Lo scritto riprende alcuni dei temi trattati nel corso della relazione tenuta al convegno sul tema “Diritto d'amore” tenutosi a Roma nei giorni 25, 26 e 27 gennaio 2024 organizzato dall'Associazione Cammino. Si tratta della quinta di una serie di pubblicazioni sulla nostra Rivista in tema di "diritto d'amore" per condividere le riflessioni emerse in occasione del Convegno. Si veda Diritto d'amore e responsabilità civile di Alessandra Cordiano, Diritto, biodiritto e amore di Roberto Giovanni Conti, Diritti d'amore e rapporti familiari di Mirzia Bianca, Il diritto d’amore in una prospettiva multidisciplinare di Gabriella Luccioli.
Amori “tossici” e diritto di libertà affettiva
una riflessione metagiuridica sulla violenza di genere e domestica
di Filippo Romeo
Sommario: 1. Amori “tossici”. Una prima riflessione metagiuridica sull’universo delle relazioni personali e familiari. - 2. La violenza domestica e gli ordini di protezione contro gli abusi familiari. - 3. Violenza di genere e processo alla luce della Riforma Cartabia. Vittimizzazione secondaria e coordinamento tra giudice civile e penale. - 3.1. Non mediabilità della violenza domestica nel processo di famiglia. – 3.2. Rifiuto del figlio di incontrare i genitori e ascolto diretto del minore. – 3.3. Le allegazioni di violenza e la possibilità di ricorrere agli ordini di protezione. – 4. Una breve riflessione conclusiva.
1. Amori “tossici”. Una prima riflessione metagiuridica sull’universo delle relazioni personali e familiari.
Questo breve scritto - muovendo dagli insegnamenti di Cesare Massimo Bianca - si propone di sviluppare una riflessione “metagiuridica” sull’universo delle relazioni personali e familiari attraverso una sorta di lente “speciale”: il diritto d’amore. In particolare, si affronterà il tema degli i “amori tossici”. Nell’approcciare l’argomento occorre sottolineare che “nel quadro di un rapporto di coppia l’amore indica una relazione paritaria fondata sul rispetto. Quando non c’è rispetto e prevale la sopraffazione ci troviamo davanti ad un amore ferito, ad un amore malato”[1]. Ben si comprende, pertanto, l’importanza del “confine”. La linea di demarcazione segnata dal rispetto, ove superata, ci consegna una relazione affettiva connotata da elementi di “tossicità”[2].
In stretta aderenza con quanto appena evidenziato, evocative suggestioni si colgono in un recente libro dedicato al tema degli “amori tossici”. L’Autrice, in particolare, esordisce affermando che “l’amore ha bisogno di confini perché è un ballo a due. Nella danza di coppia il confine non è rigido ma è chiara la linea di rispetto, bordo invisibile eppure preciso: la giusta distanza permette di danzare senza soffocarsi né schiacciarsi i piedi, ma anche di essere abbastanza prossimi per poter andare allo stesso ritmo. Il confine in una relazione è come il ballo: una metafora dello scambio. Si va insieme, non come specchio reciproco, ma in modo che ciascuno dei due possa passare nel posto dell’altro e tornare al proprio, superando il confine con levità, disegnando variazioni soggettive i cui movimenti si incontrano senza fondersi”[3].
Questa suggestiva metafora, tuttavia, si scontra con la realtà di tutti i giorni. Nella vita quotidiana con l’altro, infatti, non esiste una procedura certa per “gestire la distanza”, così come avviene nel ballo. Peraltro, i rapporti interpersonali risultano oggi oltremodo complessi e di non facile gestione. Le molteplici e mutevoli dinamiche di coppia appaiono connotate dalla persistenza di un tessuto di legami tra ex coniugi o ex conviventi chiamati ad interpretare congiuntamente il ruolo di genitori e ad esercitare correttamente la responsabilità genitoriale[4]. Le relazioni familiari, infatti, nonostante la rottura del menage sono destinate a durare nel tempo e non sempre è facile conciliare le esigenze della famiglia originaria con quelle delle nuove famiglie che, nel frattempo, hanno preso forma[5].
Inoltre, non sempre risulta possibile regolare la complessa trama di relazioni familiari che si sviluppa nel corso del tempo. Il vivere insieme - anche alla luce dell’irrequietezza esistenziale che sembra scandire la vita degli adulti - non è più inquadrabile all’interno di un modello precostituito[6]. In questo scenario, sempre più spesso - e i tanti fatti di cronaca lo confermano in modo inequivocabile - la “coreografia dell’Io con l’Altro”, finisce con il risultare imperfetta, sgraziata e sovente tragica[7].
Peraltro, l’immaturità e l’egoismo dei genitori impediscono sovente di attuare l’interesse del minore che - a ben vedere - passa non solo attraverso il “diritto alla bigenitorialità” ma anche attraverso l’intrecciarsi di plurimi legami affettivi[8]. Si impone “un adattamento del diritto vigente al fine di attribuire rilievo a rapporti fondati su relazioni meramente affettive mediante l’individuazione di regole funzionali ad istituire una gerarchia tra ruoli genitoriali inevitabilmente destinati a sovrapporsi”[9]. Anche in questo caso, in assenza di regole di diritto, ben si comprende l’importanza del “confine” per gestire in modo equilibrato la presenza di un “terzo genitore” nella non sempre lineare trama di rapporti familiari che convergono intorno al minore[10].
