ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le proroghe ex lege delle concessioni “balneari” alla Corte di Giustizia: andata e ritorno di un istituto controverso (nota a T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, ordinanza 11 maggio 2022, n. 743)
di Matteo Timo
Sommario: 1. Premessa: il quadro delle concessioni balneari dopo le sentenze “gemelle” del 2021 - 2. I quesiti pregiudiziali sollevati dal TAR Puglia: un nuovo contrasto giurisprudenziale? - 3. La controversa applicabilità della normativa eurounitaria alle concessioni balneari: parziale adesione dell’ordinanza di rinvio alla Plenaria - 4. (Segue) L’incerto rapporto fra diritto nazionale e diritto dell’Unione: in particolare, la “direttiva servizi” recepita, ma self-executing - 5. Cenni finali all’ordinanza di rinvio pregiudiziale e osservazioni conclusive.
1. Premessa: il quadro delle concessioni balneari dopo le sentenze “gemelle” del 2021
Con l’ordinanza in rassegna[1] – emessa nel corso di un giudizio scaturito da un ricorso dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) ai sensi dell’art. 21-bis della legge n. 287/1990[2] – il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, Sezione di Lecce, a pochi mesi di distanza dalle pronunce “gemelle” dell’Adunanza Plenaria[3], ha operato un rinvio ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (di seguito anche “TFUE”), sottoponendo alla Corte di Giustizia dell’Unione europea nove quesiti pregiudiziali concernenti le concessioni demaniali marittime, lacustri e fluviali, ad uso turistico e ricreativo, cosiddette “concessioni balneari”.
Si tratta della seconda volta che i giudici amministravi interrogano la Corte di Giustizia in merito alla conformità al diritto eurounitario del meccanismo delle proroghe legali delle concessioni in essere, con particolare riferimento alla libertà di stabilimento dei prestatori di servizi di cui all’art. 49 TFUE e all’art. 12 della c.d. “direttiva servizi” o “direttiva Bolkestein”[4]. Come noto[5], infatti, la Corte si era pronunciata – con la sentenza Promoimpresa del 2016[6]– nel senso che le menzionate disposizioni unionali ostano a qualsiasi tipologia di rinnovo automatico dei titoli concessori in assenza di procedura selettiva del concessionario, allorché ricorrano, a seconda dei casi[7], o un interesse transfrontaliero certo o si tratti dell’affidamento di una risorsa naturale scarsa.
La scelta operata dal T.A.R. Lecce – unitamente alla procedura d’infrazione avviata dalla Commissione europea nei confronti della Repubblica italiana nel 2020 – consente di corroborare quanto si ebbe modo di scrivere qualche mese prima della notifica della lettera di messa in mora, nella misura in cui «il protrarsi della mancata armonizzazione e l’assenza di una normativa puntuale sulle concessioni balneari potrebbe esporre lo Stato italiano ad una nuova procedura d’infrazione, ovvero determinare un ulteriore rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia […]»[8].
Occorre, ad ogni modo, dare atto di quanto il quadro normativo e giurisprudenziale che contorna il rinvio de quo appaia profondamente mutato da quello che mosse il T.A.R. Lombardia, nel 2014, e il T.A.R. Sardegna, nel 2015, ad adire la Corte di Giustizia[9].
Il rinvio pregiudiziale resta, comunque, uno strumento utile a meglio definire la complessa attuazione della direttiva servizi nell’ordinamento italiano, anche se, con precipuo riferimento ai contenuti di quello operato dall’ordinanza in commento, esso non sembra abbia colto appieno l’occasione per sollevare talune altre questioni d’interesse: quali l’effettiva portata del legittimo affidamento in capo ai concessionari uscenti; le modalità di accertamento del carattere “scarso” della risorsa oggetto di concessione; la sorte del provvedimento amministrativo inoppugnabile, ma divenuto “illegittimo” per disapplicazione della normativa interna contrastante con quella unionale; la legittimità e i limiti dei cosiddetti “effetti verticali invertiti” che possono scaturire da un’applicazione della direttiva Bolkestein da parte delle amministrazioni locali nei confronti dei concessionari decaduti; il valore da riconoscere al decreto legislativo di recepimento[10] della direttiva servizi in Italia; nonché, sempre che il rinvio pregiudiziale sia la sede opportuna, tutte le problematiche e le perplessità che sono state evidenziate da attenta dottrina in merito alle pronunce n. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, tra le quali, non da ultima, la possibilità che dalla disapplicazione della proroga legale consegua una responsabilità penale, come peraltro confermato da una controversa – e successiva alla Plenaria – sentenza della Corte di Cassazione[11].
Segnatamente, le considerazioni che muovono nel senso sopra delineato si radicano nella circostanza per cui il rinvio pregiudiziale, a sommesso avviso dello scrivente, sembrerebbe in qualche misura esortare la Corte di Giustizia a “correggere il tiro” dell’Adunanza plenaria in punto di disapplicazione della normativa sulla proroga legale, tanto che i quesiti formulati si concentrano eminentemente sulla possibilità di riconoscere alla direttiva Bolkestein effetti diretti, esponendo alla Corte – nel solco di una consolidata giurisprudenza della Sezione Lecce[12] – le ragioni per le quali siffatta direttiva non godrebbe d’immediata applicazione nell’ordinamento italiano.
Invero, l’ordinanza rilancia la tesi dell’assenza di effetti diretti in capo alla direttiva Bolkestein e al suo art. 12 in particolare. Già all’epoca del primo rinvio si riscontravano opinioni divergenti sulla natura della direttiva n. 2006/123/CE: oggi la tematica dovrà essere affrontata dalla Corte di Giustizia anche alla luce della giurisprudenza, successiva al 2016, che – in un modo o nell’altro[13] – ha ritenuto che la direttiva servizi sia pienamente idonea ad applicarsi alle concessioni balneari.
Occorre, infatti, rammentare che sembrerebbero militare nel senso della disapplicazione delle proroghe ex lege non solo la lettura della sentenza Promoimpresa[14] e la successiva maggioritaria giurisprudenza amministrativa[15], ma anche la seconda procedura d’infrazione promossa dalla Commissione europea[16], il recente arresto della Plenaria[17] – recepito da alcune Sezioni semplici del Consiglio di Stato[18] e dal Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana[19] –, la stessa Corte di Cassazione nella sentenza prima citata.
Ad ogni buon conto, la giurisprudenza costituzionale[20], nel riconnettere la potestà legislativa a quella riservata allo Stato in materia di tutela della concorrenza ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost., ha sollecitato un intervento del legislatore nel rispetto del diritto eurounitario e dell’evidenza pubblica: potrebbe, in tal senso, avvalorarsi la tesi del T.A.R. Puglia della necessità di uno specifico recepimento della direttiva nel settore de quo.
Tuttavia, la stessa Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto tra poteri dello Stato promosso da una minoranza parlamentare avverso le pronunce della Plenaria[21] e, dall’altro lato, il legislatore che, nei primi mesi del 2022[22], sembra sia riuscito a superare la cronica incapacità di regolare le concessioni balneari in punto di tutela della concorrenza, rendendo così prematuro un rinvio alla Corte di Giustizia, sebbene l’attuale crisi di governo non lasci ben sperare in una celere evoluzione legislativa.
Tutto ciò premesso, nel presente lavoro si focalizzerà l’attenzione su talune delle tematiche che sono state oggetto di rinvio pregiudiziale, consci, tuttavia, delle molteplici complessità ermeneutiche, di carattere sostanziale e processuale, che sono emerse dalle sentenze della Plenaria[23]: ne consegue che oggetto d’interesse delle pagine seguenti sarà l’idoneità o meno del diritto eurounitario – e, in particolare, della direttiva servizi – a regolare il settore delle concessioni balneari.
Al fine di perseguire il suddetto obiettivo, occorre, su un più piano generale, sin da ora osservare come l’oggetto del rinvio pregiudiziale inerisca al rapporto intercorrente fra ordinamento sovranazionale (Unione europea) e ordinamenti nazionali (quelli degli Stati membri), ancorché il T.A.R. Puglia sembri omette di sussumere compiutamente la normativa sulle proroghe legali entro l’interpretazione fornita dalla pronuncia Promoimpresa – anche in prospettiva delle osservazioni esposte dalla Commissione europea[24] – e trascuri un richiamo alla giurisprudenza Granital[25]della Corte costituzionale, quantunque esso avrebbe potuto meglio definire il “coordinamento” fra fonti nazionali e dell’Unione europea.
Quanto scritto potrebbe avere una qualche utilità anche in termini di eventuale irrilevanza (se non di irricevibilità[26]) del rinvio pregiudiziale, soprattutto qualora si tenga a mente che, in controversia analoga, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio[27] è pervenuto a conclusioni opposte, nell’affermare che le decisioni «cui è giunta la Plenaria inducono il Tribunale a ritenere non sussistenti i presupposti per la rimessione alla Corte di Giustizia delle questioni pregiudiziali prospettate dal Sindacato Italiano Balneari […] al pari delle questioni di legittimità costituzionale ivi dedotte da ritenersi non rilevanti ai fini della decisione del presente giudizio, proprio in ragione del citato orientamento dell’Adunanza Plenaria»[28].
2. I quesiti pregiudiziali sollevati dal TAR Puglia: un nuovo contrasto giurisprudenziale?
Come già osservato, l’ordinanza de qua solleva nove quesiti pregiudiziali fra loro concatenati, fondati sull’asserita mancanza di effetti diretti in capo alla direttiva servizi e volti ad interrogare la Corte di Giustizia in merito alle possibili ricadute scaturenti da un eventuale riconoscimento della natura self-executing in capo alla medesima direttiva.
Prima di procedere ad una succinta disamina dei quesiti, appare corretto proporre due considerazioni di carattere generale.
In primo luogo – ma si tratta, invero, di una perplessità scaturente anche dalla lettura delle stesse pronunce della Plenaria[29] –, l’ordinanza omette di prendere in esame la possibilità che la direttiva servizi sia una direttiva recepita, ancorché in modo parzialmente errato e, pertanto, non necessitante di un complesso esame sulla sussistenza dei requisiti per l’“auto-esecutività”, quanto dell’elisione delle disposizioni con essa confliggenti e, in particolar modo, quelle sulle proroghe legali. In particolare, nel ragionamento della Plenaria – e ciò appare quantomeno singolare – manca un qualsivoglia richiamo al d.lgs. n. 59/2010, di recepimento della direttiva Bolkestein[30], sicché il massimo organo della giustizia amministrativa muove direttamente alla ricostruzione della natura self-executing.
Similmente alla Plenaria, nella motivazione dell’ordinanza in commento il Collegio afferma che «a seguito della legge di delega n. 88/2009 (art. 41), è intervenuto il decreto legislativo 26.3.2010 n. 59, di formale recepimento della direttiva 2006/123»[31], senza però sviluppare ulteriormente il rilievo. In merito questo aspetto, sebbene si possa richiamare quanto osservato da una voce della dottrina circa l’irrilevanza del d.lgs. n. 59/2010[32], non sembra rispondere a criteri di logicità e, forsanche, di economicità che il giudice nazionale interroghi la Corte di Giustizia circa l’effetto diretto di una direttiva, allorché questa sia stata formalmente recepita e senza motivare in ordine all’inidoneità della normativa nazionale di recepimento a soddisfare gli obiettivi posti dalla direttiva medesima.
In secondo luogo, dalla lettura dell’ordinanza di rinvio non sempre è chiaro comprendere il legame tra le fonti dell’Unione europea e quelle dell’ordinamento nazionale: il Collegio afferma che il diritto derivato si pone in “stretto”[33] rapporto gerarchico con la Costituzione e con le fonti primarie. Simile ricostruzione del T.A.R. Puglia appare alquanto insolita, in assenza di un collegamento con la giurisprudenza costituzionale, la quale sembrerebbe ritenere che la risoluzione delle antinomie fra diritto interno e diritto eurounitario si fondi, in generale, sul criterio di competenza e non su quello gerarchico.
Ciò premesso, i quesiti possono essere riassunti come segue.
Innanzitutto[34], il Collegio interroga la Corte sull’effettiva validità della direttiva servizi, la quale sarebbe una direttiva di “armonizzazione”, adottata in violazione dell’art. 115 TFUE[35], vale a dire in assenza del prescritto requisito dell’unanimità.
In seconda battuta, l’ordinanza sviluppa una serie di quesiti concernenti l’effetto diretto[36]: se la direttiva Bolkestein presenti i requisiti di sufficiente dettaglio e di assenza di discrezionalità imprescindibili affinché la medesima sia considerata auto-esecutiva; se, nel caso di assenza di effetto diretto, possa darsi applicazione alle disposizioni nazionali contrastanti, salve le sanzioni per inadempimento a carico dello Stato italiano; se – ma il quesito appare, in certa misura, tautologico –, riconosciuta la natura self-executing la direttiva servizi, essa sia direttamente applicabile, ovvero si limiti a creare un obbligo in capo alla Stato membro; se la qualificazione di una direttiva come avente effetto diretto spetti solo al giudice nazionale o anche al funzionario della pubblica amministrazione; se ritenuta la direttiva n. 2006/123/CE self-executing, l’applicazione del suo articolo 12 esiga il carattere dell’interesse transfrontaliero certo di cui all’art. 49 TFUE[37].
Inoltre, il T.A.R. chiede se spetti al giudice nazionale statuire sulla «sussistenza, in via generale ed astratta, del requisito dell’interesse transfrontaliero certo riferito tout-court all’intero territorio nazionale» e sulla «sussistenza, in via generale ed astratta, del requisito della limitatezza delle risorse e delle concessioni disponibili riferito tout-court all’intero territorio nazionale»[38].
Infine, «qualora in astratto ritenuta la direttiva 2006/123 self-executing, se tale immediata applicabilità possa ritenersi sussistere anche in concreto in un contesto normativo – come quello italiano – nel quale vige l’art. 49 Codice della Navigazione […] e se tale conseguenza della ritenuta natura self-executing o immediata applicabilità della direttiva in questione […] risulti compatibile con la tutela di diritti fondamentali, come il diritto di proprietà, riconosciuti come meritevoli di tutela privilegiata nell’Ordinamento dell’U.E. e nella Carta dei Diritti Fondamentali»[39].
Dei summenzionati quesiti, il settimo e l’ottavo, concernenti l’accertamento dell’interesse transfrontaliero e la scarsità della risorsa concessa, appaiono di particolare rilievo, allorché pongono dubbi sulla corretta interpretazione dell’art. 12 della direttiva servizi e dell’art. 49 TFUE. Elementi questi che, in effetti, non sembrano essere stati considerati in misura sufficiente dalla Plenaria, giacché quest’ultima ha operato una valutazione valevole per l’intero territorio nazionale. Dalla sentenza Promoimpresa, per il vero, sembra scaturire la necessità di un accertamento case by case, in prospettiva delle peculiarità dei singoli territori interessati dal fenomeno concessorio, nonché del fatto che le concessioni sono rilasciate a livello comunale. Dall’ordinanza pare, dunque, emergere un netto contrasto con l’interpretazione della Plenaria, se non altro per i quesiti in parola.
All’opposto, in merito ai quesiti vertenti sull’interesse transfrontaliero certo in quanto tale, essi appaiono di secondo piano, poiché la giurisprudenza della Corte di Giustizia è consolidata nello statuire che il diritto dei Trattati trova immediata applicazione solo ove non vi siano disposizioni di diritto derivato impiegabili. A maggior ragione che, nel caso di specie, è lo stesso T.A.R. Puglia a riconoscere, in aderenza alla Plenaria, che «sulla base di quanto statuito sul punto dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Sent. A.P. 17 e18 del 2021), ritiene il Collegio l’applicabilità dell’articolo 12 della direttiva in questione alle concessioni demaniali marittime, oggetto del ricorso principale». Ne deriva, di conseguenza, che, se sulla riconducibilità dell’art. 12 direttiva servizi alle concessioni balneari non è fatta questione, allora l’art. 49 TFUE esce di scena e i quesiti sul suo portato assumono un taglio prettamente teorico.
Invero, anche il quesito sulla scarsità della risorsa potrebbe affievolirsi. Se non pare esservi dubbio che, ad un rigoroso esame della sentenza Promoimpresa, dovrebbero essere il giudice nazionale e, a monte, l’amministrazione a compiere, nelle singole ipotesi, una disamina circa il carattere “scarso” della risorsa naturale oggetto di concessione, è parimenti vero che il litorale, per quanto vasto possa essere, è sempre contenuto entro limiti spaziali che impediscono il rilascio di titoli non contingentati.
Tutto quanto osservato senza tenere in conto che la fragilità del bene de quo, unitamente alla molteplicità di interessi pubblici sensibili di cui è investito e alla natura di bene demaniale, rendono quanto mai opportuno giungere alla conclusione che il litorale sia sempre una risorsa scarsa, nonché meritevole di una rigorosa attività amministrativa di selezione del concessionario, ogniqualvolta, per l’appunto, tale bene sia sottratto all’uso comune[40].
Per un altro verso, infine, è da notarsi come il contrasto giurisprudenziale in merito all’auto-esecutività della direttiva servizi forse potrebbe riconsiderarsi. Dal tenore letterale del rinvio[41], il contrasto si riduce alla menzione di una sentenza del Consiglio di Stato (Sez. VI, 27 dicembre 2012, n. 6682) senza, di converso, alcun richiamo ai numerosi arresti[42], anche recenti[43], di senso opposto.
Invero, chi scrive, con specifico riferimento alla medesima sentenza del 2012, aveva osservato che «in un primo momento, tanto il Consiglio di Stato, quanto la Corte costituzionale avevano espresso l’opinione che il sistema delle proroghe legali fosse giustificato dalla transitorietà che avrebbe dovuto connotarlo, mettendo, per un verso, il legislatore nella condizione di disporre del tempo opportuno per riordinare la materia e, per un altro verso, ponendo i concessionari al riparo da un’improvvisa interruzione del rapporto»[44] e che «è, infatti, all’indomani della sentenza n. 458/2016, che si assiste ad un tendenziale mutamento nella giurisprudenza, tanto che i Tribunali amministrativi e il Consiglio di Stato si sono prevalentemente uniformati all’interpretazione pregiudiziale»[45].
A completamento delle considerazioni già svolte, nei paragrafi seguenti si tratteranno unitamente le questioni della validità e, soprattutto, degli effetti della direttiva Bolkestein in ordine alle concessioni balneari.
3. La controversa applicabilità della normativa eurounitaria alle concessioni balneari: parziale adesione dell’ordinanza di rinvio alla Plenaria
Una prima circostanza che appare di importanza basilare è quella, già rilevata, per cui l’ordinanza ammette «l’applicabilità dell’articolo 12 della direttiva in questione alle concessioni demaniali marittime, oggetto del ricorso principale»[46].
Il dato appare significativo nella duplice misura in cui, innanzitutto, sembrerebbe che, allo stato, la giurisprudenza amministrativa sia unanime nel riconoscere che le concessioni balneari rientrino nel portato oggettivo della direttiva Bolkestein; il che varrebbe altresì ad attenuare fortemente il contrasto fra l’interpretazione nomofilattica della Plenaria del 2021 e l’ordinanza in commento, spostando il core del rinvio pregiudiziale sull’effettività della direttiva e sul contrasto con la normativa nazionale. In secondo luogo, l’aver riconosciuto, già in sede di ordinanza di rinvio, che l’art. 12 in parola regola la materia vale, quantomeno, ad assopire le questioni relative all’art. 49 TFUE.
Dal portato motivazionale del rinvio, oggetto di quesito rivolto alla Corte di Giustizia non è se le concessioni balneari soggiacciano o meno alla direttiva servizi e al principio di concorrenza, piuttosto “quando” e “fino a che punto” la normativa europea possa scardinare l’impianto regolatorio italiano.
Il sopraggiungere di un regime pienamente concorrenziale è ventilato dalla stessa Sezione di Lecce, basti notare che essa si spinge sino al punto di affermare che la direttiva dovrebbe ritenersi priva di effetti diretti, salvo una responsabilità dello Stato italiano per mancato recepimento.
Se, pertanto, il rinvio verte eminentemente sull’applicabilità dell’art. 12 direttiva Bolkestein, occorre, innanzitutto, attribuire a quello stesso articolo l’interpretazione che del medesimo ha dato la Corte di Giustizia nel 2016, allorché è pervenuta alla statuizione di diritto per cui l’articolo 12 «deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico‑ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati»[47].
Se le cose dovessero stare nel modo che si è descritto, è da ritenere che talune questioni oggetto del rinvio siano state in parte esaurite dalla Plenaria[48] e dalla richiamata giurisprudenza nazionale nel senso della disapplicazione: senza che ciò, ovviamente, impedisca un ulteriore chiarimento pregiudiziale della Corte di Giustizia.
Ad ogni buon conto, una scrupolosa disamina dell’ordinanza esige che essa sia letta sulla scorta di alcuni punti fermi enucleati dalle Istituzioni europee, appunto in forza della rilevanza dell’art. 12 direttiva Bolkestein: in primis, dalla Corte di Giustizia, ma anche dalla Commissione europea.
Cominciando proprio dalla Commissione – sebbene sia chiaro che le interpretazioni formulate da quest’ultima non abbiano la stessa autorevolezza e incisività di quelle della Corte di Giustizia – appare evidente, al fine delle questioni de quibus, la rilevanza degli approfondimenti di cui alla lettera di messa in mora del 2020.
