L’occasione di questa nostra conversazione è la legge costituzionale recante «Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare» (G.U. 30 ottobre 2025, n.253), oggetto del referendum confermativo che si svolgerà probabilmente nel mese di marzo 2026, secondo le intenzioni espresse in più occasioni dalla maggioranza governativa.
È doverosa, e opportuna per i lettori, una breve premessa.
Come è noto, il Disegno di legge di revisione costituzionale presentato il 13 giugno 2024 dal Presidente del Consiglio dei ministri, On. Giorgia Meloni, e dal Ministro della giustizia, On. Carlo Nordio (A.C. 1917) è stato approvato, in sede di prima deliberazione, dalla Camera dei deputati il 16 gennaio 2025, e, passato al Senato, l’Assemblea dei senatori lo ha approvato definitivamente, in sede di quarta deliberazione, nella seduta del 30 ottobre 2025 (disegno di legge costituzionale n.1353).
Nella seconda votazione di ciascuna delle Camere la legge non è stata approvata a maggioranza di due terzi dei suoi componenti, risultando così necessario il referendum popolare confermativo/oppositivo (che, come è noto, anche se è un tema discusso, non è soggetto al raggiungimento del quorum della maggioranza dei voti validamente espressi).
Con ordinanza del 18 novembre 2025 l’Ufficio Centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha formulato il quesito da sottoporre al voto popolare nei seguenti termini: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente "Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare" approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 253 del 30 ottobre 2025?».
Si tratta del quesito proposto dai deputati di maggioranza, che hanno ripreso pari pari il titolo della legge, mentre i senatori, più avveduti, avevano proposto un quesito molto più ampio ed esplicito, con riferimento anche alla separazione delle carriere.
Una analoga richiesta di referendum oppositivo è stata presentata dai deputati e dai senatori di opposizione.
Da ultimo dobbiamo considerare che la Corte di Cassazione (con un avviso pubblicato sulla G.U. n. 295 del 20 dicembre 2025)ha dato atto dell’avvenuta presentazione, il giorno 19 dicembre 2025,da parte di 15 cittadini di una richiesta referendaria ex art. 138,comma 2, Cost., con l’intenzione di promuovere la raccolta di almeno 500.000 firme entro il termine del 30 gennaio 2026.
Come è stato precisato nel comunicato stampa, si tratta di una iniziativa referendaria popolare, oppositiva, a sostegno di tutti i Comitati per il “No”. Nella richiesta il quesito proposto fa riferimento alla legge costituzionale approvata, con espressa indicazione anche delle norme modificate.
Questa nuova richiesta referendaria è destinata ad incidere sulla fissazione della data del voto, per consentire la raccolta delle firme e la verifica dell’Ufficio Centrale per il Referendum.
Una prima domanda.
La legge costituzionale, in estrema sintesi, persegue l’obiettivo di separare le carriere dei magistrati requirenti e giudicanti, con la previsione di due distinti organi di autogoverno, e l’istituzione dell’Alta Corte disciplinare, unica per entrambe categorie. Per le componenti togate e parlamentari è previsto il sorteggio, congegnato, però, in maniera diversa.
Prima di entrare nel merito delle norme oggetto di referendum, così come sono state riformate, Le chiedo di illustrare, in estrema sintesi, l’attuale assetto delle norme incise dalla legge di revisione costituzionale (Parte II, Titolo IV, La Magistratura), frutto di un intenso dibattito in seno all’Assemblea costituente.
La Costituzione mostra ancora oggi una notevole ambiguità nell’assetto della magistratura, frutto di evidenti compromessi tra le diverse opinioni delle forze partecipanti alla Costituente. Vi sono disposizioni che lasciano supporre una piena indipendenza dei magistrati da ogni altro potere, siano essi giudici o pubblici ministeri: così l’art. 104 comma 1 Cost. secondo cui «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»; e così l’art. 107 comma 3 Cost. secondo cui «i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni».
Tuttavia, accanto a queste disposizioni, ve ne sono altre che distinguono tra giudici e pubblici ministeri: così l’art. 101 comma 2 Cost. che limita il principio di soggezione alla sola legge esclusivamente ai giudici; e, soprattutto, l’art. 107 comma 4 Cost., secondo cui «il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario».
