Note sul processo civile dopo l’emergenza sanitaria
di Paolo Biavati
Sommario. 1. – Il processo civile e la normazione di emergenza. 2 – L’esperienza del periodo emergenziale. 3. – Nuove forme di udienza e diritto di difesa. 4. – Protocolli locali e unità della giurisdizione. 5. – Le prospettive: qualche prima anticipazione normativa. – 6. Una riflessione sul ruolo della Cassazione. – 7. Brevi annotazioni conclusive.
1.Il processo civile e la normazione di emergenza.
Riflettere sulle conseguenze della pandemia legata alla diffusione del Covid 19 è un compito difficile e non soltanto per i giuristi. Da un lato, si corre il rischio di pensare che non si tornerà più alla situazione precedente e che nuovi scenari si apriranno in ogni settore della società, mentre è chiaro che consuetudini e rapporti sociali consolidati non verranno spazzati via in modo così semplice, ma tenderanno a riprodursi e a ripetersi. Dall’altro, si può cadere nell’eccesso opposto e pensare all’emergenza che abbiamo vissuto (e che, mentre scrivo, non è certo definitivamente archiviata) come ad una spiacevole parentesi, che resterà nel mondo dei ricordi. In realtà, a mio avviso, senza cadere nell’illusione di un’improbabile palingenesi, occorre prendere atto che non potremo non assorbire molti elementi di novità, emersi nei mesi trascorsi. Occorre quindi confrontarsi con questi elementi, senza pensare a priori che il vecchio era meglio del nuovo, o che il nuovo è sempre meglio del vecchio, ma cercando di orientarci a valorizzare ciò che di positivo si sta proponendo.
Ometto qui un’analitica ricostruzione (peraltro, tuttora in progress) delle norme emergenziali e rimando in particolare ai commenti, chiari e puntuali, che Franco De Stefano ha costantemente offerto ai lettori di Giustizia insieme. Mi limito ad una rapidissima citazione di quelle principali: l’art. 2, comma 2°, lett. h) del d.l. n. 11 del giorno 8 marzo 2020, abrogato perché superato; l’art. 83 del d.l. n. 18 del 17 marzo 2020, convertito in legge con la l. n. 27 del 24 aprile 2020, modificato dal d.l. n. 28 del 30 aprile 2020, convertito in legge con la l. n. 70 del 25 giugno 2020; l’art. 36 del d.l. n. 23 del giorno 8 aprile 2020, convertito in legge con la l. n. 40 del 5 giugno 2020. Ulteriori novità sembra vengano dalla legge di conversione del d.l. n. 34 del 19 maggio 2020, vale a dire il c.d. decreto rilancio.
Non mi soffermo, in specie, sul tema della sospensione dei termini processuali ovvero delle relative eccezioni, mentre vorrei dedicare qualche annotazione alle modalità provvisorie di svolgimento delle udienze civili, anche sulla base dell’esperienza maturata sul campo.
2. L’esperienza del periodo emergenziale.
Come è ben noto, in concreto, le modalità previste sono due. Entrambe tengono conto, in modo primario, dell’esigenza di distanziamento sociale, che tuttora costituisce uno degli elementi cardine nell’impegno per contenere gli effetti negativi della pandemia e che ha raggiunto il suo apice nelle settimane di chiusura del Paese[1].
La prima è quella che prevede lo svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti (e quindi, la maggior parte di esse) mediante lo scambio e il deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni e la successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice (art. 83, comma 7°, lett. h), d.l. n. 18/20).
La seconda è quella che, invece, prevede lo svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori e dalle parti mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Lo svolgimento dell’udienza – così la norma – deve in ogni caso avvenire con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti. Prima dell’udienza il giudice fa comunicare ai procuratori delle parti e al pubblico ministero, se è prevista la sua partecipazione, giorno, ora e modalità del collegamento. All’udienza il giudice dà atto a verbale delle modalità con cui si accerta l’identità dei soggetti partecipanti e, ove trattasi di parti, della loro libera volontà; di tutte le ulteriori operazioni è dato atto nel processo verbale (art. 83, comma 7°, lett. f), d.l. n. 18/20).