Sinteticamente, la Commissione osserva[49] che, qualora sia identificabile una disposizione di diritto derivato, essa prevale nell’applicazione concreta sul diritto dei Trattati, tanto che, nel caso di specie, l’esistere stesso dell’art. 12 della direttiva servizi confina l’art. 49 TFUE a disposizione di secondario interesse. La Commissione europea appura, inoltre, che «il capo III della direttiva sui servizi (quindi anche l’articolo 12 della medesima direttiva) si applica anche a situazioni puramente nazionali», con la conseguenza che un acclaramento dell’interesse transfrontaliero certo diviene irrilevante. Infine, la lettera di messa in mora precisa quanto si è già avuto la possibilità di osservare[50] in altre sedi, nel senso della necessità di un esame case by case e a livello territoriale dell’eventuale legittimo affidamento e della potenziale scarsità della risorsa, sebbene la Commissione giunga alla conclusione per cui «la legislazione nazionale in questione inevitabilmente riguard[a] concessioni aventi ad oggetto risorse che devono essere considerate scarse in base ai criteri stabiliti dall’articolo 12 della DS e specificati nella sentenza della CGUE»[51].
I rilievi della Commissione europea fanno da contraltare alle statuizioni della pronuncia Promoimpresa e di altra giurisprudenza della Corte di Giustizia. In tal senso, il giudice eurounitario, ha avuto modo nel 2018 di puntualizzare che «per quanto riguarda il contesto in cui si inserisce il capo III della direttiva 2006/123, l’articolo 2, paragrafo 1, di quest’ultima dispone, in termini generali, senza operare distinzioni tra le attività di servizio comprendenti un elemento di carattere estero e le attività di servizio prive di qualsiasi elemento di tal genere, che la direttiva in esame si applica ai “servizi forniti da prestatori stabiliti in uno Stato membro”»[52].
Dal canto suo, inoltre, la sentenza Promoimpresa aveva già assodato che «le questioni pregiudiziali, nella misura in cui vertono sull’interpretazione del diritto primario, si pongono solo nel caso in cui l’articolo 12 della direttiva 2006/123 non sia applicabile ai procedimenti principali, circostanza che spetta ai giudici del rinvio stabilire»[53], che «il fatto che le concessioni di cui ai procedimenti principali siano rilasciate a livello non nazionale bensì comunale deve, in particolare, essere preso in considerazione al fine di determinare se tali aree che possono essere oggetto di uno sfruttamento economico siano in numero limitato»[54] e che una «giustificazione fondata sul principio della tutela del legittimo affidamento richiede una valutazione caso per caso che consenta di dimostrare che il titolare dell’autorizzazione poteva legittimamente aspettarsi il rinnovo della propria autorizzazione e ha effettuato i relativi investimenti. Una siffatta giustificazione non può pertanto essere invocata validamente a sostegno di una proroga automatica istituita dal legislatore nazionale e applicata indiscriminatamente a tutte le autorizzazioni in questione»[55].
Punti fermi dell’interpretazione tanto della Corte quanto della Commissione, dunque, sono: la preminenza dell’art. 12 della direttiva Bolkestein sull’art. 49 TFUE; la sua applicabilità anche a operatori meramente nazionali; la necessaria valutazione case by case dell’eventuale legittimo affidamento; l’accertamento a livello locale e nei singoli casi della scarsità della risorsa, peraltro con una forte presunzione che il litorale sia di per se stesso un bene scarso.
4. (Segue) L’incerto rapporto fra diritto nazionale e diritto dell’Unione: in particolare, la “direttiva servizi” recepita, ma self-executing
Dalla lettura dei passaggi riportati, tanto della Commissione europea, quanto soprattutto della Corte di Giustizia, deriva con chiarezza come parte dei quesiti pregiudiziali sollevati dal T.A.R. Puglia ponga interessanti questioni relativamente al rapporto fra ordinamenti degli Stati membri e Unione europea, collocandosi nel solco di un lungo dibattito scientifico e giurisprudenziale.
Segnatamente, è possibile osservare, in primo luogo, che ogni questione relativa all’art. 49 o all’interesse transfrontaliero certo sia d’interesse secondario, posto che la giurisprudenza nazionale – ivi compresa la stessa ordinanza di rinvio – ha riscontrato l’applicabilità di una disposizione di diritto derivato. Peraltro, come sopra osservato, la Corte di Giustizia ha chiarito che la direttiva servizi rileva anche nel caso di attività prive di «carattere estero»[56].
In secondo luogo, l’asserita invalidità – per violazione dell’art. 115 TFUE – della direttiva servizi in quanto direttiva di “armonizzazione” e non di “liberalizzazione” appare infondata, posto che tale presunzione troverebbe, nella ricostruzione del T.A.R., fondamento nel fatto che la pronuncia Promoimpresa avrebbe usato la locuzione “armonizzare” in riferimento alla direttiva n. 2006/123/CE.
Con maggior precisione, si è indotti a ritenere privo di fondamento questo specifico quesito per taluni motivi: non pare sufficiente a supportare l’invalidità una frase estrapolata da una sentenza della Corte di Giustizia che si stava pronunciando su altri temi[57]; la questione appare del tutto peculiare e insolita, in un contesto di generale riconoscimento – anche da parte del legislatore italiano che l’ha ritualmente recepita – di validità alla direttiva Bolkestein; attenta dottrina ha da tempo chiarito la forte impronta liberalizzante e semplificante della direttiva in parola[58]; dirimente sarebbe poi il dato che la direttiva servizi è stata approvata sulla scorta dell’allora vigente art. 251 del Trattato istitutivo della Comunità europea (cd. “procedura di codecisione”), il quale, a quanto consta, non richiede l’unanimità, e non, come invece sostiene la Sezione di Lecce, sull’art. 115 TFUE, entrato in vigore successivamente.
Per il vero, è da ritenersi che la questione sulla validità e, soprattutto, sull’efficacia della direttiva servizi sia stata semplicemente non sviluppata per intero dall’ordinanza di rinvio, in prospettiva della duplice constatazione per cui, la Sezione rinviante, da un lato, omette il richiamo alla nutrita giurisprudenza costituzionale in merito ai rapporti fra diritto nazionale e diritto dell’Unione e, dall’altro lato, non approfondisce il nesso sussistente fra legislazione interna e direttiva servizi.
È emblematico di quanto appena riportato come dalla lettura dell’ordinanza di rinvio risalti più volte il richiamo alla sola gerarchia[59] quale criterio di risoluzione delle antinomie fra regole eurounitarie e quelle dello Stato membro, senza che sia fatta menzione della giurisprudenza Granital della Corte costituzionale[60], la quale ha da tempo chiarito come ordinamento dell’Unione europea e ordinamento italiano siano autonomi – sebbene fortemente integrati – e governati, di base, dal principio di competenza[61], da cui deriva non l’annullamento[62], bensì la disapplicazione della fonte interna discordante con quella dell’Unione europea e, semmai, un ricorso alla questione di legittimità costituzionale per eliminare quelle disposizioni interne contrastanti con direttive non recepite o non correttamente recepite[63]. Sul punto, a quanto consta, non risultano orientamenti giurisprudenziali tali da scardinare[64] l’assetto dei rapporti tra fonti stabilito dalla sentenza del 1984.
Nondimeno, il T.A.R. Lecce, come si è accennato, non s’interroga sul portato del d.lgs. n. 59/2010 di recepimento in Italia della direttiva serviti. Un richiamo al decreto, il cui esame è stato totalmente omesso anche dalle sentenze “gemelle” della Plenaria[65], viene solo abbozzato dall’ordinanza nel momento in cui il Collegio ricorda che lo Stato italiano ha “formalmente recepito” la direttiva servizi, salvo non farne più alcuna menzione nel prosieguo delle motivazioni del rinvio.
Il rilievo è peculiare: il silenzio sul punto della Plenaria e del T.A.R. appare anomalo qualora si ricordi che il legislatore delegato ha letteralmente trasposto l’art. 12 della direttiva servizi nell’art. 16 del D.Lgs. n. 59/2010. Anomalo per il fatto che, con un articolato sforzo interpretativo – la Plenaria al fine di riconoscere l’effetto diretto, il T.A.R. Puglia al fine opposto – i giudici amministrativi italiani disconoscono l’operato del legislatore, anche quando questi si è mosso nel senso del recepimento.
Ne, parimenti, dall’esame delle motivazioni della Plenaria e dell’ordinanza di rinvio è dato comprendere quale sia la ragione per cui, in ordine all’art. 12, sia necessario interrogarsi sull’effetto diretto, mentre una disamina dell’art. 16 possa essere omessa, anche, eventualmente, nel senso di promuovere una questione di legittimità costituzionale delle norme con esso contrastanti, sulla scorta dell’insegnamento delle citate sentenze Grantital e Fratelli Costanzo.
Considerazione quest’ultima che sembra trovare conforto nella più recente giurisprudenza Popławski[66], ove la Corte di Giustizia – nel ribadire il principio del primato, la disapplicazione in caso di fonti aventi effetto diretto e l’interpretazione conforme anche in caso di fonti prive di effetto diretto – chiarisce che «un giudice di uno Staro membro non è tenuto, sulla sola base del diritto dell’Unione, a disapplicare una disposizione del suo diritto nazionale contraria» a una direttiva[67]. Sembrerebbe, dunque, che nel caso in cui ci sia una normativa di recepimento il giudice nazionale debba tenerne conto: tanto che, proprio in riferimento alla direttiva servizi, la successiva pronuncia Thelen Technopark Berlin GmbH ha pienamente ribadito quanto enunciato nella sentenza Popławski II, precisando tuttavia che «un giudice nazionale non è tenuto, sulla sola base del diritto dell’Unione, a disapplicare una disposizione del suo diritto nazionale contraria a una disposizione del diritto dell’Unione, qualora quest’ultima disposizione sia priva di efficacia diretta (sentenza del 24 giugno 2019, Popławski, C-573/17, EU:C:2019:530, punto 68), ferma restando tuttavia la possibilità, per tale giudice, nonché per qualsiasi autorità amministrativa nazionale competente, di disapplicare, sulla base del diritto interno, qualsiasi disposizione del diritto nazionale contraria a una disposizione del diritto dell’Unione priva di tale efficacia»[68].
Invero, una spiegazione per il mancato esame del decreto italiano di recepimento parrebbe emergere da quell’etichetta di “formale” che il T.A.R. appunta sul D.Lgs. n. 59/2010. Se fossero davvero così – ma la convergenza della Plenaria e del T.A.R. lasciano presumere proprio questo – il ragionamento potrebbe destare alcune perplessità e condurre la giurisprudenza nazionale su una pericolosa china; quella di non attribuire il dovuto riguardo alla normativa di recepimento, senza peraltro siano chiarite le ragioni di siffatto indirizzo.
Dalla disamina dell’ordinanza e delle sentenze gemelle del 2021 – nonché, a quanto è dato sapere dalla dottrina – non emerge alcun motivo per cui, disapplicata la proroga legale, non possa trovare applicazione l’art. 16 del D.Lgs. n. 59/2010. Si tratterebbe, infatti, di dare prevalenza alla normativa interna conforme al diritto eurounitario su quella con il medesimo non concordante. Inoltre, l’operazione garantirebbe una certa quale “economia interpretativa”, evitando lunghe digressioni sull’effetto diretto (e sulle sue conseguenze sui rapporti e sui provvedimenti).
Pertanto, alla luce delle considerazioni svolte sulla validità e sull’efficacia della direttiva servizi, è, quantomai, di elevato interesse scientifico, economico e sociale che il T.A.R. Puglia abbia riproposto la questione alla Corte di Giustizia, nella misura in cui sembra che non si sia ancora addivenuti ad un definitivo consolidamento fra fonti interne e fonti dell’Unione.
Infatti, parte dei quesiti è munita di sicura portata interpretativa: in particolar modo quelli, già esaminati, che concernono l’accertamento della scarsità della risorsa, nonché di conseguenza il possibile legittimo affidamento ingeneratosi nel concessionario uscente. Infatti, tali interrogativi, come si è visto, si pongono in diretta consecuzione della sentenza Promoimpresa, nel senso di una verifica da operarsi nel singolo caso, a livello territoriale e in assenza di automatismi di qualsivoglia genere. Essi, inoltre, pongono le basi per un dialogo con l’Adunanza plenaria e con la Cassazione penale. Ne consegue che, al netto delle considerazioni che sono state esposte in proposito nelle pagine precedenti, sul punto non è irrilevante un chiarimento della Corte di Giustizia, quantomeno al fine di appurare se le valutazioni generalizzate effettuate dalla Plenaria rispondano a quanto richiesto al giudice nazionale dalla pronuncia Promoimpresa.
5. Cenni finali all’ordinanza di rinvio pregiudiziale e osservazioni conclusive
A conclusione della presente nota è possibile tratteggiare un bilancio delle argomentazioni elaborate dal T.A.R. Puglia, Sezione di Lecce, e, innanzitutto, osservare come esso proponga alla Corte di Giustizia la tesi dell’insussistenza dell’effetto diretto in disaccordo, sul punto, con le pronunce nomofilattiche.
Posto che non è in alcun modo precluso al giudice amministrativo sollevare questioni pregiudiziali anche in materie sondate in precedenza dall’Adunanza Plenaria, nel caso di specie appare si stia assistendo al proiettarsi a livello eurounitario di un contrasto giurisprudenziale prettamente interno al giudice amministrativo e, in larghissima misura, dovuto all’inerzia del legislatore statale a riordinare la materia.
Sembra, dunque, che il peculiare approccio alla regolazione delle concessioni balneari del legislatore italiano contribuisca ad assommare incertezza all’incertezza. Non a caso, mentre il legislatore fatica a riformare le concessioni a scopo turistico e ricreativo in aderenza alla direttiva servizi (rectius al d.lgs. n. 59/2010), anche l’Adunanza Plenaria, chiamata a dirimere l’annosa questione, avvalora interpretazioni sostanziali e processuali da più voci ritenute di dubbio portato[69] – sebbene sia stata notata un’analogia con l’operato del Conseil d’État[70] – e, da ultimo, il T.A.R. Puglia propone la tesi della legittimità delle proroghe legali, quantomeno sino ad un recepimento (si direbbe a questo punto “sostanziale”) della direttiva Bolkestein. Rilevante è, dunque, che la Corte di Giustizia sia stata invocata al fine di dirimere questi dubbi.
Infatti, vi è da chiedersi, in un contesto tanto variegato, quali conclusioni possano trarsi o, per meglio dire, quali conclusioni “debbano” trarsi se non altro a favore del consociato, dell’operatore economico e della stessa pubblica amministrazione che quelle regole sulle concessioni balneari devono applicare, esponendosi all’incertezza e, malauguratamente, alla responsabilità in sede penale[71].
Una prima osservazione milita nel senso di ritenere che la Plenaria non abbia sfruttato appieno l’occasione fornitale dal decreto presidenziale di rimessione: essa avrebbe potuto evitare operazioni d’ingegneria giuridica – che tante perplessità hanno suscitato nella dottrina[72] – e forse meglio avrebbe fatto ad usufruire direttamente del rimedio ex art. 267 TFUE rimettendo alla Corte di Giustizia le questioni più spinose: il merito sarebbe stato quello di avere un’interpretazione pregiudiziale immediatamente trasposta in una sentenza dell’Adunanza plenaria.
Una seconda osservazione, dalla quale deriva un forte temperamento della questione, risiede nella constatazione per cui nella prima metà del 2022 già tre Sezioni del Consiglio di Stato[73] – in qualche maniera, seppure imperfetta, affiancate dalla Cassazione penale – si sono adeguate alla Plenaria, il T.A.R. Lazio[74] ha escluso un rinvio pregiudiziale sulla stessa materia e la Corte costituzionale[75] ha dichiarato l’inammissibilità di un ricorso per conflitto di poteri promosso avverso le sentenze gemelle. Rilievi tutti che, pur lasciando piena autonomia all’esame in sede pregiudiziale, non potranno non essere tenuti in adeguata considerazione da parte della Corte di Giustizia.
Una terza considerazione concerne, invece, i limiti dei quesiti sollevati dal Tribunale amministrativo giacché essi, concentrandosi in larghissima misura sulla possibile inefficacia della direttiva servizi, non si pongono il problema che la Corte di Giustizia sposi la tesi opposta, lasciando aperti taluni interrogativi che l’ordinanza avrebbe potuto sottoporre alla Corte medesima e che avrebbero garantito una migliore attuazione della direttiva.
Fra questi rientrano i temi dei cd. “effetti verticali invertiti” e del cd. “rapporto triangolare”, nella misura in cui un eventuale effetto diretto della direttiva Bolkestein si presterebbe ad applicazioni esorbitanti dai comuni “effetti orizzontali”. Come si è avuto modo di precisare in altra sede[76], l’effetto diretto della direttiva servizi potrebbe essere invocato dall’amministrazione nei confronti del concessionario (caso dell’effetto verticale “invertito”), ovvero dall’aspirante affidatario, il quale potrebbe richiedere all’amministrazione di provvedere in merito alla decadenza dei titoli a detrimento dei concessionari in essere (caso del “rapporto triangolare”). Nessuna delle ipotesi menzionate è stata vagliata dalla Plenaria e dal T.A.R. Puglia: permane, ad ogni modo, la possibilità che la Corte faccia uso dei suoi poteri integrativi per esaminare anche queste non secondarie tematiche.
[1] T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, ordinanza 11 maggio 2022, n. 743.
[2] Legge 10 ottobre 1990, n. 287, recante “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”.
[3] Cons. Stato, Adunanza plenaria, sentenze nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021, in www.giustizia-amministrativa.it.
[4] Direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, reperibile in https://eur-lex.europa.eu.
[5] Numerosi sono i contributi di dottrina che si sono interessati al tema. Fra questi, si rammentano G. Bellitti, La direttiva Bolkestein e le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali, in Giorn. dir. amm., 2017, 1, p. 60 ss.; L. Di Giovanni, Le concessioni demaniali marittime e il divieto di proroga ex lege, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2016, 3-4, p. 912 ss.
[6] CGUE, Sez. V, 14 luglio 2016, cause riunite C-458/14 e C-67/15, Promoimpresa S.r.l. contro Consorzio dei comuni della Sponda Bresciana del Lago di Garda e del Lago di Idro, in https://eur-lex.europa.eu, nonché in Riv. giur. ed., 2016, 4, p. 385.
[7] Si avrà modo di approfondire questo aspetto nel prosieguo della presente nota.
[8] Il riferimento è, sia concesso, a M. Timo, Funzioni amministrative e attività private di gestione della spiaggia. Profili procedimentali e contenutistici delle concessioni balneari, Torino, 2020, p. 128.
[9] Ordinanze del T.A.R. Lombardia del 5 marzo 2014 e del T.A.R. Sardegna del 28 gennaio 2015, come riportato in epigrafe dalla sentenza Promoimpresa, cit.
[10] D.Lgs. 26 marzo 2010, n. 59, recante “Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno”.
[11] Sul punto P. Otranto, Illegittima proroga ex lege della concessione balneare e reato di “abusiva occupazione dello spazio demaniale”. Cronaca di un finale annunciato (nota a Cass. pen. 22 aprile 2022 n. 15676), in questa Rivista, 27 aprile 2022.
[12] Si è già avuto modo di osservare in altra sede che «a quanto consta, il Consiglio di Stato ha consolidato il menzionato indirizzo, il T.A.R. Puglia, Lecce – seguito da una parte minoritaria dei Tribunali Amministrativi –, si è fatto promotore di un’interpretazione divergente che, traendo fondamento dalla presunta carenza di effetti diretti scaturenti dalla direttiva servizi, ha escluso la disapplicazione delle disposizioni nazionali» (M. Timo, Concessioni balneari senza gara… all’ultima spiaggia, in Riv. giur. ed., 2021, 5, p. 1599): il riferimento è a T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 15 gennaio 2021, n. 73, e a T.A.R. Toscana, 9 novembre 2020, n. 1377, entrambi in www.giustizia-amministrativa.it.
[13] Su questo aspetto si veda oltre al § 4.
[14] CGUE, 14 luglio 2016, cause riunite C-458/14 e C-67/15, cit.
[15] Cfr., infra, al § 2.
[16] Infra, al § 3.
[17] Cons. Stato, Adunanza plenaria, nn. 17 e 18 del 2021, cit.
[18] Cons. Stato, Sez. VII, 17 maggio 2022, n. 3901, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] CGARS, Sez. giuri., 24 gennaio 2022, n. 116, in www.giustizia-amministrativa.it.
[20] Fra le molte, Corte cost., 9 gennaio 2019, n. 1, in www.cortecostituzionale.it, annotata da P.M. Vipiana, Le concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo fra leggi statali e leggi regionali, in Dir. mar., 2020, 2, p. 440 ss. Cfr. anche A. Lucarelli, Il nodo delle concessioni demaniali marittime tra non attuazione della Bolkestein, regola della concorrenza ed insorgere della nuova categoria “giuridica” dei beni comuni, in http://dirittifondamentali.it, n. 1/2019. Si veda anche Corte cost., 23 luglio 2020, n. 161, con commento di M. Conticelli, Il regime del demanio marittimo in concessione per finalità turistico-ricreative, in Riv. trim. dir. pubbl., 2020, 4, p. 1069 ss.
[21] Si veda il comunicato stampa del 25 maggio 2022, Concessioni balneari: inammissibile il conflitto proposto da sette deputati, in www.cortecostituzionale.it, ove si afferma che «In attesa del deposito della pronuncia, l’Ufficio comunicazione e stampa della Corte fa sapere che il conflitto è stato ritenuto inammissibile per difetto di legittimazione dei ricorrenti a far valere prerogative non loro, ma della Camera di appartenenza».
