ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Premessa: sulla progressiva implementazione di uno statuto garantistico per il c.d. diritto amministrativo ‘punitivo’. - 2. Sanzioni amministrative ‘punitive’ e standard probatorio: il caso concreto. - 3. (Segue): Il tradizionale orientamento giurisprudenziale: il canone della ‘ragionevole probabilità’ o della c.d. ‘preponderanza delle evidenze’. - 4. (Segue): Presunzione d’innocenza e ‘dubbio ragionevole’: lo standard probatorio enunciato dal Consiglio di Stato. - 5. Brevi conclusioni: per un allineamento della giurisprudenza (ordinaria e amministrativa) al canone dell’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ nel sindacato sulle sanzioni amministrative ‘punitive’.
1. Premessa: sulla progressiva implementazione di uno statuto garantistico per il c.d. diritto amministrativo ‘punitivo’.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con la pronuncia n. 3570 del 9 maggio 2022 – qui brevemente annotata – interviene su una questione di fondamentale importanza per lo statuto giuridico del c.d. diritto amministrativo ‘punitivo’[i], ossia lo standard probatorio richiesto per il sindacato giudiziale sulle sanzioni amministrative sostanzialmente penali ai sensi CEDU.
È noto il progressivo percorso di trasposizione dei principî e delle regole garantistiche propri della materia penale agli illeciti amministrativi qualificabili come ‘criminal offences’[ii] secondo i c.d. criteri ‘Engel’[iii]. A tale riguardo, sia sufficiente richiamare[iv] l’acquisita applicazione dei canoni di irretroattività[v] e di sufficiente precisione[vi] delle norme incriminatrici, di retroattività delle disposizioni sopravvenute più favorevoli al trasgressore (c.d. retroattività ‘in mitius’)[vii], di proporzionalità dei regimi sanzionatori[viii], di ‘ne bis in idem’[ix] e di protezione contro l’auto-incriminazione[x].
Nondimeno, in disparte all’invocazione e al rispetto delle suddette garanzie di civiltà giuridica, autorevole dottrina[xi] ha segnalato le gravi difficoltà che i soggetti destinatari di sanzioni amministrative punitive incontrano, sul versante dell’effettività della tutela, nel contestare giudizialmente detta tipologia di provvedimenti per vedere accolte le proprie ragioni (il pensiero corre, in particolar modo, alle sanzioni irrogate dalle autorità amministrative indipendenti nelle materie finanziaria o antitrust). L’argomento, di tutta evidenza, involge i profili dello standard probatorio utilizzabile, in prima battuta, dall’autorità amministrativa sanzionante, ma soprattutto dall’organo giurisdizionale nel successivo riesame (in conformità ai canoni della c.d. ‘full jurisdiction’[xii]) della fattispecie, onde verificare la sussistenza dei fatti costitutivi dell’illecito contestato e, di riflesso, la sussistenza della responsabilità.
La questione, sebbene di rilevanza centrale, non è stata sinora posta ampiamente al centro del dibattito dottrinale e giurisprudenziale[xiii]; ragione per cui, la sentenza in commento risulta significativa e meritevole della massima attenzione.
2. Sanzioni amministrative ‘punitive’ e standard probatorio: il caso concreto.
Al fine di meglio delineare la portata (innovativa) del principio espresso dal Consiglio di Stato è opportuno rassegnare, di seguito, alcuni limitati profili di fatto relativi al contenzioso trattato dal giudice amministrativo.
Segnatamente, la sentenza in commento interviene su una fattispecie di intesa segreta restrittiva (per oggetto) della concorrenza, in violazione dell’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), contestata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) nei confronti di una pluralità di operatori economici, i quali – asseritamente legati da dinamiche concertative – hanno partecipato a diversi lotti di una procedura di gara aperta per la stipula di una convenzione quadro finalizzata all’erogazione di servizi di c.d. ‘facility management’ presso uffici pubblici e immobili in uso a enti universitari e di ricerca.
Il procedimento, avviato su impulso dell’AGCM, si è concluso con l’accertamento dell’illecito antitrust sulla scorta di un quadro probatorio di matrice prevalentemente indiziaria, con conseguente irrogazione di severe (ai sensi CEDU) sanzioni amministrative pecuniarie.
Il provvedimento disposto dall’AGCM è stato, dunque, impugnato – avanti al competente giudice amministrativo – da tutte le parti interessate che hanno sollevato plurime censure di ordine sostanziale e procedurale. Alcuni ricorsi sono stati accolti dal T.a.r per il Lazio, sede di Roma, limitatamente al c.d. ‘quantum’[xiv]; altri, invece, [xv] con riguardo a vizi relativi al c.d. ‘an’, con conseguente annullamento in parte qua del provvedimento sanzionatorio.
Avverso le sentenze di prime cure, le parti soccombenti hanno proposto impugnazione (in via principale o incidentale) avanti al Consiglio di Stato, la cui Sesta Sezione – disposta la riunione degli appelli per ragioni di connessione oggettiva e parzialmente soggettiva – ha infine definito la controversia con la pronuncia in esame n. 3570 del 9 maggio 2022.
La complessità del caso di specie discende dall’esigenza di sindacare l’articolato compendio probatorio indiziario, su cui si fonda il provvedimento sanzionatorio contestato, al fine di verificare la fondatezza della pretesa punitiva, e dunque la sussistenza dell’illecito nei suoi profili fattuali e nella relativa configurabilità in senso giuridico. Del resto, la necessità di impostare il c.d. ‘enforcement’ degli illeciti anticoncorrenziali e di abuso di mercato su ragionamenti presuntivi trova giustificazione nel principio dell’effetto utile del diritto europeo, atteso che si tratta di fattispecie rispetto alle quali è estremamente difficoltoso rinvenire prove dirette o rappresentative[xvi].
Ragion per cui, il Consiglio di Stato ha giustamente rimarcato che «[…] la prova delle intese restrittive della concorrenza può essere sostenuta da un compendio probatorio di natura indiziaria, ovvero un complesso di prove esclusivamente indirette, purché queste possano essere significative al pari della prova rappresentativa (anche il processo penale consente il ricorso alla prova indiziaria ed ai principi fondati sull’esperienza)» (§ 8.2).
Sennonché, al di là dell’astratta ammissibilità di presunzioni e prove di matrice inferenziale, ciò che risulta invero di fondamentale importanza per l’asserito trasgressore è l’intensità dello standard probatorio richiesto all’autorità per giustificare la concreta irrogazione della sanzione amministrativa punitiva. Questa è, per l’appunto, la questione sulla quale si incentra il nucleo essenziale del ragionamento garantistico svolto dal Consiglio di Stato con la sentenza in commento, per la cui miglior comprensione occorre dare conto – in estrema sintesi – del consolidato indirizzo che emerge dall’analisi del formante giurisprudenziale.
3. (Segue): Il tradizionale orientamento giurisprudenziale: il canone della ‘ragionevole probabilità’ o della c.d. ‘preponderanza delle evidenze’.
In particolare, nella prassi giudiziaria (pressoché unanime) non si afferma espressamente, pur al cospetto di fattispecie sanzionatorie punitive ai sensi CEDU, che il sindacato delle corti amministrative od ordinarie debba svolgersi in conformità all’elevato standard penalistico del c.d. ‘oltre ogni ragionevole dubbio’[xvii].
Pur in difetto di enunciazioni esplicite, salvo talune limitate eccezioni[xviii], la dinamica giudiziale risulta fattualmente assestata sul (meno intenso) paradigma probatorio della ‘ragionevole probabilità’ ovvero della c.d. preponderanza dell’evidenza o del ‘più probabile che non’ (sebbene in un senso a-tecnico, poiché l’anzidetta formula si riferisce propriamente al nesso di causalità in materia risarcitoria)[xix]. In altri termini, i provvedimenti sanzionatori vengono giudicati legittimi laddove il corredo probatorio portato dall’amministrazione, cui compete il relativo onere sostanziale[xx], sia connotato da un grado di probabilità prevalente o, comunque, superiore rispetto alle ricostruzioni alternative addotte dall’asserito trasgressore.
Si è consapevoli che quanto sommariamente evidenziato palesi la difficoltà di sintetizzare, entro schemi concettuali ‘rigidi’, modelli di ragionamento che – per loro natura – sono destinati a essere applicati, caso per caso, a fattispecie assai diversificate sul piano empirico-fattuale. Nondimeno, è possibile ritenere che il segnalato coefficiente probabilistico esprima comunque uno standard inferiore[xxi] al livello di certezza richiesto per le sanzioni ‘formalmente’ penali, ove – com’è noto – la sussistenza di un ‘ragionevole dubbio’ è di per sé idonea a incrinare la coerenza dell’impianto accusatorio.
Con larga frequenza, infatti, si rinviene la massima[xxii] secondo cui l’esistenza del fatto ‘ignoto’, ricavabile per effetto del processo logico sotteso alla prova presuntiva, debba risultare quale conseguenza naturalisticamente accettabile del fatto ‘noto’ secondo canoni di ‘ragionevole probabilità’: il che non significa pretendere un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva tra i due termini del ragionamento inferenziale, bensì una conclusione di prevalente attendibilità rispetto alle ipotesi ricostruttive alternative.
Ne discende, pertanto, una significativa difficoltà probatoria per il soggetto sanzionato, il quale potrà confutare il compendio probatorio fornito dall’autorità amministrativa soltanto convincendo il giudicante che l’allegata (e corroborata) spiegazione alternativa dei fatti superi – in termini di coefficiente probabilistico e logico – la tesi sulla quale si fonda la pretesa punitiva.
In via di estrema sintesi, si potrebbe definire il suddetto schema nei termini di un processo di falsificazione (richiamando, in un’accezione forse impropria, il lessico ‘popperiano’[xxiii]) che finisce per tradursi, nella concreta dinamica processuale, in un’inversione ‘mascherata’ dell’onere della prova sostanziale (anche se nella forma della prova contraria[xxiv]).
Ed è proprio su questi aspetti che interviene la pronuncia in commento.
4. (Segue): Presunzione d’innocenza e ‘dubbio ragionevole’: lo standard probatorio enunciato dal Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato, prima di svolgere lo scrutinio sugli indici fattuali del caso concreto, ha cura di illustrare le coordinate teorico-giuridiche relative allo standard probatorio da osservare nel sindacato giudiziale sulle sanzioni amministrative ‘punitive’.
Il ragionamento muove, anzitutto, dalla pacifica constatazione della natura ‘penale’ (ai sensi CEDU) delle sanzioni amministrative comminate dall’Autorità antitrust[xxv]: il che è indubbio in ragione delle «[…] finalità repressive e preventive perseguite e del fatto che l’accertamento di antitrust infringement determina, oltre all’irrogazione di pesanti sanzioni amministrative pecuniarie e alla condanna al risarcimento del danno eventualmente cagionato, anche un significativo danno reputazionale» (§ 8.1.).
Trattandosi di sanzioni sostanzialmente penali, si impone – in via generale – l’applicazione del fondamentale principio garantistico di presunzione d’innocenza (rectius: di non colpevolezza), come peraltro sancito dalla giurisprudenza europea[xxvi] sulla scorta dell’art. 48, § 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea («Ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata») nonché dell’art. 6, § 2, della CEDU («Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata»)[xxvii].
Ai nostri fini, il passaggio logico successivo è di fondamentale importanza.
Se si ammette che le procedure (amministrative o giurisdizionali) aventi a oggetto fattispecie sanzionatorie ‘punitive’ debbano rispettare il principio di presunzione di innocenza[xxviii], è altrettanto necessario – quale corollario applicativo – che esse siano assoggettate al rigoroso standard probatorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio: di talché, «[…] qualora sussista un dubbio nella mente del giudice, esso deve andare a beneficio dell’impresa destinataria della decisione che constata un’infrazione»[xxix] (§ 8.1.).
Per l’effetto, l’organo giudiziale è tenuto a caducare il provvedimento sanzionatorio qualora l’‘accusato’ sia in grado di fornire in giudizio una ‘plausibile’ spiegazione alternativa dei fatti accertati dall’autorità amministrativa[xxx], essendo allo scopo sufficiente che il dubbio trasferito al giudicante sia ‘ragionevole’[xxxi], ossia correlato a dati empirici riscontrabili e di rilievo non meramente ipotetico o congetturale.
Con riferimento agli illeciti anticoncorrenziali, la suddetta conclusione si correla alla specifica disciplina sull’onere della prova posta dall’art. 2 del Regolamento (CE) n. 1/2003[xxxii], ove si dispone che «[i]n tutti i procedimenti nazionali o comunitari relativi all’applicazione degli articoli 81 e 82 del trattato, l’onere della prova di un’infrazione dell’articolo 81, paragrafo 1, o dell’articolo 82 del trattato incombe alla parte o all’autorità che asserisce tale infrazione» (oggi artt. 101 e 102 TFUE).
Sennonché, fermo restando lo standard probatorio sopra richiamato, il Consiglio di Stato rileva che il medesimo regolamento – in altra sua parte[xxxiii] – sembra invece rimettere ai giudici domestici l’individuazione del ‘grado di intensità della prova’ richiesto per i procedimenti nazionali, beninteso in compatibilità con i principî generali del diritto euro-unitario.
Dal momento che il principio di presunzione di innocenza non osta – di per sé – all’utilizzo di prove presuntive, ai fini del giudizio di responsabilità in materia sostanzialmente penale è importante precisare il rilievo assunto dal canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio rispetto al procedimento logico-giuridico di matrice inferenziale.
Il Consiglio di Stato, allo scopo, analizza la struttura del ragionamento indiziario ricorrendo a uno schema concettuale ‘bifasico’. Segnatamente, si afferma che il giudicante deve, innanzitutto, apprezzare la ‘valenza qualitativa’ del singolo indizio, vale a dire «[…] la forza di necessità logica con la quale esso è in grado di dimostrare il fatto rilevante, al fine di eliminare gli elementi che appaiono semplici illazioni o supposizioni arbitrarie» (§ 8.5.); per poi, in secondo luogo, svolgere un esame globale degli indizi risultanti dal segnalato ‘filtro’ logico-giuridico onde accertare, valendosi dei canoni di gravità, precisione e concordanza ex art. 2729 c.c., se «[…] gli stessi, una volta integrati gli uni con gli altri, siano in grado di dissolvere la loro intrinseca ambiguità» (§ 8.5.).
All’esito della suddetta attività conoscitiva, da implementare nel rispetto del contraddittorio processuale, il giudice dovrà applicare al caso concreto il richiamato canone probatorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio: l’ipotesi ‘accusatoria’ potrà ritenersi conforme allo standard della ‘certezza processuale’ solo se «[…] essa risulti l’unica in grado di giustificare i vari elementi probatori raccolti, ovvero la più attendibile rispetto alle altre ipotesi alternative, pure astrattamente prospettabili, ma la cui realizzazione storica, in quanto priva di riscontri significativi nelle emergenze istruttorie, appaia soltanto una eventualità remota» (§ 8.5.).
Ciò premesso, si ha cura di rimarcare che l’intensità del sindacato giudiziale in materia di sanzioni amministrative punitive non tollera limitazioni (nemmeno) al cospetto dei concetti giuridici indeterminati eventualmente presenti nella fattispecie incriminatrice di fonte legale. In questi casi, infatti, non è conferente il tradizionale modello di controllo giudiziale sull’esercizio della c.d. discrezionalità tecnica, nell’impostazione tipica dei processi di natura meramente impugnatoria aventi a oggetto provvedimenti amministrativi non sanzionatori[xxxiv], stante la rilevanza interpretativa dell’attività di accertamento dell’illecito soggetta a un sindacato giurisdizionale ‘parametrico’ e non ‘funzionale’[xxxv].
In altri termini, nella materia in esame, il giudicante – in coerenza con i connotati strutturali del giudizio sul c.d. ‘rapporto’[xxxvi] – non può confinare il proprio scrutinio a una (invero più deferente) verifica di mera ‘ragionevolezza tecnica’ della soluzione adottata dal provvedimento impugnato[xxxvii], nell’ambito della più ampia gamma di plausibili opzioni decisorie per lo specifico ‘problema amministrativo’. Invero, «[…] la sussunzione delle circostanze di fatto nel perimetro di estensione logica e semantica dei concetti giuridici indeterminati (ad esempio, quella del “mercato rilevante”) è una attività intellettiva ricompresa nell’interpretazione dei presupposti della fattispecie normativa» (§ 8.5.).
Ragione per cui, il sindacato sulle fattispecie sanzionatorie sostanzialmente penali deve necessariamente procedere attraverso una piena e diretta verifica, in conformità ai canoni della c.d. ‘full jurisdiction’, «[…] della quaestio facti sotto il profilo della sua intrinseca verità, per quanto, in senso epistemologico, controvertibile» (§ 8.5.)[xxxviii].
5. Brevi conclusioni: per un allineamento della giurisprudenza (ordinaria e amministrativa) al canone dell’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ nel sindacato sulle sanzioni amministrative ‘punitive’.
Sulla scorta di quanto premesso, la sentenza annotata è di indubbia importanza.
Il Consiglio di Stato, infatti, riconoscendo l’applicabilità dello standard probatorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio nel sindacato giudiziale sulle sanzioni amministrative punitive, aggiunge un ulteriore e rilevante ‘tassello garantistico’ allo statuto giuridico dei provvedimenti sostanzialmente penali ai sensi CEDU.
Si auspica, pertanto, che tale precedente assurga a ‘leading case’ non restando isolato nella futura prassi giurisprudenziale del giudice amministrativo, ma soprattutto di quello ordinario quando è chiamato a pronunciarsi sulle opposizioni a sanzione amministrativa (si pensi, a titolo di esempio, alle importanti potestà ‘punitive’ di competenza della Banca d’Italia e della Consob).
Invero, non sarebbe accettabile una marcata disarmonia tra le due giurisdizioni rispetto a garanzie che attengono al ‘core’ dell’effettività della tutela giurisdizionale. Sicché, fondamentali esigenze di eguaglianza e di unità della giurisdizione (nell’accezione ‘funzionale’ del termine[xxxix]) imporranno un allineamento al canone probatorio del c.d. ‘in dubio pro reo’[xl], evitando così che l’asserito trasgressore (beneficiario, sino a prova contraria, della presunzione di non colpevolezza) non subisca un’inaccettabile contrazione della tutela a seconda del plesso giurisdizionale ove, secondo criteri di riparto sovente espressione di contingenti esigenze di politica del diritto, sia radicata la singola controversia.
[i] Sulla definizione di sanzione amministrativa ‘punitiva’ cfr., per tutti, D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive’ tra diritto costituzionale ed europeo, in Riv. reg. merc., 2022, I, p. 47, ove si ricorre a tale espressione per identificare «[…] le misure afflittive che, per quanto applicate da organi di natura amministrativa e non giurisdizionale, sono attratte, per impulso degli impegni assunti a livello internazionale, nell’alveo protettivo delle principali garanzie riconosciute in ‘materia penale’, al di là della loro formale qualificazione giuridica».
[ii] Sull’autonomia della nozione di ‘materia penale’ nella CEDU cfr. G. Ubertis, L’autonomia linguistica della Corte di Strasburgo, in Arch. Pen., 2012, I, p. 21 e ss.
[iii] Cfr. Corte Edu, 8 giugno 1976 (‘Engel e altri c. Paesi Bassi’), § 82, ove si rinviene la formulazione dei tre criteri alternativi per la qualificazione di una sanzione amministrativa o disciplinare in senso ‘penale’ ai fini CEDU: la classificazione giuridica effettuata dall’ordinamento nazionale, la natura dell’infrazione e il grado di severità della sanzione («[…] it is first necessary to know whether the provision(s) defining the offence charged belong, according to the legal system of the respondent State, to criminal law, disciplinary law or both concurrently. This however provides no more than a starting point. The indications so afforded have only a formal and relative value and must be examined in the light of the common denominator of the respective legislation of the various Contracting States. The very nature of the offence is a factor of greater import. […] However, supervision by the Court does not stop there. Such supervision would generally prove to be illusory if it did not also take into consideration the degree of severity of the penalty that the person concerned risks incurring. In a society subscribing to the rule of law, there belong to the ‘criminal’ sphere deprivations of liberty liable to be imposed as a punishment, except those which by their nature, duration or manner of execution cannot be appreciably detrimental»). Si v., anche, quanto affermato dalla successiva (e fondamentale) decisione della Corte Edu, 21 febbraio 1984 (‘Öztürk c. Germania’), in Riv. it. dir. proc. pen., 1985, III, p. 894 e ss. (con nota di C. Paliero), § 49, ove si chiarisce che «[…] se gli Stati contraenti potessero, a loro piacimento, qualificare ‘amministrativo’ piuttosto che penale un illecito, l’effetto delle norme fondamentali degli artt. 6 e 7 sarebbe subordinato alla loro volontà sovrana. Una così ampia libertà rischierebbe di condurre a risultati incompatibili con l’oggetto e lo scopo della Convenzione».
[iv] Per ogni approfondimento si rinvia, per tutti, a D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive’ tra diritto costituzionale ed europeo, cit., p. 47 e ss.; F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, IV, p. 1775 e ss.; e F. GOISIS, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2018.
[v] Cfr., per tutte, Corte cost. 4 giugno 2010, n. 196, in Cass. pen., 2011, II, p. 528 e ss., ove si afferma che «[d]alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, si ricava, pertanto, il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. Principio questo, del resto, desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale - data l’ampiezza della sua formulazione (‘Nessuno può essere punito...’) - può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile - in senso stretto - a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato»; Id., 18 aprile 2014, n. 104, in Cass. pen., 2015, V, p. 1825 e ss.; Id., 7 aprile 2017, n. 68, in Giur. Cost., 2017, II, p. 681 e ss.; e Id., 5 dicembre 2018, n. 223, in Giur. Cost., 2018, VI, p. 2575 e ss.
[vi] Cfr., per tutte, Corte cost. 13 giugno 2018, n. 121, in Giur. Cost., 2018, III, p. 1359 e ss., ove si afferma che «[…] il principio di legalità, prevedibilità e accessibilità della condotta sanzionabile e della sanzione aventi carattere punitivo-afflittivo, qualunque sia il nomen ad essa attribuito dall’ordinamento, del resto, non può, ormai, non considerarsi patrimonio derivato non soltanto dai principi costituzionali, ma anche da quelli del diritto convenzionale e sovranazionale europeo, in base ai quali è illegittimo sanzionare comportamenti posti in essere da soggetti che non siano stati messi in condizione di ‘conoscere’, in tutte le sue dimensioni tipizzate, la illiceità della condotta omissiva o commissiva concretamente realizzata»; e Id., 29 maggio 2019, n. 134, in Foro it., 2019, VII-VIII, p. 2217 e ss., ove si rimarca che le leggi «[…] che stabiliscono sanzioni amministrative debbono garantire ai propri destinatari […] la conoscibilità del precetto e la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie: requisiti questi ultimi che condizionano la legittimità costituzionale di tali leggi regionali, al cospetto del diverso principio di determinatezza delle norme sanzionatorie aventi carattere punitivo-afflittivo, desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost.».
[vii] Cfr., ex multis, Corte cost. 21 marzo 2019, n. 63, in Giur. Cost., 2019, II, p. 819 e ss., ove si afferma che rispetto «[…] a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità ‘punitiva’, il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della ‘materia penale’ - ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior […] - non potrà che estendersi anche a tali sanzioni. […] L’estensione del principio di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione ‘punitiva’ è, del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura ‘punitiva’, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare nei confronti di costui tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento». A siffatte conclusioni è possibile derogare unicamente nei casi in cui «[…] sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo ‘vaglio positivo di ragionevolezza’, al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale».
[viii] Cfr., per tutte, Corte cost. 10 maggio 2019, n. 112, in Giur. Cost., 2019, III, p. 1364 e ss., ove si rimarca che «[…] non può dubitarsi che il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito sia applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative».
[ix] Cfr., nella giurisprudenza convenzionale, Corte Edu, 4 marzo 2014 (‘Grande Stevens e a. c. Italia’), in Giur. Cost., 2014, III, p. 2919 e ss.; e, con un parziale revirement, Id., Grande Chambre, 15 novembre 2016 (‘A e B c. Norvegia’), in Cass. Pen., 2017, III, p. 1227 e ss., ove – com’è noto – si rimette al giudicante la valutazione in ordine al ‘coordinamento’ (temporale e nell’oggetto) tra i due procedimenti nonché la proporzionalità della complessiva risposta sanzionatoria nei casi in cui operi il ‘cumulo’.