Mi pare preferibile chiamare le prime “udienze telematiche”, dato che la modalità telematica per il deposito delle note scritte è obbligatoria e totalmente sostitutiva della presenza in aula dei difensori: circola peraltro anche la denominazione di “udienze cartolari”, che allude al modo necessariamente scritto della trattazione. Per le seconde è invalso chiamarle “udienze da remoto”.
Le settimane di applicazione delle disposizioni emergenziali hanno messo in luce vantaggi e svantaggi delle soluzioni prescelte e hanno aperto il dibattito, non tanto sulla loro legittimità, anche costituzionale (anche perché l’eccezionalità della situazione impone un atteggiamento costruttivo, che apprezza tutto ciò che si poteva fare per non bloccare interamente la giustizia civile, sia pure pagando qualche prezzo), ma soprattutto sulla loro idoneità a sopravvivere alla fase della pandemia e a rimanere come possibili modelli, alternativi o perfino esclusivi, dell’udienza civile dopo il ritorno alla normalità.
Prima di affrontare questo tema, è forse utile sottolineare qualche profilo problematico delle forme di udienza governate dalla disciplina dettata nel periodo dell’emergenza.
Ora, mentre le udienze da remoto hanno trovato spazio limitato, molto più frequente è stato l’impiego delle udienze telematiche (o cartolari, che dir si voglia). Al riguardo, segnalo, in primo luogo, che un ruolo decisivo è assunto dal provvedimento che le dispone. Infatti, l’atto dell’organo giurisdizionale disegna il perimetro della trattazione a distanza, talora restringendolo rispetto a ciò che il precedente provvedimento di fissazione dell’udienza in presenza avrebbe permesso alle parti di fare.
Ancora, il provvedimento relativo alla trattazione a distanza incide, sia pure di solito in modo leggero, sulle modalità e sui tempi di difesa delle parti. Viene specificato, in base a ciò che le linee guida e i protocolli locali prevedono, il termine anteriore alla data di udienza entro il quale le note scritte devono essere depositate: ne segue che una semplice istanza orale, che il giudice avrebbe raccolto a verbale, è sostituita da un atto scritto, da preparare con un certo anticipo. Dato che la sinteticità è un obiettivo ancora difficile da raggiungere, non di rado le note appesantiscono il materiale di causa e complicano (ripeto: in modo leggero) l’impegno dei difensori.
Naturalmente, si è posto il tema di stabilire, se i termini fissati per il deposito siano perentori o no. A mente dell’art. 152 c.p.c., occorre trovare la disposizione di legge che affida al giudice il potere di renderli tali. A me pare che, allo stato, una disposizione diretta non ci sia e che questa facoltà venga esercitata in base ad una catena di norme: da quella (art. 83, comma 6°, del d.l. n. 18) che affida ai capi degli uffici l’adozione delle opportune misure organizzative per contenere gli effetti negativi dell’emergenza epidemiologica sullo svolgimento dell’attività giudiziaria (fra cui quelle del comma 7° della norma e, pertanto, le udienze telematiche), alle disposizioni che si riscontrano nei protocolli concordati con i Consigli degli ordini forensi. Troppo poco, a mio parere, perché se ne possa dedurre la perentorietà del termine.
Ciò non significa, però, che il rispetto del termine sia ininfluente. Infatti, la mancata presentazione delle note equivale, nella normazione emergenziale come governata dai protocolli, a mancata comparizione: se nessuna delle parti scrive, si applicano gli artt. 181 e 309 c.p.c. Questa equiparazione è discutibile, perché si può cogliere una (per quanto lieve) differenza fra la mancata comparizione fisica e il mancato deposito di note, contenenti istanze e conclusioni: infatti, si potrebbe dare il caso (pensiamo ad un interveniente adesivo dipendente o a un chiamato iussu iudicis, contro il quale nessuna altra parte abbia preso conclusioni) di una parte processuale che intende essere presente all’udienza, ma non ha istanze da proporre: vuole esserci e basta. Questa parte sarebbe comunque tenuta a depositare note, pur non volendo assumere alcuna iniziativa processuale.
