dal giudice di merito, come Sez. 5, n. 1243 del 20/12/2023[7].
Si discosta da questa soluzione ermeneutica invece la sentenza in commento che, sulla scorta di un precedente della terza Sezione[8], si pronuncia espressamente a favore della autonomia delle due fattispecie contenute nella norma, ritenendo la tortura ad opera della pubblica autorità un reato autonomo e non una forma circostanziata di quella “comune”. Afferma infatti che l’obbligo di incriminazione specifico che discende dalle fonti convenzionali “sarebbe da considerare disatteso, con diretta collisione del diritto interno con quello internazionale, nel caso in cui si considerasse il secondo comma dell’art. 613-bis cod. pen. una circostanza di un altro reato, e cioè della tortura privata, il cui obbligo di incriminazione non era vietato ma neppure imposto, diversamente dalla tortura di Stato, dalle carte internazionali”.
D’altra parte, a favore della natura autonoma del delitto di tortura “pubblica” si è espressa autorevolmente anche la Corte costituzionale – sulla scorta della sentenza della terza Sezione n. 32380/21 nella sentenza n. 192 del 2023 sul “caso Regeni”, forse ponendo un punto fermo alla questione.
La previsione di un caso di tortura “comune” oltre a quella “pubblica” di cui al secondo comma dell’art. 613-bis cod. pen. ha sin da subito dato adito a contrasti.
Com’è noto, infatti, il delitto di tortura di cui all’art. 613-bis c.p. è stato introdotto per ottemperare ad obblighi internazionali, primo tra tutti quello derivante dalla Convenzione ONU contro la tortura, approvata nel 1984 e ratificata dall’Italia con la legge 3 novembre 1988, n. 489 (UNCAT). Dall’art. 4 della Convenzione discende l’obbligo di specifica criminalizzazione della tortura, almeno nella sua “soglia minima”, costituita da condotte caratterizzate dalla specifica finalità alternativa di: 1) ottenere informazioni o confessioni, 2) punire, intimidire o fare pressioni e 3) discriminare) e in cui vi sia il coinvolgimento necessario di funzionari pubblici.
La nozione di tortura contenuta nella Convenzione, al primo comma dell’art.1, è focalizzata sul rapporto di autorità e sugli abusi da parte dei pubblici poteri, ma non esclude (art. 1, comma 2) l’estensione del divieto in forma più ampia.
Il legislatore, anche se con un certo ritardo, stigmatizzato in più occasioni[9], esercitando una facoltà, ma anche rispondendo agli obblighi derivanti dalla giurisprudenza della Corte EDU e da obblighi derivanti da altre convenzioni internazionali[10] ha costruito una norma con due fattispecie, la tortura “tra privati o “orizzontale”, reato sostanzialmente comune (anche se contempla il caso in cui la vittima sia legata al reo da un rapporto giuridico di affidamento qualificato)[11], contemplato al primo comma, e quella “pubblica”, reato proprio del pubblico ufficiale.
Il legislatore ha quindi scelto di estendere la nozione anche a condotte commesse da privati, particolarmente odiose in quanto attuative di una sorta di “signoria” sulla persona dell’altro, costruendo una fattispecie di reato comune e collocandolo tra i delitti contro la libertà. Certamente questa soluzione ha dei vantaggi, tra cui quello di ricomprendere le condotte di soggetti la cui qualifica pubblicistica è dubbia - come ad esempio, nel caso citato dalla dottrina[12], di una persona sequestrata e torturata da agenti degli apparati di sicurezza di Stati stranieri, ovvero “organizzati” in modo da costituire una informale struttura detentiva. È il caso contemplato dalla sentenza della prima Sezione n.26999/22 relativa alla organizzazione e gestione di un centro illegale di prigionia ubicato in una ex base militare della città libica di Zawya, ove centinaia di migranti, che tentavano di raggiungere le coste italiane, erano privati della libertà personale e sottoposti a sistematiche torture, per ottenere il pagamento dai loro familiari di somme di denaro quale prezzo per la liberazione e/o la loro partenza per l'Italia[13] e il parallelo caso della base di prigionia libica di Zuhaira in cui operava una associazione delinquere diretta da tal “Muhammad il libico”, oggetto della sentenza della Sezione quinta n. 20726/22.
La scelta legislativa ha destato qualche perplessità[14]. Anche parte della dottrina ha rilevato come la mancata focalizzazione sull’azione del potere pubblico rischiasse di “annacquare” la portata garantista della norma e la finalità di controllo contro gli abusi dell’autorità[15]. Altri – guardando soprattutto alla nozione di tortura contenuta nell’art. 3 della CEDU e alla copiosa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che ha stigmatizzato nei diversi casi la mancanza di adeguati strumenti normativi ovvero di protezione nei confronti di vittime oggetto di tortura commessa in ambito familiare o comunque al di fuori del rapporto con l’autorità - hanno invece guardato con favore alla scelta del legislatore di ampliare l’ambito della punibilità[16].
A distanza di oltre sette anni dalla entrata in vigore della norma può osservarsi che, da un lato, gli arresti giurisprudenziali su casi di tortura commessi da autorità pubbliche (nella quasi totalità in ambito penitenziario)[17] e, dall’altro i recenti tentativi di abrogazione[18], mostrano la vitalità della fattispecie della tortura “pubblica” nel nostro ordinamento.
4. Una norma di difficile applicazione?
Le maggiori criticità rilevate dalla dottrina[19], al momento dell’introduzione della fattispecie, si incentrano piuttosto nella strutturazione della norma, definita “farraginosa” e di difficile interpretazione in quanto, da un lato, contempla condotte diverse e connotate da diversa gravità, dall’altro – soprattutto nella descrizione dell’evento tipico - contiene indicazioni confuse sul piano della tassatività.
È il caso, sul piano della condotta, del “trattamento inumano e degradante” e, su quello dell’evento, del “verificabile” trauma psichico ed ancora, sul piano dei presupposti, della “minorata difesa” (usata altrove solo come aggravante).
Sotto il primo profilo, al di là della scelta del legislatore di richiedere, cumulativamente e non alternativamente che il trattamento sia tanto inumano quanto degradante, qualche indicazione può desumersi dalla giurisprudenza su reati “limitrofi” a quello in esame. Troviamo una utile descrizione in una recentissima sentenza della Sez. 1 in tema di immigrazione clandestina[20], definendo «inumano il trattamento che abbia inflitto alla persona trasportata una sofferenza fisica o psicologica, prolungata e di particolare intensità, capace di provocare nella vittima sentimenti di paura e angoscia», e «degradante il trattamento tale da cagionare una lesione particolarmente grave della dignità umana, umiliando o svilendo l'individuo e suscitando sentimenti di inferiorità capaci di infrangerne la resistenza morale e fisica».
Il profilo della “verificabilità” del trauma psichico è affrontato dalla sentenza Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019[21], che, nel fare riferimento alla “oggettiva verificabilità” del trauma, lo riporta al tema del libero accertamento giudiziale, forse richiedendo sul punto una attenzione motivazionale[22]. Precisa che il trauma non deve necessariamente «tradursi in una sindrome duratura da "trauma psichico strutturato" (PTSD) e può consistere anche in una condizione critica temporanea che risulti, per le sue caratteristiche, non integrabile nel pregresso sistema psichico della vittima, sì da minacciarne la coesione mentale e di tale condizione la norma richiede l'oggettiva riscontrabilità, che non esige necessariamente l'accertamento peritale, né l'inquadramento in categorie nosografiche predefinite, potendo assumere rilievo anche gli elementi sintomatici ricavabili dalle dichiarazioni della vittima, dal suo comportamento successivo alla condotta dell'agente e dalle concrete modalità di quest'ultima».
La sentenza della quinta Sezione n. 47079/19 si è occupata anche della “minorata difesa”, ritenendola sussistente «ogni qualvolta la resistenza della vittima alla condotta dell'agente sia ostacolata da particolari fattori ambientali, temporali o personali».
Le ancora poche, interessanti, sentenze di legittimità, tra cui quella in commento, sono tutte tese nello sforzo di dare indicazioni pratiche all’interprete, soprattutto nei rapporti con fattispecie limitrofe violative della integrità personale e della libertà morale e sessuale, cercando di ovviare ai deficit di precisione. D’altra parte, come è accaduto anni fa dopo l’introduzione della fattispecie di “atti persecutori” la struttura composita della norma, anche se in quel caso descritti in modo molto specifico, si è rivelata in concreto in realtà un vantaggio, consentendo di configurare la fattispecie in ipotesi di diversa gravità e connotazione. Nel tempo questo potrebbe accadere anche per questa norma, grazie al ricorso a concetti giuridici già consolidati, frutto di elaborazione in relazione ad altre figure delittuose, concentrando lo sforzo interpretativo sull’evento tipico la cui descrizione, come accennato, resta ancora non del tutto delineato[23].
Secondo la giurisprudenza della Sezione quinta, che si occupa dei reati limitativi della libertà, il delitto di tortura è stato configurato dal legislatore come reato eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell'incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona (Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019).
Per l’integrazione del reato nella sua forma abituale si ritiene, sulla scorta della giurisprudenza formatasi sulla nozione di “condotte reiterate” nel reato di atti persecutori, che, perché si abbiano “più condotte”, ne siano sufficienti due[24].
La sentenza Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019 ha peraltro precisato che «ai fini dell'integrazione del delitto di tortura di cui all'art. 613-bis, comma primo, cod. pen., la locuzione "mediante più condotte" va riferita non solo ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico». In motivazione la Corte ha condiviso il ragionamento del giudice di merito che, confrontando la locuzione usata nel reato di atti persecutori “condotte reiterate” con quella di “più condotte” usata nella norma, conclude che le stesse possano essere tenute nel medesimo contesto. D’altra parte, “la lettura della disposizione che ne fa la parte impugnante determinerebbe il paradosso di impedire la riferibilità della norma a quanto verificatosi nella scuola Diaz, laddove non vi è stata la reiterazione, diluita nel tempo, delle condotte; ciò implicherebbe -aggiunge il Collegio- l'adozione di una prospettiva indubbiamente distonica rispetto a quella seguita dalla Corte EDU laddove ha ricondotto quei fatti alla nozione di tortura di cui all'art. 3 della CEDU, dando così luogo ad una lettura non convenzionalmente orientata della disposizione di nuovo conio”.
La medesima sentenza, sollecitata sul punto dal ricorso, si sofferma sulla nozione di “crudeltà” traendola dagli insegnamenti di Sez. U, n. 40516 del 23/06/2016, Del Vecchio. Crudele è la condotta che “eccede rispetto alla normalità causale”, cioè che costituisce un quid pluris rispetto all'attività necessaria ai fini della consumazione del reato, rendendo la condotta stessa particolarmente riprovevole per la gratuità e superfluità dei patimenti cagionati alla vittima con un'azione efferata. Gratuità e superfluità che nasce dalla particolare “forma di soddisfazione” dell’agente legata alla capacità di generare le sofferenze altrui.
Le “acute sofferenze fisiche” provocate alla vittima non coincidono con la nozione di lesioni, come emerge dal dato testuale, che colloca la causazione di lesioni come circostanza aggravante (o come reato aggravato dall’evento, secondo quanto affermato dalla Sez. 5 nella sentenza 1243/2024) e dunque contemplano patimenti, come la fame, la sete, la sofferenza fisica derivante da deprivazione del sonno, la sottoposizione a fatiche, che non realizzano malattia ma, appunto, sofferenza.
Quanto ai rapporti con altri reati, il problema che ha maggiormente impegnato la Corte di cassazione (e che tuttora non pare risolto) riguarda il rapporto con il sequestro di persona. La seconda Sezione, nella sentenza 1729/2021 (dep. 2022) ha ritenuto il delitto di sequestro di persona assorbito in quello di tortura, “nella misura in cui la condotta di privazione della libertà personale della vittima connoti parte della condotta torturante, agevolando la realizzazione del fine ultimo, perseguito dall'agente, di inflizione alla medesima di un supplizio, mentre si configura il concorso tra i due reati nel caso in cui la privazione della libertà personale si protragga oltre il tempo necessario al compimento degli atti di tortura”. Fondandosi sulla medesima nozione di specialità, quella tra fattispecie astratte indicata dalla sentenza a Sezioni Unite La Marca n. 41588/2017, la quinta Sezione ha affermato che le due fattispecie sono sempre in concorso materiale tra loro in quanto “La comparazione degli elementi costitutivi dei due reati dimostra l'assenza di un rapporto di continenza posto che il sequestro a scopo di estorsione non contiene
tutti gli elementi costitutivi del delitto di tortura, né rispetto a quest'ultimo uno o più requisiti caratteristici in funzione specializzante. Affinché si consumi il sequestro a scopo di estorsione non è necessario che si consumi anche il delitto di tortura”.
È stato escluso il rapporto di continenza con la violenza sessuale di gruppo da Sez. 3, Sentenza n. 25617 del 16/03/2022: “Il delitto di tortura non è assorbito in quello, più grave, di violenza sessuale di gruppo, ostandovi sia la diversità del bene giuridico tutelato (la libertà fisica e psichica nell'uno e la libertà sessuale nell'altro), sia la non sovrapponibilità strutturale delle condotte incriminate, posto che la violenza perpetrata nei confronti di persona costretta a subire o a compiere atti sessuali acquista autonoma rilevanza nel caso in cui, oltre ad essere funzionale a tale coartazione, si estrinsechi, prima, durante o dopo il compimento dell'atto sessuale, in un'ulteriore sopraffazione fisica e psicologica della vittima, provocandole acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico.” Nel caso di specie la ragazza era stata degradata e fatta oggetto di sevizie da una coppia “diabolica”. La sentenza, peraltro, in motivazione, si sofferma anche sull’assorbimento del reato di sequestro di persona, escludendolo in quanto l’attività di limitazione della libertà personale si sarebbe protratta per un tempo ulteriore ed antecedente rispetto a quello in cui l’attività vessatoria ha avuto corso.
Più delicati sono i rapporti tra il delitto di tortura e quello di maltrattamenti, rientrando entrambi nello schema dei reati di durata: eventualmente abituale, il reato di tortura; necessariamente abituale quello di maltrattamenti. Il primo, tuttavia, non assorbe il secondo, oltre che per la diversità di oggetto giuridico, anche per la mancanza di un rapporto di continenza tra le due fattispecie astratte: per l'integrazione dell'articolo 572 cod. pen. possono assumere rilievo anche fatti non penalmente rilevanti, o comunque non gravi, mentre ai fini della configurabilità dell'articolo 613-bis cod. pen. dovranno invece necessariamente considerarsi solo fatti che costituiscano di per sé reato (a seconda dei casi, minaccia, percosse, lesioni, violenza privata), e che si caratterizzino per la loro gravità e per la loro idoneità a produrre acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, con la conseguenza che ciascuno dei singoli atti che concorrono ad integrare la fattispecie di tortura deve necessariamente superare una soglia minima di gravità che non è richiesta, invece, per i maltrattamenti. In questo senso, si è espressa Sez. 3, n. 32380 del 25/5/2021, in una sentenza che ha ad oggetto la condotta di un uomo violento e gravemente maltrattante che, per un periodo, ha tenuto chiusa la moglie nella loro villetta togliendole le chiavi del cancello ed impedendole di uscire[25]. Più di recente, Sez. 5 n. 39722 del 09/07/2024, in un caso di maltrattamento, con morte, di un minore ha precisato che i maltrattamenti perpetrati nei confronti di un familiare possono acquistare autonoma rilevanza come atti di tortura nel caso in cui la condotta si estrinsechi in un'ulteriore sopraffazione fisica e psicologica della vittima, provocandole acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, trasformandola in una res alla mercé dell’agente, su cui accanirsi a piacimento, spersonalizzandola e disumanizzandola.
Più sentenze si confrontano con l’assorbimento del reato di lesioni nell’ipotesi “aggravata” del quarto comma dell’art. 613-bis cod. pen. Sez. 5, n. 50208 dell’11/10/2019 e Sez. 6, n. 47672 del 04/10/2023 che, affrontando la nozione di “acute sofferenze fisiche”, ritengono che non richieda la produzione di lesioni, in quanto in tal caso soccorre l’aggravante del quarto comma dell’art. 613-bis cod. pen. Colloca espressamente l’ipotesi del quarto comma tra i “delitti aggravati dall’evento” Sez. 5, n. 1243 del 20/12/2023. All’esito di un complesso ragionamento sulla fattispecie, conclude che «In tema di reati contro la persona, è configurabile il delitto di tortura, aggravato ai sensi dell'art. 613-bis, comma quarto, cod. pen. nel solo caso in cui le lesioni personali conseguite alla condotta incriminata non siano state volute dall'agente, realizzandosi, in caso contrario, un concorso di reati.»[26]
5. Non solo bullismo
Le due sentenze in commento, come altre in precedenza che si erano occupate di un caso di bullismo nei confronti di una persona il cui disagio psichico ed esistenziale lo aveva condotto ad auto- emarginazione[27], compiono un ulteriore sforzo ermeneutico, concentrandosi sulla individuazione del “nucleo” di offesa della fattispecie. Entrambe la collocano nella reificazione della vittima e dunque nella negazione profonda della dignità umana dell’individuo, costretto o limitato dalla sua posizione di debolezza e trasformato dall’agente in un “mezzo” per soddisfare i propri scopi di crudeltà o sopraffazione.
D’altra parte, anche la Corte costituzionale, nella nota sentenza n. 192 del 2023 sul ”caso Regeni” ha ritenuto che lo “status” peculiare del reato universale di tortura è connaturato alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana.
Così la pronuncia della prima Sezione sul punto: «Consistendo la tortura nell'inflizione brutale di sofferenze corporali, essa determina un grave e prolungato patimento fisico e morale dell'essere umano che la patisce, cosicché la sua particolarità risiede nella conclamata e terribile attitudine che la stessa possiede e cioè quella di assoggettare completamente la persona la quale, in balia dell'arbitrio altrui, è trasformata da essere umano in cosa, ossia in una "res" oggetto di accanimento. La sofferenza corporale, fisica e/o psichica, inflitta a una persona umana è tuttavia solo una componente della fattispecie incriminatrice, ma il contenuto preciso dell'offesa penalmente rilevante sta nella lesione della "dignità umana", che costituisce la cifra comune della lesività specifica, tanto del reato di tortura privata quanto del reato di tortura pubblica, e che si traduce nell'asservimento della persona umana e, di conseguenza, nell'arbitraria negazione dei suoi diritti fondamentali inviolabili.»
D’altra parte, anche nella condotta di tortura privata, è la signoria dell’agente sulla vittima che ne è in balia a caratterizzare in modo drammatico la condotta, oltre che l’intensità della violenza agita, signoria che disumanizza la vittima rendendola mero strumento per lo sfogo di istinti malvagi. Il caso oggetto della sentenza che rende particolarmente importante l’espressione del punto, è nel fatto – che costituisce occasione e fulcro del ricorso – che oggetto principale dell’accanimento dell’imputato non erano le bambine, ma la madre. Ciò nonostante – se si guarda ai motivi per i quali la condotta torturante è stata ritenuta dalla Suprema Corte effettivamente realizzata – nel caso in esame è valorizzata anche una sorta di spietata indifferenza nel far assistere le bambine alla agonia della madre nei confronti dei bisogni di cura e delle condizioni psichiche di esseri di per sé fragili e resi disperati dalla situazione, aprendo uno spiraglio sugli aspetti drammatici che la tortura può assumere quando ha per oggetto un bambino.
Parimenti, nella sentenza 39722/24 il passaggio da un “ordinario” maltrattamento fatto di violenza ed incuria ad un livello elevato di sevizie inferte al piccolo fino a condurlo alla morte segna la brutale disumanizzazione di cui è stato oggetto e dunque l’annientamento della sua essenza umana, oltre che della sua integrità fisica.
[1] C. Ferrara, Il nuovo delitto di tortura: la Cassazione amplia l’ambito applicativo della fattispecie? Un commento alla sentenza 8 luglio 2019 n. 47079, in Giustizia insieme 14 febbraio 2020. Sul delitto di tortura si è scritto moltissimo. Tra i primi interventi: F. Viganò, Sui progetti di introduzione del delitto di tortura in discussione presso la camera dei deputati. Parere reso nel corso dell'audizione svoltasi presso la commissione giustizia della camera dei deputati il 24 settembre 2014, in www.penalecontemporaneo.it; A. Colella, La repressione penale della tortura: riflessioni de iure condendo, in Dir. pen. cont., 22 luglio 2014; P. Lobba, Punire la tortura in Italia. Spunti ricostruttivi a cavallo tra diritti umani e diritto penale internazionale, in Dir. Pen. Cont. n. 10/2017. I. Marchi, Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo art. 613-bis c.p., in Dir. Pen. Cont. n. 7-8/2017; A. Costantini, Il nuovo delitto di tortura (art. 613 bis c.p.), in Studium iuris, 2018. Vedi anche A. Colella, La risposta dell’ordinamento interno agli obblighi sovranazionali di criminalizzazione e persecuzione penale della tortura, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc. 2, 1° giugno 2019, pag. 811, A. Colella, sub Art. 613-bis, in E. Dolcini – G.L. Gatta, Codice penale commentato, V ed., 2021, pp. 1957-1960 e S. Tunesi, Il delitto di tortura. Un’analisi critica, in Giurisprudenza penale web, 2017, 11.
[2] Sez. 1, n. 37171 del 29/04/2024 (dep. 09/10/2024). Presidente: V. Di Nicola, Estensore: F. Casa; Sez. 5, n. 39722 del 09/07/2024 (dep. 29/10/2024). Presidente, A. Guagliano, est. M.T. Belmonte.