Ciò premesso, evitando approcci di matrice qualunquista, occorre tracciare una linea di demarcazione netta tra il “conflitto” e la “violenza”[11]. Ciò che differenzia la relazione conflittuale dalla relazione violenta è l’esercizio del “potere”: la violenza, infatti, si connota per la condizione di supremazia dell’uomo nei confronti della donna[12]. Il conflitto, pertanto, si trasforma in violenza quando l’uomo si pone in posizione di “asimmetria” rispetto alla donna e tende a dominarla (rectius sottometterla) anche attraverso l’uso intenzionale della forza fisica[13].
Ben si comprende - anche alla luce del vertiginoso aumento dei casi di violenza in famiglia - come nell’ambito delle relazioni di coppia i “confini” vengano sovente abbattuti[14]. Prende pervicacemente forma l’amore “tossico” che si modula sull’appropriazione psicofisica del partner, si nutre della sua vitalità fino a giungere all’atto estremo della sopraffazione: non è un caso che nel nostro Paese i casi di femminicidio hanno raggiunto numeri allarmanti.
Nella ricostruzione di questo scenario non può sottacersi che l’uccisione della (ex) partner costituisce la punta di un iceberg sommerso, fatto di reiterate violenze, vessazioni, umiliazioni subite - all’interno delle mura domestiche - dalle vittime e dai figli minorenni sotto forma di violenza assistita[15]. Tale aspetto è altrettanto grave. Al riguardo, non si può sottacere che i bambini testimoni di violenza subiscono un vulnus alla salute psicofisica non inferiore a quello dei bambini vittima di violenza diretta. Inoltre - circostanza che non può essere sottovalutata - si trasmette ai bambini una modalità dialogica distorta che è destinata a riproporsi: violenza genera violenza e la perpetua[16].
L’amore “tossico” - passando sovente attraverso l’idealizzazione del partner - si connota per la presenza di “confini perturbati”: confini abbattuti nell’invasione simbiotica dell’amore assoluto. Rispetto all’amore assoluto l’abbandono - si pensi al fenomeno del c.d. ghosting - non è un’opzione accettabile. Come una catena impossibile da spezzare, l’amore assoluto sfocia nella violenza. Ancor peggio, in nome dell’amore assoluto si arriva a uccidere: quante volte - nell’ipocrita tentativo di giustificare il brutale gesto compiuto - abbiamo sentito dire “la amavo così tanto che non potevo vivere senza”.
L’assoluto è sempre il male dell’amore, rivelandosi intriso d’odio. La tossicità viene “dall’amore che vuole farsi Uno”. Ben si comprende - nella consapevolezza che “Due non possono mai fare Uno, se non nella sopraffazione dell’altro” - l’importanza del confine: quest’ultimo, infatti, come meglio vedremo, può salvare la vita.
Tuttavia, molto spesso, la donna non arriva a comprendere in tempo utile di essere vittima di una dipendenza affettiva e (conseguentemente) di poter cadere in una trappola mortale[17]. La questione è estremamente delicata. Il fenomeno della violenza intrafamiliare, infatti, è multiforme e il soggetto violento agisce su tutti i piani - psicologico, economico, fisico - con un obiettivo costante: innescare un vortice di violenza al fine di “intrappolare” la donna. Bloccando ogni via di fuga, il partner violento è animato dall’unico scopo di possedere il controllo della donna, come nel c.d. gaslighting[18].
2. La violenza domestica e gli ordini di protezione contro gli abusi familiari.
L’ampiezza e la trasversalità della violenza di genere - fenomeno non riconducibile esclusivamente a contesti degradati, ma anche ad ambienti familiari agiati e di classe sociale elevata - ha spinto il legislatore, nel corso del tempo, a cercare di adeguare la disciplina giuridica di matrice civilistica alla luce delle questioni di genere legate alla violenza domestica e assistita. Già a partire dal lontano 2001 - novellando il codice civile con l’inserimento degli artt. 342-bis e 343-ter - il legislatore aveva attenzionato il fenomeno della violenza domestica anche sul piano dei rimedi civilistici, introducendo gli “ordini di protezione” contro gli abusi familiari.
A distanza di vent’anni, il legislatore delegato, con la legge n. 206/2021, torna ad occuparsi di violenza domestica e di genere all’interno del processo civile. Attraverso il d.lgs. 22 ottobre 2022, n. 149 - nella più ampia cornice della Riforma Cartabia del processo civile - viene operato un incisivo e sistematico intervento, introducendo nel nuovo Titolo IV-bis, una sezione intitolata “Della violenza domestica e di genere” (artt. 473-bis.40 ss. c.p.c.)[19]. La ratio di tali norme - come meglio vedremo - è quella di dotare il giudice delle controversie familiari di più ampi poteri nonché di strumenti specifici per garantire adeguate forme di tutela alle vittime di violenza ed evitare il fenomeno della c.d. “vittimizzazione secondaria”[20].
In questo scenario, la Riforma Cartabia ha fatto confluire - limitandosi ad apportare qualche apprezzabile novità - la normativa codicistica degli ordini di protezione contro gli abusi familiari all’interno della Sezione VII (artt. 473-bis.69 - 473-bis.71 c.p.c.) del nuovo Titolo IV-bis.
Invero, l’intervento del legislatore del 2001 risulta - ancora oggi - apprezzabile e ciò grazie alla flessibilità e all’ampiezza della misura di protezione, sia sotto il profilo personale che patrimoniale. La disciplina, in linea con quanto avviene in altri ordinamenti europei, si connota:
- per forme processuali agili finalizzate - pur nel rispetto dei principi del giusto processo - alla celerità della decisione e all’effettività della sua attuazione.
- per la temporaneità delle misure di protezione: massimo dodici mesi, prorogabili per gravi motivi limitatamente al tempo “strettamente necessario” (art. 473-bis.70, comma 3°, c.p.c.).
- per il contenuto ampio della misura di protezione che si sostanzia in un provvedimento inibitorio volto a ordinare al coniuge o al convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole la cessazione della stessa e l’allontanamento dalla casa familiare[21].