Ne segue, in ogni caso, che questa equiparazione finisce per consentire al giudice di decidere, avendo letto solo le note depositate entro il termine fissato. In qualche modo, l’avvocato che non deposita nel termine è equiparato a quello che arriva in udienza a verbale già chiuso. Quindi, non decadenza per mancato rispetto di un termine perentorio, ma semmai preclusione e inefficacia pratica di un’attività compiuta quando la fase processuale a cui essa inerisce si è già consumata.
Del resto, vi sarebbero non pochi inconvenienti se si attribuisse al termine una valenza meramente esortativa. Il principale è quello dell’equilibrio e del contraddittorio fra le parti. Già di per sé uno dei limiti dell’udienza telematica consiste nell’elisione della facoltà di replica, invece possibile durante la trattazione in presenza. Occorre ricordare che il contraddittorio non consiste solo nell’imporre al giudice di sentire tutte le campane (audiatur et altera pars, secondo gli antichi), ma comporta anche la possibilità, per ogni parte, di contrastare ciò che è affermato dall’altra. Se, poi, a questa diminutio delle facoltà difensive si aggiunge il rischio che una parte possa scrivere le sue note dopo avere letto quelle dell’altra, senza incorrere in alcuna decadenza, lo squilibrio si aggrava.
E’ poi evidente che chi non presentasse le note per causa non imputabile avrebbe diritto a beneficiare della rimessione in termini: né più né meno, di un avvocato che arrivasse a udienza finita per un guasto al treno prenotato tempestivamente o per un documentato improvviso problema di salute fisica.
3. Nuove forme di udienza e diritto di difesa.
I rilievi appena svolti ci introducono alla domanda di maggiore significato; se cioè, le nuove modalità, una volta superata la fase emergenziale, possano trovare posto stabile nel processo civile e se, in tal caso, siano compatibili con il giusto processo, previsto dalla carta costituzionale all’art. 111. Il dibattito è già vivace, anche se non ha ancora trovato ampio spazio sulle riviste tradizionali e si è sviluppato, invece, nei blog e nelle reti sociali.
Prendo le mosse dal comunicato emesso il 10 aprile 2020, in piena situazione di chiusura, dall’esecutivo di Magistratura democratica, in cui si legge, fra l’altro: “Tuttavia, riteniamo necessario ribadire che una volta cessata la situazione di emergenza – e mettendo in conto come anche per la giustizia, al pari di altri settori della vita del paese, si tratterà di un processo graduale – occorrerà tornare alla “normalità” e, con essa, alla pienezza di tutte quelle regole processuali che non sono neutre, essendo state previste dal legislatore in funzione dell’effettività del diritto di difesa e del ruolo di garanzia della giurisdizione. Da questo punto di vista, l’udienza da remoto e la trattazione scritta nel processo civile rischiano di vanificare i positivi risultati della trattazione effettiva dei processi in udienza, a partire da un tasso di definizione conciliativa molto elevato”.
Nei giorni successivi, queste affermazioni hanno dato vita ad un nutrito scambio di opinioni. Accanto a molti consensi (fra i quali, come meglio dirò, il mio), sono state espresse numerose e articolate posizioni di dissenso, il cui filo conduttore (e scusandomi per l’indispensabile sintesi) è quello di non legarsi allo scenario dell’udienza in presenza, che spesso si riduce ad un teatrino burocratico, ma di aprirsi, senza paura, alle nuove possibilità offerte dalla tecnologia, in vista di una maggiore efficienza del processo civile.
Ora, a me pare che altro sia (o sia stato) fare funzionare la giustizia, per quanto possibile, nella situazione di distanziamento sociale imposta dall’emergenza sanitaria, e altro è trasformare queste soluzioni provvisorie in una stabile modalità di governo del processo civile. E’ pure vero che non si deve diffidare nelle soluzioni sempre più avanzate che la tecnologia propone: certo, occorre valutarle e pesarne l’efficacia, ma senza escluderne a priori l’impiego.
Il punto di partenza per una riflessione corretta (e qui sta la mia condivisione con il comunicato che ho citato) sta nella presa d’atto che in nessun caso vi può essere perfetta identità fra l’udienza tradizionale, con la presenza fisica del giudice e dei difensori e i vari possibili surrogati che – necessariamente – danno qualcosa di meno. Solo affermando con chiarezza che l’udienza telematica e l’udienza da remoto non sono la stessa cosa dell’udienza prevista dal codice si può aprire la discussione, sul livello di utilizzabilità delle forme sorte con il diritto emergenziale.