[3] Più delicati sono i rapporti tra il delitto di tortura e quello di maltrattamenti, rientrando entrambi nello schema dei reati di durata: eventualmente abituale, il reato di tortura; necessariamente abituale quello di maltrattamenti. Sul punto si sofferma proprio la sentenza Sez. 5 n. 39722 del 09/07/2024 in commento. Vedi anche cfr. Sez. 3, n. 32380 del 25/05/2021, pubblicata in Cass. pen., 31 agosto 2021, n. 32380, in Giur. It., 2022, 194 con nota di Leotta, Ammissibile il concorso materiale tra maltrattamenti in famiglia e tortura privata. Sulla sentenza 39722/24, vedi la nota di E. Consolo, Caso Hrustic: quando i maltrattamenti in famiglia divengono tortura, in Diritto & Giustizia, fasc.203, 2024, pag. 3 e di G. Faillaci La struttura e i presupposti del delitto di tortura (Nota a Corte di cassazione penale, sez. V, 29 ottobre 2024, ud. 9 luglio 2024, n. 39722), Njus, 29 ottobre 2024.
[4] Benché indichi il reato come “comune” dalla sentenza pare evincersi che non lo sia nel caso in cui l’agente profitti o agisca in costanza di una posizione giuridica di “affidamento”: “l’asse della lesività del delitto è, pertanto, calibrato sulla natura della condotta nella tortura privata, dove non rileva affatto la qualifica soggettiva dell’agente se non limitatamente ad un elemento costitutivo di fattispecie rappresentato dai rapporti di affidamento”
[5] Cfr. LL.PP., Dossier n. 149/3, Elementi per l'esame in Assemblea, 23 giugno 2017, p. 2.
[6] Uno dei primi a segnalare il tema, F. Viganò, Sui progetti, cit., p. 5; A. Costantini, Il nuovo delitto di tortura, cit., 12; A. Provera, Art. 613-bis, in Seminara, Forti, Zuccalà (a cura di), Commentario Breve al codice penale, Padova, 2017, 2115; Ritiene invece sia fattispecie circostanziale, E. Scaroina, Il delitto di tortura, cit., 266, criticando però la scelta del legislatore. Osservano molti autori (P. Lobba, in Punire la tortura in Italia, cit., p. 23, I. Marchi, Il delitto di tortura, cit., p. 160; F. Viganò, Sui progetti, cit., p. 5). che il comma quarto, che prevede aggravi di trattamento sanzionatorio qualora dai fatti di tortura scaturiscano delle lesioni personali di differente gravità, aumenti di pena calcolati prendendo come riferimento «le pene di cui ai commi precedenti» e pertanto, così facendo, considerando il secondo comma quale circostanza aggravante, si ricadrebbe nel paradosso di un aggravante operante, in maniera anomala, su di un’altra circostanza aggravante. Vedi anche S. Larizza La problematica configurazione del delitto di tortura: da delitto a circostanza aggravante? In Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.4, 1 dic. 2023, pag. 1377.
[7] D’altra parte, la tecnica normativa che richiama per relationem la struttura di un reato aggravando la pena per uno specifico soggetto è quella cui ha fatto riferimento la Cassazione a Sezioni Unite nella sentenza n.4694 del 27/10/2011, Casani, per ritenere che «la fattispecie di accesso abusivo ad un sistema informatico protetto commesso dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico ufficio con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio costituisce una circostanza aggravante del delitto previsto dall'art. 615 ter, comma primo, cod. pen. e non un'ipotesi autonoma di reato».
[8] Sez. 3, n. 32380 del 25/05/2021.
[9] L’Italia è stata condannata dalla Corte EDU per la mancanza di strumenti normativi nella causa Cestaro c. Italia del 7 aprile 2014, concernente i fatti verificatisi durante il G8 di Genova del
2001 nella scuola Diaz. In seguito, la sentenza – sui medesimi fatti - Bartesaghi, Gallo e altri c. Italia, resa dalla Corte EDU il 22 giugno 2017 nel vagliare il grado di tutela assicurato dal nostro ordinamento ai diritti delle vittime delle violenze e riconducendole alla nozione di tortura, ha stigmatizzato la mancanza, nel sistema penale italiano, di una fattispecie penale specifica.
[10] Ritengono che la previsione di un reato di tortura “privata” sia in linea con gli obblighi internazionali derivanti da altre convenzioni, come quella F. Lattanzi La nozione di tortura nel codice penale italiano a confronto con le norme internazionali in materia, in Riv. dir. int., fasc. 1, 2018, P. Lobba, punire la tortura, cit. p. 25; A. Colella, La repressione, cit., p. 32.
[11] Osserva la dottrina (cfr. A. Cisterna, Colmata una lacuna, ma molte nozioni restano poco precise, in Guida dir., 2017, n. 39, 18 ss.) come, nella parte in cui la persona offesa viene descritta come «persona affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza» del reo, effettuando un ragionamento analogo rispetto alle omologhe fattispecie di cui all’art. 570 e 591 c.p., si ritiene configurabile un reato proprio, dal momento che l’impiego del termine «affidamento» comporta la protezione dell’incolumità fisio-psichica di colui che è sottoposto ad una qualunque forma di auctoritas o potestas altrui, determinando un status giuridicamente formalizzato.
[12] P. Lobba, punire la tortura, cit., a p. 27 cita il caso del sequestro di Abu Omar compiuto da agenti USA. Altre ipotesi citate dall’A. sono gruppi neofascisti, “ronde” organizzate da privati cittadini, associazioni criminali, gruppi terroristici, o organizzazioni private che pongono in essere violenze contro soggetti vulnerabili quali migranti o anziani loro affidati.
[13] Sez. 1, Sentenza n. 26999 del 02/02/2022 Sez. 5, Sentenza n. 20726 del 28/03/2024.
[14] In data 16 giugno 2017, alla vigilia dell'approvazione finale da parte della Camera, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Nils Muiznieks, indirizzava una nota con cui rappresentava talune preoccupazioni su alcuni aspetti del testo approvato dal Senato e ritrasmesso alla Camera, in contrasto, a suo avviso, con la giurisprudenza della CEDU, con le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, introdotto dall’art. 1 della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a Strasburgo il 26 novembre 1987, e con la Convenzione CAT. Tra le varie preoccupazioni manifestate, quella che il testo approvato dal Senato, in parte divergente dalla definizione contenuta nella proposta di legge rispetto a quella di cui all'art. 1 della Convenzione ONU sulla tortura con il rischio che episodi di tortura o di pene e trattamenti inumani o degradanti restino non normati, adotta una definizione ampia di tortura, che ricomprende anche i comportamenti di privati cittadini, con possibile indebolimento della tutela contro le torture inflitte per mano di pubblici ufficiali. In particolare, le preoccupazioni manifestate dal Commissario si riferiscono al fatto che, per la configurabilità del reato di tortura, siano necessarie "più condotte di violenza o minacce gravi ovvero crudeltà"; che la tortura si configuri anche in presenza di trattamenti inumani e degradanti (laddove l'articolo 3 della Convenzione EDU prevede la disgiuntiva "trattamenti inumani o degradanti"); inoltre, quanto alla tortura di tipo psicologico, che essa cagioni un trauma verificabile sotto tale profilo. La nota del Commissario europeo sottolinea ancora che vi sono altri aspetti di. Inoltre, la nota, considerato che il testo approvato dal Senato adotta una definizione ampia di tortura che ricomprende anche i comportamenti di privati cittadini, sottolinea l'importanza di garantire che questo non conduca a indebolire la tutela contro le torture inflitte per mano di pubblici ufficiali.
In conclusione, il Commissario rileva che le nuove disposizioni dovrebbero prevedere pene adeguate per i responsabili di atti di tortura o pene e trattamenti inumani o degradanti, avendo quindi un effetto deterrente e dovrebbero garantire che la punibilità per questo reato non sia soggetta a prescrizione, né sia possibile emanare in questi casi misure di clemenza, amnistia, indulto o sospensione della sentenza.
[15] Vedi sul punto E. Scaroina, Il delitto di tortura. L’attualità di un crimine antico, Bari, 2018, p. 263- 266
[16] V. dottrina citata a nota 10 e da P. Lobba, punire la tortura, cit., a p. 27, in nota.
[17] Molte pronunce, rese in sede di impugnazione cautelare, riguardano le condotte di funzionari e agenti della Polizia Penitenziaria in occasione delle agitazioni dei detenuti verificatesi nei penitenziari italiani nella primavera del 2020, definita 'perquisizione straordinaria', posta in essere dal personale di Polizia Penitenziaria per soffocare, tramite 'violenti pestaggi' la protesta inscenata dai detenuti del reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Si tratta delle sentenze di legittimità nn. 4929, 4931, 8971, 8973 del 2021 (dep. 2022) e 17111 del 2021 (dep. 2022). La sentenza Sez. 5, n. 1243 del 2022 riguarda condotte di tortura di appartenenti alla Polizia penitenziaria all’interno della Casa circondariale di Ferrara è stata commentata in Cassazione Penale, fasc.6, 2024, da C. Rossi.
La sentenza Sez. 6, n. 47672 del 2023 riguarda il pestaggio brutale di detenuti nella caserma Levante di Piacenza. Di recente il reato di tortura è contestato nelle misure cautelari emesse dal GIP di Trapani per episodi di violenza organizzata ai danni dei detenuti.
[18] Sono stati infatti presentati, e assegnati alla Commissione Giustizia del Senato, due disegni di legge finalizzati a introdurre modifiche alla disciplina penalistica della tortura: il ddl n. 341 («Modifiche al codice penale in materia di introduzione di una circostanza aggravante comune in materia di tortura») e il ddl n. 661 («Modifiche agli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale, in materia di tortura e istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura»).
[19] Estremamente critico sulla struttura della norma è T. Padovani, Tortura: adempimento apparentemente tardivo, inadempimento effettivamente persistente, in <discrimen.it>, 4 settembre 2018, 27-32. Vedi anche S. Amato e M. Passione, Il reato di tortura. Un’ombra ben presto sarai: come il nuovo reato di tortura rischia il binario morto, in Diritto penale contemporaneo web. 15 gennaio 2019.
[20] Si tratta di Sez.1, n. 30380 del 12/07/2024, che, in relazione alla aggravante del terzo comma dell’art. 12 Dlg. 286/98, trae la definizione dalla giurisprudenza della Corte EDU: « non è infrequente che la Corte - che in più occasioni ha definito il divieto (di trattamenti inumani o degradanti) in questione «un principio fondamentale delle società democratiche» (Corte Edu, 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito) - utilizzi l'espressione «trattamento inumano e degradante» quasi si trattasse di un'endiadi, così facendo residuare zone d'ombra sulla linea di confine fra i trattamenti inumani e quelli degradanti; in altre occasioni, tuttavia, i giudici di 7 Strasburgo, chiamati a riempire di contenuti un precetto solennemente declamato ma non accuratamente definito, hanno chiarito che il trattamento inumano è quello che infligge una sofferenza fisica o psicologica, se non una vera e propria violenza sul corpo della persona, di particolare intensità, capace di suscitare nella vittima sentimenti di paura e angoscia (Corte Edu, 18 gennaio 1978, Irlanda c. Regno Unito)Corte Edu, 18 gennaio 1978, Irlanda c. Regno Unito), premeditato e prolungato nel tempo (Corte Edu, 15 luglio 2002, Kalashnikov c. Russia), e che, invece, il trattamento degradante è quello che cagiona una lesione particolarmente grave della dignità umana (Corte Edu, 16 marzo 2010, Orsus c. Croazia), che umilia o svilisce l'individuo suscitando sentimenti di paura, angoscia o inferiorità capaci di infrangerne la resistenza morale e fisica (cfr. Corte Edu, 15 giugno 2010, Harutyunyan c. Armenia).»
[21] Si tratta della prima sentenza ad affrontare un caso di tortura attuata mediante atti di bullismo. Sulla pronuncia, v. la nota di C. Ferrara, Il nuovo delitto di tortura: la Cassazione amplia l’ambito applicativo della fattispecie? Un commento alla sentenza 8 luglio 2019 n. 47079, su questa Rivista e A. Merlo Primo intervento della Cassazione sul reato di tortura in un caso di bullismo, in Il Foro Italiano, 2020, fasc. 3, p.2. Per un altro caso di tortura di persona in condizioni di minorata difesa perché affetta di patologie psichiche, cfr. Sez. 5, n. 18075 del 23/03/2023, con nota di S. Rizzuto, V. Tigano, Tortura su una vittima in condizioni di minorata difesa e diniego delle circostanze attenuanti generiche, in Foro It. 12/23. Su questa ed altre sentenze, cfr. A. Colella, La Cassazione si confronta, sia pure in fase cautelare, con la nuova fattispecie di tortura (art. 613-bis c.p.) in Sist. Pen. 16 gennaio 2020.
[22] E. Scaroina, op. cit., 272 individua un’ulteriore fondamento dell’utilizzo del termine verificabile, ossia per rafforzare «l’esigenza che in sede di applicazione concreta siano valutati con estrema cautela gli effetti di natura psicologica prodotti dalla condotta: nella consapevolezza della difficoltà di prova dell’evento del reato e del rischio che l’onere del suo accertamento possa essere ritenuto assolto in virtù della mera verifica della sussistenza della condotta, si è voluto cioè richiamare l’interprete a un riscontro puntuale ed effettivo, al di là cioè di semplificazioni e presunzioni, anche di effetti sfuggenti quali le sofferenze da un lato e il trauma psichico dall’altro».
[23] In sede di discussione parlamentare (cfr. Dossier servizio studi, Dipartimento giustizia della Camera, seduta del 23 giugno 2017) Già dal dibattito in prima lettura al Senato (Assemblea, 5 marzo 2014) emerge dalle parole del relatore (sen. D'Ascola) come si sia ritenuto di qualificare le sofferenze cagionate dalla tortura "come acute, traendo questo termine dalla medicina, da quella generale ma anche dalla medicina legale, che ha elaborato il concetto di un'acuta sofferenza come un concetto ristretto e determinabile. Quindi, il legislatore penale ha guardato anche ad altri rami del nostro sistema e, in particolare, alla scienza medica e ai contenuti e ai significati elaborati dalla scienza medica, come si conviene fare allorquando il legislatore apre una finestra su settori diversi dall'ordinamento giuridico in generale e dall'ordinamento giuridico in particolare e sostanzialmente richiama, nel contesto di quella scienza, le elaborazioni che sono proprie di quel determinato settore scientifico". Tra le osservazioni presentate nel giugno 2017 dalla Commissione affari costituzionali vi era quella sulla opportunità di eliminare l’aggettivo “verificabile” in relazione al trauma psichico.
[24] Sotto quest’ultimo profilo, sin dal 2016, Tullio Padovani criticava in modo sferzante l’inserimento dell’aggettivo ‘‘verificabile’’, ritenendolo “assurdo”, giacché ‘‘ogni requisito della fattispecie tipica deve essere, oltre che ‘‘verificabile’’, soprattutto ‘‘verificato’’: altrimenti, su quali basi si pronuncerebbe una sentenza di condanna?’’. T. Padovani, Tortura: adempimento apparentemente tardivo, cit. pp. 31-32
[25] La sentenza è pubblicata in Foronews 27 settembre 2021. Con nota di V. Romano Gravi episodi di violenza domestica: secondo la Cassazione è configurabile il reato di tortura in concorso con quello di violenza sessuale e maltrattamenti. (Nota a Corte di cassazione penale, sez. III, 31/09/2021, n. 32380)
[26] Il tema è affrontato in una nota a sentenza di A. Merlo, Il reato di tortura in Italia: un personaggio in cerca di un autore (migliore). (Tortura – Lesioni personali), in Giur. It., 2024, fasc. 6, P. 1423 ss. Sulla natura di delitto aggravato dall’evento della fattispecie del quarto comma, cfr. A. Colella, op. cit., p. 9.
[27] Oltre che la sentenza n. 47079/19, che ha affrontato un caso di bullismo in sede di ricorso cautelare, la quinta Sezione si è occupata del medesimo caso di bullismo in altre sentenze, afferenti diverse posizioni cautelari nel medesimo procedimento: la n. 4755 del 15/10/2019 e la 50208 dell’11/12/2019.
Immagine: David Wilkie, Guess my name, 1921, Chicago Art Institute.
Avevo 12 anni quando è morto Berlinguer, la Bari era in semifinale di coppa Italia e mia nonno disse che era un signore (che al Meridione è un gran complimento).
Insomma sono uno “di mezzo”, il più giovane di vecchi fra noi.
Il film di Segre è certamente affascinante per chi si occupa di politica.
Affascinante per le immagini di repertorio, per la colonna sonora, per i bozzetti molto gustosi dei politici di allora (anche se Ingrao, Terracini, Andreotti e Cossutta sembrano maschere da Bagaglino, per chi lo ricorda).
Affascinante perché restituisce un modo di fare politica fatto di riunioni infinite, di discorsi cesellati a penna, di adunate oceaniche.
Un modo morto dall’inizio degli anni ' 80, nel volgere del passaggio dalla stagione di Moro e Berlinguer a quella di Craxi e poi Berlusconi, Veltroni, Renzi ed i nostri giorni.
Al Maxxi c’è’ la mostra sulla Rai: andate a vedere una puntata di Mixer con Berlinguer, con il suo periodare lungo, e poi una con Craxi, con le sue pause e battute ad effetto.
Passano pochi mesi l’una dall’altra ma sembrano epoche politiche e dialettiche lontane decenni.
Come ha detto bene Segre non è un film politico (molto di più lo sono stati – per assurdo – quelli di Bellocchio) ma un film sulla solitudine.
Lui era solo in famiglia, che lo prendeva in giro chiamandolo “grigio funzionario”.
Solo, ed a rischio di vita, nelle trasferte nel blocco sovietico.
Solo nelle riunioni nelle direzioni di partito, dalle quali si allontanava per “trattare” da solo e in segreto con Moro.
Solo nelle regate a Stintino.
Si confronta con i figli (che hanno aiutato a scrivere il film) solo quando li convoca per chiedergli di lasciarlo morire, ancora una volta solo, se dovesse essere rapito.
Ma non li capisce e rimane stizzito quando parteggiano per i movimenti di piazza e gli indiani metropolitani.
È assurdo che fosse solo chi parlava innanzi piazze gremite.
La solitudine di Berlinguer è infatti soprattutto storica, un’asincronia rispetto al presente.
Dobbiamo chiederci se era in anticipo o drammaticamente in ritardo sui tempi. Se l’emancipazione dall’URSS sia avvenuta troppo tardi. Se il desiderio di salvare la specificità italiana l’abbia talmente impegnato da non metterlo nelle condizioni di capire la modernità e mitigarne gli effetti negativi. Di non intercettare e gestire il disagio giovanile, il ribellismo degli anni '70, la generazione persa appresso alla eroina e poi la televisione a colori, l’edonismo degli anni '80, i nuovi eroi popolari e capaci di riempire le piazze (da Giovanni Paolo II a Lech Wałęsa, da Lady D a Reagan, non per nulla citati nelle ultime immagini del film).
Come PPP è morto troppo presto per capire cosa avrebbe fatto nei decenni successivi.
Proprio la loro morte “eroica” ha contribuito a trasformaRli in “santino” (piacciono tutti e due a tutti: a destra e a sinistra) forse perché in quanto morti non hanno potuto reagire alla versione di maniera nella quale sono stati ridotti.
Il film di Segre ha, almeno, il merito di restituire a Enrico Berlinguer una dimensione umana, intima, e magari a «dissolvere la retorica un po’ troppo autoindulgente secondo cui l’impegno e la rettitudine appartengono solo a un passato irraggiungibile».
“Magistrati con funzioni di livello internazionale”: il d.lgs. 45 del 2024 cambia pagina e segue l’esempio degli altri Paesi europei
Sommario: 1. Premessa – 2. La genesi e le ragioni – 3. Il nuovo status degli incarichi ex art. 11 (3) – 4. Gli incarichi ex artt. 11 (3): contenuti – 5. Magistrati con funzioni di livello internazionale
1. Premessa
La legge 17 giugno 2022 n. 71 ha inaugurato un’importante stagione di riforma dell’ordinamento giudiziario delegando l’Esecutivo a riscrivere buona parte delle norme incluse nel Regio Decreto 30 gennaio 1941, n. 12 e ad introdurre nuove regolamentazioni per specifici settori ordinamentali. Nell’ambito di discipline settoriali dedicate, il Legislatore delegato ha iscritto la nuova regolamentazione per il collocamento fuori ruolo dei magistrati, confluita nelle nuove disposizioni di cui al Decreto legislativo 28 marzo 2024 n. 45 (di attuazione della delega legislativa di cui all’art. 1, comma 1, della legge 71/2002). Spicca, nel nuovo riordino delle regole, la neonata disciplina ad hoc per gli incarichi fuori ruolo svolti in ambito internazionale.
2. Le genesi e le ragioni
In termini generali, il collocamento fuori ruolo è la destinazione di un dipendente pubblico ad una amministrazione o organo diversi da quello di appartenenza, per svolgervi temporaneamente una prestazione lavorativa.