Inoltre, è espressamente previsto che il giudice possa emettere un “ordine di non avvicinamento”, intimando all’autore della condotta pregiudizievole di tenersi distante dai luoghi abitualmente frequentati dai familiari vittime degli abusi, dai luoghi di lavoro e dalle scuole dei figli (art. 473-bis.70, comma 1°, c.p.c.). Proprio in queste circostanze il legislatore cerca - non solo metaforicamente - di porre un confine invalicabile e di “gestire” la distanza per proteggere le vittime di violenza[22].
Non meno rilevanti appaiono le misure economiche previste a carico del soggetto violento o abusante ed a favore del nucleo familiare che per effetto dell’ordine di allontanamento rimane privo di mezzi adeguati di sostentamento (art. 473-bis.70, comma 2°, c.p.c.). In tali casi, infatti, il giudice dispone che il familiare allontanato corrisponda un assegno periodico a favore delle persone conviventi[23].
Infine, l’art. 473-bis.69, comma 1°, c.p.c. ha introdotto - novità di sicuro rilievo - la possibilità di adottare misure di protezione anche quando la convivenza è cessata. Tale soluzione è certamente apprezzabile, atteso che i comportamenti violenti, in moltissimi casi, vengono posti in essere proprio quando la convivenza è venuta meno, spesso quale reazione alla rottura della stessa. Ancora una volta, ben si comprende la rilevanza - non solo metaforica - del confine fisico. Quest’ultimo può essere in grado di salvare la vita alla donna vittima di violenza.
3.Violenza di genere e processo alla luce della Riforma Cartabia. Vittimizzazione secondaria e coordinamento tra giudice civile e penale.
Ciò detto, occorre rilevare che il già richiamato Titolo IV-bis, Capo III, Sezione I del codice di rito contiene un complesso di disposizioni che “si applicano nei procedimenti in cui siano allegati abusi familiari o condotte di violenza domestica o di genere posti in essere da una parte (della coppia) nei confronti dell’altra o da un genitore nei confronti dei figli minori” (art. 473-bis 40 ss.)[24].
La disciplina dedicata alla violenza domestica o di genere fa emergere l’attenzione per la tutela della vittima al di là dell’ambito penalistico. Al riguardo, l’obiettivo primario è quello di evitare - trasformando il processo in un’altra forma di violenza - l’odioso fenomeno della c.d. vittimizzazione secondaria. In particolare, la nuova normativa - applicabile ogni qual volta vengano allegati atti di violenza - crea una “corsia preferenziale” che, grazie all’abbreviazione dei termini a comparire, dovrebbe consentire al giudice di accordare una più tempestiva tutela alle vittime di violenza[25].
I principi direttivi elaborati dal legislatore della Riforma appaiono allineati alle disposizioni normative vigenti nell’ordinamento italiano - e in particolare con le novità introdotte dal Codice Rosso - anche con riferimento alla trasmissione da parte del giudice penale al giudice civile degli atti relativi a procedimenti penali per reati di violenza, in cui sono stati assunti provvedimenti cautelari nei confronti di una delle parti del procedimento in corso avente ad oggetto la separazione dei coniugi, l’affidamento dei figli minori, la responsabilità genitoriale.
L’importanza del “coordinamento istituzionale” tra il giudice civile e il giudice penale non esclude, tuttavia, la valorizzazione:
- dell’autonomia dell’accertamento pieno del giudice civile e del suo vaglio critico, evitando così di “appiattirsi” alle risultanze penali[26].
- dell’attività istruttoria del giudice che può passare - previo provvedimento motivato - anche attraverso l’ausilio di un consulente[27].
Al riguardo, il legislatore impone di delimitare il mandato conferito al consulente. Tale precisazione appare importante e opportuna. Sovente, infatti, si registrano casi in cui, senza che ciò faccia parte del mandato del giudice, la relazione del consulente si spinge fino ad esprimere giudizi sulla personalità dei genitori ovvero sulla loro idoneità genitoriale ai fini dell’adozione del provvedimento di affidamento e/o collocamento dei figli minori[28].
Invero, tale prassi appare molto pericolosa poiché i giudici - pur potendosi discostare dalle indicazioni contenute nella relazione - tendono a recepire acriticamente le conclusioni del consulente. A tal riguardo, occorre ricordare che nell’ambito del processo di famiglia la consulenza è sempre di tipo psicologico. Allo psicologo, in qualità di consulente del giudice, verrà attribuito il difficile compito di valutare le relazioni all’interno della famiglia anche al fine di fare venire alla luce eventuali violenze perpetrate da un genitore. L’operazione non è semplice perché l’autore delle condotte violente riesce spesso a mascherare tali comportamenti; le vittime di violenza hanno difficoltà a denunciare le condotte del familiare[29]. Dietro la difficoltà a denunciare si cela, oltre al legame affettivo, anche il timore di essere posti sullo stesso piano del perpetuatore della violenza, con possibili ripercussioni sui provvedimenti di affidamento dei figli minori.
Altro aspetto di primaria importanza attiene al fatto che la Riforma ha dato vita ad un complesso di disposizioni che, in virtù dell’esigenza di tutelare la vittima della violenza o degli abusi, accordano ad essa una corsia preferenziale di tutele improntata ai principi di “tempestività” e di “cautela”: ben si comprende, in questa prospettiva, l’importanza di dare alle vittime risposte adeguate in tempi rapidi.