L’udienza telematica finisce per essere una razionalizzazione di un modo deteriore (seppure, spesso imposto dalle necessità pratiche) di gestire le udienze civili. Se i difensori delle parti si presentano a verbalizzare le rispettive istanze e il giudice, senza alcun dialogo, decide di riservare la decisione (quale che sia) fuori udienza, è chiaro che, in qualche misura, si può affermare che poco cambia. Il codice, però, prevede altro: si pensi alle ipotesi di un percorso di conciliazione, ovvero la (per quanto negletta) richiesta di chiarimenti e individuazione dei punti fondamentali della controversia, ex art. 183, comma 4°, c.p,c. Si aggiunga che, come sopra accennavo, i difensori vengono privati del potere di replicare alle istanze (in ipotesi, nuove e inammissibili) della controparte.
Il difetto dell’udienza telematica, quindi, è soprattutto quello di ingessare il processo nella contrapposizione delle parti, limitando sia il reciproco diritto di replica, sia il ruolo attivo e propositivo del giudice. Si ha, quindi, un oggettivo impoverimento della trattazione, lontano dai migliori modelli europei.
A queste osservazioni, si replica spesso (e qui penso soprattutto al mondo forense) che le udienze a distanza possono essere comode, non solo perché evitano trasferte e comunque investimenti di tempo, ma anche perché assicurano -si dice- il medesimo risultato di quelle tradizionali. L’esempio che viene portato con maggiore frequenza è l’udienza di precisazione delle conclusioni in sede di appello.
Queste obiezioni pratiche hanno un senso e, infatti, mi permetteranno di dire che, a date condizioni, l’esperienza del periodo emergenziale può offrire spunti utili anche per il futuro. In sé, però, sono argomenti che provano troppo. A ben guardare, infatti, le udienze che meglio sono sostituibili con una trattazione telematica o da remoto sono, in sostanza, udienze inutili, che potrebbero e dovrebbero essere evitate. I giudici di appello, in punta di codice, già alla prima e unica udienza dovrebbero fare precisare le conclusioni (artt. 188 e 189 c.p.c.). Ciò non accade, non per imposizione del codice, ma per le note esigenze di carico di lavoro, che inducono a fare dell’udienza di precisazione delle conclusioni un momento di smistamento del compito decisorio. Quindi, un’udienza che non ci dovrebbe essere e, pertanto, normalmente gestibile in via telematica. Quando invece l’udienza ha un significato effettivo nella trattazione del caso, la qualità dello svolgimento in presenza è certamente preferibile.
Diverso è il profilo dell’udienza da remoto. Dando per scontato che i sistemi di collegamento funzionino (e funzionino ugualmente bene per tutte le parti, mettendole sullo stesso piano comunicativo), si realizza una forma di com-presenza, che sembra rispettare i crismi dell’oralità. In realtà, il rapporto che si svolge sulla piattaforma informatica non consente la stessa immediatezza (per usare, non a caso, una delle tre parole d’ordine chiovendiane) di quello che si svolge nella prossimità fisica e anche le modalità di direzione dell’udienza sembrano segnare una sensibile differenza con quelle comuni.
In effetti, le piattaforme oggi in uso sono strutturalmente più adatte ad un dialogo fra pari, che non ad una situazione in cui vi è pur sempre un iudex che opera super partes. Probabilmente, possono avere maggiore utilità in sedi come la mediazione o la negoziazione assistita, come del resto la stessa legislazione recente sembra riconoscere.
Si deve concludere, quindi, che l’udienza telematica e l’udienza da remoto non assicurano lo stesso livello di contraddittorio di quelle che si svolgono in presenza fisica. Ne è consapevole lo stesso legislatore, che, non a caso, si preoccupa che le nuove modalità di udienza permettano di “salvaguardare il contraddittorio” (art. 83, comma 7°, lett. f) del d.l. n. 18 del 2020): una cura che non avrebbe senso, se non si temesse il contrario.