[22] Cfr., E. Verdolini, Concessioni balneari: è giunto il tempo per una riforma?, in www.eublog.eu, 18 maggio 2022.
[23] Sul punto si rinvia all’attenta riflessione di F. Francario, Se questa è nomofilachia. Il diritto amministrativo 2.0 secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (recensione al fascicolo monotematico dalla Rivista Diritto e Società n. 3/2021 “La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria”), in questa Rivista, 28 gennaio 2022.
[24] Tanto della prima quanto della seconda procedura d’infrazione: osservazioni che, per inciso, sono alla base dell’ormai decennale disputa giuridica sulle concessioni balneari.
[25] Corte cost., 8 giugno 1984, n. 170, in www.cortecostituzionale.it.
[26] In materia di condizioni di ricevibilità del rinvio pregiudiziale, si rinvia all’attenta ricostruzione di L. Terminiello, Le condizioni oggettive di ricevibilità del rinvio pregiudiziale, in F. Ferraro - C. Iannone (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, p. 59 ss., in particolare p. 62 e p. 64 ss. (e la giurisprudenza della Corte ivi menzionata) circa la “necessità” dei quesiti e la chiarezza della ricostruzione, da parte del giudice nazionale, delle circostanze fattuali e della regolazione giuridica. A titolo esemplificativo, CGUE, ordinanza 17 luglio 2014, resa nella causa C-107/14, in www.curia.europa.eu, in tema di onere motivazionale relativo alle risultanze che hanno indotto il giudice nazionale a sollevare un nuovo rinvio su materia che era già stata oggetto di uno precedente: benché i quesiti di cui a un rinvio «possano essere più agevolmente soddisfatti quando la domanda di pronuncia pregiudiziale si inserisce in un contesto già ampiamente noto a causa di un precedente rinvio pregiudiziale (v., in tal senso, sentenza Europièces, C‑399/96, EU:C:1998:532, punto 24), spetta tuttavia al giudice del rinvio fornire un minimo di spiegazioni sul quadro in fatto e in diritto, nonché sulle ragioni che l’hanno indotto a sottoporre una nuova questione pregiudiziale».
[27] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II-bis, 11 maggio 2022, n. 5869, in www.giustizia-amministrativa.it.
[28] Diversamente, T.A.R. Marche, Sez. I, ordinanza 25 luglio 2022, n. 439, in www.giustizia-amministrativa.it, ha deciso di sospendere il giudizio in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia.
[29] Sia, sul punto, consentito il richiamo a M. Timo, Concessioni balneari senza gara… all’ultima spiaggia, cit., p. 1609.
[30] Si richiama, in particolar modo, la ricostruzione di M.A. Sandulli, Introduzione al numero speciale sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, in Diritto e società, 2021, 3, p. 331 ss.
[31] Ordinanza in rassegna, punto II – Il contesto normativo di riferimento.
[32] Il richiamo è a F. Ferraro, Diritto dell’Unione europea e concessioni demaniali: più luci o più ombre nelle sentenze gemelle dell’Adunanza plenaria?, in Diritto e società, cit., p. 368, il quale, in recente e approfondito scritto, ha osservato che «Non vi è dubbio che la previsione contenuta nell’art. 12 della direttiva risulta provvista di efficacia diretta, in quanto chiara, precisa e suscettibile di applicazione immediata, in particolare, nella parte in cui impone l’obbligo negativo di non prorogare le concessioni demaniali. Al contempo, non rileva che il d.lgs. n. 59 del 2010 abbia formalmente recepito la direttiva servizi, atteso che le successive norme di legge hanno disatteso l’obbligo di non prorogare le concessioni imposto da tale atto dell’Unione».
[33] Ordinanza in rassegna, punto IV - Premesse di ordine generale: gerarchia delle fonti e direttive self-executing, nell’affermare che «Nel caso di conflitto tra due norme, una nazionale ed una unionale, se entrambe idonee a disciplinare la medesima fattispecie, l’interprete non può che fare riferimento alla scala di gerarchia delle fonti del diritto nell’ambito dell’ordinamento giuridico così come etero-integrato dalla normativa dell’Unione europea. La scala di gerarchia delle fonti del diritto vede al primo posto la Costituzione e le leggi costituzionali, seguite nell’ordine dalle norme unionali immediatamente efficaci ed applicabili (come i Regolamenti), dalle leggi nazionali ordinarie, dalle Direttive U.E., dai regolamenti nazionali, ecc. Ciò costituisce per l’interprete una assoluta priorità logica per la soluzione della questione proposta. Occorre in particolare stabilire l’esatta collocazione delle direttive (autoesecutive e non) all’interno del sistema di gerarchia delle fonti».
[34] Primo quesito di cui all’ordinanza in rassegna.
[35] Reperibile al seguente link: https://eur-lex.europa.eu.
[36] Quesiti da due a quattro, ordinanza in parola.
[37] Sesto quesito.
[38] Quesiti settimo e ottavo.
[39] Quesito nono, corsivo nel testo dell’ordinanza.
[40] Si vedano, in generale, le considerazioni di V. Caputi Jambrenghi, L’interesse pubblico nelle concessioni demaniali marittime, in D. Granara (a cura di), In litore maris. Poteri e diritti in fronte al mare, Torino, 2019, p. 68 ss.
[41] Testualmente, l’ordinanza di rinvio, afferma che «Sotto il primo profilo deve rilevarsi che, viceversa, nella giurisprudenza nazionale il tema dell’auto-esecutività della direttiva 2006/123 non è mai stato affrontato specificamente, atteso che nelle varie pronunce dei giudici amministrativi nazionali la natura auto-esecutiva o meno della direttiva è stata data per scontata sia in senso affermativo, sia in senso negativo, in assenza comunque di alcuno specifico approfondimento. Ed invero, accanto a pronunce che hanno semplicemente dato per scontata e presupposta la natura auto-esecutiva, ricorrono altre sentenze di segno diametralmente opposto, così ad esempio in Consiglio di Stato sentenza Sez. VI 27.12.2012 n. 6682».
[42] In proposito si vedano la nota successiva, nonché Cons. Stato, Sez. VI, 18 novembre 2019 n. 7874, in Foro it., 2020, III, 82, con nota di richiami a cura di A. Travi.
[43] Oltre alle già richiamate T.A.R. Lazio, Roma, n. 5869/2022; CGARS, n. 116/2022; Cons. Stato, n. 3901/2022; è possibile ricordare la recente pronuncia Cons. Stato, Sez. VII, 18 maggio 2022, n. 3918, in www.giustizia-amministrativa.it, nella parte in cui afferma che «preliminarmente il collegio osserva che l’appellante non può invocare il comma 682 della legge n° 145 del 2018 con riferimento alla proroga ex lege delle concessioni demaniali le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative - compresa la moratoria introdotta in correlazione con l’emergenza epidemiologica da Covid-19 dall’art. 182,comma 2, D.L. n. 34 del 2020, convertito in L. n. 77 del 2020 - sono in contrasto con il diritto eurounitario, segnatamente con l’art. 49 TFUE e con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE. Tali norme, pertanto, devono essere disapplicate sia dai giudici che dalla pubblica amministrazione (così Consiglio di Stato Adunanza Plenaria n° 18 del 9 novembre 2021)».
[44] M. Timo, Funzioni amministrative e attività private di gestione della spiaggia, cit., p. 177.
[45] Ibidem, p. 179. Le pronunce cui ci si riferisce sono: T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 5 maggio 2017, n. 557, confermata in appello dalla Sezione Quinta del Consiglio di Stato (sentenza n. 2960 del 17 maggio 2018); T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 27 aprile 2017, n. 959 (confermata in appella da Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2018, n. 1219); Cons. Stato, Sez. VI, 13 aprile 2017, n. 1763 (nonché Cons. Stato, Sez. VI, 10 aprile 2017, n. 1659, 1658, 1654, 1653 e 1652,); Cons. Stato, Sez. V, 27 febbraio 2019, n. 1368; Cons. Stato 17 luglio 2020, n. 4610, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[46] Ordinanza in rassegna, cit.
[47] Pronuncia Promoimpresa, cit., § 75.
[48] Per l’esame esaustivo della quale si rinvia al menzionato numero monotematico di Diritto e società, 2021, 3.
[49] In particolare, lettera di messa in mora, cit., p. 8.
[50] Sia concesso, nuovamente, il richiamo a M. Timo, Funzioni amministrative e attività private di gestione della spiaggia, cit., p. 172 ss.
[51] La lettera di messa in mora integralmente afferma che «A questo proposito la Commissione osserva che la legislazione nazionale oggetto di questa lettera di costituzione in mora è generalmente applicabile a tutte le concessioni balneari in Italia. Questo è particolarmente evidente nelle disposizioni contenute nell’articolo 1, comma 18, del decreto-legge n. 194/2009, nell’articolo 24, comma 3-septies del decreto-legge n. 113/2016 e nelle proroghe di cui all’articolo 1, commi 682 e 683, della legge di bilancio, ulteriormente estese dall’articolo 100 del decreto-legge n. 104/2020 al fine di ricomprendervi, tra l’altro, le concessioni lacuali e fluviali nonché quelle per la nautica da diporto. Queste disposizioni sono di natura generale e assoluta e non tengono conto né delle specificità locali (ad esempio non vi è alcuna disposizione che limiti tali proroghe alle zone in cui le risorse non sono limitate) né di eventuali valutazioni effettuate nel contesto delle attività di mappatura e di revisione svolte a norma dei commi 677 e 678 della legge di bilancio. La Commissione ritiene pertanto che la legislazione nazionale in questione inevitabilmente riguardi concessioni aventi ad oggetto risorse che devono essere considerate scarse in base ai criteri stabiliti dall’articolo 12 della DS e specificati nella sentenza della CGUE» (p. 8).
[52] CGUE 30 gennaio 2018, Visser Vastgoed Beleggingen, cause riunite C-360/15 e C-31/16, § 100, in www.curia.europa.eu. Con maggior precisione ai § 98 e 99, la Corte statuisce che con «la sua quarta questione, alla quale occorre rispondere in secondo luogo, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se le disposizioni del capo III della direttiva 2006/123, relativo alla libertà di stabilimento dei prestatori, si applichino a una situazione i cui elementi rilevanti si collocano tutti all’interno di un solo Stato membro. A tale riguardo, occorre anzitutto rilevare che il tenore letterale di dette disposizioni non enuncia alcuna condizione relativa alla sussistenza di un elemento di carattere estero. In particolare, l’articolo 9, paragrafo 1, l’articolo 14 e l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2006/123, che vertono, rispettivamente, sui regimi di autorizzazione, sui requisiti vietati e sui requisiti da valutare, non fanno riferimento ad alcun aspetto transfrontaliero».
[53] Pronuncia Promoimpresa, cit., § 62.
[54] Pronuncia Promoimpresa, cit., § 43.
[55] Ibidem, § 56.
[56] CGUE, Visser Vastgoed Beleggingen, cit., § 100.
[57] Si tratta appunto della Promoimpresa la quale, a quanto si ha modo di comprendere, non ha preso in specifica considerazione il tema della validità della direttiva servizi.
[58] V. Parisio, Direttiva “Bolkestein”, silenzio-assenso, d.i.a., “liberalizzazioni temperate”, dopo la sentenza del Consiglio di Stato, A.P. 29 luglio 2011, n. 15, in Foro amm-T.A.R., 2011, 9, p. 2978 ss.
[59] Cfr., in questa nota, al § 2.
[60] In tal senso, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 170 del 1984, ha osservato, in merito ai rapporti fra ordinamento dell’Unione e ordinamento italiano, che «i due sistemi sono configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato. […] Invero, l’accoglimento di tale principio, come si è costantemente delineato nella giurisprudenza della Corte, presuppone che la fonte comunitaria appartenga ad altro ordinamento, diverso da quello statale. Le norme da essa derivanti vengono, in forza dell’art. 11 Cost., a ricevere diretta applicazione nel territorio italiano, ma rimangono estranee al sistema delle fonti interne: e se così è, esse non possono, a rigor di logica, essere valutate secondo gli schemi predisposti per la soluzione dei conflitti tra le norme del nostro ordinamento. […] l’ordinamento della CEE e quello dello Stato, pur distinti ed autonomi, sono, come esige il Trattato di Roma, necessariamente coordinati; il coordinamento discende, a sua volta, dall’avere la legge di esecuzione del Trattato trasferito agli organi comunitari, in conformità dell’art. 11 Cost., le competenze che questi esercitano, beninteso nelle materie loro riservate» e che «l’effetto connesso con la sua vigenza è perciò quello, non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale. In ogni caso, il fenomeno in parola va distinto dall’abrogazione, o da alcun altro effetto estintivo o derogatorio, che investe le norme all’interno dello stesso ordinamento statuale, e ad opera delle sue fonti. Del resto, la norma interna contraria al diritto comunitario non risulta - è stato detto nella sentenza n. 232/75, e va anche qui ribadito - nemmeno affetta da alcuna nullità, che possa essere accertata e dichiarata dal giudice ordinario». Peraltro, il punto risulta approfondito dalla nota sentenza Fratelli Costanzo della Corte di Giustizia (CGCE 22 giugno 1989, C-103/88, in eur-lex.europa.eu), ove si è chiarito che: «nelle sentenze 19 gennaio 1982 (Becker, causa 8/81, Race, pag. 53, in particolare pag. 71) e 26 febbraio 1986 (Marshall, causa 152/84, Race, pag. 737, in particolare pag. 748), la Corte abbia considerato che in tutti i casi in cui alcune disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato, sia che questo non abbia recepito tempestivamente la direttiva nel diritto nazionale sia che l’abbia recepita in modo inadeguato»: nel caso di specie, il recepimento del 2010 è stato corretto, permangono però talune disposizioni interne precedenti e successive contrastanti, le quali sono destinate a prevalere o per la via della disapplicazione o semmai per la via della questione di legittimità, ma non certo a soccombere sulla scorta di un’asserita prevalenza gerarchica delle fonti primarie interne sulle direttive prive di effetti diretti.
[61] Si veda sul punto, la ricostruzione di F. Sorrentino, Le fonti del diritto italiano, II ed., Milano, 2015, p. 98 ss.
[62] Come, peraltro, dovrebbe essere qualora si applicasse il criterio gerarchico: sul punto, ex multis, cfr. R. Bin - G. Pitruzzella, Diritto pubblico, XVIII edizione, Torino, 2020, p. 302 ss. Più in generale, P. Vipiana, Le fonti del diritto, in S. Baroncelli - A. Morelli - G. Moschella - M. Tiberii - P.M. Vipiana - P. Vipiana, Lineamenti di diritto pubblico, Torino, 2021, p. 97 ss.
[63] Qui cfr. sentenza Fratelli Costanzo, cit., supra nota 59.
[64] È noto che, recentemente, un obiter dictum della stessa Corte costituzionale (sent. n. 269/2017, cit.) abbia sollevato taluni interrogativi sulla piena operatività dei principi statuiti con la sentenza n. 170/1984, cit.: tuttavia, successive pronunce paiono aver fortemente limitato le possibili conseguenze della sentenza n. 269/2017, avvalorando l’attualità della pronuncia Granital. Per un esame approfondito della questione si richiama la dottrina che ha avuto modo di meglio studiare il tema e, in particolare, C. Caruso, Granital reloaded o di una «precisazione» nel solco della continuità, in questa Rivista, 19 ottobre 2020, e N. Lupo, La Corte costituzionale nel sistema “a rete” di tutela dei diritti in Europa, tra alti e bassi, in Amministrazione in cammino, 27 marzo 2020.
[65] Cfr. M. Timo, Concessioni balneari senza gara… all’ultima spiaggia, cit.
[66] Con precisione, CGUE, 24 giugno 2019, C-573/17, Popławski II, in eur-lex.europa.eu.
[67] Nel caso di specie si trattava di una decisione quadro, ma il ragionamento è esteso dalla Corte di Giustizia alle direttive: cfr., CGUE, sentenza Popławski II, cit., § 53 ss.
[68] CGUE, 18 gennaio 2022, C-261/20, Thelen Technopark Berlin GmbH, in eur-lex.europa.eu, § 33. Sul punto L.S. Rossi, “Un dialogo da giudice a giudice”, in Quaderni AISDUE, 23 maggio 2022, p. 68.
[69] M.A. Sandulli, Introduzione al numero speciale sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, cit., e F. Francario, Se questa è nomofilachia. Il diritto amministrativo 2.0 secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (recensione al fascicolo monotematico dalla Rivista Diritto e Società n. 3/2021 “La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria”), cit.
[70] L.S. Rossi, op. cit., p. 66.
[71] P. Otranto, op. cit.
[72] Quali la modulazione degli effetti caducatori sulle concessioni in essere e l’accertamento generalizzato dell’interesse transfrontaliero certo.
[73] Cons. Stato, n. 3901/2022, cit.; Cons. Stato, 3918/2022, cit.; CGARS, n. 116/2022, cit.
[74] T.A.R. Lazio, Roma, n. 5869/2022, cit.
[75] Comunicato stampa del 25 maggio 2022, Concessioni balneari: inammissibile il conflitto proposto da sette deputati, cit.
[76] M. Timo, Concessioni balneari senza gara… all’ultima spiaggia, cit., p. 1620.
In ricordo di Gianfranco Ciani di Gabriella Luccioli
*Nella foto di copertina: al centro Gabriella Luccioli e Gianfranco Ciani, a sinistra Ernesto Lupo, a destra Ugo Vitrone. Montepulciano 1966.
1. Gianfranco Ciani è stato per l’ordine giudiziario un grande magistrato, per me anche un amico fraterno. Per questa ragione le mie parole non potranno prescindere da alcuni riferimenti personali.
Conobbi Gianfranco al primo anno di università alla Sapienza, uno studente modello, attento, studioso, gentile nel tratto.
Percorremmo in parallelo i quattro anni del corso universitario e ci laureammo entrambi a novembre del quarto anno, entrambi con una tesi in diritto penale, entrambi seguiti dal professor Vassalli.
Poi, subito dopo la laurea, ricordo Gianfranco proiettato con grande determinazione verso la preparazione del concorso in magistratura secondo un progetto da tempo coltivato. In questo impegno non potei seguirlo subito, non essendo consentito a me donna, all’ epoca, di accedere alle funzioni giurisdizionali. Ma poco dopo la legge del febbraio 1963 eliminò quell’orribile discriminazione, così che potei raggiungere Gianfranco nella preparazione del concorso, frequentando insieme a lui una piccola scuola di via della Mercede e seguendo le belle lezioni del consigliere di Stato Santoni Rugiu.
Superammo entrambi le prove di esame, svolgemmo insieme il tirocinio e poi avemmo le prime funzioni, lui alla pretura di Foligno, io al tribunale di Montepulciano.
E dopo qualche tempo di nuovo a Roma, ancora insieme alla pretura di Roma, ad occuparci di esecuzioni mobiliari.
In seguito i nostri percorsi professionali si divaricarono, perché Gianfranco andò alla Procura generale della Cassazione con funzioni di magistrato applicato e poi di sostituto procuratore generale; nel 2008, con voto unanime del CSM, fu nominato avvocato generale; nel 2011, sempre con voto unanime, procuratore generale aggiunto; infine nell’aprile 2012, ancora una volta con voto unanime, procuratore generale.
Continuammo a coltivare insieme la passione per lo studio del diritto in un piccolo gruppo di magistrati che sotto la guida del presidente Brancaccio si incontravano una volta la settimana per dibattere insieme di temi giuridici. Il presidente Brancaccio ci accompagnò per tutto il corso della sua prestigiosa carriera in un lungo cammino di studio e di maturazione professionale.
2. La storia di Gianfranco Ciani, tutta all’interno della giurisdizione, è quella di un magistrato di elevatissima professionalità, che ha testimoniato in ogni occasione la sua concezione della giustizia come servizio per il cittadino ed ha dimostrato come le funzioni di pubblico ministero, esercitate per gran parte della sua vita professionale, possono nutrirsi della cultura della giurisdizione.
Nell’intervento svolto il 25 gennaio 2013 in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013 affermò che per un pubblico ministero essere parte integrante della giurisdizione significa “imparare a misurare il valore dell’azione penale (e, prima ancora, della stessa attività di indagine) sul suo esito giurisdizionale” e precisava che “il sintagma cultura della giurisdizione significa proprio una progressiva attrazione delle ragioni dell’indagine nella futura prospettiva della sentenza: in uno scenario, cioè, che non si fermi al facile clamore mediatico delle cautele personali, ma che riesca a intravedere, prospetticamente, i presupposti dell’affermazione di responsabilità. La validità di un’inchiesta non è in un provvedimento custodiale ottenuto, ma solo nella definitiva condanna di un colpevole”.
Nello svolgimento dell’incarico di segretario generale della Procura generale, affidatogli nel 2003 e conservato sino alla nomina ad avvocato generale, procedette ad una radicale ristrutturazione dell’Ufficio tesa ad una sua maggiore efficienza ed avviò e portò a termine l’informatizzazione dei registri della segreteria penale.
Nella qualità di avvocato generale addetto al disciplinare dette corso ad una importante riorganizzazione del servizio nel segno della uniformità e della trasparenza, così da garantire la diffusione interna delle problematiche affrontate e l’omogeneità formale dei capi di incolpazione.