Quest’ultima disposizione, in quanto specificamente dettata per il pubblico ministero, pare idonea a derogare alle precedenti, con una duplice conseguenza: da un lato, rinvia, per ciò che attiene alle garanzie del pubblico ministero (incluse quelle di indipendenza, sia esterna sia interna) all’ordinamento giudiziario, regolato da una legge ordinaria; dall’altro, lascia chiaramente intendere che le garanzie possano essere diverse, quindi anche inferiori, rispetto a quelle previste per il giudice.
Infine, l’art. 109 Cost. non parla di ‘dipendenza’ della polizia giudiziaria dall’autorità giudiziaria, ma di semplice ‘disponibilità’, creando così un profilo bivalente caratterizzato da una dipendenza gerarchica dal potere esecutivo e da una disponibilità funzionale per l’autorità giudiziaria. Resta così rimesso alle scelte della legge ordinaria l’eventuale accentuazione del nesso di dipendenza dall’autorità giudiziaria.
Un punto rilevante della riforma introdotta dalla legge costituzionale è la modifica del primo comma dell’art. 102, Cost., che introduce le «distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti», la cui disciplina è affidata alle norme sull’ordinamento giudiziario.
Questa mia seconda domanda attiene alla differenza, se differenza c’è, tra le distinte funzioni e le separate carriere.
1. La separazione delle funzioni riguarda il processo e implica che chi esercita funzioni di giudizio non possa cumularle con funzioni di accusa e viceversa. Questo cumulo avveniva, invece, nell’istruzione formale del codice 1930, dove il giudice istruttore svolgeva anche funzioni tipiche della parte, muovendo alla ricerca di ogni prova utile alla manifestazione del vero; e altrettanto accadeva nell’istruzione sommaria, dove il pubblico ministero esercitava anche funzioni tipiche del giudice, come la formazione delle prove direttamente utilizzabili in giudizio: con il risultato di dare vita a due figure decisamente abnormi, quella del giudice-accusatore e quella dell’accusatore-giudice.
Una più netta separazione delle funzioni può, inoltre, spingersi a vietare che chi svolge funzioni di giudice possa successivamente transitare a svolgere funzioni di pubblico ministero o viceversa.
2. La separazione delle carriere attiene, invece, all’ordinamento giudiziario e si esprime nella circostanza che giudici e pubblici ministeri non possano convivere in un unico corpo giudiziale; e, come accade per la separazione delle funzioni, può variamente atteggiarsi sino a prevedere due distinti CSM, una Alta Corte per la responsabilità disciplinare (così l’attuale riforma costituzionale), nonché due distinti concorsi di reclutamento per giudici e pubblici ministeri: innovazione quest’ultima non contemplata nell’attuale riforma costituzionale ma, a nostro avviso, decisamente prioritaria rispetto alle due precedenti.
Da notare che, secondo diversi autori, l’endiadi «davanti a giudice terzo e imparziale», che figura nel secondo comma dell’art. 111 Cost., alluderebbe con ‘imparziale’ alla separazione delle funzioni e con ‘terzo’ alla riforma ordinamentale della separazione delle carriere.
Viene da chiedersi, anche, se non fosse sufficiente la severa limitazione del passaggio del magistrato, nel corso della sua carriera, dall’una all’altra funzione, senza dover introdurre il rigido sistema della separazione delle carriere. Mi riferisco alla disciplina introdotta dall’art. 13, D. Lgs. 5 aprile 2006, n. 160 (recante «Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005,n.150»), come modificato da ultimo dalla legge 17 giugno 2022, n. 71( recante: «Deleghe al Governo per la riforma dell'ordinamento giudiziario e per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura»), come attuato dal D. Lgs.,28 marzo 2024, n.44.
Si tratta di una distinzione più formale che sostanziale?
Come osservavo nella precedente risposta, vi è una sostanziale differenza tra separazione delle funzioni e separazione delle carriere, non essendovi un rapporto di implicazione necessaria tra le due prospettive: la prima attiene al processo, la seconda all’ordinamento giudiziario.
I sostenitori della riforma costituzionale sostengono che la separazione delle carriere è diretta, e inevitabile, conseguenza, del processo accusatorio. In paesi come la Francia e la Spagna, dove esiste la netta separazione delle carriere, non vige un completo processo accusatorio e la posizione istituzionale del pubblico ministero è assai discussa dalla pubblica opinione. Anche il processo inquisitorio può convivere con la separazione delle carriere.