Sulla scorta di queste annotazioni, occorre chiedersi se e quanto dell’esperienza che si è formata nella situazione di emergenza epidemiologica possa stabilizzarsi, al momento dell’auspicato ritorno ad una sufficiente normalità.
La tecnologia impoverisce fatalmente i rapporti umani: eppure, dalla tecnologia non si torna indietro.
In tutta franchezza, dubito che le nuove modalità, una volta sperimentate, vengano messe in soffitta: in questo senso, già si mostrano i primi segnali. La tecnica italica della proroga è il cavallo di Troia con cui il legislatore cerca di anestetizzare la sensibilità degli operatori: già oggi si prospetta un rinvio fino al 31 ottobre ed è verosimile che non ci si fermi qui. Ritengo che non ci si debba opporre, in modo aprioristico, a queste formule, ma che si debbano salvaguardare almeno due essenziali condizioni.
La prima è che si dovrà trattare, senza eccezioni, di modalità alternative all’udienza in presenza del giudice e dei difensori. Riterrei grave che per determinate materie l’una o l’altra modalità venisse imposta come esclusiva. Invece, la facoltà di scelta può trasformarsi in un positivo elemento di flessibilità, in relazione alla peculiarità dei singoli casi.
La seconda è che il loro impiego non dovrà essere imposto dal giudice, ma dovrà essere condiviso, nel singolo caso, da tutte le parti. Lo strumento può essere semplicemente il seguente: ove il giudice disponga la trattazione mediante udienza telematica o da remoto, qualunque parte potrà opporsi e ottenere la trattazione in presenza. Per converso, le parti potranno chiedere consensualmente al giudice di adottare l’una o l’altra modalità e il giudice sarà libero di accettare o no l’istanza.
Il contraddittorio è un valore costituzionale e non lo si può diminuire in nessun caso. Certo, talora lo si può comprimere, ma dando sempre alle parti la possibilità di riespanderlo.
Una norma che può aiutare, seppure collocata in un contesto diverso, è l’art. 823, comma 1°, in tema di arbitrato. Il lodo può essere deliberato a distanza, secondo prassi ampiamente diffuse specie in sede internazionale, ma ciascun arbitro può chiedere che sia invece deliberato in conferenza personale. Lo stesso meccanismo potrebbe essere applicato alle udienze telematiche o da remoto, affidando a ogni singola parte il diritto di avanzare la relativa richiesta.
4. Protocolli locali e unità della giurisdizione.
L’esame della normazione emergenziale relativa al processo civile richiede una breve sosta su un punto, che non mi pare abbia trovato particolare attenzione. Si tratta dell’effetto di frantumazione della disciplina processuale, causato dalla varietà dei protocolli e delle linee guida, attuati in forza del citato art. 83, comma 6°, d.l. n. 18 del 17 marzo 2020.
Premetto che non sono affatto ostile ai protocolli e che anzi li apprezzo, come efficace forma di soft law. Altro, però, è la fioritura spontanea di protocolli, per disciplinare spazi non espressamente governati dalla legge (come quelli, per non fare che un esempio, sorti in molte sedi in tema di procedimento sommario), e altra cosa, molto diversa, è la delega sistematica alle sedi locali di scegliere come affrontare, sia pure nel quadro di ampie indicazioni legislative, un fenomeno inedito come l’impatto del Covid 19. Ho letto, nelle scorse settimane, contributi che parlavano di “giurisdizione veneta”, “giurisdizione marchigiana” e simili. Certo, lo scopo di questi scritti era quello di descrivere le scelte pratiche attuate nei diversi fori nei momenti più difficili della chiusura forzata. Tuttavia, il fenomeno non va sottovalutato.
Il quadro istituzionale della Repubblica ha subito notevoli scosse, sul piano del rapporto fra il centro e la periferia, lo Stato e le Regioni. Il localismo ha conosciuto forme inedite, con Presidenti di Regione che hanno assunto decisioni del tutto autonome rispetto alle disposizioni nazionali o hanno perfino minacciato di “chiudere” la loro Regione ad altri cittadini italiani. In questo contesto, l’abdicazione del Governo dal dettare regole uniformi non mi è parsa un atto di rispetto verso le culture particolari, ma soltanto una pura e semplice incapacità di reagire in tempi rapidi, seppure dinanzi ad un fenomeno non prevedibile.