Nel corso della sua lunga esperienza di pubblico ministero si occupò di processi delicatissimi, che sfiorarono i palazzi del potere, svolgendo il ruolo dell’accusa con equilibrio e saggezza. Da segnalare il processo a carico dell’on. Andreotti per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, in cui chiese ed ottenne l’assoluzione dell’uomo politico definendo mere congetture le accuse; quello a carico dell’avvocato inglese Mills, concluso con l’accoglimento da parte della Cassazione della sua richiesta di dichiarare la prescrizione del reato di corruzione in atti giudiziari, ma non di prosciogliere nel merito; quelli contro importanti esponenti della criminalità terroristica, interna ed internazionale, tra i quali va ricordato il giudizio di cassazione originato da un provvedimento di cattura nei confronti del presidente dell’OLP Arafat, che poneva delicati problemi di diritto internazionale.
E poi processi che hanno segnato la storia del nostro Paese, come quelli a carico di Annamaria Franzoni e di Angelo Izzo, o quello relativo all’attentato dell’Addaura.
Dopo la nomina a Procuratore generale continuò a partecipare alle udienze dinanzi alle Sezioni unite penali, così rompendo una tradizione risalente negli anni di disimpegno del capo dell’Ufficio dall’esercizio dell’attività giurisdizionale in senso stretto.
Nelle funzioni di titolare dell’azione disciplinare esercitò il relativo potere con forte senso dell’istituzione ed equità, non disgiunta dal necessario rigore lì dove si trattava di censurare comportamenti di particolare gravità. A tale riguardo osservò nel richiamato intervento per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013 che “il controllo sul versante della responsabilità disciplinare è requisito coessenziale all’indipendenza della magistratura, nella ricerca del punto di equilibrio tra autonomia della funzione e garanzia della qualità del servizio reso, senza derive né verso la tutela corporativa, né verso un conformismo burocratico”.
Ancora si impegnò attivamente, sia a livello nazionale che internazionale, per la istituzione del pubblico ministero europeo al quale affidare la tutela degli interessi finanziari dell’Unione.
Intensa la sua partecipazione a convegni ed incontri internazionali in Paesi europei ed extraeuropei, nonché a conferenze mondiali dei procuratori generali.
Fece parte di numerose commissioni ministeriali per la riforma del codice di procedura penale, nonché della commissione di studio per la riforma del CSM, dei consigli giudiziari e del consiglio direttivo della Cassazione istituita con d.m. 12 agosto 2015.
Fu collaboratore de Il Foro Italiano e componente del comitato di direzione di Cassazione penale. Curò vari commenti ai codici penale e di procedura penale.
La misura dei toni, il tratto gentile e la straordinaria umanità hanno segnato la figura di un magistrato che non ha mai fatto sfoggio della sua cultura e della sua preparazione, ma ha assunto sobrietà e compostezza come suo habitus professionale e mentale. Ogni suo ragionamento era frutto di riflessione e di ponderazione.
I reiterati richiami, nel ruolo di Procuratore generale, al dovere di riserbo, gli inviti a sottrarsi alle lusinghe dell’immagine e della notorietà, a non coltivare rapporti privilegiati con la stampa, a non ricorrere in modo disinvolto a provvedimenti di custodia cautelare, il costante riferimento alla necessità di una adeguata organizzazione degli uffici del pubblico ministero, in rapporto alle complesse funzioni loro demandate, con la sollecitazione a costituire in ogni Procura gruppi di lavoro specializzati ed a fissare criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti, non solo consentono di delineare l’immagine di un magistrato a tutto tondo, portatore dei valori dell’indipendenza e dell’autonomia e attento alla qualità del servizio, ma esprimono una visione estremamente attuale dei problemi sul tappeto e delle possibili soluzioni.
Altrettanto lucide ed attuali appaiono le sue considerazioni sulla necessità di interventi legislativi volti ad un’efficace opera di depenalizzazione, che limiti la sanzione penale alla tutela di beni costituzionalmente garantiti, e ad una seria modifica della disciplina della prescrizione, secondo una visione che poneva le due linee di intervento normativo come sfide immediate per la garanzia dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Nell’intervento svolto il 23 gennaio 2015 in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2015, l’ultimo prima del suo pensionamento, denunciò l’errore diffuso nella società di individuare nel giudice penale il metronomo assoluto dei comportamenti esigibili sul piano etico dai consociati, così consegnando esclusivamente a detto giudice la percezione della antisocialità di talune condotte e affidando alla giurisdizione il peso di distorte incombenze culturali ed ideologiche.
La consapevolezza dei pericoli insiti in tale fenomeno, diretto a caricare la giurisdizione di enormi aspettative etiche e sociali destinate a rimanere deluse, non gli impedì di lanciare, in detta occasione, un segnale di ottimismo con parole che in questo momento così difficile è bello richiamare: “è venuto il momento di reagire al pessimismo dilagante, divenuto una sorta di alibi dell’immobilismo e dell’improvvisazione, e di creare le condizioni per contrastare una situazione che è certamente grave, ma può essere superata se prevalgono l’ottimismo della volontà e l’impegno della magistratura e delle istituzioni interessate, in spirito di coesione, per adeguare l’amministrazione della giustizia al livello dei Paesi più avanzati”.
3. Gli anni dopo il pensionamento non sono stati facili per Gianfranco: lo tormentavano seri problemi alla vista, con le inevitabili limitazioni alla lettura e alla vita di relazione. Ed era proprio questo che più lo angosciava: l’impossibilità di continuare a leggere, a studiare, ad occuparsi dei temi che avevano interessato tutta la sua vita professionale e di impiegare pienamente il suo tempo. Da ultimo la malattia che lo ha stroncato e che rendeva la sua voce al telefono sempre più debole, ma sempre carica di amicizia, una voce in cui pur nella sofferenza era possibile percepire una nota di sollievo per il piacere di risentirci.
Ai due splendidi figli Stefania e Giancarlo che hanno seguito la sua strada professionale resta il conforto di aver vissuto accanto ad una persona eccezionale e la prospettiva di seguirne l’esempio.
A noi resta la testimonianza autorevole di un modo alto di essere magistrato.
Il ruolo dell’inerzia del curatore ai fini della legittimazione straordinaria del contribuente insolvente ad impugnare atti impositivi
di Ginevra Iacobelli
La quinta sezione civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 25373 del 25 agosto 2022, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, per valutare il rinvio della causa alle Sezioni Unite Civili, per le seguenti questioni:
- Se, al fine di ritenere sussistente la legittimazione straordinaria del contribuente insolvente ad impugnare atti impositivi, rilevi la mera inerzia del curatore, intesa come omesso ricorso alla tutela giurisdizionale o, invece, occorra accertare se l’inerzia sia frutto o meno di valutazione ponderata degli organi della procedura concorsuale;
- Quali siano gli effetti della soluzione alla predetta questione sulla natura, relativa o assoluta, dell’eccezione di difetto di legittimazione e sulle difese del contribuente, e le possibili ripercussioni al di fuori della materia tributaria.
La questione oggetto dell’ordinanza interlocutoria in commento origina dall’impugnazione di due avvisi di accertamento, con i quali venivano disconosciuti costi non documentati e recuperata IVA, per i quali il contribuente ha fatto valere la propria legittimazione straordinaria ad impugnare, stante il disinteresse dimostrato dal curatore del fallimento della società di cui egli era legale rappresentante, società nelle more dichiarata fallita.
La CTP di Napoli ha dichiarato inammissibile il ricorso, ritenendo il contribuente privo di legittimazione. La CTR della Campania ha rigettato l’appello del contribuente ritenendo che non vi fosse stato disinteresse della curatela ad impugnare l’atto impositivo, ma che la rinuncia fosse stata oggetto di specifica valutazione del giudice delegato.
Il contribuente ha proposto ricorso per cassazione specificando che l’atto impositivo riguardava crediti concorsuali insorti prima della dichiarazione di fallimento e considerandosi – quale soggetto passivo del rapporto di imposta – legittimato ad agire in costanza di fallimento. Secondo il ricorrente l’inerzia del curatore ad impugnare gli atti impositivi relativi a crediti concorsuali rileva, ai fini della insorgenza della legittimazione straordinaria del soggetto dichiarato fallito, per il solo fatto che il curatore ometta tout court di adire la tutela giurisdizionale. Di conseguenza, il difetto di legittimazione passiva non può essere rilevato di ufficio, in assenza di eccezione sollevata dal curatore.
1. La legittimazione ad impugnare atti impositivi in caso di fallimento del contribuente
L’indagine viene incentrata sulla legittimazione del debitore a far valere la tutela giurisdizionale avverso atti impositivi, che astrattamente e potenzialmente impattano sullo stato passivo del fallimento e che, pertanto, tendono a incrementare la massa dei creditori che concorrono sul ricavato dell’attivo ripartibile.
La Suprema Corte richiama il principio secondo cui, stante il trasferimento al curatore della legittimazione a far valere rapporti di diritto patrimoniale che facevano capo al debitore (artt. 43 l. fall., 143 d. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) - il debitore è privo, in linea generale, della capacità di stare in giudizio nelle controversie concernenti i rapporti patrimoniali compresi nel fallimento.
A questa regola fanno eccezione i seguenti casi:
i) il debitore dichiarato fallito (insolvente) che agisce per la tutela di diritti di natura strettamente personale ex artt. 46 l. fall., 146 d. lgs. n. 14/2019 (Cass., Sez. III, 9 maggio 2019, n. 12264);
ii) inerzia degli organi della procedura (Cass., Sez. Lav., 5 dicembre 2019, n. 31843; Cass., Sez. II, 4 dicembre 2018, n. 31313).
Con la specifica che fa a sua volta, eccezione a quest’ultimo principio – secondo cui il debitore, in caso di inerzia degli organi della procedura concorsuale, è legittimato a impugnare provvedimenti che impingono nei rapporti patrimoniali che facevano capo al debitore e che incrementano il passivo concorsuale - il decreto di esecutività dello stato passivo, provvedimento che non è in alcun modo impugnabile dal debitore, attesa anche l’estraneità del debitore al novero dei soggetti legittimati ad impugnare il suddetto decreto, a termini degli artt. 98, terzo comma, l.f., art. 206, comma 3, d. lgs. n. 14/2019 (Cass., Sez. I, 21 gennaio 2020, n. 1197; Cass., Sez. VI, 25 marzo 2013, n. 7407; Cass., Sez. I, 29 marzo 2012, n. 5095).
Nel caso di impugnazione di atti impositivi i cui presupposti si fossero determinati prima dell’apertura della procedura concorsuale – impugnazioni che si svolgono davanti al giudice tributario e che indirettamente incidono sullo stato passivo – si riafferma il principio che il contribuente dichiarato fallito (insolvente) è legittimato ad impugnare gli atti impositivi in caso di inerzia degli organi della procedura.
2. Il ruolo dell’inerzia del curatore nel riconoscimento della legittimazione straordinaria del contribuente fallito
Come è evidente, l’inerzia degli organi del fallimento è considerata, in ogni caso, il presupposto per attribuire legittimazione al debitore. È evidente l’importanza che assume comprendere cosa debba intendersi per inerzia del curatore del fallimento e quando si manifesta.
Il problema è che tipo di inerzia permetta al contribuente fallito di agire personalmente in giudizio.
Sul punto la Corte specifica che, nel tempo, si sono formati due orientamenti:
L’orientamento tradizionale (i) sostiene l’impugnabilità degli atti impositivi da parte del contribuente, giustificata dal diverso interesse che ha il contribuente insolvente rispetto al curatore del fallimento.
Il curatore ha interesse ad opporsi ad una pretesa tributaria, in sede giurisdizionale, solo se il contenzioso possa incidere astrattamente sulla ripartizione dell’attivo; il contribuente ha un interesse diverso che gli deriva da riflessi anche di carattere sanzionatorio. L’interesse ad adire del contribuente, inoltre, rileva anche in forza di eventuali effetti positivi che potrebbero derivargli al momento della chiusura del fallimento, ad esempio nel giudizio di esdebitazione, anche ai fini IVA.
Dal riconoscimento della legittimazione straordinaria in capo al contribuente dichiarato fallito discendono i seguenti corollari:
- il difetto di legittimazione straordinaria può essere rilevato solo dal curatore che non sia rimasto inerte e abbia adito l’autorità giudiziaria (l’eccezione è, quindi, di natura relativa non rilevabile né dalla controparte, né d’ufficio);
- il contribuente, in costanza di fallimento, non ha l’onere di dimostrare l’interesse ad agire visto che né il giudice né la controparte potrebbero rilevare il difetto di interesse.
Più chiaramente, secondo l’orientamento richiamato la regola è che il contribuente sia legittimato ad impugnare gli atti impositivi (salvo l’eccezione del curatore), presumendosi l’inerzia degli organi concorsuali in caso di mancato avvio dell’azione giurisdizionale. Unica eccezione è il caso in cui il curatore resti inerte dopo aver instaurato un giudizio tributario, ritenuto successivamente inopportuno da coltivare.
Si afferma, cioè, che l’avvio di un giudizio tributario da parte del curatore fallimentare sia idoneo a escludere il realizzarsi del presupposto dell’inerzia e precluda la legittimazione straordinaria del contribuente. Si delinea la presunzione secondo cui la mancata prosecuzione del giudizio o l’omessa impugnazione della sentenza che lo conclude derivano da una specifica valutazione degli organi della procedura che ne escludono l’inerzia. In tal caso l’eccezione di difetto di legittimazione diviene assoluta, rilevabile anche d’ufficio.
All’orientamento tradizionale si è opposto, di recente, un diverso orientamento (ii) che ritiene che non ricorra l’inerzia in ogni caso in cui vi sia stata una espressa valutazione da parte del curatore, sfociata nella mancata impugnazione dell’atto impositivo. L’inerzia, pertanto, non rileva per il solo fatto che il curatore non abbia impugnato l’atto impositivo, ma solo se la mancata impugnazione sia stata causata da un totale disinteresse. Così, però, occorrerebbe volta per volta esaminare l’omessa proposizione dell’azione di impugnazione da parte del curatore per comprendere se sia frutto di ponderata valutazione.
L’ordinanza sembra non appoggiare la predetta soluzione sottolineando che:
1. in tal caso, l’eccezione di difetto di legittimazione attiva del contribuente diventerebbe assoluta e potrebbe essere rilevata anche d’ufficio dal giudice;
2. la legittimazione straordinaria per pura inerzia diventerebbe, così, inapplicabile in caso di normale operare degli organi della procedura, visto anche che il curatore, quando non intende agire, non procede a farsi autorizzare, ma si limita a sottoporre al visto del giudice delegato il proprio operato.
L’unico spazio di operatività del principio di pura inerzia sarebbe fatto salvo solo nel caso in cui il curatore non si fosse accorto della pendenza del termine per impugnare, lasciando spazio all’iniziativa del debitore.
Si finirebbe, così, per pregiudicare l’operato dei contribuenti insolventi che si trovino al cospetto di curatori attenti e si favorirebbero, viceversa, i contribuenti che si trovino al cospetto di curatori disattenti in relazione ai contenziosi pendenti;
3. l’interesse ad agire del contribuente verrebbe in qualche modo legato alla valutazione operata dal curatore, la quale è del tutto slegata dall’interesse del contribuente.
Se l’irrilevanza dell’interesse del debitore fallito sembra essere alla base dell’esclusione della legittimazione del debitore per quanto riguarda le impugnazioni dei crediti ammessi allo stato passivo, ove si esclude la legittimazione del debitore, l’estensore sottolinea che non si rinviene una analoga norma nel procedimento tributario.
Questa limitazione «di fatto» della legittimazione straordinaria del contribuente potrebbe, peraltro, apparire distonica con la persistenza del rapporto di imposta – in costanza di fallimento - in capo al contribuente e con l’interesse alla tutela giurisdizionale in materia tributaria, la quale rientra tra i diritti fondamentali dell’ordinamento (artt. 24, 53 Cost.).
Il reclamo/mediazione all’indomani della riforma della giustizia tributaria
di Giuseppe Corasaniti*
Sommario: 1. Premessa. – 2. Brevi cenni in merito all’evoluzione normativa e giurisprudenziale della disciplina del reclamo e della mediazione tributaria. – 3. Le (inattuate) proposte di riforma del reclamo/mediazione a seguito della c.d. Manovra Correttiva. – 4. Il “nuovo” reclamo/mediazione e la “conciliazione d’ufficio proposta dalla corte di giustizia tributaria”. – 5. Osservazioni conclusive.
1. Premessa
Il 31 agosto 2022 è stata emanata la l. n. 130, rubricata “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari”[1] che, dopo il fallimento di diverse iniziative legislative proposte negli ultimi anni, ha finalmente attuato l’auspicata riforma della giustizia tributaria.
Il provvedimento legislativo in discorso, sebbene permangano talune criticità[2], deve tuttavia essere accolto con favore, avendo introdotto novità di pregio ed essendo intervenuto su profili – specie per quanto concerne la fase istruttoria del processo tributario[3] – di particolare rilievo.
Nonostante il giudizio in merito alla menzionata riforma sia dunque, complessivamente, positivo, si è però dell’opinione che ad alcuni istituti sarebbe stato opportuno dedicare un’attenzione più ampia. Il riferimento è, in particolare, al reclamo e alla mediazione tributaria disciplinati dall’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, norma che, sin dalla sua introduzione, pare non aver soddisfatto gli obiettivi che avrebbe dovuto contribuire a realizzare. La disposizione in discorso, sebbene interessata da continue modifiche che hanno certamente condotto a parziali miglioramenti rispetto alla sua primaria formulazione, fatica infatti, anche a seguito delle più recenti novità contemplate dall’art. 4, co. 1, lett. e), l. n. 130 del 2022, a trovare un’adeguata collocazione che le consenta realmente di adempiere alle finalità per cui era stata introdotta, ovvero quella di fungere da «efficace rimedio amministrativo per deflazionare il contenzioso»[4].
2. Brevi cenni in merito all’evoluzione normativa e giurisprudenziale del reclamo e della mediazione tributaria
Come poc’anzi accennato, il testo attuale dell’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992 si discosta sotto molteplici aspetti dalla sua originaria formulazione, essendo il risultato di una profonda trasformazione che gli istituti del reclamo e della mediazione tributaria[5] hanno conosciuto negli anni successivi alla loro introduzione, tanto ad opera del Legislatore, quanto della Corte Costituzionale[6], che attraverso una serie di interventi “correttivi” hanno tentato di porre rimedio ad alcuni fra i profili maggiormente “critici” che ne caratterizzavano l’originaria disciplina[7].
Come noto, le prime modifiche apportate alla norma si rinvengono già in occasione dell’approvazione della l. 27 dicembre 2013, n. 147 (“Legge di stabilità 2014”), emanata nelle more del relativo giudizio di legittimità costituzionale, e testimoniano l’intento del Legislatore di «“mettere in sicurezza” il reclamo e la mediazione nella prospettiva dell’imminente pronuncia della Consulta» e di «minimizzare le eventuali conseguenze di una pronuncia di illegittimità costituzionale[8]».
A breve distanza di tempo, tuttavia, la disciplina dell’istituto, così come risultante a seguito delle novità apportate dal Legislatore con la l. n. 147 del 2013, nonché a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 17-bis, co. 2, d.lgs. n. 546 del 1992, ha conosciuto un’ulteriore e significativa evoluzione che ha condotto ad una sostanziale riformulazione della norma, all’interno della quale l’art. 9, co. 1, lett. l), d.lgs. n. 156 del 2015[9] ha introdotto alcune novità di pregio, senza però risolvere tutte le perplessità sorte negli anni precedenti[10]. Il citato art. 9, più precisamente, ha integralmente “riscritto” il previgente art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, contemplando novità di notevole rilevanza nel dichiarato intento di potenziare l’istituto del reclamo/mediazione e, conseguentemente, di incentivare ulteriormente rispetto al passato la deflazione del contenzioso tributario[11].
Di minor pregnanza, seppur degne di approfondimento, si sono rivelate invece le modifiche normative operate dall’art. 10, d.l. 24 aprile 2017, n. 50 (conv. con mod. dalla l. 21 giugno 2017, n. 96, c.d. “Manovra Correttiva”), che rappresenta l’ultimo intervento legislativo che ha interessato gli istituti del reclamo e della mediazione prima delle recenti novità introdotte dalla l. n. 130 del 2022.
A tal riguardo, si ritiene dunque opportuno ricordare brevemente come la novella del 2015 abbia anzitutto confermato l’impostazione adottata in sede di prima revisione dell’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, senza riproporre l’originaria sanzione dell’inammissibilità del ricorso giurisdizionale in caso di mancata previa proposizione dell’istanza di reclamo e mantenendo altresì inalterato il limite di valore di ventimila euro. L’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, come risultante a seguito della predetta modifica normativa, ha inoltre confermato che il ricorso diviene procedibile solo una volta trascorso il termine di novanta giorni previsto al fine di esperire la procedura amministrativa volta alla composizione della lite; tuttavia, diversamente rispetto alla disposizione precedentemente vigente, questo meccanismo è stato attuato prevedendo che il ricorso, proposto nelle forme di rito, produce anche gli effetti del reclamo, che può contenere una proposta di mediazione, con rideterminazione dell’ammontare della pretesa[12]. Ne consegue che la proposizione dell’impugnazione produce, nelle controversie di valore non superiore (originariamente) a ventimila (attualmente cinquantamila) euro, oltre agli effetti sostanziali e processuali tipici del ricorso, anche quelli del reclamo/mediazione: in concreto, dunque, si è previsto che il procedimento amministrativo in esame fosse introdotto automaticamente con la presentazione del ricorso[13].