Lo statuto ordinamentale dei magistrati (il r.d. 12/1941) tipizza esclusivamente una tipologia di collocamento fuori ruolo dei magistrati, ossia quello con destinazione presso il Ministero della giustizia (art. 196). Prevede, poi, la generale possibilità che ai magistrati siano conferiti incarichi in virtù dei quali debba essere “sospeso il servizio giudiziario” (art. 210), quanto a dire il collocamento fuori del ruolo organico della magistratura. La disciplina originaria è, quindi, scarna dal punto di vista dei contenuti normativi. Il più sostanziale (successivo) intervento normativo (sulla base della delega di cui alla legge n. 150/2005), è il Decreto legislativo 5 aprile 2006 n. 160, che regola in modo innovativo la materia ma nulla specifica quanto ad eventuali incarichi svolti in ambito internazionale. Insomma, ancora non esiste una disciplina normativa specifica per i “magistrati che svolgono incarichi a livello internazionale”.
Il maggiore interesse per un arsenale di regole dedicato risponde, invero, ad una rapida e importante evoluzione dell’ordinamento italiano nel contesto della comunità internazionale e, più in particolare, quella europea, profondamente trasformata dall’entrata in vigore, nel 2009, del Trattato di Lisbona (successivo, quindi alla legge delega del 2005 che è, in effetti, anteriore anche alla firma del Trattato UE di riforma). Nello spirito del r.d. n. 12 del 1941, la destinazione di magistrati al Ministero della Giustizia risponde all’esigenza di garantire che l’obiettivo di presidiare l’indipendenza e i principi costituzionali che governano la giurisdizione possa godere, almeno in parte, della presenza della magistratura, poiché prima destinataria delle norme da attuare ed applicare per la funzione assegnata in via esclusiva dalla Carta costituzionale, in modo scevro da ogni conflitto di interessi. Essendosi, nel tempo, spostato il centro legislativo in modo sostanziale verso un sistema multilivello – là dove decisioni anche fondamentali sono assunte in contesti internazionali e non a Roma – è maturata sempre più la consapevolezza di dover “allargare” l’orizzonte rafforzando la presenza degli esperti nei centri normativi europei e della comunità internazionale.
Basti pensare che, in tempi recenti, tramite un atto europeo (Reg. UE 2017/1939) è stata finanche modificata la stessa struttura e composizione dell’ordinamento giudiziario mediante la creazione della Procura giudiziaria europea («EPPO») che ha comportato (ad oggi) l’aumento del ruolo organico del personale della magistratura ordinaria (di 20 unità; v. legge n. 142/2021) e la creazione delle nuove figure dei pubblici ministeri europei delegati (PED) presso i Distretti individuati dal legislatore; ma, soprattutto, la creazione di una nuova autorità giurisdizionale europea che svolge indagini, esercita l’azione penale ed esplica le funzioni di pubblico ministero dinanzi agli organi giurisdizionali competenti degli Stati membri per i reati attribuiti alla sua competenza.
Al contempo, il ricorso all’utilizzo dei magistrati in contesti internazionali ed europei è sempre più diventato una esigenza fondamentale per garantire la partecipazione dell’Italia a strumenti di cooperazione giudiziaria multilivello e la presenza della magistratura in reti (network) molto importanti per lo scambio di informazioni, il supporto e l’assistenza all’attività giurisdizionale. Si pensi, ad esempio, ai magistrati di collegamento, alle reti giudiziarie europee, ai progetti internazionali dedicati ai giudici.
In un contesto del genere, così rinnovato, è stata fortemente avvertita l’esigenza di dotare l’ordinamento italiano di nuove regole specifiche per allineare le norme interne alle nuove esigenze, al passo con le risposte già da tempo offerte dalla maggior parte degli altri Stati Membri dell’UE superando molteplici problemi determinati alla presenza di un'unica disciplina nazionale valevole per ogni tipo di incarico, vuoi nazionale che di tipo internazionale.
Il Legislatore ha così approvato, in occasione della legge 17 giugno 2022 n. 71, di riforma dell’ordinamento giudiziario, una specifica delega per l’introduzione – per la prima volta in Italia – di un regime giuridico ad hoc regolativo degli incarichi svolti a livello internazionale, contenuto nell’art. 5 che riguarda il “collocamento fuori ruolo dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili”. In questa disposizione, spicca il comma 1, lett. i) dove l’Esecutivo è delegato a “disciplinare specificamente, con regolamentazione autonoma che tenga conto della specificità dell'attività, gli incarichi fuori ruolo svolti in ambito internazionale”, quanto a dire un ventaglio di disposizioni “specifiche” ed “autonome”, quindi, collocate in una cornice regolatoria fuori dal regime generale del fuori ruolo generico.
“La disposizione appare espressione della consapevolezza da parte del legislatore dell’obbligo per l’Italia di contribuire al funzionamento delle autorità giudiziarie internazionali ed europee e delle relative missioni, attraverso la partecipazione ad esse di magistrati ordinari, delle peculiarità delle attività svolte in ambito internazionale e della conseguente necessità di disciplinare specificamente gli incarichi in questione” (CSM, parere 16 marzo 2022).
La legge delega non ha indicato, in modo chiaro, quale soluzione adottare per dare corpo al nuovo status dei magistrati cui conferiti incarichi internazionali e non ne ha in modo preciso delimitati i confini (in quali casi?). Nel suo parere del CSM, del 16 marzo 2022, il CSM ha, tuttavia, suggerito al Legislatore delegato una precisa strada da percorrere: “anche sulla scorta di recenti novità normative a livello europeo, che hanno evidenziato il progressivo espandersi delle attività giudiziarie transfrontaliere”, si avverte “l’esigenza di superare la tradizionale dicotomia degli incarichi in ruolo/fuori ruolo” al fine di tener presente l’obbligo per l’Italia di “garantire l’assegnazione di magistrati italiani senza frapporre ostacoli dettati dalla normativa interna”.
3. Il nuovo status degli incarichi ex art. 11 (3)
Il decreto legislativo n. 45 del 2024 realizza gli obiettivi presi di mira dalla legge n. 71/2022 introducendo una disciplina specifica per gli incarichi fuori ruolo svolti in ambito internazionale. Più nel dettaglio, il regime differenziato e di favore è quello racchiuso nell’art. 11 comma 3 che riguarda gli incarichi conferiti ai magistrati per funzioni da svolgere in ambito internazionale beneficiando di uno status diverso: magistrati che possono essere qualificati come aventi “funzioni di livello internazionale” per distinguerli da tutti gli altri incarichi all’estero che non ricadono nel regime giuridico ad hoc introdotto dal d.lgs. n. 45 del 2024).
Gli incarichi ex art. 11 (3) sono quelli “di coordinamento e/o di supporto all’attività giudiziaria e giurisdizionale svolti a livello internazionale”.
Il Legislatore delegato regola diversi aspetti: 1) lo status dei magistrati cui conferiti incarichi ex art. 11 (3); 2) le condizioni per beneficiare di questo status (“in quali casi”); 3) la disciplina applicabile.
Il decreto legislativo n. 45/2024, per tutti questi tre aspetti principali, dà corpo alla delega legislativa non provvedendo, tuttavia, a una disciplina autonoma ma, piuttosto, inserendo norme specifiche nel corpus generale, ove spicca, perché la più importante, l’art. 11, comma 3. Questo “innesto” della disciplina speciale nell’ambito del regime giuridico generale non ha giovato alla chiarezza del regime applicabile e, anzi, invero, registra anche alcune contraddizioni.
Ad ogni modo, quanto allo “status” dei magistrati cui conferiti incarichi internazionali, il d.lgs. 45/2024 segue la linea indicata dal CSM e supera la stretta dicotomia tra magistrati “in ruolo” e “fuori ruolo”.
La modifica normativa, dal carattere del tutto inedito, inaugura, infatti, una categoria di magistrati formalmente “fuori ruolo” la cui attività, però, si considera come “effettivo esercizio delle funzioni proprie della magistratura”. È quanto chiarisce l’art. 4 sui requisiti per il collocamento fuori ruolo. Infatti, “il collocamento del magistrato fuori ruolo non può essere autorizzato se (…) sono decorsi meno di dieci anni di effettivo esercizio delle funzioni proprie della magistratura” (art. 4, comma 1, lett. a). A questi fini, lo svolgimento degli incarichi di cui all'articolo 11, comma 3 è computato come effettivo esercizio (v. art. 4, comma 2). Così, pure, chiarisce la circolare del CSM n. 13778 del 24 luglio 2014 (“Disposizioni in tema di trasferimenti dei magistrati, conferimento di funzioni e destinazione a funzioni diverse da quelle giudiziarie”), aggiornata il 24 luglio 2024. Il nuovo articolo 104 (Requisiti per il collocamento fuori ruolo) specifica che “ai fini del computo del periodo di effettivo servizio si tiene conto (…) dei periodi in cui il magistrato ha svolto incarichi di coordinamento e/o di supporto all’attività giudiziaria e giurisdizionale svolta a livello internazionale” (art. 11, comma 3, d.lgs. n. 45/2024).
Insomma: il magistrato svolge funzioni effettive proprie della magistratura anche quando svolge un incarico ex art. 11 (3).
La nuova disciplina, ovviamente, con riguardo a tale aspetto, si applica anche per gli incarichi già svolti alla data di entrata in vigore della normativa, ove possano essere qualificati come “11, comma 3”.
La natura speciale e autonoma di questa tipologia di incarico è testimoniata anche da altri elementi di disciplina normativa: ad esempio, gli incarichi di cui all’art. 11, comma 3, “possono essere autorizzati anche nel caso in cui sia raggiunto il numero massimo” di magistrati fuori ruolo (180): proprio perché non si computano in questo numero.
Si tratta, dunque, di un tertium genus in cui l’attività fuori ruolo è equiparata a quella giudiziaria tipica. Proprio per tale ragione, questo tipo di incarico non è sottoposto ad alcun termine di durata e prescinde da eventuali periodi di fuori ruolo “ordinario” precedentemente prestati.
Gli incarichi dei magistrati ex art. 11, comma 3, ottengono, dunque, un generale favore rispetto agli altri e ancor più rispetto agli ordinari generali (non internazionali) per i quali finanche la durata massima è ridotta a sette anni. Questo “cambio di pagina” è razionale e ha una precisa giustificazione: in primo luogo, gli incarichi internazionali sono una minima e ridottissima parte di quelli complessivi fuori ruolo (quindi l’impatto è esiguo); in secondo luogo, testimoniano la consapevolezza del fatto che la magistratura deve poter presenziare, senza ostacoli formali, in quelle sedi in cui può essere in gioco la stessa indipendenza dei magistrati e dove si trova la genesi del diritto UE e sovranazionale che poi la giurisdizione dovrà applicare e interpretare.
4. Gli incarichi ex artt. 11 (3): contenuti
Il decreto legislativo n. 45 del 2024 non tipizza gli incarichi internazionali ex artt. 11, comma 3 e ciò a ragione: il criterio identificativo è sostanziale (“cosa fanno”) piuttosto che formale (“quali sono”) e ciò proprio in linea con gli obiettivi della riforma che, come detto, punta a garantire la partecipazione dell’Italia ai più importanti processi decisionali sovranazionali con impatto sul comparto Giustizia. Ciò nondimeno, la disposizione enuclea delle specifiche coordinate e disegna i criteri che fungono da cartina da tornasole per poter accertare se un incarico sia o non “speciale” nei sensi di cui all’art. 11, 3 cit.
Si tratta di incarichi che hanno ad oggetto attività di “coordinamento” oppure (in senso di alternativa) di “supporto”. Quindi, rientrano nella norma sia le attività di supporto che quelle di coordinamento. Questa essendo l’attività, essa deve poi rivolgersi ad una precisa finalità: il coordinamento/supporto deve avere come destinataria “l’attività giudiziaria” oppure (in senso di alternativa) “l’attività giurisdizionale”. Infine, c’è un elemento di contesto: gli incarichi devono essere “svolti a livello internazionale”.
La disposizione è stata oggetto di un minuzioso parere dell’Ufficio studi del CSM del 20 marzo 2024 che, in prima lettura, ha offerto una interpretazione della nuova norma.
Il punto di partenza del CSM è la “constatazione che le attività giudiziarie svolte a livello nazionale sono sempre più condizionate da scelte di politica giudiziaria che vengono adottate al di fuori dei confini nazionali. Ciò trae conferma dalla evidenza di un ordinamento giuridico sempre più permeato dalle norme internazionali di origine regionale (UE) o globale (Convenzioni internazionali) con il connesso diritto-dovere di prendere parte a detto processo di formazione delle scelte sovranazionali”. La disposizione intenderebbe, quindi, rivolgersi proprio a queste attività tenendo conto della lettera della norma anche del suo spirito; in concreto, sarebbero incarichi ex art. 11, comma 3 quelli “che si occupano di elaborare proposte normative in materia di giustizia (sempre più spesso direttamente applicabili nell’ordinamento giuridico interno) o che gestiscono reti di cooperazione giudiziaria in materia civile o penale”. Per il CSM “si tratta infatti di incarichi orientati alla elaborazione, attuazione, coordinamento o monitoraggio di politiche giudiziarie e che hanno un impatto diretto sull’amministrazione della giustizia a livello nazionale, in quanto intesi a verificare il modo in cui il nostro ordinamento si conforma al diritto sovranazionale partecipando alle scelte sottese al modo di essere di quest’ultimo”.
Dando corpo a questa lettura, rientrerebbero nell’art. 11 comma 3 gli incarichi aventi una ricaduta sulla giurisdizione o sull’amministrazione della Giustizia come l’attività di negoziazione bilaterale dei Trattati in materia di estradizione, di trasferimento dei detenuti e di assistenza giudiziaria, ovvero di accordi dal contenuto tecnico-giuridico destinati a disciplinare le relazioni fra autorità giudiziarie, nonché quelle di formazione degli atti normativi europei e internazionali, la negoziazione dei regolamenti e delle direttive europee presso gli organi legislativi dell’Unione.
In buona sostanza confluirebbero nella nozione di incarichi ex art. 11(3) tutti quelli deputati a svolgere funzioni di cooperazione giudiziaria internazionale o di partecipazione dell’Italia, a mezzo del magistrato, ai processi decisionali che incidono sulla Giustizia italiana: da qui, l’appellativo “magistrati con funzioni internazionali” (dove rientrano anche quelli preposti alla cd. legal diplomacy).
Si tratta di un criterio di lettura che coglie nel segno e, soprattutto, da un lato conferisce razionalità e dall’altro indica una direzione univoca al tessuto legislativo di riferimento.
La ratio dell’intervento normativo è quella di rafforzare la partecipazione dell’Italia ai processi sovranazionali che riguardano la “Giustizia”, intesa come attività dei magistrati (attività giurisdizionale) o amministrazione e gestione giudiziaria (attività giudiziaria). È anche quella di incentivare e rafforzare i modelli di cooperazione che sono, oggi, essenziali per il buon funzionamento della stessa giurisdizione: l’istituzione e il coordinamento delle reti giudiziarie; i contributi a livello internazionale per la lotta alla corruzione; il lavoro svolto a livello di multilateralismo per favorire i rapporti internazionali (ad es., a livello di Conferenza dell’Aja). In tutti questi casi, il magistrato incaricato ex art. 11(3) diventa uno “strumento” della magistratura, un tassello di un più ampio disegno in cui alle classiche funzioni “interne” si affiancano funzioni “esterne”, in poli strategici.
Prendono così corpo i concetti di “supporto” e “coordinamento” che, principalmente, richiamato le attività di cooperazione giudiziaria solta a livello internazionale.
Il coordinamento è, ad esempio, quello che svolge, in senso tecnico, il magistrato di collegamento o l’esperto presso le reti giudiziarie internazionali: quanto a dire mettere in contatto diversi soggetti al fine di facilitarne i rapporti, lo scambio di informazioni o la collaborazione. E ciò a beneficio della giurisdizione.
Il supporto “giuridico” è l’assistenza, anche sotto forma di consulenza, partecipazione tecnica ai lavori negoziali che riguardano i temi della Giustizia.
In entrambi i casi, si tratta di attività non giurisdizionali o giudiziarie ma nemmeno tout court “amministrative”, che riverberano i loro effetti direttamente sull’Amministrazione della Giustizia nel suo complesso. Nell’ottica dell’art. 11 (3) sono, però, attività svolte in un livello “internazionale” concetto da intendere in senso classico ossia “all’estero”. Questo criterio limita notevolmente il numero degli incarichi che ricadono nell’art. 11(3) ma, a ben vedere, è proprio per la presenza italiana “all’estero” che si è avvertita l’esigenza di un regime speciale particolareggiato alla luce degli effetti fisiologici che comporta la mobilità internazionale. È proprio in questo caso – permanenza all’estero – che si giustifica la rimozione dello sbarramento dei termini massimi di “fuori ruolo” proprio per garantire la continuità della presenza in loco degli esperti italiani fintanto che l’interesse primario persiste o l’attività in corso non venga completata.
Volendo trarre delle conclusioni pratiche, si possono individuare delle specifiche categorie di incarichi che, in linea di principio, ricadono nell’art. 11 (3) perché si sostanziano in attività di supporto o coordinamento ad attività giurisdizionali o giudiziarie.
A ben vedere, sulla base delle stringenti coordinate normative, gli incarichi di diplomazia giuridica non sono numerosi e sono tutti accomunati da uno stesso identico tratto comune: incarichi internazionali la cui attività ha effetti diretti sul “mondo della Giustizia”.
1) Gli esperti impegnati in progetti internazionali di cooperazione giudiziaria. Si tratta di quei progetti ufficiali basati su accordi internazionali (in primis europei) che prevedono la partecipazione di magistrati per realizzare obiettivi comuni quali la conclusione di Trattati di cooperazione giudiziaria o lo scambio strategico di informazioni tra le autorità giudiziarie. Si pensi, ad esempio, al programma regionale europeo di assistenza tecnica ai paesi dell’America Latina «EL PAcCTO» istituito dal Vertice dei Capi di Stato e di Governo UE-CELAC che, di recente, ha portato all’adozione di un protocollo multilaterale per la protezione delle vittime di tratta e di traffico di esseri umani (a uso di giudici, pubblici ministeri, etc.). Non a caso, proprio il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e l’IILA (Organizzazione internazionale italo-latino-americana) hanno affermano che questo progetto “coordina e supporta l’attività giudiziaria e giurisdizionale a livello internazionale nella lotta alla corruzione e alla dimensione economica del crimine”.
2) Gli esperti giuridici destinati a missioni diplomatiche ma limitatamente a quelli che sono impegnati direttamente in attività di cooperazione giudiziaria e assistenza/coordinamento nei sensi già spiegati. In questo senso, possono essere richiamati gli esperti giuridici presso le Rappresentanze Permanenti. Può essere citato, a titolo di esempio, il più recente esempio di coordinamento e assistenza all’attività (in questo caso) giurisdizionale. La Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Unione europea – a mezzo dei suoi esperti giuridici – ha coordinato e negoziato il testo di atto del Consiglio dell’UE che, a giugno del 2024, ha istituito la nuova “rete giudiziaria europea contro la criminalità organizzata” (EJOCN): si tratta di un nuovo polo strategico che riunisce pubblici ministeri di tutti gli Stati Membri che, con il supporto di Eurojust e il coordinamento delle Rappresentanze ha, tra l’altro, i seguenti compiti: a) attività di individuazione e di registrazione delle tendenze e delle modalità operative dei gruppi della criminalità organizzata; b) orientamenti strategici per la lotta al traffico di droga e alla criminalità organizzata; c) agevolare ulteriormente il lavoro operativo di Eurojust, delle squadre investigative comuni (SIC) e delle autorità di contrasto; d) informare sulle implicazioni del quadro giuridico diversificato all'interno e all'esterno dell'Europa. La Rappresentanza Permanente d’Italia ONU ha seguito e negoziato i lavori che hanno condotto all’accordo per l’importantissima Convenzione ONU sulla lotta al “cybercrime”. In tutti i casi, tramite il supporto e il coordinamento delle Rappresentanze, viene innovato o modificato proprio il substrato normativo della giurisdizione: si pensi, a titolo di esempio, al nuovo massiccio innesto UE di proposte legislative nel settore del diritto penale sostanziale (es. Direttiva UE sulla violenza contro le donne, n. 1385/24), del processo civile (Direttiva UE cd. SLAPP sulle liti temerarie, n. 1069/24) o della giustizia digitale (v. Reg. UE n. 2844/24 sulla digitalizzazione).
3) Gli esperti preposti a svolgere l’attività di negoziatori per strumenti giuridici vincolanti deputati a introdurre norme nel settore della Giustizia e, quindi, aventi un impatto rilevante sulla magistratura e, in generale, sull’amministrazione della giustizia. Valga considerare, tra i tanti esempi, uno eclatante: l’istituzione della Procura europea (EPPO) che ha radicalmente modificato il volto dell’ordinamento italiano (Regolamento UE 2017/1939 relativo all'attuazione di una cooperazione rafforzata sull'istituzione della Procura europea. In questo ambito ricadono anche gli incarichi di “esperto nazionale distaccato” (END), espressamente citati da parere dell’Ufficio studi del CSM ma, anche in questo caso, esclusivamente per quegli END che, per l’appunto, sono svolti nel settore della Giustizia.
4) Gli esperti con incarichi in reti giudiziarie e gli esperti nazionali distaccati – cd. END – purché con attività che resta nella cornice della “giustizia” (citati espressamente dal parere dell’Ufficio studi del CSM). La maggior parte degli incarichi di esperti nelle reti giudiziarie non è svolta, invero, in regime di collocamento fuori ruolo ma come incarico extragiudiziario perché si tratta di posizioni che comportano sporadicamente impegni di mobilità all’estero. Nei casi in cui, invece, l’attività sia prevista come da svolgersi in modo permanente all’estero, allora ci si ritrova nell’art. 11 (3). Si può citare, facendo sempre riferimento a casi recenti, ai magistrati incaricati di svolgere attività di supporto e coordinamento in Ucraina, a seguito del conflitto bellico in corso: quanto a dire, aiutare la raccolta delle prove dei crimini di guerra e contro l’umanità per garantire, in futuro, la punibilità dei crimini anche in Italia.