[x] Il riferimento è al diritto al silenzio dell’incolpato (‘nemo tenetur se detegere’), riconosciuto – con riguardo alle sanzioni amministrative punitive – da Corte cost. 30 aprile 2021, n. 84, in Giur. Cost., 2021, II, p. 1028 e ss. Sia consentito rinviare, per un commento alla pronuncia cit., a M. Allena - S. Vaccari, Diritto al silenzio e autorità di vigilanza dei mercati finanziari, in Riv. Dir. Banc., 2022, III, p. 689 e ss.
[xi] Cfr. M. Clarich, Quando i poteri delle autorità di Vigilanza possono anche sconfinare nell’arbitrio, in Milano-Finanza, 16 febbraio 2022, ove si rileva che «[…] al di là delle garanzie di difesa nei procedimenti sanzionatori, un altro versante critico è quello della tutela giurisdizionale a valle della sanzione o di altri provvedimenti repressivi». Invero, «[l]e statistiche, in particolare nei procedimenti della Consob e della Banca d’Italia, dimostrano che quasi mai le parti private riescono a far annullare nel merito i provvedimenti sanzionatori. I giudici tendono infatti a confermare le valutazioni delle autorità e le conclusioni raggiunte specie là dove si tratta di casi ad alta complessità tecnica».
[xii] Cfr., per la chiarezza, Cons. Stato, sez. VI, 26 marzo 2015, n. 1595, in Foro amm., 2015, III, p. 763 e ss.: «[i]l sindacato di full jurisdiction implica, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, il potere del giudice di sindacare la fondatezza, l’esattezza e la correttezza delle scelte amministrative così realizzando, di fatto, un continuum tra procedimento amministrativo e procedimento giurisdizionale. La piena giurisdizione implica il potere del giudice di condurre un’analisi “point by point” su tutti gli elementi di fatto e di diritto rilevanti ai fini dell’applicazione della sanzione, senza ritenersi vincolato all’accertamento compiuto dagli organi amministrativi e anzi dovendo sostituire la sua valutazione a quella, contestata, dell’amministrazione. In altre parole, quando le garanzie del giusto processo non siano assicurate in sede procedimentale, esse devono essere necessariamente soddisfatte in sede processuale ove il giudice, per supplire alla carenza di garanzie del contraddittorio, di indipendenza del decisore, di parità delle parti, deve agire come se riesercitasse il potere, senza alcun limite alla piena cognizione dei fatti e degli interessi in gioco». Sul tema cfr., in dottrina, M. Allena, La full jurisdiction tra sindacato di “maggiore attendibilità” del giudice amministrativo e mito della separazione dei poteri, in A. Carbone (a cura di), L’applicazione dell’art. 6 CEDU nel processo amministrativo dei paesi europei, Napoli, 2020, p. 23 e ss.
[xiii] Si v., per tutti, S.L. Vitale, Le sanzioni amministrative tra diritto nazionale e diritto europeo, Torino, 2018, p. 27, ove si è, innanzitutto, evidenziato che «[…] una rilevante differenza tra processo volto alla irrogazione della sanzione penale e procedimento volto alla irrogazione della sanzione amministrativa risiede nello standard probatorio applicabile». Com’è noto, infatti, mentre «[…] nel processo penale, in considerazione della rilevanza degli interessi in gioco, può giungersi ad una sentenza di condanna solo ove la colpevolezza per il reato sia accertata ‘oltre il ragionevole dubbio’, per il processo civile e amministrativo, così come a fortiori per il procedimento amministrativo, è richiesto un minore standard probatorio, compendiato nella formula del ‘più probabile che non’. Di conseguenza, deve ritenersi che anche nei procedimenti di irrogazione delle sanzioni amministrative dovrà applicarsi tale ultimo standard probatorio». Preso atto di ciò, l’A. ha dovuto constatare che «[l]a questione non è stata messa pienamente in luce dalla dottrina che ha studiato la sanzione amministrativa, ma a nostro avviso assume oggi rilevanza nell’analisi degli aspetti differenziali che intercorrono tra questa e la sanzione penale».
[xiv] Il riferimento è alle sentenze T.a.r Lazio, Roma, sez. I, Id., 27 luglio 2020, n. 8769; Id. 27 luglio 2020, n. 8774; Id., 27 luglio 2020, n. 8775; Id., 27 luglio 2020, n. 8776; Id., 27 luglio 2020, n. 8777; Id., 27 luglio 2020, n. 8778; Id., 27 luglio 2020, n. 8779.
[xv] Cfr. T.a.r Lazio, Roma, sez. I, 27 luglio 2020, n. 8765; Id., 27 luglio 2020, n. 8767; Id., 27 luglio 2020, n. 8768.
[xvi] Cfr., nella giurisprudenza europea in materia di illeciti anticoncorrenziali, CGUE 7 gennaio 2004, in C-204/00 P, C-205/00 P, C-211/00 P, C-213/00 P, C-217/00 P e C-219/00 P (‘Aalborg Portland A/S e a. c. Commissione delle Comunità europee’), § 55 e ss., ove si chiarisce che «[p]oiché sono noti tanto il divieto di partecipare a pratiche e accordi anticoncorrenziali quanto le sanzioni che possono essere irrogate ai contravventori, di norma le attività derivanti da tali pratiche ed accordi si svolgono in modo clandestino, le riunioni sono segrete, spesso in un paese terzo, e la documentazione ad esse relativa è ridotta al minimo. Anche se la Commissione scoprisse documenti attestanti in modo esplicito un contatto illegittimo tra operatori, come i resoconti di una riunione, questi ultimi sarebbero di regola solo frammentari e sporadici, di modo che si rivela spesso necessario ricostituire taluni dettagli per via di deduzioni. Nella maggior parte dei casi, l’esistenza di una pratica o di un accordo anticoncorrenziale dev’essere dedotta da un certo numero di coincidenze e di indizi i quali, considerati nel loro insieme, possono rappresentare, in mancanza di un’altra spiegazione coerente, la prova di una violazione delle regole sulla concorrenza». Analogamente, cfr. CGUE 1° luglio 2010, in C-407/08 P (‘Knauf Gips KG c. Commissione europea’), § 49. In materia di sanzioni per violazione delle disposizioni sull’intermediazione finanziaria si v. Cass. civ., Sez. Un., 30 settembre 2009, n. 20930, in Foro it., 2010, XI, p. 3129 e ss., ove la Corte «[s]ulla generale premessa per cui la responsabilità va provata dall’amministrazione» e «[…] dopo avere ribadito il pieno rispetto del principio dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c. in capo all’ente sanzionante» ritiene ammissibile la possibilità di «[…] ricorrere con ampiezza a presunzioni idonee in ordine alla prova, da parte dell’amministrazione, dell’elemento oggettivo della condotta».
[xvii] Cfr. l’art. 533, co. 1, c.p.p. ove, nella versione vigente (che segue alle modifiche apportate dall’art. 5, co. 1, della l. 20 febbraio 2006, n. 46), si dispone che «[i]l giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio». Sullo standard dell’oltre ogni ragionevole dubbio restano fondamentali, in giurisprudenza, i precedenti Cass. pen., Sez. Un., 30 ottobre 2003, n. 45276 (‘Andreotti’), in Cass. pen., 2004, III, p. 811 e ss.; Id., 10 luglio 2002, n. 30328 (‘Franzese’), in Foro it. 2002, II, p. 601 e ss.; Id., 21 aprile 1995, n. 11 (‘Costantino’), in Giust. pen., 1996, III, p. 321 e ss. Sul piano comparato, anche in chiave storica, cfr. il § 1096 del ‘Penal Code of California’, ove si rinviene la seguente (chiara) definizione di ‘ragionevole dubbio’ (rispetto al quale si v. l’altrettanto noto precedente ‘People of the State of California v. Orenthal James Simpson’, richiamato da Corte d’Assise di Milano 18 aprile 2005): «[a] defendant in a criminal action is presumed to be innocent until the contrary is proved, and in case of a reasonable doubt whether his or her guilt is satisfactorily shown, he or she is entitled to an acquittal, but the effect of this presumption is only to place upon the state the burden of proving him or her guilty beyond a reasonable doubt. Reasonable doubt is defined as follows: ‘It is not a mere possible doubt; because everything relating to human affairs is open to some possible or imaginary doubt. It is that state of the case, which, after the entire comparison and consideration of all the evidence, leaves the minds of jurors in that condition that they cannot say they feel an abiding conviction of the truth of the charge’». Per ogni approfondimento sullo standard in esame, cfr. in dottrina, oltre all’importante ricostruzione (anche sul piano culturale) offerta da F. Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, 2003, p. 116 e ss., quantomeno G. Canzio - M. Taruffo - G. Ubertis, Fatto, prova e verità (alla luce del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio), in Criminalia, 2009, p. 305 e ss.; F. Caprioli, L’accertamento della responsabilità penale ‘oltre ogni ragionevole dubbio’, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, I, p. 51 e ss.; M. Pisani, Riflessioni sul tema del ‘ragionevole dubbio’, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, IV, p. 1243 e ss.; F. D’Alessandro, L’oltre ogni ragionevole dubbio sulla valutazione della prova indiziaria, in Cass. pen., 2005, III, p. 764 e ss.; M.C. Galavotti - F. Stella, ‘Oltre il ragionevole dubbio’ come standard probatorio. Le infondate divagazioni dell’epistemologo Laudan, in Riv. it. dir proc. pen., 2005, III, p. 883 e ss.; G. Canzio, L’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ come regola probatoria e di giudizio del processo penale, in Riv. it. dir proc. pen., 2004, I, p. 303 e ss.; C. Piemontese, Il principio dell’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ tra accertamento processuale e ricostruzione dei presupposti della responsabilità penale, in Dir. pen. proc., 2004, VI, p. 757 e ss.
[xviii] Si v., per tutte, T.a.r. Lazio, Roma, sez. I, 8 marzo 2019, n. 3099, in Giustizia-amministrativa.it, ove – con riferimento alle sanzioni irrogate dall’AGCM in materia di tutela del consumatore (rilevanti, secondo un significativo orientamento, in senso penale ai sensi CEDU - cfr., in particolare, Cons. Stato, sez. VI, 11 novembre 2019, n. 7699, in Giustizia-amministrativa.it) – si afferma che «[…] l’adozione di un provvedimento sanzionatorio per pratica commerciale scorretta nei confronti di un professionista deve comunque basarsi su un sostrato probatorio sufficiente a far ritenere, secondo il criterio del più probabile che non, che effettivamente il comportamento abbia avuto una, quantomeno apprezzabile, potenzialità lesiva».
[xix] Cfr., per l’impostazione generale, Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 582, in Foro amm. CdS, 2008, I, p. 93 e ss., ove si afferma che «[…] ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova ‘oltre il ragionevole dubbio’ (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o ‘del più probabile che non’, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l’identità di tali standards delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale […]. Anche la Corte di Giustizia CE è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n. 295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concorrenza in danno del consumatore se “appaia sufficientemente probabile” che l’intesa tra compagnie assicurative possa avere un’influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n. 12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che “occorre postulare le varie concatenazioni causa-effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente probabili”)». La Corte di Cassazione ha cura di precisare che «[d]etto standard di ‘certezza probabilistica’ in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni)».
[xx] Si pensi, con riguardo alle sanzioni amministrative ‘depenalizzate’, all’art. 6, co. 11, del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, ove si dispone che «[i]l giudice accoglie l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente».
[xxi] In termini generali, sebbene con riferimento allo standard probatorio in materia di interdittive antimafia, cfr. Cons. Stato, sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483, in Giustizia-amministrativa.it, ove – dopo lo svolgimento di talune premesse in ordine alla natura ‘abduttiva’ del ragionamento giudiziario – si afferma che «[è] nell’area del ragionevole dubbio che si colloca il criterio del ‘più probabile che non’: ciò che lo connota non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’evidence and inference».
[xxii] Cfr. Cass. civ., sez. III, 13 marzo 2014, n. 5787, in Foro it., 2014, XII, p. 3568 e ss., ove – riflettendo in termini generali sulle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. – si sostiene che «[l]a prova logica, qual è appunto quella presuntiva, presuppone invece non la certezza, ma la mera probabilità d’un legame logico-causale tra fatto noto e fatto ignorato». Secondo la Corte di Cassazione, infatti, esiste «[…] una inferenza presuntiva tra fatto noto e fatto ignorato quando il secondo sia probabilmente la conseguenza più attendibile del primo». In questo senso cfr. Cass. civ., sez. III, 13 ottobre 1962, n. 2971, ove già si precisava che una prova presuntiva deve ritenersi convincente quando da più indizi possa trarsi una ‘armonica spiegazione’, anche se alcuni di essi siano passibili di diversa interpretazione. Si v., anche, Cass. civ., sez. II, 10 agosto 2007, n. 17615, ove l’affermazione per cui «[i]n tema di sanzione amministrativa […] l’onere di provare tutti gli elementi oggettivi e soggettivi dell’illecito amministrativo sanzionato con l’ordinanza ingiunzione opposta, grava sull’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato, escluso il ricorso a presunzioni legali che non possono ritenersi stabilite a favore della stessa autorità se non quando i fatti sui quali esse si fondano siano tali far apparire l’esistenza del fatto ignoto come la conseguenza del fatto noto, alla stregua di canoni di ragionevole probabilità sempreché il giudizio su tale connessione sia motivato adeguatamente in relazione ai suddetti canoni». In materia di illeciti anticoncorrenziali, cfr. T.a.r. Lazio, Roma, sez. I, 14 novembre 2018, n. 10997, in Foro amm., 2018, XI, p. 2004 e ss., ove si afferma che «[…] il giudice amministrativo, nella materia in esame, è chiamato comunque ad operare un sindacato estrinseco sulla correttezza logica dell’operato dell’Autorità, al fine di verificare l’‘iter’ ricostruttivo da questa seguito nell’analisi della norma e della sua applicabilità ai fatti concreti […], accertando, in sostanza, se la ‘possibilità’ di pregiudizio alla concorrenza su un dato mercato, a scongiurare la quale la legislazione in materia è volta, si sia tradotta o meno, nell’attuazione pratica posta in essere dagli operatori economici, in una situazione di apprezzabile ‘probabilità’ di lesione, valutando il potenziale impatto negativo delle relative condotte sulla concorrenza, con riguardo al contesto giuridico ed economico»; nonché Id., 2 dicembre 2014, n. 12168, in Foro it. 2015, I, p. 29 e ss., ove si conclude nel senso che l’autorità amministrativa «[…] ha dunque svolto una adeguata istruttoria, e ciò ha condotto al rinvenimento di numerosi ed univoci elementi indiziari circa la ragionevole sussistenza di un’intesa restrittiva della concorrenza, […], è ciò rende non irragionevole, e quindi non sindacabile, la valutazione di rilevante gravità della condotta che l’Autorità ha adottato nella decisione impugnata».
[xxiii] Cfr. K. Popper, Poscritto alla logica della scoperta scientifica. I. Il realismo e lo scopo della scienza, I, Milano, 1984, p. 35: «[u]n’asserzione o teoria […] è falsificabile se e solo se esiste almeno un falsificatore potenziale, almeno un possibile asserto di base che entri logicamente in conflitto con essa».
[xxiv] Cfr., per tutte, Cass. civ., sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2363, nella parte in cui si rileva che «[s]e è vero […] che l’opposizione all’ordinanza irrogativa di una sanzione amministrativa introduce un ordinario giudizio di cognizione sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa, cui spetta l’onere di dimostrarne gli elementi costitutivi, è altrettanto vero che detta autorità può avvalersi di presunzioni che trasferiscono a carico dell’intimato l’onere della prova contraria, purché i fatti sui quali essa si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza del fatto noto, alla stregua di canoni di ragionevole probabilità e secondo regole di esperienza». In senso analogo cfr. Cass. civ., sez. I, 16 marzo 2001, n. 3837, in Foro it. 2002, I, p. 1502 e ss.
[xxv] La suddetta affermazione è assolutamente consolidata nella giurisprudenza convenzionale. Cfr., per tutte, Corte Edu, 27 settembre 2011 (‘Menarini Diagnostics S.r.l. c. Italia’).
[xxvi] Cfr., in particolare, Trib. UE, sez. II amp., 10 novembre 2017, in T-180/15 (‘Icap plc c. Commissione europea’), § 256 s., ove si osserva che il principio di presunzione di innocenza «[…] costituisce un principio generale del diritto dell’Unione attualmente sancito dall’articolo 48, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali, il quale si applica alle procedure relative a violazioni delle norme sulla concorrenza applicabili alle imprese, che possono sfociare nella pronuncia di multe o ammende». Il principio richiamato, inoltre, «[…] implica che ogni persona accusata è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. Essa osta, quindi, a qualsiasi constatazione formale ed anche a qualsiasi allusione alla responsabilità della persona cui sia imputata una data infrazione in una decisione che pone fine all’azione, senza che la persona abbia potuto beneficiare di tutte le garanzie inerenti all’esercizio dei diritti della difesa nell’ambito di un procedimento che segua il suo corso normale e si concluda con una decisione sulla fondatezza dell’addebito». Cfr., anche, Corte Edu, 1° aprile 2007 (‘Geerings c. Paesi Bassi’), § 41 e ss.
[xxvii] Sul piano domestico è possibile riferirsi al principio di non colpevolezza di cui all’art. 27, co. II, Cost. («[l]’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva»). Il principio in discorso è sancito anche dall’art. 11, § 1, della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, ove si afferma che «[o]gni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa».
[xxviii] Con riferimento agli illeciti in materia antitrust, è stata avanzata in dottrina (cfr. M. Cappai, Il delicato equilibrio tra full jurisdiction ed effettività del diritto antitrust nel sindacato dei provvedimenti dell’Agcm, in Dir. soc., 2018, IV, p. 746), la proposta ricostruttiva secondo cui l’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata dell’art. 15, co. 1, della l. 10 ottobre 1990, n. 287, impedirebbe «[…] all’Autorità di accertare e sanzionare l’illecito in presenza di valide ragioni addotte dall’accusato a difesa dei propri comportamenti». Secondo questa tesi, infatti, il principio di presunzione di innocenza, di cui all’art. 6, § 2, CEDU, dovrebbe valere quale parametro interposto idoneo a conformare la disposizione cit. della l. n. 287/1990, abilitando per l’effetto il giudice amministrativo a censurare – nella forma della violazione di legge – le decisioni dell’Autorità che non abbiano adeguatamente esaminato le difese ‘attendibili’ o ‘maggiormente attendibili’ addotte dall’asserito trasgressore in sede procedimentale. In altri termini, laddove «[…] simili prospettazioni difensive siano state tempestivamente e ritualmente dedotte in sede procedimentale e l’Autorità nel provvedimento finale abbia omesso di prendervi specificamente posizione oppure vi abbia semplicemente preferito, a parità di pregio, la propria (diversa) ricostruzione, tale carenza potrebbe ridondare anzitutto in una semplice violazione di legge ex art. 21-octies legge n. 241/1990 (se, appunto, l’art. 15, comma 1 legge n. 287/1990 fosse letto in combinato disposto con l’art. 6, § 2 CEDU)».
[xxix] La sentenza, a sua volta, riprende una massima espressa dal giudice europeo. Cfr. CGUE 22 novembre 2012, in C-89/11 P (‘E.ON Energie AG c. Commissione europea’), § 72, nella parte in cui si afferma che «[…] qualora sussista un dubbio nella mente del giudice, esso deve andare a beneficio dell’impresa destinataria della decisione che constata un’infrazione […]. Infatti, la presunzione di innocenza costituisce un principio generale del diritto dell’Unione, oggi sancito dall’articolo 48, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea».
[xxx] Cfr., ancora, CGUE 22 novembre 2012 cit., § 74, ove si sostiene che «[…] il giudice dell’Unione sarà indotto ad annullare la decisione di cui trattasi qualora le imprese interessate adducano un’argomentazione che ponga in una luce diversa i fatti accertati dalla Commissione e che consenta quindi di sostituire una diversa spiegazione plausibile dei fatti a quella indicata dalla Commissione per concludere per la sussistenza di un’infrazione. Infatti, in un’ipotesi del genere, non si può considerare che la Commissione abbia fornito la prova della sussistenza di un’infrazione al diritto della concorrenza»; nonché, già in precedenza, CGUE 31 marzo 1993, in C-89/85, C-104/85, C-114/85, C-116/85, C-117/85 e da C-125/85 a C-129/85 (‘Ahlström Osakeyhtiö e a. c. Commissione delle Comunità europee’), § 126, ove si è annullata la decisione impugnata sulla base della constatazione per cui «[…] nella fattispecie, la spiegazione del parallelismo di comportamenti basata sulla concertazione non è l’unica plausibile»; e CGUE 28 marzo 1984, in C 29/83 e 30/83 (‘Compagnie royale asturienne des mines SA e Rheinzink Gmbh c. Commissione delle Comunità europee’), § 16, nella parte in cui si rileva che «[i]l ragionamento della Commissione è basato sull’ipotesi che i fatti accertati non possano essere spiegati se non con un’intesa fra le due imprese. Di fronte ad un assunto del genere, basta alle ricorrenti provare delle circostanze che pongano in una luce diversa i fatti accertati dalla Commissione e che consentano quindi di sostituire una diversa spiegazione dei fatti a quella indicata nel provvedimento impugnato».
[xxxi] Cfr. G. Canzio, Il dubbio e la legge, in Dir. pen. cont., 20 luglio 2018, p. 2, ove si rinviene la seguente definizione di ‘dubbio ragionevole’: «[…] non qualsiasi, possibile dubbio, astrattamente sempre configurabile, né il dubbio marginale, ma solo quello che, sorretto da oggettive evidenze probatorie, sia in grado di destrutturare l’apparente solidità dell’enunciato di accusa e, grazie all’opera maieutica del contraddittorio, immettere nel ragionamento giudiziale una plausibile spiegazione alternativa del fatto». Sui riflessi che lo standard dell’oltre ogni ragionevole dubbio dispiega (in senso limitativo) sul principio del libero convincimento del giudice cfr. F. Stella, Giustizia e modernità, cit., p. 207, ove si chiarisce che «[l]a libertà del giudice è talmente vincolata che egli non può valutare le prove, la loro sufficienza o insufficienza, secondo un parametro purchessia, o, di nuovo, secondo il suo imperscrutabile giudizio; in particolare, non è libero di valutare le prove secondo il criterio della preponderanza dell’evidenza o del ‘più probabile che no’: se le prove presentate dall’accusa sono ‘preponderanti’ ma lasciano aperti dei dubbi, egli dovrà prosciogliere. E dovrà farlo perché glielo impone la legge: nel processo penale non basta che l’accusa presenti evidences ‘preponderanti’, giacché il suo onere probatorio si modella sullo standard molto più stringente dell’‘oltre il ragionevole dubbio’».
[xxxii] Sull’applicazione di tale previsione si v., in particolare, CGUE 8 luglio 1999, in C49/92 P (‘Commissione delle comunità europee c. Anic Partecipazioni SpA’), § 86, ove si rimarca che «[i]n caso di controversia sulla sussistenza di un’infrazione alle regole di concorrenza, spetta alla Commissione fornire la prova delle infrazioni che essa constata e produrre gli elementi di prova idonei a dimostrare l’esistenza dei fatti che integrano l’infrazione […]. In quest’ambito spetta in particolare alla Commissione produrre tutti gli elementi che portino a concludere nel senso della partecipazione di un’impresa a una simile infrazione e della sua responsabilità per i diversi elementi che comporta».
[xxxiii] Cfr. il 5° considerando del Regolamento n. 1/2003 cit.: «[i]l presente regolamento non incide né sulle norme nazionali in materia di grado di intensità della prova né sugli obblighi delle autorità garanti della concorrenza e delle giurisdizioni nazionali degli Stati membri inerenti all’accertamento dei fatti pertinenti di un caso, purché dette norme e detti obblighi siano compatibili con i principi generali del diritto comunitario».
[xxxiv] Sullo sfondo vi è l’idea della differente declinazione della legalità ‘penalistica’ (nel senso CEDU) rispetto a quella amministrativa. Si v., a riguardo, D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive’ tra diritto costituzionale ed europeo, cit., p. 76, ove si rileva che «[…] le norme penali “definiscono” da sé i termini del conflitto tra le sfere giuridiche coinvolte; le norme amministrative “indirizzano” l’azione regolatrice degli apparati amministrativi, per fare in modo che gli stessi ‒ in quanto delegati dall’ordinamento a “comporre” la gerarchia degli interessi coinvolti ‒ operino in modo imparziale e coerente con l’indirizzo politico-amministrativo». Per queste ragioni, «[…] l’atto di accertamento dell’illecito amministrativo si configura, sul piano strutturale e funzionale, in termini diversi dalla nozione di “provvedimento”». Per la differente tesi, volta a sostenere la compatibilità tra la discrezionalità e la potestà sanzionatoria dell’amministrazione, con conseguente titolarità della posizione giuridica di interesse legittimo in capo al privato, cfr. S. Cimini, Il potere sanzionatorio delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 2017, p. 383 e ss., ma anche passim.