A quest’ultima finalità è diretta la disposizione che prevede una speciale tipologia di ascolto, volta a tutelare in modo particolare il minore vittima di violenza o abusi. L’art. 473-bis.45 c.p.c. aggiunge all’ascolto già regolato dagli articoli 473-bis.4 e 473-bis.5 c.p.c. un ascolto che deve essere condotto “personalmente” e “senza ritardo” dal giudice, evitando ogni contatto del minore con la persona indicata come autore della violenza o abusi. La norma prevede al comma 2° una tutela ulteriore del minore vittima di violenza, evitando di procedere all’ascolto quando il minore è stato già ascoltato nell’ambito di un altro procedimento anche penale e le risultanze dell’adempimento acquisite agli atti sono ritenute sufficienti ed esaustive. Tale disposizione - sicuramente apprezzabile nell’ottica di evitare peculiari forme di vittimizzazione secondaria - è diretta ad evitare al minore un ulteriore trauma che potrebbe derivare da un ascolto superfluo.
3.1. Non mediabilità della violenza domestica nel processo di famiglia
Altra disposizione diretta ad evitare la “vittimizzazione secondaria” è l’art. 473-bis.43 c.p.c. dedicato al tema della mediazione familiare. Il divieto di iniziare il percorso di mediazione familiare quando è stata pronunciata la sentenza di condanna, anche in primo grado, è diretto a tracciare una distinzione netta tra mera “conflittualità” e “atti di violenza” o “abusi familiare”.
Il legislatore della Riforma - in linea con quanto stabilito nell’art. 48 della Convenzione di Istanbul e diversamente dalla scelta fatta in materia di ordini di protezione - ha ritenuto che la violenza non consenta, in nessun caso, di garantire una condizione di equilibrio tra le parti nella costruzione del setting di mediazione[30].
La stessa ratio è ascrivibile al secondo comma ove si prevede che il mediatore interrompa immediatamente il percorso di mediazione familiare intrapreso , se nel corso di esso abbia notizia di abusi o di violenze. Il giudice può comunque invitare le parti a rivolgersi a un mediatore familiare se nel corso del giudizio ravvisa l’insussistenza delle condotte allegate (art. 473-bis.42 ult. comma, c.p.c.)[31].
3.2. Rifiuto del figlio di incontrare i genitori e ascolto diretto del minore
A tale disposizione deve accostarsi quella sul rifiuto del figlio di incontrare il genitore (art. 473-bis.6 c.p.c.), la quale dà luogo a un procedimento istruttorio da parte del giudice per indagare le ragioni sottese al rifiuto e al disagio del minore[32]. Anche in questo caso il giudice deve procedere “senza ritardo” ad ascoltare il minore[33].
La questione assume particolare rilievo rispetto ai minori in età adolescenziale: in questi casi il figlio tende ad esprime il suo rifiuto in maniera molto netta ma, molto spesso, non vuole o non riesce a spiegare le cause che stanno alla base della sua decisione e che generalmente affondano nella relazione affettiva. In simili situazioni risulta molto importante l’ascolto diretto del minore da parte del giudice.
A tal riguardo, com’è noto, la riforma ha escluso l’ascolto delegato al CTU, ai servizi sociali nonché ai giudici onorari. Invero, in molte circostanze, i giudici hanno mostrato di “temere” l’ascolto. Certamente non è facile trovare giusto approccio al fine di verificare l’attendibilità del minore e distinguere così il “vero” dal “falso”. Il bambino, infatti, rappresenta un inventato vissuto all’interno del quale occorre selezionare i dati tipizzanti del racconto, riuscendo a cogliere le “credenze assertive” del minore. Inoltre, non sempre agevole appare verificare se il racconto del minore è “impermiabile” al conflitto dei genitori, evitando così il “contagio dichiarativo”.
Preso atto di ciò, nulla vieta che il giudice possa farsi assistere al momento dell’ascolto da un ausiliario esperto: si pensi ad uno psicologo infantile o dell’età evolutiva. Non è dato dubitare che nei casi di violenza domestica un tale affiancamento potrebbe risultare importante, considerata la difficoltà di fare emergere la violenza perpetrata all’interno del nucleo familiare e di “decifrare” le (complesse) dinamiche familiari.
In ogni caso, occorre segnalare che pochi Tribunali dispongono di un’aula destinata all’ascolto dei minori attrezzata con sistemi audiovisivi e vetri unidirezionali[34]. Anche in considerazione di questa circostanza, il legislatore ha espressamente previsto che, qualora la registrazione audiovisiva non sia possibile, il giudice provvederà a redigere un verbale descrivendo “dettagliatamente il contegno del minore”.
Il legislatore, inoltre, ha sancito che “prima di procedere all’ascolto, il giudice indica i temi oggetto dell’adempimento ai genitori, agli esercenti la responsabilità genitoriale, ai rispettivi difensori e al curatore speciale del minore, i quali possono proporre argomenti e temi di approfondimento e, su autorizzazione del giudice, partecipare all’ascolto” (art. 473-bis.5, comma 3°, c.p.c.). La questione è estremamente delicata. Invero, se la partecipazione dei difensori all’audizione - da intendere, in ogni caso, in termini di mera presenza - può trovare una “giustificazione” dal punto di vista processuale, la partecipazione dei genitori rischia di “inquinare” le dichiarazioni del minore. Pertanto, occorre affidarsi alla sensibilità dei giudici nel fare in modo di evitare situazioni di imbarazzo nel minore al momento dell’ascolto[35]. Non è dato dubitare, infatti, che l’ascolto deve svolgersi in modo tale da garantire l’esercizio effettivo del diritto del minore di esprimere liberamente la propria opinione, e quindi con tutte le cautele e le modalità atte ad evitare interferenze, turbamenti e condizionamenti, ivi compresa la facoltà di vietare l’interlocuzione con i genitori[36].
