ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Premessa – 2. Esperienze in Italia prima della cd. riforma Cartabia – 3. Prime applicazioni della nuova disciplina – 4. Necessità di criteri interpretativi condivisi – 5. Attuabilità della giustizia riparativa e prassi del tribunale di Roma.
1. Premessa
Quando parliamo di giustizia riparativa parliamo di una pratica lunga, faticosa, volta a prevenire conflitti, costruire relazione e riparare fratture in un processo di dialogo che coinvolge le parti interessate facendo del crimine “un’occasione positiva di rafforzamento dei legami sociali”[1].
La giustizia riparativa ha una dimensione relazionale e un approccio inclusivo e affonda le sue radici nella comunità, terreno privilegiato che consente di non inaridire i legami e permette di costruirne di nuovi.
La comunità si identifica nella vittima. Mettere al centro la persona offesa e la sua dignità è un modo nuovo di guardare al processo, non limitato al profilo risarcitorio.
L’applicazione della giustizia riparativa in ambito penale consente quindi di inserire questo istituto tra le risorse a disposizione per incidere sulla recidiva[2] e di affrontare i limiti e le contraddizioni del sistema carcere dove, larga parte della popolazione detenuta “rappresenta una marginalità sociale che avrebbe dovuto trovare altre risposte” perché “altre forme di supporto e riduzione dei conflitti e delle difficoltà che abitano la collettività hanno fallito”[3].
Come si ricava dalle premesse della Raccomandazione CM/Rec(2018)8 del Consiglio d’Europa agli Stati membri sulla giustizia riparativa in materia penale, la finalità è quella di “incoraggiare il senso di responsabilità degli autori dell’illecito e offrire loro l’opportunità di riconoscere i propri torti così da favorire il loro ravvedimento e consentire la riparazione e la comprensione reciproca e incoraggiare la rinuncia a delinquere” [4].
Principi chiave della giustizia riparativa sono: “volontarietà; dialogo deliberativo e rispettoso; eguale attenzione ai bisogni e agli interessi delle persone coinvolte; correttezza procedurale; dimensione collettiva e consensuale degli accordi; accento su riparazione, reintegrazione e raggiungimento di una comprensione reciproca; e assenza il dominio” (punto 14 della Raccomandazione).
“La giustizia riparativa è volontaria” e “Le parti devono poter revocare il loro consenso in ogni momento del percorso” (punto 16 della Raccomandazione)
Centrale è l’ascolto e precondizione la possibilità di narrare la propria esperienza in un contesto extraprocessuale che consenta di fruire di un tempo non contingentato o inappropriato.
La mediazione penale, il percorso di giustizia riparativa più utilizzato, è molto diversa dalla mediazione civile: non implica reciproche concessioni; è insuscettibile di essere imposta; cerca di favorire il “riconoscimento” dell’altro, della sua umanità, della sua dignità, non necessariamente richiesto nell’ambito civilistico.
Presupposto è il riconoscimento del fatto e quindi il riconoscimento dell’altro. A questo proposito la Direttiva 2012/29/UE adottata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio recante “norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato” condiziona l’accesso ai servizi di giustizia riparativa al “riconoscimento dei fatti essenziali da parte dell’autore del reato”, ma aggiunge che ove si tratti di “persona indagata o imputata” sia fatta “salva la presunzione d’innocenza”. La formula è prudente e la partecipazione ad un programma di giustizia riparativa non deve essere utilizzata come prova dell’ammissione della colpevolezza nel prosieguo del procedimento penale.
La giustizia riparativa è stata definita “un affare faticoso, costoso e per nulla rapido; non deflaziona in modo sensibile i carichi giudiziari (o almeno, non lo fa se non in una prospettiva a lungo raggio, in chiave di abbattimento dei tassi di recidiva), e tuttavia non c’è dubbio che – affiancata alla giustizia con la spada – questa giustizia “relazionale” e dialogica assicuri un miglioramento netto della performance complessiva … L’importante è creare i servizi e formare gli operatori, curare gli aspetti organizzativi anche negli uffici giudiziari (es. la trasmissione ai Centri dei recapiti delle persone offese), armonizzare i tempi rispetto a quelli della giustizia ordinaria”[5].
Vorrei ricordare anche quello che della giustizia riparativa hanno scritto[6] Luigi Ciotti (Non parliamo, beninteso, di un cammino facile, perché la giustizia riparativa è, prima di un sistema giuridico, un prodotto culturale, capace di promuovere percorsi di riconciliazione senza dimenticare le esigenze della giustizia “retributiva” (incentrata sul rapporto tra il reato e la pena) e della giustizia “riabilitativa” (più attenta al “recupero” del detenuto)… Percorsi delicati, quasi mai lineari, connessi alle parti più intime dell’essere umano e dunque da gestire con attenzione ed equilibrio, perché il ricostruire le relazioni umane e il tessuto sociale non può andare a discapito dell’equità, della certezza e della funzione riabilitativa della pena) e Gian Maria Flick (È una tendenza che va al di là del dovere di giustizia e di solidarietà di ricordare la vittima; di rispettarla e considerarla; di ascoltarla e aiutarla essendole vicini; di consentirle una rappresentanza adeguata. Non bastano le leggi di riforma. Occorrono prima di tutto società e cultura; occorre quella legalità sostanziale di cui oggi si tratta anche quando si parla di prevenzione della corruzione; occorre che finalmente recepiamo la cultura della reputazione e la cultura della vergogna. Vale per la corruzione, per l’evasione fiscale; ma vale anche e soprattutto per il carcere).
2. Esperienze in Italia prima della cd. riforma Cartabia
I percorsi di Giustizia Riparativa sono considerati e largamente utilizzati fin dagli anni ’90 del secolo scorso in molti Paesi in cui si è passati dalla reclusione quale sola o principale forma di risposta al crimine, a più complesse modalità di inclusione gestite dai Servizi di Probation.
In Italia già nel 1997 il Cardinale Carlo Maria Martini[7] riteneva “più produttiva, anche in termini di prevenzione generale, una politica criminale che investa sulle capacità dell’uomo di tornare a scegliere il bene che non una politica criminale fondata sul solo fattore della forza e della deterrenza” e scriveva “ho sentito più volte esprimere da detenuti colpevoli di gravi crimini e avviati a un cammino di conversione sincera il loro desiderio di non scontare una pena qualunque rispetto ad una collettività generica, pagando in maniera astratta il loro debito verso una società di cui conoscono dal di dentro le malefatte e le ingiustizie, ma piuttosto di riparare il male fatto o rispetto alle persone offese o rispetto a gruppi da loro lesi almeno con azioni positive di servizio gratuito in favore di ideali simili a quelli da loro violati. Mi pare di cogliere in questi desideri ciò che corrisponde a quella personalizzazione dell’atto riparatorio che affiora nelle pagine bibliche e che potrebbe servire come uno degli elementi per un ripensamento di un sistema penale atto a restituire l’equilibrio dei rapporti rotti dalla delinquenza, corrispondendo così sia all’intento di restaurare l’ordine violato sia contemporaneamente a quello di farlo in maniera personalizzata e ricca di motivazioni umanizzanti”. E riteneva “più produttiva, anche in termini di prevenzione generale, una politica criminale che investa sulle capacità dell’uomo di tornare a scegliere il bene che non una politica criminale fondata sul solo fattore della forza e della deterrenza”.
Al funerale di Vittorio Bachelet il figlio Giovanni riconobbe con chiarezza l’impegno dello Stato[8] e invece di chiedere maggiore fermezza e pene più severe espresse parole di perdono (“Senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri”).
Dopo aver ascoltato quelle parole, tre anni dopo, diciotto brigatisti scrissero ad Adolfo Bachelet, fratello gesuita di Vittorio: “sappiamo che esiste la possibilità di invitarla qui nel nostro carcere. Di tutto cuore, desideriamo che lei venga, e vogliamo ascoltare le sue parole [...]. Ricordiamo bene le parole di suo nipote, durante i funerali del padre. Oggi quelle parole tornano a noi, e ci riportano là, a quella cerimonia, dove la vita ha trionfato della morte, e dove noi siamo stati davvero sconfitti, nel modo più fermo ed irrevocabile”.
Adolfo Bachelet prese a girare per le carceri e Anna Laura Braghetti, che lo incontrò tante volte, nel suo libro[9] scrive “Da lui ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia umanità, e di aver travolto per questo quella degli altri”.
Negli scorsi decenni fatti il cui accertamento giudiziario è stato lungo e tortuoso, sono stati affrontati anche ponendo di fronte vittime e responsabili della lotta armata e un esperimento seguito per sette anni portò ad oltre cento incontri tra cui quello di Agnese Moro con i terroristi Adriana Faranda e Franco Bonisoli[10].
Si è parlato molto dei percorsi che hanno avvicinato terroristi protagonisti di fatti atroci del nostro passato e le loro vittime. Se ne è parlato soprattutto per la dimensione pubblica che hanno assunto questi incontri, criticata molto spesso anche da talune delle vittime[11].
Queste esperienze di giustizia riparativa hanno però alimentato il dibattito sull’importanza della riparazione del conflitto e forme nuove e parallele di giustizia.
La Commissione Verità e Riconciliazione[12] creata da Nelson Mandela in Sudafrica per promuovere l’unità nazionale e la riconciliazione, indicò forme di giustizia che possiamo definire riparativa, incoraggiando un percorso di “verità” e di “riparazione” quale condizione per la concessione dell’amnistia (avanzata dal National Party, artefice del regime dell’apartheid), cercando un punto di equilibrio con l'esigenza che i colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani fossero puniti (fatta valere dall'African National Congress, oggetto di persecuzioni).
La giustizia riparativa può promuovere istanze di pacificazione sociale anche in conflitti e dimensioni locali più ristretti.
A Hull, cittadina britannica molto degradata, la diffusione di pratiche di giustizia riparativa per la riparazione delle dinamiche conflittuali in una scuola, attraverso la formazione dei docenti, portò ad una sostanziale riduzione di sospensioni e espulsioni e delle assenze dal lavoro e fu poi estesa alle altre scuole, alle amministrazioni comunali e ad altri luoghi di lavoro. Anche nella grande città inglese di Leeds, le pratiche riparative sono state introdotte nei servizi per l'infanzia lavorando insieme alle famiglie e al personale e da lì estese in tutta la città attraverso la formazione.
Il modello delle due città anglosassoni è stato seguito a Tempio Pausania quando nel 2013 a seguito della dismissione del vecchio carcere ne fu costruito uno nuovo di massima sicurezza destinato a ospitare condannati per reati di mafia provenienti da Sicilia, Calabria e Puglia. Occorreva ricomporre il conflitto che vedeva da un lato il timore di infiltrazioni mafiose da parte della popolazione e dall’altro la sofferenza per la lontananza dalla famiglia da parte dei detenuti (la citta non voleva i detenuti, i detenuti avrebbero preferito stare nelle loro città)[13]. Così, nel 2014 é iniziata la collaborazione tra il carcere, l’Università di Sassari[14], la Magistratura di sorveglianza e l’Amministrazione comunale. La cittadinanza è stata coinvolta in un percorso di incontri e conferenze con l’obiettivo di individuare soluzioni ed è stato realizzato un modello di comunità riparativa.
L’assenza di regolamentazione non ha in sostanza impedito in Italia numerosi esperimenti di giustizia riparativa, alcuni divenuti nel tempo stabili servizi locali di mediazione penale e di giustizia riparativa.
All’interno del carcere di Padova il primo caso ebbe origine da una lettera spedita in carcere da Alberto, un cittadino la cui abitazione era stata più volte visitata dai ladri: “Egregio signor ladro…”. Ne iniziò un carteggio con i detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti, giornale della Casa di Reclusione di Padova. Queste esperienze portate avanti dall’Associazione Granello di Senape fin dal 2004 sono confluite nella istituzione del “Centro per la Mediazione sociale e dei conflitti” del Comune di Padova.
Il Centro Italiano per la Promozione della Mediazione (CIPM) fin dal 2012 ha lavorato sulla conflittualità familiare e sui programmi di recupero per gli autori di reati violenti in ambito familiare.
Anche il Centro per la Giustizia Riparativa e la Mediazione Penale del Comune di Milano è una realtà importante, come lo Sportello di Giustizia Riparativa del Comune di Monza (gestiti dai mediatori della Cooperativa DIKE di Milano) e l’Associazione In Opera che opera negli istituti penitenziari di Milano.
Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria già nel 2005 istituì la Commissione di studio "Mediazione penale e giustizia riparativa" che concluse i suoi lavori adottando le “Linee di indirizzo sull’applicazione nell’ambito dell’esecuzione penale di condannati adulti di modelli di giustizia ripartiva conformi alle Raccomandazioni delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa”. Il 21.1.2009, in seno alla Direzione generale dell’Esecuzione Penale Esterna, fu quindi istituito l’Osservatorio nazionale permanente per il coordinamento e il monitoraggio delle esperienze in ambito riparativo.
In ambito minorile la giustizia riparativa è sperimentata da tempo. Il DPCM 84/2015 unificò i due mondi, per facilitare, anche nel campo della giustizia riparativa, l’integrazione dei due contesti operativi “che si fondano entrambi sull’azione coordinata di enti e associazioni sul territorio quale presupposto per il rientro dell’autore di reato nella legalità nel contesto di appartenenza”.
Si diede quindi vita al Dipartimento della giustizia minorile e di comunità presso il quale la soppressa Direzione Generale dell’esecuzione penale esterna del Dap divenne Direzione Generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova.
Il 17.5.2019 il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità emanò le Linee di indirizzo per la giustizia riparativa definite “un primo sforzo per definire le peculiarità e ordinare aggiornare e integrare le migliori esperienze maturate in materia nel settore degli adulti e in quello minorile”[15].