[xxxv] Cfr. D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive’ tra diritto costituzionale ed europeo, cit., p. 77.
[xxxvi] La formula ‘giudizio sul rapporto’ è qui utilizzata in funzione meramente descrittiva e non in chiave dogmatica. Cfr., in proposito, D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive’ tra diritto costituzionale ed europeo, cit., p. 80, ove giustamente si osserva che «[n]ei giudizi sulle sanzioni amministrative punitive, oggetto del processo è, dunque, sia l’atto, sia il fatto illecito»: di talché, il controllo giudiziale è incentrato (p. 81) «[…] sul fondamento della pretesa punitiva dell’autorità amministrativa, potendo l’incolpato contestare, non solo il modo con cui gli è stata applicata la sanzione, ma anche la stessa esistenza del “fatto”, nonché la concreta configurabilità giuridica della violazione».
[xxxvii] Cfr., in particolate, quanto affermato da Cass. civ., Sez. Un., 20 gennaio 2014, n. 1013, ove si afferma che – al cospetto di provvedimenti amministrativi – il giudice «[…] non può esercitare un controllo c.d. di tipo forte sulle valutazioni tecniche opinabili, che si tradurrebbe nell’esercizio da parte del suddetto giudice di un potere sostitutivo spinto a sovrapporre la propria valutazione a quella dell’amministrazione, fermo però restando che anche sulle valutazioni tecniche è esercitabile un controllo di ragionevolezza, logicità, coerenza». Cfr., tuttavia, quanto rilevato da G. Greco, L’illecito anticoncorrenziale, il sindacato del giudice amministrativo e i profili tecnici opinabili, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2021, III-IV, p. 487, ove si osserva che la prospettiva volta a limitare il sindacato del giudice amministrativo sui profili tecnici che caratterizzano – con larga frequenza – le fattispecie sanzionatorie si muove «[…] secondo la linea interpretativa che tende a stabilire il carattere illecito o lecito della condotta attraverso la legittimità o meno della decisione dell’Autorità (trasformando così un presupposto sostanziale in limite della discrezionalità)». Ad avviso dell’A. (p. 489), la condotta basata su una valutazione ‘possibile’, sebbene opinabile, deve essere considerata ‘lecita’ (o, quantomeno, non illecita). In termini generali, cfr. anche quanto autorevolmente osservato da F.G. Scoca, Giudice amministrativo ed esigenze del mercato, in Dir. amm., 2008, II, p. 257 e ss., ove – con riferimento ai provvedimenti delle autorità neutrali (e, in specie, dell’AGCM) – si è affermato che, trattandosi di atti che incidono su diritti soggettivi, si «[…] può pensare che il provvedimento amministrativo sia tale soltanto nella forma, ma non nella sostanza, e che, nel giudizio, venga ad emergenza non tanto l’atto (la legittimità dell’atto) quanto direttamente la situazione soggettiva, che ha natura, come si è detto, di diritto soggettivo» (p. 261). Di conseguenza, siccome «[…] non possono esservi scelte tecniche (tecnico-discrezionali) riservate all’Autorità, dato il carattere neutrale del suo potere, la natura decisoria dei suoi provvedimenti, e la loro incidenza su diritti soggettivi», sul piano processuale «[…] quello che viene qualificato come un giudizio di legittimità, si rivela in realtà essere un giudizio di verità e di fondatezza» (p. 265).
[xxxviii] Il ragionamento ripreso in corpo trova una più compiuta articolazione argomentativa nella precedente decisione, a firma del medesimo estensore, Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4990, in Dir. proc. amm., 2020, III, p. 740 e ss. (con importanti argomentazioni – in chiave critica – di M. Del Signore), ove si riflette sull’intensità del sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’AGCM nel quadro dei (più generali) rapporti tra diritto e tecnica. Ivi, infatti, si osserva che «[m]entre gli studiosi del diritto civile e penale non hanno mai dubitato del fatto che la “decodificazione” dei concetti giuridici indeterminati spetti al giudice, cui è deputata la responsabilità istituzionale di estrapolare la norma dalla disposizione, nel diritto amministrativo si è per lungo tempo pensato ad essi come ad un ambito di valutazioni riservate alla pubblica amministrazione, non attingibile integralmente dal sindacato giurisdizionale, se non attraverso i dettami della c.d. “discrezionalità tecnica”. Nella sua primigenia formulazione, il principale corollario di tale concetto ‒ che, peraltro, non ha mai raggiunto una definizione ed uno statuto univoco ed, anzi, ha dato luogo in passato a sofisticate categorizzazioni ‒ era quello di delimitare il controllo giudiziale sulle valutazioni complesse all’interno di una prospettiva critica del tutto estrinseca ed esterna rispetto alla fattispecie concreta». In materia sanzionatoria, invece, «[…] non pare corretto impostare il discorso sul grado di intensità del controllo giurisdizionale sugli atti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato in termini di possibilità o meno di sindacato sostitutivo del giudice. Non operano infatti i limiti cognitivi insiti nella tecnica del sindacato sull’esercizio del potere, quando il giudice è pienamente abilitato a pervenire all’accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale invocata (nella specie, l’accertamento della realizzazione o meno dell’intesa illecita punita con una pesante sanzione pecuniaria)». Per una diversa impostazione, fondata sul presupposto teorico della presenza di discrezionalità (pura e tecnica) nell’attività sanzionatoria dell’AGCM, cfr. M. Cappai, Il problema del sindacato giurisdizionale sui provvedimenti dell’AGCM in materia antitrust: un passo in avanti, due indietro ... e uno in avanti. Una proposta per superare l’impasse, in Federalismi.it, n. 21/2019, p. 40, ove si perviene alla formulazione della proposta ricostruttiva – pur sempre incentrata sulla valorizzazione del principio di presunzione di innocenza – per cui «[r]imanendo all’interno di una giurisdizione di legittimità e senza andare dunque a snaturare la natura demolitoria del giudizio amministrativo di annullamento, si titolerebbe in questo modo il G.a. ad accogliere la censura di violazione o falsa applicazione di legge in tutti quei i casi in cui, specie con riferimento all’attività di contestualizzazione dei concetti generali al caso concreto e di applicazione della norma contestualizzata al fatto concreto, la parte sia riuscita a fornire una spiegazione “attendibile” dei propri comportamenti incorrendo nondimeno in una sanzione». Il suddetto precedente è stato, tuttavia, ‘ridimensionato’ dalla medesima Sezione con la sentenza – di pochi mesi successiva – Cons. Stato, sez. VI, 2 settembre 2019, n. 6022, in Foro amm., 2019, IX, p. 1471 e ss., ove si è affermato che «[i]l sindacato giurisdizionale volto ad accertare le intese anticoncorrenziali è finalizzato a verificare se l’Autorità ha violato il principio di ragionevolezza tecnica, senza che sia consentito, in coerenza con il principio costituzionale di separazione, sostituire le valutazioni, anche opinabili, dell’amministrazione con quelle giudiziali».
[xxxix] Cfr. Corte cost. 12 marzo 2007, n. 77, in Giur. cost., 2007, II, p. 726 e ss. (con nota di A. Mangia), ove si rimarca che «[s]e è vero, infatti, che la Carta costituzionale ha recepito, quanto alla pluralità dei giudici, la situazione all’epoca esistente, è anche vero che la medesima Carta ha, fin dalle origini, assegnato con l’art. 24 (ribadendolo con l’art. 111) all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi». Di talché, «[q]uesta essendo la essenziale ragion d’essere dei giudici, ordinari e speciali, la loro pluralità non può risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale».
[xl] Si badi, nell’accezione di standard effettivamente ‘applicato’ dal giudicante e non quale mera formula verbale richiamata dalle sentenze di merito.
Abstract L’istituto giuridico delineato dall’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario ha assunto, nel nostro Paese, un’indiscutibile valenza simbolica. Per tale ragione, il discorso pubblico che lo riguarda risente di inopportune semplificazioni, quando non di vere e proprie distorsioni, generate da un approccio troppo spesso unidirezionale e che appare significativamente condizionato dalla sua genesi storica. Il 41-bis, infatti, rimanda, nella nostra coscienza collettiva, a una stagione sanguinosa di attacco alle istituzioni dello Stato; sicché ogni critica dell’esistente viene a volte interpretata, non sempre in buona fede, come un inaccettabile cedimento alle forme più pericolose di criminalità, sino ad essere addirittura bollata come una sorta di tradimento di chi ha sacrificato la propria vita per lo Stato. In molte analisi, poi, si avverte il riflesso di giudizi preconcetti, a partire da posizioni opposte sulle questioni del carcere. Su un versante vi sono coloro che, partendo dalla esclusiva considerazione, certamente unilaterale, della persona detenuta e dei suoi diritti, qualificano il 41-bis come una sorta di tortura di Stato, una forma legalizzata di violazione dei diritti fondamentali, tale da incidere sulla dignità di chi vi è sottoposto. Sull’altro versante, si collocano quanti ritengono tali limitazioni del tutto giustificate, non già in ragione degli scopi attribuiti all’istituto, consistenti nell’impedire che i capi di pericolose aggregazioni criminali possano continuare a dirigerle dal carcere, ma unicamente per la gravità dei reati che costoro hanno commesso e per la pericolosità che essi, pur detenuti, ancora esprimono, ritenute tali da giustificare, con una evidente torsione dei principi generali dell’ordinamento, una maggiore durezza della pena loro inflitta.
Compito del ceto dei giuristi, studiosi e operatori pratici, è quello di compiere analisi razionali che diano conto dei problemi, che indubbiamente esistono, e che siano in grado di suggerire possibili soluzioni, con l’obiettivo - sempre affermato, ma spesso non realizzato - di trovare un equilibrio accettabile tra un istituto di cui non possiamo ancora fare a meno e i diritti fondamentali delle persone che vi sono sottoposti. Diritti che la matrice personalistica del nostro sistema costituzionale impone di riconoscere a qualunque cittadino, fosse anche l’autore del crimine più efferato. Quello qui proposto vuole essere un tentativo in tale direzione.
Sommario (prima parte): 1. All’origine dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. 1.1. L’art. 90 Ord. pen. - 1.2. Il decreto legge 8 giugno 1992, n. 306. - 1.3. La prima fase di applicazione dell’art. 41-bis Ord. pen. - 1.4. Le sentenze della Corte costituzionale degli anni ’90. - 1.5. Le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo tra gli anni ‘90 e i primi anni 2000. - 1.6. Le novità normative sul finire degli anni ‘90. - 2. Le modifiche dell’articolo 41-bis introdotte dalla legge n. 279 del 2002. - 3. Le modifiche del 2009 - 3.1. I destinatari del provvedimento. - 3.2. I contenuti del regime differenziato. - 4.1. Le circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. - 5. La disciplina delle proroghe del regime differenziato. - 6. La tutela giurisdizionale.
1. All’origine dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario.
1.1. L’art. 90 Ord. pen.
Con l’approvazione della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà (di seguito Ord. pen.), il nostro Paese salutò la conclusione del grande processo politico-culturale ispirato dal movimento per la riforma penitenziaria, che aveva finalmente messo al centro del sistema normativo la persona detenuta e i suoi bisogni, quali punti di partenza per una serie articolata di interventi istituzionali (il cd. welfare penale) volti a realizzare l’obiettivo costituzionale del reinserimento sociale degli autori di reati. Nondimeno, lo stesso legislatore della riforma, prendendo atto del clima estremamente difficile all’epoca esistente all’interno degli istituti penitenziari, aveva previsto, all’art. 90, che, in presenza di gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza all’interno delle strutture penitenziarie, le regole ordinarie del trattamento potessero essere temporaneamente sospese con provvedimento motivato del Ministro per la grazia e giustizia. Di tale facoltà fu ben presto fatta applicazione, motivata sia con il clima generale nelle carceri, contrassegnato da frequenti evasioni[1] e rivolte, tanto da spingere il Governo a valutare la mobilitazione dell’esercito con compiti di vigilanza esterna degli istituti, sia con il deciso palesarsi dell’emergenza terroristica, all’esterno e all’interno delle strutture penitenziarie. Dopo che, nel maggio 1977, il Governo aveva individuato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa quale «incaricato del coordinamento dei servizi di sicurezza esterna degli istituti penitenziari», con il decreto interministeriale del 21 luglio 1977 furono istituite, su proposta dello stesso Dalla Chiesa e proprio in applicazione dell’art. 90 Ord. pen., i primi cinque carceri di “massima sicurezza” (Favignana, Asinara, Cuneo, Fossombrone e Trani) nei quali si intendeva esercitare un più efficace controllo sulla popolazione detentiva al fine di contrastare il formarsi di alleanze tra le associazioni terroristiche e la criminalità comune e/o organizzata e di interrompere i flussi comunicativi tra l’interno e l’esterno del carcere. In queste strutture penitenziarie (alle quali, dal dicembre del 1977, si aggiunsero quelle di Novara, Termini Imerese, Nuoro e Pianosa), le assegnazioni venivano compiute, senza alcuna forma di controllo giurisdizionale, nei confronti dei soggetti che si erano resi responsabili di gravi condotte all’interno degli istituti o che, all’esterno di essi, avevano commesso reati violenti o terroristici; e il relativo regime penitenziario si caratterizzava per un particolare rigore, in quanto le persone che vi erano ristrette pativano limitazioni nella partecipazione alle attività comuni (quali lo svolgimento di attività lavorative diverse da quelle «domestiche», la frequentazione della scuola o di biblioteche, la partecipazione alle attività di culto ecc., con l’unica eccezione costituita dalle «ore di passeggio»), nonché nei colloqui con i familiari, che venivano svolti attraverso un pannello divisorio per impedire il contatto fisico, sotto la sorveglianza da parte del personale del Corpo degli Agenti di custodia, peraltro in genere estesa alle 24 ore.
Benché l’istituzione dei primi istituti di massima sicurezza fosse stata giustificata, sul piano formale, attraverso il riferimento all’art. 90 Ord. pen. e, dunque, a una norma primaria, il concreto atteggiarsi del regime penitenziario attuato all’interno di tali strutture veniva definito dai singoli regolamenti di istituto, sia pure con modalità rese tendenzialmente uniformi da indicazioni offerte a livello centrale; con il risultato, quindi, che la disciplina dettata dalla legge penitenziaria veniva di fatto derogata con provvedimenti amministrativi assunti dal Responsabile del coordinamento dei servizi di sicurezza, sostanzialmente senza alcuna forma di controllo. Per tale ragione, dopo che, con la strage di via Fani, il fenomeno terroristico aveva fatto registrare il momento più drammatico dell’attacco al cuore dello Stato, con due decreti ministeriali del 22 dicembre 1982 l’art. 90 Ord. pen. divenne il perno su cui costruire, con una precisa indicazione della loro durata temporale, le limitazioni da applicare, negli istituti specificamente individuati, al regime detentivo dei soggetti che vi venivano assegnati; limitazioni che riguardavano la costante applicazione del visto di censura della corrispondenza, la sospensione delle comunicazioni telefoniche con i familiari e i terzi soggetti e della possibilità di ricevere pacchi dall’esterno del carcere, il divieto di partecipare all’organizzazione di attività culturali, ricreative e sportive, le particolari modalità di fruizione dell’aria aperta, non più consentita in gruppo, il divieto per il detenuto di acquistare genere alimentari a proprie spese. Pur avendo avuto, dunque, l’applicazione dell’art. 90 Ord. pen. il pregio di stabilire limiti e durata delle restrizioni, essa aveva finito per stabilizzare, anche per effetto di una serie di proroghe e dell’estensione dello statuto di specialità ad altri istituti (quali Torino, Ariano Irpino, Foggia, Voghera), una modalità non ordinaria di organizzazione degli istituti, in maniera non coerente con il carattere eccezionale che, in origine, ne connotava la ratio[2]. Inoltre, da più parti era stato rilevato il possibile contrasto con i principi costituzionali di alcune sue misure, in specie per quanto riguarda la disciplina della censura della corrispondenza (sottratta all’autorità giudiziaria) e la vera e propria sostituzione con disposizioni amministrative di alcune norme previste dalla legge penitenziaria, come quelle relative alla disciplina della fruizione dell’aria aperta[3].
Anche per tale ragione, dopo che, nel corso del 1984, alcuni decreti avevano ridotto il numero dei carceri speciali a soli 3 istituti (Spoleto, Foggia e Carinola) e avevano eliminato alcune restrizioni (in relazione alle attività scolastiche, culturali e ricreative, alle modalità dei colloqui con i familiari, ora consentiti senza i pannelli divisori e alla censura della corrispondenza epistolare, finalmente rimessa alla competenza dell’autorità giudiziaria), con l’art. 10 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (cd. legge Gozzini), l’art. 90 Ord. pen. fu abrogato; e al suo posto fu introdotto l’art. 41-bis Ord. pen., rubricato «situazioni di emergenza». Con tale nuova disposizione si stabiliva, al comma 1, che «in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza» il Ministro di grazia e giustizia potesse disporre, nell’intero istituto penitenziario o in una parte di esso, la sospensione delle regole di trattamento dei detenuti e degli internati.
Contemporaneamente, al fine di rafforzare gli strumenti di gestione della cd. pericolosità penitenziaria, riconducibile a gravi forme di aggressione del personale o di altri detenuti, il legislatore introdusse l’art. 14-bis Ord. pen., che consegnava all’Amministrazione penitenziaria, con la possibilità un controllo giurisdizionale successivo, il potere di sottoporre a una modalità individualizzata di trattamento, per un periodo non superiore a sei mesi (ma prorogabile, anche più volte, per non più di tre mesi), i condannati, gli internati e gli imputati che, con le loro condotte, compromettessero la sicurezza o turbassero l’ordine negli istituti; che con la violenza o minaccia impedissero le attività degli altri detenuti o internati; che nella vita penitenziaria si avvalessero dello stato di soggezione degli altri detenuti nei loro confronti; o che avessero tenuto comportamenti particolari in occasione di precedenti carcerazioni o anche in libertà, indipendentemente dall’imputazione. In questo modo, la legge Gozzini differenziò la questione della gestione di fenomeni collettivi di turbamento dell’ordine e della sicurezza, da quella della pericolosità penitenziaria del singolo detenuto, correlata a una situazione di rischio per l’ordine e la sicurezza interne all’istituto e non rispetto alla situazione esterna ad esso.
1.2. Il decreto legge 8 giugno 1992, n. 306.
In questo scenario irruppe la drammatica stagione delle stragi di mafia, che diede origine al decreto legge 8 giugno 1992, n. 306 (convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356). Accanto alla ulteriore stretta rispetto all’accesso ai benefici penitenziari per gli autori di reati di criminalità organizzata, in specie mafiosa, già avviata dal decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 (convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203), fu prevista, con l’introduzione del comma 2 dell’41-bis Ord. pen., la facoltà per il Ministro di grazia e giustizia, anche a richiesta del Ministro dell’interno, di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge penitenziaria che potessero porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti previsti dal comma 1 dell’art. 4-bis Ord. pen, sempre che ricorressero gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica.
Tale modifica segnò una indiscutibile evoluzione delle misure limitative delle regole ordinarie del trattamento, da una dimensione strettamente penitenziaria, propria dell’art. 14-bis e del comma 1 dell’art. 41-bis Ord. pen, a quella extramuraria[4]. Infatti, il riferimento, contenuto nel comma 2 dell’art. 41-bis Ord. pen., ai «gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica» certificava come la ratio dell’istituto andasse ora rinvenuta nella necessità di garantire la tutela della collettività esterna, quale tassello di una più ampia strategia di contrasto della criminalità organizzata, sganciando le limitazioni al trattamento penitenziario da una dimensione attinente alla sola sicurezza interna al carcere[5]. In altri termini, con l’introduzione del comma 2, la ratio della sospensione delle ordinarie regole del trattamento penitenziario era diventata quella di impedire ai soggetti che vi venivano sottoposti di mantenere un legame e, soprattutto, un canale comunicativo con i gruppi criminali sul territorio. Ciò sul presupposto, confermato dalla prassi giudiziaria, per cui la detenzione ordinaria non si era dimostrata in grado di rompere il vincolo associativo, né di impedire che i vertici delle organizzazioni mafiose continuassero a esercitare, durante la carcerazione, un’attività di direzione del sodalizio di appartenenza[6].
1.3. La prima fase di applicazione dell’art. 41-bis Ord. pen.
In questa prima fase, l’art. 41-bis Ord. pen. non definiva in alcun modo i contenuti del provvedimento ministeriale, lasciato sostanzialmente alle scarne indicazioni che l’Amministrazione penitenziaria forniva con le sue circolari, a partire da quella n. 3359/5809 del 21 aprile 1993. Essa, nel disciplinare l’organizzazione dei diversi circuiti penitenziari, stabiliva, con riferimento ai detenuti sottoposti al regime dell’art. 41-bis Ord. pen, che le restrizioni già previste per il circuito della cd. «alta sicurezza» dovessero essere ad essi applicate «con maggiore rigore» e che, nei loro confronti, dovesse essere espresso un giudizio negativo per quanto riguarda la liberazione anticipata, i colloqui e le telefonate premiali, e non potessero ammettersi i colloqui con assistenti sociali, educatori e psicologi, né, tantomeno, con volontari o altri attori della società esterna. Inoltre, tali soggetti dovevano essere obbligatoriamente assegnati «alle apposite sezioni degli istituti di Asinara, Pianosa, Cuneo, Ascoli Piceno e Spoleto», non potendo essere ristretti insieme agli altri detenuti.
1.4. Le sentenze della Corte costituzionale degli anni ‘90[7].
Dunque, in origine nemmeno le circolari dell’Amministrazione penitenziaria contenevano una disciplina di dettaglio dei contenuti del provvedimento ministeriale, che pertanto poteva disporre qualunque restrizione che potesse ritenersi motivata dalle esigenze di ordine e di sicurezza pubblica.
Anche per questa ragione la Corte costituzionale, in questi anni ripetutamente sollecitata, intervenne per definire le coordinate fondamentali dell’istituto, al fine di ricondurlo in un alveo di compatibilità costituzionale rispetto alle previsioni che, in maniera più accentuata, si ponevano in tensione con i principi generali dell’ordinamento.
In particolare, con la sentenza n. 349 del 1993, la Consulta affermò che l’adozione di eventuali provvedimenti che introducessero ulteriori restrizioni rispetto a quelle ordinarie o che, comunque, modificassero il grado di privazione alla libertà personale, dovesse rispettare le garanzie della riserva di legge e di giurisdizione espresse dall’art. 13 Cost., non potesse consistere in misure contrarie al senso di umanità e al diritto di difesa e dovesse uniformarsi ai principi di proporzionalità e individualizzazione della pena sanciti dall’art. 27, primo e terzo comma e dall’art. 3 Cost. Pertanto, il provvedimento ministeriale di sospensione doveva riguardare solo gli istituti dell’ordinamento penitenziario di competenza dell’Amministrazione penitenziaria e relativi al regime di detenzione in senso stretto. Inoltre, il regime differenziato doveva giustificarsi sia per le necessità di rieducazione del detenuto, sia per quelle di tutela della sicurezza e dell’ordine, dovendo essere motivato per ciascuno dei detenuti cui era rivolto, in modo da consentire all’interessato un’effettiva tutela giurisdizionale attraverso il reclamo al giudice ordinario[8] sotto il profilo della proporzionalità delle misure adottate e del rispetto di situazioni soggettive non comprimibili[9].
A quest’ultimo proposito, con la sentenza n. 410 del 1993, la Corte costituzionale individuò nella procedura di reclamo prevista dall’art. 14-ter Ord. pen. quella applicabile anche ai provvedimenti che disponevano il regime dell’art. 41-bis.