Non è forse vero che lo stesso obiettivo poteva essere raggiunto portando alle estreme conseguenze la riforma c.d. Cartabia, introducendo una iniziale scelta irreversibile fra la funzione requirente e quella giudicante?
Per altro verso non comprendo la ragione di escludere quanto meno la possibilità per un magistrato giudicante di passare alla funzione requirente: ne trarrebbe giovamento la cultura della giurisdizione del pubblico ministero.
1. Per intanto, va osservato che il processo accusatorio oggi non esiste più, dopo il grave colpo infertogli dalla riforma Cartabia con due infelici innovazioni.
La prima è di moltiplicare le formalità e le finestre giurisdizionali nella fase delle indagini preliminari che, nella logica del modello accusatorio, dovrebbe essere fluida così da consentire il rapido passaggio al dibattimento. L’intero asse del processo si sposta verso l’indagine, appesantendola e trasformandola in una sorta di gigantesca istruzione sommaria, sino a rendere il dibattimento suddito degli accertamenti svolti in quella sede.
La seconda è la modifica dei presupposti della sentenza di non luogo a procedere nell’udienza preliminare. Alludo a quella che, sia pure impropriamente, viene chiamata la nuova regola di giudizio, rappresentata dalla «ragionevole previsione di condanna». Che ad ipotizzare una probabile condanna sia il pubblico ministero, vale a dire l’accusatore, può essere naturale, almeno dal suo punto di vista. Ma che a formulare una simile previsione sia il giudice, a dibattimento non ancora iniziato, è quanto di più lontano si possa immaginare dal modello accusatorio. Non solo si traduce in una grave presunzione di colpevolezza per chi sia rinviato a giudizio, ma induce di fatto diversi giudici a ‘motivare’ contra legem il decreto che dispone il dibattimento con un minuzioso elenco di tutte le prove raccolte a carico dell’imputato.
2. Ciò premesso, il rapporto tra processo accusatorio e separazione delle carriere è alquanto complesso. Non v’è dubbio che il processo accusatorio favorisca la separazione delle carriere. Ma la favorisce allo stesso modo in cui favorisce la giuria e con essa il verdetto immotivato, ossia senza un rapporto di implicazione necessaria. Purtroppo, si stenta a capire che il processo accusatorio resta una scelta di grande civiltà, a rescindere dal fatto di essere o no accompagnato dalla separazione delle carriere. Essenziale ai fini di quel modello è la sussistenza di due fondamentali caratteri: la tendenziale irrilevanza probatoria nel dibattimento degli accertamenti svolti nella fase dell’indagine preliminare e la netta separazione tra le funzioni di giudice e le funzioni di parte nel senso già indicato.
Per converso, una separazione delle carriere in assenza del processo accusatorio, a mio avviso, è priva di senso. Che la riforma costituzionale abbia la taumaturgica virtù di ristabilirne la presenza, appare fortemente dubbio. La magistratura, con la lodevole eccezione di Magistratura democratica, si è sempre mostrata critica verso quel modello; quanto al mondo forense e alle Camere penali, se non sono riuscite a difenderlo quando è stato sotto attacco né a modificare la riforma Cartabia, difficilmente saranno in grado di ricostruirlo dalle macerie sotto le quali è oggi seppellito.
3. Quanto alla cultura della giurisdizione e all’imparzialità del pubblico ministero, credo sia un errore insistere su queste formule ormai arrugginite. In un processo degno di questo nome, specie se accusatorio, chiunque non sia giudice è, per logica esclusione, parte. Di imparzialità per il p.m. si può parlare solo nel senso in cui l’art. 97 comma 2 Cost. ne parla per la pubblica amministrazione, ossia come rispetto della legge e dell’eguaglianza tra i cittadini.
A sua volta, la c.d. cultura della giurisdizione o riguarda solo il giudice o deve coinvolgere le tre forze dell’accusa, della difesa e del giudizio: limitata al p.m. e al giudice sarebbe un tavolo traballante. Che il p.m. possa chiedere l’archiviazione non implica affatto una sua ‘imparzialità’, ma deriva semplicemente dalle norme che subordinano il rinvio a giudizio alla sussistenza di elementi idonei a sostenere l’azione penale. E altrettanto vale per la richiesta di assoluzione, essendo la condanna subordinata alla prova della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Come ogni parte pubblica, anche il pubblico ministero resta soggetto alla legge.