Nel mese di maggio del 2015 presso il Ministero della giustizia fu nominato il Comitato di esperti per lo svolgimento della consultazione pubblica sulla esecuzione della pena denominata "Stati Generali sulla esecuzione penale". I lavori furono avviati sulla base della documentazione messa a disposizione dell’Ufficio Studi del Dap e vi presero parte operatori penitenziari, magistrati, avvocati, professori, esperti, rappresentanti della cultura e dell'associazionismo civile riuniti in diciotto Tavoli tematici di lavoro con lo scopo di definire un nuovo modello di esecuzione penale.
All’esito dei lavori, il 18 aprile 2016, il Tavolo n. 13 sulla Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime di reato, formulò una proposta per una “più intensa compenetrazione tra modalità rieducativo-trattamentale e giustizia riparativa” volta ad introdurre la praticabilità di percorsi di giustizia riparativa per tutti i detenuti, indipendentemente dal titolo di reato e dalla misura della pena da scontare.
Il documento finale prodotto dagli Stati Generali avrebbe dovuto condurre all’elaborazione di decreti di riforma dell’Ordinamento penitenziario ma la richiesta di introdurre strumenti normativi rimase inevasa e irrisolto rimase, oltre al problema delle condizioni di accesso ai servizi di giustizia riparativa, quello della formazione dei mediatori, dell’istituzione di un albo dei mediatori e dei requisiti indispensabili per il loro accreditamento.
La riforma Cartabia[16] ha fatto tesoro di tutto questo e, anche per adempiere all’obbligo di attuazione delle Direttiva del Parlamento europeo 2012/29/UE che imponeva agli Stati membri, entro il termine ampiamente scaduto del 16 novembre 2015, di creare le condizioni perché le vittime possano giovarsi di servizi di giustizia riparativa, ha introdotto quella che è stata denominata una Disciplina organica della giustizia riparativa in cui sono richiamati definizioni e principi disponendo il suo innesto nel processo penale e disciplinandone gli effetti sulla pena.
Della disciplina organica della giustizia riparativa e del suo innesto nel processo si è già scritto[17], prendendo spunto dalla ordinanza della Corte di Assise di Busto Arsizio del 19.9.2023.
3. Prime applicazioni della nuova disciplina
La Corte di Assise di Busto Arsizio, dopo la sentenza di condanna di primo grado e in pendenza dei termini per presentare l’appello, ha disposto l’invio dell’imputato condannato al Centro per la Giustizia Riparativa del Comune di Milano con l’opposizione del pubblico ministero e delle parti civili, le quali, tutte, avevano manifestato l’assoluta indisponibilità ad incontrare l’imputato.
Il provvedimento è stato analizzato sia sotto il profilo del ruolo della vittima aspecifica (“Un freddo provvedimento giudiziale che si limiti a prendere atto dell’indisponibilità dei familiari a partecipare a un percorso riparativo e contempli de plano, come equivalente funzionale, la rapida sostituzione delle vittime dirette con quelle aspecifiche brucia i tempi del dialogo, e probabilmente la disponibilità futura dei familiari della vittima a riporre fiducia nel sistema di giustizia”), sia sotto quello del potere valutativo dell’autorità giudiziaria che, in assenza di una motivazione sull’effettiva utilità del programma nel caso concreto, potrebbe “determinare iniziative giudiziarie prevaricatrici delle strategie difensive dell’imputato oppure poco attente alle ragioni della vittima diretta” [18].
In un altro caso recente la Corte di Assise di Appello di Bolzano non ha disposto l’invio dell’imputato che uccise i genitori occultandone i cadaveri, evidenziando la gravità dei fatti contestati, il “breve” lasso di tempo intercorso (meno di tre anni) dall’omicidio, i rapporti “fortemente dolorosi ed emotivamente contrastanti” con le persone offese, e il fatto che l’istanza era stata avanzata solo quattro giorni prima dell’inizio del processo d’appello. Anche in questo caso la sorella e le zie dell’imputato avevano fatto sapere di non sentirsi pronte ad un incontro.
In materia di sostanze stupefacenti la Corte di Appello di Milano[19] non ha disposto l’invio richiesto dall’imputato con il parere favorevole del procuratore generale in assenza di una vittima, anche aspecifica, con cui intrattenere il dialogo.
Al riguardo il Centro per la Giustizia Riparativa e la Mediazione Penale del Comune di Milano ha già sperimentato un programma fra un gruppo di persone condannate per detenzione e spaccio di stupefacenti e un gruppo di familiari di persone tossicodipendenti e anche lo Sportello di Giustizia Riparativa del Comune di Monza ha sperimentato il dialogo tra un gruppo di persone condannate anche per spaccio di sostanze stupefacenti e un gruppo di abitanti di un quartiere della città ove questa tipologia di reati è frequente.
Proprio nei reati di spaccio di stupefacenti il programma può quindi efficacemente svolgersi con il coinvolgimento la comunità (nella forma della community group conferencing).
Nel commentare l’ordinanza della Corte di Appello di Milano[20] si è ricordato anche l’esperienza di “un’insegnante di scuola superiore che volle portare nel dialogo mediativo un’esperienza di vittimizzazione subita, vale a dire l’irruzione delle forze dell’ordine in classe, la perquisizione e il sequestro di sostanze stupefacenti in possesso di alcuni suoi studenti e il successivo suo ingresso in commissariato per rendere dichiarazioni sull’accaduto. Pur non trattandosi dello studente della professoressa ma di un autore di reato di una vicenda analoga, e viceversa, pur non trattandosi di una persona della comunità di appartenenza del condannato, ma di una professoressa di un altro territorio, l’incontro ha rappresentato un’opportunità per entrambi. Per l’autore del reato la possibilità di una diversa consapevolezza circa l’assunzione di responsabilità connessa alla scelta di trafficare e spacciare, per l’insegnante la possibilità di un riconoscimento degli effetti negativi che discendono dalla diffusione delle attività di traffico e spaccio nel territorio. A partire da questo incontro e dal dialogo fra i partecipanti è stato possibile progettare delle azioni di riparazione condivise, nello specifico “un esito riparativo con accordo simbolico” (ex art. 56 del decreto). Un valore aggiunto che la giustizia penale non avrebbe potuto offrire né all’uno né all’altra”.
Numerosi sono attualmente i provvedimenti in cui il giudice non dispone l’invio richiesto ritenendo di non poter applicare l’art. 129-bis c.p.p. in assenza di individuazione dei Centri di giustizia riparativa previsti all’art. 42 del decreto.
4. Necessità di criteri interpretativi condivisi
L’innesto di pratiche di giustizia riparativa nel processo, anche nella fase di cognizione, ha posto le basi per un mutamento culturale, ma l’ingresso di questi istituti deve avvenire con cautela, tenendo in considerazione la pluralità degli interessi delle parti, valutando la fase processuale, il percorso già fatto dall’imputato, il rischio di esporre le vittime ad una amplificazione del trauma ed evitando soprattutto qualsiasi automatismo specie in fasi precoci di processo per reati gravi.
Le prime applicazioni, oltre a porre con forza l’esigenza di un controllo e una verifica sulla qualità dei programmi e sulla professionalità del mediatore, mettono in luce la necessità di criteri interpretativi condivisi.
Al riguardo presso la Corte di Appello di Milano il 1° agosto 2023 è stato sottoscritto uno Schema operativo per la giustizia riparativa ed è interessante ripercorrerne il contenuto sotto alcuni profili.
Si stabilisce che l’accesso ai programmi sia consentito per qualsiasi tipo di reato a prescindere dall’individuazione in concreto di una vittima ovvero dall’assenso del consenso della vittima individuata.
Che le parti siano sentite, in udienza o con contraddittorio cartolare, sui presupposti del rinvio (utilità del programma riparativo alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato e assenza di pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti) e che l’accertamento in ordine al consenso dell’autore e della vittima sia demandato in via esclusiva al Centro (in caso di diniego della vittima se ne farà menzione nell’ordinanza di invio, perché gli operatori del Centro ne siano informati e ne tengano conto).
Che il giudice possa indicare al Centro per la giustizia riparativa un arco temporale, di norma ricompreso tra i 3 e i 6 mesi ritenuto congruo per l’elaborazione e lo svolgimento del programma.
Che la graduazione delle riduzioni di pena in caso di esito riparativo può variare in funzione della valutazione da parte dell’autorità giudiziaria della ragionevolezza e della proporzionalità dell’esito riparativo raggiunto.
Che in caso di proscioglimento l’imputato possa presentarsi autonomamente presso il Centro di Giustizia Riparativa, producendo la sentenza, senza alcuna richiesta preventiva all’autorità giudiziaria.
Che nella fase dell’esecuzione, in cui l’esito riparativo può essere valutato ai fini dell’affidamento in prova al servizio sociale, l’invio sia disposto con provvedimento informale del magistrato di sorveglianza e non del direttore dell’istituto. Che in questa fase l’accesso sia “ampio e indiscriminato” ma “con valutazione dei presupposti solo in capo al magistrato di sorveglianza.
Lo Schema individua il giudice competente nel passaggio da una fase all’altra del processo e dà atto che le linee guida sono state elaborate grazie alla collaborazione del Centro per la Giustizia riparativa del Comune di Milano al quale possono essere inviati i casi in attesa dell’attuazione della ricognizione dei centri esistenti ad opera della Conferenza Locale (art. 92 D. Lgs. 150/22).
La redazione tempestiva dello Schema testimonia un proficuo metodo di discussione e condivisione tra Avvocatura e Uffici giudiziari di linee guida in questa materia.
5. Attuabilità della giustizia riparativa e prassi del Tribunale di Roma
Allo stato la giurisprudenza della Corte di Cassazione[21] nell’affermare che le nuove previsioni contenute negli artt. 129-bis e 419, comma 3-bis, c.p.p. “non contemplano alcuna ipotesi di nullità nel caso di mancata applicazione“ e che in particolare, l’art. 129-bis c.p.p. “nel prevedere la possibilità che il giudice disponga d’ufficio l’invio delle parti ad un centro per la mediazione, si limita a disciplinare un potere – essenzialmente discrezionale – riconosciuto al giudice, senza introdurre espressamente un obbligo di attivarsi“, ha analizzato il contenuto della valutazione del giudice affermando che “l’opzione circa la sollecitazione del procedimento riparativo è dettata da una serie di valutazioni che attengono alla tipologia del reato, ai rapporti tra l’autore e la persona offesa, all’idoneità del percorso ripartivo a risolvere le questioni che hanno determinato la commissione del fatto”, e che l’avviso “ha solo una finalità informativa e, peraltro, si inserisce in una fase in cui l’imputato beneficia dell’assistenza difensiva, con la conseguenza che dispone già del necessario presidio tecnico finalizzato alla migliore valutazione delle molteplici alternative processuali previste dal codice, ivi compresa quella di richiedere l’accesso al programma di giustizia riparativa“.
La Corte di Cassazione, chiarendo che l’invio del giudice integra una mera modalità aggiuntiva, sembra quindi aver riaffermato il principio dell’accesso incondizionato agli strumenti della giustizia riparativa, previsto dalla legge delega (l. n. 134/2021).
Al di là della valutazione del giudice ex art. 129-bis c.p.p. l’imputato può quindi prendere parte autonomamente ad un programma di giustizia riparativa e può farlo, evidentemente, anche su suggerimento di terzi o del suo difensore, in qualunque fase del processo.
Lo stesso giudice, come anche in passato, può quindi suggerire all’imputato di rivolgersi ad uno dei centri per la giustizia riparativa esistenti ed operanti in molte Regioni e può altresì valutare l’eventuale percorso effettuato dall’imputato in precedenza nel determinare l’entità della pena ai sensi dell’art. 133 c.p., sempre che l’affidabilità del centro glielo consenta.
In sostanza l’approccio indicato dalla giustizia riparativa dovrebbe permeare in generale il mondo dei rapporti interpersonali e, al di là del suo innesto nel processo e degli effetti sulla pena, dovrebbe connotare l’area penale rientrando a pieno titolo nel modello della giustizia di comunità che ricomprende ogni istituto che preveda la presa in carico dell’autore di reato e della vittima e l’organizzazione dei relativi servizi.
In particolare la Raccomandazione del Consiglio d’Europa Rec(2018)8 sulla giustizia riparativa recita:
punto 60. I principi e gli approcci riparativi possono anche essere applicati nell’ambito del sistema della giustizia penale, ma al di fuori della procedura penale.
punto 61. I principi e gli approcci riparativi possono essere utilizzati proattivamente dalle autorità giudiziarie ….OMISSIS…. nel prendere decisioni gestionali e nel consultare il personale, nonché in altre aree della gestione del personale e dei processi decisionali organizzativi. Ciò può aiutare a costruire una cultura riparativa all’interno di tali organizzazioni.
punto 62. Ferma restando la necessità che i percorsi di giustizia riparativa siano erogati in autonomia dal procedimento penale, le agenzie di giustizia riparativa, le autorità giudiziarie, le agenzie della giustizia penale e altri servizi pubblici competenti dovrebbero collaborare a livello locale al fine di promuovere e coordinare l’utilizzo e lo sviluppo della giustizia riparativa nei loro territori.
Nel Tribunale di Roma si è cercato di attuare questi principi.
In sinergia con le altre istituzioni operanti sul territorio, sono stati valorizzati gli strumenti a disposizione del giudice che prevedono percorsi di responsabilizzazione nell’ambito della comunità.
Dopo un iniziale Accordo di collaborazione del 4.3.2020, seguito dall’Accordo di Rete del 4.5.2022, è stato sottoscritto (tra aprile e giugno 2023) un Protocollo operativo per la Map e le pene sostitutive e più recentemente, il 29 novembre 2023, un Protocollo con il quale è stato concordato un modello di intervento per il sostegno e la cura dei soggetti accusati di violenza nelle relazioni affettive[22].