Successivamente, con la sentenza 18 ottobre 1996, n. 351 la Consulta, andando di diverso avviso rispetto all’interpretazione accolta dalla Corte di cassazione (secondo cui i provvedimenti di applicazione del regime differenziato erano reclamabili davanti al tribunale di sorveglianza soltanto per valutare l’esistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 41-bis Ord. pen.), affermò che il tribunale doveva ritenersi investito anche del controllo sul contenuto del provvedimento di sospensione, onde verificare la congruità delle misure adottate rispetto all’esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza, dovendo riconoscersi, in caso di riscontro negativo, che la deroga all’ordinario regime carcerario era ingiustificata e che, pertanto, essa assumeva una portata puramente afflittiva. Pertanto, lo stesso tribunale poteva disapplicare, in tutto o in parte, il provvedimento ministeriale, in quanto investito di una giurisdizione di natura non impugnatoria, avente ad oggetto i diritti e il trattamento del detenuto. Con la stessa sentenza, inoltre, la Consulta affermò un principio fondamentale di questa materia, sempre ribadito nei successivi pronunciamenti, ovvero che con il regime differenziato «non possono disporsi misure che per il loro contenuto non siano riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza, o siano palesemente inidonee o incongrue rispetto alle esigenze di ordine e di sicurezza che motivano il provvedimento». Tali misure infatti «non risponderebbero più al fine per il quale la legge consente che esse siano adottate, ma acquisterebbero un significato diverso, divenendo ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale».
Infine, con la sentenza n. 376 del 1997, la Corte costituzionale evidenziò che l’applicazione del regime differenziato non poteva comportare la sospensione delle attività di osservazione e trattamento previste dall’art. 13 Ord. pen., né la preclusione alle altre attività volte alla rieducazione del detenuto, che avrebbero dovuto essere comunque organizzate con modalità idonee a impedire contatti con altri detenuti e da non favorire i collegamenti con l’organizzazione criminale[10]. Nel frangente, la Consulta, oltre a ribadire che i decreti applicativi del regime differenziato dovevano essere «concretamente giustificati in relazione alle predette esigenze di ordine e sicurezza», affermò che «da un lato, il regime differenziato si fonda non già astrattamente sul titolo di reato oggetto della condanna o dell’imputazione, ma sull’effettivo pericolo della permanenza di collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati costituiscono solo una logica premessa»; e che «dall’altro lato, le restrizioni apportate rispetto all’ordinario regime carcerario non possono essere liberamente determinate, ma possono essere – sempre nel limite del divieto di incidenza sulla qualità e quantità della pena e di trattamenti contrari al senso di umanità – solo quelle congrue rispetto alle predette specifiche finalità di ordine e di sicurezza»[11].
1.5. Le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo tra gli anni ‘90[12] e i primi anni 2000.
Nei primi anni di vigenza dell’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen., la Corte europea dei diritti dell’uomo fu investita, ripetutamente, della questione della compatibilità dell’istituto o di sue singole disposizioni con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.
In tale periodo, la Corte di Strasburgo, pur individuando talune linee di faglia nella disciplina dell’art. 41-bis, si assestò sulla posizione secondo cui il regime differenziato non era contrario, in linea di principio, alle statuizioni della Convenzione e in particolare all’art. 3 C.E.D.U., pur richiamando sempre, sin dai suoi primi pronunciamenti, la necessità di verificare, in concreto e caso per caso, se le varie statuizioni avessero una base legale[13], nonché se esse fossero congrue con la finalità dell’istituto di recidere i legami con la criminalità organizzata e proporzionate alla gravità del reato commesso dal soggetto sottoposto a tale regime[14].
Inoltre, in particolare con la sentenza Labita, la Corte EDU pose in luce, con affermazione di principio sempre ribadita nei successivi pronunciamenti, che il regime differenziato poteva concretizzarsi in trattamenti «inumani» e «degradanti» quando le limitazioni applicate raggiungessero una soglia consistente di gravità, che andasse al di là dell’afflizione derivante dalla semplice detenzione in carcere, dovendo all’uopo valutarsi «la durata del trattamento e dei suoi effetti fisici o psicologici nonché, talvolta, il sesso, l’età e lo stato di salute della vittima»[15].
Infine, con la sentenza Messina/Italia[16], la Corte di Strasburgo evidenziò i punti di frizione tra il regime delle tutele giudiziali previsto dal nostro ordinamento e le garanzie contemplate dall’art. 13 della Convenzione E.D.U. in punto di effettività della tutela, atteso che i ritardi nelle decisioni sui reclami erano tali da privare di efficacia lo strumento del reclamo, avendo la giurisprudenza interna qualificato come non perentorio il termine di 10 giorni entro cui esse dovevano essere assunte e intervenendo, in genere, le decisioni della Corte di cassazione dopo che l’originario provvedimento ministeriale aveva perso la sua efficacia. Tanto più che il Ministro di grazia e giustizia non era vincolato dalla decisione con cui il tribunale di sorveglianza aveva revocato le disposizioni del provvedimento, potendo ripristinare, alla scadenza di esso, le precedenti limitazioni con un nuovo provvedimento di sospensione.
1.6. Le novità normative sul finire degli anni ‘90.
Facendosi carico dei rilievi espressi dalla giurisprudenza costituzionale, l’art. 4 della legge 7 gennaio 1998, n. 11 introdusse, all’art. 41-bis Ord. pen., un comma 2-bis con il quale si prevedeva espressamente che avverso i provvedimenti del Ministro di grazia e giustizia emessi a norma del comma 2 potesse essere proposto reclamo al tribunale di sorveglianza avente giurisdizione sull’istituto al quale il condannato, l’internato o l’imputato era stato assegnato.
Nella stessa prospettiva, con decreto in data 4 febbraio 1997 del Ministro di grazia e giustizia e con le circolari n. 5931938 del 7 febbraio 1997 e n. 538429-1-1 del 30 aprile 1997 venne compiuta una riorganizzazione delle Sezioni relative al regime differenziato proprio alla luce delle sentenze della Corte costituzionale, statuendosi: la possibilità che i detenuti sottoposti al regime differenziato effettuassero una conversazione telefonica mensile, sottoposta a registrazione, con i familiari e i conviventi, presenti nel luogo designato dall’Amministrazione, sempre che nel mese non avessero svolto i colloqui visivi, considerati alternativi al colloquio telefonico; la facoltà di ricevere un ulteriore pacco mensile e due pacchi annuali straordinari; la possibilità di utilizzare fornelli personali per la preparazione di bevande e per riscaldare cibi già cotti, somministrati dall’Amministrazione penitenziaria. Inoltre, la stessa Amministrazione riconobbe il potere dei tribunale di sorveglianza di sindacare le singole disposizioni dal provvedimento amministrativo e di modificarle quando queste ledessero i diritti dei detenuti.
Con la successiva circolare D.A.P. n. 543884/1/1 del 6 febbraio 1998, furono disciplinati alcuni aspetti specifici relativi al trattamento differenziato, venendo, in particolare, prevista la possibilità per i detenuti di permanere fuori dalla cella, in piccoli gruppi, per quattro ore giornaliere, di cui due da trascorrere negli spazi adibiti alla socialità, rinviando ad appositi ordini di servizio la definizione delle modalità del movimento all’interno degli istituti, onde evitare contatti con i detenuti comuni. Inoltre, la circolare ribadì la necessità di limitare i colloqui visivi, che dovevano essere effettuati in apposite sale munite di vetro divisorio, in modo da non consentire il passaggio di oggetti. Per le stesse ragioni, fu vietato ai detenuti sottoposti a tale regime di acquistare generi alimentari al sopravvitto e di ricevere generi alimentari dall’esterno, nonché il possesso e l’uso di apparecchi radio, potenzialmente utilizzabili per comunicare con l’esterno. Con questo intervento, l’Amministrazione realizzò, per la prima volta in maniera organica, una disciplina dei contenuti del regime differenziato, inaugurando una modalità operativa sempre seguita anche negli anni successivi, la quale ha suscitato critiche per il ricorso, in una materia che riguarda diritti fondamentali della persona detenuta, a uno strumento di auto-organizzazione come quello della circolare.
2. Le modifiche dell’articolo 41-bis introdotte dalla legge n. 279 del 2002.
Anche le nuove disposizioni posero in luce forti criticità, connesse, da un lato, alla eccessiva genericità sia dei presupposti di applicazione del regime differenziato, sia delle regole di trattamento suscettibili di sospensione, sostanzialmente rimesse alle determinazioni dell’Amministrazione; e, dall’altro lato, alla necessità di una disciplina più puntuale delle proroghe di un regime che, originariamente “pensato” come temporaneo, si avviava a diventare, per molti, definitivo.
Con la legge 23 dicembre 2002, n. 279, vennero, quindi, sostituiti i commi 2 e 2-bis con gli attuali commi da 2 a 2-sexies. In questo modo venne stabilito: quanto alla platea dei soggetti sottoponibili al regime differenziato, che essi andassero identificati non più nei soli imputati o condannati per il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso, ma negli imputati, condannati o internati per i delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen. e sempre che ricorressero «elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva»; l’obbligo di motivazione della decisione da parte del Ministro della giustizia, in modo da consentire di verificare la rispondenza delle limitazioni alle finalità dell’istituto; la necessità di una complessa attività istruttoria, consistente nell’acquisizione di un parere, non vincolante, da parte dell’ufficio del pubblico ministero procedente o di quello presso il giudice procedente, nonché l’acquisizione di ogni altra necessaria informazione presso la Direzione nazionale antimafia e presso gli organi di polizia centrali e specializzati nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, terroristica o eversiva; la durata minima e massima del provvedimento ministeriale, non inferiore a un anno e non superiore a due anni, salva la possibilità di proroga per periodi non superiori a un anno; la possibilità di una revoca, sempre con decreto motivato e anche di ufficio, quando venissero meno le condizioni di adozione del provvedimento. Inoltre, con l’abrogazione, ad opera dell’art. 3, dell’art. 29 del decreto legge 8 giugno 1992 n. 306, l’istituto, la cui originaria vigenza, limitata a tre anni da quel decreto, era stata nel frattempo ripetutamente prorogata[17], fu stabilizzato, cessando di essere una misura temporanea.
Ma soprattutto, l’intervento normativo del 2002 codificò, al comma 2-quater dell’art. 41-bis, i contenuti del regime differenziato, definiti quantomeno nelle coordinate essenziali, poi specificate dalle previsioni minute contenute nelle circolari del Dipartimento.
Nel dettaglio, con la lett. a) del comma 2-quater si stabilì che nei confronti dei detenuti sottoposti al regime differenziato venissero adottate misure di elevata sicurezza interna ed esterna, allo scopo, «principalmente», di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di riferimento, i contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, l’interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione criminale ovvero ad altre ad essa alleate. In particolare, l’uso dell’avverbio «principalmente» suscitò non poche perplessità, atteso che, sul piano testuale, avrebbe potuto autorizzare l’adozione di misure restrittive non soltanto allo scopo di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza ma anche per altre ragioni, in chiaro contrasto con le indicazioni della Corte costituzionale, secondo cui la finalità dell’istituto consiste nel recidere i legami del detenuto con la criminalità organizzata. Tuttavia, come si vedrà, tale avverbio ha resistito anche ai successivi interventi di modifica che hanno interessato l’art. 41-bis Ord. pen.; ed è su tale tema, mai risolto, che si appuntano molti dei rilievi da parte dei critici dell’attuale assetto normativo.
Inoltre, il comma 2-quater previde espressamente: la possibilità di effettuare colloqui, con i soli familiari e conviventi, in un numero non inferiore a uno e non superiore a due al mese, da svolgersi a intervalli determinati e in luoghi attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti (e, dunque, con la presenza del vetro divisorio), con la possibilità di incontrare terze persone soltanto in casi eccezionali determinati di volta in volta dal direttore dell’istituto (o dal giudice della cautela per gli imputati prima della sentenza di primo grado) e salva la possibilità di autorizzare, con provvedimento motivato del direttore o dall’autorità giudiziaria procedente, dopo i primi sei mesi di applicazione del regime differenziato, un colloquio telefonico mensile, sottoposto a registrazione, con i familiari e i conviventi della durata massima di dieci minuti (lett. b); la limitazione della disponibilità di beni, oggetti e somme di denaro ricevuti dall’esterno (lett. c); la esclusione dalla partecipazione alle rappresentanze dei detenuti e degli internati previste all’art. 9 Ord. pen. (lett. d); la possibilità di fruire di non più di 4 ore d’aria al giorno e in gruppi di persone non superiori a cinque (lett. f). La limitazione della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia (lett. e), poteva, invece, essere disposta solo dall’autorità giudiziaria competente ai sensi dell’art. 18 Ord. pen., non potendo il Ministro disporre autonomamente, in tale materia, in forza della duplice riserva di legge e di giurisdizione posta dall’art. 15, secondo comma, Cost. Inoltre, riprendendo le indicazioni della Corte costituzionale, fu stabilito che l’applicazione del regime differenziato non potesse mai comportare la sospensione dell’attività di osservazione e trattamento individualizzato prevista dall’art. 13 Ord. pen., né precludere al detenuto la partecipazione ad attività rieducative culturali, ricreative, sportive e di altro genere, ferma la necessità di organizzare tali attività «con modalità idonee ad escludere o a ridurre al minimo i rischi dei contatti o dei collegamenti che il provvedimento ministeriale tende a prevenire. Tutto questo per valutare la partecipazione del detenuto all’opera di rieducazione ai fini della liberazione anticipata»[18].
La riforma del 2002, infine, disciplinò il regime d’impugnabilità del provvedimento ministeriale, conferendo la legittimazione attiva alla proposizione del reclamo, entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento, al detenuto o internato e al suo difensore; e individuando come tribunale di sorveglianza competente a decidere, nelle forme del procedimento di sorveglianza previste dagli artt. 666 e 678 cod. proc. pen., quello avente giurisdizione sull’istituto di pena in cui l’interessato risultava assegnato al momento del provvedimento. La decisione del tribunale, inoltre, risultava ricorribile per cassazione, fermo restando che il ricorso non sospendeva l’esecuzione del provvedimento impugnato. Rispetto a tale regime, peraltro, rimanevano intatte le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale sotto la vigenza della precedente disciplina, ovvero che il sindacato esercitato dal tribunale di sorveglianza aveva natura di legittimità e non di merito e doveva estendersi alla verifica sia della congruità tra il provvedimento nel suo complesso o in sue singole statuizioni e la finalità di salvaguardia delle esigenze di ordine e sicurezza, consistenti nell’impedire i collegamenti con l’associazione criminale, sia della compatibilità tra le limitazioni e i diritti fondamentali della persona; con la possibilità di una disapplicazione delle limitazioni che non presentassero tale carattere, pur senza poterne, tuttavia, modificare il contenuto[19].
3. Le modifiche del 2009[20].
Nel 2009, nel contesto una stagione di produzione normativa segnata dai cd. pacchetti sicurezza, fu approvata la legge n. 94 del 15 luglio 2009 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), con la quale il Parlamento, con il dichiarato intento di «ripristina[re] l’originario rigore del regime di detenzione» al fine di «rendere ancor più difficile ai detenuti – in particolare ai condannati per il reato di associazione mafiosa – la possibilità di mantenere collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza»[21], dispose l’ampliamento della platea dei destinatari, l’inasprimento dei contenuti del regime differenziato, una compressione dell’intervento giurisdizionale[22].
Quello del 2009 è stato l’ultimo “grande” intervento di riforma dell’art. 41-bis Ord. pen., che, nella sostanza, ne ha codificato struttura tuttora esistente, così come interpolata, ovviamente, dai ripetuti interventi della Corte costituzionale avvenuti tra il 2013 e il 2022, su cui ci si soffermerà più avanti, che hanno riconosciuto l’irragionevolezza di talune limitazioni prevista dalla legge in relazione, ancora una volta, agli scopi per cui l’istituto è stato previsto[23].
In particolare, il testo stabilisce che i detenuti sottoposti al regime differenziato siano ristretti all’interno di istituti ad essi esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, o comunque all’interno di sezioni speciali, logisticamente separate dal resto dell’istituto, e che essi siano custoditi da reparti specializzati della Polizia penitenziaria, ovvero dal Gruppo operativo mobile di tale corpo di polizia[24].
3.1. I destinatari del provvedimento.
Secondo l’attuale formulazione del comma 2 dell’art. 41-bis Ord. pen., il regime differenziato può essere disposto, con provvedimento del Ministro della giustizia, nei confronti di singoli detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’art. 4-bis ord. pen. o, comunque, «per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso», in relazione ai quali vi siano «elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva»[25]. Dopo la modifica del 2009, ponendo fine a una dibattuta questione giurisprudenziale[26], è stata affermata la regola secondo cui «[i]n caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, il regime carcerario speciale può essere disposto anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nel suddetto art. 4-bis».
3.2. I contenuti del regime differenziato.
Si è detto che con il provvedimento ministeriale che dispone l’applicazione del regime differenziato possono essere sospese, in tutto o in parte, le sole regole del trattamento e gli istituti previsti dalla legge penitenziaria che, in concreto, si pongano effettivamente in contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza, o, più correttamente, con la necessità di impedire i collegamenti con l’associazione criminale di riferimento. Ciò in quanto, secondo le già richiamate pronunce della Corte costituzionale, deve esservi un rapporto di perfetta congruità tra le limitazioni adottate e le necessità che conducono all’adozione del provvedimento, posto che, diversamente, esse assumerebbero un carattere meramente afflittivo e non sarebbero giustificate[27].
Quanto al concreto contenuto delle limitazioni e al fine di circoscrivere la discrezionalità amministrativa (e, prospetticamente, l’intervento giurisdizionale in sede di reclamo), l’art. 41-bis, comma 2-quater, Ord. pen., dopo la modifica del 2009, fa ricorso all’indicativo presente («prevede») in luogo della forma servile («può comportare») in precedenza prevista, definendo, dunque, il contenuto in termini obbligatori. Tuttavia, proprio perché il giudizio di congruità non riguarda la sola sottoposizione al regime differenziato, ma anche le varie limitazioni adottate, le quali devono essere calibrate sugli scopi della misura in rapporto alla specifica situazione del singolo soggetto, deve ritenersi che anche le varie prescrizioni possano essere formulate in maniera tale da corrispondere alle specifiche connotazione del singolo detenuto[28]. Nella pratica, nondimeno, questa articolazione individualizzata delle prescrizioni nel provvedimento applicativo non avviene, sostanzialmente, mai.
Per ovvie ragioni legate alla ratio dell’istituto, le specifiche limitazioni contemplate dal comma 2-quater concernono, in primo luogo, la disciplina dei colloqui, quanto ai destinatari, alla frequenza, alle modalità di esecuzione.
Il regime ordinario prevede che i detenuti/internati abbiano diritto a sei colloqui mensili con i familiari e conviventi (numero nel quale sono conteggiati anche quelli con terze persone eventualmente autorizzati dalla direzione o, se imputati, dall’autorità giudiziaria, quando ricorrano «ragionevoli motivi»: v. art. 37, comma 1, d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230). Un numero che scende a soli 4 colloqui mensili nel caso in cui il soggetto sia stato condannato o sia imputato per taluno dei delitti previsti dal primo comma dell’art. 4-bis Ord. pen. (v. art. 37, comma 8, d.P.R. n. 230 del 2000).
Per i soggetti sottoposti al regime differenziato, invece, il numero di colloqui si riduce drasticamente. Mentre la disciplina del 2002 prevedeva la possibilità di due colloqui mensili, dopo la riforma del 2009 il numero è stato ridotto a uno. Inoltre, la previsione, risalente al 2002, secondo cui i colloqui devono svolgersi a intervalli regolari, ha indotto l’Amministrazione penitenziaria a non autorizzare che gli stessi si svolgano, consecutivamente, alla fine del mese e all’inizio di quello successivo, secondo le richieste frequentemente avanzate dai detenuti al fine dichiarato di ridurre, per i familiari, l’incomodo di trasferte che possono essere, soprattutto in presenza di bambini e di anziani, tutt’altro che agevoli. E la giurisprudenza della Corte di cassazione ha ritenuto che la scelta dell’Amministrazione non fosse irragionevole, sul presupposto che l’accorpamento dei colloqui avrebbe reso, comunque, più facile realizzare forme di comunicazione non consentite tra il detenuto e il contesto criminale di provenienza, veicolabili proprio in occasione dei colloqui[29].
Ma, soprattutto, dopo la riforma del 2009 il colloquio deve essere sempre oggetto di videoregistrazione e di ascolto, anche in questo caso in deroga rispetto al regime ordinario, che vieta il controllo auditivo (mentre ammette la registrazione, senza ascolto, nei confronti dei detenuti o imputati per taluno dei delitti di cui all’art. 4-bis). L’ascolto, pur previsto obbligatoriamente dalla legge, deve essere comunque disposto dall’autorità giudiziaria, in virtù della doppia riserva, di legge e di giurisdizione, stabilita dall’art. 15, secondo comma, Cost.
Dopo i primi sei mesi di sottoposizione al regime differenziato, il colloquio visivo può essere da eventualmente sostituito da una telefonata della durata di soli dieci minuti.
Durante l’emergenza pandemica, la giurisprudenza di merito e di legittimità, andando di contrario avviso rispetto alle indicazioni dell’Amministrazione penitenziaria, ha consentito anche al detenuto in regime differenziato di effettuare colloqui visivi con i familiari mediante forme di comunicazione a distanza, ma soltanto in situazioni di impossibilità o, comunque, di gravissima difficoltà alla realizzazione dei colloqui in presenza (in argomento v. infra § 9.4).
In origine, il legislatore aveva, inoltre, previsto che con i difensori potesse effettuarsi, fino a un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari. Una disciplina che, come si dirà (v. infra § 7.2), è stata successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima.
Altra limitazione importante su cui è intervenuta la legge n. 94 riguarda la permanenza all’aria aperta. Mentre la legge del 2002 aveva stabilito che essa non potesse durare per più di quattro ore al giorno, fermo restando il limite minimo di 2 ore giornaliere previsto dall’art. 10 Ord. pen. (e salva la possibilità di ridurre tale periodo a non meno di 1 ora «soltanto per ragioni eccezionali»), la modifica del 2009 ha statuito, alla lett. f) del comma 2-quater, che la permanenza all’aperto debba avere una durata non superiore a due ore al giorno, fermo restando il limite minimo di cui al primo comma del citato art. 10; e che essa dovesse svolgersi in gruppi non superiori a quattro persone (cinque nel 2002). Come si vedrà, su questa materia, assai delicata per le sue connessioni con il diritto alla salute, fisica e psichica, della persona detenuta, sono intervenute varie pronunce della Corte di cassazione, che hanno accolto una interpretazione più ambia della durata minima della permanenza all’aperto, sino a un massimo di due ore (contro l’unica ora che era stata stabilita dall’Amministrazione penitenziaria); e, tuttavia, la scelta, maturata nel tempo dall’Amministrazione, di garantire tale possibilità soltanto a coloro i quali avevano fruttuosamente esperito i relativi strumenti di tutela ha finito per determinare, accanto al mancato riconoscimento dei diritti individuali, una situazione di totale confusione sul piano organizzativo, cui pare necessario porre, senz’altro, rimedio (v. infra § 9.2).
Inoltre, il legislatore del 2009 ha previsto l’adozione, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, delle misure necessarie a garantire la assoluta impossibilità di comunicare e di scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, nonché di cuocere cibi. Una disposizione sulla quale, come si dirà, si sono, ancora una volta, appuntate le ripetute censure della giurisprudenza, ordinaria e costituzionale.
Le limitazioni cui si è ora fatto cenno non possono incidere, per espressa indicazione normativa, sugli istituti trattamentali, non potendo le attività di osservazione e di trattamento individualizzato contemplate dall’art. 13 Ord. pen. essere sospese o soppresse, così come le attività rieducative di natura culturale, ricreativa o sportiva. Tuttavia, e questo è un elemento estremamente critico nell’attuale situazione penitenziaria che concerne le sezioni adibite al regime differenziato, non è infrequente che le attività trattamentali, se si eccettua la fruizione della socialità, siano pressoché inesistenti, finendo per prevalere, nella quotidiana gestione dei reparti, le esigenze di controllo proprie dell’istituto.
4.1. Le circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria[30].
Si è detto che, nel tempo, il legislatore è intervenuto a indicare gli ambiti su cui, in rapporto agli scopi propri del regime differenziato, si avvertiva la necessità di stabilire delle limitazioni alle regole ordinarie del trattamento. Una scelta, questa, certamente doverosa, tenuto conto del fatto che talune di tali limitazioni afferiscono a diritti di rango costituzionale, sicché la decisione di non rimettere la relativa selezione all’Autorità amministrativa ha rappresentato una necessità assoluta, al fine di garantire, in termini generali, la compatibilità dell’istituto con i principi fondamentali dell’ordinamento. Tuttavia, al di là delle scelte specifiche del legislatore, alcune delle quali fin dall’origine fortemente discutibili e puntualmente censurate in sede di giudizio di legittimità costituzionale, un profilo problematico attiene, senza dubbio, alla forte incidenza che sui diritti delle persone sottoposte al regime differenziato producono le disposizioni di circolare attraverso cui l’Amministrazione penitenziaria ha definito le sue scelte organizzative. E’, questo, un aspetto caratteristico e forsanche inevitabile di ogni modello detentivo, atteso che le forme dell’organizzazione penitenziaria, necessariamente rimesse alla potestà dell’Amministrazione, hanno evidenti riflessi sulla dimensione individuale dei diritti delle persone detenute non agevolmente declinabili da una normazione legislativa generale e astratta. Ma questo dato non può che trovare un adeguato contrappeso nel controllo giurisdizionale, che, rifuggendo da una pretesa, che talvolta affiora in alcune decisioni, di sostituirsi alle legittime soluzioni attraverso cui l’Amministrazione esercita i suoi poteri di auto-organizzazione, possa verificare la ragionevolezza delle relative scelte (ovvero la congruità rispetto agli scopi dell’istituto). Un controllo che non può essere formale e che deve accompagnarsi a un atteggiamento collaborativo dell’Amministrazione, che deve conformarsi alle statuizioni giurisdizionali e non esercitarsi in comportamenti dilatori o, peggio, elusivi[31].