3.3. Le allegazioni e la possibilità di ricorrere agli ordini di protezione
La disciplina, inoltre, prevede un complesso di disposizioni dirette ad accelerare il procedimento come l’abbreviazione dei termini fino alla metà, l’ammissione di “mezzi di prova anche al di fuori dei limiti previsti dal codice civile, nel rispetto del contraddittorio e del diritto alla prova contraria” (art. 473-bis.42, comma 1°, c.p.c.). Si palesa l’esigenza di dare a questi procedimenti una “corsia preferenziale” nell’esclusivo interesse della vittima. Unica avvertenza: le allegazioni delle condotte devono essere precise e circostanziate, al fine di evitare abusi e strumentalizzazioni.
Preso atto che il termine “allegazioni” potrebbe avere una portata ampissima - potendosi fare riferimento non solo a violenze allegate o denunciate ma anche a fatti di violenza semplicemente segnalati o riferiti - si deve osservare che può risultare pericoloso giungere ad escludere un rapporto significativo tra il genitore presunto violento e il figlio minore in presenza di fatti solo segnalati o riferiti. Prescindere da un approfondimento istruttorio e da un accertamento del giudice, comporterebbe una ricaduta inaccettabile sui principi del giusto processo e dunque sul diritto di difesa e sul principio del contraddittorio[37].
Il tema è molto delicato. Anche nell’ottica di tutelare la relazione “genitore-figlio”, occorre verificare i fatti di violenza da parte del giudice delle controversie familiari. L’accertamento giudiziale pieno, infatti, è irrinunciabile ove si debbano assumere provvedimenti riguardanti: l’affidamento o il collocamento dei figli minori; la regolamentazione della responsabilità genitoriale; la limitazione o la cessazione della responsabilità genitoriale.
Quando si ravvisa la fondatezza delle “allegazioni” il giudice deve adottare i provvedimenti più idonei a tutelare la vittima. A tal riguardo, appare apprezzabile la scelta del legislatore di richiamare esplicitamente gli “ordini di protezione” tra le misure idonee da adottare a tutela delle vittime di condotte violente all’interno dei nuclei familiari.
4. Una breve riflessione conclusiva
Alla luce di quanto evidenziato, non si può fare a meno di esprimere un giudizio positivo per le nuove previsioni in tema di violenza di genere e violenza domestica[38]. Da questo punto di vista - la Riforma Cartabia ci consegna un processo della famiglia regolato non solo da fredde norme processuali ma anche da regole etiche che devono ispirare e guidare il lavoro di tutti gli operatori del diritto a vario titolo coinvolti nella (non facile) “gestione” delle relazioni affettive connotate da elementi di “tossicità”.
In quest’ottica, non posso fare a meno di sottolineare l’importanza della specializzazione. In materia di diritto di famiglia servono giudici, avvocati e consulenti altamente specializzati anche al fine di poter “governare” correttamente le complesse dinamiche relazionali soprattutto nella fase patologica del rapporto di coppia. Risulta fondamentale poter contare sulla professionalità di operatori del diritto “coraggiosi” e disposti a lavorare in stretta sinergia. Fermo restando il precipuo rispetto dei ruoli e delle specifiche competenze - oggi più che in passato - non si può prescindere dall’idea di lavorare tutti insieme per arginare un fenomeno che ormai ha assunto una dimensione dilagante. Per porre un serio argine alla violenza di genere e domestica occorre lavorare su due fronti. Da un lato è necessario fornire agli operatori del diritto strumenti sempre più adeguati a combattere questa piaga sociale garantendo l’accesso alla giustizia e la tutela delle vittime. Dall’altro - aspetto altrettanto importante - occorre continuare a discutere di questi temi e inculcare l’idea che l’amore, nel quadro di una relazione paritaria, si deve sempre fondare sul rispetto[39].
Ciò detto, quando l’amore finisce occorre guardare oltre: la coppia può fissare nuove regole e nuovi confini attraverso lo strumento negoziale. Al di fuori dei casi di violenza domestica, la negoziazione assistita dagli avvocati in separazione e divorzio appare oggi strumento imprescindibile per pianificare il conflitto familiare in tempi rapidi e certi nell’interesse di tutti i soggetti coinvolti nella crisi familiare, ivi compresi i figli. Pertanto, partendo dall’idea che la composizione dei conflitti è un valore, non solo etico-sociale, occorre farsi parte attiva - nel quadro di una vera e propria sfida culturale - per garantire una piena affermazione della c.d. “giurisdizione forense”[40].
Lo scritto riproduce - sia pur con qualche modifica e talune integrazioni il testo della relazione svolta in occasione del Convegno “Diritto d’Amore” (Roma, 25-27 gennaio 2024) organizzato in occasione dei venticinque anni di Cammino – Camera Nazionale Avvocati per le persone, per i minorenni e per le famiglie.
[1] Riprendo in questa sede le parole pronunciate dalla Presidente Gabriella Luccioli durante il suo intervento conclusivo al Convegno “Diritto d’Amore” (Roma, 25-27 gennaio 2024).
[2] Come meglio vedremo, quando la relazione non è paritaria e l’uomo si pone in una posizione di prevaricazione rispetto alla donna si sconfina nella violenza.
[3] Cfr. L. Pigozzi, Amori tossici. Alle radici delle dipendenze affettive in coppia e in famiglia, Milano, Rizzoli, 2023, p. 11.