Il processo penale è un campo di forze in delicato equilibrio tra loro, dove ogni alterazione nel ruolo di un soggetto si ripercuote inesorabilmente sugli altri, che si appropriano dello spazio rimasto vacante. In particolare, l’esperienza documenta che, quando il pubblico ministero latita o esita nella sua tipica funzione di parte, il processo inquisitorio è alle porte: a compensare la carenza, interviene il giudice, convertendosi in accusatore. Dunque, è bene che, ai fini di una corretta ripartizione dei compiti, il pubblico ministero mantenga nel processo la sua veste di organo focalizzato sull’accusa.
La modifica più rilevante riguarda l’art. 104, Cost., interamente sostituito. Resta ferma la previsione (comma 1) della «magistratura come ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», pur nella composizione dei magistrati delle separate carriere requirente e giudicante.
È una affermazione di principio meramente formale, secondo alcuni, anche in prospettiva di diverse e future riforme, peggiorative, che mal si coniuga con il riconoscimento, nei fatti, dell’autonomia e dell’indipendenza a favore di tutti i magistrati. Ma secondo altri è un insopprimibile principio sostanziale che deve essere attuato.
La separazione delle carriere rende davvero inevitabile la duplicazione anche degli organi di autogoverno della magistratura, con l’istituzione di due Consigli superiori (comunque presieduti entrambi dal Presidente della Repubblica, con componenti di diritto, rispettivamente, il Primo Presidente e il Procuratore Generale della Corte di cassazione e con la figura del vicepresidente scelto tra i componenti di nomina, rectius sorteggio parlamentare)?
Come si accennava, nel quadro di una separazione delle carriere, ben più utile, rispetto alla duplicazione del CSM e alla Corte disciplinare, sarebbe stata la previsione di due distinti concorsi per giudici e pubblici ministeri, essendo diverse le capacità richieste per l’esercizio dell’una e dell’altra funzione: doti soprattutto di ascolto per i primi, prevalentemente investigative e requirenti per i secondi.
Per il resto, rinvio a quanto osservato nella risposta a una precedente domanda e a quanto dirò in seguito.
Il punto più delicato, a sentire anche chi giudica in linea di massima tollerabile il sistema di separazione delle carriere, è il meccanismo del sorteggio per l’individuazione dei componenti togati e laici.
Si sostiene, in proposito, che si tratta di una scelta necessitata per il superamento delle correnti della magistratura; e tuttavia si può ritenere, questo sistema, davvero compatibile con la composizione di un organo di rilievo costituzionale (come è stato chiarito in più occasioni dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 148 del 1983, n. 379 del 1992, n. 380 del 2003 e con la sentenza n. 270 del 2002, relativa alla Sezione disciplinare)?
Penso che il meccanismo del sorteggio per i togati e quello ‘misto’ per i laici non siano scelte felici.
Il secondo punto di criticità è rappresentato dal fatto che le sentenze disciplinari emesse in prima istanza possano essere impugnate, anche per motivi di merito, davanti alla stessa Alta Corte, in diversa composizione: sembra di capire in un numero limitato di componenti, se in prima istanza è l’intero Collegio che decide. Sembra esclusa l’impugnazione delle sentenze di appello avanti alla Corte di cassazione per violazione di legge, in deroga al principio generale previsto dall’art. 111 Cost.
Lo svolgimento dell’appello davanti alla stessa Corte disciplinare in una diversa composizione e la mancata previsione del ricorso in cassazione costituiscono indubbie anomalie della riforma costituzionale, da imputarsi, in base ad un elementare principio di carità, alla fretta di concludere rapidamente l’iter della riforma costituzionale.
C’è anche chi denuncia la possibilità, ora latente, ma in futuro realizzabile, di sottoporre i magistrati al controllo del potere esecutivo; ma c’è anche chi auspica uno stretto collegamento al potere politico (parlamentare o esecutivo) della separazione delle carriere, che risulterebbe vana cosa in assenza di questo. Ciò anche per escludere lo strapotere dei pubblici ministeri.
Qual è la Sua opinione in proposito?