Venendo alle disposizioni con cui l’Amministrazione penitenziaria ha concretamente declinato le limitazioni stabilite, in via di principio, dalla norma primaria, giova soffermarsi sulla circolare n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017[32], che ha fissato la disciplina di dettaglio oggi ancora in vigore; e che insieme ai decreti ministeriali concernenti organizzazione e compiti del Gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria[33], ovvero del personale che in concreto si occupa, specificamente, della gestione delle «Sezioni 41-bis», rappresenta l’ossatura della attuale disciplina amministrativa nella materia in esame.
La circolare, con i suoi 37 articoli, disciplina, in sostanza, ogni aspetto di dettaglio nella concreta organizzazione della vita delle sezioni e definisce gli spazi effettivi di libertà residua che le persone sottoposte al regime differenziato possono esercitare. Essa nasce dalla ritenuta necessità di uniformare il più possibile detta regolamentazione mediante disposizioni di carattere generale riguardanti «le modalità di contatto dei detenuti e degli internati sottoposti al regime tra loro e con la comunità esterna, con particolare riferimento ai colloqui con i minori; al dovere in capo al direttore dell’istituto di rispondere entro termini ragionevoli alle istanze dei detenuti; alla limitazione delle forme invasive di controllo dei detenuti ai soli casi in cui ciò sia necessario ai fini della sicurezza; alla possibilità di tenere, all’interno della camera detentiva, libri e altri oggetti utili all’attività di studio e formazione; alla possibilità di custodire effetti personali di vario genere, anche allo scopo di favorire l’affettività dei detenuti e il loro contatto con i familiari[34]». E ciò sia per favorire l’attività istituzionale del personale di Polizia penitenziaria dedicato, che secondo la previsione del decreto del Ministro della giustizia del 30 luglio 2020, ruota con cadenza periodica (da cui la denominazione di Gruppo operativo mobile) e che, dunque, deve avere dei riferimenti operativi sufficientemente stabili; sia per evitare forme di disparità di trattamento che, oltre a essere vietate dall’ordinamento penitenziario, possono innescare dinamiche gravemente disfunzionali all’interno della struttura detentiva.
Tuttavia, come meglio si dirà (v. infra § 8.4), l’intervento della magistratura di sorveglianza e, in generale, l’amplissimo contenzioso che ha interessato numerose disposizioni delle circolari, spesso oggetto di differenti interpretazioni sul territorio nazionale, ha di fatto determinato una notevole frammentazione nell’assetto regolativo in essere nelle varie realtà penitenziarie, alimentando un contenzioso infinito sul piano giurisdizionale, cui ha corrisposto, da parte della Corte di cassazione, una sostanziale riscrittura della disciplina relativa ad alcuni istituti giuridici. E ciò ha in gran parte pregiudicato sia l’obiettivo di garantire l’uniformità di applicazione del trattamento differenziato presso le varie sezioni detentive, sia la sua stessa idoneità ad assicurare funzionalità al regime detentivo in questione.
5. La disciplina delle proroghe del regime differenziato.
La legge del 2002 prevedeva, al comma 2-bis, che il provvedimento applicativo avesse una durata non inferiore a un anno e non superiore a due e che esso potesse essere prorogato per periodi successivi, ciascuno pari a un anno, salvo che non risultasse che la capacità del detenuto o dell’internato di mantenere contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive fosse venuta meno.
La riforma del 2009 ha, invece, stabilito che la prima applicazione del decreto duri quattro anni, dopo i quali la sottoposizione al regime differenziato può essere seguita da successive proroghe, ciascuna delle quali avente la durata di due anni.
Il decreto ministeriale di proroga deve essere motivato sulla base dell’accertata capacità della persona detenuta di mantenere contatti con l’organizzazione di appartenenza, da valutare in base a una serie di indici normativamente prestabiliti, quali: il suo profilo criminale, la posizione rivestita in seno all’associazione, la eventuale sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, la perdurante operatività del sodalizio criminale, il tenore di vita dei familiari, da valutare anche in rapporto all’esistenza di fonti di reddito lecite; gli esiti del trattamento penitenziario. Il legislatore ha peraltro precisato che, in ogni caso, il mero decorso del tempo è elemento da considerarsi di per sé neutro rispetto alla capacità del detenuto di mantenere contatti con l’associazione di riferimento o per dimostrare che la stessa non è più operativa.
Quello delle proroghe rappresenta, come si dirà, uno dei profili più critici dell’attuale assetto, considerato il rischio che, dopo la prima applicazione, le proroghe successive avvengano in maniera pressoché automatica[35]. Benché, come detto, la norma primaria preveda formalmente dei meccanismi di tutela giurisdizionale, gli elevati standard probatori richiesti dalla giurisprudenza e la deducibilità, in sede di ricorso per cassazione, della sola violazione di legge, rischiano di far sì il soggetto che vi è sottoposto possa uscire dal regime differenziato con estrema difficoltà. Nell’attuale panorama applicativo, infatti, sono assai frequenti i casi di sottoposizione all’art. 41-bis Ord. pen. da oltre vent’anni; e questo dato, al di là delle singole vicende, non può non suscitare, nell’osservatore attento e non prevenuto, giustificati interrogativi sull’attuale sistema.
6. La tutela giurisdizionale.
Si è detto che con la novella del 2009 è stata espressamente prevista la possibilità di proporre reclamo avverso il provvedimento applicativo e gli eventuali provvedimenti successivi di proroga al Tribunale di sorveglianza di Roma, il cui sindacato, secondo la lettera della norma, non sembrerebbe estensibile al giudizio di congruità delle limitazioni delle regole ordinarie di trattamento rispetto alle finalità dell’istituto. Tale valutazione, come ricordato, è stata però ammessa dalla Corte costituzionale, la quale ha ritenuto che rientrasse nell’ambito dei principi generali in materia di tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti il controllo sulla legittimità delle singole limitazioni alle regole di trattamento, in particolare con riferimento alla loro congruità rispetto alle finalità perseguite dal regime differenziato, oggi definitivamente rimesso alla “giurisdizione diffusa” dei magistrati di sorveglianza del luogo di detenzione[36]. Scelta ineccepibile sul piano sistematico, anche se foriera, come detto, di notevoli disomogeneità interpretative, che allo stato costituiscono, come si vedrà, un problema di notevole complessità.
[1] Nel solo mese di gennaio 1977 si registrarono ben 15 evasioni.
[2] Per un giudizio problematico sul sistema delle carceri speciali, v. G. La Greca, Documenti per una riflessione sugli istituti di “massima sicurezza”, in Foro it., 1983, II, pag. 473; T. Padovani, Ordine pubblico e Ordine penitenziario: un’evasione dalla legalità, in Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, a cura di V. Grevi, Bologna, 1981, pag. 285; Genghini, Sicurezza negli istituti penitenziari. Diritti soggettivi ed interessi legittimi del detenuto e loro tutela, in Diritto penitenziario e misure alternative, supplemento n. 1 e 2 della rassegna il Consiglio superiore della Magistratura, Roma, 1979.
[3] In argomento v. A. Gerini, S. Merlo, Profili di costituzionalità dell’articolo 90, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, 1985.
[4] Sulla compatibilità tra i due istituti, v. recentemente Sez. 1, n. 2555 del 27/09/2022, Attanasio, Rv. 283866 - 01.
[5] L. Cesaris, art. 41 bis o.p., in Ordinamento penitenziario, a cura di V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Padova, 2019, pagg. 536 ss. In argomento v. anche S. F. Vitello, Brevi riflessioni sull’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario nel più vasto contesto del sistema penitenziario, in Cass. Pen., 1994, pag. 2861; A. Morosini, L’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario: genesi e sviluppo di un regime detentivo differenziato, in Esecuzione penale e ordinamento penitenziario, a cura di P. Balducci - A. Marcillò, Milano, 2020.
[6] Sull’istituto nel primo periodo della sua applicazione v. L. Comucci, Lo sviluppo delle politiche penitenziarie dall’ordinamento del 1975 ai provvedimenti per la lotta alla criminalità organizzata, in Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, a cura di A. Presutti, 1994; V. GREVI, Verso un regime penitenziario progressivamente differenziato: tra esigenze di difesa sociale e incentivi alla collaborazione con la giustizia, in AA.VV., L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, 1994, pag. 3.
[7] Per l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale sull’art. 41-bis, v. A. Della Bella, Il “carcere duro” tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali. Presente e futuro del regime detentivo speciale ex art. 41-bis o.p., Milano, 2016, pagg. 139-158; L. Pace, Libertà personale e pericolosità sociale: il regime degli articoli 4-bis e 41-bis dell’ordinamento penitenziario, in I diritti dei detenuti nel sistema costituzionale, a cura di M. Ruotolo e S. Talini, Napoli, 2017, pagg. 408 ss.
[8] Va evidenziato che con riferimento alla possibilità di una tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti di applicazione del regime differenziato, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, con nota n. 9725/477765 in data 1/03/1993, precisò che l’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen. non prevedeva, per scelta del legislatore, la possibilità di esperire mezzi di impugnazione presso il magistrato o il tribunale di sorveglianza, ferma restando la facoltà del detenuto di adire il tribunale amministrativo regionale, secondo i principi generali della giustizia amministrativa.
[9] Sull’argomento, più di recente, V. Manca, Il principio di proporzionalità “cartina tornasole” per il regime del 41-bis O.P.: soluzioni operative e suggestioni de iure condendo, in Giurisprudenza penale (Rivista web), 2020.
[10] Su tale sentenza v. L. Cesaris, In margine alla sent. Corte cost. n. 367/1997 comma 2 ord. penit. Norma effettiva o norma virtuale?, in Cass. pen., 1998, pag. 3179.
[11] In argomento v. S. Ardita, Sub 41 bis, in L’esecuzione penale – Ordinamento penitenziario e leggi complementari, a cura di F. Fiorentin – F. Siracusano, Milano, 2019, pagg. 535-537.
[12] In argomento v. C. Minnella, La giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo sul regime carcerario ex art. 41 bis ord. penit. e la sua applicazione nell’ordinamento italiano, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2004, n. 3, pagg. 197 ss.
[13] Con la sentenza 6 aprile 2000, Labita/Italia, la Corte europea sottolineò come il detenuto sottoposto al regime differenziato non potesse essere assoggettato al visto di controllo sulla corrispondenza, incidente su un diritto contemplato dall’art. 8 C.E.D.U. non avendo detta misura alcun fondamento legale nell’art. 41-bis Ord. pen.
[14] V. Corte europea dei diritti dell’Uomo, 18 maggio 1998, Natoli/Italia, in Foro it., IV, 1998, pag. 321, con nota di G. La Greca, Diritti dell’uomo e regime dell’art. 41 bis ord. penit.; Corte europea 6 aprile 2000, Labita/Italia; Corte europea, 28 settembre 2000, Messina/Italia. Analoga posizione verrà poi ribadita da Corte europea, 27 marzo 2008, Guidi/Italia, proc. n. 28320/02 e, ancor prima, da Corte EDU, 30 ottobre 2003, Ganci/Italia, proc. n. 41576/98.
[15] Corte EDU, Grande Camera, Labita/Italia, 6 aprile 2000, proc. n. 26772/95. Su tale pronuncia v. G. La Greca, La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul caso Labita, in Rass. penit. crimin., 2000, I-III, pagg. 199 ss.
[16] Corte EDU, Sez. II, 28 settembre 2000, Messina/Italia, proc. n. 25498/94.
[17] L’art. 1, legge 16 febbraio 1995, n. 36, aveva prorogato il termine di applicazione dell’art. 41-bis Ord. pen. al 31 dicembre 1999. In seguito, la legge 26 novembre 1999, n. 446, aveva prorogato il termine al 31 dicembre 2000; e il decreto legge n. 341 del 2000, convertito nella legge 19 gennaio 2001, n. 4, aveva esteso la proroga al 31 dicembre 2002.
[18] Sulla disciplina dettata dalla legge del 2002, v. S. Ardita, Il nuovo regime dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, in Cass. pen., 2003, pagg. 4 e ss.; S. Ardita, La riforma dell’art. 41-bis o.p. alla prova dei fatti, in Cass. pen., 2004.
[19] Si vedano, su tali punti, le già citate sentenze della Corte costituzionale n. 351 del 1996, n. 376 del 1997.
[20] In argomento A. Della Bella, Il regime detentivo speciale del 41 bis: quale prevenzione speciale nei confronti della criminalità organizzata?, Milano, 2012; F. Corleone, A. Pugiotto, Volti e maschere della pena. Opg e carcere duro, muri della pena e giustizia riparativa, Roma, 2013, pagg. 161-221; P. Corvi, Trattamento penitenziario della criminalità organizzata, Padova, 2010.
[21] Così atti del Senato della Repubblica, n. 733-A, Relazione delle Commissioni permanenti 1ª e 2ª Riunite, pag. 7.
[22] C. Fiorio, Il trattamento penitenziario nei confronti degli appartenenti alla criminalità organizzata: artt. 4-bis e 41-bis ord. penit., in A. Bargi (a cura di), Il «doppio binario» nell’accertamento dei fatti di mafia, Torino, 2013, pag. 1161; F. Fiorentin, Regime penitenziario speciale del “41-bis” e tutela dei diritti fondamentali, in Rass. penit. crim., 2, 2013, pagg. 188-201.
[23] Sulle modifiche del 2009 vi era stato un “avvertimento” in occasione del Report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura sulla visita dal 14 al 26 settembre 2008.
[24] Secondo quanto stabilito dall’art. 3 (Struttura del G.O.M.) del d.m. 30 luglio 2020, il G.O.M. è un ufficio di livello dirigenziale non generale costituito nell’ambito dell’Ufficio del Capo del Dipartimento e che opera alle sue dirette dipendenze; si articola in un Ufficio centrale e in Reparti operativi mobili istituiti presso istituti penitenziari e servizi territoriali dell’Amministrazione penitenziaria per il tempo necessario all’espletamento del servizio in tali sedi. Secondo l’art. 2 del citato decreto, il G.O.M. provvede, tra l’altro, alla vigilanza e all’osservazione dei detenuti sottoposti al regime previsto dall’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen.; allo svolgimento di attività di controllo della corrispondenza, dei colloqui visivi e telefonici, del sopravvitto, della ricezione dei pacchi, nonché di ogni altro servizio riguardante i suddetti detenuti; alla vigilanza e osservazione dei detenuti che collaborano con la giustizia in quanto maggiormente esposti a rischio; alle traduzioni e ai piantonamenti di detenuti e internati ritenuti dalla Direzione generale dei detenuti e del trattamento ad elevato indice di pericolosità; tali servizi possono essere espletati, per motivi di sicurezza e riservatezza, con modalità operative anche in deroga alle vigenti disposizioni amministrative in materia; alla vigilanza e osservazione di detenuti per reati di terrorismo, anche internazionale, specificamente individuati dalla Direzione generale dei detenuti e del trattamento, anche se ristretti in regimi diversi da quello previsto dall’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen. Su disposizione del Capo del Dipartimento, il G.O.M. può essere impiegato: nei casi previsti dall’art. 41-bis, comma 1, Ord. pen.; in ogni altro caso di emergenza del sistema penitenziario.
[25] Oltre che nei confronti di soggetti o in espiazione di pena o in esecuzione di misura di sicurezza, il provvedimento applicativo può essere emesso anche nei confronti degli imputati in misura cautelare, posto che, in tal caso, le limitazioni imposte hanno natura di prevenzione e non sono in contrasto con la presunzione di non colpevolezza (v. Corte costituzionale, sentenze n. 376 del 1997 e n. 197 del 2021).
[26] In base alle statuizioni di Sez. U, n. 14 del 30/06/1999, Ronga, un primo indirizzo riteneva che il regime differenziato potesse permanere fintanto che il detenuto non avesse scontato la porzione di pena relativa alla condanna per uno dei reati per i quali è previsto l’art. 41-bis Ord. pen.; mentre secondo altro indirizzo della giurisprudenza di legittimità, si riteneva «irrilevante la circostanza che il condannato, detenuto in virtù di un cumulo comprensivo di pene per reati legittimanti l’applicazione del predetto regime e per altri reati, abbia già espiato la parte di pena relativa ai primi reati, tenuto conto non solo del principio di unicità della pena di cui all’art. 76, comma 1, c.p., ma anche delle specifiche finalità di ordine e sicurezza del regime differenziato» (così Sez. 1, 11/07/2008, Della Ventura, Rv. 240938).
[27] Sul tema delle applicazioni del principio di ragionevolezza sotto il profilo della idoneità della norma a raggiungere l’obiettivo ad essa conferito si veda A. Cerri, Spunti e riflessioni sulla ragionevolezza nel diritto, in Diritto pubblico, 2/2016, pagg. 625 ss.
[28] Una chiara indicazione in questo senso è stata recentemente fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 197 del 2021, ove è stato affermato, con specifico riferimento alla situazione degli internati, ma con affermazione di principio chiaramente generalizzabile, che i decreti applicativi debbano essere modulati in maniera diversa a seconda delle esigenze trattamentali dei singoli destinatari.
[29] Sez. 1, n. 5446 del 15/11/2019, dep. 2020, Amato, Rv. 278180 – 01; Sez. 1, n. 23945 del 26/06/2020, Rv. 279526 – 01.
[30] C. Fiorio, Le prescrizioni trattamentali e le fonti normative, dalla legge alla circolare amministrativa 2 ottobre 2017, in Giurisprudenza penale (Rivista web), 2020.
[31] L’obbligo dell’Amministrazione penitenziaria di dare esecuzione ai provvedimenti assunti dalla magistratura di sorveglianza a tutela dei diritti dei detenuti è stato affermato, come noto, da Corte cost. 7 giugno 2013, n. 135, in Dir. pen. cont., 2013, con nota di A. Della Bella, La Corte costituzionale stabilisce che l’Amministrazione penitenziaria è obbligata ad eseguire i provvedimenti assunti dal magistrato di sorveglianza a tutela dei diritti dei detenuti.
[32] In argomento si veda V. Manca, il Dap riorganizza il 41-bis o.p.: un difficile bilanciamento tra prevenzione sociale, omogeneità di trattamento e umanità della pena. Brevi note a margine della circolare Dap n. 3676/616 del 2 ottobre 2017, in Dir. pen. cont., 6 novembre 2017.
[33] Ci si riferisce ai decreti ministeriali del 19 febbraio 1999, del 4 giugno 2007 e del 30 luglio 2020.
[34] Quanto alla nozione di “familiari”, va ricordato che l’art. 16 della circolare DAP del 2 ottobre 2017 la circoscrive ai parenti entro il terzo grado. Per tale ragione la giurisprudenza ha escluso il colloquio con il figlio del nipote ex fratre, in quanto parente di quarto grado: Sez. 1, n. 9169 del 14/12/2022, dep. 2023, Mineo, Rv. 284066 - 01.
[35] Tale rischio era già stato evidenziato nel Report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura sulla visita dal 14 al 26 settembre 2008.
[36] V. Corte cost. n. 190 del 2010. In argomento F. Della Casa, Interpretabile secundum Costitutionem la normativa che ha dimezzato il controllo giurisdizionale sulla detenzione speciale?, in Giur. it., 2010, pagg. 2511 ss.; M. Ruotolo, Tra integrazione e maieutica: Corte costituzionale e diritti dei detenuti, in Rivista AIC, 3, 2016, pagg. 21-22.
Sommario: 1. Le tappe della vicenda giudiziaria - 2. Le motivazioni della sentenza - 3. Riflessioni, a margine della sentenza, sull’utilizzabilità del 41 bis per impedire la diffusione di messaggi pericolosi per la sicurezza pubblica.
1. Le tappe della vicenda giudiziaria
Con la sentenza della Cassazione 24 febbraio 2023, n. 13258 (dep. 29 marzo 2023) si è aggiunta una nuova tappa tassello alla vicenda giudiziaria di Alfredo Cospito: un caso sotto diversi punti di vista complesso, che – in ragione della sua esposizione mediatica – ha costituito l’occasione per il riaccendersi del dibattito pubblico, ed anche dell’interesse della dottrina, sul controverso istituto del 41 bis. Volendo riassumere in estrema sintesi tale tormentata vicenda, si può ricordare che Alfredo Cospito è detenuto dal 2012 in esecuzione di un cumulo di pene per varie condanne (tra cui associazione ed attentati per finalità di terrorismo o di eversione, reati in materia di armi, furto aggravato, danneggiamento, istigazione a delinquere) ed è anche, a far data dal 2016, in stato di custodia cautelare per una serie di reati tra cui il delitto di ‘strage politica’ ex art. 285 c.p. (per aver collocato e fatto esplodere alcuni ordigni esplosivi all’ingresso della Scuola Allievi Carabinieri di Fossano)[1]. A partire dal 4 maggio 2022, Cospito è poi sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis co. 2 ss. o. p. in ragione della sua particolare pericolosità e della capacità di mantenere contatti con esponenti dell’organizzazione eversiva di appartenenza. Contro il decreto ministeriale di applicazione di tale regime, la difesa del detenuto ha, da un lato, proposto reclamo al Tribunale di sorveglianza di Roma e ha, dall’altro, avanzato richiesta di revoca al Ministro della Giustizia. Entrambe le istanze sono state rigettate: dapprima, il Tribunale di sorveglianza con ordinanza del 1 dicembre 2022, poco tempo dopo, il Ministro della giustizia con decreto del 9 febbraio 2023. Contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza, è stato infine proposto ricorso per Cassazione, anch’esso rigettato con la sentenza oggetto di queste osservazioni.
Nel frattempo, come è a tutti noto, il detenuto, a far data dal 22 ottobre 2022, ha intrapreso uno sciopero della fame ancora oggi in atto per protestare contro il regime detentivo del 41 bis: in considerazione del grave pregiudizio alla salute determinato dal prolungato digiuno, i difensori del detenuto, che nel frattempo è stato trasferito presso il Reparto di Medicina Penitenziaria dell’Ospedale San Paolo di Milano, hanno richiesto al Tribunale di sorveglianza di Milano la concessione della detenzione domiciliare ex art. 47 ter co. 1 ter (ossia la misura domiciliare applicabile nei casi in cui si può disporre il rinvio obbligatorio o facoltativo della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 c.p.), richiesta anche questa rigettata in data 24 marzo 2023.
Occorre ancora ricordare, a dimostrazione della molteplicità delle questioni che la vicenda solleva, che il Ministro della giustizia (con evidente, seppur non esplicito, riferimento al caso di specie) ha posto al Comitato nazionale di bioetica un complesso quesito relativo alla possibilità di eseguire, in caso di imminente pericolo di vita, interventi di nutrizione e rianimazione contro la volontà, precedentemente espressa, di persona che abbia intrapreso uno sciopero della fame, con particolare riferimento alla situazione del soggetto privato della libertà personale: al quesito il Comitato ha risposto con un documento, datato 6 marzo 2023, nel quale si prende atto dell’impossibilità di assumere una posizione unitaria sul tema, essendosi evidenziate all’interno di tale organo una pluralità di opinioni tra loro non conciliabili.
2. Le motivazioni della sentenza
Con la sentenza in esame, la Corte di cassazione ha ritenuto in parte inammissibili ed in parte infondati i motivi di ricorso della difesa, la quale aveva eccepito che il Tribunale di sorveglianza non avesse motivato adeguatamente sulla sussistenza dei presupposti applicativi del regime detentivo speciale, tanto con riferimento all’accertamento della persistente operatività della associazione criminale di appartenenza, quanto con riferimento alla sussistenza di collegamenti tra il detenuto e i sodali operanti all’esterno.