Sotto il profilo soggettivo, è inoltre importante sottolineare come la novella del 2015 abbia decisamente esteso l’ambito di applicazione dell’istituto, ricomprendendo infatti nell’ambito delle controversie reclamabili anche quelle riguardanti tributi di competenza dell’Agenzia delle dogane, dell’Agenzia del territorio, dei Monopoli di Stato, degli Enti locali, nonché quelle di competenza dell’Agente della riscossione e dei Concessionari della riscossione. In queste ultime due eventualità, peraltro, l’art. 17-bis, co. 9, d.lgs. n. 546 del 1992 ha disposto che il reclamo possa applicarsi solo ove compatibile.
Come sottolineava espressamente la Relazione illustrativa al d.lgs. n. 156 del 2015, «la ratio sottesa all’estensione del reclamo risiede[va] nel principio di economicità dell’azione amministrativa diretta a produrre effetti deflativi del contenzioso, anche alla luce del proficuo abbattimento riscontrato nel contenzioso contro gli atti emessi dall’Agenzia delle entrate». E sempre alla medesima ratio rispondeva altresì l’estensione del procedimento di reclamo/mediazione ai tributi di competenza comunale o di altri Enti locali.
Da ultimo, il già citato art. 10, d.l. 24 aprile 2017, n. 50, ha apportato ulteriori modifiche all’impianto dell’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, prevedendo, fra l’altro, l’innalzamento del valore delle liti reclamabili da ventimila a cinquantamila euro per tutti gli atti impugnabili notificati a decorrere dal 1° gennaio 2018[14].
3. Le (inattuate) proposte di riforma del reclamo/mediazione a seguito della c.d. Manovra Correttiva
A seguito delle (contenute) novità introdotte ad opera della Manovra Correttiva, nel 2017, i tentativi di riformare gli (imperfetti) istituti del reclamo e della mediazione non si sono sopiti, ragion per cui si ritiene opportuno, specie al fine di comprendere il motivo per cui la recente novella appaia di certo “deludente” rispetto alle originarie aspettative, ripercorrere brevemente i tratti salienti delle principali proposte di modifiche normative formulate nel corso degli ultimi anni.
A tal riguardo, occorre in particolare menzionare il progetto di “Codice della Giustizia tributaria” predisposto dal prof. Glendi e del dott. Labruna, all’interno del quale si prevedeva la soppressione dell’istituto del reclamo e la “sostituzione” della mediazione con un “nuovo” strumento, avente sempre funzione deflativa del contenzioso, ma collocato nell’ambito dei “riti speciali” (titolo quinto del progetto), in specie, nel capo primo relativo alle “procedure conciliative”, denominato “conciliazione preliminare per le liti minori” (art. 114 del progetto). Tuttavia, seppur qualificata come “procedura conciliativa” e pur avendo alcuni profili disciplinari comuni con le (diverse) forme di “conciliazione in udienza” (art. 115 del progetto) e di “conciliazione fuori udienza” (art. 116 del progetto), la “nuova” “conciliazione preliminare delle liti minori”, avrebbe parzialmente conservato i tratti caratteristici dell’attuale istituto della mediazione, pur differenziandosene per taluni aspetti procedurali di non poca rilevanza[15].
Fra i profili maggiormente caratterizzanti il “nuovo” istituto della “conciliazione preliminare per le liti minori” figurava, senza dubbio, la “facoltatività”. Difatti, la scelta di attivare la relativa procedura avrebbe dovuto essere rimessa, in via esclusiva, al ricorrente, a fronte, invece, dell’obbligatorietà dell’attuale procedura del reclamo e della facoltatività – ad iniziativa del ricorrente oppure dell’Ufficio – della mediazione (ex art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992).
Si prevedeva, altresì, diversamente da quanto previsto dalla normativa attualmente vigente, un obbligo, a carico dell’Ente fiscale, di formulare al ricorrente una “controproposta di conciliazione novativa della controversia”, ma solo nel caso in cui ritenesse di non accogliere la proposta conciliativa formulata nel ricorso. In tal senso, la “conciliazione preliminare per le liti minori” avrebbe dovuto rappresentare uno strumento deflativo del contenzioso destinato a condurre solo ed esclusivamente ad una “rideterminazione novativa” dell’ammontare complessivo della pretesa formulata nell’atto impugnato non potendo, al contrario, mai condurre ad un suo annullamento integrale.
Alla luce di quanto illustrato può dunque osservarsi che il progetto, da un lato, abbandonava l’attuale strumento del reclamo quale istanza amministrativa volta all’annullamento totale o parziale dell’atto ovvero (più correttamente) quale “ricorso amministrativo in opposizione” (volto a provocare un riesame giustiziale dell’atto), ravvisabile ex lege nel ricorso tutte le volte in cui il valore della lite non superasse la soglia normativamente predeterminata (con attivazione, in ogni caso, di una procedura amministrativa della durata di novanta giorni, che è condizione di procedibilità del ricorso quale atto processuale); mentre, dall’altro, conservava lo strumento della mediazione, pur modificandone la “veste”, la “denominazione” e alcuni tratti disciplinari[16].
Un ulteriore interessante (e condivisibile) profilo disciplinare del “nuovo” istituto della “conciliazione preliminare per le liti minori” era rappresentato dalle modalità di perfezionamento. Difatti, ai fini del perfezionamento dell’“accordo conciliativo”, non sarebbe stato necessario il pagamento dell’intero o della prima rata dell’importo dovuto, in quanto l’“accordo conciliativo” si sarebbe perfezionato con la relativa sottoscrizione e produzione in giudizio, in modo sostanzialmente analogo a quanto previsto dalla disciplina vigente per la conciliazione giudiziale ex artt. 48 ss., d.lgs. n. 546 del 1992.
Di minor interesse rispetto all’ambizioso progetto di “Codice della Giustizia tributaria” che, come visto, per gli istituti del reclamo e della mediazione prospettava soluzioni condivisibili e normativamente impeccabili, a conclusioni senz’altro diverse si giungeva con riferimento alla proposta n. 2283 di disegno di legge delega di iniziativa parlamentare presentata il 29 novembre 2019 presso la Camera dei Deputati, all’interno della quale era prevista la soppressione delle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali e l’attribuzione delle relative competenze al Giudice ordinario, con l’istituzione di sezioni specializzate in materia tributaria presso i principali Tribunali e le Corti d’appello. In tale proposta di disegno di legge delega, inoltre, era previsto che ai procedimenti in materia tributaria fossero applicabili le disposizioni previste dagli artt. 702-bis e ss., c.p.c. (fatta eccezione per l’art. 702-ter, co. 3, c.p.c.) e che le opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi in materia tributaria fossero proposte, ai sensi degli artt. 615 e 617 c.p.c., al Giudice dell’esecuzione del Tribunale competente.
Ciò posto, tra i principi e criteri di delega era prevista anche l’applicazione delle procedure di mediazione tributaria vigenti alla data di entrata in vigore della legge delega. Ciò significava che, nelle intenzioni dei promotori della suddetta riforma, nel “nuovo” processo tributario innanzi al Giudice ordinario avrebbe potuto essere applicabile la sola procedura (facoltativa) di mediazione tributaria disciplinata dall’attuale art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, ma non anche l’istituto (obbligatorio) del reclamo.
Come già espresso in un precedente contributo, al di là di qualsiasi giudizio in merito ad una simile riforma del processo tributario[17] (che, fortunatamente, è rimasta priva di seguito), ci si limiti ad osservare che l’applicazione sic et simpliciter dell’attuale procedura di mediazione tributaria (ex art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992) avrebbe implicato un “innaturale” innesto di una procedura di natura prettamente amministrativa nella fase inziale di un giudizio svolto con rito ordinario. Ed in effetti, si sarebbe passati da un giudizio (quello attuale) che si attiva mediante impugnazione di provvedimenti amministrativi tributari, che ha ad oggetto un rapporto giuridico (quello tributario) di natura pubblicistica, ad un giudizio svolto non già sul modello (ovvero con il rito) del (più similare) processo amministrativo, bensì svolto con le modalità previste per la risoluzione delle controversie di stampo privatistico, con tutte le anomalie che ciò avrebbe implicato.
4. Il “nuovo” reclamo/mediazione e la “conciliazione d’ufficio proposta dalla corte di giustizia tributaria”
Il disegno di legge di iniziativa governativa di riforma della giustizia tributaria AS 2636, concretizzatosi nell’approvazione della l. n. 130 del 2022, è giunto al termine di un lungo percorso di approfondimento delle complessità concernenti la giustizia tributaria nel suo complesso, con l’obiettivo primario di realizzare una riforma strutturale che consentisse, in particolare, di far fronte al contenzioso arretrato e di ridurre la durata dei processi. Il disegno di legge in parola ha affrontato numerose tematiche di considerevole rilevanza, soffermandosi altresì su taluni istituti – quali quelli del reclamo e della mediazione tributaria – che per la loro natura di “strumenti deflativi del contenzioso” rivestono evidentemente un ruolo essenziale per il raggiungimento delle suddette finalità. Tuttavia, come accennato in premessa, le novità che la l. n. 130 del 2022 ha contemplato con specifico riguardo al reclamo/mediazione appaiono piuttosto contenute.
Ebbene, per comprendere le ragioni che hanno indotto il Legislatore a mantenere sostanzialmente inalterata la configurazione degli istituti in discorso, si è dell’opinione che non possa prescindersi da una, seppur breve, ricognizione del dibattito sorto sul tema nell’ambito della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria, istituita con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze e del Ministro della giustizia del 12 aprile 2021, e presieduta dal prof. Giacinto della Cananea.
Nella Relazione finale della Commissione, pubblicata il 30 giugno 2021, non si è mancato di porre in evidenza come, nel corso delle audizioni, sulla struttura del reclamo/mediazione così come disciplinata dall’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992 fossero state sollevate diverse perplessità in merito alla concreta efficacia dell’istituto ai fini della deflazione del contenzioso tributario, specie a motivo dell’assenza di terzietà dell’organo competente all’esame delle relative istanze.
Sul punto, come correttamente osservato dal prof. Franco Gallo, l’affidamento del reclamo e della mediazione ai medesimi Uffici che hanno notificato gli atti e, di conseguenza, dato origine alle controversie «appesantisce indubbiamente la procedura, la rende di scarsa utilità, dilata inutilmente i tempi del giudizio ed è di fatto sovrapponibile all’accertamento con adesione»[18]. Proprio per tale ragione, il prof. Gallo suggeriva di abolire tanto il reclamo quanto la mediazione, proponendo quali alternative all’istituto, la “conversione” della mediazione in una «conciliazione “forte”, presieduta dal giudice monocratico o relatore» ovvero, in alternativa, l’affidamento del tentativo di mediazione «ad un apposito organismo terzo ed imparziale, mediante la creazione di un albo dei mediatori presso il Ministero di Grazia e Giustizia (avvocati e commercialisti)»[19].
Nonostante le manifestate critiche ed insoddisfazioni riguardo all’istituto del reclamo/mediazione, la Commissione della Cananea non ha giudicato opportuno né procedere alla sua soppressione, né, tantomeno “stravolgere” la struttura disegnata dall’art. 17-bis. Anzitutto, la Commissione ha ritenuto “significativa” la percentuale di controversie tributarie definite secondo la procedura di cui alla norma in discorso[20], circostanza che dunque avrebbe giustificato la sopravvivenza dell’istituto, tenuto altresì conto del fatto che (ma sul punto sia consentito sollevare qualche dubbio) «esso induce nell’Ente impositore una rimeditazione complessiva dell’atto impugnato ai fini dell’eventuale esercizio del potere di autotutela». In secondo luogo, la Commissione riteneva necessario che per tutte quelle controversie di valore non superiore a 50.000 euro «che “sopravvivono” al tentativo di mediazione» e che, di conseguenza, non vengono definite in via amministrativa, fossero potenziati altri istituti deflativi. In altre parole, nell’intento della Commissione l’eventuale fallimento della mediazione avrebbe dovuto essere “temperato” dalla possibilità di usufruire di ulteriori rimedi extraprocessuali, con l’obiettivo, quindi, di avvalersi di altri strumenti di natura amministrativa per scongiurare il deposito del ricorso e l’avvio del giudizio dinanzi alla Commissione tributaria.
Anche con specifico riferimento all’opportunità di affidare la procedura di reclamo/mediazione ad un organismo terzo e indipendente rispetto all’Ufficio responsabile dell’emanazione dell’atto impositivo, la Commissione ha ritenuto di non accogliere le istanze e gli auspici formulati in tal senso. Ciò, per ragioni senz’altro comprensibili da un punto di vista strettamente “pratico”, ma non del tutto condivisibili sotto il profilo della necessità di assicurare una reale tutela per il contribuente che, si ritiene, sarebbe maggiormente garantita solo nel caso in cui l’istanza di reclamo/mediazione fosse esaminata da un soggetto imparziale e privo di interessi nel caso concreto. Difatti, le motivazioni addotte dalla Commissione a sostegno del proprio convincimento risiedevano: i) nella difficoltà di creare ex novo un organismo di mediazione, terzo rispetto all’Ente impositore, «anche considerati i costi ed i tempi amministrativi necessari»; ii) in una (presunta) ambiguità circa la natura delle funzioni che avrebbero dovuto essere attribuite al suddetto organismo, «tra la pura mediazione e l’attività decisoria»; iii) «i costi ed i tempi per il contribuente, certi a fronte dell’incertezza dell’esito».
Ebbene, le conclusioni espresse dalla Commissione della Cananea nella propria Relazione finale paiono aver influenzato in maniera determinante la sorte degli istituti del reclamo e della mediazione di cui all’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, il quale, nonostante gli emendamenti proposti a seguito della presentazione in Senato del d.d.l. AS 2636[21], ha sostanzialmente mantenuto la sua precedente formulazione. La l. n. 130 del 2022, difatti, si è limitata a contemplare l’aggiunta di un ultimo comma alla norma in parola, il 9-bis, che prevede quanto segue: “In caso di rigetto del reclamo o di mancato accoglimento della proposta di mediazione formulata ai sensi del precedente comma 5, la soccombenza di una delle parti, in accoglimento delle ragioni già espresse in sede di reclamo o mediazione, comporta per la parte soccombente la condanna al pagamento delle relative spese di giudizio. Tale condanna può rilevare ai fini dell’eventuale responsabilità amministrativa del funzionario che ha immotivatamente rigettato il reclamo o non accolto la proposta di mediazione”.
In aggiunta alla suddetta modifica, occorre tuttavia fare presente un’altra novità introdotta dalla l. n. 130 del 2022 che, sebbene non abbia ulteriormente scalfito la lettera dell’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, risulta comunque connessa all’istituto del reclamo/mediazione e trae anch’essa origine dalle considerazioni svolte dalla Commissione della Cananea in merito alla necessità di consentire il ricorso ad ulteriori rimedi di natura extra-processuale in caso di fallimento della mediazione.
Nella Relazione finale del 30 giugno 2021, difatti, si ipotizzava di “rafforzare” e di dare una diversa configurazione all’istituto della conciliazione giudiziale, con specifico riferimento alle controversie di valore non superiore a 50.000 euro. Più precisamente, si proponeva di introdurre una nuova forma di conciliazione giudiziale su proposta del giudice, così mutuando quanto previsto nell’ambito del processo civile dall’art. 185-bis c.p.c. In questo modo, secondo quanto osservato dalla Commissione, il tentativo di conciliazione avrebbe potuto essere esperito anche «per le controversie per le quali l’Ente impositore è rimasto inerte nella fase di reclamo/mediazione, ovvero ha opposto dinieghi in qualche misura non giustificati, con il decisivo ausilio del giudice chiamato a formulare un’equilibrata proposta». Inoltre, si riteneva che l’efficacia deflativa della nuova conciliazione “d’ufficio” sarebbe stata «potenziata» dall’istituzione di una magistratura tributaria di ruolo.
Evidentemente accogliendo le istanze della Commissione della Cananea, la l. n. 130 del 2022 ha inserito nel d.lgs. n. 546 del 1992 il nuovo art. 48-bis.1, rubricato “Conciliazione proposta dalla corte di giustizia tributaria”, il cui co. 1 prevede espressamente che: “Per le controversie soggette a reclamo ai sensi dell’articolo 17-bis la corte di giustizia tributaria, ove possibile, può formulare alle parti una proposta conciliativa, avuto riguardo all’oggetto del giudizio e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione”.
La norma chiarisce, inoltre, che la proposta di conciliazione può essere formulata in udienza o fuori udienza e si perfeziona con la redazione di un processo verbale all’interno del quale dovranno essere indicati le somme dovute, i termini e le modalità di pagamento e che costituirà titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore e per il per il pagamento delle somme dovute al contribuente[22].
5. Osservazioni conclusive
Il dibattito in merito al reclamo e alla mediazione tributaria, a distanza di undici anni dalla loro introduzione all’interno del d.lgs. n. 546 del 1992, fatica ancora ad attenuarsi e, a parere di chi scrive, non troverà definitiva soluzione a seguito delle recenti novità introdotte dalla l. n. 130 del 2022.
Diversi sono ancora i profili, come si è tentato di illustrare nei paragrafi precedenti, che non consentono all’istituto in discorso di soddisfare appieno gli obiettivi che hanno originariamente condotto alla sua introduzione, né si ritiene che la previsione di una “seconda possibilità” di risolvere la controversia in via “extra-processuale”, grazie all’introduzione della nuova conciliazione su proposta del giudice ex art. 48-bis.1, d.lgs. n. 546 del 1992, rappresenti la scelta più adeguata a risolvere quelle criticità cui non hanno posto rimedio i numerosi interventi legislativi che hanno interessato l’art. 17-bis nel corso degli anni.
La nuova conciliazione ex art. 48-bis1 si pone invero come una sorta di rimedio di seconda istanza che potrebbe avere quale possibile effetto (indesiderato) quello di dilatare ulteriormente i tempi di conclusione della controversia senza peraltro soddisfare l’esigenza di deflazionare il contenzioso tributario. A tal riguardo, si è dell’opinione che sarebbe stato preferibile sposare la soluzione, proposta dal prof. Glendi e dal dott. Labruna nel progetto di Codice della Giustizia tributaria, di introdurre sì una nuova forma di conciliazione, ma con l’obiettivo (più ragionevole) di sostituire il reclamo/mediazione e non di (tentare di) potenziarne gli effetti in caso di suo fallimento.
*Professore ordinario di Diritto tributario Università degli Studi di Brescia
[1] Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, n. 204 del 1° settembre 2022.
[2] Al riguardo, come correttamente sottolineava il prof. Giuseppe Melis all’indomani della presentazione in Senato del d.d.l. A.S. 2636, una più ampia e «meditata riforma dell’intero processo tributario, ordinamentale e processuale, sarebbe risultata incompatibile con i tempi di urgenza dell’intervento dettati dal PNRR». Si veda, al riguardo, la testimonianza fornita dal prof. Melis in data 28 giugno 2022 nell’ambito del Ciclo di audizioni informali nell'ambito dell’esame del disegno di legge n. 2636 sulla riforma della giustizia tributaria. Si veda inoltre, sempre G. Melis, Liti tributarie, una riforma a danno dei contribuenti, in Il Sole-24 Ore, 24 giugno 2022; Id., Il d.d.l. “Disposizioni in materia di giustizia e processo tributari”: una giustizia tributaria sull’orlo del precipizio, in Giustizia insieme, 30 giugno 2022.
[3] Sul punto si vedano le riflessioni di C. Glendi, L’istruttoria del processo tributario riformato. Una rivoluzione copernicana!, in Ipsoa Quotidiano, 24 settembre 2022, il quale ha sottolineato che «Rispetto al Ddl, il testo di legge fornito dal Parlamento presenta modifiche molto significative e migliorative» e ha osservato, con particolare riguardo alla disciplina dell’istruttoria del processo tributario, che le modifiche introdotte rappresentano «Nell’insieme (…) una vera e propria “rivoluzione copernicana”, che trasforma profondamente tale disciplina in termini di maggiore affidabilità e funzionalità operativa».
Particolarmente critico, invece, si dimostrava il prof. Glendi a seguito della presentazione in Senato del d.d.l. A.S. 2636. Cfr. C. Glendi, “At ille murem peperit” (ovvero del tormentato parto governativo sulla riforma della giustizia tributaria), in GT – Riv. giur. trib., 2022, 6, 473, il quale ha correttamente posto in evidenza come le scarne novità contemplate dal d.d.l. A.S. 2636 rappresentassero «una sorta di “minimo sindacale” (…) che sembra studiato apposta per evitare incidenti di percorso in sede assembleare nei termini ormai prossimi a scadere onde acquisire gli agognati benefici unionali».
[4] In questi termini si esprimeva la Relazione di accompagnamento al d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla l. 15 luglio 2011, n. 111, il cui art. 39 ha originariamente introdotto l’art. 17-bis all’interno del d.lgs. 546 del 1992.
[5] Per un’analisi degli istituti del reclamo e della mediazione, oltre che per maggiori riferimenti bibliografici e giurisprudenziali sul tema, si consenta il rinvio a G. Corasaniti, Il reclamo e la mediazione nel sistema tributario, Padova, 2013, passim; Id., Mediazione e conciliazione nel processo tributario: lo stato dell’arte e le prospettive di riforma, in Dir. prat. trib., 2020, 3, 965 ss.