A ben vedere, tutte le categorie citate si qualificano come incarichi ex art. 11(3) utilizzando la “cartina di tornasole” del parere dell’Ufficio studi del CSM e, soprattutto, consegnano in modo univoco una figura coerente di magistrato che, in tutte le categorie citate, ha lo stesso ruolo dal punto di vista sostanziale.
Recentemente, il Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, con delibera del 20 novembre 2024, ha confermato la lettura del proprio Ufficio studi e la linea di interpretazione della disposizione qui illustrata, relativamente a un caso specifico riguardante, al contempo, gli END (connessi alla Giustizia) e gli incarichi di esperto presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso l’UE: il CSM ha concluso qualificando entrambi questi incarichi come attività ex art. 11 (3). Per il CSM per “attività di supporto all’attività giudiziaria o giurisdizionale a livello internazionale” devono intendersi “lo svolgimento di funzioni di elaborazione e redazione degli atti legislativi dell’Unione, nonché l’attività di interpretazione e applicazione della normativa europea nella fase di negoziazione”.
Volendo volgere uno sguardo all’impatto numerico, questa interpretazione circoscrive molto l’ambito di applicazione del nuovo art. 11 (3) perché si applica solo a incarichi: a) svolti all’estero; b) svolti nel settore della cooperazione giudiziaria; c) con riferimento ad attività che hanno ricadute sulla Giustizia.
Conti alla mano, guardando allo status quo, ad esempio, si tratterebbe di circa 10 incarichi in tutto.
5. Magistrati con funzioni di livello internazionale
Sotto la spinta della riforma approvata nel 2024, il volto dell’ordinamento giudiziario è mutato e presenta, oggi, tre diverse categorie di magistrati: 1) i magistrati con funzioni giudiziarie; 2) i magistrati fuori ruolo (in Italia o all’estero); 3) i magistrati con funzioni di livello internazionale (che sono solo quelli di cui all’art. 11, comma terzo, più volte citato).
Si tratta di una inevitabile e importante evoluzione dell’ordinamento giudiziario che non potrebbe più restare “isola” di funzionari pubblici unicamente destinati alle funzioni giudiziarie. L’Italia si conforma, così, al panorama europeo (in particolare Francia, Spagna e Germania) che, invero, lo stesso CSM ha in diverse occasioni richiamato: ad esempio, in calce al parere espresso con riferimento all’Agenzia Eurojust ove ha affermato che “la distinzione dell’attività dei magistrati in ruolo e fuori ruolo non trova applicazione nella maggioranza degli ordinamenti degli altri Stati membri (…) e ciò spiega perché la normativa europea non abbia considerato tale problematica e si sia da tempo indirizzata sic et simpliciter verso la creazione di nuove figure di magistrati dei diversi Stati membri operanti in territorio europeo” (cfr. CSM, risoluzione del 18.11.2020).
Le norme sono cambiate: ora, probabilmente, restano da cambiare le menti.
Immagine: Embroidered map sampler, 1783, seta, from the Collection of Mrs. Lathrop Colgate Harper, Bequest of Mabel Herbert Harper, 1957, Metropolitan Museum of Art, New York.
Co-progettazione vs appalti: discrezionalità amministrativa e nuovi assetti tra il mercato degli appalti e il terzo settore (nota a TAR Lombardia n. 2533/2024)
di Andrea Crismani
1. I tratti caratterizzanti del sistema degli enti del terzo settore - 2. Strumenti di interazione tra pubbliche amministrazioni ed enti del terzo settore e criticità sintomatiche - 2.1. Primo aspetto sintomatico: la rilevanza economica nei rapporti con gli enti del terzo settore e la gratuità - 2.2. Secondo aspetto sintomatico: la correttezza delle procedure cooperative - 3. La discrezionalità della pubblica amministrazione nella scelta tra appalto e co-progettazione - 4. Il rapporto tra co-programmazione e co-progettazione e la non sequenzialità necessaria - 5. Il procedimento di cooperazione - 6. Elementi di contrasto e di contatto con la disciplina sui contratti pubblici - 6.1. Non applicabilità del principio di separazione tra offerta tecnica ed economica - 6.2. Punti di contatto con i contratti pubblici - 7. Le ONLUS nel regime transitorio - 8. Considerazioni finali.
1. I tratti caratterizzanti del sistema degli enti del terzo settore
La gestione delle prestazioni pubbliche nel contesto del terzo settore ha subito una significativa evoluzione con l’introduzione del Codice del terzo settore (CTS) che indubbiamente ha svolto una funzione unificante, diretta a ordinare e a riportare a coerenza la disciplina degli enti del terzo settore, superando le precedenti frammentazioni e sovrapposizioni[1].
I tratti caratterizzanti del sistema degli enti del terzo settore sono il perseguimento del bene comune (art. 1), lo svolgimento di attività di interesse generale (art. 5) senza perseguire finalità lucrative soggettive (art. 8), la soggezione a un sistema pubblicistico di registrazione (art. 11) e a rigorosi controlli (artt. da 90 a 97).
Questo sistema, valorizzato dal principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, c. 4, Cost., ha dato vita, tramite l'art. 55 CTS, a un modello di "amministrazione condivisa" tra gli enti del terzo settore e le pubbliche amministrazioni[2].
I rapporti tra pubbliche amministrazioni ed enti del terzo settore sono finalizzati ad innalzare i livelli di cittadinanza attiva e di assicurare la fruizione, equa ed universalistica, delle prestazioni sociali e civili ex art. 117, co. 2, lett. m) Cost.
L’obiettivo degli istituti giuridici collaborativi consente di comprendere le ragioni per le quali il CTS abbia inteso ricondurre le attività di interesse generale ex art. 5 al di fuori delle regole sulla concorrenza e, quindi, del mercato.
Le attività di interesse generale svolte senza fini di lucro da questi enti rappresentano, come ha notato la Consulta[3], anche una nuova e indiretta forma di concorso alla spesa pubblica—derivante dal necessario reinvestimento degli utili in attività con funzione sociale—il Titolo X CTS prevede misure di agevolazione fiscale che, sebbene differenziate per intensità, forme e modalità, riguardano tutti gli enti del terzo settore. Inoltre, nel Capo IV del Titolo VIII, si razionalizzano forme di finanziamento e si enfatizza la tipologia organizzativa in modo da riservare alcune forme di contributo statale diretto esclusivamente agli enti del terzo settore[4].
Quindi il Codice promuove un modello gestionale fondato sui principi di co-programmazione e co-progettazione, che sostituisce i tradizionali appalti pubblici con un approccio collaborativo tra le amministrazioni pubbliche e gli enti del terzo settore. Questo modello si distingue per la sua natura non competitiva, promuovendo la solidarietà e la sussidiarietà tra pubblico e privato sociale [5].
La sentenza TAR Lombardia n. 2533/2024 ribadisce questa posizione, sottolineando che, anche se gli enti del terzo settore non devono seguire le rigide regole del Codice dei contratti pubblici, devono comunque operare nel rispetto dei principi di trasparenza e imparzialità. Le amministrazioni devono adottare criteri chiari e verificabili per selezionare i partner del terzo settore e garantire che la co-progettazione non diventi uno strumento per eludere le normative sugli appalti. Ciò rispecchia anche il quadro giuridico offerto dalla Corte costituzionale, sent. n. 131/2020, secondo la quale è lo “stesso diritto dell’Unione che mantiene, a ben vedere, in capo agli Stati membri la possibilità di apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, un modello organizzativo ispirato non al principio di concorrenza ma a quello di solidarietà (sempre che le organizzazioni non lucrative contribuiscano, in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente al perseguimento delle finalità sociali)” [6].
La sentenza in commento offre in esame un caso tipico di come questo modello venga implementato nella pratica, nello specifico nella gestione di un centro per l'accoglienza di persone in condizioni di povertà ed emarginazione sociale. L’analisi della sentenza rivela i fondamenti giuridici della co-progettazione e il suo utilizzo nel contesto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), nonché il ruolo principale delle amministrazioni locali nella promozione del benessere sociale[7].
2. Strumenti di interazione tra pubbliche amministrazioni ed enti del terzo settore e criticità sintomatiche
Com’è noto, il CTS definisce una serie di strumenti in apparenza innovativi, ma già presenti nel nostro ordinamento (sebbene scarsamente regolamentati) per la gestione dei “servizi sociali”. Gli artt. 55 e 56 delineano due modalità principali di interazione tra le amministrazioni pubbliche e gli enti del terzo settore: la co-programmazione e la co-progettazione[8].
La co-programmazione (art. 55, comma 2): consiste nell’identificazione congiunta, da parte dell’amministrazione pubblica e degli enti del terzo settore, dei bisogni da soddisfare e degli interventi necessari.
La co-progettazione (art. 55, comma 3): riguarda la definizione e la realizzazione di specifici progetti o servizi attraverso una collaborazione attiva tra pubblico e privato sociale, che si differenzia dall'appalto pubblico o dalla concessione previsti dal Codice dei contratti[9].
La differenza principale tra questo modello e gli appalti pubblici è il suo carattere non competitivo, che promuove la solidarietà e l'inclusione attraverso la collaborazione attiva degli enti del terzo settore. Tale impostazione è stata ulteriormente confermata dal codice dei contratti pubblici. L'art. 6 di quest'ultimo, infatti, sancisce espressamente che gli istituti di co-programmazione e co-progettazione del terzo settore non sono soggetti al regime degli appalti pubblici. Si tratta di un modello di "amministrazione condivisa", che si fonda sulla collaborazione tra pubblica amministrazione ed enti del terzo settore, senza un rapporto sinallagmatico tipico degli appalti.
Indubbiamente gli istituti giuridici cooperativi del CTS rappresentano un nuovo paradigma di collaborazione tra pubbliche amministrazioni ed enti del terzo settore, basato sul principio di sussidiarietà e orientato alla condivisione di obiettivi e responsabilità[10].
Questo modello supera le tradizionali logiche competitive degli appalti pubblici attraverso strumenti come la co-programmazione, la co-progettazione e le convenzioni. Tuttavia, emergono criticità legate alla diffidenza culturale verso questi strumenti, alla difficoltà di accettare la rilevanza economica nei rapporti con gli enti del terzo settore e a percezioni errate delle procedure cooperative. Per sfruttare appieno le potenzialità di questi istituti nel garantire livelli essenziali di prestazioni e nel rispondere alle sfide del welfare, è necessario che sia le pubbliche amministrazioni sia gli enti del terzo settore sviluppino capacità adeguate, investano in formazione congiunta e promuovano un coinvolgimento esteso e consapevole, valorizzando la corresponsabilità e superando le resistenze culturali esistenti[11].
2.1. Primo aspetto sintomatico: la rilevanza economica nei rapporti con gli enti del terzo settore e la gratuità
Un aspetto sintomatico è legato alla difficoltà nell'accettare la rilevanza economica nei rapporti con gli enti del terzo settore, spesso erroneamente associati all'idea di gratuità, il che porta a limitare o escludere il giusto riconoscimento dei costi sostenuti da questi enti.
La nozione di "gratuità" nel contesto degli affidamenti e delle convenzioni con enti del terzo settore è stata più volte approfondita dalla giurisprudenza, la quale ha delineato i confini tra ciò che può essere considerato “gratuito” e ciò che comporta invece un corrispettivo economico che andrebbe a qualificare l’operazione come onerosa. In questo ambito, il concetto di gratuità non esclude totalmente la possibilità di rimborsi spese, ma impone che questi siano limitati ai costi effettivamente sostenuti, verificati e documentati, escludendo ogni rimborso forfettario che non sia direttamente e chiaramente connesso a una spesa reale.
Nel diritto del Terzo Settore, la gratuità è un elemento distintivo dell’attività degli enti non profit che operano per finalità sociali, assistenziali o di promozione sociale. Secondo l’art. 56 CTS, le convenzioni con enti di volontariato possono prevedere esclusivamente il rimborso delle spese documentate e sostenute per lo svolgimento del servizio. Questo principio risponde alla finalità di garantire che le attività del terzo settore, pur coinvolgendo enti privati, non perdano il loro carattere non lucrativo, allineandosi così agli interessi generali della collettività.
La giurisprudenza ha chiarito che la gratuità, così definita, si applica specificamente alle “convenzioni” stipulate con associazioni di volontariato e organizzazioni di promozione sociale, come previsto dall’art. 56 CTS[12]. Diversamente, la co-progettazione e la co-programmazione, disciplinate dall’art. 55, rappresentano forme di collaborazione pubblico-privato destinate a rispondere a bisogni complessi e richiedono un impegno economico e organizzativo maggiore. In questi casi, pur non implicando un lucro, la gratuità non è richiesta in senso stretto, consentendo un rimborso per attività che richiedono una struttura organizzativa e gestionale più articolata[13].
La nozione di gratuità assume ulteriore rilevanza alla luce della normativa europea sugli appalti pubblici, la quale interviene solo sugli affidamenti di carattere oneroso. La Corte di giustizia dell’Unione Europea ha chiarito che il rispetto della concorrenza si impone quando si tratta di appalti onerosi, dove esiste una remunerazione del servizio. Tuttavia, un affidamento può sfuggire alle norme europee se è del tutto gratuito o se prevede solo il rimborso delle spese reali, evitando qualsiasi forma di guadagno o margine economico. Questo aspetto permette, dunque, alle amministrazioni pubbliche di collaborare con enti di volontariato per lo svolgimento di attività a beneficio della collettività, senza l’obbligo di ricorrere a una gara pubblica, purché l’attività sia effettivamente gratuita o limitata al solo rimborso delle spese sostenute.
Un aspetto importante emerso dalla giurisprudenza è il divieto di utilizzare formule forfettarie per il rimborso dei costi, in quanto queste prescindono dalla verifica delle spese reali sostenute. In altre parole, la gratuità implica che solo le spese effettivamente documentate e necessarie per lo svolgimento del servizio possano essere rimborsate, escludendo rimborsi percentuali o forfettari che non rispecchiano una spesa effettiva e verificabile[14].
In sintesi, la giurisprudenza ha progressivamente definito il concetto di gratuità come un principio cardine per mantenere il carattere di interesse pubblico degli interventi svolti dagli enti del terzo settore, garantendo che il denaro pubblico venga utilizzato in modo responsabile e senza scopi di lucro. Tale impostazione salvaguarda il principio di concorrenza e rende possibile un’azione sussidiaria tra pubblico e privato nel campo sociale, senza incorrere nelle rigide normative degli appalti pubblici, a condizione che l’operazione mantenga un carattere genuinamente non lucrativo e socialmente utile[15].
2.2. Secondo aspetto sintomatico: la correttezza delle procedure cooperative
La seconda riguarda l'errata percezione delle procedure cooperative. Questi strumenti innovativi, come la co-programmazione, la co-progettazione e le convenzioni, offrono alternative alle tradizionali procedure competitive degli appalti pubblici, promuovendo la collaborazione e le partnership anziché la concorrenza. Emergono difficoltà legate a una diffidenza culturale nei confronti di tali istituti, dovuta alla formazione e alle prassi consolidate che privilegiano le logiche contrattualistiche e competitive. Si osserva una tendenza a confondere le procedure cooperative con quelle competitive o, al contrario, a considerarle prive di evidenza pubblica e trasparenza.
Anche su questi aspetti è intervenuta la giurisprudenza[16]. Quest’ultima sottolinea come in una procedura di affidamento pubblico, sia fondamentale anzitutto che l'amministrazione predetermini criteri di selezione chiari, oggettivi e trasparenti. Tale predeterminazione risponde all’esigenza di assicurare imparzialità e parità di trattamento, come previsto sia nel codice del terzo settore sia nel codice dei contratti pubblici. Solo con criteri stabiliti ex ante, infatti, si garantisce che l'amministrazione possa procedere, in una seconda fase, a una valutazione comparativa effettiva delle manifestazioni di interesse pervenute, riducendo il rischio di arbitrarietà e assicurando l'adesione ai principi di trasparenza e buon andamento della pubblica amministrazione[17]. In mancanza di tali criteri predefiniti, la comparazione tra i candidati risulterebbe infatti compromessa, poiché verrebbe meno il fondamento oggettivo su cui basare l'analisi e la scelta dell'affidatario[18]. Inoltre, dottrina[19]e altra giurisprudenza[20] evidenziano la criticità di non poter ridurre la fase di co-progettazione a un mero adempimento burocratico nel senso di una predeterminazione non solo dei criteri (doverosa e ammissibile) ma addirittura dei contenuti esecutivi della presentazione (non ammissibile in quanto violativa del principio della compartecipazione)[21].
In questa prospettiva, il documento programmatico della co-progettazione redatto dall’amministrazione rischia di coincidere con un vero e proprio capitolato d’appalto, prevedendo compensi per servizi mascherati da rimborsi per costi diretti e indiretti. Questo approccio compromette la dimensione partecipativa e ideativa assegnata alla co-progettazione, generando incertezza sulla natura giuridica dell’operazione e rendendo problematico il ricorso a un modello derogatorio rispetto alle ordinarie procedure di affidamento di appalti di servizi. In tale contesto, l’assenza sostanziale della co-progettazione invalida l’applicazione del modello partenariale delineato dall’art. 55, cc 3 e 4, CTS, riavvicinando la questione a un ordinario appalto di servizi sociali.
Infine, la giurisprudenza ribadisce dunque che, in presenza di più offerte valide, la predisposizione dei criteri di valutazione deve precedere e guidare la comparazione delle proposte, assicurando che l’affidamento rispetti i principi di evidenza pubblica e imparzialità[22].
3. La discrezionalità della pubblica amministrazione nella scelta tra appalto e co-progettazione
Uno dei temi centrali della sentenza in commento è la discrezionalità della pubblica amministrazione nella scelta tra l'utilizzo di appalti pubblici e la co-progettazione per la gestione di servizi pubblici. La sentenza affronta una questione per nulla irrilevante, in quanto costituisce sintomo di un riassestamento o di un futuro riassestamento del mercato degli appalti e dell’ambito del terzo settore, evidenziando la tendenza della trasmigrazione di prestazioni che fino ad ora erano considerate e venivano gestite secondo le regole degli appalti pubblici nei modelli gestionali previsti dal codice del terzo settore. Si pone infatti la domanda se un servizio precedentemente gestito tramite appalto possa essere trasformato in un'attività di co-progettazione senza violare i principi di trasparenza e parità di trattamento o costruire una mera simulazione o mascheramento dell’appalto come appena evidenziato sopra.
In base all’art. 55 CTS, la co-progettazione rappresenta un modello alternativo agli appalti pubblici per la gestione di servizi di interesse generale. La pubblica amministrazione ha ampia discrezionalità nel decidere se ricorrere a un appalto pubblico o a una procedura di co-progettazione, in base alle caratteristiche del servizio da gestire. Tuttavia, questa discrezionalità non è illimitata e deve essere esercitata nel rispetto dei principi di trasparenza, parità di trattamento e proporzionalità.
La sentenza chiarisce che la scelta tra appalto e co-progettazione deve essere giustificata da ragioni oggettive, legate alla natura del servizio e alle finalità sociali che si intendono perseguire. Indubbiamente, non è legittimo utilizzare la co-progettazione solo per evitare le procedure competitive previste per gli appalti pubblici. Questo punto è stato sollevato nel contesto del caso in esame, dove il Comune ha optato per la co-progettazione.
L'aspetto critico conseguenziale emerso nella sentenza riguarda la trasformazione di un servizio precedentemente gestito tramite appalto in un'attività di co-progettazione. Quando un servizio, che fino a quel momento era stato affidato tramite gara d'appalto, viene trasferito al modello di co-progettazione, le amministrazioni devono garantire che tale passaggio non sia finalizzato ad aggirare le norme sugli appalti.
Nella sentenza del TAR Lombardia, la contestazione mossa si basava proprio sulla trasformazione della gestione della casa dell'accoglienza da un modello di appalto a uno di co-progettazione. Il ricorrente ha sostenuto che il Comune avrebbe dovuto continuare a utilizzare il sistema degli appalti pubblici per la gestione del servizio, e che la scelta di ricorrere alla co-progettazione era volta a evitare la competizione prevista dalle gare d'appalto.
Il Giudice, tuttavia, ha respinto questa argomentazione, affermando che il Comune aveva legittimamente esercitato la propria discrezionalità nell'optare per la co-progettazione, poiché tale modello si adattava meglio alla natura del servizio da gestire, che richiedeva un'ampia partecipazione del terzo settore e una flessibilità operativa non compatibile con le rigide regole degli appalti pubblici. In particolare, il Giudice ha sottolineato che la co-progettazione è giustificata quando si tratta di servizi di carattere sociale che richiedono una forte componente collaborativa, piuttosto che una semplice esecuzione di compiti predefiniti.
La sentenza evidenzia che la scelta del passaggio dall'appalto alla co-progettazione non è stata arbitraria, ma risultava ben giustificata nella documentazione prodotta dal Comune. Il Comune, infatti, aveva adottato un modello gestionale delineato negli atti programmatici, come il Piano di Sviluppo del Welfare della Città di Milano 2021-2023 e il Regolamento sui rapporti tra il Comune e gli enti del Terzo Settore. Questi documenti, insieme alla deliberazione di Giunta Comunale n. 1506 del 2023, delineano con chiarezza la volontà di utilizzare gli strumenti di co-progettazione e co-programmazione previsti dal CTS, confermando che la scelta di adottare un modello di amministrazione condivisa per la gestione della Casa dell'Accoglienza rispondeva a un piano già definito, in linea con le finalità sociali perseguite.