Prima di entrare nel merito delle argomentazioni, la Corte di cassazione ha reputato necessario ricostruire l’evoluzione normativa dell’art. 41 bis e, per quanto più ci interessa, definire il perimetro del sindacato giudiziale sui decreti ministeriali di applicazione (e proroga) del regime detentivo speciale, così come delineato dalla giurisprudenza costituzionale e dalle più recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità. In un passaggio che risulta di particolare rilevanza per la questione su cui intendiamo concentrare l’attenzione, la Cassazione sottolinea che seppur la formulazione attuale dell’art. 41 bis – così come risultante dall’ultimo intervento di modifica operato con la legge 15 luglio 2009, n. 94 – limiti il sindacato del tribunale di sorveglianza alla ricorrenza dei presupposti applicativi, essendo stata eliminata la previsione di un controllo sulla “congruità del contenuto del provvedimento rispetto alle esigenze di sicurezza pubblica”, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che ciò non esime l’organo giudicante dal vagliare la funzionalità dell’imposizione del regime detentivo speciale rispetto al perseguimento delle finalità previste dalla disciplina normativa[2]. In questo senso si è quindi orientata la giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale ha sempre riconosciuto la sussistenza di un potere giudiziale di controllo in ordine al “collegamento funzionale tra le prescrizioni imposte e la tutela delle esigenze di ordine e di sicurezza”, affermando anche di recente che il controllo del tribunale di sorveglianza in sede di reclamo sui provvedimenti ministeriali di applicazione e proroga del 41 bis deve avere ad oggetto “l’accertamento della capacità del soggetto di mantenere collegamenti con la criminalità organizzata, la pericolosità sociale e il collegamento funzionale tra le prescrizioni imposte e la tutela delle esigenze di ordine e di sicurezza”[3].
Venendo ora al merito della sentenza, per quanto attiene al profilo della persistente operatività dell’associazione di cui il detenuto è ritenuto essere parte (ossia la FAI, Federazione Anarchica informale), la Cassazione ha ritenuto esaurienti le motivazioni del Tribunale, in quanto fondate su accertamenti giudiziali (le sentenze di condanna a carico di Cospito) che consentono di ritenere accertata la sussistenza e la vitalità dell’associazione fino ad epoca prossima all’applicazione del regime detentivo speciale[4].
Anche in relazione alla sussistenza di collegamenti con l’associazione di appartenenza, la Cassazione ha ritenuto adeguate le motivazioni dell’ordinanza impugnata. Sul punto, la difesa aveva contestato il fatto che la prova dei collegamenti fosse desunta esclusivamente dall’aver il detenuto fatto pervenire all’esterno scritti, poi pubblicati su riviste e siti internet, caratterizzati da una chiara ed innegabile valenza istigatrice, nei quali l’autore esortava i “compagni anarchici in libertà” a porre in essere azioni violente e ad intraprendere la strada dello scontro armato contro lo Stato. Nella sostanza, la difesa ha ritenuto che il regime del 41 bis sia stato utilizzato per uno scopo diverso da quello per il quale esso può essere legittimamente utilizzato: cioè non per impedire al detenuto di inviare messaggi o direttive criminose a specifici sodali all’esterno, pronti a mettere in atto i suoi propositi criminosi, ma piuttosto “per impedire al Cospito di continuare ad esternare il proprio pensiero politico, ovvero per sanzionare l’istigazione o comunque il proselitismo”; l’attività comunicativa del detenuto “apertamente diffusa all’esterno in incertam personam” sarebbe stata dunque illegittimamente equiparata ai messaggi criptici o ai pizzini, così operando – sempre secondo la prospettiva della difesa del detenuto – un’illegittima estensione del perimetro applicativo del regime detentivo. Né il Tribunale di sorveglianza avrebbe offerto una motivazione convincente circa il fatto che la pericolosità del detenuto si sarebbe potuta neutralizzare tramite strumenti meno afflittivi ma comunque idonei allo scopo, quali ad esempio la collocazione nel circuito dell’Alta sorveglianza, con sottoposizione a censura della corrispondenza.
Anche su questo punto la Cassazione non accoglie le tesi della difesa, ritenendo che la sussistenza dei collegamenti tra il detenuto e l’associazione di appartenenza possano ritenersi dimostrati sulla base di diversi elementi: innanzitutto, in ragione della posizione ricoperta da Cospito all’interno dell’associazione, avendo le sentenze relative ai diversi reati per i quali è condannato accertato senza possibilità di smentita il suo ruolo di “capo ed organizzatore” del FAI; in secondo luogo, in ragione dell’assiduità delle comunicazioni intrattenute durante la detenzione nel regime ordinario con le realtà anarchiche all’esterno del circuito carcerario, di cui gli scritti pubblicati su riviste e siti on line, rappresentano chiara prova, essendosi con essi perseguito l’obiettivo di sollecitare “i soggetti più predisposti alle azioni violente e (…) alla commissione di attentati”; ancora, alla luce dell’evidente seguito goduto da Cospito nell’ambiente anarchico-insurrezionalista, desumibile dalle plurime campagne di solidarietà organizzate dalle cellule anarchiche nel corso della sua detenzione, spesso tradottesi in atti di violenza e fatti costituenti reato. Per le stesse ragioni la Suprema Corte ha ritenuto adeguatamente dimostrato il fatto che il detenuto, una volta collocato nel regime detentivo ordinario, avrebbe continuato ad essere il punto di riferimento per gli accoliti all’esterno e che dunque il regime detentivo ordinario (anche nel circuito dell’Alta sicurezza), non sarebbe stato idoneo a contrastare adeguatamente la pericolosità del detenuto.
Quanto infine alla tesi secondo cui il 41 bis sarebbe stato utilizzato per scopi diversi da quelli per i quali è stato introdotto, la Cassazione ha osservato che il regime detentivo speciale “non si caratterizza per una elettiva ovvero fisiologica applicazione per determinati tipi di associazione criminale”, come dimostra il richiamo contenuto nello stesso co. 2 dell’art. 41 bis ai delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza. Né il tenore letterale della norma consentirebbe di ritenere che le comunicazioni che il 41 bis intende vietare sarebbero solo “messaggi criptici” o i c.d. “pizzini”.
3. Riflessioni, a margine della sentenza, sull’utilizzabilità del 41 bis per impedire la diffusione di messaggi pericolosi per la sicurezza pubblica
Tra le questioni affrontate dalla Corte di cassazione, ci pare interessante soffermarsi, per la sua valenza generale, sull’ultima, cioè sull’utilizzabilità del regime detentivo speciale per affrontare – questa l’espressione utilizzata nella requisitoria della Procura generale presso la Cassazione – “un’ipotesi ermeneutica del tutto inedita, e quasi ‘di confine’, di possibile applicazione del regime detentivo speciale”[5]: ossia, se tale istituto possa essere utilizzato non per ostacolare il passaggio di precise direttive criminose attraverso messaggi cifrati o pizzini a specifici sodali all’esterno, ma per impedire la diffusione in incertam personam di messaggi dalla forte valenza istigatrice, in quanto tali pericolosi per la sicurezza pubblica.
In proposito è opportuno ricordare che l’esigenza a cui il 41 bis intendeva rispondere nel momento in cui è stato introdotto, nei primi anni ’90, era quella di garantire il rafforzamento della funzione custodialistica del carcere nei confronti di una specifica categoria di detenuti pericolosi, rappresentata dai soggetti che ricoprivano posizioni apicali all’interno di associazioni criminali di stampo mafioso: detenuti che, dal carcere, continuavano a impartire ordini e dettare direttive ai sodali all’esterno, avvalendosi degli strumenti che l’ordinamento penitenziario ordinariamente prevede per garantire la continuità dei rapporti familiari (ossia colloqui, telefonate, corrispondenza, trasmissione di pacchi con vestiti e viveri) e sfruttando tutte le occasioni di contatto con altri detenuti per far circolare informazioni, trasmettere messaggi o comunque consolidare il proprio potere. Ed in effetti il contenuto del regime detentivo speciale – ora tipizzato nell’elenco di prescrizioni contenuto nell’art. 2 quater dell’art. 41 bis – è andato modellandosi sulle restrizioni che, a partire dai primi anni di vita del 41 bis si erano dimostrate come le più efficaci per frenare il flusso comunicativo all’interno delle organizzazioni criminali di stampo mafioso, caratterizzate dalla stabilità del vincolo associativo e da una struttura fortemente gerarchizzata[6].
Ora, é vero che l’istituto è stato modellato sulle esigenze di prevenzione speciale proprie della criminalità di stampo mafioso e che, nella prassi, esso viene utilizzato quasi esclusivamente a questo fine[7]; nondimeno la legge non limita l’operatività dell’istituto a tale specifica realtà associativa: il suo ambito di applicabilità, infatti, è stato sin dall’inizio ‘agganciato’ ai delitti di cui al primo comma dell’art. 4 bis o.p., tra i quali compaiono anche i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico.
Su questo punto, occorre dunque convenire con la Cassazione sul fatto che secondo la disciplina vigente – a prescindere cioè dall’opportunità di circoscrivere de iure condendo l’applicabilità dell’art. 41 bis alla sola criminalità di stampo mafioso – il regime detentivo speciale risulta applicabile a qualsiasi forma di criminalità associativa, purché ovviamente si tratti di un reato compreso nell’elenco di cui all’art. 4 bis co. 1.
Ancora, bisogna convenire con la Cassazione sul fatto che la legge si limita ad affermare che lo scopo del regime detentivo speciale è di recidere i collegamenti ‘pericolosi’ tra il detenuto e l’associazione all’esterno, senza specificare in alcun modo quale siano le forme di comunicazione che devono essere limitate: da ciò si ricava che lo strumento può essere legittimamente utilizzato anche per impedire modalità di comunicazione diverse da quelle tradizionalmente impiegate dagli associati delle consorterie mafiose (tipicamente rappresentate dai messaggi in codice o dai c.d. pizzini), come nel caso di diffusione di scritti destinati ad essere pubblicati su riviste e siti online.
Detto ciò, si possono tuttavia fare alcune riflessioni a partire dalla stessa lettera della legge ed in particolare dall’art. 41 bis co. 2, laddove si specifica che il regime detentivo speciale ha la funzione di soddisfare le “esigenze di ordine e di sicurezza” che sono poste da detenuti “nei confronti dei quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’organizzazione criminale, terroristica o eversiva” ed ancora precisa che la misura “comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze [di ordine e di sicurezza] e per impedire i collegamenti con l'associazione (…)”. Dunque se le restrizioni sono funzionali a soddisfare le esigenze di ordine e di sicurezza che derivano dalla sussistenza dei collegamenti e ad impedire i collegamenti con l’associazione di appartenenza, ciò parrebbe significare che il regime detentivo speciale non può essere utilizzato per impedire la diffusione di messaggi di propaganda ideologica ‘in incertam personam’, ma presuppone che le comunicazioni ‘pericolose’ del detenuto (qualsiasi siano le forme che esse assumano) siano destinate ai soggetti in libertà a lui ‘collegati’ in forza dell’appartenenza alla medesima associazione criminale: una prova che non può escludersi in astratto, ma che in concreto non risulterà semplice, laddove l’associazione criminale non sia strutturata gerarchicamente, ma presenti caratteri ‘orizzontali’ e di ‘fluidità’, come nel caso di organizzazioni che gravano nell’area dei movimenti anarchico-insurrezionali.
Una seconda riflessione riguarda il fatto che l’applicazione del regime detentivo speciale può considerarsi legittima solo qualora le restrizioni che ne discendono siano “necessarie per il soddisfacimento delle esigenze” di prevenzione, qualora si sia cioè dimostrato che le restrizioni applicate siano congrue rispetto agli obiettivi di prevenzione che il regime si propone di perseguire e che restrizioni diverse, meno gravose in termini di compressione dei diritti e delle libertà individuali, non possano considerarsi idonee allo scopo di impedire i collegamenti pericolosi tra il detenuto e le associazioni criminali di appartenenza[8]. E’ questo, con tutta evidenza, un requisito essenziale per fondare la legittimità, sotto il profilo del principio di proporzionalità, di un istituto che si caratterizza per limitazioni estremamente severe dei diritti fondamentali della persona.
Come riconosciuto dalla Corte di cassazione in questa stessa sentenza (cfr. supra par. 2), tanto la congruità delle restrizioni rispetto alle “esigenze di ordine e sicurezza”, quanto la loro necessità deve essere oggetto di sindacato giurisdizionale in sede di controllo sulla legittimità dei decreti ministeriali di applicazione e proroga del regime detentivo speciale: in tale sede dovrà dunque dimostrarsi che gli obiettivi di prevenzione che si intendono perseguire attraverso l’applicazione del regime detentivo speciale sono realizzati, così come il principio di proporzionalità richiede, con il minor sacrificio possibile dei diritti e delle libertà individuali.
*Angela Di Bella è Professoressa di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano
[1] In relazione a tale procedimento, la Corte di assise d'appello di Torino, cui la Corte di cassazione ha rinviato gli atti per la determinazione della pena a seguito della riqualificazione del fatto quale strage politica ex ar.t 285 c.p., ha sollevato questione di costituzionalità dell’art. 69 co. 4 co. c.p., nella parte in cui, relativamente al reato previsto dall'art. 285 c.p., non consente di ritenere prevalente la circostanza attenuante di cui all'art. 311 c.p. sulla recidiva di cui all'art. 99, co. 4 c.p. L’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale può leggersi in Sist. pen., 8 febbraio 2023, con nota di F. Alma.
[2] Corte cost., sent. 26 maggio 2010, n. 190.
[3] Cass., sez. I, 23 aprile 2021, n. 18434.
[4] Secondo quanto riportato nella pronuncia della Cassazione, tali sentenze hanno appurato che l’associazione eversiva di cui Cospito è parte è costituita sin dal 2003 come ‘organizzazione orizzontale’, in quanto caratterizzata dal coordinamento di vari gruppi di ideologia anarchica, operanti in diverse zone d’Italia con finalità terroristiche ed eversive e che tale coordinamento ha assunto nel tempo un carattere sempre più formalizzato, potendosi individuare al suo interno anche una sorta di comitato direttivo centrale con funzione di programmazione e direzione strategica rispetto alle singole cellule. Ancora, tali sentenze hanno accertato che, a partire dal 2011, l’organizzazione ha assunto una dimensione internazionale, assumendosi il compito del coordinamento tra diverse cellule anarchiche operanti in numerose nazioni europee ed extra-europee
[5] Le conclusioni della Procura generale possono leggersi in Sist. pen., 3 aprile 2023, con un commento di G.L. Gatta, Estremismo ideologico dal carcere e 41 bis: dalla Cassazione nuovi spunti di riflessione sul caso Cospito’.
[6] Sul punto sia consentito rinviare a A. Della Bella, Il ‘carcere duro’ tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, Giuffrè, 2016, p. 105 ss.
[7] Dal recente “Rapporto tematico sul regime detentivo speciale ex articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario” del Garante nazionale delle persone private della libertà personale (23 marzo 2023) si apprende che sul totale delle 740 persone attualmente sottoposte al regime speciale, quelle che non sono stati condannate o non sono in corso di giudizio per reati connessi alla criminalità organizzata di tipo mafioso sono solamente quattro
[8] Che il regime detentivo speciale possa considerarsi legittimo solo nella misura in cui sia necessario per realizzare gli obiettivi di prevenzione speciale è affermazione ricorrente nella giurisprudenza costituzionale che, sin dalle sue prime pronunce aventi ad oggetto il 41 bis, ha posto in evidenza come la mancanza di congruità tra le misure restrittive e le esigenze di sicurezza che motivano il provvedimento trasforma le stesse in ‘‘ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento’’ (Corte cost. 351/1996).
La legge 27 settembre 2021, n. 134, che recava delega al Governo “per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, è stata attuata con il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (cd. legge “Cartabia”).
Si tratta di un provvedimento di ampio respiro, che apporta rilevanti modifiche al codice penale (artt. 1-3), al codice di rito (artt. 4-40), alle relative norme di attuazione (art. 41), oltre a contenere la disciplina della giustizia riparativa (artt. 42-67) e a disporre ulteriori interventi e modifiche ad alcune leggi speciali (artt. 68-84), tra cui spicca l’intervento effettuato dall’art. 71 in materia di sostituzione delle pene detentive brevi già disciplinate dalla legge 24.11.1981, n. 689.
L’entrata in vigore della riforma è stata fin da subito contrassegnata da svariate manifestazioni di protesta e da numerose contestazioni, anche di ordine tecnico, che hanno acceso l’attenzione dei media su alcuni aspetti particolarmente delicati (si pensi alla polemica di stampa sulle “scarcerazioni per mancanza di querela”, ecc.).
La polemica, per fortuna, non ha però riguardato più di tanto quella parte della riforma che riguarda l’introduzione delle pene sostitutive.
Si tratta per l’appunto di pene sostitutive del carcere, non essendosi trovato il coraggio di introdurle nell’elenco edittale delle pene principali, il cui catalogo (art. 17) è rimasto dunque immutato; si è invece pensato di creare - accanto alle tradizionali “misure alternative” previste dall’ordinamento penitenziario[1] - quattro figure di “pene sostitutive”, alle quali è stata però riconosciuta la dignità di essere nominate nel codice penale (art. 20 bis).
Si tratta di un’innovazione importantissima (per chi, ben s’intende, saprà coglierne le opportunità: qui serve la duplice concorrente volontà del giudice ed anche del suo imputato, eccezion fatta per la multa sostitutiva), destinata, almeno negli intenti, a cambiare il volto della penalità nel nostro Paese e ad avvicinare la data del processo al momento dell’effettiva esecuzione della sanzione penale, la quale non è né sospendibile condizionalmente (art. 61 bis l.n. 689/1981), né assoggettabile al meccanismo sospensivo di cui all’art. 656 c.p.p.[2] per il chiaro disposto di cui all’art. 62 l.n. 689/1981.
È con un po’ di rammarico che osservo come l’intento, sostenuto dai fondi del PNRR, di rendere più veloce ed efficiente il processo penale non abbia però riguardato la magistratura di sorveglianza, che opera nel settore dell’esecuzione penale: dai “procedimenti giudiziari” di cui parla la rubrica del decreto legislativo n. 150/2022 è risultato infatti escluso proprio il procedimento di sorveglianza, il quale ha lo scopo di portare a compimento il complesso iter processuale che, partendo dalla notizia di reato, non si conclude con il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, trovando invece il suo esito naturale nella compiuta espiazione della pena irrogata in cognizione [3].
Della velocizzazione dei procedimenti di sorveglianza, quasi non si trattasse di veri e propri procedimenti giudiziari, il legislatore sembra dunque non essersi preoccupato: il settore della sorveglianza è stato conseguentemente escluso dalla distribuzione delle risorse del PNRR e non ha ricevuto in dotazione le risorse umane destinate alla costituzione dell’ufficio per il processo previsto dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 151, il cui art. 1, 1° comma prevede comunque che tale ufficio si costituisca anche presso gli Uffici e i Tribunali di sorveglianza.
Ennesima dimostrazione - questa - della situazione di vera marginalità del settore della sorveglianza, considerato quasi come la cenerentola del sistema penalistico stricto sensu considerato[4].
La conseguenza è che, ammesso e non concesso che i procedimenti giudiziari di cognizione subiscano una spinta acceleratoria grazie alla riforma Cartabia, nulla o quasi è destinato a mutare per i processi di sorveglianza, i quali sono deputati a portare a compimento l’intero iter di cui ho parlato.
Qualcuno potrebbe obiettare che un beneficio, sia pure di riflesso, la sorveglianza avrà nell’immediato futuro per il fatto che, avendo la legge Cartabia attribuito al giudice di cognizione il potere di irrogare le nuove pene sostitutive, il lavoro dei Tribunali di sorveglianza sarà destinato a diminuire.
Osservo però che la nuova legge, oltre a non occuparsi dell’ingente mole di lavoro che schiaccia il settore della sorveglianza, appesantito come noto (oltre al resto) dalla presenza di quasi 100.000 condannati “liberi sospesi”, che restano anche per anni in attesa dell’udienza di sorveglianza, prevede che la gestione in executivis delle pene sostitutive gravi comunque (eccezion fatta per il lavoro di pubblica utilità) sui magistrati di sorveglianza.
Altra evidente controindicazione, destinata a limitare gli effetti della riforma sotto il profilo quantitativo (e dunque dello sgravio “a valle” del carico della sorveglianza), deriva dall’impossibilità per il giudice della cognizione di sostituire la pena detentiva con l’affidamento in prova al servizio sociale: appare infatti evidente che l’imputato ben difficilmente sarà indotto a prestare il proprio consenso alle pene sostitutive della semilibertà e della detenzione domiciliare ove possa coltivare la ragionevole aspettativa di chiedere e di ottenere dal Tribunale di sorveglianza la più favorevole misura dell’affidamento una volta che il pubblico ministero abbia sospeso l’esecuzione della condanna ex art. 656, 5° comma c.p.p. (fanno ovviamente eccezione i reati di cui alla lett. a) del 9° comma dell’art. 656 c.p.p. che non siano ricompresi nel catalogo “proibito” di cui all’art. 4 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, i quali non consentono la sospensione dell’esecuzione e rispetto ai quali dunque vi sarà la massima convenienza a prestare senza remore il consenso pur di non finire in carcere).
Se fosse stata accolta la proposta della Commissione Lattanzi, che aveva incluso anche tale misura alternativa tra le pene sostitutive irrogabili in cognizione, sarebbe stato finalmente chiaro a tutti che anche l’affidamento in prova rappresenta una forma di espiazione della pena detentiva, sia pure sostitutiva.
Quanto alla valutazione relativa all’esistenza di apprezzabili chances di ottenere tale misura in sede esecutiva, i difensori del Distretto in cui è stata pronunciata la sentenza di condanna, che sono veri abitués della sorveglianza, sono generalmente ben informati circa i criteri adottati in materia dai singoli Tribunali di Sorveglianza, e dunque più che in grado di suggerire ai loro assistiti le scelte più convenienti[5].
Faccio però presente che analoga considerazione dovrebbe valere per lo stesso giudice di cognizione: perchè mai questi dovrebbe irrogare la semilibertà sostituiva o la detenzione domiciliare sostitutiva (nel range di una pena detentiva tra i tre ed i quattro anni) ove egli ritenga che nel caso di specie il suo imputato appaia fin d’ora meritevole di avere un domani l’affidamento in prova al servizio sociale?
Diverso discorso è ovviamente a farsi ove la pena sostituiva “offerta” sia il lavoro di pubblica utilità, il quale appare certamente misura ben più favorevole rispetto all’affidamento in prova.
Qualcosa di buono per la sorveglianza c’è però anche nel decreto legislativo n. 150/2022.
C’è di buono che i colleghi della cognizione sono chiamati (ovviamente purchè lo vogliano e ne avvertano la predisposizione) a prendere confidenza con pene sostitutive il cui contenuto è quasi esattamente coincidente[6] con almeno due delle più importanti misure alternative (semilibertà e detenzione domiciliare) che sono invece il pane quotidiano della sorveglianza.
Non si poteva immaginare nulla di più propizio per l’innesto di un processo osmotico tra due culture tradizionalmente considerate come tra loro antagoniste.
Troppe volte abbiamo sentito ripetere che il settore della sorveglianza è chiamato di fatto a sgretolare il giudicato e a porre nel nulla il lavoro svolto e le risorse impiegate per giungere all’individuazione e alla condanna del colpevole.
Troppe volte si è ripetuto che si tratta di una giurisdizione strabica, che guarda con un occhio di riguardo al reo, disinteressandosi però della posizione delle sue vittime.
Si tratta di diffidenze e di incomprensioni destinate oggi a venir meno.
La distanza, anche culturale, venutasi a creare nei decenni tra cognizione e sorveglianza è oggi chiamata a ricomporsi grazie alla legge Cartabia.
E’ giunto il momento del dialogo e dell’osmosi delle culture, e dunque degli atteggiamenti, se è vero che sarà lo stesso giudice di cognizione a dover rendere “virtuali” i due sostantivi “reclusione ed arresto”[7], trasformandoli egli stesso nelle pene sostitutive volute dalla legge.
Il processo osmotico sarà poi facilitato dalla circostanza che saranno comuni i problemi pratici da affrontare: dalla scarsità delle risorse di cancelleria disponibili[8] fino all’insufficienza degli organici degli uffici di esecuzione penale esterna[9].
Ma sono soprattutto i criteri cui il giudice di cognizione dovrà attenersi per decidere la sostituzione della pena detentiva a contribuire alla progressiva assimilazione delle diverse culture giurisdizionali.
Il novellato art. 58 l.n. 689/1981, richiamati i criteri di cui alla norma-cardine sulla dosimetria della pena (art. 133 c.p.), stabilisce che il giudice possa applicare le pene sostitutive “quando risultano più idonee alla rieducazione del condannato e quando, anche attraverso opportune prescrizioni, assicurano la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati”.