[6] Il riferimento è, in particolare, alla sentenza della Corte Costituzionale n. 98 del 16 aprile 2014.
[7] La disposizione in esame è stata inoltre oggetto, sin dalla sua originaria introduzione nel nostro ordinamento, di giudizi contrastanti da parte della dottrina che ne ha accuratamente studiato i profili sostanziali e procedurali. Difatti, a chi considerava «sicuramente apprezzabile l’intento di creare un filtro con finalità conciliative» (cfr. F. Pistolesi, Il reclamo e la mediazione nel processo tributario, in Rass. trib., 2012, 89), si contrapponeva chi, considerando la procedura un’inutile e fuorviante sovrastruttura (cfr. M. Basilavecchia, Reclamo, mediazione fiscale e definizione delle liti pendenti, in Corr. trib., 2011, 2492), esprimeva notevoli perplessità sia perché essa determinava il totale disvelamento della strategia processuale del contribuente, sia in quanto la disciplina del reclamo era mal coordinata con quella dell’accertamento con adesione. Sotto questo ultimo profilo, appariva singolare la scelta di imporre lo svolgimento di un’ulteriore fase amministrativa, pur avanti ad una struttura diversa dell’ufficio – quella deputata alla gestione del contenzioso – dopo che non fosse andata a buon fine quella avviata ex art. 6, d.lgs. n. 218/ del 1997 (sulla mancanza di coordinamento tra la disciplina in esame e l’accertamento con adesione concordava, comunque, anche F. Pistolesi, op. cit., 73).
[8] In questi termini A. Marinello, Reclamo e mediazione tributaria: i limiti costituzionali della giurisdizione condizionata, in Dir. prat. trib., 2014, 4, 628 ss. Si consenta inoltre il rinvio a G. Corasaniti, Il reclamo e la mediazione nel sistema tributario, cit., 123 ss.
[9] Emanato in attuazione dell’art. 10 della legge delega 11 marzo 2014, n. 23.
[10] Con riferimento alle citate modifiche, Autorevole dottrina rilevava che, in realtà, «alla stregua della nuova normativa sembra ormai del tutto improprio parlare di mediazione, non avendo comunque il congegno normativamente previsto più nulla a che fare con la mediazione di stampo processualcivilistico». Cfr. C. Glendi, Il reclamo e la mediazione, in Abuso del diritto e novità sul processo tributario, (a cura di) Glendi – Consolo – Contrino, Milano, 2016, 182.
[11] Cfr. Circolare n. 38/E del 29 dicembre 2015.
[12] Lo precisa l’art. 17-bis, co. 1., d.lgs. n. 546 del 1992.
[13] Cfr. Circ. n. 38/E del 2015.
Al riguardo, si sono peraltro sempre condivisi gli orientamenti interpretativi di quella parte della dottrina che ravvisa nella disciplina del reclamo (nella sua veste amministrativa) «aspetti dei veri e propri rimedi giustiziali» (cfr. S. La Rosa, Principi di diritto tributario, Torino, 2012, 413) ovvero, in modo ancora più specifico, che sembrerebbe assimilare il reclamo (nella sua veste amministrativa) al ricorso amministrativo in opposizione, affermando che il reclamo, essendo «volto all’annullamento totale o parziale dell’atto», da questo punto di vista «altro non è che un ricorso in opposizione amministrativa» (cfr. A. Giovannini, Reclamo e mediazione tributaria: per una riflessione sistematica, in Rass. Trib., 2013, 54 ss.; Id., Giurisdizione tributaria condizionata e reclamo amministrativo, in Riv. trim. dir. trib., 2012, 915 ss.). Al riguardo si consenta inoltre il rinvio, per una più approfondita trattazione sul tema, a G. Corasaniti, Il reclamo e la mediazione nel sistema tributario, cit., 4; Id., L’incessante evoluzione del reclamo/mediazione: pregi e difetti di un istituto in continuo rinnovamento, in Dir. prat. trib., 2017, 21, 1639 ss.
In merito, si ricordino inoltre le parole con cui Autorevole dottrina ha sottolineato «l’alto tasso di scadimento confusionale sul piano della tecnica legislativa» osservando come risulti pressoché inutile che la nuova norma continui a parlare di “reclamo” e, a maggior ragione, di “reclamo” quale effetto del ricorso (cfr. C. Glendi, Il reclamo e la mediazione, in Abuso del diritto e novità sul processo tributario, cit., 175.)
Per una più approfondita riflessione in merito alla natura giuridica degli istituti del reclamo e della mediazione si consenta inoltre il rinvio a G. Corasaniti, La mediazione e la conciliazione nel processo tributario, in La riforma della giustizia tributaria, C. Glendi (a cura di), Milano, 2021, 42 ss.
[14] Per una disamina delle più recenti modifiche apportate all’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, sia consentito il rinvio a G. Corasaniti, Dall’Agenzia delle Entrate istruzioni sul reclamo/mediazione: una riforma ancora incompleta, in Corr. trib., 2018, 600 ss.
Si veda inoltre: Agenzia delle Entrate, Circolare 22 dicembre 2017, n. 30.
[15] Per una più completa disamina del “nuovo” istituto contemplato nel progetto di “Codice della Giustizia tributaria” si consenta il rinvio a G. Corasaniti, La mediazione e la conciliazione nel processo tributario, cit., 65 ss.
[16] Il progetto disciplinava espressamente, inoltre, l’ipotesi dell’“accordo conciliativo parziale” che avrebbe determinato una separazione del processo: si sarebbe estinta la parte del processo che aveva ad oggetto la parte della pretesa formulata nell’atto impugnato “definita” con lo strumento della “conciliazione preliminare”; sarebbe proseguita, invece, la parte del processo che aveva ad oggetto la parte residua non conciliata. Senza dubbio, l’espressa previsione (e disciplina) dell’“accordo conciliativo parziale” avrebbe potuto rappresentare un ulteriore “stimolo” per il ricorrente ad attivare il “nuovo” strumento deflativo del contenzioso.
[17] Al riguardo si sono condivise appieno le dure critiche formulate da C. Glendi, Verso l’ecatombe della giustizia tributaria (e di quella civile), in Ipsoa Quotidiano del 12 ottobre 2020, il quale, tra l’altro, sottolineava come un simile progetto di riforma si ponesse «in aperta contraddizione con l’attuale assetto ordinamentale costituzionalmente guarentigiato dove, piaccia o non piaccia, così come congegnato e formatosi dopo i ben noti dibattiti in sede di Assemblea costituente, non è prevista una sola giurisdizione (quella ordinaria), ma sono previste più giurisdizioni e cioè varie giurisdizioni speciali (amministrativa, contabile e anche tributaria), che dunque non possono essere soppresse con una legge ordinaria, richiedendosi, perché ciò, malauguratamente possa trovare ingresso, una disposizione normativa di rango costituzionale (come, tra l’altro, già in altre occasioni sostenuto e affermato dalla Corte costituzionale e dalle stesse SS.UU. della Corte di cassazione)».
[18] Ciò è vero, secondo il parere del prof. Gallo cui si ritiene di aderire, sebbene le procedure di reclamo/mediazione siano affidate a strutture interne differenti rispetto a quelle che procedono alla notifica degli atti impositivi.
[19] «La prima soluzione», osservava il prof. Gallo, «avrebbe il vantaggio di incidere maggiormente sulle scelte delle parti, perché la proposta del giudice monocratico potrebbe essere in qualche modo indicativa dell’orientamento della Commissione adita», generando inoltre «un trait d’union diretto con la condanna alle spese in caso di mancato raggiungimento dell’accordo». In concreto, adottando una soluzione di tal genere, la procedura avrebbe dovuto concludersi attraverso la conclusione di un vero e proprio accordo conciliativo, il cui perfezionamento si sarebbe realizzato con la redazione di un processo verbale volto a dare atto dell’accordo raggiunto, delle somme dovute, nonché dei relativi termini e modalità di pagamento.
La seconda soluzione proposta, invece, avrebbe avuto quale primario vantaggio quello della terzietà dell’organo competente ad esaminare l’istanza (cfr. pagg. 53 ss. della Relazione finale)
[20] Secondo i dati forniti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, e riportati nella Relazione finale della Commissione, nei primi anni di applicazione del reclamo/mediazione i ricorsi definiti in via amministrativa rappresentavano una percentuale (di poco) superiore al cinquanta per cento. Tale percentuale è poi diminuita negli anni successivi, sebbene la Commissione l’abbia ritenuta, in ogni caso, «nel complesso molto elevata» (cfr. pagg. 39 ss. della Relazione finale).
[21] Gli emendamenti proposti, in particolare, testimoniavano la necessità di rafforzare quanto più possibile la terzietà e l’indipendenza dell’organo deputato all’esame dell’istanza di reclamo e mediazione formulata dal contribuente. Si suggeriva, altresì, di innalzare il limite di valore delle controversie reclamabili sino a 100.000 euro (il riferimento è all’emendamento proposto dagli On.li Pittella, Comincini e Mirabelli) ovvero a 250.000 euro e alle liti di valore indeterminabile (il riferimento è all’emendamento proposto dagli On.li Ferro e Boccardi).
Per maggiori approfondimenti si vedano gli Emendamenti proposti nel Fascicolo Finale del 19 luglio 2022 con riferimento al d.d.l. AS 2636.
[22] Nel dettaglio, l’art. 48-bis.1 prevede quanto segue: “1. Per le controversie soggette a reclamo ai sensi dell’articolo 17-bis la corte di giustizia tributaria, ove possibile, può formulare alle parti una proposta conciliativa, avuto riguardo all’oggetto del giudizio e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione. 2. La proposta può essere formulata in udienza o fuori udienza. Se è formulata fuori udienza, è comunicata alle parti. Se è formulata in udienza, è comunicata alle parti non comparse. 3. La causa può essere rinviata alla successiva udienza per il perfezionamento dell’accordo conciliativo. Ove l’accordo non si perfezioni, si procede nella stessa udienza alla trattazione della causa. 4. La conciliazione si perfeziona con la redazione del processo verbale, nel quale sono indicati le somme dovute nonché i termini e le modalità di pagamento. Il processo verbale costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore e per il pagamento delle somme dovute al contribuente. 5. Il giudice dichiara con sentenza l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere. 6. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice.”
L’accesso civico e la reinterpretazione della trasparenza amministrativa. La funzionalizzazione dell’interesse conoscitivo e il suo ‘affievolimento’ (nota a Cons. St., sez. III, sent. non definitiva 10 giugno 2022, n. 4735)
di Flavio Valerio Virzì
Sommario: 1. Introduzione - 2. L’accesso civico generalizzato alla prova di alcune prassi interpretative - 2.1. La funzionalizzazione dell’interesse conoscitivo - 2.2. …il suo ‘affievolimento’ - 3. Il tentativo di reinterpretazione dell’accesso civico semplice - 3.1. La sentenza del TAR Lazio - 3.2 La sentenza del Consiglio di Stato - 4. Conclusioni.
1. Introduzione
La vicenda giuridica da cui scaturisce la sentenza in commento trae origine dal diniego opposto dal Ministero dell’interno all’istanza di accesso civico a un accordo di cooperazione, concluso tra Italia e Gambia nel 2010, e al Memorandum of Understanding, sottoscritto dalle stesse parti nel 2015. Tale istanza era stata presentata assumendo che si trattasse di documenti soggetti a pubblicazione obbligatoria, presupposto che però era stato ritenuto insussistente dal Ministero, nonché dal Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, intervenuto in sede di riesame ([1]).
L’accesso ai documenti rappresenta l’istituto d’elezione per l’attuazione del principio di trasparenza amministrativa ([2]); nelle sue diverse forme esso conferisce a tale principio funzioni di volta in volta diverse, che vanno dal rafforzamento dei diritti di partecipazione nel procedimento e di difesa nel processo, al rafforzamento del controllo democratico, al contrasto della corruzione ([3]). L’accesso civico, com’è noto, è disciplinato dal d.lgs. n. 33 del 2013, contenente il Testo unico sulla trasparenza, che finalizza il principio di trasparenza verso «forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche», prevedendo, all’art. 5, comma 1, l’accesso civico semplice, che consente «a chiunque» e senza alcuna limitazione di accedere ai documenti e ai dati oggetto di un obbligo di pubblicazione, al comma 2, l’accesso civico generalizzato, che consente invece di accedere ai documenti e ai dati ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ([4]). Tale ultima forma di accesso, introdotta dal d.lgs. n. 97 del 2016, è stata ispirata al Freedom of Information Act (FOIA), già da tempo vigente nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea e della gran parte degli altri Stati membri, oltre che degli Stati Uniti, dando ingresso a un vero e proprio diritto alla conoscibilità (right to know), il cui esercizio però non è illimitato ([5]).
La relativa istanza, infatti, può essere denegata, ai sensi dell’art. 5-bis, al ricorrere di un’eccezione “relativa”, correlata alla valutazione di un interesse pubblico o privato alla riservatezza, legislativamente individuato, ovvero al ricorrere di un’eccezione “assoluta”, correlata alla sussistenza di un segreto di Stato o di un altro divieto di accesso o di divulgazione previsto dalla legge ([6]).
L’intervento di riforma è stato accolto non senza riserve da una parte della scienza giuridica ([7]). Alcuni studiosi rimproverano allo stesso di aver puntato su una forma di accesso non del tutto effettiva, soprattutto in ragione della formulazione eccessivamente vaga e generica delle numerose limitazioni legislativamente previste. Altri, pur apprezzando l’importante passo in avanti compiuto, auspicano interventi correttivi, al fine di superare prassi interpretative che riducono l’effettività del nuovo diritto ([8]). Quella in base alla quale lo stesso incontrerebbe dei limiti di tipo soggettivo, desumibili dalla sua funzionalizzazione a un interesse pubblico alla conoscibilità. Quella in base alla quale i limiti di tipo oggettivo determinerebbero un ‘affievolimento’ di detto interesse ogni volta in cui vi sia esposizione a pregiudizio per l’interesse pubblico alla segretezza o per l’interesse privato alla riservatezza ([9]).
La sentenza in commento, tuttavia, sembrerebbe avvalorare posizioni più caute in merito alla portata del d.lgs. n. 97. Essa, infatti, pur vertendo sull’accesso civico semplice, consente di pervenire a conclusioni che, a maggior ragione, possono valere per l’accesso civico generalizzato: il fatto che il Ministero dell’interno, dinanzi a un’istanza poco gradita, estenda alla prima forma di accesso gli stessi limiti soggettivi e oggettivi finora sperimentati per la seconda, per un verso, conferma che la funzionalizzazione e l’affievolimento dell’interesse conoscitivo non vanno imputate alla volontà legislativa o alle lacune del testo di legge del 2016, ma a interpretazioni distorsive, per altro verso, informa del rischio che eventuali interventi correttivi restino esposti allo stesso tipo di interpretazioni, che sottendono una certa riluttanza a una piena adesione alla cultura della trasparenza.
2. L’accesso civico generalizzato alla prova di alcune prassi interpretative
La vicenda giuridica in commento, si diceva, trae origine dal diniego opposto dal Ministero dell’interno a un’istanza di accesso civico, avente a oggetto un accordo di cooperazione concluso tra Italia e Gambia in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare. Tale istanza, occorre ora precisare, era stata presentata ai sensi dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 33, e solo limitatamente all’ostensione di alcune parti dell’accordo, ai sensi del comma 2. L’opzione tra l’accesso civico semplice e generalizzato, operata dall’istante, rappresenta il primo aspetto saliente della vicenda, poiché, sottendendo una precisa valutazione in ordine alle possibilità di ottenere i documenti menzionati, sembrerebbe avvalorare le riserve manifestate nei confronti del FOIA. Il ricorso all’accesso civico generalizzato, infatti, è stato osteggiato in alcune vicende assimilabili e ciò potrebbe aver scoraggiato il ricorso allo stesso da parte dell’amministrato: viene in rilievo la sentenza del Consiglio di Stato n. 1121 del 2020, che, oltre a essere stata resa nei confronti della stessa ricorrente, è accomunata a quella qui in commento per l’oggetto dell’istanza di accesso (il contenuto di accordi conclusi con Paesi terzi) per gli interessi coinvolti (l’interesse alla conoscibilità dei documenti concernenti la politica di contrasto dell’immigrazione irregolare e l’interesse alla riservatezza a tutela delle relazioni internazionali coinvolte in detta politica) nonché per aver legittimato quelle prassi interpretative che fondano le tesi sulla funzionalizzazione e sull’affievolimento alle quali si è accennato. Ma queste ultime trovano riscontro nella volontà legislativa e nel dettato legale? ([10]).
2.1. La funzionalizzazione dell’interesse conoscitivo
Le prassi sopra descritte, è necessario sin d’ora segnalare, originano tutte dalla tendenza di una parte dell’amministrazione a valorizzare, sia pure, per così dire, al rovescio, la ratio delle previsioni contenute all’interno del l. n. 241 del 1990 per l’interpretazione del d.lgs. n. 33 del 2013. Così, se quella impone di opporre diniego alle istanze di accesso documentale funzionali a un controllo generalizzato sull’azione amministrativa, questa impone di denegare istanze di accesso civico, che, al contrario, non siano finalizzate a un controllo di tal tipo. Se quella prefigura per l’amministrato un interesse all’accesso in grado di far fronte agli interessi alla riservatezza contrapposti, questa non può che configurare un interesse conoscitivo, che, dinanzi alle esigenze di riservatezza, tende ad affievolire ([11]).
Le tesi della funzionalizzazione e dell’affievolimento, segnatamente, vengono giustificate, oltre che facendo leva sul dettato legale, proprio sull’esigenza di risolvere il problematico rapporto tra accesso documentale e accesso civico, come declinato nella formula stereotipata della «diversa profondità ed estensione» dei due istituti ([12]). Tale formula, non a caso, ricorre anche all’interno della sentenza del Cons. St. 2020/1121, in cui si afferma che la fondamentale differenza tra accesso documentale ed accesso civico consiste in ciò, «il primo consente […] un’ostensione più approfondita, in ragione della sua strutturale correlazione con un interesse privato del richiedente (generalmente a fini difensivi)»; il secondo invece «è funzionale ad un controllo diffuso del cittadino, al fine specifico, da un lato, di assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa per l’ipotesi in cui non siano stati compiutamente rispettati gli obblighi al riguardo già posti all’amministrazione da una norma di legge, nonché – dall’altro – per operare un più incisivo e preventivo contrasto alla corruzione»; questo, in quanto tale, «consente sì una conoscenza potenzialmente più estesa rispetto a quella accordata dalla l. n. 241 del 1990 ai soggetti privati per la tutela dei propri interessi, ma d’altro canto meno approfondita, in quanto concretamente si traduce nel diritto ad un’ampia diffusione di dati, documenti ed informazioni, fermi però ed in ogni caso i limiti posti dalla legge a salvaguardia di determinati interessi pubblici e privati che in tali condizioni potrebbero essere messi in pericolo» ([13]).
La tesi della funzionalizzazione è stata fondata sul testo dell’art. 5, comma 1, specificamente nella parte in cui fa riferimento allo «scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico» ([14]). Tale riferimento, infatti, è stato sfruttato per giustificare la verifica sull’effettiva rispondenza dell’istanza di accesso generalizzato alle finalità legislativamente prescritte e, conseguentemente, l’eventuale diniego di accesso nei confronti di chi intende far valere un interesse di tipo ‘egoistico’ ([15]).
La tesi riportata è stata condivisa, di nuovo, nella sentenza del Consiglio di Stato n. 2020/1121. Il giudice, in tale occasione, rammentato che «uno solo è il presupposto imprescindibile di ammissibilità dell’istanza di accesso civico generalizzato, ossia la sua strumentalità alla tutela di un interesse generale» e che tale istanza dev’essere «disattesa ove tale interesse generale della collettività non emerga in modo evidente, oltre che, a maggior ragione, nel caso in cui la stessa sia stata proposta per finalità di carattere privato ed individuale», aveva ribaltato le conclusioni del TAR, che aveva ritenuto illegittimo il diniego, opposto dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, all’istanza di accesso a documenti contenenti informazioni su talune operazioni di Search and Rescue. Il collegio, infatti, aveva ritenuto non fosse dato ravvisare nella stessa «gli specifici interessi generali – ossia, direttamente riferibili alla comunità dei cittadini o ad una parte significativa di essi – alla cui promozione e tutela sarebbero state preordinate le istanze medesime», arrivando, per tale via, a negare ciò che pure era stato conclamato nella sentenza di primo grado, vale a dire, che l’interesse generale all’accesso ai documenti sulle operazioni di ricerca e salvataggio in mare dei migranti, può essere di per sé rinvenuto nell’indubbio rilievo civico e nell’ampio risalto sociale del fenomeno migratorio ([16]).
La funzionalizzazione, nella prospettiva esposta, deriverebbe dalla previsione legislativa. Tuttavia, se è vero che il legislatore all’interno del comma 2 fa espresso riferimento alla funzione propria dell’accesso civico generalizzato, è altrettanto vero che lo stesso legislatore all’interno del comma 3 si preoccupa di specificare che la presentazione dell’istanza non può essere sottoposta «ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente», ma anche di far venir meno le condizioni per un’eventuale verifica sul rispetto di dette finalità, affermando che tale istanza «non richiede motivazione» ([17]).