La discrezionalità della pubblica amministrazione nella scelta tra appalto e co-progettazione è ampia, ma deve essere esercitata con trasparenza e in modo coerente con la natura del servizio. La sentenza in commento conferma che è possibile trasformare un servizio precedentemente gestito tramite appalto in un'attività di co-progettazione, a condizione che tale scelta sia motivata da esigenze oggettive e che il processo sia gestito in modo trasparente e imparziale. Le amministrazioni devono assicurarsi che la co-progettazione non diventi un mezzo per eludere le normative sugli appalti pubblici, ma piuttosto uno strumento per coinvolgere attivamente il Terzo Settore nella gestione di servizi di interesse generale.
4. Il Rapporto tra co-programmazione e co-progettazione e la non sequenzialità necessaria
Il CTS distingue chiaramente due fasi nella gestione dei servizi pubblici: la co-programmazione e la co-progettazione. La co-programmazione rappresenta la fase iniziale di pianificazione degli interventi, durante la quale vengono identificati i bisogni da soddisfare e le risorse da mobilitare. La co-progettazione, invece, è la fase esecutiva, in cui si realizza l’effettiva attuazione degli interventi pianificati attraverso una collaborazione diretta tra l’amministrazione e gli enti del Terzo Settore.
Un aspetto sollevato dalla sentenza riguarda la non obbligatorietà della co-programmazione come fase propedeutica alla co-progettazione. In altre parole, il CTS non impone un passaggio automatico dalla co-programmazione alla co-progettazione; le amministrazioni hanno dunque la facoltà di avviare direttamente la co-progettazione quando ritengono che i bisogni e le modalità d’intervento siano già chiaramente definiti. Qualora gli obiettivi siano già stati chiaramente definiti, non è necessaria una fase preliminare di co-programmazione. In tal caso, potrebbe accadere che la pubblica amministrazione abbia autonomamente stabilito gli obiettivi, senza richiedere preventivamente la partecipazione dei soggetti del Terzo Settore per la loro definizione. Tuttavia, questa circostanza non dovrebbe precludere o condizionare la successiva fase di co-progettazione, poiché le due fasi possono mantenere una natura distinta. Dalla fase di co-programmazione potrebbe emergere, ad esempio, che determinati interventi non siano idonei alla co-progettazione e che sarebbe preferibile ricorrere al modello dell'appalto pubblico per la loro realizzazione.
Nel caso in esame, il Comune ha scelto di avviare direttamente la fase di co-progettazione, ritenendo che i bisogni della struttura fossero già ben definiti e che la co-programmazione non fosse necessaria. Il TAR ha evidenziato che il CTS non impone una gerarchia rigida tra co-programmazione e co-progettazione, lasciando all'amministrazione la libertà di decidere se procedere subito con la co-progettazione, specialmente quando si tratta di servizi o strutture già esistenti.
5. Il procedimento di cooperazione
Ulteriore aspetto riguarda il rapporto tra gli atti di indirizzo politico e gli atti di gestione all’interno delle procedure amministrative, evidenziando i confini della loro autonomia e legittimità. Nella sentenza in commento., viene esaminata la distinzione tra il ruolo della Giunta, che fornisce orientamenti generali, e quello dei dirigenti, responsabili dell’attuazione concreta. La ricorrente ha contestato l’avviso di istruttoria pubblica, approvato con determinazione dirigenziale, affermando che esso violasse l’atto di indirizzo politico della Giunta, proponendo una modalità procedurale in contrasto con tale atto. La sentenza ha risolto questo punto chiarendo che la deliberazione di Giunta rappresenta un atto di indirizzo politico che non limita l’autonomia e le competenze dei dirigenti nell’adozione di atti di gestione, secondo il modello delineato dall’art. 107 TUEL.
In effetti, la deliberazione di Giunta non specifica in dettaglio le caratteristiche della procedura, ma indica un "approccio non competitivo" con gli enti del Terzo Settore. Di conseguenza, l’avviso di istruttoria prevede una prima fase procedurale a carattere selettivo per individuare l’ente più idoneo alla co-progettazione, cui segue la fase di co-progettazione vera e propria.
Come sottolineato dal TAR, tale fase preliminare di selezione dell’ente è di fatto indispensabile per individuare, tra le proposte ricevute, quella più adeguata alle esigenze dell’amministrazione. Questa selezione rispetta i principi di trasparenza, pubblicità e non discriminazione stabiliti dalla legge n. 241 del 1990.
Il TAR ha ritenuto idonei gli atti e i piani amministrativi – tra cui il Piano di Sviluppo del Welfare della Città di Milano 2021-2023 e la deliberazione di Giunta n. 1506 del 2023 – a delineare chiaramente il modello gestionale da adottare, confermando che questi documenti evidenziavano fin dall'inizio l'intenzione del Comune di avvalersi della co-progettazione.
In sostanza la censura avanzata dai ricorrenti sulla distinzione tra gli atti era strumentale a sostenere un'invasione della procedura collaborativa in quella selettiva e competitiva prevista invece dal Codice dei contratti. Ad avviso di chi scrive, si può cogliere come entrambe le procedure devono includere una valutazione comparativa, rimanendo nei rispettivi ambiti normativi.
6. Elementi di contrasto e di contatto con la disciplina sui contratti pubblici
Per riprendere il discorso della scelta ovvero distinzione tra appalto e co-progettazione, emerge la necessità di una riflessione sull’applicabilità delle disposizioni del Codice dei contratti pubblici.
Come notato la sentenza rappresenta un caso interessante in cui si assiste a un cambiamento nel modello gestionale della prestazione: inizialmente disciplinata secondo le regole degli appalti pubblici, questa è stata successivamente riorientata verso una logica di collaborazione con il terzo settore, sottraendola così alle dinamiche di mercato. Tale decisione sottolinea una volontà amministrativa di privilegiare un approccio partecipativo e non competitivo, ritenuto più adatto a soddisfare finalità sociali, evidenziando al contempo le implicazioni giuridiche di questa scelta rispetto alla distinzione tra procedure di selezione tradizionali e quelle orientate alla co-progettazione con enti del terzo settore
La distinzione fra i due approcci si basa non solo su una differenza strutturale – l’appalto ha natura competitiva, mentre la co-progettazione è collaborativa – ma anche su aspetti normativi che limitano l’applicazione di alcuni principi degli appalti alla co-progettazione. Tuttavia, in fase applicativa, permangono contatti significativi tra i due modelli, quali l’assegnazione dei punteggi, la discrezionalità tecnica e il rispetto dei principi di trasparenza e parità di trattamento, che richiamano alcuni tratti tipici del regime degli appalti pubblici.
Questa analisi ulteriore intende dunque esaminare i punti di contrasto e di contatto tra i due modelli, mostrando come il TAR abbia affrontato le contestazioni relative all’applicabilità delle norme sugli appalti pubblici alla co-progettazione, confermando da un lato l’inapplicabilità di alcune regole del codice dei contratti pubblici, e dall’altro sottolineando la necessità di garantire trasparenza e correttezza anche nelle procedure di amministrazione condivisa con il terzo settore.
6.1. Non applicabilità del principio di separazione tra offerta tecnica ed economica
La ricorrente lamentava la mancata separazione tra offerta tecnica ed economica, un principio tipico delle gare d'appalto. Il TAR ha respinto tale motivo, evidenziando che nella procedura di co-progettazione le due componenti (tecnica ed economica) sono congiunte poiché l'oggetto è un progetto da sviluppare insieme alla pubblica amministrazione, piuttosto che una gara competitiva. Questo approccio è confermato anche dalle Linee Guida del Ministero del Lavoro (decreto n. 72 del 2021).
L’altro aspetto riguardava l’esclusione del principio di segretezza delle offerte. La ricorrente sosteneva che il principio di segretezza delle offerte era stato violato perché le domande di partecipazione sono state trasmesse tramite posta elettronica certificata e non con sistemi più rigorosi. Il TAR ha rigettato la doglianza affermando che, trattandosi di una procedura di co-progettazione, non si applicano le stringenti regole di segretezza previste per gli appalti pubblici. La trasmissione a mezzo di posta elettronica certificata è stata considerata sufficiente per garantire la trasparenza e la correttezza della procedura.
6.2. Punti di contatto con i contratti pubblici
Un primo aspetto riguarda l’attribuzione dei punteggi. Sebbene la procedura di co-progettazione non si configuri come una gara d’appalto, il sistema di punteggio utilizzato per valutare le proposte progettuali degli enti del terzo settore ha mantenuto alcuni elementi di trasparenza tipici delle gare pubbliche. Nello specifico, i criteri di valutazione delle proposte (ad es. il contesto territoriale, le competenze dei soggetti proponenti, la rete di collaborazioni) sono stati strutturati in modo tale da attribuire un punteggio a ciascun elemento. Questo approccio ricalca quello dei contratti pubblici, dove i criteri di valutazione delle offerte tecniche ed economiche devono essere chiari e predeterminati.
Il secondo aspetto riguarda la discrezionalità tecnica e il conseguente controllo giudiziario.
Il TAR ha applicato un principio frequentemente utilizzato nei contratti pubblici, ovvero la discrezionalità tecnica della commissione giudicatrice, che è censurabile solo in caso di evidenti errori o manifesta illogicità. Anche se la procedura di co-progettazione non segue le rigide norme del Codice dei contratti pubblici, il Giudice ha richiamato la giurisprudenza in tema di valutazione discrezionale delle proposte, stabilendo che la commissione può assegnare i punteggi in base a criteri qualitativi. Questa analogia con gli appalti pubblici si nota particolarmente nella valutazione del Piano Economico Finanziario (PEF) e dei profili professionali delle proposte, dove la commissione ha goduto di una certa discrezionalità nella valutazione delle proposte concorrenti.
Il terzo aspetto riguarda la trasparenza e la parità di trattamento. Un altro punto di contatto con il regime dei contratti pubblici è stato il rispetto dei principi di trasparenza e non discriminazione. Sebbene la procedura di co-progettazione non sia una gara competitiva in senso stretto, il Comune ha adottato una fase preliminare di selezione tra le proposte, richiedendo che fosse rispettata la trasparenza e la parità di trattamento tra i partecipanti. Questo elemento è stato giustificato dal TAR come un principio generale che si applica anche fuori dal contesto degli appalti pubblici, in particolare quando vi è l’erogazione di finanziamenti pubblici o la gestione di servizi d’interesse generale.
Il quarto aspetto attiene alla valutazione delle proposte economiche e alla sostenibilità finanziaria. Pur non essendo un appalto di servizi, la procedura ha previsto la presentazione di un Piano Economico Finanziario (PEF) per ogni proposta. Il TAR ha sottolineato che la commissione giudicatrice doveva valutare la sostenibilità economica del progetto proposto dagli enti del Terzo Settore, in modo simile a quanto avviene negli appalti pubblici, dove l’offerta economica deve essere congruente con il servizio da svolgere. Anche in questo caso, la valutazione dei costi e delle risorse messe a disposizione ha richiesto una valutazione tecnica e una disaggregazione delle voci di costo, analogamente a quanto accade negli appalti pubblici.
Un quinto aspetto che merita attenzione è il giudizio sulla coerenza delle proposte con il progetto da sviluppare. Anche se la procedura di co-progettazione non è competitiva nel senso tradizionale, le proposte sono state valutate in base alla loro coerenza complessiva rispetto agli obiettivi del progetto. Questo tipo di valutazione è simile a quella condotta nelle gare pubbliche, dove l’amministrazione valuta la conformità e l’adeguatezza dell’offerta tecnica rispetto alle esigenze del bando. In particolare, il TAR ha valutato la congruenza delle voci di costo e delle figure professionali indicate nelle proposte, utilizzando criteri simili a quelli adottati per la valutazione delle offerte negli appalti pubblici.
In sintesi, anche se la procedura di co-progettazione si distingue nettamente dalle gare d’appalto per la sua natura collaborativa, diversi principi tipici del regime dei contratti pubblici sono stati applicati per garantire la trasparenza, la correttezza della procedura e la parità di trattamento, specialmente nell'attribuzione dei punteggi e nella valutazione delle proposte economiche.
7. Le ONLUS nel regime transitorio
La sentenza affronta ancora un ulteriore aspetto che sebbene possa risultare marginale per la costruzione degli istituti dell’amministrazione condivisa è invece importante nella fase transitoria di applicazione della disciplina alle ONLUS.
L’ENTE DEL TERZO SETTORE non scelto ha contestato la decisione del Comune, sostenendo che la vincitrice non avesse i requisiti di ammissione richiesti per la procedura di co-progettazione, in particolare in relazione all’iscrizione al Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (RUNTS). Altre (in tutto dieci) doglianze riguardavano presunte irregolarità nella trasparenza e nell’assegnazione dei punteggi.
Il TAR ha respinto il ricorso, confermando la legittimità della procedura adottata dal Comune. La sentenza chiarisce che il regime transitorio previsto per le ONLUS consente loro di partecipare a tali procedure anche senza l'iscrizione al RUNTS, poiché la procedura di autorizzazione da parte della Commissione europea non è ancora stata completata.
In particolare, si deve considerare la disciplina sul regime transitorio di cui all’art. 101, comma 3 del CTS, e il decreto ministeriale n. 106 del 15 settembre 2020, che disciplina il RUNTS ai sensi dell’art. 45 del CTS. Tuttavia, l’art. 34 del decreto introduce una normativa specifica per gli enti iscritti all’anagrafe delle ONLUS (cfr. il comma 3 dell’art. 34), imponendo loro di presentare la domanda di iscrizione al RUNTS entro il 31 marzo del periodo d'imposta successivo all’autorizzazione della Commissione europea, prevista dall’art. 101, comma 10 del CTS.
Quest'ultimo comma, all'interno del regime transitorio del CTS, subordina l'efficacia di alcune disposizioni del Codice all'autorizzazione della Commissione europea, secondo quanto stabilito dall’art. 108, par. 3 del TFUE, che regola in particolare gli aiuti di Stato.
Poiché tale autorizzazione della Commissione non è ancora stata concessa, non esiste al momento alcun obbligo per le ONLUS di richiedere l’iscrizione al RUNTS, potendo le stesse mantenere la loro iscrizione nei registri di settore di appartenenza.
8. Considerazioni finali
La sentenza ha rilevanti implicazioni per la gestione dei servizi sociali. Conferma la validità del modello di co-progettazione, in cui le amministrazioni pubbliche possono collaborare attivamente con il terzo settore senza ricorrere agli appalti pubblici. Questo modello si dimostra particolarmente efficace nel contesto di progetti finanziati dal PNRR, come nel caso concreto dove la flessibilità e la cooperazione tra pubblico e privato sociale sono fondamentali per il successo degli interventi.
Inoltre, la sentenza rappresenta un precedente importante per future controversie legali riguardanti l’applicazione del CTS, ribadendo che le ONLUS non iscritte al RUNTS possono ancora partecipare alle procedure di co-progettazione durante il periodo transitorio. Questo approccio inclusivo permette di ampliare la platea degli enti coinvolti, favorendo una maggiore partecipazione di soggetti esperti nel campo sociale.
Infine, il TAR ha chiarito che non è necessario avviare una fase di co-programmazione in tutti i casi. Le amministrazioni possono optare per la co-progettazione diretta quando i bisogni del territorio e le modalità di intervento sono già definiti. Ciò rende il modello della co-progettazione più flessibile e adattabile alle esigenze dei servizi sociali, rafforzando la capacità delle amministrazioni di rispondere tempestivamente alle necessità della comunità.
Infine, la sentenza riconosce l'ampio potere discrezionale della pubblica amministrazione nella scelta di adottare, per la gestione di un servizio, un modello basato sulla co-progettazione invece di un tradizionale appalto pubblico. Questo potere comporta un possibile riassetto dei due settori coinvolti – quello degli appalti pubblici e quello del terzo settore – poiché le amministrazioni possono decidere di passare da un modello gestionale all'altro in funzione delle esigenze specifiche del servizio e degli obiettivi sociali perseguiti. Tale possibilità di scelta evidenzia come i due settori siano in continua interazione, dando forma a un nuovo equilibrio tra l’attività amministrativa regolata dai principi della concorrenza e quella orientata alla collaborazione e al coinvolgimento attivo degli enti del terzo settore, consolidando così un sistema di amministrazione condivisa.
[1] Corte cost., 15 marzo 2022, n. 72.
[2] A. D'Atena, Costituzione e principio di sussidiarietà, in Quad. cost., 1, 2001, 24.
[3] Corte cost. 26 giugno 2020, n. 131.
[4] L'art. 72, c. 1, istituisce un fondo destinato a sostenere lo svolgimento di attività di interesse generale, con priorità stabilite annualmente dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali attraverso un atto di indirizzo triennale. Per il 2024, questo atto è stato adottato con decreto n. 122 del 19 luglio 2024, stanziando 22.450.000 euro per progetti e attività di interesse generale e 13.150.000 euro per il sostentamento degli enti del terzo settore. Il finanziamento mira a promuovere la crescita autonoma degli ENTI DEL TERZO SETTORE senza interferire nella loro gestione, prevedendo che i progetti di rilevanza nazionale siano attuati in almeno 10 regioni e che il contributo ministeriale copra fino all'80% del costo totale (50% per le fondazioni), con importi compresi tra 250.000 e 600.000 euro per iniziativa. I soggetti promotori devono essere organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale o fondazioni del terzo settore iscritte al RUNTS, con una fase transitoria che include le fondazioni iscritte nell'anagrafe delle ONLUS. Gli obiettivi prioritari di intervento si allineano ai 17 obiettivi dell'Agenda 2030, focalizzandosi su 13 specifici e includendo una linea di finanziamento dedicata all'intelligenza artificiale con 2.500.000 euro stanziati. L'individuazione dei singoli interventi finanziabili avverrà successivamente tramite procedure che rispettino i principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento; sul punto si v G. Biasutti, Decreto direttoriale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali 19 luglio 2024, n. 122: linee di indirizzo per l’anno 2024 per gli obbiettivi di interesse generale, in https://terzosettore.info/d-d-122-19-07-2024/
[5] Per una visione d’insieme si rinvia al lavoro completo e dettagliato di A. Santuari, Diritto delle organizzazioni socialmente responsabili. Manuale degli Enti del Terzo settore, delle cooperative, delle società benefit e dei loro rapporti con la P.A., Milano, 2024, pp. 9-807.
[6] La controversia verteva sulla gestione della "Casa dell’Accoglienza Enzo Jannacci" attraverso una procedura di co-progettazione, finanziata in parte dai fondi PNRR. Si costituivano in giudizio, trattandosi di una controversia in materia di PNRR (ai sensi dell’art. 12-bis del DL n. 68 del 2022 convertito con legge n. 108 del 2022), anche il Ministero dell’Economia e delle Finanze ed il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
[7] Sul terzo settore in generale si v. tra gli altri: F. Loffredo, Gli enti del terzo settore, Milano, 2018; A.Propersi e G. Rossi, Gli enti del terzo settore. Gli altri enti non profit dopo la Riforma. Milano, 3 ed., 2022; F. Donati e F. Sanchini, Il codice del terzo settore. Commento al d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117 e ai decreti attuativi, Milano, 2019; F. Sanchini, Profili costituzionali del terzo settore, Milano, 2021; A. Fusaro, Gli Enti del Terzo Settore. Profili civilistici, Milano, 2022.
[8] Per un’analisi critica si rinvia a B. Giliberti, L'amministrazione condivisa: co-programmazione e co-progettazione nel terzo settore tra autonoma iniziativa delle formazioni sociali e poteri delle pubbliche amministrazioni, in Annuario 2023 AIPDA, Lo spazio della pubblica amministrazione vecchi territori e nuove frontiere, Atti del convegno annuale Napoli, 29-30 settembre 2023, Napoli 2024, p. 321 ss.
[9] Per una disamina completa E. Frediani, La co-progettazione dei servizi sociali. Un itinerario di diritto amministrativo, Torino, 2021.
[10] D. Palazzo, Pubblico e privato nelle attività di interesse generale. Terzo settore e amministrazione condivisa, Torino, 2022; R. Parisi, Il sistema dei servizi sociali tra Stato, mercato e terzo settore, Napoli, 2023; F. Giglioni, Forme e strumenti dell'amministrazione condivisa, in G. Arena, M. Bombardelli (a cura di), L'amministrazione condivisa, 80 ss.; V. Parisio, Risorse idriche, contratti di fiume e amministrazione condivisa, in Federalismi.it, 2023, 162 ss.
[11] In tal senso ragionato e critico A. Santuari, I rapporti giuridici cooperativi tra pubbliche amministrazioni e ETS/imprese sociali. Potenzialità e criticità, in https://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/articolo/i-rapporti-giuridici-cooperativi-potenzialita-e-criticita
[12] Cons. Stato, V, 26 maggio 2023, n. 5217 e 5218.
[13] A. Crismani, Il meccanismo della co-progettazione. Spunti utili dal Consiglio di Stato (n. 5217/2023 e n. 5218/2023), in https://terzosettore.info/il-meccanismo-della-co-progettazione-spunti-utili-dal-consiglio-di-stato-n-5217-2023-e-n-5218-2023/
[14] Cons. Stato, V, 22 maggio 2024, n. 4540.