[4] Tra i diritti enunciati con la Riforma della filiazione assume un ruolo prioritario il diritto del figlio all’assistenza morale. Viene sancito, in buona sostanza, il diritto del figlio di “essere amato” dai suoi genitori. Com’è noto, in sede di approvazione della legge delega l’espressione letterale “diritto del figlio di essere amato dai genitori” - fortemente auspicata dal Prof. Cesare Massimo Bianca - non ha trovato ingresso nella Riforma. Tuttavia, non è dato dubitare che assistere moralmente il proprio figlio altro non significa che averne cura amorevole. Il dato è tutt’altro che irrilevante: in un ordinamento che storicamente ha mostrato poca attenzione ai fatti di sentimento, il diritto all’amore dei genitori assurge a diritto fondamentale del minore. Pertanto, l’interesse del minore, a ricevere affetto dai genitori, si oggettivizza in un valore rilevante per l’ordinamento giuridico, differenziandosi così, dall’interesse all’affetto nelle relazioni tra adulti, che resta giuridicamente irrilevante. Sul tema del diritto all’amore vedi C.M. Bianca, Diritto civile, Vol. 2.1, VII ediz. A cura di M. Bianca e P. Sirena, Milano, Giuffrè, 2023, p. 380 ss. Spunti di sicuro interesse si rinvengono – nel solco dell’insegnamento del Maestro - in P. Spaziani, Il diritto all’assistenza morale (art. 315 bis c.c., come inserito dall’art. 1, comma 8, L. N. 219/2012), in La riforma della filiazione, a cura di C.M. Bianca, Padova, Cedam, 2015, p. 67 ss.
[5] A tal riguardo non si può fare a meno di ricordare come i ripetuti conflitti tra ex coniugi ovvero tra ex conviventi mettano a serio repentaglio la salvaguardia dei diritti dei figli, i quali rischiano di rimanere intrappolati dai sentimenti negativi, dalle frustrazioni dei genitori. Molti genitori sembrano dimenticare che i figli sono i primi a subire la disgregazione della famiglia e a rimanere depauperati dalla separazione dei genitori. In questo scenario connotato da una genitorialità “tossica” prende forma e si innesta il tema della tutela del minore nel processo civile. Su tali profili sia consentito rinviare a F. Romeo, I diritti del minore nelle controversie familiari fra novità giurisprudenziali e prospettive di riforma, in Familia, 2021, p. 646.
[6] Il diritto di famiglia, infatti, è chiamato oggi a confrontarsi con un’articolata e complessa molteplicità di situazioni interpersonali soggette a modificazioni continue. Gli effetti di queste inedite dinamiche familiari - espressione ed estrinsecazione della personalità degli individui - vanno ben oltre ogni forma di tipizzazione (anche extraconiugale) e sovente neppure raggiungono la soglia del giuridicamente rilevante. Il quadro appena tratteggiato è reso ancora più complesso dalla globalizzazione e dal che ha prodotto l’abbattimento delle barriere geografiche e la circolazione di modelli culturali del tutto diversificati. Le criticità e le difficoltà tipiche delle famiglie straniere, con cui è oramai imprescindibile confrontarsi, richiederebbero di dotarsi di un bagaglio minimo di competenze interculturali, tradizionalmente estranee al mondo giuridico. Su tali profili spunti di sicuro interesse si rinvengono in A. Cordiano, Funzioni e ruoli genitoriali nelle famiglie allargate e ricomposte: una comparazione tra modelli normativi e alcune riflessioni evolutive, in www.comparazionedirittocivile.it, 2012, p. 1 ss. ed ivi, in particolare, 4 ss.
[7] Quando il “conflitto” si tramuta in “violenza” appare arduo gestire la distanza. Non a caso - come meglio vedremo - la Riforma Cartabia del processo civile dedica ampio spazio ai temi della violenza domestica e di genere (v. infra § 2 e § 3). Si può quindi affermare che l’amore si traduce in diritto quando viene inteso come fatto di sentimento che genera disvalore (i.e. amore “tossico”).
[8] Molte volte i genitori appaiono accecati dal rancore e dall’odio. I figli - sovente usati come scudi umani - vengono deprivati del diritto ad essere amati.
[9] Cfr. E. Al Mureden, Le famiglie dopo il divorzio tra libertà, solidarietà e continuità dei legami affettivi, in Famiglia e Diritto, 2021, p. 26.
[10] Ci muoviamo nell’ambito delle cc.dd. famiglie allargate o ricomposte In tali tipologie familiari uno o entrambi i partnerprovengono da una precedente unione e convivono con in figli nati da una o da entrambe le relazioni e, sovente, con i figli nati da quella attuale. La complessità della situazione scaturisce dal fatto che le funzioni parentali di cura e di assistenza - talvolta quasi integralmente mantenute dai genitori biologici - sono, molto spesso, esercitate in maniera condivisa, delegando al genitore sociale compiti sostanziali di cura morale e materiale della prole, senza che a ciò corrisponda un formale e giuridico riconoscimento.
[11] Invero, non è inusuale - soprattutto tra i non addetti ai lavori - che i termini “conflitto” e “violenza” vengano utilizzati come sinonimi. Come meglio vedremo, la distinzione appare una necessità imprescindibile. Al momento della disgregazione del nucleo familiare è fisiologico il conflitto. Quest’ultimo si palesa con manifestazione anche “violente” ascrivibili al malessere, alla sofferenza, alla rabbia che la separazione sovente porta con sé, ma produce delle dinamiche relazionali che mantengono i confliggenti in condizioni paritetiche e non che sfociano necessariamente in atti di violenza.