I due commi, pertanto, andrebbero letti coordinatamente, in maniera tale da conciliare la prospettiva solidaristica dell’uno con la prospettiva individualistica dell’altro: le istanze di accesso potranno pure essere poste a presidio delle garanzie democratiche, ma di detta funzione – come precisato dal legislatore – non deve farsi carico il singolo istante, poiché ciò sarà il fine ultimo cui l’ordinamento vuole tendere attraverso la sommatoria di molteplici condotte individuali. Tale lettura è stata condivisa anche dalla Adunanza plenaria nella sentenza 10/2020, secondo cui il riferimento legislativo alla necessità di favorire forme diffuse di controllo sull’azione dell’amministrazione varrebbe a evidenziare la volontà di superare il limite funzionalistico previsto per l’accesso documentale e non a sottoporre a verifica le finalità per cui viene richiesto l’accesso civico generalizzato. Essa, pur definendo tale ultimo accesso come «dichiaratamente finalizzato a garantire il controllo democratico sull’attività amministrativa», rinviene sotteso allo stesso «un interesse individuale alla conoscenza […] protetto in sé» ed esorta a non confondere «la ratio dell’istituto con l’interesse del richiedente, che non necessariamente deve essere altruistico o sociale né deve sottostare ad un giudizio di meritevolezza, per quanto […] certamente non deve essere pretestuoso o contrario a buona fede» ([18]).
2.2. …il suo ‘affievolimento’ ([19])
La tesi dell’affievolimento, fondata sull’art. 5-bis, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 33, si manifesta sotto un duplice e diverso profilo ([20]). Il primo inerisce all’opzione tra l’harm test e il public interest o public interest ovveride test, da effettuarsi in vista dell’eventuale diniego di accesso ([21]). L’amministrazione, infatti, tende a rappresentare l’interesse alla conoscibilità dell’amministrato come necessariamente recessivo dinanzi alla valutazione sull’esposizione a pregiudizio concreto dell’interesse pubblico o privato alla riservatezza, escludendo di dover dare luogo a un bilanciamento. Il secondo inerisce proprio a tale valutazione. L’amministrazione tende a ritenere l’interesse alla conoscibilità recessivo dinanzi all’interesse alla riservatezza, a prescindere dalla sua esposizione a un pregiudizio concreto ([22]).
La tesi, in entrambi i suoi profili, viene anch’essa condivisa nella sentenza n. 1121 del Consiglio di Stato, che, riconosciuto al diniego di accesso civico natura «eminentemente discrezionale, che non di rado può involgere […] insindacabile merito politico», circoscrive il suo sindacato alla mera «logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria», salvo poi rinunciare di fatto persino allo stesso ([23]). Il collegio, infatti, ritiene «adeguatamente motivata e coerente con l’assolvimento delle loro funzioni istituzionali» la motivazione con cui il Ministero, senza preoccuparsi di attribuire rilievo all’interesse alla conoscibilità, si limita a valutare l’esposizione a pregiudizio dell’interesse pubblico alla riservatezza, reputando sufficiente l’apodittica affermazione per cui «l'eventuale accesso alle comunicazioni/documentazioni relative agli eventi SAR di cui trattasi, comporterebbe un pregiudizio concreto ai rapporti che intercorrono tra Stati ed alle relazioni tra soggetti internazionali, in particolare con il Governo libico e quello maltese» ([24]). Lo scostamento rispetto alla sentenza del TAR Lazio è evidente. Il giudice di primo grado, infatti, si era fatto apprezzare proprio per aver spostato l’attenzione sull’interesse alla conoscibilità, prospettando un vero e proprio bilanciamento con il contrapposto interesse alla riservatezza: per esso, «L’importanza e la frequenza delle operazioni [di salvataggio in mare], nonché la natura dei diritti fondamentali coinvolti non possono risultare esclusi dall’attuazione del principio di trasparenza, come concepito e disciplinato dalla normativa vigente»; l’istanza di accesso, pertanto, può pure porre ragioni di ordine pubblico, difesa militare o repressione di reati, ma «l’eventuale concorso di fattori, meritevoli di riservatezza» non possono di per sé «soverchiare totalmente il principio di trasparenza, in un settore di indubbio rilievo civico e ampio risalto, peraltro, anche nei mass-media» ([25]).
Ma la tesi dell’affievolimento trova veramente riscontro nel testo legislativo? L’art. 5-bis, in effetti, sembrerebbe avvalorare l’harm test, per la mancanza nel dettato legale della clausola tipica del public interest test, esemplificata nella formula europea «a meno che vi sia un interesse pubblico prevalente alla divulgazione» ([26]). Tale previsione, tuttavia, nel disporre che l’accesso civico «è rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto», sembrerebbe introitare un principio di proporzionalità, la cui applicazione logicamente presuppone un balancing test, da intendersi rettamente, non già nel senso che l’interesse all’accesso possa prevalere dinanzi all’interesse alla riservatezza, bensì nel senso – proprio della «regola del mezzo più mite» – che il primo interesse non debba soccombere del tutto allorché non sia strettamente necessario per evitare un pregiudizio al secondo, ciò che, peraltro, trova riscontro nella definizione dell’accesso parziale e dell’accesso differito, di cui ai commi successivi ([27]). Essa, soprattutto, non depone in alcun modo nel senso di far ritenere l’interesse all’accesso come recessivo dinanzi all’astratta prospettazione di un interesse alla riservatezza; in disparte l’insinuazione di chi ritiene che l’affievolimento deriverebbe di per sé dalla sua formulazione, per prevedere essa un’elencazione di interessi-limite eccessivamente vaga e generica, apparendo invece tale elencazione perfettamente in linea con i FOIA europei e internazionali, occorre sottolineare che la stessa attribuisce rilievo all’interesse alla riservatezza non già di per sé, ma in ordine al pregiudizio «concreto» che a esso ne potrebbe derivare ([28]).
L’Adunanza Plenaria sembrerebbe dello stesso avviso. Il collegio, infatti, soffermandosi sul «delicato bilanciamento tra il valore, fondamentale, dell’accesso e quello, altrettanto fondamentale, della riservatezza» afferma che «la circostanza che l’accesso possa prevedibilmente soccombere di fronte alle ragioni normativamente connesse alla riservatezza dei dati dei concorrenti non può condurre a un’aprioristica esclusione dell’accesso». Esso, soprattutto, sia pure sovrapponendo i termini dei due test descritti, conferma che «Tutte le eccezioni relative all’accesso civico generalizzato implicano e richiedono un bilanciamento da parte della pubblica amministrazione, in concreto, tra l’interesse pubblico alla conoscibilità e il danno all’interesse-limite, pubblico o privato, alla segretezza e/o alla riservatezza, secondo i criteri utilizzati anche in altri ordinamenti, quali il cd. test del danno (harm test) […] o il c.d. public interest test o public interest override […], in base al quale occorre valutare se sussista un interesse pubblico al rilascio delle informazioni richieste rispetto al pregiudizio per l’interesse-limite contrapposto»; per poi specificare che tale valutazione debba essere svolta di volta in volta sulla base del principio di proporzionalità ([29]).
Le considerazioni che precedono inducono a ritenere che le interpretazioni che fondano la funzionalizzazione e l’affievolimento dell’interesse conoscitivo vanno non già imputate alla volontà legislativa o alla scarsa perspicuità del dettato legale, bensì addebitate a una deliberata scelta dell’interprete e a una certa riluttanza da parte dello stesso ad aderire alla cultura della trasparenza. Tanto pare a maggior ragione avvalorato dalla vicenda da cui origina la sentenza in commento, su cui occorre ora tornare.
3. Il tentativo di reinterpretazione dell’accesso civico semplice
L’opzione per l’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33, da parte dell’istante, non vale a evitare gli atteggiamenti ostruzionistici del Ministero, che tenta di riparare in un’operazione interpretativa inedita, volta a estendere gli stessi limiti soggettivi e oggettivi sperimentati nell’ambito del comma successivo.
L’istante, segnatamente, si rivolgeva al Ministero, assumendo che l’accordo di cooperazione dovesse considerarsi oggetto di un obbligo di pubblicazione ai sensi dell’art. 4 della l. n. 839 del 1984, che pone in capo al Ministero degli affari esteri, Servizio del contenzioso diplomatico, trattati e affari legislativi, l’onere di trasmettere tutti gli atti internazionali cui la Repubblica italiana si obbliga nelle relazioni estere, ivi compresi i trattati, le convenzioni, lo scambio di note, gli accordi e gli altri atti diversamente denominati, per la loro pubblicazione trimestrale. Il Dipartimento della pubblica sicurezza – Direzione centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere, tuttavia, rifiutava di esibire i menzionati documenti, giustificando la propria determinazione in ragione della carenza di un interesse pubblico all’accesso e della prevalenza dell’interesse alla riservatezza, derivante dalla necessità di evitare un pregiudizio alla sicurezza pubblica e all’ordine pubblico, nonché alle relazioni internazionali. Esso, in altre parole, giustificava il proprio rifiuto facendo leva proprio sulla tesi della funzionalizzazione e dell’affievolimento dell’interesse conoscitivo, ai sensi dell’art. 5-bis.
Tali tesi neppure stavolta trovano riscontro, eppure, come si sta per vedere, vengono condivise in sede giurisdizionale.
3.1. La sentenza del TAR Lazio
Il TAR Lazio, il cui intervento viene sollecitato dall’istante, infatti, considera sufficientemente motivato il rifiuto del Ministero dell’interno e lo fa rinviando proprio alla sentenza n. 1121/2020, dalle cui statuizioni il collegio «non ravvede ragioni per discostarsi»; ragioni, che, però, a uno sguardo più attento, avrebbero potuto agevolmente essere rintracciate nella diversa causa petendi, l’illegittimità del diniego di accesso civico semplice qui, l’illegittimità del diniego di accesso civico generalizzato lì ([30]).
Quanto alla tesi della funzionalizzazione, innanzitutto, il TAR, assumendo che l’istanza debba essere finalizzata alla tutela di un interesse pubblico, conclude nel senso della mancanza di tale carattere: «L’interesse della ricorrente è – per sua stessa ammissione – un interesse legato alla sua attività professionale di difensore di cittadini gambiani trattenuti presso di centri di rimpatrio. Pertanto, non si ravvisa – né è stato allegato – un interesse proprio della generalità dei cittadini al riguardo». Esso, tuttavia, così argomentando, commette tre errori contemporaneamente, trascurando, in primo luogo, che il dettato dell’art. 5, comma 1, appare chiaro nel correlare all’obbligo di pubblicare i documenti e i dati previsti dalla normativa vigente, il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, allorché sia stata omessa la loro pubblicazione; in secondo luogo, che la giurisprudenza menzionata si è formata con specifico ed esclusivo riferimento all’art. 5, comma 2; quindi, che detta giurisprudenza deve ritenersi comunque inammissibile, tanto più che, come detto, l’art. 5, comma 3, prevede che «L'esercizio del diritto di cui ai commi 1 e 2 non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente» e che l’istanza di accesso civico «non richiede motivazione» ([31]).
Quanto alla tesi dell’affievolimento, invece, occorre osservare che il TAR, anziché verificare la riferibilità dei documenti oggetto dell’istanza agli obblighi di pubblicazione di cui all’art. 4 della l. n. 839 del 1984, al fine di stabilire la sussistenza o meno del diritto di richiedere gli stessi, si sofferma sui limiti che a tale diritto deriverebbero dall’art. 5-bis, comma 1, lett. a) e d), nonché dall’art. 24, comma 2, l. n. 241 del 1990 e dagli artt. 2, comma 1, lett. a), b) e 3, comma 1, lett. a) e d), del D.M. 415/94, peraltro, senza preoccuparsi di attribuire rilievo all’interesse alla conoscibilità e ritenendo sufficiente una motivazione superficiale, in cui il pregiudizio all’interesse pubblico alla riservatezza, per come prospettato, appare tutt’altro che concreto. La premessa del suo ragionamento è che «l’articolo 5-bis, comma primo del d.lgs. n. 33 del 2013, […] il legislatore individua una serie di interessi – di rilievo costituzionale – la cui tutela è imprescindibile per la funzionalità dell’apparato dello Stato, in quanto attenenti all’essenza stessa della sua sovranità (interna ed internazionale)» e che «la valutazione che l’Amministrazione è tenuta a fare sulla prevalenza di tali interessi rispetto all’interesse all’accesso, ha natura discrezionale e come tale è sindacabile solo ove manifestamente illogico o irragionevole, affetto da difetto di istruttoria o travisamento». La conclusione è che il diniego risulta adeguatamente motivato, rappresentando la circostanza per cui «La pubblicazione dell’accordo di cui sopra andrebbe a minare l’integrità dei rapporti internazionali intrattenuti dal nostro Paese con il Gambia, su quello che è il tema del contrasto all’immigrazione illegale, la lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata ed al traffico di esseri umani (cooperazione internazionale operativa di Polizia)» e correlativamente per cui «L’ostensione degli atti richiesti, […] oltre a minare la sicurezza di una attività operativa di cooperazione di polizia, produrrebbe un concreto e diretto pregiudizio all’integrità dei rapporti con un paese che rappresenta uno snodo fondamentale per gli equilibri euro-mediterranei, anche in ragione dei flussi migratori all’interno del continente africano»; per il giudice, la motivazione deve ritenersi legittima, pur prospettando solo dei «possibili pregiudizi concreti» ([32]).
L’errore in cui incorre il TAR stavolta è duplice, posto che esso estende all’accesso civico semplice dei limiti legislativamente previsti per il solo accesso civico generalizzato e lo fa facendo recedere l’interesse conoscitivo dinanzi all’astratta prospettazione di un interesse pubblico alla riservatezza. Il primo errore, invero, è talmente grave da offuscare il secondo, facendo sorgere il dubbio che si tratti di un vero e proprio travisamento dei fatti processuali, anche perché il giudice non si preoccupa neppure di esporre le ragioni che lo inducono a reinterpretare il combinato disposto tra l’art. 5, comma 2, e l’art. 5-bis, del cui significato non pare potersi affatto dubitare. Tali ragioni, che forse il Ministero rappresenta in atti, ma che non vengono riprodotte dal collegio, tuttavia, saranno esternate nell’ambito del giudizio di secondo grado, per essere finalmente censurate.
3.2 La sentenza del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, nella sentenza in commento, torna sui limiti soggettivi e oggettivi che il Ministero dell’interno pretende di opporre all’accesso civico semplice, ribaltando le conclusioni del tribunale.
Sotto un primo profilo, il collegio si sofferma sulla pretesa funzionalizzazione dell’accesso civico semplice e lo fa riferendosi anche al riflesso che la stessa provocherebbe sul piano dell’identificazione dei documenti ostensibili. Per un verso, infatti, il collegio si limita a rammentare il dettato del d.lgs. n. 33 e l’interpretazione dello stesso fornita dall’Adunanza plenaria per accogliere il motivo di gravame: «Sulla base dei riferiti dati normativi, che hanno completato l’evoluzione, nel nostro ordinamento, “della visibilità del potere” pubblico, segnando il “passaggio dal bisogno di conoscere al diritto di conoscere”, l’Adunanza plenaria di questo Consiglio – con affermazioni relative all’accesso civico “generalizzato” di cui all’art. 5, comma 2, citato, ma valevoli, a fortiori, per quello “semplice” di cui all’art. 5, comma 1 – ha chiarito che esso “non è sottoposto ad alcun limite quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente e senza alcun onere di motivazione circa l’interesse alla conoscenza”» ([33]). Per altro verso, esso si premura, sia pure per il tramite di un obiter dictum, a escludere che la finalità propria dell’accesso civico, identificata nel controllo sulle funzioni amministrative, possa valere a estromettere i documenti aventi natura politica, in considerazione del fatto che il Testo unico «nell’enucleare i principi di trasparenza e conoscibilità sottesi all’intero decreto» fa riferimento «non già agli atti amministrativi ma ai dati, alle informazioni e ai documenti detenuti dalla pubblica amministrazione» ([34]). Sotto il secondo profilo, il giudice si sofferma invece sul tentativo di far ‘affievolire’ l’accesso civico semplice, sia pure a seguito di un riposizionamento strategico, di tipo metodologico, che gli consente di affrontare il problema della sussumibilità degli accordi tra Italia e Gambia negli obblighi legali di pubblicazione, per censurare il tentativo di riqualificazione degli stessi effettuato dall’amministrazione ministeriale, secondo la quale la natura tecnico-amministrativa del loro contenuto avrebbe dovuto indurre a escludere la loro natura di accordi internazionali e con ciò l’obbligo di pubblicazione ai sensi della l. n. 839 del 1994 ([35]).
Il Consiglio di Stato, infatti, rilevato l’obbligo di pubblicazione, passa a verificare che non sussistano altre ragioni ostative all’accesso, soffermandosi specificamente «sui rapporti tra gli obblighi di pubblicazione degli accordi internazionali, l’accesso civico semplice e quello generalizzato, e le cause di esclusione di quest’ultimo» e specificamente sull’opzione interpretativa secondo cui all’accesso civico semplice sarebbero estensibili le cause di esclusione che l’art. 5-bis del d.gls. n. 33 riferisce espressamente al solo accesso civico generalizzato ([36]). Il collegio finalmente palesa il fondamento dell’anzidetta opzione, che approfitterebbe di un’incongruenza generata dalla riforma dello stesso Testo unico della trasparenza a opera del d.lgs. n. 97 del 2016 e, segnatamente, del fatto che, mentre l’art. 5, comma 1, definisce il suo ambito di applicazione facendo riferimento agli obblighi di pubblicazione previsti «ai sensi della normativa vigente», l’art. 5, comma 2, definisce il suo ambito applicativo facendo invece riferimento agli atti ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione «ai sensi del presente decreto». Tale incongruenza, secondo il Ministero, ridurrebbe la portata operativa dell’accesso civico semplice, facendo così rispandere quella dell’accesso civico generalizzato e quindi delle clausole di esclusione per esso prescritte all’interno dell’art. 5-bis, comma 1; questo perché tale ultima forma di accesso opererebbe non soltanto rispetto agli atti non oggetto di pubblicazione obbligatoria, ma anche rispetto a quegli atti oggetto di pubblicazione obbligatoria in forza di norme esterne al Testo unico e, tra questi, degli atti assoggettati a pubblicazione dalla l. n. 839 del 1994 ([37]).
Il giudice, tuttavia, ritiene di dover avversare tale interpretazione, ritenendola del tutto incompatibile sia con il tenore letterale dell’art. 5, comma 1, sia con la ratio sottesa all’art. 5, comma 2, che introduce l’accesso civico generalizzato «per ampliare e non per ridurre la trasparenza dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni». La presa di posizione, del resto, trova conforto anche nell’art. 5-bis, comma 4, nella parte in cui si fanno salvi gli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente, la cui «unica funzione logica» non potrebbe che essere «di ulteriormente segnalare all’interprete che le cause di esclusione dall’accesso civico generalizzato – e quindi lo stesso accesso civico generalizzato – riguardano atti e documenti non oggetto di pubblicazione obbligatoria»([38]).
L’accesso civico semplice, in definitiva, deve intendersi esteso a tutti gli atti oggetto di un obbligo di pubblicazione, a prescindere dal fatto che la fonte che lo preveda sia interna o esterna al Testo unico. Tale accesso, soprattutto, non può essere in nessun caso negato; l’unica possibilità che residua in capo all’amministrazione per sottrarre allo stesso un documento oggetto di pubblicazione obbligatoria è l’apposizione del segreto di Stato, ovvero, si potrebbe forse aggiungere, la classificazione delle informazioni in esso contenute, ai sensi della l. n. 124 del 2007: «[n]onostante infatti, il d.lgs. n. 33 del 2013 non indichi espressamente il segreto di Stato quale clausola d’esclusione dall’accesso civico semplice (a differenza di quanto avviene per quello generalizzato), il principio di trasparenza, sotteso ad entrambe le forme di accesso, non può certamente rendere inoperante l’istituto del segreto, che resta strumento irrinunciabile per tutelare supremi ed insopprimibili interessi dello Stato […] quali la “integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali”, la “difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento”, la “indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi” e “la preparazione” e “la difesa militare dello Stato”» ([39]).
Il Consiglio di Stato accoglie così anche il secondo motivo gravame, ma le conclusioni cui perviene in generale, non gli consentono di definire la sua pronuncia in merito alla sussistenza del diritto di accesso civico semplice nel caso di specie. Tanto perché il giudice ritiene di non essere in grado di appurare se con gli accordi internazionali oggetto di accesso l’Italia si sia effettivamente impegnata nei confronti del Gambia, ciò che, in linea con i passaggi argomentativi riportati, diviene indispensabile determinare, per poi poter affermare la riferibilità di tali accordi alla l. n. 839. La ricorrente, infatti, riporta una serie di circostanze che farebbero deporre per l’assunzione di impegni di tal tipo. Il Ministero dell’interno, dal canto suo, affermato che gli accordi sarebbero stati stipulati da un organo della pubblica amministrazione «che non rappresenta un soggetto di diritto internazionale», non prende poi una specifica posizione a riguardo, anche in ragione delle dedotte esigenze di tutela della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico e delle relazioni internazionali con la controparte gambiana.
Il collegio, pertanto, emette una sentenza non definitiva, che veicola l’ordine, rivolto al Ministro dell’interno, di produrre, entro sessanta giorni, una relazione a firma congiunta del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, in cui si chiariscano tutti i pertinenti profili di interesse, anche in merito all’opposizione del segreto di Stato.