[15] G. Biasutti, Il Consiglio di Stato precisa i presupposti ed i limiti applicativi della co-progettazione, in https://terzosettore.info/consiglio-di-stato-limiti-applicativi-coprogettazione-4540-2024/
Il Consiglio di Stato, con la sent. n. 4540/2024, ha ribadito che solo i servizi resi effettivamente a titolo gratuito nell'ambito della co-progettazione possono essere esentati dall'obbligo di rispettare la disciplina europea sugli appalti. Nel caso specifico, il bando prevedeva non solo il rimborso delle spese vive, ma anche il pagamento, tramite fatturazione, di spese di gestione, compensi agli operatori, rimborsi ai volontari e retribuzioni agli esperti. Questo implicava una retribuzione dei fattori produttivi, evidenziata sia dalla modalità di rimborso prevista sia dal fatto che l'operatore economico in partenariato aveva sostenuto solo l'8% dei costi totali. Di conseguenza, il Consiglio di Stato ha ritenuto che il servizio non fosse realmente gratuito e che, pertanto, dovesse rispettare le normative europee in materia di appalti pubblici (sentenza del Consiglio di Stato n. 4540/2024).
[16] Cons. Stato, V, 29 agosto 2023, n. 8025.
[17] G. Biasutti, La valutazione comparativa nell’affidamento dei servizi agli Enti del Terzo Settore: le indicazioni del Consiglio di Stato, in https://terzosettore.info/affidamento-servizi-sociali-terzo-settore/
l Consiglio di Stato, con la sentenza n. 8025/2023 ha stabilito che “il semplice richiamo a vaghi principi quali quello di dare la priorità alle domande pervenute prima risulta arbitrario ed irragionevole”. Infatti, laddove siano presentate diverse candidature per la gestione del servizio, o comunque esistano nell’area interessata diversi enti del terzo settore in grado di rendere il servizio, l’amministrazione è obbligata ad operare una valutazione comparativa. Pertanto, la regola generale è quella per cui, in questi casi la selezione dell’affidatario, deve avvenire “previa fissazione di obiettivi criteri di valutazione, secondo i principi dell’evidenza pubblica”.
[18] Sul punto anche il Cons. Stato, V, 22 maggio 2024, n. 4540.
[19] A. Santuari, Quando la co-progettazione è conforme al dettato normativo – Cons. Stato 5217/23, in https://www.personaedanno.it/articolo/quando-la-co-progettazione-e-conforme-al-dettato-normativo-cons-stato-5217-23
[20] Cons. Stato, V, 26 maggio 2023, n. 5217.
[21] La sentenza già citata in tema di gratuità affronta anche la fase di co-progettazione e il principio di partecipazione attiva degli enti del terzo settore. Il Consiglio di Stato stabilisce che la co-progettazione non deve limitarsi alla semplice attuazione dei servizi, ma deve prevedere un’effettiva collaborazione sin dalla fase di definizione delle modalità di intervento, dei bisogni e delle risorse necessarie. La sentenza critica l’amministrazione comunale per aver pubblicato un “documento di massima” che, predefinendo nei dettagli i servizi da erogare, di fatto precludeva una vera co-progettazione.
La sentenza ribadisce l’obbligo di trasparenza e imparzialità nelle procedure di affidamento dei servizi pubblici, evidenziando come l’amministrazione avrebbe dovuto definire criteri obiettivi e trasparenti per la selezione degli enti del terzo settore con cui attivare il partenariato. L’art. 55, c. 4, impone infatti che la selezione sia condotta rispettando questi principi, e che sia fatta previa definizione degli obiettivi generali, della durata e delle caratteristiche essenziali del progetto. In mancanza di tali criteri, la selezione del partner risulta arbitraria, violando così i principi generali di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione.
[22] G. Biasutti, Il Consiglio di Stato precisa i presupposti ed i limiti applicativi della co-progettazione, in https://terzosettore.info/consiglio-di-stato-limiti-applicativi-coprogettazione-4540-2024/ secondo il quale: “Un’ulteriore censura specificamente accolta dal Consiglio di Stato riguarda la mancata partecipazione degli enti del terzo settore alla definizione del progetto oggetto del partenariato. Rimarcando la differenza genetica che sussiste tra questa tipologia di procedure e l’affidamento a gara, i giudici hanno ritenuto non ammissibile che l’interezza dei contenuti dell’affidamento fossero appannaggio esclusivo del Comune, il quale non si è adeguatamente aperto al confronto con gli operatori. Ai soggetti partecipanti alla procedura, invero, era concesso di proporre solo modalità esecutive di dettaglio, in maniera di fatto non dissimile a quanto avverrebbe con una offerta tecnica in sede di gara”.
I sistemi processuali nel periodo del post emergenza pandemica. A proposito di rinvii pregiudiziali alla Corte di cassazione ed al giudice UE, revocazione europea e diritti fondamentali. Verso un progressivo – e inarrestabile – restyling del ruolo del giudice nazionale[1].
di Roberto Giovanni Conti
Sommario: 1. Premesse - 2. Sulla cresta dell’onda del giudizio di cassazione e del ruolo nomofilattico della Corte suprema - 3. Dal giudicare al cooperare. L’art.363 bis c.p.c. ed il rinvio pregiudiziale “interno” del giudice di merito alla Corte di cassazione - 4. Le modifiche al rinvio pregiudiziale “esterno (alla Corte di Giustizia UE) - 5. La revocazione “europea” del giudicato nazionale per contrasto con la Corte edu (art.391 quater c.p.c.9 - 6. Le S.U. e la resistenza all’emergenza in nome dei diritti umani (Cass.S.U. n.4873/2022 e 28022/2022) - 7. Tirando le fila del discorso: a) Il ruolo della Corte di cassazione e l’idea di fondo di una “cooperazione” fra giudici come modus di gestione delle emergenze e delle transizioni - 7.1 B) La riforma del rinvio pregiudiziale “esterno” e la ricerca ultima di un sistema effettivo e celere nelle relazioni fra giudici - 7.2. C) Il valore fondamentale dei diritti umani nell’epoca delle emergenze - 7.3. D) Il ruolo del diritto vivente nella gestione delle emergenze e delle transizioni.
1. Premesse.
Abbiamo vissuto in questi ultimi anni momenti di grandi trasformazioni molto spesso collegate a fenomeni planetari. Il pensiero va naturalmente all’esperienza pandemica che, oltre a determinare fortissimi disorientamenti nella popolazione, ha attivato una serie di mutamenti nei sistemi giuridici nazionali e sovranazionali che, da un lato, hanno inteso fronteggiare l’emergenza, dall’altro hanno dato un impulso decisivo per modificare stabilmente, per quel che qui interessa, l’assetto processuale dei Paesi coinvolti, in vista del perseguimento di esigenze che proprio la situazione emergenziale aveva vieppiù posti in rilievo come bisognevoli di protezione e tutela.
Qui si intende prendere le mosse dalle riforme che hanno riguardato, direttamente o indirettamente, il giudizio di Cassazione, da sempre sotto la lente critica della dottrina e degli operatori pratici, accusato di non riuscire a trovare un equilibrio accettabile tra le previsioni costituzionali – art.117 Cost. – che garantiscono la ricorribilità di qualunque controversia che sia stata definita dal giudice di merito e l’esigenza di efficacia ed effettività che pure costituisce una delle precondizioni della funzione nomofilattica della Corte stessa. Basti ricordare, a titolo meramente esemplificativo, che Guido Calabresi, autorevole giurista assai noto per le sue teorie in tema di analisi economica del diritto, in una intervista che rilasciò a Giustizia Insieme poco tempo fa[2], a proposito del numero imponente di controversie ogni anno proposte innanzi al giudice di legittimità, ebbe a condividere l'idea che è compito del legislatore fissare, sia pur nell'ambito di scelte tragiche che possono appunto condizionare la ricorribilità o meno dei ricorsi, l’esistenza di limiti al ricorso per Cassazione. E nella stessa occasione fu appunto Calabresi a sottolineare come il canone dell’effettività fosse valore, comunque, da perseguire anche a costo di ridurre l'accesso al giudizio di legittimità. Una voce, quest’ultima, ampiamente condivisa negli operatori del diritto che operano presso la Corte suprema, meno da alcuni settori della dottrina e ancor meno sul piano legislativo, ove il recupero dell’efficienza ed effettività della giustizia – anche di ultima istanza – è stato perseguito con altri strumenti senza modificare il quadro costituzionale relativo all’accesso al giudizio di legittimità.
La prima parte della riflessione intende dunque soffermarsi su alcuni dei più significativi interventi riformatori del rito di Cassazione –rinvio pregiudiziale del giudice di merito alla Corte di cassazione (art.363 bis c.p.c.), revocazione (art.391 quater c.p.c.) e proposta di definizione accelerata (art.380 bis c.p.c.). Modifiche buona parte delle quali originate nel periodo dell’emergenza pandemica ed introdotti da modifiche normative inserite nel piano di ripresa e resilienza successivo al Covid-19 ed indirizzati a realizzare un assetto processuale più idoneo a tutelare gli interessi. In definitiva, il processo di cassazione è stato sottoposto, per effetto di una situazione emergenziale, a diverse modifiche destinate a diventare stabili e, dunque, a regolare una transizione rispetto al periodo emergenziale e ad incidere sull’assetto delle tutele e dunque sul ruolo del giudice.
Nella seconda parte si accennerà ad un ulteriore mutamento del sistema processuale, ponendo questa volta lo sguardo sulle modifiche al sistema del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea e dei rapporti tra Tribunale Ue e Corte di giustizia UE. Anche questa, una riforma che cade nel post pandemia e che, nelle intenzioni della Corte di giustizia che l'ha promossa, offre una nuova visione del ruolo del giudice europeo destinato, in una prospettiva di lungo corso, ad occuparsi solo delle questioni di sistema e di principio involgenti i diritti fondamentali (e magari di impugnazione delle decisioni del Tribunale, invece investito di un contenzioso del quale prima non si era occupato con un meccanismo abbastanza complesso e non provo di profili di criticità.
La terza parte sarà infine indirizzata ad un accenno, invero forse fulmineo, a casi concreti nei quali si è esercitato il ruolo del giudice in periodo di emergenza pandemica. Ci si soffermerà, in particolare, su due vicende che esaminate dalle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione che, ad avviso di chi scrive, sono anch’essi espressione di scelte di politica giudiziaria rivolte a mettere in chiaro in modo sistematico e non emergenziale il ruolo dei diritti fondamentali della persona rispetto al pubblico potere – Cass. S.U. nn.4873/2022 e 28022/2022 –.
Anticipando le conclusioni che si proverà a tracciare, si cercherà di tracciare un orizzonte, ancora non ben decifrabile, nel quale il giudice italiano sarà chiamato a misurarsi per gestire al meglio un complesso di riforme imponente sia sul piano interno che su quello UE, cercando di coglierne le finalità di sistema perseguite dai legislatori al fine di verificarne la sostenibilità ed utilità concreta ed effettiva. In questa dimensione, che dunque affida alla giurisdizione responsabilità rilevanti, si proporrà quindi la chiave che sembra essere utile per governare il periodo di transizione e non tradirne il senso complessivo.
2. Sulla cresta dell’onda del giudizio di cassazione e del ruolo nomofilattico della Corte suprema.
È noto che appena conclusa la pandemia da Covid 19 l’Unione europea manifestò la sua solidarietà verso i Paesi maggiormente colpiti approvando un programma nazionale denominato PNRR (piano Nazionale di ripresa e resilienza); per questo in favore del nostro paese vennero attivate misure di sostegno finanziario imponenti, imponendo allo Stato il raggiungimento di alcuni obiettivi entro periodi di tempo ben determinati.
Da qui l'introduzione nel nostro Paese di riforme particolarmente incisive, finalizzate a conseguire gli obiettivi del piano nazionale di ripresa e resilienza concordati con l'Unione europea. Questi obiettivi, per quanto riguarda il sistema giudiziario, hanno riguardato sostanzialmente la riduzione delle pendenze e dell'arretrato nel sistema processuale civile e in questa prospettiva le riforme hanno inteso incidere sulla durata dei processi sia nel giudizio di merito che in quello di legittimità (legge delega 26 novembre 2021 n.206 e d.lgs. 10 ottobre 2022 n.149, di recente ritoccato dal d.lgs.n.164/2024, oltre al d.lgs. n. 15/2022 in materia di ufficio per il processo ed alla legge n.130/2022 di riforma della giustizia tributaria, alla l.n.111/2023 di riforma fiscale ed al successivo d.lgs. 30 dicembre 2023, n. 220).
Ora, quanto al giudizio di legittimità[3], la linea fondamentale della riforma introdotta dalle disposizioni succintamente ricordate, superata l’emergenza delle udienze a distanza che nel periodo Covid avevano preso il sopravvento e che nel periodo successivo sono state agganciate ad uno specifico provvedimento presidenziale per situazioni eccezionali, è stata quella di garantire la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, modificando parzialmente il sistema di decisione dei ricorsi, seguendo alcune linee portanti[4]. Si tratta di aspetti che solo apparentemente si muovono su un terreno meramente processuale ma che, all’evidenza, coinvolgono pienamente il “modo” con il quale il sistema garantisce i diritti della persona[5].
3. Dal giudicare al cooperare. L’art.363 bis c.p.c. ed il rinvio pregiudiziale “interno” del giudice di merito alla Corte di cassazione.
Si proverà, a questo punto, a concentrare l’indagine su altre ed ulteriori modifiche processuali che, anch’esse partorite nel periodo post-emergenziale, sembrano confermare un ulteriore cambio di paradigma che si va lentamente ma sempre più strutturalmente producendo nell’ambito dell’attività giurisdizionale. Si intende riflettere sul fenomeno, crescente, che traghetta la funzione del giudice da mero “decisore" dei processi a soggetto che coopera attivamente con altri giudici all’interno di un sistema giuridico sempre più complesso.
In passato, l'attività giurisdizionale era essenzialmente orientata a risolvere controversie nazionali applicando le leggi interne.
Oggi, tuttavia, i giudici nazionali operano in un contesto in cui le norme sovranazionali, come quelle derivanti dalla CEDU e dall'Unione Europea, giocano un ruolo centrale. Il giudice deve quindi non solo applicare la legge nazionale, ma anche assicurarsi che questa sia conforme ai principi sovranazionali di tutela dei diritti fondamentali.
Questa evoluzione è ben esemplificata dall’introduzione di strumenti come il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea – delle cui modifiche si dirà in seguito – e per quel che qui rileva, sul piano interno, del rinvio pregiudiziale interno del giudice di merito alla Corte di Cassazione, sul quale si proverà qui a riflettere nell’ottica appena indicata.
Con l’art.363 bis c.p.c. il giudice di merito può chiedere alla Corte di cassazione che fissi il principio ,Corte la questione presenti aspetti di ripetitività tali da giustificare la decisione del giudice di legittimità sulla base della richiesta di rinvio pregiudiziale in modo che la Corte possa fissare un principio di diritto vincolante soltanto per il giudice che ha richiesto il rinvio pregiudiziale, ma che ovviamente avrà una particolare valenza nomofilattica anche per altri giudizi pendenti davanti ad altri giudici di merito, i quali ultimi, pur non vincolati alla decisione resa in sede di rinvio pregiudiziale, potranno considerare la soluzione esposta dalla Cassazione con il ricordato principio del diritto, eventualmente discostandosene in modo motivato.
Nonostante le differenze, gli strumenti del rinvio pregiudiziale interno e di quello esterno condividono uno spirito comune di cooperazione tra i giudici di merito e le Corti superiori[6].
4. Le modifiche al rinvio pregiudiziale “esterno” (alla Corte di Giustizia UE)
Non meno espressiva di questa trasformazione del ruolo del giudiziario sembra essere la recente modifica della competenza in tema di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, già antesignana di questa visione di giudice cooperante con altri giudici.
Si proverà qui a dire, per sommi capi alle ricadute che possono verificarsi sul sistema di protezione dei diritti in ragione della recentissima entrata in vigore – 1 settembre 2024 – delle modifiche introdotte il 12 agosto 2024 per effetto della pubblicazione sulla GUUE del Regolamento (UE, EURATOM) 2024/2019, che modifica il Protocollo n. 3 sullo statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, nonché delle modifiche del Regolamento di procedura della Corte di giustizia e del Regolamento di procedura del Tribunale. Riforma che, in estrema sintesi, ha spezzettato la competenza in materia di rinvio pregiudiziale tra la Corte di giustizia dell’U.E. e il Tribunale, prevedendo “in favore” di quest’ultimo una “riserva di competenza” in materie specifiche – sistema comune di imposta sul valore aggiunto, diritti di accisa, codice doganale e classificazione tariffaria delle merci nella nomenclatura combinata, compensazione pecuniaria e assistenza dei passeggeri, sistema di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra – purché non siano in discussione “questioni indipendenti di interpretazione del diritto primario, del diritto internazionale pubblico, dei principi generali del diritto o della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea”.
E ciò ha fatto con un sistema di modifiche al TFUE e statutarie abbastanza complesso ed articolato – tanto nel determinare l’ingresso del rinvio pregiudiziale ad un unico sportello individuato presso la Corte di giustizia al quale spetta il ruolo di smistamento fra il Tribunale e la Corte stessa, quanto in sede di eventuale impugnazione delle decisioni rese dal Tribunale in sede di rinvio pregiudiziale – nel complesso finalizzato a salvaguardare, nelle intenzioni della Corte di Giustizia UE, anche il ruolo di giudice e garante assoluto ultimo in tema interpretazione del diritto UE.
5. La revocazione “europea” del giudicato nazionale per contrasto con la Corte edu (art.391 quater c.p.c.)
Un'altra riforma significativa introdotta dalla riforma Cartabia è quella della revocazione delle sentenze e del giudice nazionale quando sia stata accertata la violazione della convenzione da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo e si tratta di una in nuova ipotesi di revocazione straordinaria che si affianca a quelle già previste dal dall'articolo 395 del Codice di procedura civile.
Secondo l'articolo 391 quater c.p.c. le decisioni passate in giudicato il cui contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo contrario alla CEDU ho ad uno dei suoi protocolli possono essere impugnate per revocazione se concorrono le seguenti condizioni: a)la violazione accertata dalla Corte europea ha pregiudicato un diritto di Stato della persona; b) l'equa indennità eventualmente accordata dalla Corte europea ai sensi dell'articolo 41 CEDU non è idonea a compensare le conseguenze della violazione.
Rinviando agli approfondimenti già esposti in altra sede[7] è qui sufficiente ricordare che tale disposizione ha anche al pari di quella relativa al rinvio pregiudiziale suscitato notevole dibattito all'interno dell'Accademia e non è stata ancora oggetto di riflessioni da parte della Corte di Cassazione.
Sarà appunto la Corte di cassazione a sciogliere una serie di nodi e di dubbi interpretativi. Preme invece qui sottolineare la centralità della disposizione che pur lasciando dei dubbi in ordine all'ambito oggettivo di operatività del nuovo istituto della revocazione affianca alle ipotesi di impugnazione straordinarie collegate ad un errore di fatto da parte del giudice che ha definito il giudizio delle ipotesi che invece guardano la violazione dei diritti fondamentali e dunque un errore di diritto commesso dal giudice nazionale ed acclarato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo.
6. Le S.U. e la resistenza all’emergenza in nome dei diritti umani (Cass.S.U. n.4873/2022 e 28022/2022).
Cass., S.U. n.4873/2022 ha riguardato la questione del distanziamento sociale in periodo Covid per i richiedenti asilo che venivano inviati nei centri di immigrazione subendo misure organizzative non rispettose della disciplina in tema di distanziamento sociale introdotte in via emergenziale nel periodo pandemico
Nel giudizio promosso da un’associazione portatrice di interessi collettivi dei migranti il giudice di merito aveva ritenuto insussistente il diritto soggettivo dei richiedenti rispetto alla questione del distanziamento sociale da parte del gestore dei centri di accoglienza
Decidendo il ricorso per Cassazione per motivi di giurisdizione si è ritenuto che rispetto al tema del distanziamento sociale in periodo pandemico ad essere coinvolto fosse un diritto soggettivo assoluto dei richiedenti protezione, non comprimibile dall'attività l'amministrazione, o dai soggetti che gestivano i fenomeni migratori su delega dell'amministrazione.
L'ordinanza n. 4873/2022 ha cassato le decisioni del merito che avevano escluso l'esistenza di un diritto soggettivo, ragionando sul fatto che appunto i diritti fondamentali e nel caso di specie quelli che erano in gioco, collegati anche al dovere primario di solidarietà, non consentiva in alcun modo alla pubblica amministrazione di esercitare discrezionalmente un'attività di gestione dei richiedenti asilo in spregio alle regole sul distanziamento sociale.
Parzialmente diverso il caso esaminato da Cass.S.U., n. 28022/2022, ove veniva in gioco un problema di esclusione di una società calcistica da un campionato perché non aveva rispettato le regole sul distanziamento e che aveva determinato la sospensione da parte della Federcalcio. Le Sezioni unite sono state investite della questione ancora una volta sotto il profilo della giurisdizione. In questo caso, Cass.S.U. n.28022/2022 ha ritenuto che la giurisdizione spettasse al giudice amministrativo perché era la norma che regolava gli effetti del mancato rispetto delle norme sul distanziamento ad attribuire all'autorità sportiva certi poteri. Ma in questo precedente il diritto fondamentale alla salute occupa una posizione centrale nella controversia discussa nel testo, soprattutto in relazione alle misure adottate per contenere la pandemia da COVID-19. Anche in questa occasione esso viene considerato un diritto di primaria importanza, che giustifica l’adozione di misure straordinarie da parte delle autorità pubbliche per proteggere la comunità. Nel contesto della pandemia, tali misure hanno incluso la quarantena e l'isolamento, che hanno limitato altre libertà fondamentali, come la libertà di circolazione (art. 16 Costituzione). Tuttavia, questo bilanciamento di diritti è necessario e legittimato dalla necessità di preservare il bene collettivo della salute pubblica.