In tema di giustizia riparativa, già ben prima dell’entrata in vigore della cd. riforma Cartabia, sono stati previsti interventi in favore delle vittime di reato e percorsi di giustizia riparativa, valorizzando le azioni già intraprese dalla Regione Lazio per la ricognizione e la mappatura dei servizi finalizzate alla costruzione di un modello operativo condiviso per una omogeneità di intervento su tutto il territorio regionale.
Da ultimo, all’interno dell’Osservatorio permanente per la Giustizia di comunità istituito presso la Presidenza, è stata avviata la discussione in ordine al contenuto di una bozza di Protocollo operativo per la giustizia riparativa fondato sui principi contenuti nella Raccomandazione del Consiglio d’Europa Rec(2018)8.
[1] Cfr. Francesco Palazzo “Crisi del carcere e culture di riforma”. Diritto Penale Contemporaneo n. 4/2017
[2] Joan Durnescu- Università di Bucarest-, Prague, September 2015
[3] Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale; Relazione al Parlamento 2023
[4] Cfr. anche le precedenti Raccomandazioni del Consiglio d’Europa R(1985)11, R(1987)21, R(1999)19 che incoraggiano le esperienze di mediazione tra il reo e vittima con particolare attenzione agli interessi delle vittime e la R(2010)1 che fa riferimento a prassi di giustizia riparativa. L’elaborazione delle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa è curata da esperti nazionali e da esperti scelti dal Consiglio d’Europa all’interno degli organismi ove il testo prende vita (Comitato Europeo dei Problemi Criminali – CDPC – e Consiglio della Cooperazione penologica – PC-CP-). I principi enunciati sono perlopiù frutto dell’apporto italiano, e io stessa ho toccato con mano l’autorevolezza di cui gode l’Italia grazie al lavoro fatto in anni lontani da colleghi quali Luigi Daga e Giovanni Tamburino.
Cfr. altresì le Risoluzioni dell’Economic and Social Council (ECOSOC) delle Nazioni Unite n. 1998/23, n. 1999/26 e n. 15/2002; la Dichiarazione di Vienna, adottata a conclusione dei lavori del Decimo Congresso Internazionale delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine e sul Trattamento dei Rei, svoltosi a Vienna dal 10 al 17 aprile 2000; il Manuale delle Nazioni Unite sui Programmi di Giustizia Riparativa del 2020; le pubblicazioni dell’European Forum for Restorative Justice (EFRJ).
[5] Pasquale Bronzo “Devianza minorile e giustizia riparativa” in Cassazione penale – 1(2022), pp. 334-345 e in “Il disagio giovanile oggi: Report del Consiglio Nazionale dei Giovani”, Sapienza Università Editrice, luglio 2022
[6] Prefazione e postfazione al libro “La giustizia capovolta” di Francesco Occhetta, Casa editrice Paoline
[7] Cardinale Carlo Maria Martini, Relazione fatta pervenire al Convegno “Colpa e Pena? La teologia di fronte alla questione criminale”, Milano, 17-18 aprile 1997
[8] “Preghiamo per i nostri governanti: per il nostro presidente Sandro Pertini, per Francesco Cossiga. Preghiamo per tutti i giudici, per tutti i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia, per quanti oggi nelle diverse responsabilità, nella società, nel Parlamento, nelle strade continuano in prima fila la battaglia per la democrazia con coraggio e amore”.
[9] Anna Laura Braghetti e Paola Tavella, “Il prigioniero”, Universale economica Feltrinelli, giugno 2008
[10] “Il libro dell’incontro – Vittime e responsabili della lotta armata a confronto”, a cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato il Saggiatore, Milano 2015
[11] Cfr. intervento di Luca Tarantelli alla presentazione, il 19 gennaio 2017 presso la sala Zuccari del Senato de “Il libro dell’incontro”.
[12] Truth and Reconciliation Commission istituita con la legge denominata Promotion of National Unity and Reconciliation Act entrata in vigore il 15 dicembre 1995, che ha operato tra il gennaio 1996 e l’ottobre 1998.
[13] La direttrice del carcere di allora, Carla Ciaravella, scriveva: “La popolazione locale aveva mostrato fin da subito molta diffidenza nei confronti della nuova costruzione e si era molto incupita quando aveva saputo della destinazione d’uso stabilita dall’amministrazione penitenziaria. L’idea di avere i mafiosi alle porte di casa impensieriva e turbava la monotona ma serena e tranquilla vita degli abitanti di Tempio. Una casa di reclusione per detenuti definitivi con lunga pena deve incentrare necessariamente i propri obiettivi sui percorsi trattamentali e riabilitativi. I detenuti tutti giunti da fuori regione, non erano affatto contenti di essere stati trasferiti in Sardegna, soprattutto per le distanze geografiche che li separavano dai propri famigliari. Tutti loro sapevano bene che dall’arrivo in Sardegna in poi, i rapporti con le proprie mogli, figli, genitori si sarebbero diradati. Sapevano anche che, in ragione delle situazioni di ostatività, per via della natura dei reati commessi, avrebbero avuto poche e limitate possibilità di accedere ai benefici premiali ed alle misure alternative”
[14] “Studio e analisi delle pratiche riparative per la creazione di un modello di città riparativa”, parte di un progetto regionale più ampio dal titolo “Sistema Informativo e governance delle politiche di intervento e contrasto del crimine” - Legge regionale 7 agosto 2007 n. 7 Regione Autonoma della Sardegna
[15] Cfr. nota n. 7348 in data 20.5.2019 diffusa dal Capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità
[16] Decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 e decreto legge 31 ottobre 2022, n. 162.
[17] Cfr. Flavia Costantini: “L’omicidio di Carol Maltesi e l’attuale disciplina della giustizia riparativa” in Giustizia Insieme, 17 novembre 2023.
[18] Cfr. Paola Maggio e Francesco Parisi: “Giustizia riparativa con vittima surrogata o aspecifica: il caso Maltesi-Fontana continua a far discutere”, in Sistema Penale, scheda del 19 ottobre 2023.
[19] Corte di Appello penale di Milano Sez. V, 12 luglio 2023
[20] Cfr. Federica Brunelli: “La giustizia riparativa nei reati senza vittime”, in Giurisprudenza penale Web, 7-8 2023
[21] Cass. Sez. IV n. 32360 del 9.5.2023; Sez. VI n. 25367 del 13.6.2023.
[22] Il materiale è reperibile sul sito del Tribunale di Roma all’indirizzo: https://www.fallcoweb.it/prenotazioni/roma/map/index.
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Questo contributo è parte del percorso intrapreso da questa Rivista per ricordare Giacomo Matteotti a cento anni dal suo assassinio, avvenuto il 10 giugno 1924. Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024 è stato dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti. Per gli altri contributi già pubblicati si veda Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio, La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio, Giacomo Matteotti. Il giurista di Giovanni Canzio, Note su Giacomo Matteotti ed il penale costituzionale: la legalità dalla crisi dello Stato liberale alla «dominazione fascista» di Floriana Colao, Un Matteotti poco conosciuto di Enrico Manzon.
A cento anni esatti dal rapimento e dal brutale assassinio sappiamo molto dell’intransigenza di Giacomo Matteotti, delle tante battaglie per la giustizia e la libertà, nel suo Polesine, negli enti locali e in Parlamento. Sappiamo del coraggio senza pari e della sua strenua opposizione al fascismo, di cui aveva visto e denunciato la pericolosità ben prima di molti osservatori del suo tempo. Sappiamo della sua tragica fine, per mano dei sicari del dittatore, e di quanto egli impensierisse il loro mandante, per la precisione nella denuncia delle sue malefatte e per l’audacia nel metterne alla berlina le sparate demagogiche.
Sappiamo anche che Matteotti ha dedicato la prima parte della sua vita allo studio del diritto penale e dei sistemi carcerari e criminali, in Italia e all’estero, e che avrebbe avuto la strada spianata per la libera docenza universitaria, ma che vi rinunciò per rispondere al richiamo della politica. Non fu un impegno vano, va detto subito, quello dedicato da Matteotti al diritto penale: lascerà un segno indelebile nella sua formazione, nella sua visione del diritto e sulla sua concezione della forma e dei limiti del potere e gli consentirà di acquisire un metodo scientifico, che egli applicherà efficacemente anche alla prassi politica, con frutti straordinari sul piano della ricchezza e della profondità delle sue proposte.
È molto meno noto il grande impegno di Matteotti nella materia tributaria, il suo profondo convincimento della funzione di redistribuzione del prelievo fiscale a fini di giustizia sociale, la sua aspirazione ad un sistema impositivo unitario e coerente e, ancor di più, le sue proposte organiche di riforma in una materia che, anche al suo tempo, era terreno e strumento di iniziative tanto frammentarie quanto demagogiche.
Giacomo Matteotti si è dedicato con intensità e passione alla questione tributaria, anzi si può dire che essa costituisce una componente centrale del suo impegno. Vi si è rivolto con un approccio rigoroso, frutto di studi incessanti e meticolosi e affrontando, in un crescendo per vastità e profondità, tutti i temi più rilevanti della scienza delle finanze e dell’imposizione, il che gli ha consentito di propugnare un inedito riformismo, dagli approdi talora inattesi e sorprendentemente moderni.
L’impegno di Giacomo Matteotti nella materia tributaria si differenzia da quello nel diritto penale per approccio e contenuti. Il secondo, sebbene affrontato con rigore di metodo, non è diretto all’analisi di sistema bensì ad aspetti circoscritti, seppur non di minor rilevanza. Ciò, verosimilmente, perché avviene agli inizi di un percorso universitario, che implica un avvicinamento graduale ai grandi temi istituzionali.
In materia fiscale, invece, l’analisi è da subito a tutto campo, si correla all’attività amministrativa e politica e non è volta alla speculazione scientifica. Per Matteotti la questione fiscale, a partire dalla funzione redistributiva e perequativa, si colloca insomma al centro di un’iniziativa concreta che vuole segnare una netta discontinuità rispetto alla condizione dello Stato liberale, connotata dal rinvio costante delle riforme tributarie. Matteotti, rigoroso e profondo, prova una grande avversione per i programmi vaghi, la superficialità, l’imprecisione, gli opportunismi, il privilegio garantito sempre agli stessi. Diffida dei populismi e della demagogia: a poco più di vent'anni scrive già che è dannoso incitare all' odio contro le tasse: "noi dobbiamo limitarci a dimostrare che le imposte sono mal distribuite, ma diffondere nel tempo stesso la persuasione che sono assolutamente necessarie".
Matteotti studia, studia costantemente, letteralmente sino all’ultimo dei suoi giorni. I suoi testi, le sue relazioni sono sempre preceduti ed arricchiti da una preparazione scrupolosissima, quasi maniacale: lo riferisce chi lo conosce e lo frequenta, ma si intuisce agevolmente alla lettura dei suoi testi o dei suoi interventi. Negli anni Matteotti acquisirà così una straordinaria padronanza della materia tributaria, che gli consentirà di confutare, con grande severità di giudizio, le tante proposte che venivano avanzate in maniera spesso disorganica e frammentaria. Si può dire che Giacomo Matteotti sia il primo politico socialista dotato di una profonda competenza giuridico-economica. Meglio: egli costituisce una nuova figura di politico, che mette al centro della sua azione una solida conoscenza, un profondo sapere, ma non è tutto. Matteotti introduce un paradigma del tutto nuovo, che gli consente di tenere “sotto osservazione” la questione fiscale con piena consapevolezza politica e, ad un tempo, di dare profondità politica alla sua proposta fiscale. La dimensione politica della sua azione si avvantaggia della grande competenza tecnica, e quest’ultima rimane sempre al servizio della prima di cui è, anzi, la leva, il punto di forza, dotandola di uno spessore senza precedenti. Non è dunque un tecnocrate, tutt’altro. Matteotti, piuttosto, diffida dei tecnocrati, delle alte burocrazie e del loro potere invisibile e avversa fermamente le loro “riforme”, così come i politici che non dichiarano apertamente gli obiettivi che intendono perseguire e ne denuncia severamente la mancanza di visione e di orientamento.
Già a partire dai primi scritti l’approccio di Matteotti alla vicenda fiscale non è mai frammentario né isolato in sé stesso. Si dispiega, con grande consapevolezza, nel più ampio contesto economico e sociale che a Matteotti sta a cuore criticare e che gli interessa riformare, e costituisce occasione per enucleare i principi di riferimento, che costituiscono veri e propri pilastri del suo discorso riformista. Matteotti affronta subito, quando è ancora giovanissimo, e vi ritorna metodicamente negli anni, i temi dell’equità, dell’uguaglianza, della perequazione, della parità di trattamento, ai quali attinge dalle scienze sociali per immetterli nella vicenda fiscale. Principi, coltivati in prospettiva non accademica o per mera speculazione intellettuale, che sono piuttosto capisaldi di un programma politico pragmatico, elementi costitutivi del suo progetto riformatore, concretamente ancorato alle urgenze della società del suo tempo e, ad un tempo, profeticamente proiettato nel futuro.
Nei suoi discorsi parlamentari, così come negli scritti, si cimenta in confronti spesso anche duri e non privi di vervepolemica, tenendo testa ai più grandi studiosi e statisti del tempo, da Antonio Salandra a Francesco Saverio Nitti, a Filippo Meda a Giovanni Giolitti e Luigi Einaudi, il quale al di là dell'aspro confronto politico nutre per Matteotti una grande considerazione.
L'impegno di Matteotti nella materia fiscale tuttavia non è mai incline alla polemica sterile o circoscritto alla critica, pur argomentata e documentatissima, dell'approccio spesso populistico dei suoi avversari politici. Tutt’altro: il connotato più rilevante del suo impegno nella materia risiede anzi in una grande capacità di elaborazione e proposizione sistematica,che gli consente di giungere ad una proposta di riforma tanto innovativa per i suoi tempi quanto straordinariamente attuale ai nostri.