Rieducazione e special-prevenzione: sono questi i termini oscillatori nei quali si rifugia la clausola legale che si risolve nei fatti in una sorta di delega in bianco fondativa dell’amplissimo potere discrezionale del quale viene oggi a godere il giudice della cognizione.
Si tratta di quello stesso potere da sempre riconosciuto alla magistratura di sorveglianza.
La clausola generalissima è infatti del tutto paragonabile a quella dettata in materia di misure alternative alla detenzione: per l’affidamento in prova al servizio sociale, il 2° comma dell’art. 47 o.p. prevede che esso sia concedibile “nei casi in cui si può ritenere che, anche attraverso le prescrizioni di cui al comma 5, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati”; per la detenzione domiciliare: il comma 1 bis dell’art. 47 ter o.p. dispone che esso sia concedibile “quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova servizio sociale e sempre che tale misura sia idonee ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati”; per la semilibertà, il 4° comma dell’art. 50 o.p. prevede che la misura sia disposta “in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società”.
Anche la clausola del “minor sacrificio”, di cui all’art. 58, 2° comma l.n. 689/1981, il quale indica, tra i criteri di scelta possibile, anche quello che predilige la pena sostitutiva che comporti “il minor sacrificio della libertà personale”, trova la sua lontana eco nella norma di ordinamento penitenziario che, in materia di controlli, prevede che essi siano svolti “con modalità tali da recare il minor pregiudizio possibile al processo di reinserimento sociale e la minore interferenza con lo svolgimento di attività lavorative” (art. 58, 3° comma, o.p.).
Un altro importante elemento destinato ad avvicinare, assimilare e compenetrare la giurisdizione esecutiva con quella di cognizione è costituito dal 2° comma dell’art. 545 bis c.p.p., che orienta l’attività istruttoria necessaria per la sostituzione della pena detentiva con quella sostitutiva.
La prevista acquisizione presso l’Uepe e le forze dell’ordine di “tutte le informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita, personali, familiari, sociali, economiche e patrimoniali del soggetto” corrisponde esattamente all’attività istruttoria cui sovrintende la cancelleria del Tribunale di sorveglianza sui fascicoli contenenti istanze di concessione di misure alternative (vi si aggiungono l’acquisizione dei certificati dei carichi pendenti ex art. 60 c.p.p e delle iscrizioni ex art. 335 c.p.p.).
C’è dunque da chiedersi se non valesse allora la pena di finalmente decidersi per l’introduzione nel nostro ordinamento del processo bifasico: probabilmente sì, perché se avessimo fatto del Tribunale di sorveglianza un vero e proprio Tribunale “della pena”, destinandogli però un bel pò di risorse per assicurare anche al suo processo il rispetto della ragionevole durata (art. 111, 2° comma Cost.), avremmo risparmiato energie e valorizzato professionalità.
Se forse i tempi non erano ancora maturi per una riforma di tal fatta, ci resta solo da dire
che, fino all’entrata in vigore della legge Cartabia, il magistrato di sorveglianza poteva essere considerato l'ultimo anello della catena in grado di applicare il canone di proporzionalità della pena: canone da applicarsi a quella particolare persona, a quel particolare carcere, a quella particolare sezione, a quella particolare risposta alle offerte trattamentali, usando dunque di un criterio quam suis.
Ma lo iato temporale, che a volte dura lunghi anni, tra il momento del processo ed il momento dell’esecuzione rendeva e rende estremamente difficile l’applicazione del canone di proporzionalità: ciò a causa dei mutamenti medio tempore eventualmente intervenuti nella persona del condannato.
La discesa in campo anche del giudice della cognizione è oggi in grado di garantire risultati migliori proprio in forza della possibile contiguità tra i due momenti: c’è solo da augurarsi che le difficoltà organizzative, la scarsità delle risorse ed il timore del raddoppio delle udienze non renda sterile la riforma.
Comminare all’imputato giudicato colpevole la pena che gli serve, ritagliata su di lui, e nel momento in cui gli serve, rappresenta la sfida cui oggi è chiamato ogni giudice penale che desideri respirare nel futuro.
Un’ultima osservazione: il successo di questa sfida non potrà prescindere dal nuovo ruolo cui sono chiamati gli avvocati, i quali non solo dovranno saper accompagnare i loro assistiti “in un percorso di seria informazione tecnica, in vista di una scelta approfondita e responsabile, in modo da evitare il rischio di adesioni apparenti o scarsamente consapevoli”[10], ma soprattutto dovranno far emergere tutti gli elementi indispensabili per la costruzione della “pena-programma”, la più adatta possibile alle esigenze di vita e familiari dell’imputato.
[1] Mi sembra che il termine “misura alternativa” non compaia mai nel codice penale, se non per quanto riguarda la circostanza aggravante comune di cui al n. 11 quater dell’art. 61 c.p. (“l'avere il colpevole commesso un delitto non colposo durante il periodo in cui era ammesso ad una misura alternativa alla detenzione in carcere”).
[2] L’avvicinamento della data del processo a quella dell'effettiva esecuzione è incentivato, nel caso di giudizio abbreviato, dal disposto dell’art. 442, comma 2 bis c.p.p., secondo cui, in caso di mancata proposizione dell'impugnazione da parte dell'imputato o del suo difensore, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di 1/6 dal giudice dell'esecuzione.
[3] Va a tal proposito ricordato che la necessità di una visione globale ed unitaria della giurisdizione penale è sottolineata da Corte cost. n. 313/1990, secondo cui “la necessità costituzionale che la pena debba tendere a rieducare, lungi dal rappresentare una generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue ….deve essere dunque espressamente ribadito che il precetto di cui al terzo comma dell’art. 27 della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per il giudice della cognizione, oltre che per quelli dell'esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie”.
[4] Non trovo nulla di più efficace delle espressioni usate a questo proposito da M. Bortolato: “Lo stigma penitenziario è la differente considerazione che si ha di un <piano superiore>, ove è situato il processo di cognizione, figlio prediletto della giustizia, e i suoi protagonisti, rispetto ad uno <scantinato> ove è collocata l'esecuzione ed i suoi umili attori. La dicotomia tra fase del giudizio e fase dell’esecuzione sta in buona parte tra la giustizia del processo, ove si concentra ogni attenzione, esempio di sacralità e garantismo, e la pena eseguita, che è quasi un “figlio illegittimo” di cui vergognarsi e che si tenta di nascondere” (Lezione tenuta al corso della Scuola Superiore della Magistratura “Applicazione ed esecuzione della pena: giudice della cognizione e della sorveglianza”, Napoli, Castel Capuano, 16 febbraio 2023).
[5] Non si intende con ciò affermare che la giustizia predittiva, che tanta fortuna sta avendo nel campo del diritto civile, specialmente nei settori del lavoro e della previdenza sociale, abbia diritto di cittadinanza anche sul terreno dell'esecuzione penale, in quanto le singole decisioni della magistratura di sorveglianza sono tarate sulla singola persona e sulla sua particolare storia.
[6] Parlo di quasi-coincidenza perché le due pene sostitutive, restrittive della libertà personale, sono state disegnate a maglie assai più larghe di quelle delle corrispondenti figure previste dall'ordinamento penitenziario: la semilibertà sostitutiva, il cui programma di trattamento è predisposto non dal Direttore dell’istituto ma dall’Uepe, è presidiata dalla garanzia (tutelabile ex art. 35 bis o.p. lo si vedrà) della territorialità ed obbliga a trascorrere in istituto “almeno otto ore al giorno”, lasciando dunque ben 16 ore da riempire con le attività extra-murali di cui al 1° comma del novellato art. 55 l.n. 689/1981; la detenzione domiciliare sostitutiva obbliga a stare in casa non meno di 12 ore al giorno, ed è caratterizzata dal diritto soggettivo perfetto del detenuto domiciliare di uscire “per almeno quattro ore al giorno” (di qui l'incomprimibilità di tale spazio di libertà, siccome appartenente allo statuto della “pena legale”, da parte del magistrato di sorveglianza in sede di modifica delle prescrizioni). Per entrambi gli istituti è poi previsto che non trovi applicazione l’art. 120 del Codice della strada (“Requisiti soggettivi per ottenere il rilascio della patente di guida”). Per il resto, le pene sostitutive trovano una disciplina largamente comune a quella dei corrispondenti istituti di ordinamento penitenziario: ciò in forza dei rinvii disposti dal novellato art. 76 l.n. 689/1981 (liberazione anticipata, estendibilità della pena sostitutiva ai titoli sopravvenuti, disciplina delle pene accessorie e scomputabilità in caso di mala gestio dei periodi trascorsi in licenza). Anche il regime prescrittivo obbligatorio (art. 56 ter l.n. 689/1981) è praticamente identico a quello che ordinariamente accompagna quasi tutte le misure alternative disciplinate dall'ordinamento penitenziario. Lo stesso dicasi per il sistema delle preclusioni oggi disciplinato dal novellato art. 59.
[7] In realtà, già nel vigore del previgente testo dell’art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689, il giudice della cognizione era dotato di siffatto potere, essendogli consentita la sostituzione delle pene detentive contenute nel limite di due anni con la semidetenzione, la libertà controllata e la pena pecuniaria delle specie corrispondente: tale istituto, specie in relazione alla semidetenzione e alla libertà controllata (che alcuni studiosi hanno considerato aboliti “per desuetudine”), ha però trovato scarsa applicazione nella pratica a causa della perfetta coincidenza tra l'area della concedibilità della sospensione condizionale della pena (due anni) e l'area della sua sostituibilità (due anni).
[8] È facile prevedere che l’art. 545 bis c.p.p. (“Condanna a pena sostitutiva”) obbligherà quasi sempre alla duplicazione delle udienze, con relativo incremento sia dei ruoli del giudicante sia del lavoro di cancelleria.
[9] Gli Uffici di esecuzione penale esterna sono oggi chiamati a redigere il programma di trattamento della semilibertà sostitutiva (art. 55, 3° comma, l.n. 689/1981), come pure della detenzione domiciliare sostitutiva (art. 56, 2° comma, l.n. 689/1981). Ricordo che trattasi di Uffici che, specialmente dopo l'introduzione dell'istituto della messa alla prova, che ne ha distolto l'impegno per circa il 50% a favore dei giudici della cognizione, non sono in grado di riscontrare tutte le richieste di indagini socio-familiari provenienti dalla magistratura di sorveglianza, al punto che quest'ultima si è vista costretta quasi dappertutto a stipulare dei protocolli di intesa che esonerano gli Uepe da tale incombenza nel caso di condanne a pene, anche residue, inferiori ad una determinata soglia (sei mesi, un anno, ed anche più, a seconda delle diverse realtà locali).
[10] Non posso che rimandare a tal proposito all’illuminante contributo di A. Calcaterra: “Le novità introdotte dalla riforma Cartabia. Le nuove soluzioni sanzionatorie e il rinnovato ruolo dell'avvocatura”, in Questione Giustizia, 15.2.2023, ove si sottolinea ad esempio l'importanza di alcune informazioni: all'assistito va chiarito che al consenso prestato al lavoro di pubblica utilità consegue l’inappellabilità della sentenza (art. 593, 3° comma c.p.p.); l’assistito va del pari informato sui tempi di attesa della decisione del Tribunale di sorveglianza in caso di scelta della “strada tradizionale”.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il procedimento dinnanzi all’AGCM e la successiva vicenda giudiziaria. – 3. La decisione del Consiglio di Stato: la prova delle intese restrittive. – 3.1. La decisione del Consiglio di Stato: la quantificazione della sanzione. - 4. Sul regime probatorio degli illeciti anticoncorrenziali. – 5. Il necessario rispetto del principio di proporzionalità per le sanzioni Antitrust.
1. Premessa
Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato, ritenendo infondate le censure avanzate dagli appellanti, compie un’interessante ricognizione di principi già espressi in materia di regime probatorio delle intese anticoncorrenziali.
Al contempo, il giudice amministrativo svolge talune precisazioni circa le modalità di quantificazione delle sanzioni Antitrust, prendendo le mosse dalla loro qualificazione in termini di sanzioni sostanzialmente penali.
2. Il procedimento dinnanzi all’AGCM e la successiva vicenda giudiziaria
La vicenda giudiziaria ha origine dal ricorso presentato al Tar Lazio con cui la ricorrente ha chiesto l’annullamento del provvedimento dell’AGCM che, avendo rilevato un’intesa restrittiva della concorrenza nell’ambito del mercato della produzione e commercializzazione di fogli in cartone ondulato, ha comminato alla ricorrente la sanzione pecuniaria pari ad € 3.658.077,00[i].
Più specificatamente, nell’ambito di quel procedimento l’AGCM ha intrapreso un’istruttoria volta ad accertare la partecipazione, da parte di una serie di società, a due distinte intese anticoncorrenziali: da un lato, nel mercato della produzione e commercializzazione di cartone ondulato (cd. intesa-fogli); dall’altro, in quello della produzione e commercializzazione di imballaggi in cartone ondulato (intesa-imballaggi).
Con una serie di successive delibere, il procedimento è stato poi esteso tanto sotto il profilo soggettivo, mediante il coinvolgimento di altre società[ii]; tanto sotto l’aspetto oggettivo delle condotte oggetto di accertamento, allargate alla limitazione o al controllo della produzione dei fogli in cartone ondulato nonché alla ripartizione di specifici clienti[iii].
Nel corso dell’istruttoria particolarmente rilevanti sono state le dichiarazioni rese da diverse imprese partecipanti alle intese oggetto di accertamento, nell’ambito del programma di clemenza (c.d. leniency).
In ragione della ritenuta fondatezza della contestazione in merito alla realizzazione delle due intese, l’Autorità ha concluso l’iter con il provvedimento sanzionatorio oggetto di impugnazione.
Il T.a.r. Lazio ha rigettato il ricorso con sentenza n. 6040/2021; detta sentenza è stata impugnata dalla società appellante, la quale ha prospetta una serie di motivi, alcuni dei quali anche piuttosto articolati.
Innanzitutto, con il primo motivo l’appellante deduce il vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria, illogicità e travisamento dei fatti, lamentando la mancata valutazione degli elementi istruttori che escludono la propria partecipazione da qualsiasi intesa, oltre che l’adesione acritica alla ricostruzione prospettata dall’AGCM.
In particolare, l’unico elemento utilizzato a sostegno della partecipazione dell’impresa appellante all’asserita intesa consisterebbe nella presunta partecipazione del responsabile commerciale della società alle riunioni intercorse in attuazione dell’intesa. Al riguardo, il T.a.r. Lazio si sarebbe limitato a ritenere che gli elementi riportati nel provvedimento fossero idonei a fornire un quadro univoco in ordine alla partecipazione anche dell’impresa appellante all’intesa-fogli.
Sul punto, l’appellante sostiene invece che il responsabile commerciale avrebbe partecipato alle riunioni in questione non come rappresentante della società ma “in proprio”[iv]; tant’è che, a seguito del suo decesso, nessun altro rappresentante avrebbe preso parte ad altre riunioni. In altri termini, non sarebbe provata l’adesione dell’appellante all’intesa, basandosi questa solo sulle dichiarazioni di un leniency applicant da ritenersi prive di qualsiasi valenza istruttoria in quanto non corroborate da ulteriori elementi di prova.
Né, sempre secondo l’appellante, ci sarebbe stato alcuno scambio di informazioni commerciali con le altre imprese concorrenti. A riprova di ciò, allega la circostanza di aver mantenuto una politica di prezzo totalmente autonoma dal Listino 2004, con risultati economici ben peggiori di quelli delle altre imprese di settore. Tali aspetti non sarebbero stati presi in considerazione dall’Autorità che, nell’esaminare la posizione di ciascuna impresa, si sarebbe limitata a prendere atto dei ricavi medi di settore, senza considerare le variazioni rilevantissime tra i ricavi dei singoli concorrenti.
Ancora, lo schema delle riunioni incriminate di cui si fa menzione nella sentenza di primo grado sarebbe del tutto inattendibile, in quanto privo di chiarezza in ordine alla partecipazione e alle eventuali tempistiche con cui il responsabile commerciale dell’appellante avrebbe partecipato alla maggioranza delle riunioni attuative dell’asserita impresa; risultando invece evidente, dalla documentazione raccolta in sede istruttoria, l’assenza dalle predette riunioni oltre che l’estraneità allo scambio documentale.
Con il secondo motivo l’appellante deduce nuovamente l’eccesso di potere per difetto di istruttoria, illogicità e travisamento dei fatti sotto il diverso profilo della errata definizione da parte del T.a.r. del Lazio dei limiti temporali della partecipazione all’intesa. Anche ad ammettere un coinvolgimento d’appellante per il tramite del più volte menzionato responsabile commerciale, tale partecipazione, ad avviso dell’appellante, sarebbe limitata ad un arco temporale di gran lunga inferiore rispetto a quello contestato[v].
Con il terzo motivo l’appellante fa valere l’eccesso di potere per travisamento dei fatti, lamentando l’erronea valutazione da parte del T.a.r. in ordine alla impossibilità di procedere alla riqualificazione dell’asserita intesa in abuso di posizione dominante. Invero, secondo la prospettazione dell’appellante, i contenuti dell’intesa in questione sarebbero stati definiti solo da una quota di larghissima maggioranza sul mercato che, congiuntamente, detiene una posizione dominante sul mercato della carta. Tali imprese dominanti avrebbero imposto agli operatori minori – tra cui l’appellante stessa - le condizioni alle quali operare sul mercato, cui si sarebbero aggiunti meccanismi di controllo e di verifica oltre che di ritorsione nei confronti di quanti non si fossero adeguati[vi].
Con il quarto ed ultimo motivo l’appellante lamenta l’erronea determinazione della sanzione, sotto diversi profili.
Innanzitutto, per quanto attiene alla illegittima applicazione dell’aggravante della segretezza dell’intesa: il carattere segreto dell’intesa, infatti, non potrebbe mai dirsi insito nella violazione in sé o nella natura riservata con cui essa viene posta in essere[vii], dovendo semmai l’AGCM fornire prova di circostanze idonee a far ritenere la precisa e determinata volontà delle parti di occultare ogni contatto avvenuto per dare luogo all'intesa sanzionata.
In secondo luogo, la determinazione della sanzione sarebbe erronea in relazione all’illegittima omissione da parte del T.a.r. della valutazione degli effetti dell’intesa, avendo registrato l’impresa appellante – diversamente dalle imprese dominanti - un quadro non di crescita, ma semmai di stabilità e a tratti di contrazione, sia in termini di ricavi che di margine operativo.
Sotto un terzo profilo, l’appellante lamenta l’illegittima mancata valutazione da parte del T.a.r. delle attenuanti, avendo essa dimostrato «di aver svolto un ruolo marginale alla partecipazione dell’infrazione, provando altresì di non aver di fatto concretamente attuato la pratica illecita», in ossequio alla previsione contenuta nel § 23 delle Linee Guida sulla modalità di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie.
Da ultimo, un ulteriore profilo attiene al ricalcolo della sanzione, avendo l’Autorità interpretato l’art. 15, co. 1, l. 287/1990, nella parte in cui stabilisce che l’AGCM può applicare una sanzione «fino al 10% del fatturato», come mera soglia di contenimento della sanzione. Tale interpretazione conduce alla conseguenza che l’importo calcolato secondo le Linee guida, nei passaggi sanzionatori intermedi, possa eccedere il massimo di legge, purché tale limite venga poi rispettato nel risultato finale.
Un simile approccio, ad avviso dell’appellante, solleverebbe forti perplessità nella misura in cui finisce per determinare un “appiattimento” di tutte le sanzioni irrogate verso il massimo, in violazione dei principi di legalità, proporzionalità, individualità e uguaglianza. Il superamento della soglia del 10% nei passaggi intermedi di calcolo comporta infatti un innalzamento artificioso ed indebito della sanzione sulla quale calcolare le eventuali attenuanti, che rischiano così di divenire, di fatto, irrilevanti ai fini sanzionatori[viii].
3. La decisione del Consiglio di Stato: la prova delle intese restrittive
Il Consiglio di Stato reputa il primo motivo infondato. Per giungere a tale conclusione compie una preliminare ed efficace sintesi dei principi enunciati in materia di prova dell’esistenza e della partecipazione ad una intesa restrittiva della concorrenza, richiamando una serie di propri precedenti.
Innanzitutto, l’accertamento de quo non richiede che l’intesa risulti da documenti o da altri elementi probatori fondati su dati estrinseci e formali, essendo sufficienti anche indizi purché gravi, precisi e concordanti[ix]; a tal fine, occorre procedere ad una valutazione globale delle prove acquisite, onde dare evidenza dell'intero assetto dei rapporti intercorrenti tra le imprese[x], predisponendo un'analisi complessa ed articolata che tenga conto di tutti gli elementi di prova acquisiti nella loro interezza e nella correlazione reciproca[xi].
In altri termini, la prova di accordi bilaterali assume valenza sufficiente a dimostrare l'esistenza dell'intesa, non essendo necessario accertare la partecipazione ad ogni singolo episodio contestato dall'Autorità[xii]. Ne consegue allora che un elevato numero di indizi e riscontri, unitariamente considerati, possono costituire la prova di una violazione delle regole di concorrenza solo se manchi una spiegazione alternativa lecita della condotta delle imprese coinvolte[xiii]; in tal caso, grava sulle imprese l'onere di fornire una diversa spiegazione lecita delle loro condotte e dei loro contatti[xiv].
Ancora, la sola partecipazione di un'impresa alle riunioni nel corso delle quali sono stati definiti gli elementi dell'intesa vietata non consente all’impresa in questione di invocare la propria estraneità rispetto alla fattispecie oggetto di sanzione; a meno che essa non si sia manifestamente opposta alla pratica ovvero riesca a dimostrare che la sua partecipazione alle riunioni non si sia connotata di alcuno spirito anticoncorrenziale[xv]. E ciò in quanto si deve presumere che le imprese partecipanti alla concertazione e che rimangono presenti sul mercato tengano conto degli scambi di informazioni con i loro concorrenti per decidere il proprio comportamento sul mercato stesso[xvi], restando così superfluo, al fine dell'an della responsabilità, indagare se il singolo partecipante all'intesa vietata abbia avuto un ruolo maggiore o minore, attivo o meramente passivo[xvii].
Nel caso di specie, l’accertamento in ordine all’esistenza delle due intese emerge dalla circostanza che numerose imprese hanno confessato la propria partecipazione agli illeciti, rendendo all’Autorità dettagliate dichiarazioni, il cui contenuto è confluito nel provvedimento.
Inoltre, tramite l’istruttoria svolta dall’AGCM è stato documentalmente accertata la partecipazione dell’appellante ad un numero significativo di riunioni, specie nel periodo intercorrente dal 1998 al 2013. Nel corso del procedimento l’appellante non ha fornito neppure un principio di prova riguardo alla sua eventuale opposizione alla pratica che si andava in modo evidente delineando. Né può assumere valore il tentativo di creare un discrimen tra i ruoli ricoperti dal responsabile commerciale, per un verso, dipendente dell’impresa appellante e, per altro verso, esponente di spicco del GIFCO, non essendo emerso nessun elemento a supporto di tale ricostruzione.
Neppure il secondo motivo di appello, concernente l’arco temporale della contestata partecipazione dell’appellante all’asserita intesa, può essere accolto. Posto che l’azione di contrasto ai cartelli deve essere effettiva, per il carattere segreto o riservato degli accordi di cartello la prova della c.d. “pistola fumante” è evenienza rarissima. In questo caso, evidenze individualizzanti relative alla partecipazione a determinati segmenti temporali del cartello unitario protrattosi per lungo tempo, in presenza di una mancata dissociazione significativa o della prova positiva di una spiegazione alternativa, sono sufficienti a ritenere concretizzata la prova della partecipazione all’intesa per tutto il periodo individuato dall’Autorità.
Ancora, infondato è il terzo motivo di appello concernente la riqualificazione dell’asserita intesa in termini di abuso di posizione dominante. Al riguardo, la VI Sez. richiama un proprio precedente in cui ha dettagliatamente chiarito come i singoli comportamenti delle imprese devono essere considerati quali «tasselli di un mosaico» e dunque come elementi di una fattispecie complessa, «significativi non di per sé ma come parte di un disegno unitario»[xviii] qualificabile come intesa restrittiva della libertà di concorrenza o abuso di posizione dominante.