L’attuazione di queste misure sanitarie, come la "quarantena in bolla" per le squadre sportive, evidenzia come il diritto alla salute richieda l'intervento del potere pubblico. Le autorità sanitarie, in stretta collaborazione con organismi sportivi, hanno adottato provvedimenti specifici per garantire che le attività sportive professionistiche potessero continuare, pur nel rispetto delle misure di prevenzione contro la diffusione del virus. Questo dimostra come il diritto alla salute non sia isolato, ma debba essere bilanciato con altri diritti e interessi legittimi, come il diritto al lavoro e alla libera iniziativa economica.
Tuttavia, la discrezionalità esercitata dalle autorità pubbliche nel decidere e attuare queste misure è oggetto di controllo da parte del giudice amministrativo.
Infatti, quando le misure di tutela della salute pubblica incidono su diritti e interessi legati a provvedimenti amministrativi, come nel caso delle limitazioni alle attività sportive, la competenza giurisdizionale spetta al giudice amministrativo. Quest'ultimo è chiamato a valutare la legittimità degli atti adottati, bilanciando il diritto alla salute con gli altri diritti costituzionali e garantendo la correttezza dell'azione pubblica.
7. Tirando le fila del discorso: a) Il ruolo della Corte di cassazione e l’idea di fondo di una “cooperazione” fra giudici come modus di gestione delle emergenze e delle transizioni.
Si può ora provare a riassumere il senso della rassegna di modifiche legislative e di interventi giurisdizionali delle S.U. civili – intervenute come si diceva a cavallo con la pandemia da Covid 19 sulla base di alcune riflessioni che, in definitiva, delineano un quadro di luci ed ombre nel sistema processuale interno, ma anche in quello collegato al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea.
Può dunque affermarsi, per quanto riguarda il piano interno ed il fascio di misure processuali introdotte a cavallo della pandemia che le stesse, con specifico riferimento al rinvio pregiudiziale “interno” ed alla nuova ipotesi di revocazione “europea”, sembrano animate dalla realizzazione piena di quel canone scolpito dall'articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
Quel canone della effettività della tutela giurisdizionale che poi informa anche le previsioni contemplate dalla Convenzione europea dei diritti e l'uomo è che ormai è entrato pleno iure nell'ordinamento nazionale anche attraverso plurime pronunzie dei giudici tanto della Corte di Cassazione (cfr. Cass.S.U. n.36057/2022, Cass.S.U. n.2075/2024), quanto della Corte costituzionale (cfr. Corte cost.n.140/2022, Corte cost. n.22/2022) e della Corte di giustizia (Corte giust. 13 marzo 2007, Unibet, C-432/05)[8].
Si avverte, dunque, forte l’esigenza di fornire un sistema processuale capace di offrire speditamente, efficacemente e anche con un accresciuto grado di prevedibilità ai destinatari delle tutele un quadro quanto più preciso dei tempi del processo e di come esso si può declinare.
In questa prospettiva, il tentativo che probabilmente va fatto è quello di cogliere in questi diversi istituti una duplice finalità indirizzata, per l’un verso, ad implementare la centralità della Corte di cassazione nel sistema di tutela dei diritti. Dall’altro lato, si coglie un’idea in parte nuova dell’idea stessa di nomofilachia essa nutrendosi tanto dell’apporto, in fase ascendente, del giudice di merito nel rinvio pregiudiziale tanto interno che esterno – rivolto al giudice UE quale giudice di ultima istanza – quanto delle sentenze della Corte edu nella revocazione alle quali è chiamato a dar voce lasciando da parte il giudicato nazionale “anticonvenzionale”.
Una funzione, quella di nomofilachia, nella quale è dunque difficile individuare il vertice della piramide e la base, tutti i protagonisti coinvolti costituendo allo stesso tempo colonne e tempio del “diritto vivente”. Soffermando l’indagine sull’art.363 bis c.p.c. si tratta di una innovazione processuale che cambia radicalmente i rapporti tra il giudice di merito e la Corte di Cassazione poiché quest’ultima non è più chiamata a controllare la legittimità della decisione dei giudici di merito, ma opera “con” ed “insieme” al giudice di merito, il quale la investe di una questione che il giudice di merito ritiene non essere stata esaminata dalla Corte di Cassazione e nel sollecitare l'intervento della Corte contribuisce alla migliore efficienza del sistema giudiziario il quale appunto non sarà più condizionato dall'assenza di precedenti della Cassazione che spesso arrivano molti anni dopo rispetto a vicende che invece toccano i plurimi interessi delle parti e che richiedono un veloce e tempestivo intervento del giudice di legittimità.
Il rinvio pregiudiziale interno diviene, così, dimostrazione di quanto la funzione nomofilattica non solo prenda luogo dalla scelta del giudice del rinvio pregiudiziale, ma partecipi pienamente degli elementi interpretativi forniti dal giudice di merito, senza i quali la Corte di legittimità non potrà fornire risposta al giudice di merito. Quest’ultimo non più, dunque, visto come destinatario della verifica di conformità alla legge del suo operato, ma individuato “per sistema” come autentico “motore trainante” che apre i cancelli della Corte di Cassazione. A quest’ultima si affida dunque il compito di fissare in tempi celeri standard di prevedibilità che non fanno certo venir meno per il giudice di merito la possibilità di discostarsi da quelle indicazioni fornite in sede di risposta al rinvio pregiudiziale, ma che sicuramente offrono elementi di certezza del diritto e di prevedibilità capaci di migliore la funzionalità del sistema nel suo complesso. Tutto questo in un clima di evidente innovazione del concetto di nomofilachia, sempre più arricchito di elementi di circolarità ed orizzontalità.
Rispetto a questo aspetto specifico non può dubitarsi che al fondo emergano questioni delicate che attengono alla funzione della Corte di Cassazione e del giudice di merito.
È infatti in corso un dibattito particolarmente acceso all'interno della giurisprudenza e dell'Accademia sull'opportunità o meno che la Corte di Cassazione, già oberata di un notevole numero di ricorsi, possa (e debba) fare fronte alle ulteriori richieste di rinvio pregiudiziali provenienti dai singoli giudici di merito.
Si è anzi pure sostenuto che l'intervento in via preventiva della Corte di Cassazione sulla richiesta di rinvio pregiudiziale subirebbe una vera e proprio torsione, tale da produrre la sottoposizione del giudice di merito alle pronunzie della Corte di Cassazione intervenute su richiesta del singolo giudice che ha sollecitato il rinvio pregiudiziale, espropriando la giurisdizione di merito delle sue prerogative. Da qui uno stravolgimento dei ruoli del giudice della legittimità e del giudice di merito, davanti al quale generalmente si forma il diritto vivente, anche attraverso una pluralità di punti di vista di orientamenti che poi, appunto, quando finalmente giungono all'esame della Corte di Cassazione possono, allora – e solo allora – trovare una soluzione più consapevole da parte del giudice della legittimità proprio in relazione al dispiegarsi di prospettive, di casi concreti, di risposte dei giudici di merito che sono andate nel tempo affrontando – e sedimentando – aspetti specifici che poi rendono a quel punto necessaria la decisione della Corte di Cassazione.
Non è questa la sede per sciogliere qui i dubbi in ordine a questo istituto né chi scrive ne ha la adeguata competenza[9].
Può però essere utile ribadire che, nella prospettiva che qui si intende offrire, il rinvio pregiudiziale “interno” dimostri come si vada sempre di più sviluppando nell'ambito della giurisdizione una prospettiva che non fa del giudice solo il “decisore della causa”, cogliendone la prospettiva volta a cooperare insieme ad altri organi giurisdizionali alla più efficiente ed effettiva soluzione della controversia.
Un giudice di merito, dunque, che ha ben chiaro come la funzione nomofilattica propria della Corte di Cassazione in base all'articolo 65 della legge sull'ordinamento giudiziario oggi si nutra in via diretta del suo attivo apporto, tenuto ed evidenziare tanto la complessità della questione rinviata, quanto la possibilità che la norma si offra a diverse interpretazioni sulle quali la Corte di Cassazione ancora non si è pronunciata (cfr., art.363 bis, primo comma, n.3 c.p.c.: “l’ordinanza che dispone il rinvio pregiudiziale…reca specifica indicazione delle diverse interpretazioni possibili”). Un giudice, dunque, che impegna sé stesso non nella individuazione di “una interpretazione” utile per la decisione – attività che tradizionalmente egli è chiamato a svolgere – ma che deve farsi carico di delineare le “diverse interpretazioni possibili”.
Il che tratteggia un “fine” del ruolo del giudice di merito davvero significativamente diverso da quello svolto nella domanda di rinvio pregiudiziale “esterno” nel quale egli può – secondo le Raccomandazioni stilate dalla Corte di giustizia[10] – offrire la “sua interpretazione” della questione rimessa alla Corte di giustizia, non dovendosi dar carico di mettere a servizio del giudice UE le eventuali possibili interpretazioni alternative.
Diversità apparentemente sottili che sembrano tuttavia capaci di traghettare, in modo forse fin qui non adeguatamente preso in considerazione, verso un nuovo modo di esercizio della giurisdizione.
Ora, quello del rinvio pregiudiziale alla Cassazione che il Prof. Biavati, sulle colonne di Giustizia insieme aveva immaginato, quando si era ancora dentro l’emergenza pandemica, come un sogno per l’operatore del diritto[11], è dunque diventato realtà in una prospettiva che al contempo alimenta l’idea del giudice dialogante, ma soprattutto quella della necessità di aumentare gli strumenti idonei a creare efficienza, rapidità ed effettività al sistema processuale.
E non è qui possibile soffermarsi sulle ormai numerose e importanti decisioni adottate dalle sezioni semplici e dalla S.U. civili della Cassazione in campo processuale e sostanziale attraverso il rinvio pregiudiziale interno. Decisioni che, anche quando sono state di inammissibilità, contengono un fascio di elementi di sicuro interesse “nomofilattico” – al punto da essere pubblicate sul sito della Corte – che ancora di più accresce il significato del ruolo del giudice di merito. Un ruolo di “costruttore” che ha comunque chiesto una decisione alla Corte di cassazione, alla quale la decisione di inammissibilità si accompagna con una motivazione ricca di indicazioni e di elementi essi stessi dotati del nuovo carattere che assumendo il giudice di legittimità. Un ruolo parallelo, quello svolto in sede di ammissibilità – che si arricchiscono dello studio preliminare affidato ad una struttura appositamente costituita e composta da esponenti istituzionali della Corte stessa, a quello del decisore di principi di diritto che è esso stesso segno di profondo cambiamento della immagine della Corte e del suo ruolo.
Orbene, le considerazioni qui esposte sembrano pienamente valere anche con riguardo all’istituto della revocazione “europea” introdotta dall’art.391 quater c.p.c.
Invero, l’art.391 quater c.p.c. sembra dimostrare quanto il legislatore dell'ultima riforma abbia avuto particolare attenzione al tema della giustizia della decisione resa dalle Corti nazionali e quindi abbia guardato con particolare attenzione al tema della possibile contrarietà di una decisione, pur se passata in giudicato, con i canoni che attengono: a) al rispetto dei diritti fondamentali della persona; b) alla possibilità di rivedere il giudicato formatosi a livello interno in ragione della pronunzia della Corte europea dei diritti dell'uomo che abbia accertato la violazione di un diritto fondamentale tutelato dalla CEDU o dai suoi protocolli.
Ad avviso di chi scrive si tratta di un’ulteriore dimostrazione di quella esigenza di effettività che irradia sempre di più o vorrebbe irradiare sempre di più il processo civile italiano; un processo civile che, dunque, affida alla Corte di Cassazione la cognizione dei giudizi di revocazione di sentenze “anticonvenzionali” passate in giudicato anche se non rese dalla stessa Corte di Cassazione, ma appunto sentenze che sono divenute irretrattabili innanzi al giudice di merito o per effetto della dichiarazione di inammissibilità del ricorso per Cassazione.
Dunque, un istituto che ancora una volta valorizza il ruolo della Corte di Cassazione e che, dunque, ancora una volta suscita apprezzamenti o perplessità, a seconda della prospettiva che anima i commentatori e gli studiosi e di questa disposizione.
Da un lato, infatti, vi è chi vede nella legislazione più recente una tendenza alla gerarchizzazione della giurisdizione di merito rispetto alla Corte di Cassazione. Si assume, dunque, che questa ipotesi di revocazione, accentrando innanzi al giudice di legittimità i giudizi di revocazione per contrarietà alla CEDU, rappresenterebbe un ulteriore (ed innaturale) trasformazione dei rapporti fra giudice nazionale e giudice sovranazionale orientata a creare una sorta di sottomissione e soggezione del primo al secondo che invece si contesta aspramente, evidenziandone il contrasto con lo o spirito costituzionale e che promana dall'articolo 101 Cost.
Altri, per converso, guardano con favore a questo nuovo istituto, ritenendo che esso appunto spinga verso una maggiore attenzione del processo verso la sua “giustizia”. Di guisa che anche il valore del giudicato – un punto cardinale dell'esperienza giuridica italiana ma anche delle esperienze giuridiche dei paesi dell'unione europea – può essere rivisto dalla Corte di Cassazione nella misura in cui il giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo abbia acclarato la contrarietà della decisione nazionale rispetto al parametro convenzionale.
Non spetta a chi scrive sciogliere i dubbi, ma semmai cogliere anche nell’art.391 quater cpc quegli accenti che orientano verso una dimensione sempre più circolare e cooperativa delle giurisdizioni, nazionali e sovranazionali, proprio al fine di garantire risposte giudiziari efficaci ed effettivi e sempre in linea con i valori fondamentali della persona.
L’art.391 quater c.p.c. – unitamente all’art362 ult.c. c.p.c. – rappresenta, infatti, un riconoscimento forte della centralità dei diritti fondamentali nell'esperienza giuridica nazionale, al netto dei dubbi interpretativi che ancora permangono in ordine all’ambito oggettivo della previsione che sembra limitare la revocazione alle ipotesi in cui vi sia stata un accertamento della violazione di un diritto di Stato. Uno scenario che orienta obbligatoriamente lo sguardo sul tema delle violazioni dei diritti fondamentali ma anche sui canoni di effettività della tutela giurisdizionale di cui si diceva e sulla necessaria cooperazione fra giudice nazionale e CEDU anche nella fase rescissoria della pronunzia resa in violazione della norma convenzionale.
Ed è proprio con la revocazione che si apprezza ancora di più quell’idea di cooperazione fra diversi plessi giurisdizionali, nazionali e sovranazionali che caratterizza il processo di “trasformazione” della giurisdizione.
Immaginare, infatti, che sia proprio la Corte di cassazione a decidere la revocazione – per la quale è attivamente legittimato oltre alla parte vittoriosa a Strasburgo anche il Procuratore generale – della decisione contraria a pronunzia della Corte edu, con uno strumento che opera in funzione “nomofilattica” – essendo adottato all’esito di un’udienza pubblica e con la presenza obbligatoria del Procuratore generale – imporrebbe di cogliere nella misura normativa introdotta dal legislatore l’idea di una funzione regolatoria ancora una volta collaborativa, cooperativa e partecipata, alla quale offrono elementi importanti anche le pronunzie della Corte edu che occorre prendere in considerazione per eliminare, in sede di revocazione, gli effetti della violazione convenzionale accertata.
Si potrebbe allora dire che, in tal modo ragionando, tutto torna. Tutto si allinea, tutto si tiene. Un tutto che ha basi che sembrano a chi scrive profondamente diverse da quelle che reggevano il sistema di tutela giurisdizionale fino a pochi lustri fa.
Basi che tendono, dunque, a realizzare una transizione dal periodo di/delle emergenza/e nelle intenzioni orientata a perseguire obiettivi che hanno sempre e comunque al centro il valore irripetibile della persona, ben consapevoli della difficoltà che attraversano i sistemi processuali.
Sembra così meno aspro il cammino per comprendere che il passaggio della nomofilachia da strumento verticale a modus come si diceva sopra “orizzontale”, partecipato[12].
Una nomofilachia che, superata l’emergenza pandemica, sembra volere approdare in maniera stabile su un terreno in parte nuovo: quella della nomofilachia cooperativa che si nutre anche all’interno della Corte di cassazione di nuovi e rinnovati momenti di confronto fra sezioni appartenenti a settori diversi, ma unite dai temi che vengono in gioco trasversalmente – vittima, migrazioni, rapporti fra giudizio civile e giudizio penale, motivazione dei provvedimenti – o attraverso l’espansione dei protocolli con altre Corti superiori nazionali e sovranazionali ma anche con gli Avvocati, attori protagonisti della giustizia insieme alla giurisdizione.
Tutto questo tende progressivamente ad emarginare l’idea che la funzione nomofilattica appartenga, come si diceva, esclusivamente alla Corte di Cassazione, divenendo progressivamente più condivisa con i diversi protagonisti che, come si è visto, alimentano continuamente l’attività della Corte di cassazione e con la stessa condividono a pieno titolo l’esigenza di fare “nomofilachia”.
Un processo, quest’ultimo che, d’altra parte, è pienamente coerente con il ruolo assunto dalla Corte di Cassazione rispetto alla “forza” della giurisprudenza sovranazionale delle Corti europee – Corte di giustizia UE e Corte europea dei diritti dell’uomo –. Una forza capace di condizionare le scelte interpretative del giudice di ultima istanza nazionale, soprattutto quando si afferma che il giudice di merito nazionale è legittimato a non adeguarsi ai principi espressi dalla Corte di cassazione se contraria al diritto UE, potendo egli stesso disapplicarli per dare prevalenza al diritto UE come interpretato dalla Corte di giustizia dell’UE.
7.1 B) La riforma del rinvio pregiudiziale “esterno” e la ricerca ultima di un sistema effettivo e celere nelle relazioni fra giudici.
Considerazioni parallele sembrano d’altra parte doversi fare se si guarda alle modifiche della competenza in tema di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Strumento, quest’ultimo, che d’altra parte si intreccia quasi naturalmente con il rinvio pregiudiziale interno, come ci era capitato di evidenziare in altra occasione[13].
Non si intende, come già accennato all’inizio, qui approfondire gli aspetti problematici che vedono il Tribunale UE dotato di una competenza in sede di rinvio pregiudiziale, amputata delle questioni che riguardano i principi fondamentali, l’ordine pubblico internazionale e per di più soggetta ad un vaglio preliminare in ordine alla competenza di quello stesso giudice, in entrata e di controllo di legittimità in caso di impugnazione del rinvio pregiudiziale. Né è qui il caso di ragionare sulle modalità scelte per realizzare questa transizione fra il vecchio ed il nuovo rinvio pregiudiziale sulla quale in passato già si avuto modo di riflettere[14].Serve, piuttosto, sottolineare la prospettiva che sembra animare la riforma del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia con la individuazione di specifiche materie che vengono attribuite al Tribunale per rendere più leggero il lavoro della Corte di giustizia così consentendole, a sua volta, risposte più efficaci ed effettive in termini temporali, ma anche individuando nella Corte di giustizia il giudice dei diritti fondamentali dell'Unione europea, il giudice che veglia e verifica la compatibilità dei sistemi nazionali con il quadro dei principi fondamentali.
Considerazioni, queste ultime, scolpite nel considerando n.4 del Reg. EURATOM n.2024/2019, ove si afferma che “la Corte di giustizia, nell’ambito di cause pregiudiziali, è sempre più chiamata a pronunciarsi su questioni di natura costituzionale o relative ai diritti umani e alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea («Carta»)”.
Un meccanismo, nelle intenzioni del legislatore – e della stessa Corte di giustizia che ha proposto la modifica normativa – orientato a spingere l’acceleratore sull’efficienza e che investirebbe pur sempre nel dialogo fra giudice e giudice che ha consentito di edificare i basamenti giuridici dell’Unione europea. Di ciò, del resto, si coglie testuale conferma se si getta un occhio sul primo considerando del Reg. EURATOM n.2024/2019 ove si legge che “Un siffatto trasferimento corrisponde, del resto, alla volontà degli autori del trattato di Nizza, che hanno inteso rafforzare l’efficacia del sistema giurisdizionale dell’Unione prevedendo la possibilità di un coinvolgimento del Tribunale nel trattamento di tali domande.”
In definitiva, la riforma qui ricordata è stata mossa da un'idea di valorizzare al massimo il ruolo della Corte di giustizia nella sua missione di garante dei diritti fondamentali in modo da offrire livelli di tutela omogenei all’interno dell’UE. Dunque, un’idea di centralità dei diritti fondamentali i quali meritano, secondo il legislatore europeo che ha modificato il regolamento dello statuto della Corte, una risposta più celere. Infatti, la Corte di giustizia, sgravata da alcune competenze, a dire del legislatore (e della stessa Corte che ha patrocinato le modifiche normative) dovrebbe operare in tempi più ridotti.
Anche questa trasformazione, dunque, si presta a una riflessione rispetto al tema del quale discutiamo, poiché si tratta di modifica processuale radicale che viene proposta, in prospettiva, come funzionale alla migliore tutela dei diritti.