Matteotti fa riferimento, nei discorsi cruciali, al sistema tributario: una chiara scelta di metodo, che conferisce profondità alla sua azione politica. Le questioni affrontate sono, così, sempre tasselli di un grande mosaico in costruzione che, con il passare del tempo, assume forma e consistenza, metodicamente, nella visione di sistema. Matteotti costruisce così trama e ordito del sistema tributario che ha in mente, dal quale non esige una generica equità. Matteotti pretende infatti giustizia, con una determinazione straordinaria. Si tratta di un approccio alto, di una visione densa di grande contenuto politico.
Il punto di svolta nel suo impegno è costituito dall’elezione alla Camera, a novembre del 1919. L'approdo in Parlamento lo spinge, se possibile, ad un impegno ancora più incisivo. Nella primavera precedente pubblica “La Riforma tributaria”, volumetto che raccoglie una serie di articoli su Critica sociale, la rivista socialista più autorevole. Si tratta di un vero e proprio manifesto politico che segna un cambio di passo rispetto alle proposte del tempo, anche degli stessi socialisti, caratterizzate da un approccio ridondante e frammentario, del tutto inefficace ad incidere su una società in profonda evoluzione come quella del primo dopoguerra.
Centrale nella proposta matteottiana è l'imposta generale progressiva sul reddito. Questione della quale si discuteva da tempo ma in relazione alla quale nessun politico, sino ad allora, aveva elaborato una proposta organica finalizzata a conseguire, grazie ad essa, l'obiettivo di giustizia sociale che Matteotti aveva in mente.
Del resto, si tratta di un tema nevralgico che segna anche il nostro presente perché, se al tempo non esisteva ancora, oggi la progressività si è in gran parte smarrita.
Nella Riforma di Matteotti l’imposta progressiva è un prelievo destinato inizialmente a cumularsi con le imposte reali in vigore (sui terreni, sui fabbricati, sulla ricchezza mobile) per poi gradualmente assorbirle, diventando imposta personale generale e progressiva sul reddito. La tassazione a mezzo di imposte reali e proporzionali è espressione di una concezione statica, e impone la focalizzazione su un elemento di reddito isolato, poco significativo a indicare effettivamente la forza economica complessiva e determinano ulteriori disuguaglianze. Nella visione di Matteotti i tradizionali prelievi reali sul reddito devono perciò essere superati e possono solo assumere una funzione ancillare e strumentale, quello che egli definisce il “fondamento ricognitivo”, mediante il censimento dei cespiti tassabili. Anche questo è un elemento peculiare della sua proposta di Riforma e la distingue decisamente dalle altre iniziative del tempo. Per Matteotti una razionalizzazione del sistema che introduca un prelievo incentrato sull’imposizione personale progressiva è la sola che consente di perseguire un reale obiettivo di equità, poiché è in grado colpire una capacità contributiva effettiva e complessiva, e si accompagna a una minore suscettibilità a determinare effetti di traslazione occulta del prelievo, fenomeno che si verifica con le imposte reali, particolarmente con quella sui fabbricati.
Né, precisa Matteotti, il prelievo in forma progressiva dovrà crescere indefinitamente fino al punto che l’imposta assorba tutto il reddito: occorre, perché i contribuenti si inducano a più sincere dichiarazioni, ribassare, semplificare e unificare le aliquote di imposta perché oltre un certo limite il contribuente potrebbe sentire l’ostilità del prelievo e cercare di sottrarsi al dovere fiscale.
È una visione modernissima, che lo spinge a cogliere nella semplificazione dei meccanismi impositivi una via per indurre il contribuente a pagare il dovuto. Inoltre, Matteotti critica gli accordi personalizzati sulle imposte sul reddito (con una certa semplificazione, quelli che oggi chiamiamo “concordato fiscale”), ai quali l’amministrazione fiscale del tempo era costretta a far ricorso anche per l’incapacità di perseguire i grandi evasori. Sono opzioni che Matteotti vede carichi di effetti incontrollabili di distribuzione ineguale del prelievo.
Negli anni successivi Matteotti affina ulteriormente la sua proposta, la discute in tutte le sedi, a partire dal Parlamento, nella cui centralità per la difesa delle prerogative democratiche e dello Stato di diritto crede fermamente e con grande coraggio ne difende le prerogative.
Al cuore della sua proposta rivoluzionaria e ancor oggi attualissima resta tuttavia una domanda che attiene più al metodo che al merito: possiamo chiedere che la questione fiscale sia affrontata alla luce del sole, nel luogo istituzionale preposto al dibattito pubblico, o dobbiamo rassegnarci alle leggi scritte dalle alte burocrazie nell’ombra dei corridoi ministeriali, ai decreti-legge convertiti frettolosamente senza dibattito parlamentare?
Siamo ormai al 1922. Il precipitare degli eventi, la marcia su Roma, la presa di potere formale dei fascisti e del loro duce non gli impediscono di continuare la sua lotta, che anzi si fa più serrata. Non pensa di abbandonare il Paese per trovare rifugio all’estero, dove amici e compagni lo accoglierebbero e gli assicurerebbero quella protezione che in Italia non è più possibile.
Il culmine dell’impegno di Matteotti nella materia fiscale è costituito dall’attenzione dedicata ai “pieni poteri”, nel momento più drammatico dell’insediamento del regime fascista nel cuore delle istituzioni democratiche, che verranno chiesti e conseguiti proprio con una legge fiscale. La legge sui pieni poteri è la prima legge portata in Parlamento da Benito Mussolini. E si tratta proprio di una legge fiscale, anzi di una legge per la riforma fiscale. Anche qui il tema dell’imposizione è centrale, ma la prospettiva si fa ancora più alta, istituzionale, e viene affrontata da Matteotti nel segno della coraggiosa difesa delle regole democratiche e dello Stato di diritto al cospetto di avversari che pur di metterlo a tacere non smetteranno di tormentarlo con tutti i mezzi e con la violenza, sino al tragico epilogo.
Nel ruolo della legge come strumento di garanzia in senso formale e sostanziale, Matteotti trova l’elemento che arricchisce in modo decisivo la sua azione in campo tributario. La legge vuol dire rappresentanza, l’irrinunciabile legame con il Parlamento, espressione di quel mondo reale nel quale è necessario che ciascun tributo trovi la propria funzione.
Non occorre certamente attendere gli ultimi mesi della sua vita per rendersi conto della visione costituzionale di Matteotti, perché la tensione verso le garanzie dello Stato di diritto è costante, a partire dall’epoca giovanile. Tuttavia, nel momento della conquista del potere da parte dei fascisti diventa più nitida e vibrante, come le parole scandite nella relazione di minoranza nella “Commissione dei nove”, che sollevano il velo sull’inconsistenza della relazione di Antonio Salandra e ne mettono a nudo una pochezza che non dipende certo dall’incapacità dell’estensore, tutt’altro. Salandra infatti è un grande accademico, autore di sterminate pubblicazioni in materia economico-finanziaria, di scienza dell’amministrazione e di diritto amministrativo, uno statista di provata esperienza che è stato a capo di dicasteri economici e anche Presidente del Consiglio. Tuttavia è lì per assecondare un disegno che porterà all’esautorazione del Parlamento e a conculcare le libertà democratiche, e tutta la sua scienza non gli basterà per renderlo credibile.
Le minacce, la persecuzione, i tormenti subìti negli ultimi anni, negli ultimi mesi di vita, non inducono Matteotti alla prudenza, o ad un cambio di registro.
La sua intransigenza si fa ancora più ferma, irremovibile, come del resto sino all’ultimo articolo pubblicato, pochissimi giorni prima del rapimento e dell’uccisione, ancora una volta sulla legge sui pieni poteri fiscali.
Le parole di Matteotti sono un volo altissimo, che purtroppo, non basterà a salvare il Parlamento che rimarrà, per vent’anni e più, solo uno “scenario dipinto”, come preconizza Filippo Turati nel corso del dibattito in Aula. Seppur vane in quel momento, produrranno un risultato straordinario. Sopravviveranno per oltre un secolo e saranno attuali ogni volta che, nell’esercizio della potestà normativa tributaria, si assiste a invasioni di campo tra poteri dello Stato e il Parlamento non esercita in pieno le sue prerogative.
Francesco Tundo, La Riforma tributaria. Il metodo Matteotti, Bologna University Press, 2024.
Nell'immagine il murales recentemente inaugurato sulla facciata del Liceo Copernico di Bologna per ricordare Giacomo Matteotti.
Questo contributo è parte del percorso intrapreso da questa Rivista per ricordare Giacomo Matteotti a cento anni dal suo assassinio, avvenuto il 10 giugno 1924. Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024 è stato dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti. Per gli altri contributi già pubblicati si veda Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio, La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio, Giacomo Matteotti. Il giurista di Giovanni Canzio, Note su Giacomo Matteotti ed il penale costituzionale: la legalità dalla crisi dello Stato liberale alla «dominazione fascista» di Floriana Colao, Il metodo per la riforma fiscale, preziosissima eredità di Giacomo Matteotti di Francesco Tundo.
Io il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me. Giacomo Matteotti, 30 maggio 1924, dopo aver pronunciato il suo ultimo, appassionato, coraggioso, discorso alla Camera dei Deputati, ormai divenuta un bivacco di manipoli. Il 10 giugno successivo Matteotti è stato rapito ed ucciso. Questo è il martire dell’antifascismo, quindi tout court della democrazia e della libertà, che è conosciuto da tutti.
Francesco Tundo, con La riforma tributaria. Il metodo Matteotti, Bologna, 2024 e con questo scritto per Giustizia Insieme illumina una parte dell’attività politica di Giacomo Matteotti che è molto meno noto, ma per nulla meno importante.
La “questione fiscale” infatti è da sempre al centro del discorso pubblico degli aggregati umani, dall’evangelico dare a Cesare quello che è di Cesare al no taxation without representation della rivoluzione americana.
Perciò non può affatto sorprendere che un politico fine e profondo come Matteotti -in una convulsa fase di transizione che ha portato la Nazione nel baratro del ventennio fascista ed al suo tragico epilogo bellico, poi a quello catartico, ma ugualmente drammatico, della Liberazione- non sentisse l’importanza di tale nodo strategico e non lo vivesse da protagonista.
Tundo lo spiega in modo molto puntuale ed approfondito, mettendo in risalto i passaggi fondamentali del pensiero di politica fiscale di Matteotti, dall’esperienza nel governo degli Enti locali a quella parlamentare, conclusasi con il suo barbaro assassinio.
Ed è al crepuscolo di questa esperienza umana e politica che si coglie la grandezza dello statista socialista. Come ricorda Tundo, per nulla a caso, «La prima legge presentata in Aula dal Governo fascista è una legge tributaria, anzi una legge per la riforma tributaria, che determina l’esautorazione del Parlamento a beneficio del Governo e, di fatto, apre il varco alla dittatura» (F. TUNDO, op. cit., 105).
Matteotti è sulla barricata, come non poteva non essere. Perché è con questa legge che Mussolini chiede i “pieni poteri” di triste memoria. Ai tempi del premierato un monito chiaro. E il parlamentare socialista, senza paura, in Aula dichiara «In nessun Parlamento d’Europa sono stati dati al Governo i pieni poteri in materia di tributi. I parlamenti traggono anzi la loro origine proprio dal concetto di limitare i poteri del Principe o del potere esecutivo nel prelevamento delle imposte» (F. TUNDO, op. cit.,110).
Vero, verissimo: questa è la storia dell’evoluzione dei sistemi politici, dalle monarchie assolute a quelle parlamentari ed infine ai moderni sistemi democratici occidentali.
Come Tundo ci spiega, le idee di politica tributaria di Giacomo Matteotti risentono inevitabilmente del tempo storico nelle quali vengono sostenute e vanno pertanto contestualizzate, storicizzate. Tuttavia non possono aversi dubbi che all’Assemblea costituente, nella Commissione dei ’75, Matteotti sarebbe stato uno dei padri degli artt. 23, 53 della Costituzione della Repubblica italiana e degli artt. 2, 3 della stessa, principi supremi sui quali si fondano.
La ferocia fascista ha impedito che ciò accadesse, ma è stato lo stesso Matteotti a dire «Uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai». Con questo contributo di Francesco Tundo la Rivista vuole dunque farne vivere le idee e onorarne una volta di più la memoria.
Licenziamenti e Jobs Act, l’intervento della Corte Costituzionale sui casi di nullità
Riflessioni a margine della sentenza della Corte Costituzionale 22 febbraio 2024, n. 22
di Chiara Colosimo
Abstract
L’autrice riflette sull’ultimo intervento della Corte Costituzionale in materia di tutele per i casi di licenziamenti illegittimi e, nello specifico, sulla pronunzia del 22 febbraio 2024, n. 22, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2, co. 1, D. Lgs. 23/2015, limitatamente all’avverbio «espressamente» che aveva l’effetto di restringere la platea dei casi di nullità sanzionabili con la reintegrazione, introducendo un’illegittima distinzione tra nullità testuali e nullità virtuali le quali ultime, nel regime dei contratti a tutele crescenti, erano così rimaste prive di disciplina. Nelle riflessioni conclusive si osserva come il sistema sanzionatorio “riscritto” dal Giudice delle Leggi risulti più coerente e rispettoso della ratio sottesa al disegno del Legislatore Delegante, la cui volontà – di fatto – pare essersi pienamente attuata solo in virtù dell’intervento della Consulta.