Non aggiungo altre osservazioni: mi limito a dire che su valori come quello dell’unità della giurisdizione e del principio di uguaglianza non si può abbassare la guardia. Mi auguro che non solo al momento del ritorno alla normalità, ma anche in sede di eventuale proroga delle forme alternative, se ne tenga conto.
5. Le prospettive: qualche prima anticipazione normativa.
L’evolversi della legislazione post Covid comincia ad offrire qualche indicazione sulle tendenze future. E’ certo presto per trarre conclusioni di sistema, ma alcuni elementi possono essere tenuti in considerazione.
Intanto, l’art. 20-bis del d.l. 17 marzo n. 18, come convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile 2020, n. 27 e ancora modificato dal d.l. 30 aprile n. 28, occupandosi di mediazione, getta un primo sguardo oltre la fase emergenziale. Esso precisa che, anche a regime di normalità, gli incontri di mediazione potranno svolgersi in via telematica, ma con il preventivo consenso – ed è questo il punto – di tutte le parti coinvolte nel procedimento. E’ positivo che della volontà delle parti si tenga conto, come requisito di validità dell’iter della mediazione.
I testi in discussione in sede di conversione in legge del decreto rilancio sembrano valorizzare il consenso delle parti in rapporto alle udienze da remoto, ma non anche – se intendo bene - in rapporto a quelle telematiche.
A me sembra che questa distinzione, se sussistente, non sia condivisibile. Il potere di direzione dell’udienza e del processo si estende certo a tutto ciò che accade davanti al giudice, ma non comporta, di per sé, che il giudice scelga anche le regole con cui le parti si confrontano. Se è vero, come penso, che l’udienza telematica non equivale pienamente a quella in presenza, mi pare indispensabile che anche in questo caso si richieda il consenso (o, a tutto concedere, la non opposizione) delle parti.
Ancora un rilievo. In questo periodo, sono apparsi sulla scena volonterosi tentativi di economisti e tecnici, che propongono riforme alla giustizia civile (su cui rimando alle acute osservazioni di Maria Giuliana Civinini e Giuliano Scarselli[2]). Sembra delinearsi, in modo strisciante, un tentativo di banalizzazione della giustizia, seppure presentato sotto le bandiere dell’efficienza e della modernizzazione[3]. Premesso che noi giuristi di solito ci asteniamo dal presentare progetti di riforma del sistema economico, talché verrebbe facile ripetere il monito di Apelle[4], è necessario ribadire che la ragione e il torto, la giustizia e l’ingiustizia, toccano corde essenziali della persona umana e non si riducono mai, neppure in materia civile, a pure e semplici questioni di denaro, da sbrigare con fastidio.
6. Una riflessione sul ruolo della Cassazione.
Molti osservatori hanno sottolineato come, a prescindere da ogni altro fattore, l’emergenza sanitaria abbia rallentato ulteriormente i tempi della giustizia civile: ad esempio, le modalità di lavoro agile hanno indubbiamente inciso, in senso negativo.
Piove sul bagnato, verrebbe da dire. Ma forse vi è una funzione essenziale del nostro ordinamento che dai ritardi – quelli fisiologici e questi patologici – subisce un attacco al suo stesso significato. Mi riferisco alla funzione di nomofilachia del giudice di legittimità.
Le conseguenze della pandemia sui rapporti giuridici stanno aprendo una gamma di conflitti seriali: basti pensare al tema del mancato adempimento di obbligazioni, dovuto alla situazione di chiusura delle attività commerciali. I fiumi di inchiostro scorrono, le opinioni si fronteggiano, le cause vengono radicate. Eppure, per conoscere l’interpretazione che la Cassazione darà dell’art. 1218 c.c. nel contesto attuale dovremo aspettare molti anni, quando la situazione si sarà evoluta e, probabilmente, la soluzione (almeno, sul piano pratico) interesserà a pochi.