[12] Occorre sempre ricordare che la violenza contro le donne rappresenta “una delle espressioni più pronunciate dello squilibrio di potere tra donne e uomini, costituendo allo stesso tempo una violazione dei diritti umani e uno dei principali ostacoli all’uguaglianza di genere” (cfr. Consiglio d’Europa, Strategia per l’uguaglianza tra donne e uomini 2014-2017, Strasburgo, febbraio 2014, p. 5). In quest’ottica, appare utile richiamare le definizioni di «violenza contro le donne» e di «violenza domestica» contenute nell’art. 3 della Convenzione di Istanbul (Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica adottata dal Consiglio d'Europa l'11 maggio 2011, è entrata in vigore il 1° agosto 2014). Con la prima definizione si designa “una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro la donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di tali atti la coercizione o privazione arbitraria della libertà personale, sia nella vita pubblica che privata”. Con la seconda definizione si suole fare riferimento a “tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”. Il richiamato art. 3 della Convenzione di Istanbul, pertanto, tratteggia un rapporto di prevaricazione che pone le donne in una posizione di totale subordinazione rispetto agli uomini. Il concetto di violenza - come palesato dal dato normativo - trascende l’aggressione fisica ed include anche vessazioni psicologiche, ricatti economici, minacce, violenze e persecuzioni di vario genere, fino a sfociare nella forma estrema e drammatica del femminicidio. Non è un caso che, ancora oggi, si registra un senso di impunità diffusa: le risposte degli Stati nell’affrontare questa violenza - spesso basate su stereotipi patriarcali del rapporto tra uomo e donna - non sempre appaiono adeguate e l’accesso alla giustizia non sempre facile.
[13] Purtroppo, occorre rilevare che in molti procedimenti di affidamento della prole, di decadenza della responsabilità genitoriale, di competenza ordinaria e minorile, caratterizzati da violenza domestica (fisica, psicologica o economica) e assistita su minori, si è riscontrata una certa tendenza a derubricare la violenza all’ordinario e fisiologico conflitto familiare. Sul punto vedi A. Cordiano, Violenze assistite, domestiche di genere nelle disposizioni del nuovo procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2023, p. 654 s. laddove - a conferma di quanto appena rilevato - si richiamano le risultanze dell’importante lavoro svolto dalla Commissione d’inchiesta sul femminicidio, istituita al Senato in composizione bicamerale nella precedente legislatura. Peraltro, non si può fare a meno di rilevare - ma sul punto si tornerà nel prosieguo del discorso - che il processo di derubricazione della violenza in conflitto può determinare odiose forme di vittimizzazione secondaria.
[14] La violenza - come confermano le scienze empiriche - è caratterizzata da ciclicità e che tende a (ri)proporsi o ad acutizzarsi in occasione di eventi a vario titolo traumatici, come accade nelle crisi separative o per le scelte in ordine all’affidamento dei minori.
[15] La violenza assistita è quella patita da un figlio quando assiste alla violenza - nelle sue varie estrinsecazioni - perpetrata da un genitore nei confronti dell’altro. Tale forma di violenza rientra nella violenza domestica.
[16] Occorre guardare alla violenza di genere e alla violenza domestica e assistita, come un fenomeno sociale con gravi ripercussioni transgenerazionali. Peraltro, i minori che assistono alla violenza all’interno del nucleo familiare, corrono il serio rischio - problema impossibile da sottovalutare - di soffrire di disturbi del comportamento e di disturbi emotivi. Attesa l’escalation di violenza a cui stiamo assistendo negli ultimi anni, la questione sta assumendo le fattezze di una vera e propria piaga sociale.
[17] La violenza all’interno della coppia comincia con episodi occasionali ed è molto importante sin da subito non sottovalutare certi comportamenti a cui spesso, soprattutto nelle prime fasi della relazione, non è dato molto peso. Saper riconoscere i segnali iniziali di una relazione maltrattante è importante per metterle fine prima che questa diventi un “labirinto” da cui è difficile uscire.
[18] Le donne che finiscono in una spirale di violenza si sentono sempre più isolate, intrappolate e senza via d’uscita. Peraltro, dai racconti delle vittime di violenza è possibile capire come alcuni atteggiamenti abbiano connotato quel rapporto sin dal suo inizio.
[19] La disciplina si applica alla fattispecie generale degli abusi familiari, che ricomprende le ipotesi di violenza nelle due varianti della violenza diretta o assistita e le ipotesi di abusi in senso stretto.
[20] Sull’odioso fenomeno della “vittimizzazione secondaria” v. infra § 3.
[21] L’allontanamento si esegue fissando la dimora in un luogo diverso dalla casa familiare, a distanza tale da evitare occasioni di interferenza con la vita familiare dei conviventi. Quando si oltrepassa il “confine” e non si riesce a “gestire la distanza” interviene il giudice fissando la distanza minima.
[22] Anche in questa circostanza sarà il giudice, nell’emettere un ordine di non avvicinamento, ad intimare all’autore della condotta pregiudizievole di tenersi distante dai luoghi abitualmente frequentati dai familiari vittime degli abusi, dai luoghi di lavoro e dalle scuole dei figli. Sul contenuto degli ordini di protezione vedi C.M. Bianca, Diritto civile, Vol. 2.1, La famiglia, VII ediz., a cura di M. Bianca e P. Sirena, 2023, p. 603 ss.
[23] L’assegno a favore del coniuge e dei figli si determina secondo i criteri previsti in caso di separazione. Il giudice fissa le modalità di corresponsione della somma e può disporre - aspetto sicuramente importante - che essa sia versata direttamente agli aventi diritto dal datore di lavoro del familiare allontanato, detraendola dalla retribuzione ad esso spettante (sul punto vedi C.M. Bianca, op. ultima cit., p. 605).