1. Il ministro afferma di essere recisamente contrario a una dipendenza del pubblico ministero dal potere politico. Ammessa la sua buona fede, non può, tuttavia, ipotecare il futuro, escludendo che in un secondo momento si addivenga a un collegamento del pubblico ministero con l’esecutivo o con il parlamento. Dirò di più: penso, con Franco Cordero, che la separazione delle carriere, nell’ambito di una magistratura non elettiva ma reclutata per concorso, abbia un senso solo se accompagnata da un controllo politico sul pubblico ministero. Come afferma il grande giurista, «l’autarchia indebolisce i controlli sull’attore penale, confinandoli in uno spazio interno al corpo togato […]. Un apparato requirente a vertice ministeriale sarebbe meno esposto dell’attuale a disfunzioni». E credo che a pensarlo siano in molti proprio tra i sostenitori della separazione delle carriere, pur tacendolo per ragioni tattiche, volte a rassicurare i magistrati con la favola di un’assoluta indipendenza del pubblico ministero.
All’interno di un corpo numericamente ridotto di pubblici ministeri, una mera separazione delle carriere, che lasci intatta la loro piena indipendenza, porterebbe ad una temibile concentrazione di poteri nelle mani dei vertici. D’altronde, la dipendenza dal potere politico non sarebbe affatto un golpe; e potrebbe realizzarsi con un’ulteriore modifica costituzionale o fors’anche, in forma più attenuata, senza una revisione della Costituzione, la quale, come si accennava (v. retro), mostra una notevole ambiguità, quanto a indipendenza dei pubblici ministeri.
Aggiungo che, nei panni di un organo inquirente, una volta realizzate la separazione delle carriere e la giurisdizione speciale della Corte disciplinare, probabilmente sarei io stesso a reclamare un collegamento con il potere politico, piuttosto che dipendere dagli umori del procuratore capo, altrimenti destinato all’autarchia.
Resta l’obbligatorietà dell’azione penale, ma questa può, anzi, deve permanere anche con la dipendenza dal potere politico, come dimostrato da Franco Cordero, che ha messo bene in luce l’errore di Piero Calamandrei, secondo cui un collegamento con l’esecutivo aprirebbe la strada alla discrezionalità dell’azione penale. L’ordine impartito dal ministro al pubblico mistero di soprassedere dall’azione penale è illegittimo, né esonera da responsabilità il pubblico ministero che obbedisca senza eccepire l’abuso.
Quanto più il pubblico ministero dipenda dal potere politico, tanto più l’azione penale deve restare obbligatoria. La ragione è semplice. La politica non ha come fine la ‘verità’, ma il raggiungimento dei suoi obiettivi; i ‘fatti’ le servono solo in quanto ‘utili’. Come tale, il potere politico è inevitabilmente controinteressato all’accertamento di ogni fatto che coinvolga la legalità del suo operato o possa ostacolare la sua azione e i suoi programmi.
2. In realtà, vi è un rischio assai più temibile rispetto a un controllo politico sul pubblico ministero, che deriva dalla congiunzione di due aspetti, di per sé indipendenti l’uno dall’altro. Il primo è che il processo accusatorio non esiste più, seppellito dalla riforma Cartabia; il secondo è che le forze favorevoli alla separazione delle carriere continuano ad affermare che in nessun modo verrà alterata la piena indipendenza del pubblico ministero.
Queste due componenti, unendosi in un amalgama, possono scatenare un infernale meccanismo. La presenza di un processo, ormai sostanzialmente inquisitorio, congiunta alla necessità di garantire un controllo politico sullo svolgimento delle indagini, senza toccare l’indipendenza del pubblico ministero, può indurre a una duplice scelta, secondo un risalente progetto già ipotizzato diversi anni or sono: assegnare le indagini alla polizia, dipendente dall’esecutivo, e, nel contempo, circoscrivere l’intervento del pubblico ministero alla sede propriamente processuale, ossia solo a partire dall’esercizio dell’azione penale. Il risultato sarebbe quello di un’indagine affidata in massima parte alla polizia e di un pubblico ministero costretto a ritirarsi all’interno del processo e, quindi, limitato all’esercizio dell’azione penale e alla successiva funzione requirente.
Immagine: Andrea Gabbriellini, Tragitto, 1992 (Ciclo Frantumazioni).