Non intendo certo iscrivermi all’elenco di coloro che (a Costituzione invariata) si sono sforzati di trovare qualche via d’uscita a un problema che l’emergenza ha forse reso più evidente, ma che non ha certo creato. Mi limito a notare che, in via puramente logica, mentre lo ius litigatoris suppone che la Corte parli per ultima, lo ius constitutionis vuole che la Corte parli per prima. Già oggi parla per prima, quando – ad esempio – propone una nuova lettura di una norma con efficacia per il futuro, nelle forme del c.d prospective overruling, oppure quando, all’esito di un regolamento preventivo di giurisdizione, indica ai litiganti l’esatta strada da percorrere per il loro contenzioso. Parla per prima (o almeno, viene interpellata prima) anche quando il legislatore le affida un compito di governo dei conflitti seriali, come nel caso dell’art. 420-bis c.p.c.
Ho qualche ritrosia nell’andare avanti con il ragionamento, perché ne rischia di uscire, al di là delle mie intenzioni, una specie di proposta. Preferisco raccontare un midsummer night’s dream, in cui un’esperienza simile al rinvio pregiudiziale europeo si collega al metodo spagnolo dell’interés casacional[5]. In questo sogno, fermo restando il diritto di chiunque a ricorrere in Cassazione contro le sentenze come da art. 111 cost., ogni giudice di merito, in primo grado, può interpellare la Corte, chiedendo un’interpretazione nomofilattica in caso di questioni nuove. La Cassazione, in un breve termine, mediante una sezione apposita e molto qualificata, semplicemente decide se l’interpello merita o no una risposta immediata: e lo fa, misurando l’interesse generale della questione per l’ordinamento. In caso negativo, non succede nulla e quel contenzioso ritornerà eventualmente alla Corte dopo la trafila ordinaria. In caso affermativo, il processo a quo resta sospeso fino alla pronuncia della Corte, da attuarsi con criteri di priorità ed effetti vincolanti per il caso che l’ha generata e fortemente persuasivi per tutti gli altri.
Mi sveglio dal sogno di una Cassazione che risolve subito le questioni che si vengono ponendo e che in tempi brevi orienta il diritto vivente e torno a guardare la realtà: di certo, qualcosa dovremo fare, perché altrimenti, volendo proteggere la norma costituzionale, che a tutti consente di attingere alla tutela di legittimità, finiamo praticamente per svuotarla di efficacia.
7. Brevi annotazioni conclusive.
Trarre conclusioni di una qualche valenza, in un contesto così variabile e incerto, più che impossibile, è inutile. Se però posso aggiungere una parola finale a questo breve intervento, mi pare il caso di raccomandare al legislatore e agli interpreti di non farsi travolgere dagli eventi, ma di sostare e riflettere.
Le vicende dell’emergenza sanitaria hanno provvisoriamente distolto le luci dei riflettori sul disegno di legge delega di riforma del processo civile, presentato dal governo al Senato appena il 9 gennaio u.s. Ai processualisti quel testo non piace[6]. Potrebbe essere utile cogliere l’occasione per una riflessione di ampio respiro che, senza indulgere alle frettolose semplificazioni dei tecnocrati, individui le modalità strutturali e organizzative più idonee per restituire al paese una giustizia al passo con i tempi.
[1] Situazione che, nel linguaggio mediatico, ha assunto la denominazione inglese di lockdown, forse per attenuarne la connotazione negativa.
[2] CIVININI-SCARSELLI, Ridurre i tempi della giustizia civile ? Osservazioni di un giudice e di un avvocato a margine di una recente proposta, in www.questionegiustizia.it
[3] V. ancora CIVININI, La Giustizia in quarantena, in www.questionegiustizia.it
[4] “Sutor, ne ultra crepidam”, come riporta Plinio il Vecchio nel XXXV libro della Storia naturale, attribuendo il detto al pittore Apelle, che avrebbe così rimbrottato un ciabattino che, inorgoglito dal fatto che l’artista aveva accolto un suo rilievo sulla rappresentazione di una scarpa, si era lanciato a criticare l’operato del pittore su altre parti della figura.
[5] Su cui v. per tutti J. LOPEZ SANCHEZ, El interés casacional, Civitas, 2002.
[6] Si veda il testo del parere del Consiglio direttivo dell’Associazione fra gli studiosi del processo civile, pubblicato su Giustizia insieme il 30 dicembre 2019.