[24] Dal tenore letterale dell’art. 473-bis.40 c.p.c. si coglie la scelta effettuata dal legislatore: non delimitare in nessun modo l’ambito di applicazione delle disposizioni speciali. In tal modo, saranno ricomprese nell’ambito di applicazione delle nuove norme tutte le forme di violenza. Pertanto, in presenza di tutte le forme di violenza (fisica, psicologica, economica) - in aderenza a quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul - il giudice potrà attivare quella “corsia preferenziale” idonea ad intercettare e contrastare senza indugio la violenza o gli abusi consumati all’interno del nucleo familiare. Fondamentale, infatti, risulta l’esigenza di evitare la “sottovalutazione” dei fatti di violenza lamentati con il rischio (concreto) di non riuscire ad interrompere il c.d. ciclo della violenza.
[25] Su tali profili vedi M.G. Albiero, I fatti di violenza e il processo, in C. Cecchella (a cura di), La riforma del processo e del giudice per le persone, per i minorenni e per le famiglie, Torino, Giappichelli, 2023, p. 305 s., ove si sottolinea come la “specialità” delle disposizioni si coglie anche negli ampissimi poteri di impulso del giudice, il quale “già dalle prime fasi processuali dovrà accertare la fondatezza o meno delle allegazioni di violenza, anche solo a livello di fumus”. Sul delicato tema delle “allegazioni” vedi infra 3.3.
[26] Del resto, la Corte di Cassazione ha più volte affermato che il giudice civile non è vincolato ai provvedimenti adottati dal giudice penale e deve accertare autonomamente con pieni poteri istruttori, le allegazioni di fatti di violenza, escludendo così ogni automaticità (tra le tante vedi Cass. 19 maggio 2020, n. 9143 ove si rileva che il giudice civile deve “accertare i fatti con pienezza di cognizione, sottoponendoli al proprio vaglio critico e senza essere vincolato dalle soluzioni e dalle qualificazioni adottate dal giudice penale”).
[27] Si pensi ai casi di violenza psicologica. In tali circostanze l’apporto del CTU appare veramente utile anche al fine di vagliare la compatibilità di condotte e stati psicofisici rispetto alla prospettazione di un quadro assimilabile ad una dinamica di violenza. Ovviamente, rimane ferma la discrezionalità del giudice nella valutazione del fatto, nella sua interpretazione e nelle conseguenti decisioni.
[28] L’esigenza di delimitare il mandato conferito trova coerente spiegazione nell’ottica di evitare che il consulente possa “sostituirsi” al giudice.
[29] Non è dato dubitare che le vittime di violenza di genere e, soprattutto, le vittime di violenza domestica incontrano molte difficoltà - anche in relazione al legame affettivo con l’autore della violenza - a denunciare.
[30] La condizione di equilibrio tra le parti rappresenta una precondizione fondamentale per assumere scelte libere e non condizionate e, dunque, pienamente consapevoli.
[31] Il principio di “non mediabilità” della violenza di genere e domestica nel processo di famiglia, pertanto, sembra debba intendersi come non assoluto. Sul punto vedi M.G. Albiero, I fatti di violenza e il processo, cit., p. 317.
[32] Non è dato dubitare che dietro il rifiuto si annida una compromissione della relazione “genitore-figlio”.
[33] Il giudice - in base a quanto previsto dall’art. 473-bis.6, comma 2° - deve procedere allo stesso modo quando “sono allegate o segnalate condotte tali da ostacolare il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo tra il minore e l’altro genitore o la conservazione di rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.
[34] Su tali questioni vedi G. Bertoli, L’ascolto della persona di età, in C. Cecchella (a cura di), La riforma del processo e del giudice per le persone, per i minorenni e per le famiglie, Torino, Giappichelli, 2023, p. 265 ss. ed ivi in particolare p. 268.
[35] Sul punto vedi G. Bertoli, L’ascolto della persona di età, cit., p. 268.
[36] Il giudice, durante l’ascolto, deve avere nei confronti del minore quella cura e quell’attenzione che non hanno dato i genitori.
[37] Appare importante che l’allegazione sia ampia e dettagliata e ciò al fine di evitare che la previsione di un procedimento più “veloce” e connotato da più ampi poteri officiosi e inquisitori del giudice della famiglia possano divenire - snaturandone la ratio - strumento di abuso del processo, determinando l’applicazione di provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale in presenza di allegazioni non del tutto fondate (rectius infondate).
[38] Come già evidenziato merita sicuro apprezzamento l’aver dato alle controversie familiari contrassegnate da fatti di violenza, una corsia preferenziale, con l’abbreviazione dei termini processuali e con la previsione di specifiche disposizioni per evitare fenomeni di vittimizzazione secondaria. Altrettanto apprezzabile risulta la scelta del legislatore di intervenire in modo deciso rispetto al delicato tema del rifiuto del figlio minorenne di incontrare uno dei genitori ovvero rispetto all’esigenza di delimitare - pur senza sminuirne il ruolo - compiti e funzioni del consulente. Non è dato dubitare che attraverso un accertamento giudiziale pieno, affidato ad un giudice specializzato supportato, ove necessario, da ausiliari esperti sul tema della violenza domestica la Riforma potrà contribuire a dare risposte più efficaci alle vittime di violenza.
[39] Nei rapporti di coppia la coreografia “dell’Io con l’Altro” per non apparire sgraziata (rectius tragica) non può essere totalizzante. L’amore “sano”, fondato sul rispetto, ha bisogno di confini, di bordi che dovrebbero restare porosi, mobili, morbidi e consentire il passaggio di ciò che li nutre, come fa la membrana di una cellula, definita ma non assoluta, stabile ma non necrotizzata.
[40] Con la procedura di negoziazione, infatti, l’avvocato è chiamato a condurre il proprio assistito verso una soluzione concordata, svolgendo in tal modo una funzione applicativa e interpretativa del diritto al pari del giudice, nel rispetto delle norme imperative e dell’ordine pubblico.
Immagine: dettaglio di Paola Gandolfi, Reportage, olio su tela, 2023.