The author reflects on the latest ruling of the Constitutional Court on the subject of protections for cases of illegitimate dismissals and, specifically, on the pronouncement of 22 February 2024, no. 22, which declared the illegitimacy of art. 2, co. 1, Legislative Decree. 23/2015 limited to the adverb “expressly”, which had the effect of restricting the number of cases of nullity punishable by reinstatement, introducing an unlawful distinction between textual nullity and virtual nullity, the latter being, thus, in the regime of Legislative Decree. 23/2015, unregulated. In the concluding remarks it is observed how the penalty system ‘rewritten’ by the Judge of Laws is more coherent and respectful of the underlying ratio of the design of the Delegating Legislator, whose will - in fact - seems to have been fully implemented only by the decision of the Consulta.
Sommario: 1. Premessa - 2. Le criticità della disciplina prevista dal Jobs Act - 3. La necessità di un intervento del Giudice delle Leggi - 3.1. La questione di legittimità costituzionale - 3.2. La decisione della Consulta - 4. Concludendo.
1. Premessa.
Il capitolo delle nullità guarda a una molteplicità di fattispecie che possono essere esaminate da due differenti punti di vista.
Sotto un profilo prettamente soggettivo, debbono essere considerate le condotte che ledono il lavoratore nella sua individualità, sia essa manifestazione di una caratteristica intrinseca dell’essere (si pensi, per esempio, al diritto antidiscriminatorio), sia essa espressione di vita familiare o sociale (si guardi, in questo senso, tra le altre, alla tutela della genitorialità); in prospettiva propriamente oggettiva, vi rientrano i comportamenti che hanno l’attitudine a entrare in conflitto con l’ordinamento giuridico, quale aperta contraddizione dei principi che lo governano ovvero tentativo di piegarne le regole per conseguire finalità illegittime (il riferimento è, in primis, ai casi di frode alla legge).
La disciplina delle nullità è stata interessata dalla profonda opera di riscrittura delle tutele avverso i licenziamenti illegittimi, avviata dal Legislatore con la riforma di cui alla Legge 92/2012 e proseguita, poi, con l’introduzione della disciplina prevista dal Decreto Legislativo 23/2015.
Nella ridefinizione complessiva delle fattispecie realizzata con il rinnovato art. 18 Legge 300/1970, a mezzo dell’art. 1, co. 42, lett. b), Legge 92/2012, si è stabilito che il giudice deve dichiarare la nullità del licenziamento – riconoscendo al lavoratore la tutela reintegratoria “forte” ([1]) – ove il recesso risulti “discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile…” ([2]).
Il Legislatore del Jobs Act, per quanto in via oltremodo sintetica, ha tratteggiato un precetto simile all’art. 2, co. 1, D. Lgs. 23/2015 ([3]), sanzionando con la nullità – e, dunque, mediante reintegrazione con indennità piena – il licenziamento “…discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge...”; peraltro, diversamente da quanto previsto all’art. 18, co. 7, Legge 300/1970, l’art. 2, co. 4, D. Lgs. 23/2015 estende il medesimo regime al caso in cui sia accertato il “difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68”.
Si è detto, un precetto analogo, non identico.
La differenza, oltre a quella appena tratteggiata e il diverso richiamo normativo in punto di discriminazione, è da individuarsi nel fatto che lo Statuto dei Lavoratori sanziona, con il primo comma dell’art. 18, i licenziamenti nulli in quanto riconducibili “ad altri casi di nullità previsti dalla legge” (con estensione, dunque, della tutela reintegratoria a tutti i casi di licenziamento intimato in violazione di una norma imperativa), mentre, con l’art. 2, il Decreto Legislativo 23/2015 sanziona – rectius, sanzionava – i licenziamenti nulli in quanto riconducibili agli “altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”: avverbio, quest’ultimo, che “rimanda alla distinzione di carattere generale fra nullità testuali e nullità virtuali” ([4]).
2. Le criticità della disciplina prevista dal Jobs Act.
Sul differente tenore letterale delle due disposizioni, si è acceso un intenso dibattito.
Da un lato, risultava agevole ritenere che i casi di nullità testuali, specificamente richiamate dall’art. 18 Legge 300/1970, potessero rientrare nella clausola di cui all’art. 2 D. Lgs. 23/2015; dall’altro, tutt’altro che immediata si prospettava la riflessione sul precipitato oggettivo dell’avverbio «espressamente» destinato, con ogni evidenza, a operare – sotto un profilo prettamente logico-sistematico – quale norma limitativa e di chiusura.
Sicché, vi è stato chi ha ritenuto di valorizzare la differenza tra le due disposizioni in commento sottolineando come l’art. 18 Legge 300/1970 non richieda l’espressa previsione legale della nullità; si è affermato, in particolare, che l’intenzione del Legislatore del Jobs Act sarebbe stata quella di impedire un’interpretazione estensiva delle ipotesi riconducibili alla massima tutela reintegratoria, escludendo le nullità virtuali e la violazione di norme imperative non accompagnate da una espressa sanzione di nullità, e riconducendovi esclusivamente le nullità esplicitamente contemplate dalle norme in materia di licenziamenti.
In questa specifica prospettiva, si è sostenuto che “l’intenzione del legislatore del 2015 [sarebbe] stata proprio quella di escludere dall’ambito di applicazione dell’art. 2 i casi in cui la nullità del licenziamento è meramente virtuale, e ciò allo scopo di evitare che, anche in futuro, si possa verificare quello che è in effetti accaduto dopo l’entrata in vigore della riforma Fornero, e cioè una sorta di “travaso”, realizzato principalmente dalla giurisprudenza, di fattispecie di licenziamento ingiustificato nell’area di quello nullo, travaso evidentemente voluto al fine di espandere l’altrimenti esiguo spazio riservato dalla legge alla tutela più forte” ([5]).
Con differente approccio interpretativo, tuttavia, alcuni Autori hanno inteso valorizzare la ratio sottesa agli interventi normativi del decennio ([6]) – e, soprattutto, le preminenti esigenze di ragionevolezza dell’opzione legislativa ([7]) – per ritenere necessariamente ricomprese le nullità virtuali, precipitato della disposizione di cui all’art. 1418 c.c.
Autorevole Dottrina, nello specifico, ha affermato che “…l’avverbio “espressamente” contenuto nell’articolo 2 sulla tutela della reintegrazione non sembra sufficiente a porre nel nulla l’intera disciplina della nullità del codice, perché non indica una diversa disciplina, come appunto prevede l’articolo 3 in caso di licenziamento ingiustificato. In conclusione… deve essere preferita una interpretazione sistematica e non meramente letterale dell’articolo 2 del decreto legislativo n. 23/2015, confortata anche dall’evoluzione del diritto vivente, per riconoscere ugualmente la reintegrazione per tutte le ipotesi di violazione di nonne imperative. Non può bastare, infatti, il solo avverbio “espressamente” per derogare al regime della nullità previsto di regola, dall’articolo 1418, primo comma, c.c.” ([8]).
Di fatto, l’art. 2 D. Lgs. 23/2015 non consentiva nessuna interpretazione esente da criticità.
Tuttavia, se la lettura estensiva era destinata a confliggere con un rilievo evidentemente testuale, l’interpretazione restrittiva presentava ben più rilevanti problematiche di ordine costituzionale e sistematico, tanto avuto riguardo all’ambito della delega ([9]), quanto in prospettiva prettamente sostanzialista, identici essendo disvalore e antigiuridicità della condotta a dispetto della data di assunzione del lavoratore ([10]): criticità difficilmente superabili sulla base del rilievo che le ipotesi di nullità, ove estranee all’ambito di applicazione dell’art. 2 D. Lgs. 23/2015, sarebbero potute rientrare nella tutela di diritto comune cui sarebbe conseguita – di fatto – una reazione sanzionatoria analoga ([11]).
Quest’ultima soluzione, peraltro, avrebbe restituito un sistema di tutele severamente frammentato e, dunque, incoerente rispetto alla ratio degli interventi legislativi voluti e attuati con la Legge 92/2012 e il Decreto Legislativo 23/2015.
Pertanto, una lettura della nuova normativa coerente con la finalità propria della legislazione dell’ultimo decennio, e soprattutto con il perimetro costituzionale di riferimento, induceva a far rientrare nell’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 2, co. 1, D. Lgs. 23/2015, altresì, le nullità virtuali e la disciplina generale in materia di invalidità degli atti negoziali ([12]); questo, anche in considerazione del rilievo secondo cui le nullità di cui all’art. 1418 c.c. sarebbero anch’esse esplicitamente previste dalla disciplina codicistica, inequivoco risultando – sotto questo punto di vista – il tenore letterale della disposizione ([13]).
Il riferimento, d’altronde, era a casi in cui “la nullità, pur non «espressamente» prevista dalla legge con specifico riferimento alla materia del licenziamento, deriva dall’applicazione dei principi generali del diritto civile, ovvero dalle norme di cui agli artt. 1418 c.c., 1343 c.c. e 1345 c.c.; si tratta, altresì, di fattispecie non riconducibili alla mancanza di giustificazione del licenziamento ai sensi dell’art. 3, co. 2, in quanto le situazioni inquadrabili in siffatte norme civilistiche si connotano per una diversa categoria di disvalore giuridico, di volta in volta consistente nella contrarietà a norme imperative (art. 1418 c.c.), nell’illiceità della causa (art. 1343 c.c.), nell’illiceità del motivo (art. 1345 c.c.) ed, infine, nella fronde alla legge (quando l’atto «costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa»: art. 1344 c.c.).” ([14]).
Dibattito di analogo tenore si è sviluppato nella giurisprudenza di merito.
Da un lato, si è escluso di poter “…ritenere “espressamente” prevista la nullità nei diversi casi nei quali la stessa viene fatta discendere – pur in assenza di una espressa previsione o divieto di licenziamento – dalla natura inderogabile della norma che si assume violata – e quindi attraverso l’art. 1418 c.c.” ([15]).
Si è osservato, peraltro, che “non vi [sarebbero] elementi né di ordine letterale né logico-sistematico per potere supporre che il legislatore abbia inteso introdurre una doppia limitazione escludendo dalla tutela più intensa, oltre alle nullità virtuali e cioè quelle sancite non testualmente ma per violazione di norma imperativa ai sensi dell’art. 1418, primo comma, c.c. anche le ipotesi di nullità testuale non sanzionate come tali dal corpus di diritto speciale rappresentato dal testo del decreto o da altre norme settoriali dell’ordinamento lavoristico. Invero, secondo motivazione condivisa ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c. da precedente di questo Tribunale su fattispecie identica (sentenza n. 347/2018…)...” mentre la prima esclusione… potrebbe apparire necessaria nell’ottica di attribuire un significato all’avverbio espressamente che segna la differenza rispetto alla fattispecie definitoria dei confini della tutela forte del primo comma dell’art. 18 St. lav., altrettanto non può dirsi per la seconda perché non vi sono indicazioni che consentano di porre le nullità che derivano dal diritto dei contratti su un piano diverso da quelle coniate dal diritto speciale”...)” ([16]).
Dall’altro, si è sostenuto che – ricorrendo un’ipotesi di “nullità, per violazione di una norma imperativa (non si tratta di un consiglio, ma di un divieto a tutela di fondamentali interessi sociali, financo teso alla tenuta del “contratto sociale” stesso, minacciata dall’emergenza causata dal COVID-19), diretta proprio a proibire (in quelle determinate circostanze) l’adizione del licenziamento (art. 1418 c.c.: “Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente”)” – il rimedio avrebbe dovuto essere “individuato nell’art. 2,1. comma del D. Lgs. n. 23/2015 che prevede la massima sanzione (reintegra e risarcimento) in relazione ai casi di “nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”, dovendosi fare riferimento al dato testuale codicistico sopra riportato e che vale a qualificare espressamente nullo il contratto (qui il licenziamento in forza del richiamo di cui all’art. 1324 c.c.) contrario a norme imperative (qual è la disposizione sopra esaminata)” ([17]).
In questa prospettiva, si è anche sottolineato che “…la nullità dell’atto di licenziamento in esame discende dal combinato disposto della norma generale dell’art. 1418, comma 1, cod. civ. che colpisce gli atti (ex art. 1324 Cod. civ.) contrari a norme imperative, identificata, nel nostro caso, dall’art. 1, L. n. 604/1966. Le conseguenze immediate della disposizione, dunque, dovrebbero essere quelle della c.d. «nullità di diritto comune». Sennonché lo stesso art. 1418, comma 1, cod. civ., fa salvi i casi in cui «la legge disponga altrimenti». Nel caso che ci occupa… una tale disposizione speciale esiste e va identificata proprio nell’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015. È infatti all’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015 che la legge affida la regolazione dei casi di nullità del licenziamento, abbracciando nel proprio ambito, tra gli altri, gli «altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge», tra cui devono essere ricomprese le nullità c.d. “virtuali” per contrasto con norme imperative. L’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015 si presta ad accogliere tutti i casi di nullità” ([18]).
3. La necessità di un intervento del Giudice delle Leggi.
La questione è approdata, inevitabilmente, al vaglio della Corte Costituzionale che l’ha recentemente risolta dichiarando “l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), limitatamente alla parola «espressamente»” ([19]).
Le ragioni poste a fondamento della declaratoria di illegittimità si presentano alquanto inedite, soprattutto ove si consideri la più recente giurisprudenza costituzionale, ma si tratta di una soluzione vincolata in ragione del thema decidendum circoscritto dal Giudice remittente.
3.1. La questione di legittimità costituzionale.
Il giudizio si è avviato a seguito di un’ordinanza di rimessione della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, co. 1, D. Lgs. 23/2015 esclusivamente con riferimento all’art. 76 Costituzione ([20]).