Ed in questo appare evidente il filo comune fra scelte legislative sul piano interno e politiche legislative europee, indirizzate entrambe a prendere per mano l’emergenza nella quale i diritti fondamentali delle persone erano stati messi a dura prova ed a confezionare riforme – astrattamente possibili da tempi non recenti ma accelerate dalle emergenze di cui si è detto – destinate, ancora una volta, ad una modifica dell'assetto della giurisdizioni in modo non transeunte, non eccezionale ma appunto sistemico ed organico.
7.2. C) Il valore fondamentale dei diritti umani nell’epoca delle emergenze.
Non resta che far cenno alle pronunzie delle Sezioni Unite di cui si è detto dedicando due riflessioni.
In entrambe le decisioni si è visto che la riflessione operata sul diritto alla salute è stata fortemente condizionata dalla situazione emergenziale della pandemia da COVID-19, ove è emerso ancora di più nella sua dimensione più profonda e complessa, rivelando non solo la necessità di una tutela concreta ed effettiva per ogni individuo, indipendentemente dal contesto sociale o territoriale in cui si trova, ma anche l’emersione di un concetto che, accanto al concetto di salute individuale, comprende quello di salute collettiva.
In tale contesto, la centralità del diritto alla salute emerge con forza, specialmente quando è oggetto di tutela in situazioni di emergenza sanitaria come quella che abbiamo vissuto. Il distanziamento sociale introdotto con la normativa emergenziale non è stato, dunque, semplicemente una misura contenitiva imposta, rappresentando piuttosto la concretizzazione di quel nucleo intangibile del diritto alla salute che il legislatore ha voluto preservare in modo assoluto. Le disposizioni normative emanate durante la pandemia – come i decreti-legge e i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri – hanno chiaramente definito le modalità di applicazione di questa tutela, attribuendo alla salute una priorità indiscutibile. Il diritto al distanziamento sociale ha così assunto una dimensione cogente e priva di discrezionalità, al punto che l’amministrazione (o potere pubblico) non gode di alcuna possibilità di deroga o di adattamento se non di quelle previste dalla legge. Ciò perché l'obbligo di garantire una distanza interpersonale di almeno un metro era una misura fissa, predeterminata, volta a prevenire il contagio e a proteggere tanto gli individui quanto la collettività che resiste all'intervento del potere pubblico. Questo concetto è stato ritenuto particolarmente rilevante in contesti come quello dell'accoglienza dei richiedenti asilo – considerandone la posizione di vulnerabilità – dove l'amministrazione non può esercitare alcuna discrezionalità nella tutela di diritti fondamentali. Nel caso del distanziamento sociale nei centri di accoglienza, la pubblica amministrazione e i gestori dei centri sono stati quindi ritenuti vincolati a garantire queste misure senza possibilità di adattamenti proprio per garantire la protezione dei più vulnerabili. Per questo, il caso specifico del distanziamento sociale durante la pandemia ha mostrato che anche in momenti di crisi ed eccezionali, il diritto alla salute sia cruciale non solo per il singolo ma per l'intera collettività, ed è proprio questa interconnessione tra individuo e comunità che conferisce al diritto alla salute un carattere assoluto e inviolabile.
Si può dunque concludere che anche la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, chiamata a fissare dei principi stabili in tema di giurisdizione, ha valorizzato la centralità dei diritti dell’uomo e, in particolare, del diritto alla salute, nella sua dimensione individuale e plurale, confermando che ogni sistema democratico, anche in periodi di emergenze, è tenuto a garantire i diritti della persona soprattutto quando emerge il suo lato più vulnerabile, loro offrendo quella protezione impedendo che il periodo eccezionale potesse trasformarsi in un accorciamento delle tutele apprestate dal diritto alla salute: dimensione, dunque, incomprimibile dal pubblico potere o comunque modulabile solo se e quando la legge ne consenta in termini vincolati la regolazione, in linea con la tutela della persona, della Costituzione e delle Carte internazionali.
7.3. D) Il ruolo del diritto vivente nella gestione delle emergenze e delle transizioni.
Ma vi è un’ultima riflessione che si intende qui offrire.
Ed è appunto che, ancora una volta, anche nei fenomeni che si è inteso qui sommariamente affrontare, la dimensione statica delle riforme e la finalità dalle stesse patrocinata di porsi come architrave di un sistema in vari punti modificato dalle fondamenta non potrà che passare attraverso l’applicazione concreta che di quelle nuove regole farà il giudice – recte, i giudici –.
Sono talmente tante e spinose le questioni interpretative, qui solo accennate, che le modifiche legislative introdotte sul piano sia del processo civile interno che su quelle del rinvio pregiudiziale alla giurisdizione dell’Unione europea – oggi pleno iure individuata in plessi diversi anche per quel che riguarda il rinvio pregiudiziale – a demandare al law in action la parola concreta sul senso delle riforme, sulla loro effettiva portata, sulla loro capacità di perseguire realmente gli obiettivi di sistema decantati. Basta qui rammentare i dubbi che si porranno per l’individuazione in concreto dei casi che saranno riservati all’esame della Corte di giustizia rispetto a quelli demandati al Tribunale. E ciò per evidenti ragioni connesse, per un verso, allo sviluppo del procedimento pregiudiziale nel contraddittorio fra le parti e, per altro verso, alla persistente possibilità che il Tribunale ritenga di ravvisare ragioni ulteriori per rimettere l’esame del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Questioni che, come si diceva, involgono l’interpretazione e valutazione del rinvio pregiudiziale e, verosimilmente degli elementi offerti ai fini della decisione.
In questa direzione, del resto, attenta dottrina ha evidenziato che solo una verifica a posteriori di come la Corte di giustizia intenderà svolgere il ruolo in sede di “sportello unico” ai fini dello smistamento dei rinvii pregiudiziali tra Corte di giustizia e Tribunale e, ancora, sulle modalità che il Tribunale sceglierà per esercitare la facoltà, pure allo stesso riservata, di restituire il ricorso per rinvio pregiudiziale inviato dalla Corte di giustizia, ritenendo che appunto siano in discussione e i principi che attengono all'unità del diritto Ue[15].
Il che dimostra, per un verso, quanto solo l'applicazione pratica delle riforme in tema di rinvio pregiudiziale ed il diritto vivente – anche europeo[16] – che si creerà per realizzare la transizione fra vecchio rinvio pregiudiziale e nuovo, arricchito da elementi di rilevazione delle attività compiute dalla Corte di giustizia e dal Tribunale potranno dimostrare non solo la reale portata della riforma in tema di rinvio giudiziale, ma anche la reale la utilità dello stesso rispetto ai fini che stavano alla base della riforma stessa.
Per altro verso, sembra marginalizzata l’immagine che ancora viene a volte patrocinata circa un netto confine tra legislazione e giurisdizione, questa risultando davvero destinata ad essere soppiantata dal principio di leale cooperazione, arricchito da una dose non marginale di buona fede e fiducia reciproca[17].
Un principio dunque, che lasciando da parte le contrapposizioni ideologiche, deve alimentare le relazione, inevitabili, fra giudici e giudici e fra giudici e legislatori, riconoscendo gli uni agli altri le rispettive competenze pur nella consapevolezza che il diritto vivente delle Corti è quello che dà anima e concretezza al diritto scritto, lo fa respirare in un contesto dentro il quale vivono le norme, denso di contenuti costituzionali senza i quali la disposizione non può essere intesa nella sua portata.
[1] Testo rielaborato e corredato di minimi riferimenti bibliografici di un Intervento al panel su Transizioni ed emergenze, squilibri istituzionali, riflessi al piano delle dinamiche della normazione, nell’ambito della V Conferenza annuale di ICON-S Italian Chapter su Lo stato delle transizioni, Trento 18-19 ottobre 2024.
[2] Un’intervista impossibile a Guido Calabresi, a cura di R. Conti, Giustizia insieme, 13 settembre 2021.
[3] Una ulteriore riforma particolarmente incisiva - ancorché controversa - è stata quella delle proposte di definizione accelerata introdotta dall’art.380 bis c.p.c.- c.d. pda-. Si tratta di un sistema che in realtà tende a definire i giudizi che il consigliere relatore ritiene inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati e che, previa comunicazione ai difensori della proposta di definizione accelerata, può determinare la definizione del processo se e le parti non chiedono fissarsi comunque l'udienza in camera di consiglio ritenendosi appunto in caso di assenza di questa richiesta il ricorso rinunciato. Questo istituto, oggetto di notevole dibattito tanto a livello giurisprudenziale che ancora prima a livello accademico, ha trovato già alcune risposte da parte del diritto vivente. La giurisprudenza si è soprattutto interrogata sulla possibilità che in caso di richiesta di udienza camerale il collegio debba o meno prevedere obbligatoriamente l'assenza del consigliere che aveva redatto la proposta di definizione accelerata. In questa prospettiva le sezioni unite hanno ritenuto che la partecipazione al collegio del consigliere estensore della proposta di definizione anticipata non determinasse alcun vulnus ai diritti delle parti-v.Cass.S.U. n.9611/2024-. Non può chiudersi questa veloce rassegna sulle riforme processuale senza accennare alla gestione delle udienze in Corte di Cassazione durante il periodo dell’emergenza pandemica-art. 83, comma 7 lett. f) D.L. n.18/2020- che hanno consentito l’adozione di modalità a distanza per consentire lo svolgimento delle attività che erano state paralizzate dal Covid. Misure che, gestite nell’emergenza mediante Protocolli stilati con il CNF, hanno poi visto il quasi totale abbandono delle misure eccezionali, ormai divenute “eccezionali” nel periodo di transizione proprio perché collegate all’esigenza di situazioni eccezionali.
[4] Da un lato, sono state eliminate le sezioni filtro originariamente istituite per la definizione de contenzioso cosiddetto seriale; dall'altro lato è stata unificata la disciplina dei ricorsi definiti con il rito camerale, in modo da prevedere, in linea con quello che già era stata una caratterizzazione delle precedenti riforme del rito della Cassazione e cioè la udienza pubblica soltanto per i ricorsi che presentavano realmente valenza nomofilattica e che quindi richiedevano una particolare vaglio da parte della Corte di Cassazione nonché l'intervento obbligatorio del Procuratore generale all'udienza pubblica. Questo ha di fatto ridotto il sistema di definizione dei ricorsi con il sistema dell’udienza pubblica ed ha omogeneizzato il rito per i procedimenti camerali.
[5] Sul punto, non è infatti superfluo ricordare che tra le garanzie strumentali alla tutela processuale dei diritti fondamentali nel sistema della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo si colloca anche il diritto alla pubblicità dell’udienza previsto dall’articolo 6, § 1 CEDU. Sul piano interno, tuttavia, la giurisprudenza ha ritenuto che il principio di pubblicità dell'udienza di rilevanza costituzionale e convenzionale non rivesta carattere assoluto e possa essere derogato in presenza di «particolari ragioni giustificative», ove «obiettive e razionali» (Corte cost., sent. n. 80 del 2011) -cfr. di recente Cass., S.U., n. 165/2023-. Il principio della pubblicità del giudizio che si svolge dinanzi ad organi giurisdizionali, pur costituendo un cardine dell'ordinamento democratico, fondato sulla sovranità popolare sulla quale si basa l'amministrazione della giustizia in Italia (art. 101, comma I Cost.), non trova, peraltro, un'applicazione assoluta (Corte cost. nn.50/1989, 69/1991, 373/1992, 235/1993), potendo essere legittimamente limitato, oltre che nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico, della sicurezza nazionale, dei minori o della vita privata delle stesse parti del processo, anche nell'interesse stesso della giustizia (Cass., S.U., n. 7585/2004). Il fattore tempo è intervenuto anche con riferimento a tale diritto nel periodo di emergenza pandemica per effetto dell'art. 23, comma 8 bis, del d.l. n. 137 del 2020, conv. con modif. dalla l. n. 176 del 2020. Sul punto Cass., S.U., n. 2610/2021, Cass., S.U., n. 11546/2022 hanno ritenuto che l'individuazione del rito per la decisione dipende dalla diretta volontà della legge, che stabilisce che si debba procedere automaticamente in camera di consiglio senza l'intervento del procuratore generale e dei difensori delle parti, salvo che una delle parti o il procuratore generale facciano richiesta di discussione orale entro il termine di venticinque giorni liberi prima dell'udienza e che, in mancanza di tale richiesta, alle parti non è consentito di partecipare alla discussione nell'udienza ex art. 379 c.p.c., senza che ciò rechi ostacolo all'esercizio del diritto di difesa. Analogamente, le sezioni quinta e terza penale della Corte di Cassazione (Cass., n. 17781/2022; Cass., n. 19431/2022) hanno ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 83, comma 7, d.l. 17 marzo 2020, n.18, 23 d.l. 23 ottobre 2020, n. 137 e 23 d.l. 9 novembre 2020, n. 149, per contrasto con gli artt. 24, 111 e 117 Cost. in relazione all'art. 6 CEDU, nella parte in cui, nel vigore della disciplina emergenziale per il contrasto della pandemia da Covid-19, hanno previsto la trattazione della causa secondo l'ordinaria disciplina processuale solo in caso di tempestiva richiesta della parte, “in quanto la limitazione dei diritti di rango costituzionale e convenzionale posti a presidio delle garanzie procedurali dell'imputato è frutto di una scelta discrezionale del legislatore, non manifestamente irragionevole o arbitraria, ma giustificata dal bilanciamento con altri principi di pari rango, quali il diritto alla vita e alla salute.”
[6] Entrambi mirano a garantire una interpretazione corretta e uniforme delle norme, sia a livello nazionale (Corte di Cassazione) sia a livello sovranazionale (Corte di Giustizia UE. Entrambi i rinvii pregiudiziali puntano a risolvere questioni giuridiche complesse attraverso il dialogo tra giurisdizioni, migliorando l'uniformità e la coerenza interpretativa del diritto. In entrambi i casi, i giudici di merito si pongono in un rapporto di cooperazione con la Corte superiore, ricevendo chiarimenti che consentono loro di risolvere correttamente le controversie in corso. Sia il rinvio pregiudiziale interno che quello alla CGUE si basano su un dialogo continuo tra i giudici, finalizzato a garantire una giustizia più efficace e coerente. Tratti in parte diversi. Il ruolo del giudice nazionale rispetto alla Corte di giustizia UE-offre la sua interpretazione su come interpretare la norma Ue secondo le raccomandazioni della Corte di giustizia. Infatti, nel rinvio pregiudiziale “interno” il giudice di merito deve dare conto delle diverse possibili interpretazioni della norma ai fini della ammissibilità del rinvio pregiudiziale. Dunque, il giudice di merito si fa “costruttore del significato della norma al punto che, se non offre indicazioni sulle diverse possibili interpretazioni, il rinvio pregiudiziale sarà dichiarato inammissibile. Un qualcosa di diverso- forse di molto diverso - dalla mera opinione sul rinvio pregiudiziale “esterno” che, secondo le Raccomandazioni predisposte dalla Corte di Giustizia UE – il giudice nazionale può inserire nella richiesta di rinvio pregiudiziale. Il che dimostra, in entrambe le ipotesi, la differenza notevole fra il ruolo del giudice di merito in questo contesto e quello del “decidere”, del “giudicare”.
[7] V., volendo, R.G. Conti, L’esecuzione delle sentenze della corte edu in ambito civile e la nuova ipotesi di revocazione “europea”, art. 391-quater c.p.c., in G. Lattanzi, M. Maugeri, G. Grasso, L. Calcagno, A. Ciriello (a cura di), Il diritto europeo e il giudice nazionale, Giuffré, Milano, 2023, Vol. II.II, 285 ss.
[8] V., volendo, R. Conti, L’effettività del diritto comunitario ed il ruolo del giudice, in Eur. Dir.priv., 2007, 2,479 ss.
[9] Si può soltanto ricordare un'esperienza concreta vissuta da giudice tributario che, parte della Corte di giustizia tributaria di merito di Agrigento – in https://www.cortedicassazione.it/page/it/ordinanza_di_rinvio_pregiudiziale_del_31032023_con_rg_4282023__ufficio_di_merito_corte_di_giustizia_tributaria_di_i_grado_di_agrigento_con_rg_392021?contentId=RPC7362 – ha proposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione sul tema collegato al riparto delle giurisdizioni che in Italia sono suddivise tra giudice ordinario, giudice amministrativo, giudice contabile il giudice tributario che appunto proprio in una questione che riguardava un contributo introdotto dalla legislazione emergenziale in favore delle imprese per effetto della vicenda pandemica aveva posto e poneva un dubbio in ordine alla giurisdizione del giudice tributario o del giudice ordinario sulla contestazione da parte del contribuente in ordine alle ragioni del rigetto della richiesta di contributo avanzata all’amministrazione pubblica. In questa occasione, non rinvenendo precedenti specifici che riguardavano la disciplina normativa di recente introduzione sul contributo di cui ho detto e rilevando la ricaduta della decisione in punto di giurisdizione del giudice tributario o del giudice ordinario su un numero consistente di controversie simili, la Corte di giustizia tributaria di primo grado ritenne di chiedere alla Corte di Cassazione di risolvere i dubbi in ordine alla portata della disciplina sui contributi in materia di covid al fine di chiarire se fosse di competenza del giudice ordinario o del giudice tributario. La complessità della vicenda nasceva dal dubbio che il giudice tributario di merito potesse rivolgersi alla Corte di Cassazione ed avvalersi dello strumento di cui all’art.363 bis c.p.c. per risolvere un dubbio che atteneva alla controversia pendente innanzi a sé. Dubbio che la Corte di Cassazione ha dipanato per un verso ritenendo che il giudice tributario di merito è legittimato a chiedere alla Corte di Cassazione il rinvio pregiudiziale di cui all'articolo 363 bis cpc. Dall'altro lato le S.U.-Cass.S.U.n.34851/2023 (in https://www.cortedicassazione.it/resources/cms/documents/34851_12_2023_civ_oscuramento_noindex.pdf- e poi, risolvendo il dubbio interpretativo sulla portata della disposizione in tema di giurisdizione nel senso che le controversie relative al contributo covid erano di competenza del giudice della giurisdizione ordinaria. Ora, questa decisione intervenuta a poco più di tre anni di distanza dall'entrata in vigore della legge che riguardava il contributo previsto per imprenditori colpiti dalla crisi post Covid, ha indubbiamente definito in tempi celeri, peraltro con l'autorevolezza della pronunzia delle Sezioni unite della Cassazione una questione che, altrimenti, avrebbe dato luogo a decisioni contrastanti capaci di produrre incertezza negli anni a venire in ordine alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario o del giudice tributario e, dunque, ha contribuito a garantire l'effettività e l'efficienza del sistema giudiziario nel suo complesso. La stessa decisione ha poi chiarito che il rinvio pregiudiziale ha finalità “nomofilattico-deflattive” e si pone in funzione complementare rispetto al sistema previsto per la risoluzione delle questioni di giurisdizione, essendo funzionale alla enunciazione di un principio di diritto suscettibile di applicazione in un numero indefinito di giudizi aventi ad oggetto la medesima questione.
[10] Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale, 4 ottobre 2024, C/2024/6008, in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=OJ:C_202406008.
[11] P. Biavati, Note sul processo civile dopo l’emergenza sanitaria, Giustiziainsieme, 15 luglio 2020.
[12] Per uno sviluppo di quanto esposto nel testo sia consentito il rinvio a R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, in questa Rivista, 4 marzo 2021.
[13] V., volendo, R. Conti, I rapporti tra rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione e rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, in Il diritto tributario nella stagione delle riforme. Dalla legge 130/2022 alla legge 111/2023, a cura di E. Manzon e G. Melis, Ebook Giustizia Insieme, 2024, 97 ss. Più di recente, S. Pini, Un (possibile) dialogo tra l’ordinamento dell’Unione e quello nazionale. Le «cause pilota» e il rinvio pregiudiziale avanti la Corte di cassazione, in Rivista del Contenzioso europeo, Fasc. n. 2/2023, pp. 45 ss.
[14] V., volendo, R. Conti, La proposta di modifica dello Statuto della Corte di giustizia UE in tema di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, in Giustiziainsieme, 8 luglio 2024; id., C’era una volta il rinvio pregiudiziale. Alla ricerca della fiducia – un po’ perduta – fra giudici nazionali ed europei, in corso di pubblicazione su eurojus.
[15] cfr. C. Amalfitano, The Transplant of Procedural Rules from the Court of Justice to the General Court, in EU Law, 24 luglio 2024, Live.
[16]Cfr., per il riferimento al “diritto vivente europeo”, rivolto alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, Corte cost.nn.43/2018, 145/2020, 121/2023.
[17] A. Ruggeri, Il principio personalista e le sue proiezioni, in Federalismi, 28 agosto 2013; G. Pitruzzella, Il rinvio pregiudiziale nel sistema costituzionale dell’Unione europea, in Il diritto europeo e il giudice nazionale, a cura di G. Lattanzi, M. Maugeri, G. Grasso, L. Calcagno, A. Ciriello, Milano, 2023 vol.1, Il diritto dell’Unione europea e il ruolo del giudice nazionale, cit.,556. Sia consentito il rinvio a R.G. Conti, Dall’uso alternativo all’uso cooperativo del diritto nell’esperienza di un giudice comune, in Sistemapenale, 25 giugno 2024.
Immagine: Winslow Homer, Northeaster, olio su tela, 1895, Metropolitan Museum of Art, Gift of George A. Hearn, 1910.
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