Rispetto ad esso, è sufficiente che l'AGCM tracci - come avvenuto nel caso di specie - un quadro indiziario coerente ed univoco, oltre che privo di salti logici. Viceversa, spetta ai soggetti interessati fornire spiegazioni alternative alle conclusioni tratte nel provvedimento accertativo della violazione concorrenziale; in questo caso, tuttavia, l’ipotesi prospettata dall’appellante appare meramente ipotetica e non suffragata da alcun supporto probatorio.
3.1. La decisione del Consiglio di Stato: la quantificazione della sanzione
Con riferimento al quarto motivo, il Consiglio di Stato giunge ad esiti differenziati in relazione ai singoli profili evidenziati dall’appellante. Anche in questo caso, al fine di meglio inquadrare le questioni sottese, il giudice si preoccupa preliminarmente di riassumere i principi già sanciti dalla Sezione in materia di quantificazione delle sanzioni.
Innanzitutto, nell'esercizio del proprio potere sanzionatorio l'Autorità persegue un duplice obiettivo: da un lato, un effetto dissuasivo specifico nei confronti delle imprese che si sono rese responsabili di una violazione delle norme in materia di intese; dall’altro, un effetto dissuasivo generale nei confronti degli altri operatori economici dall'assumere o continuare condotte contrarie alle norme di concorrenza[xix]. L'elevato grado di severità che caratterizza le sanzioni Antitrust ne determina la natura sostanzialmente penale delle stesse[xx], sebbene questo non determini un’automatica applicazione di tutti i principi garantistici previsti dal processo penale[xxi]. Per quanto qui d’interesse, la Corte costituzionale ha esteso il principio di proporzionalità nell'applicazione delle sanzioni penali anche alle sanzioni amministrative punitive[xxii].
L’art. 15, l. n. 287/90[xxiii], ferma la qualificazione dell'illecito come grave ai fini della punibilità con sanzione pecuniaria, consente inoltre al giudice un apprezzamento di gravità in ordine alla graduazione della pena[xxiv]. A tal fine, i provvedimenti dell'Autorità devono recare l'indicazione di una serie di dati come: qualificazione dell'infrazione come grave o molto grave; durata dell'illecito; importo della sanzione per ciascuna impresa; eventuali circostanze attenuanti o aggravanti applicate; rapporto percentuale tra importo della sanzione e fatturato complessivo dell'impresa; eventuali altri criteri di quantificazione utilizzati[xxv].
All’esito di siffatta qualificazione, la determinazione dell'importo della sanzione costituisce espressione di un potere discrezionale dell'Autorità, e ciò in quanto il valore finale della sanzione va determinato assumendo quale principale parametro di riferimento l'effettiva idoneità del quantum della sanzione a tenere conto nel modo più adeguato possibile della specifica gravità della condotta contestata all'impresa[xxvi].
Tanto chiarito, la VI Sez. reputa infondata la doglianza relativa all’illegittima applicazione dell’aggravante della segretezza. Le intese in questione sono state correttamente considerate segrete, sia perché esse non erano palesate al pubblico sia perché ai fini della prova si è dovuto ricorrere a plurime dichiarazioni dei leniency applicants, oltre che all’acquisizione di documenti come la corrispondenza delle imprese coinvolte, normalmente coperta dal segreto epistolare.
Neppure può essere accolta la tesi secondo cui il provvedimento non avrebbe accertato gli effetti che l’intesa ha prodotto sul mercato, e ciò in quanto le intese hanno un oggetto di per sé vietato e, quindi, sono per loro stessa natura dannose per il buon funzionamento del normale gioco della concorrenza, senza che occorra dimostrare in concreto la sussistenza di effetti dannosi sul mercato.
Al contrario, la VI Sez. reputa fondate le censure con cui si lamentano per un verso, la mancata valutazione da parte del T.a.r. delle attenuanti e, per altro verso, i criteri di calcolo della sanzione che si risolvono in una violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e individualità della pena.
Per giungere a tali conclusioni, ricostruisce il quadro normativo vigente in materia, prendendo le mosse dall’art. 11 della l. 689/1981[xxvii] che, al fine di modulare la sanzione in ragione delle specificità del caso concreto, individua come parametri di riferimento «la gravità della violazione, l'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché la personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche».
Inoltre, le Linee Guida ai punti 7 e ss. dispongono che la sanzione venga calcolata moltiplicando una percentuale del valore delle vendite determinata in funzione della gravità dell’infrazione, per la durata dell’intesa contestata (espressa in anni, mesi e giorni); l’importo assunto quale base di calcolo è quindi ancorato ad un dato oggettivo. Quest’ultimo importo viene considerato solo per una quota percentuale, fissata in funzione della gravità dell’infrazione e fino alla misura massima del 30% del valore delle vendite; con l’ulteriore precisazione che in presenza di violazioni particolarmente rare tale percentuale non possa essere inferiore al 15%.
In ogni caso, l’importo risultante all’esito del descritto procedimento di calcolo, secondo quanto previsto dal menzionato art. 15 della l. n. 287/1990, non deve eccedere il tetto del 10% del fatturato. Ancora, ulteriori riduzioni sono riconoscibili in applicazione di un programma di clemenza[xxviii] o delle circostanze concrete[xxix].
Nel caso di specie, l’Autorità, sul rilievo dell’indisponibilità di elementi certi circa l’effettivo impatto dell’intesa sul mercato, ha applicato a tutte le partecipanti il predetto valore percentuale minimo del 15%; il quantum così parametrato viene rimodulato (in aumento) in relazione alle responsabilità del singolo operatore, tenuto conto di eventuali circostanze aggravanti/attenuanti rinvenibili nella fattispecie[xxx].
Tuttavia, lo scarto esistente fra il minimo valore percentuale (vale a dire il 15% del coefficiente di calcolo) e il massimo valore percentuale (rappresentato dal 10% del fatturato), determina in concreto un appiattimento della sanzione su quest’ultimo valore, frustrando la ratio della disciplina di settore, astrattamente improntata ad una differenziazione della sanzione in funzione delle specificità delle condotte e dei ruoli imputabili a ciascun singolo operatore[xxxi].
Ne consegue che la ratio sottesa all’art. 15, individuabile nella necessità di contenere l’entità della sanzione entro limiti di sostenibilità finanziaria, se così interpretata limita - quando non esclude - la possibilità di graduare la stessa adeguandola alle effettive responsabilità degli autori delle condotte illegittime. Pertanto, secondo il Consiglio di Stato, una simile discrasia deve essere eliminata, dovendosene fare l’Autorità in sede di ridefinizione degli importi delle sanzioni.
4. Sul regime probatorio degli illeciti anticoncorrenziali
Le considerazioni svolte dal Consiglio di Stato con riferimento alla sufficienza di elementi indiziari ai fini dell’accertamento delle intese restrittive della concorrenza non lasciano di certo sorpresi.
Si tratta infatti di un orientamento piuttosto consolidato che, in ragione dei caratteri peculiari degli illeciti anticoncorrenziali[xxxii] – quali lo svolgimento in modo segreto e clandestino, talvolta in territorio estero e con una documentazione in genere piuttosto minimale –, si è interrogato sulle regole probatorie da seguire in ambito procedimentale e in sede di successivo controllo giurisdizionale.
Le principali tematiche affrontate (e risolte) sono state essenzialmente due: la prima, concernente gli elementi necessari per fornire la prova della partecipazione all'intesa anticoncorrenziale; la seconda, relativa agli elementi probatori invocabili dalle imprese a testimonianza della loro dissociazione dalle intese in questione.
Con riferimento al primo aspetto, l’approccio seguito è stato quello di dedurre l’asserita condotta illecita della singola impresa da una valutazione unitaria e complessiva di un significativo numero di indizi e riscontri. Tanto si giustifica proprio in ragione del fatto che gli elementi probatori attestanti in modo esplicito una condotta illegittima sono normalmente frammentari, sporadici, sforniti di taluni dettagli ricostruibili solo in via deduttiva[xxxiii]. Così, sono reputati elementi indiziari, la cui rilevanza deve essere valutata globalmente: l'elevato numero di riunioni e contatti tra le imprese coinvolte, la sostanziale stabilità delle quote di mercato, l'elevato grado di fidelizzazione della clientela, oltre che la confessione proveniente dagli altri soggetti partecipanti all’intesa vietata, riscontrata nel caso di specie.
Per quanto attiene poi al secondo profilo, laddove l’Autorità abbia provato - con le modalità appena indicate - la partecipazione ad una intesa anticoncorrenziale, l’impresa può fornire ulteriori elementi probatori a supporto della propria estraneità all'illecito. In dettaglio, tali elementi si identificano nella dimostrazione di una dissociazione significativa, tale da rivestire i caratteri di una opposizione alla pratica, o nella prova positiva di una spiegazione alternativa.
Su questo fronte, forte è stata l’influenza di quella giurisprudenza sovranazionale che ha elaborato una vera e propria "dottrina della dissociazione pubblica". In base ad essa, l’accertamento non può dirsi avvenuto laddove l’impresa, rispetto alla quale la Commissione abbia provato la condotta illecita, abbia manifestato in maniera inequivocabile la volontà di dissociarsi, portando tale volontà a conoscenza degli altri partecipanti all’accordo[xxxiv].
Un simile rigore si giustifica in ragione del fatto che la sola partecipazione di un'impresa a riunioni aventi un oggetto anticoncorrenziale ha obiettivamente l'effetto di creare o rafforzare l'intesa stessa, nella misura in cui fornisce l’impressione di volersi conformare ad essa. Pertanto, la mera circostanza che l’impresa non abbia dato seguito alle riunioni, né - come nel caso di specie - abbia tratto specifici vantaggi da esse, non è sufficiente ad ad escludere la sua responsabilità, essendo necessario che questa prenda pubblicamente le distanze dal contenuto delle riunioni.
Lungi dal rappresentare un’inversione dell’onere della prova, un approccio del genere si pone nel solco del dettato normativo: la dissociazione può essere dimostrata dall’impresa solo dopo che l’Autorità, assolvendo correttamente al proprio onere probatorio, abbia dimostrato la partecipazione della singola impresa all’intesa vietata; in mancanza, la prova non può dirsi raggiunta.
Si tratterebbe, in altri termini, di configurare un mero alleggerimento dell’onere probatorio posto in capo all’AGCM - anche in ragione della complessità dell’indagine investigativa cui la stessa è tenuta - che, almeno in astratto, appare rispettoso del principio di presunzione di innocenza.
Tuttavia, non è peregrino evidenziare come un siffatto modus agendi, a seconda di come declinato nella prassi, rischi di disattendere il predetto principio proprio in una materia in cui questo assume una particolare rilevanza, non solo per la natura “paragiurisdizionale” delle attività poste in essere delle Authorities, ma anche in ragione del carattere sostanzialmente penale delle sanzioni de quibus.
5. Il necessario rispetto del principio di proporzionalità per le sanzioni Antitrust
In tema di quantificazione della sanzione, al di là del tecnicismo delle norme di settore, il presupposto del ragionamento seguito dal Consiglio di Stato è rappresentato dal riconoscimento della natura punitiva delle sanzioni irrogate dall’AGCM, cui consegue l’estensione di taluni principi propri delle pene in senso stretto.
Più in dettaglio, si tratta dell’adesione alla tesi sostanzialista, elaborata dalla giurisprudenza sovranazionale e ormai ampiamente sdoganata anche in ambito interno, in base alla quale ai fini della individuazione delle “pene” cui applicare le garanzie riconosciute a livello costituzionale e convenzionale, non occorre fermarsi al dato formale ma è necessario esaminare la sostanza delle singole sanzioni. In quest’ottica, il nomen iuris rappresenta solo il primo dei criteri da seguire ai fini del riconoscimento della natura sostanzialmente penale della sanzione, collocandosi accanto a questo, in un rapporto di alternatività, anche quelli della natura della disposizione punitiva e del grado di severità della sanzione stessa[xxxv].
Nel caso di specie, è stato proprio quest’ultimo il criterio dirimente che in passato aveva portato il Consiglio di Stato a riconoscere la natura punitiva delle sanzioni pecuniarie de quibus[xxxvi], con conseguente applicazione delle garanzie proprie del settore penale.
Ed in particolare, il profilo qui attenzionato dal Consiglio di Stato è quello della proporzionalità della sanzione amministrativa, già oggetto di riconoscimento da parte del giudice amministrativo[xxxvii], in aderenza alla linea interpretativa seguita dalla Consulta.
Al riguardo, ebbene precisare che il principio in esame è da tempo applicato nel diritto amministrativo, anche grazie al contribuito interpretativo della Corte di Giustizia che lo ha elevato al rango di principio generale del diritto comunitario[xxxviii].
Nel diritto nazionale, tale principio ha assunto una particolare valenza all’indomani della l. 15/2005 che, incidendo sul testo dell’art. 1 della l. 241/1990, ha assoggettato l’attività amministrativa al rispetto di tutti i principi procedimentali di diritto comunitario[xxxix]. In conseguenza della novella, il rispetto del principio di proporzionalità è stato evocato dalla giurisprudenza italiana in maniera costante in diversi settori, dalla materia ambientale, alla concorrenza, al commercio, agli appalti pubblici e alle sanzioni[xl].
Purtuttavia, allorquando vengano in considerazione sanzioni sostanzialmente penali, il medesimo principio si declina in termini diversi e più pregnanti, non dissimili da quelli che lo connotano nel diritto penale.
È questa la conclusione cui è giunta qualche anno fa la Consulta che ha esteso il principio di proporzionalità – inteso in senso forte – alle sanzioni sostanzialmente penali, ammettendo così un sindacato condotto secondo uno schema autonomo, vale a dire sganciato dal raffronto con un tertium comparationis e reso possibile in virtù dell’applicazione dell’art. 49, par. 3 Carta di Nizza[xli].
Tali approdi sono fatti propri dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento che, in sede di ricognizione dei principi enunciati dalla Sezione in materia di quantificazione delle sanzioni, richiama un proprio precedente il quale, a sua volta, fa rinvio alla sentenza della Corte Costituzionale[xlii].
L’interesse per la sentenza, pertanto, deriva anche dalla circostanza che la stessa conferma il ruolo attivo svolto dal giudice amministrativo nel processo di assimilazione tra la figura delle sanzioni amministrative e quella delle sanzioni penali, in adesione al filone sostanzialista inaugurato da Strasburgo e in linea di continuità con l’orientamento patrocinato dalla Corte Costituzionale.
[i] In dettaglio, si allude al provvedimento n. 2784 adottato nell’adunanza del 17 luglio 2019.
[ii] Cfr. delibere AGCM del 5 luglio 2017, del 5 dicembre 2017 e del 9 maggio 2018.
[iii] Cfr. delibera AGCM del 31 ottobre 2018.
[iv] Nello specifico, costui avrebbe agito al fine di incentivare il proprio prestigio all’interno del Gruppo Italiano Fabbricanti Cartone Ondulato – GIFCO di cui era stato membro del Consiglio Direttivo per più di un decennio.
[v]In particolare, tale partecipazione non si estenderebbe a tutto il periodo compreso dal 5.11.2009 al 30.3.2017 come asserito nella sentenza impugnata, ma al più dal 2011 (data a partire dalla quale nei file ci sarebbe prova della partecipazione alle riunioni dell’impresa appellante) al 20.10.2015 (data di morte del responsabile commerciale per il cui tramite si ritiene che l’appellante abbia preso parte alle intese).
[vi] A sostegno di questa ricostruzione, vengono allegate una serie di circostanze, quali: vantaggio economico concentrato nelle sole imprese in posizione dominante; convenienza dell’intesa immaginata dall’AGCM unicamente per le grandi imprese titolari di più stabilimenti e non anche per quelle dotate di un unico stabilimento come l’appellante; mantenimento di una politica autonoma da parte dell’appellante.
[vii] Nella specie, documenti ad uso interno o scambi di mail intercorsi tra le parti e non conoscibili all’esterno.
[viii] Per superare questa aporia, l’appellante ha proposto una interpretazione alternativa della norma, in base alla quale il limite di cui all’art. 15 della l. n. 287/1990 deve essere inteso come massimo edittale in senso proprio, tale da imporre all’AGCM di determinare l’importo della sanzione entro il massimo di legge anche nei passaggi di calcolo intermedi.
[ix] Cons. Stato, Sez. VI, 10/01/2020, n. 236.
[x] Cons. Stato, Sez. VI, 10/01/2020, n. 236.
[xi] Cons. Stato, Sez. VI, 03/01/2020, n. 52.
[xii] Cons. Stato, Sez. VI, 02/09/2019, n. 6022.
[xiii] Cons. Stato, Sez. VI, 14/01/2019, n. 321.
[xiv] Cons. Stato, Sez. VI, 04/09/2015, n. 4123.
[xv] Cons. Stato Sez. VI, 02/07/2015, n. 3291.
[xvi] Cons. Stato, Sez. VI, 24/10/2014, n. 5274.
[xvii] Cons. Stato, Sez. VI, 04/09/2014, n. 4506.
[xviii] Cons Stato, Sez. VI, 01/06/2016, n. 2328.
[xix] Cons. Stato, Sez. VI, 15/07/2019, n. 4990.
[xx] Cons Stato, Sez. VI, 22/03/2016, n.1164, Corte di Giustizia dell'Unione europea, sentenza Menarini, 27 settembre 2011, n. 43509/08.
[xxi] Cons. Stato, Sez. VI, 10/07/2018, n.4211.
[xxii] Cons. Stato sez. VI, 09/06/2022, n. 4696.
[xxiii] Art. 15, comma 1-bis: «Tenuto conto della gravità e della durata dell'infrazione, dispone inoltre l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10 per cento del fatturato realizzato in ciascuna impresa o associazione di imprese nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida, determinando i termini entro i quali l'impresa deve procedere al pagamento della sanzione. Se l'infrazione commessa da un'associazione di imprese riguarda le attività dei suoi membri, l'Autorità dispone l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10 per cento della somma dei fatturati totali a livello mondiale realizzati nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida di ciascun membro operante sul mercato interessato dall'infrazione commessa dall'associazione. Tuttavia, la responsabilità finanziaria di ciascuna impresa riguardo al pagamento della sanzione non può superare il 10 per cento del fatturato da essa realizzato nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida».
[xxiv] Cons. Stato, Sez. VI, 24/06/2010, n. 4013.
[xxv] Cons. Stato, Sez. VI, 20/05/2011, n. 3013.
[xxvi] Cons Stato, Sez. VI, 26/03/2020, n.2111.
[xxvii] Applicabile in virtù del rinvio che l’art. 31 della l. n. 287/1990 compie alle disposizioni contenute nel capo I, sezioni I e II della legge 24 novembre 1981, n. 689.
[xxviii] V. art. 30 Linee Guida.
[xxix] V. art. 34 Linee Guida.
[xxx] Sulla scorta di quanto previsto dall’art. 25 delle Linee Guida.
[xxxi] Circostanza del resto confermata anche dal provvedimento impugnato, nella parte in cui la stessa AGCM precisa che le sanzioni applicate alle imprese partecipanti «eccedono per la maggior parte delle aziende coinvolte, il limite massimo previsto dall’art. 15, comma 1, della legge n. 287/1990». In altri termini, il beneficio del tetto massimo riconosciuto ad ogni azienda si determina in funzione dell’entità dello scostamento della sanzione (calcolata come sopra descritto) dal tetto legale, determinando il paradossale risultato che maggiore è la gravità della condotta, maggiore può rivelarsi il vantaggio che il trasgressore ricava.
[xxxii] Per un’analisi più approfondita della materia, si rinvia a A. PAPPALARDO, Il diritto comunitario della concorrenza - Profili sostanziali, Utet, Torino, 2007.
[xxxiii] In tal senso, oltra ai precedenti più recenti citati nella parte motiva della sentenza in commento, v. anche Cons. Stato, Sez. VI, 8 febbraio 2008, n. 424 in cui, per la prima volta, vengono chiariti i criteri di valutazione del giudice amministrativo in ordine all'assolvimento da parte dell'AGCM dell'onere probatorio circa l'esistenza di un'intesa.
[xxxiv] Sul punto, v. in Corte di Giustizia, sentt. 8 luglio 1999, causa C-199/92, Huls/Commissione, pt. 155 e causa C-49/92 Commissione/Anic Partecipazioni, pt. 96.
[xxxv] In argomento si rinvia, ex multis, a F. GOISIS, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Giappichelli, Torino, 2015, 4; V. MANES, Profili e confini dell’illecito para-penale, Rivista Italiana Di Diritto E Procedura Penale,2017, p. 988.
[xxxvi] V. Cons Stato, Sez. VI, 22/03/2016, n.1164 secondo cui «Questa disposizione [art. 6 CEDU] si applica anche in presenza di sanzioni amministrative di natura afflittiva, alle quali deve essere riconosciuta natura sostanzialmente penale. La Corte di Strasburgo ha elaborato propri e autonomi criteri al fine di stabilire la natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione. […] Nella la fattispecie in esame, la sanzione dell’AGCM, avuto riguardo ai criteri di identificazione sopra esposti e, in particolare al grado di severità della stessa ha natura afflittiva e “sostanzialmente” penale».
[xxxvii] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 09/06/2022, n. 4696, ove si legge che «Tale conclusione, oltre che più aderente alla lettera della legge, appare anche in maggior sintonia con i recenti approdi della giurisprudenza volti a salvaguardare i principi di adeguatezza e proporzionalità della sanzione, i quali implicano necessariamente che la situazione economica della società, di cui l’Autorità deve tenere conto, e i dati utilizzati per il calcolo della sanzione siano, se non concomitanti, quanto meno temporalmente prossimi alla data di irrogazione della stessa».
[xxxviii] Cfr., ex multis, C.giust. 18 novembre 1987, causa C-137/85, Maizena e a., Id., 16 ottobre 1991, causa C-24/90, Hauptzollamt Hamburg-Jonas c./Werner Faust offene Handelsgesellschaft Kg secondo cui «per stabilire se una disposizione di diritto comunitario sia conforme al principio di proporzionalità è necessario controllare se i mezzi da essa contemplati siano idonei a realizzare lo scopo perseguito, senza andare oltre quanto è necessario per raggiungerlo [...] fermo restando che, qualora si presenti una scelta tra più misure appropriate, è necessario ricorrere alla meno restrittiva».
[xxxix] Per una disamina più approfondita del principio di proporzionalità nel diritto amministrativo si rinvia, fra gli altri, a A.M. SANDULLI, voce Proporzionalità, in S. CASSESSE (diretto da) Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 4643 e ss; ID., La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998, 37 e ss.; S. COGNETTI, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011; TRIMARCHI BANFI F., Canone di proporzione e test di proporzionalità nel diritto amministrativo, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 2, 2016, p. 361.
[xl]Esemplificativa è Cons. Stato, Sez. V, 14 aprile 2006, n. 2087 ove viene precisato che «il principio di proporzionalità […] si risolve, in sostanza, nell'affermazione secondo cui le autorità comunitarie e nazionali non possono imporre, sia con atti normativi, sia con atti amministrativi, obblighi e restrizioni alle libertà del cittadino, tutelate dal diritto comunitario, in misura superiore, cioè sproporzionata, a quella strettamente necessaria nel pubblico interesse per il raggiungimento dello scopo che l'autorità è tenuta a realizzare, in modo che il provvedimento emanato sia idoneo, cioè adeguato all'obiettivo da perseguire, e necessario, nel senso che nessun altro strumento ugualmente efficace, ma meno negativamente incidente, sia disponibile» Nel medesimo senso, cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 2670/01; Id., 5714/02; Id., Sez. VI, 1 aprile 2000, n. 1885.
[xli] Si allude a Corte Cost. sent. 10 maggio 2019, n. 112 che, riconoscendo la natura punitiva della misura prevista dall’art. 187-sexies t.u.f., ne ha dichiarato la incostituzionalità nella parte in cui prevede la confisca dell’intero «prodotto» di operazioni finanziarie illecite e dei «beni utilizzati» per commetterle, anziché del solo «profitto» ricavato da queste operazioni.
[xlii] Il riferimento è alla già menzionata Cons. Stato, Sez. VI, 09/06/2022, n. 4696 che chiarisce «Deve infatti ricordarsi che la Corte costituzionale ha esteso il principio di proporzionalità nell’applicazione delle sanzioni penali – che impone la necessaria personalizzazione della pena alla luce della oggettiva gravità, oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato in attuazione del principio di personalità della responsabilità penale ai sensi dell’art. 27 Cost. – anche alle sanzioni amministrative punitive (sentenza n. 112 del 2019, cfr. anche Consiglio di Stato, 25 giugno 2019, n. 4335: “l’importo dell’ammenda deve rimanere comunque proporzionato, oltre che all’infrazione anche e in ogni caso alla situazione economico-finanziaria del soggetto che se ne ritenga responsabile”)».
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