La questione muove dall’impugnazione della sentenza con cui la Corte di Appello di Firenze ha dichiarato la nullità del licenziamento – invero, della destituzione di un lavoratore ai sensi del Regio Decreto 148/1931 – condannando la datrice di lavoro al pagamento di una mera indennità risarcitoria; alla suddetta condanna è pervenuta la Corte fiorentina sul presupposto che l’art. 2, co. 1, D. Lgs. 23/2015 contemplerebbe la reintegrazione, oltre che per il licenziamento discriminatorio, solo per gli “altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”: ipotesi ivi ritenuta insussistente in quanto, nel caso esaminato, la nullità non era espressa, ma riconducibile a categorie di ordine generale.
Proponendo ricorso per cassazione, il lavoratore ricorrente ha lamentato la violazione e la falsa applicazione dell’art. 76 Costituzione, dell’1, co. 7, lett. c), Legge Delega 183/2014, degli artt. 2 e 3 D. Lgs. 23/2015, e degli artt. 1418 e 2058 c.c., dolendosi dell’erroneità dell’interpretazione della Corte territoriale, ove volta a limitare l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria ai soli casi di nullità espressa e non a tutti i casi di nullità, anche se derivanti dall’art. 1418 c.c.
Il ricorrente ha prospettato, sia il profilo dell’eccesso di delega, sia l’irragionevolezza e incoerenza dell’enfatizzazione dell’avverbio «espressamente».
Il Supremo Collegio ha condiviso il giudizio della Corte di Appello in merito alla nullità del licenziamento sul presupposto che “le fasi del procedimento disciplinare non possono essere omesse o concentrate, e, di conseguenza, la nullità di una sanzione disciplinare, per tale tipo di violazione, rientra nella categoria delle nullità di protezione, in quanto fondata sullo scopo di tutela del contraente debole del rapporto”, così che “tale violazione non è assimilabile a quelle procedurali (di cui all’art. 18, comma 6, legge n. 300/1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, Legge n. 92/2012)”; in particolare, ha rammentato che il “regime di nullità (di protezione) emerge da ricostruzione sistematica ed è riconducibile al regime generale delle nullità disciplinato dagli artt. 1418 ss. c.c., sicché tale qualificazione (di nullità di protezione) comporta l’integrazione dell’ipotesi di nullità per contrarietà a norma imperativa, cui di norma si applica la tutela reintegratoria (cfr. Cass. n. 32681/2021)” ([21]).
Tuttavia, la Corte di Cassazione ha prospettato un possibile contrasto tra la delimitazione della tutela reintegratoria ai soli casi di nullità “espressamente previsti della legge” e l’art. 1, co. 7, lett. c), della Legge Delega 183/2014 che richiedeva al Legislatore Delegato la “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento”; ha sottolineato, in particolare, che “la necessaria coerenza tra legge delegante e legge delegata appare nel caso in esame dubbia per la previsione di una limitazione di tutela non prevista nella norma delegante e di individuazione incerta” ([22]).
Nel farlo, ha escluso la possibilità di optare per una soluzione interpretativa costituzionalmente orientata, in quanto non sarebbe stato comunque possibile pervenire all’abrogazione dell’avverbio che è, peraltro, “lemma che non si presta ad interpretazioni semantiche diverse da quella limitativa dei casi di nullità cui ricollegare la tutela reintegratoria, con ciò generandosi le incompatibilità ed incongruenze con la legge-delega di cui sopra” ([23]).
È un sospetto di illegittimità costituzionale che il Supremo Collegio ha ritenuto non manifestamente infondato per due distinti ordini di ragioni.
Da un lato, per una questione afferente al tenore letterale della Legge Delega, che “sembra comprendere nell’area della reintegrazione tutti i licenziamenti nulli e discriminatori, e delegare l’individuazione di specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato (ma non per questo nullo, cui ulteriormente ricollegare il diritto alla reintegrazione; in altri termini, la limitazione del diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare non implica l’ulteriore limitazione alle nullità espresse dalla legge, perché, in senso letterale, la delega esclude dalla limitazione l’area dei licenziamenti nulli (tutti) e discriminatori, oltre a specifiche ipotesi di licenziamenti disciplinari non nulli da individuarsi in sede delegata” ([24]).
Dall’altro, per una ragione di ordine logico-sistematico, in quanto “la restrizione ai soli casi di nullità espressa – nel senso di esplicitata come sanzione della violazione del precetto primario – finisce con il forzare il valore della coerenza del sistema, e a non considerare operante, anche ai fini di cui all’art. 2, comma 1, del d. lgs. n. 23 del 2015, il principio generale che ricollega la conseguenza della nullità alla violazione di norme imperative dell’ordinamento civilistico; in realtà, la differenza tra nullità espressamente previste e nullità da ricollegare a categorie civilistiche generali può risultare il precipitato non di una diversità ontologica o valoriale, ma di peculiare ragioni storiche, sistematiche o di stratificazione normativa, con esiti casuali e non razionali, così realizzando un’eterogenesi dei fini ordinatori della disciplina delegante; senza considerare che anche l’art. 1418 c.c. è norma espressa” ([25]).
Sennonché, nonostante i duplici e autonomi rilievi formulati, il Giudice di Legittimità ha ritenuto di sollevare la questione solo avuto riguardo al primo profilo: “questa Corte:… ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, d. lgs. 4 marzo 2015, n. 23, in riferimento all’art. 76 Cost., nella parte in cui prevede che il giudice, “con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio… ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro… la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto””, e solleva “questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 76 Cost. ed altri eventuali parametri derivati, della delimitazione della tutela reintegratoria ai casi di nullità “espressamente previsti della legge”, per contrasto con la norma della legge-delega (legge 10 dicembre 2014, n. 183, art. 1, comma 7, lett. c), che dispone che il legislatore delegato preveda per le nuove assunzioni, la limitazione del “diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato”” ([26]).
In questo modo, la Corte di Cassazione ha vincolato la Consulta precludendole in nuce qualsivoglia riflessione in ordine alla legittimità della norma rispetto ai criteri di ragionevolezza e uguaglianza di cui all’art. 3 Costituzione; come noto, d’altronde, è la sola ordinanza di rimessione a determinare il thema decidendum, indicando la norma censurata e il parametro costituzionale di riferimento: il «thema decidendum» “con riguardo alle norme censurate, va identificato tenendo conto della motivazione delle ordinanze» (sentenza n. 238 del 2014…)” ([27]), così che “l’oggetto del giudizio di costituzionalità in via incidentale è limitato alle sole norme e parametri indicati, pur se implicitamente, nell’ordinanza e… non possono essere presi in considerazione questioni o profili di costituzionalità diversi, tanto se siano stati dedotti ma non fatti propri dal giudice a quo, quanto se ampliano o modificano il contenuto delle stesse ordinanze” ([28]).
Dunque, “la perimetrazione del thema decidendum – corrispondente al petitum dell’ordinanza di rimessione – limita anche la cognizione e il possibile intervento della Corte, la quale in questo senso non può andare ultra petita” ([29]).
La rilevanza della questione, per come così circoscritta, è stata sostenuta dal lavoratore – parte ricorrente nel giudizio principale – che ha anche sottolineato l’incoerenza degli effetti derivanti da una rigida interpretazione dell’avverbio «espressamente»: a parità di gravità del vizio e del contrasto con valori fondamentali dell’ordinamento, sarebbero rimasti esclusi dalla tutela reintegratoria di cui all’art. 2 D. Lgs. 23/2015 tutti i licenziamenti affetti da una nullità non espressamente prevista, ma comunque contrari a una norma inderogabile di protezione.
Costituendosi nel giudizio di legittimità, per contro, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha insistito sulla manifesta infondatezza della questione sostenendo, tra l’altro, per quanto qui di interesse, che l’art. 2, co. 1, D. Lgs. 23/2015 sarebbe pienamente coerente con la Legge Delega 183/2014, precipitato dei principi e dei criteri direttivi dalla medesima delineati, e corretta attuazione della ratio alla stessa sottesa: l’estensione della tutela reintegratoria a fattispecie in cui la nullità del licenziamento è rimessa alla valutazione dell’interprete sul carattere imperativo della norma violata frusterebbe, questa è la tesi, l’obiettivo del contingentamento delle ipotesi di reintegrazione, costituendo la mancanza di flessibilità in uscita dall’impresa un elemento di disfunzione del sistema.
Ha affermato, più nello specifico, che le nullità virtuali – non riconducibili a una casistica predeterminata – sarebbero risultato della mutevole attività ermeneutica dell’interprete, espressione, a sua volta, dei differenti contesti storici e sociali circa la natura imperativa della norma di riferimento.
3.2. La decisione della Consulta.
La scelta del Supremo Collegio di limitare il vaglio della Corte Costituzionale al solo parametro di cui all’art. 76 Costituzione sorprende per due distinte ragioni.
Da un lato, perché la giurisprudenza della Consulta non conosce – soprattutto, nella sua storia più recente – un numero rilevante di pronunzie di illegittimità dichiarata sotto il profilo dell’eccesso di delega; invero, proprio in materia di tutele avverso licenziamenti illegittimi, il parametro di cui all’art. 76 Costituzione ha vissuto anche vicende avverse.
Dall’altro, un sindacato esteso ai profili di ordine logico-sistematico rispetto alla coerenza complessiva del sistema – e, quindi, di potenziale conflitto con i canoni di ragionevolezza, uguaglianza e bilanciamento tra contrapposti interessi – avrebbe potuto costituire strumento prezioso nell’interpretazione complessiva della disciplina in commento, anche in prospettiva della risoluzione degli ulteriori possibili profili di criticità residui (primo fra tutti, quello relativo all’interpretazione e all’applicazione dell’inciso “direttamente dimostrata in giudizio” di cui all’art. 3, co. 2, D. Lgs. 23/2015).
Ciò posto, ritenuta la rilevanza della questione ([30]) ed esclusa la manifesta infondatezza della medesima ([31]), con sentenza 22 febbraio 2024, n. 22, la Consulta conclude per l’illegittimità costituzionale della previsione “limitatamente alla parola «espressamente»”.
Analizzando la progressiva evoluzione della materia – per come delineata dalla riforma di cui alla Legge 92/2012, prima, e dal Decreto Legislativo 23/2015, poi – il Giudice delle Leggi evidenzia come la volontà del Legislatore sia quella di riservare la tutela reale ai soli licenziamenti viziati dalle violazioni più gravi: è un’impostazione, questa, che caratterizza non solo il rinnovato art. 18 Legge 300/1970, ma altresì, per quanto rafforzata da una più stretta delimitazione delle ipotesi di reintegrazione, il regime delle cosiddette “tutele crescenti”.
Al riguardo, la Corte Costituzionale ha opportunamente evidenziato come, “in linea di continuità con la legge n. 92 del 2012, anche il legislatore del 2015 [abbia] mantenuto, ai fini dell’applicabilità della tutela reintegratoria, la distinta previsione del «licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale», secondo la ripartizione chiaramente enunciata nella rubrica dell’art. 2 del decreto legislativo stesso” ([32]), e ha rammentato, altresì, come il Legislatore del 2012 abbia collocato il licenziamento nullo – quale fattispecie di carattere generale, distinta da quella del licenziamento discriminatorio ([33]) – “in cima alla piramide della gravità delle violazioni che comportano la illegittimità del recesso datoriale, raggruppandole nella disciplina unitaria di cui ai primi tre commi di tale disposizione” ([34]).
Proprio il riformato art. 18, co. 1, Statuto Lavoratori, d’altronde, attrae a sé specifiche ipotesi di nullità del licenziamento (discriminatorio, intimato in concomitanza di matrimonio, correlato alla genitorialità, frutto di motivo illecito determinante) e si completa con una norma di chiusura – destinata a garantire la piena coerenza del sistema – da individuarsi nel richiamo a ogni altra ipotesi di licenziamento “riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge”.
In questo contesto, tuttavia, secondo la Consulta, l’effetto dell’introduzione dell’art. 2 D. Lgs. 23/2015 sarebbe quello di “sdoppiare” l’unitaria fattispecie di carattere generale delineata dall’art. 18 Legge 300/1970, distinguendo tra il licenziamento espressamente nullo, da un lato, e il licenziamento nullo privo di espressa previsione di nullità, dall’altro: proprio in questo si concretizzerebbe la funzione selettiva svolta dall’avverbio «espressamente», impiegato per individuare e circoscrivere le ipotesi di nullità riconducibili ai casi di reintegrazione. Sotto questo specifico profilo, la Corte Costituzionale condivide l’approccio interpretativo del Supremo Collegio nella parte in cui ha ritenuto che il carattere «espresso» della nullità esige che detta sanzione sia esplicitamente prevista quale conseguenza della violazione di una data norma imperativa (si pensi, per esempio, all’art. 51, co. 5, D. Lgs. 151/2001); diversamente argomentando, si giungerebbe a privare di qualsivoglia effetto l’avverbio «espressamente» con conseguente, e inammissibile, interpretatio abrogans.
Viene, così, necessariamente in rilievo – quale strumento di selezione delle ipotesi di nullità tutelate dalla reintegrazione – la distinzione tra nullità testuali e nullità virtuali, le quali ultime impongono all’interprete di verificare se l’ordinamento, nell’introdurre la norma imperativa, abbia altresì inteso farne derivare la nullità dell’atto ad essa contrario.
Tuttavia, se questo è, allora la questione di illegittimità sollevata con riferimento all’art. 76 Costituzione è fondata.
Questo afferma il Giudice delle Leggi rammentando, in primo luogo, come l’art. 1, co. 7, lett. c, Legge 183/2014 avesse demandato al Legislatore delegato di prevedere, “per le nuove assunzioni, [un] contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento”, ed evidenziando come “il criterio direttivo, nella parte che rileva ai fini della presente questione, segn[i] i confini della tutela reintegratoria del lavoratore nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo delineando, in negativo, un ambito di esclusione, che vede la tutela solo indennitaria per i licenziamenti economici che risultino illegittimi, e, in positivo, uno di inclusione, riservato distintamente ai licenziamenti nulli e discriminatori e ad alcune specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato” ([35]).
Nel quadro così delineato, l’eccesso di delega investe la distinzione tra differenti ipotesi di nullità cui correlare forme di tutela oggettivamente diverse, relegando alla tutela meramente indennitaria i casi di nullità virtuale: distinzione non contemplata dalla Legge 183/2014 e, soprattutto, contraria al criterio direttivo che intendeva sanzionare con la reintegrazione tutti i casi di “licenziamenti nulli”.
Vero, infatti, che la delega legislativa può atteggiarsi in via oltremodo differente e “…non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, la quale può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega”, così che è sempre necessario, “per valutare se il legislatore abbia ecceduto da tali margini di discrezionalità, …individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente” ([36]).
Parimenti vero, cionondimeno, che, “…ai sensi dell’art. 76 Cost., il legislatore delegante, nel conferire al Governo l’esercizio di una porzione della funzione legislativa, è tenuto a circoscriverne adeguatamente l’ambito, predeterminandone i limiti di oggetto e di contenuto, oltre che di tempo” e che, secondo il consolidato orientamento della Corte Costituzionale, “…la legge delega, fondamento e limite del potere legislativo delegato, non deve contenere enunciazioni troppo generali o comunque inidonee a indirizzare l’attività normativa del legislatore delegato, ma ben può essere abbastanza ampia da preservare un margine di discrezionalità, e un corrispondente spazio, entro il quale il Governo possa agevolmente svolgere la propria attività di “riempimento” normativo, la quale è pur sempre esercizio delegato di una funzione “legislativa”” ([37]).
Sicché, tenuto conto del grado di specificità dei principi e criteri direttivi, così come della maggiore o minore ampiezza dell’oggetto della delega, muovendo da una lettura interpretativa fedele tanto alla lettera quanto alla ratio della legge, ed evidenziando come “tra l’elemento letterale e quello funzionale-teleologico esista un rapporto inversamente proporzionale: meno preciso e univoco è il primo, più rilevante risulta il secondo” ([38]), il Giudice delle Leggi giunge al giudizio di illegittimità costituzionale per quattro distinti ordini di ragioni.
Sotto il profilo prettamente letterale, in primo luogo, la Consulta evidenzia come nel criterio direttivo di riferimento non sia contemplata, in alcun modo, la distinzione tra nullità «espressamente» previste e nullità derivanti alla violazione di norme imperative, ma prive dell’espressa previsione come conseguenza della loro violazione: il riferimento utile all’applicazione della tutela reintegratoria è esclusivamente e generalmente a tutti i “licenziamenti nulli”. Osserva, peraltro, come un’eventuale distinzione – inedita rispetto al complessivo quadro normativo di riferimento – avrebbe richiesto una previsione “(questa sì)” ([39]) espressa.
Sempre in prospettiva letterale, poi, il tenore dell’art. 1, co. 7, Legge Delega risulterebbe ancor più inequivoco in ragione dell’ulteriore ipotesi reintegratoria ivi prevista e della “…successiva limitazione a «specifiche fattispecie» riferita esclusivamente al «licenziamento disciplinare ingiustificato»; quindi il criterio direttivo ha previsto sì una distinzione, ma solo per il licenziamento disciplinare (per giustificato motivo soggettivo)”; così, “se il legislatore delegante avesse voluto una qualche distinzione anche tra le nullità l’avrebbe parimenti prevista, come per il licenziamento disciplinare” ([40]).
Da un punto di vista logico-sistematico, la Corte ritiene che la limitazione alla nullità testuale sia “eccentrica rispetto all’impianto della delega che mira ad introdurre per le «nuove assunzioni» una disciplina generale dei licenziamenti di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, a copertura integrale per tutte le ipotesi di invalidità” ([41]): si porrebbe, dunque, in contraddizione con la volontà del Legislatore Delegante di regolare con la nuova disciplina tutti i licenziamenti illegittimi, riservando ai casi di nullità la reazione sanzionatoria più severa e riconoscendo tutela meramente indennitaria a tutte le altre ipotesi di illegittimità.
In questo contesto, il Legislatore Delegato non poteva ritenersi legittimato a operare una distinzione interna tra differenti fattispecie di licenziamento nullo.
Di fatto, peraltro, la previsione introdotta all’art. 2, co. 1, D. Lgs. 23/2015 restituisce un quadro regolatorio incompleto e incoerente rispetto ai criteri direttivi cristallizzati nella Legge 183/2014: la portata letterale e sistematica dell’avverbio «espressamente», difatti, lascia privi di regolamentazione – nulla avendo previsto, al riguardo, il Jobs Act – i licenziamenti nulli derivanti da fattispecie sfornite dell’espressa previsione della nullità, ma comunque estranee alle ipotesi regolate dagli artt. 3ss. D. Lgs. 23/2015.
Infine, sempre da un punto di vista sistematico, la Consulta valorizza “l’inedito ribaltamento della regola civilistica dell’art. 1418, primo comma, cod. civ., che prevede la nullità come sanzione della violazione di norme imperative e la esclude qualora si rinvenga una legge che disponga diversamente; qui la previsione “diversa” serve, all’opposto, a derogare alla nullità che consegue alla violazione di norme imperative” ([42]).
Ecco, quindi, che “l’eccesso di delega per violazione del sopra richiamato criterio direttivo trova riscontro sia nell’univoca “lettera” di quest’ultimo, che ammette distinzioni per i licenziamenti disciplinari, ma non anche per quelli nulli, sia nell’interpretazione sistematica per la contraddittorietà di una distinzione che non si accompagni, diversamente che per i licenziamenti disciplinari, alla previsione del tipo di tutela applicabile alla fattispecie esclusa dal regime della reintegrazione” ([43]).
4. Concludendo.
Nell’affermare l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, co. 1, D. Lgs. 23/2015 limitatamente alla parola «espressamente», il Giudice delle Leggi chiarisce che, “per effetto di tale pronuncia il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra anche l’espressa (e testuale) sanzione della nullità, sia che ciò non sia espressamente previsto, pur rinvenendosi il carattere imperativo della prescrizione violata e comunque «salvo che la legge disponga diversamente». Occorre, però, pur sempre che la disposizione imperativa rechi, in modo espresso o no, un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti” ([44]).
Il quadro normativo restituito all’interprete risulta, a dispetto del limitato thema decidendum oggetto di pronunzia, pienamente rispettoso dei fondamentali parametri di ragionevolezza e uguaglianza di cui all’art. 3 Costituzione.
Il capitolo delle nullità racchiude in sé la reazione dell’ordinamento alle condotte datoriali connotate dal più elevato grado di antigiuridicità e riprovevolezza: a parità di disvalore e contrarietà alla legge della condotta, allora, non vi era modo di legittimare una differente reazione sanzionatoria per il sol fatto del diverso riferimento temporale di inizio della relazione lavorativa.
Il sistema sanzionatorio “riscritto” dalla Corte Costituzionale, peraltro, risulta altresì più coerente e rispettoso della ratio sottesa al disegno del Legislatore Delegante, la cui volontà – di fatto – parrebbe essersi pienamente attuata solo in virtù dell’intervento della Consulta: nonostante il criterio direttivo fondamentale della Legge 183/2014 fosse quello di dar vita a “un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro”, difatti, il Decreto Legislativo 23/2015 aveva delineato un regime parziale e incompleto.
Il rilievo induce a riflettere in merito al dibattito, sempre più acceso, sugli effetti – complessivamente considerati – delle molteplici pronunzie della Consulta in materia di licenziamenti illegittimi, della sostanziale ridefinizione di plurime e fondamentali norme cui si è recentemente assistito. Il riferimento, in particolare, è alle obiezioni di quella Autorevole Dottrina ([45]) che ritiene che il quadro normativo così ricostruito sarebbe foriero di grandi incertezze e, peraltro, non coerente con quello voluto dal Legislatore delle Leggi 92/2012 e 183/2014 che avrebbe assistito, con il susseguirsi delle pronunzie di illegittimità costituzionale, alla progressiva demolizione della riforma avviata nello scorso decennio, con severa frustrazione – rectius, negazione – dei principi che vi erano sottesi.
Invero, si è detto, l’intervento di cui alla sentenza 22 febbraio 2024, n. 22, parrebbe aver prodotto il risultato opposto, riportando a unità e coerenza l’attuazione dell’originario disegno legislativo; vi è da chiedersi se questo non sia, in prospettiva ben più ampia, l’effetto sulla complessiva moderna fisionomia della disciplina dei licenziamenti illegittimi, proprio in ragione dell’evoluzione voluta e tratteggiata nel passaggio dall’originario art. 18 Statuto dei Lavoratori alla Riforma Fornero e, poi, dalla Riforma Fornero al Jobs Act.
Il tema, tanto provocatorio e stimolante, quanto ampio e complesso, non può trovar spazio in questo primo (e, inevitabilmente, parziale) esame delle ricadute dell’ultimo intervento della giustizia costituzionale; non vi è tuttavia dubbio che, una volta ancora, la materia del licenziamento sia rimasta fedele a sé stessa, dimostrando di esser ben lontana dal conoscere stabilità, ma pur sempre capace di offrire spunti continui di approfondimento e riflessione.
([1]) Ossia, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro – indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti del datore di lavoro – oltre al risarcimento con un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, e in ogni caso non inferiore a cinque mensilità, dedotto il solo aliunde perceptum.
([2]) Si è opportunamente osservato che “la funzione aggregante del riformato art. 18, co. 1, consente pertanto di ricondurre alla tutela lavoristica tutti i licenziamenti affetti da nullità, con ciò evitando che, con il rimedio civilistico ex art. 1418 c.c. venga meno il diritto all’erogazione di un risarcimento minimo di 5 mensilità in favore del lavoratore licenziato, oppure il diritto del lavoratore a ottenere quindici mensilità in caso di rifiuto alla reintegrazione” (in questo senso, Borelli S., Guariso A. e Lazzeroni L., Le discriminazioni nel rapporto di lavoro, in Aa.Vv. (a cura di Barbera M. e Guariso A.), La tutela antidiscriminatoria. Fonti, strumenti, interpreti, Torino, 2019, 224).
([3]) Previsione che trova applicazione nei soli confronti dei lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, e che siano stati assunti con decorrenza 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23).
([4]) Carinci M.T., Il licenziamento nullo perché discriminatorio, intimato in violazione di disposizioni di legge o in forma orale, in Aa.Vv. (a cura di Carinci M.T. e Tursi A.), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Torino, 2015, 51.
Per una riflessione sulla “funzione delle categorie civilistiche nel diritto del lavoro”, si veda Santoro Passarelli G., La regolazione del mercato del lavoro dopo il Jobs Act – Parte II - Sulle categorie del diritto del lavoro “riformate”, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2016, 1, 7ss.
Per un’analisi approfondita delle tipologie di nullità, si veda Bellocchi P., La nullità del licenziamento nel decreto legislativo n. 23/2015, inDiritto delle Relazioni Industriali, 2018, 1, 145ss.; l’Autrice propone di riflettere su “nullità speciali vs. nullità generali”, osservando che “il giudizio circa la nullità del licenziamento, sul terreno dell’applicazione di un rimedio di diritto speciale qual è la reintegra (ex articolo 2 come ex articolo 18), deve essere condotto non secondo le cause generali di nullità dei contratti ai sensi dell’articolo 1418 c.c., ma nella sedes materiaedella normativa giuslavoristica, ricercando e distinguendo specifiche fattispecie di nullità del recesso”, e sostiene che “Non a caso il motivo illecito di cui all’articolo 1345 c.c. è correttamente la previsione di chiusura dell’articolo 18, costituendo il ponte tra la legislazione speciale sui licenziamenti (cui si riferiscono i vizi di nullità precedenti, quelli testuali da discriminazione e da matrimonio e maternità/paternità, e quegli altri non meglio specificati) e i vizi di diritto comune, quale il motivo illecito (e, per estensione, la frode alla legge pur non richiamata). A questa opzione di fondo contraria ad ogni interferenza tra nullità specifiche e nullità generali si è attenuto l’articolo 2, confermandola ed anzi, come si vedrà nel par. successivo, rafforzandola. Gli altri casi di nullità nascono cioè da altre norme dell’ordinamento (non necessariamente extra-codicistiche, come dimostrano l’articolo 2110 c.c. o l’articolo 2112 c.c.), per l’appunto speciali, in quanto deputate alla regolamentazione di situazioni particolari: devono essere ricercati ratione materiae nel contesto delle discipline specifiche che in vario modo limitano il potere di licenziamento, tipizzando (se non sanzioni) fattispecie di recesso inibito. È su questo terreno che il legislatore delegante intende intervenire, senza la storica frattura conseguente alle soglie occupazionali” (Bellocchi P., cit., 156-157ss.). Ne consegue che “…la prescrizione “espressamente” non è in realtà spiegabile se riferita alla enunciazione formale del vizio di nullità del recesso, ma proprio e solo se riferita al precetto primario. Con essa il legislatore delegato ha inteso individuare tutte le norme che, nel disegno di ricomposizione del sistema sanzionatorio sotteso al decreto legislativo n. 23/2015, si occupano del potere di licenziamento stabilendo limiti speciali al suo esercizio. Sono i casi in cui la legge esclude espressamente che una determinata situazione possa integrare una valida giustificazione del recesso: si potrebbe parlare di un divieto di licenziamento giustificato, ossia fondato su talune motivazioni. La maggior parte di essa si ricava, a contrario, dai disposti che garantiscono al lavoratore il diritto alla conservazione del posto. Si tratta delle ipotesi in cui, per dirla con terminologia di Roppo, l’espressa qualificazione legislativa in termini di nullità non solo non è necessaria ma creerebbe altrettanti casi di nullità testuale superflua, essendo il vincolo sostanziale al potere di licenziamento univoco ed autosufficiente” (Bellocchi P., cit., 158).
([5]) Così, Pasqualetto E., Il licenziamento discriminatorio e nullo nel “passaggio” dall’art. 18 Stat. Lav. all’art. 2, d. lgs. n. 23/2015, inAa.Vv. (a cura di Carinci F. e Cester C.), Il licenziamento all’indomani del d.lgs. n. 23/2015, 2015, 56; l’Autrice riflette in termini di “netto ripudio della teoria della nullità virtuale in materia di licenziamenti ad opera dell’art. 2 del d.lgs. n. 23/2015”, Pasqualetto E., cit., 60. In questo stesso senso, Treu T., Jobs Act: prime riflessioni sui decreti attuativi, in Guida al Lavoro, 2015, 3, 12ss. Contra, Musella C., I licenziamenti discriminatori e nulli, in Aa.Vv. (a cura di Ferraro G.), I licenziamenti nel contratto “a tutele crescenti”, Padova, 2015.
([6]) Ossia, attuare una completa e organica riorganizzazione del sistema delle tutele per i casi di licenziamento illegittimo, così favorendo fondamentali esigenze di certezza del diritto.
([7]) Le quali dovrebbero garantire “l’uniformità delle tutele, superando le possibili obiezioni d’irrazionalità d’un duplice regime diacronico”, in questo senso, Basilico M., Il licenziamento nullo, Aa.Vv. (a cura di Di Paola L.), Il licenziamento. Dalla Legge Fornero al Jobs Act, Milano, 2016, 112-113, che opportunamente riflette sullo “assetto ancora più frastagliato ed incerto negli effetti” cui si perverrebbe in ragione di una “lettura restrittiva della clausola legislativa” di cui all’art. 2 D. Lgs. 23/2015 e che, del tutto condivisibilmente, riferisce l’uso dell’avverbio “espressamente” alla formulazione oltremodo sintetica impiegata dal legislatore del Jobs Act. Medesimo orientamento è proprio di Carinci M.T., Il licenziamento nullo perché discriminatorio, intimato in violazione di disposizioni di legge o in forma orale, in Aa.Vv. (a cura di Carinci M.T. eTursi A.), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Torino, 2015, 27ss.; Bertoncini M., Il regime di cui al decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, in Aa.Vv. (a cura di Colosimo C.), La cessazione del rapporto di lavoro, Santarcangelo di Romagna, 2021, 356ss.
([8]) Santoro Passarelli G., L’evoluzione del diritto vivente e i problemi applicativi del Jobs Act, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2022, 4, 1080.
([9]) Come noto, l’art. 1, co. 7, lett. c), Legge 183/2014 aveva demandato al legislatore delegato di limitare “il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato…”.
([10]) Vi è chi ha affermato che “tale interpretazione letterale, che rigorosamente restringe il campo di applicazione della nullità e, conseguentemente, il rimedio reintegratorio previsto dall’art. 2, co. 1, deve tuttavia essere attentamente vagliata, e contemperata con esigenze di interpretazione sistematica, la cui obliterazione conduce a risultati aberranti”, così Perulli A., La disciplina del licenziamento individuale nel contratto a tutele crescenti. profili critici, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2015, 3, 431.
([11]) Ossia, la riammissione in servizio con il pagamento di tutte le retribuzioni medio tempore maturate, dalla data della messa in mora all’effettivo reintegro.
([12]) Si rammenti che è principio consolidato quello per cui la nullità opera – non solo ove prevista espressamente – ma, altresì, in tutti i casi in cui ricorra la violazione di una norma imperativa (ex multis, Cass. Civ., Sez. II, 18 novembre 1997, n. 11450): come opportunamente osservato, “bisognerebbe, quindi, sostenere che la norma lavoristica ha inteso derogare a tale principio, richiedendo sempre in forma espressa la comminazione della sanzione”, così Speziale V., Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti tra costituzione e diritto europeo, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2016, 1, 118.
([13]) L’art. 1418 c.c. prevede, difatti, che “il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente. Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’articolo 1325, l’illiceità della causa, la illiceità dei motivi nel caso indicato dall’articolo 1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’articolo 1346. Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge”. In questo senso, Speziale V., cit., 117ss.; vedi anche Trib. Perugia, 15 marzo 2019.
([14]) Perulli A., La disciplina del licenziamento individuale nel contratto a tutele crescenti. profili critici, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2015, 3, 432; sulla base delle suddette premesse, l’Autore riflette in ordine all’impiego delle categorie civilistiche generali e sulle possibili ricadute in punto di tutele.
([15]) Ad esempio, Cass. Civ., Sez. Lav., 23 giugno 2000, n. 8582, in materia di diritto alla prosecuzione del rapporto per raggiungere il massimo contributivo, ex art. 6 Legge 54/1982. Così, App. Firenze, 11 febbraio 2021, n. 134.
([16]) Trib. Perugia, Sez. Lav., 15 marzo 2019, n. 58, parte motiva.
([17]) Trib. Ravenna, Sez. Lav., 7 gennaio 2021, n. 578, parte motiva; in questo senso, sempre in relazione alla normativa emergenziale Covid-19, Trib. Mantova, Sez. Lav., 11 novembre 2020, n. 112.
([18]) App. Milano, Sez. Lav., 16 maggio 2022, n. 481; in ordine alla suddetta affermazione, il Collegio osserva: “La tesi qui propugnata trova un solido supporto nella sentenza delle Sezioni Unite che, pur trattando la materia del licenziamento per superamento del periodo di comporto, fissa principî applicabili anche al caso che ci occupa. Afferma Cass., SS.UU., 22 maggio 2018, n. 12568 che «mentre l’oggetto dell’accertamento giurisdizionale va calibrato in ragione del motivo di licenziamento enunciato, l’individuazione dell’eventuale sanzione applicabile (nullità, inefficacia, annullamento etc.) va pur sempre parametrata al fatto come in concreto emerso all’esito del giudizio, a prescindere dall’originaria prospettiva di parte datoriale. […] L’opzione ermeneutica della mera inefficacia non può suffragarsi neppure adducendo che, ad ogni modo, la fattispecie legittimante il recesso (vale a dire il superamento del periodo di comporto) si potrebbe realizzare successivamente: a ciò agevole obiettare che i requisiti di validità del negozio vanno valutati al momento in cui viene posto in essere […] e non già al momento della produzione degli effetti […]. Deve altresì escludersi che il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, ma anteriormente alla sua scadenza, sia meramente ingiustificato, tale dovendosi invece considerare solo quello che venga intimato mediante enunciazione d’un giustificato motivo o d’una giusta causa che risulti, poi, smentita (in punto di fatto e/o di diritto) all’esito della verifica giudiziale. […] Né per definire come meramente ingiustificato il licenziamento intimato prima dello spirare del termine massimo di comporto si dica che, esclusa tale ipotesi, quel che residua è un licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo e, come tale, ingiustificato: si tratta d’un mero artificio dialettico che trascura il dato di fatto che il licenziamento è stato pur sempre intimato per il protrarsi delle assenze del lavoratore sul presupposto giuridicamente erroneo (perché contrastante con l’art. 2110 cod. civ., comma 2) che ciò sia consentito ancora prima dello spirare del termine massimo di comporto. Diversamente opinando, qualunque licenziamento nullo (perché discriminatorio, viziato da motivo illecito determinante o lesivo di norma imperativa di legge) verrebbe pur sempre a collocarsi nell’area della mera mancanza di giustificazione. Deve, invece, darsi continuità alla giurisprudenza di questa S.C. che considera nullo il licenziamento intimato solo per il protrarsi delle assenze dal lavoro, ma prima ancora che il periodo di comporto risulti scaduto […]. Muovendo dall’interpretazione, dell’art. 2110 cod. civ., comma 2, […] va evidenziato che il carattere imperativo della norma, in combinata lettura con l’art. 1418 cod. civ., non consente soluzioni diverse». In conclusione, quindi, il D.Lgs. n. 23/2015 si presta ad una ricostruzione sistematica nella quale la norma generale di chiusura del sistema è data dall’art. 2, e non dall’art. 3, comma 1, che, viceversa, è dedicato alla regolazione di una fattispecie precisa e limitata. Tale fattispecie è quella del licenziamento per giustificato motivo o giusta causa che non vengano adeguatamente dimostrate in giudizio. Un licenziamento ad nutum, viceversa, sarà valido ed efficace se adottato nei casi e limiti consentiti dall’ordinamento; in difetto di tali condizioni, invece, sarà un licenziamento illecito e, come tale, nullo. La sua sanzione, nell’ambito delle «tutele crescenti» sarà pertanto quella propria prevista dall’art. 2”.
([19]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22.
([20]) A mente del quale “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”.
([21]) Cass. Civ., Sez. Lav., 7 aprile 2023, n. 9530, pt. 4 e 5.
([22]) Cass. Civ., Sez. Lav., 7 aprile 2023, n. 9530, pt. 15.
([23]) Cass. Civ., Sez. Lav., 7 aprile 2023, n. 9530, pt. 11.
([24]) Cass. Civ., Sez. Lav., 7 aprile 2023, n. 9530, pt. 9.
([25]) Cass. Civ., Sez. Lav., 7 aprile 2023, n. 9530, pt. 10.
([26]) Cass. Civ., Sez. Lav., 7 aprile 2023, n. 9530, pt. 16.
([27]) Corte Cost., 18 luglio 2019, n. 97, parte motiva. Nello stesso senso, ex plurimis, Corte Cost., 21 luglio 2016, n. 203; vedi anche, Corte Cost., 16 luglio 2016, n. 169; Corte Cost., 6 maggio 2011, n. 162.
([28]) Corte Cost., 18 luglio 2014, n. 211, parte motiva.
([29]) Così, Amoroso G. e Parodi G., Il giudizio costituzionale, Milano, 2020, 161.
([30]) In quanto “nel giudizio principale ricorre, secondo il diritto vivente, una fattispecie di licenziamento nullo per violazione di norme imperative (art. 53 e 54 citati), senza che in esse sia prevista “espressamente” la nullità dell’atto (il licenziamento) come conseguenza di tale violazione” (Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 3.2.).
([31]) Posto che la Corte di Cassazione “ha diffusamente motivato in ordine alle ragioni per le quali, a suo giudizio, la norma censurata sia suscettibile del sollevato dubbio di legittimità costituzionale; chiara anche, nel petitum dell’ordinanza di rimessione, l’indicazione sul tipo di intervento richiesto, limitato alla caducazione dell’avverbio “espressamente”, dal cui inserimento nella disposizione censurata sarebbe derivato l’eccesso di delega” (Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 3.3.).
([32]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 4.1.
([33]) Cfr. Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 4.6.
([34]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 4.4.
([35]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 6.1.
([36]) Corte Cost., 8 luglio 2020, n. 142, pt. 3; si vedano anche le sentenze Corte Cost., 20 maggio 2020, n. 96, e Corte Cost., 30 gennaio 2018, n. 10.
([37]) Corte Cost., 11 maggio 2017, n. 104, pt. 3.1; ex multis, Corte Cost., 11 aprile 2008, n. 98, e Corte Cost., 23 maggio 1985, n. 158.
([38]) Rammenta la Consulta che “il controllo sul superamento dei limiti posti dalla legge di delega va, infatti, operato partendo dal dato letterale per poi procedere ad una indagine sistematica e teleologica per verificare se l’attività del legislatore delegato, nell’esercizio del margine di discrezionalità che gli compete nell’attuazione della legge di delega, si sia inserito in modo coerente nel complessivo quadro normativo, rispettando la ratio della norma delegante (sentenze n. 250 e n. 59 del 2016; n. 146 e n. 98 del 2015; n. 119 del 2013) e mantenendosi comunque nell’alveo delle scelte di fondo operate dalla stessa (sentenza n. 278 del 2016). È infatti costante l’affermazione secondo cui «per valutare se il legislatore abbia ecceduto [i] margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega per verificare se la norma delegata sia stata con questa coerente» (sentenza n. 153 del 2014 e, nello stesso senso, tra le altre, sentenze n. 175 del 2022; n. 231 e n. 174 del 2021; n. 184 del 2013; n. 272 del 2012 e n. 230 del 2010; inoltre, con riferimento alla materia penale, sentenza n. 105 del 2022).”, Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 8.
([39]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 9.
([40]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 9.
([41]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 10.
([42]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 10.2.
([43]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 10.3.
([44]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 11.
([45]) Per un approfondimento della materia – tenuto conto dei vari approcci della Dottrina – si vedano, Santoro-Passarelli G., L’evoluzione del diritto vivente e i problemi applicativi del Jobs Act, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2022, 4, 1073ss.; Armone G., Le tutele contro i licenziamenti illegittimi nella giurisprudenza costituzionale, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2022, 3, 411ss.; Preteroti A., Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dopo le sentenze della Corte costituzionale: nuove soluzioni (applicative) generano nuovi problemi (di sistema), in Lavoro Diritti Europa, 2022, 3; Menegon D., La tutela dal licenziamento illegittimo nella disciplina del contratto a tutele crescenti: spunti di riflessione per un intervento coerente con la giurisprudenza costituzionale, in Lavoro Diritti Europa, 2024, 1. Si considerino, altresì, Del Punta R.,Genesi e destini della riforma dell’art. 18, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2023, 3, 275ss.; saggio tratto da Lavoro Diritti Europa, 2022, 2; Caruso B., Il rimedio della reintegra come regola o come eccezione? La Cassazione sui licenziamenti disciplinari nel cono d’ombra delle decisioni della Corte Costituzionale, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2022, 3, 301ss.; Perrone F., L’espansione del principio lavorista nelle sentenze costituzionali n. 59/2021 e n. 125/2022 sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2022, 3, 395ss.
(Immagine: Fernand Leger, Les Constructeurs, particolare, olio su tela, 1950)
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