4. Conclusioni
La vicenda giuridica da cui scaturisce la sentenza commentata, si diceva in apertura, verte essenzialmente sull’accesso civico semplice, ma consente di pervenire a conclusioni, che, a maggior ragione, possono valere per l’accesso civico generalizzato. L’estensione alla prima forma di accesso degli stessi limiti soggettivi e oggettivi sinora sperimentati per la seconda conferma, infatti, che la tesi della funzionalizzazione e dell’affievolimento dell’interesse conoscitivo non vanno imputate alla volontà legislativa o alla scarsa perspicuità del d.lgs. 97/2016. Tali tesi, infatti, sono state riferite pure all’art. 5, comma 1, della cui portata testuale non pare potersi dubitare, a meno di non voler rimettere in discussione, accanto all’art. 5, comma 2, e all’art. 5-bis, l’intero disegno legislativo e il significato proprio delle parole in esso contenute. La sentenza commentata, soprattutto, conforta le riserve in ordine all’efficacia di eventuali interventi correttivi, non perché il Testo unico non sia perfettibile, ma per l’impossibilità di prevedere le effettive ricadute di detti interventi a fronte delle descritte prassi interpretative; ebbene, proprio su dette prassi, nelle ultime battute del presente scritto, si propone di agire ([40]).
La riforma del 2016 esprime un sicuro favor per la trasparenza amministrativa. Tale favor potrebbe essere valorizzato proprio nell’interpretazione delle sue previsioni normative, come fa l’Adunanza Plenaria in molti passaggi della sentenza sopra riportati, e come fa altresì lo stesso Ministero per la pubblica amministrazione all’interno della circolare n. 2/2017, che, nell’enunciare ciò che esso stesso definisce come principio della tutela preferenziale dell’interesse conoscitivo, esorta a dare prevalenza a tale ultimo interesse ogni volta in cui emergano dubbi in ordine alla portata delle suddette previsioni. Esso, si intende dire, potrebbe valere a risolvere i contrasti interpretativi in ordine al dettato legale, avvalorando, tra due o più letture plausibili, la soluzione che maggiormente conviene alla realizzazione del right to know. Il principio della tutela preferenziale, elevato a vero e proprio canone interpretativo, vanificherebbe in origine i tentativi di rilettura del Testo unico, costringendo le amministrazioni più riluttanti a recepire il cambio di paradigma culturale veicolato dallo stesso e proteggendo gli amministrati dai rivolgimenti giurisprudenziali ([41]).
([1]) Cfr. Cons. St., sez. III, sent. (non definitiva) 10 giugno 2022, n. 4735, resa su ricorso avverso TAR Lazio, sez. I-ter, sent. 22 luglio 2021, n. 8838.
([2]) Sulla rilevanza e sull’evoluzione storico-giuridica del principio di trasparenza nell’ordinamento italiano, cfr. almeno M. D’ALBERTI, La trasparenza amministrativa tra progressi e incertezze, in Lo sguardo del giurista e il suo contributo all’amministrazione in trasformazione. Scritti in onore di Francesco Merloni, Torino, 2021; A. CORRADO, Il principio di trasparenza, in M.A. SANDULLI, (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2017, p. 104; M. OCCHIENA, I principi di pubblicità e trasparenza, in M. RENNA - F. SAITTA (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, p. 141 ss.; E. CARLONI, La “casa di vetro” e le riforme. Modelli e paradossi della trasparenza amministrativa, in Dir. Pubbl., 2009, n. 3, p. 779 ss.; F. MERLONI, Trasparenza delle istituzioni e principio democratico, in Id. (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano, 2008, p. 9 ss.; G. ARENA, Trasparenza amministrativa, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, vol. VI, Milano, 2006, e Id., Trasparenza amministrativa, in Enc. Giur., vol. XXX, Roma, 1995.
([3]) Sulla declinazione del principio di trasparenza in relazione ai diversi istituti dell’accesso ai documenti amministrativi, cfr. F. MANGANARO, Evoluzione ed involuzione delle discipline normative sull’accesso a dati, informazioni ed atti delle pubbliche amministrazioni, in Dir. Amm., 2019, n. 4, p. 793 ss.; C.E. GALLO, S. FOA, Accesso agli atti amministrativi, in Dig. Disc. Pubbl., Torino 2011; M. D’ALBERTI, La “visione” e la “voce”: le garanzie di partecipazione ai procedimenti amministrativi, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2000, n. 1, p. 5 ss.; M.A. SANDULLI, Accesso alle notizie e ai documenti amministrativi, in Enc. dir., IV agg., 2000.
([4]) L’introduzione dell’accesso civico semplice all’interno del nostro ordinamento è stata commentata da G. GARDINI, Il codice della trasparenza: un primo passo verso il diritto all’informazione amministrativa?, in Giornale di diritto amministrativo, 2014, n. 8-9, 875 e M. SAVINO, La nuova disciplina della trasparenza amministrativa, in Giornale di diritto amministrativo, 2013, n. 8-9, 801 ss.
([5]) Il FOIA dell’Unione europea è disciplinato dal Reg. CE n. 1049 del 30 maggio 2001; sullo stesso D.U. GALETTA, La trasparenza, per un nuovo rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione: un’analisi storico-evolutiva, in una prospettiva di diritto comparato ed europeo, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2016, n. 5, 1019 ss.; G. SGUEO, L’accessibilità ad atti e informazioni nell’Unione europea: un percorso in divenire, in A. NATALINI, G. VESPERINI (a cura di), Il big bang della trasparenza, Napoli, 2015, 163 ss; sull’esperienza degli ordinamenti europei e internazionali, in prospettiva comparata, cfr. B.G. MATTARELLA - M. SAVINO (a cura di), L’accesso dei cittadini. Esperienze di informazione amministrativa a confronto, Napoli, 2018.
([6]) Il d.lgs. n. 97 del 2016 è stato commentato, tra gli altri, da E. CARLONI, Se questo è un FOIA. Il diritto a conoscere tra modelli e tradimenti, in Rassegna Astrid, 2016, n. 4, D.U. GALETTA, Accesso civico e trasparenza della Pubblica Amministrazione alla luce delle (previste) modifiche alle disposizioni del Decreto Legislativo n. 33/2013, in federalismi.it, 2016, n. 5, G. GARDINI, Il paradosso della trasparenza in Italia: dell’arte di rendere oscure le cose semplici, in federalismi.it, 2017, n. 1, M. SAVINO, Il FOIA italiano. La fine della trasparenza di Bertoldo, in Giornale di diritto amministrativo, 2016, n. 5, p. 593; S. VILLAMENA, Il c.d. FOIA (o accesso civico 2016) ed il suo coordinamento con istituti consimili, in federalismi.it, 2016, n. 23. L’accesso civico generalizzato, si noti, sottende il riconoscimento di una vera e propria libertà individuale, che rinviene copertura costituzionale nel combinato disposto tra l’art. 117, comma 1, Cost. e l’art. 10 CEDU. La rappresentazione dell’accesso civico generalizzato come libertà induce a ritenere che esso non possa essere funzionalizzato e che, pertanto, il suo esercizio non possa essere denegato in ragione del fine precipuo perseguito (cfr. però infra § 2.1.). La rappresentazione di tale libertà come fondamentale indica invece che tale diniego possa essere opposto soltanto in ragione di eccezioni legislativamente previste, nel rispetto del principio di riserva di legge (cfr. però infra 2.2. e nota 17 e 40).
([7]) Per una ricostruzione del dibattito, cfr. M. SAVINO, Il FOIA italiano e i suoi critici: per un dibattito scientifico meno platonico, in Dir. Amm., 2019, n. 3, p. 453 ss.; per un’analisi delle tendenze giurisprudenziali, cfr. invece A. MOLITERNI, La via italiana al “FOIA”: bilancio e prospettive, in Giornale di diritto amministrativo, 2019, n. 1, p. 23 ss.
([8]) Le due prassi sono analizzate in A. CORRADO, Il tramonto dell’accesso generalizzato come “accesso egoistico”, in federalismi.it, 2021, n. 11.
([9]) Il termine “affievolimento” riporta alla mente dell’amministrativista la nota teoria con cui una parte della scienza giuridica e della giurisprudenza spiega la natura delle situazioni giuridiche soggettive. Tale termine, è allora necessario precisare, nel presente scritto non vuole alludere in alcun modo all’anzidetta teoria, né connotare l’accesso civico come diritto soggettivo o interesse legittimo. Esso, più semplicemente, viene inteso come sinonimo di “recessività” e utilizzato per rappresentare la tendenza ad applicare le eccezioni relative di cui all’art. 5-bis, assumendo che l’interesse alla conoscibilità debba necessariamente recedere dinanzi alla mera prospettazione di un pregiudizio per l’interesse alla riservatezza.
([10]) Cons. St., sez. V, sent. 12 febbraio 2020, n. 1121, resa su TAR Lazio, sez. III, sent. 1° agosto 2019, n. 10202.
([11]) Cfr. A. MOLITERNI, La natura giuridica dell’accesso civico generalizzato nel sistema di trasparenza nei confronti dei pubblici poteri, in Dir. Amm., 2019, n. 3, p. 577 ss., e in particolare p. 597 ss.: «L’istituto dell’accesso civico generalizzato è stato […] letto e interpretato attraverso le tradizionali e consolidate “lenti di osservazione” dell’accesso documentale» e proprio in ragione del confronto con tale disciplina, si è, tra l’altro, «eccessivamente valorizzato l’elemento teleologico volto ad assicurare un “controllo generalizzato sull’attività amministrativa” (poiché invece espressamente escluso dalla l. n. 241 del 1990)» e «sottolineata l’assenza di una posizione giuridica qualificata in grado di fronteggiare “ad armi pari” gli interessi pubblici e privati contrapposti (in quanto vero asse portante di tutta la disciplina sull’accesso documentale)».
([12]) Il problema inerente al coordinamento tra le diverse forme di accesso presenti nel nostro ordinamento è stato approfondito da F. FRANCARIO, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, in federalismi.it, 2019, n. 10, che avverte come «per il principio dell’eterogenesi dei fini, il moltiplicarsi degli interventi legislativi, anziché aumentare l’effettività della garanzia di trasparenza, abbia finito o potrebbe finire con il ridurre a mera declamazione il diritto di accesso». Lo stesso A. si sofferma proprio sulla formula della “diversa profondità ed estensione” delle due forme di accesso, denunciando la tendenza della scienza giuridica «a descrivere esteriormente la differenza e a parlare di maggiore o minore profondità dell’accesso nell’uno e nell’altro caso, senza attribuire alcun preciso significato giuridico alla suddetta diversa profondità». Sullo stesso problema si sofferma anche G. GARDINI, Il paradosso della trasparenza in Italia: dell’arte di rendere oscure le cose semplici, in federalismi.it, 2017, n. 1 e S. VILLAMENA, Il c.d. FOIA (o accesso civico 2016) ed il suo coordinamento con istituti consimili, in federalismi.it, 2016, n. 23.
([13]) Cons. St., 2020/1121, cit.
([14]) La tesi della funzionalizzazione può essere fatta risalire alla sentenza del TAR Lazio, sez. II-bis, 2 luglio 2018, n. 7326, ove per la prima volta si afferma che «per quanto la legge non richieda l’esplicitazione della motivazione della richiesta di accesso, deve intendersi implicita la rispondenza della stessa al soddisfacimento di un interesse che presenti una valenza pubblica e non resti confinato ad un bisogno conoscitivo esclusivamente privato, individuale, egoistico o peggio emulativo che, lungi dal favorire la consapevole partecipazione del cittadino al dibattito pubblico, rischierebbe di compromettere le stesse istanze alla base dell’introduzione dell’istituto»; da allora alcuni giudici amministrativi si sono espressi nello stesso senso, cfr. TAR Lazio, sez. I, 23 luglio 2018, n. 8302-8303, TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, 22 novembre 2018, n. 347, TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 6 marzo 2019, n. 2019; TAR Lazio, sez. I-quater, 28 marzo 2019, n. 4122. La sua prospettazione, si noti, era stata anticipata da E. CARLONI, Se questo è un FOIA, cit. e F. FRANCARIO, Il diritto di accesso, cit., p. 5, ove si avvertiva come la confusione tra le diverse forme di accesso avrebbe potuto «portare a riferire anche all’accesso civico, e non solo all’accesso procedimentale, l’affermazione per cui il diritto di accesso non si sostanzierebbe in un’azione popolare e neppure potrebbe tradursi in un controllo generalizzato sulla legittimità dell’azione amministrativa, con l’effetto di consentire la introduzione di filtri della più varia natura finalizzati a circoscrivere, comunque sotto il profilo soggettivo, l’interesse ad agire nelle forme dell’accesso civico»; sulla funzionalizzazione dell’accesso civico cfr. altresì G. GARDINI, L’incerta natura della trasparenza amministrativa, in G. GARDINI e M. MAGRI (a cura di), Il FOIA italiano: vincitori e vinti. Un bilancio a tre anni dall’introduzione, Santarcangelo di Romagna, 2019, p. 54 ss.
([15]) La funzionalizzazione è alla base del tentativo di assimilazione del diritto di accesso civico alla c.d. azione popolare; in merito, oltre a G. GARDINI, L’incerta natura della trasparenza amministrativa, cit., p. 19 ss., cfr. G. TROPEA, Forme di tutela giurisdizionale dei diritti d’accesso: bulimia dei regimi, riduzione delle garanzie?, in Il Processo, 2019, n. 1, p. 20 ss., e V. PARISIO, La tutela dei diritti di accesso ai documenti amministrativi e alle informazioni nella prospettiva giurisdizionale, in federalismi.it, 2018, n. 11.
([16]) Cfr. Cons. St. 2020/1121, cit., secondo cui «Lo strumento in esame può […] essere utilizzato solo per evidenti ed esclusive ragioni di tutela di interessi propri della collettività generale dei cittadini, non anche a favore di interessi riferibili, nel caso concreto, a singoli individui od enti associativi particolari». Il collegio, peraltro, consapevole del fatto che il tentativo di funzionalizzazione esperito non trova riscontro all’interno del d.lgs. n. 33 del 2013, tenta di giustificare la propria presa di posizione sul piano processuale; secondo lo stesso «non si tratterebbe di imporre per via ermeneutica un onere non previsto dal legislatore, bensì di verificare se il soggetto agente sia o meno legittimato a proporre la relativa istanza. Nel giudizio amministrativo la sussistenza dell'interesse e della legittimazione ad agire è infatti valutabile d'ufficio in qualunque momento del giudizio. La mancanza dei presupposti processuali o delle condizioni dell'azione è rilevabile d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo (art. 35, comma primo, Cod. proc. amm.), poiché essi costituiscono i fattori ai quali la legge, per inderogabili ragioni di ordine pubblico, subordina l'esercizio dei poteri giurisdizionali». Il giudice, tuttavia, così trascura che la titolarità della situazione giuridica soggettiva ai sensi – e alle condizioni – di cui all’art. 5, comma 2 e 3, è strettamente correlata alla legittimazione ad agire in giudizio a cui egli stesso fa riferimento.
([17]) La funzionalizzazione, peraltro, in mancanza di un fondamento legislativo, sarebbe incompatibile con il right to know, oltre che ontologicamente, per la natura di tale diritto, che, in quanto fondamentale, ai sensi del combinato disposto tra l’art. 117, comma 1, Cost. e l’art. 10 CEDU, non tollererebbe limitazioni finalistiche, giuridicamente, perché violerebbe la riserva di legge, che, proprio ai sensi del suddetto combinato disposto, dovrebbe presiedere alle anzidette limitazioni.
([18]) Cfr. Cons. St., Ad. Plen., sent. 2 aprile 2020, n. 10. La pronuncia è stata commentata da F. MANGANARO, La funzione nomofilattica dell’Adunanza plenaria in materia di accesso agli atti amministrativi, in federalismi.it, 2021, n. 20 A. CORRADO, L’accesso civico generalizzato, diritto fondamentale del cittadino, trova applicazione anche per i contratti pubblici: l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato pone fini ai dubbi interpretativi, in federalismi.it, 2020, n. 16; A. MOLITERNI, Pluralità di accessi, finalità della trasparenza e disciplina dei contratti, in Giornale di diritto ammnistrativo, 2020, n. 4
([19]) Il termine “affievolimento”, occorre ribadire, nel presente scritto è inteso come sinonimo di “recessività”, ed è utilizzato esclusivamente per rappresentare la tendenza ad applicare le eccezioni relative di cui all’art. 5-bis come se l’interesse alla conoscibilità dovesse necessariamente recedere dinanzi alla mera prospettazione di un pregiudizio per l’interesse alla riservatezza (cfr. supra nota 9).
([20]) Cfr. A. MOLITERNI, La natura giuridica dell’accesso civico generalizzato, cit. La tesi dell’affievolimento interroga l’effettività dell’accesso civico generalizzato di fronte alla tendenza dell’amministrazione alla segretazione di “diritto” o di “fatto” dei documenti e dei dati da essa detenuti; in proposito, sia consentito rinviare a F.V. VIRZÌ, L’effettività dell’accesso civico generalizzato: il caso degli accordi in forma semplificata, in Giornale di diritto amministrativo, 2019, n. 5, p. 641 ss.
([21]) L’harm test, segnatamente, richiede che, in vista dell’eventuale diniego, si valuti soltanto se l’accesso danneggi uno degli interessi-limite; il public interest o public interest ovveride test richiede di considerare, in aggiunta, il danno che il diniego comporterebbe per l’interesse all’accesso, nell’ambito di una valutazione comparativa (c.d. balancing test).
([22]) L’opzione tra l’harm test e il public interest test, peraltro, reca con sé un ulteriore riflesso, inerente alla qualificazione dell’accesso generalizzato quale “diritto soggettivo” in senso stretto. La questione, a lungo dibattuta, non può essere qui adeguatamente trattata, è d’uopo però sottolineare che il test dell’interesse pubblico, postulando un bilanciamento di interessi e quindi l’esercizio di un potere discrezionale, sembrerebbe prefigurare una situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo, che peraltro, occorre precisare, non sarebbe di per sé incompatibile con la connotazione fondamentale del right to know.
([23]) TAR Lazio, 2019/10202, cit.
([24]) Cons. St. 2020/1121, cit.
([25]) TAR Lazio, 2019/10202, cit.
([26]) Cfr. Reg. CE n. 1049/2001, art. 4, par. 2.
([27]) La sentenza del Cons. St. 2020/1121, cit., in proposito, appare tutt’altro che isolata. La giurisprudenza di recente è intervenuta sul tema dell’accesso generalizzato alle politiche migratorie con le pronunce del Consiglio di Stato, Sez. III, sent. 2 settembre 2019, n. 6028 e del TAR Lazio, Sez. I ter, sent. 7 agosto 2018, n. 8892, rese sul diniego di accesso al Memorandum d’intesa con lo Stato della Libia, e del TAR. Lazio, Sez. III ter, sent. 16 novembre 2018, n. 11125, resa sul diniego di accesso all’accordo di cooperazione con la Repubblica del Niger, su cui cfr. F.V. VIRZÌ, L’effettività dell’accesso civico generalizzato, cit. L’accesso civico generalizzato nei suddetti casi era volto a rendere conoscibile il contenuto di accordi bilaterali, la cui sottoscrizione in forma semplificata (o semi-semplificata) aveva consentito al Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale di mantenere il riserbo su alcune pratiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera. Le tre sentenze lasciano tutte trapelare una certa superficialità da parte del giudice nella valutazione della motivazione allegata al diniego, che – in linea con l’art. 5-bis, commi 1, 4 e 5, del d.lgs. n. 33 del 2013 – dovrebbe rendere conto non soltanto della rilevanza dell’interesse alla riservatezza, ma anche della rilevanza dell’interesse all’accesso e della prevalenza dell’uno interesse sull’altro, all’esito di una valutazione comparativa condotta nel rispetto del principio di proporzionalità. Nel caso del Memorandum libico, il giudice non censura il diniego nonostante nella motivazione non si facesse alcun riferimento all’interesse all’accesso. Nel caso dell’accordo nigerino, si accontenta invece di una motivazione in cui ci si limita ad affermare di aver tenuto in considerazione tale interesse. L’atteggiamento di deferenza del giudice dinanzi alle esigenze di riservatezza, probabilmente, può essere spiegato in ragione della sensibilità degli interessi pubblici che l’accesso generalizzato, nell’ambito delle politiche migratorie, può esporre a pregiudizio (nelle sentenze citate si richiama l’interesse sotteso alle relazioni internazionali, alla difesa, alle questioni militari, all’ordine e alla sicurezza pubblica). Tale atteggiamento, tuttavia, reca con sé il rischio di legittimare, nella prassi, l’integrale sottrazione delle suddette politiche al principio di trasparenza e la surrettizia introduzione, in luogo del diritto di accesso generalizzato, di un diniego generalizzato di accesso rispetto ai documenti che le riguardano.
([28]) Cfr. A. CORRADO, Il tramonto dell’accesso generalizzato come “accesso egoistico”, cit., p. 8, «Deve considerarsi che il richiamo normativo al “pregiudizio concreto”, da scongiurare da parte dell’amministrazione, impone che si proceda a valutare il rischio del pregiudizio non come astratta possibilità, ma come conseguenza realistica dell’ostensione», nonché F. FRANCARIO, Il diritto di accesso, cit., p. 16 ss., «[è]l’amministrazione che deve decidere se la conoscenza pregiudichi un contrapposto interesse, pubblico o privato che sia; il che significa apprezzare e ponderare i diversi interessi per giungere alla conclusione che il diniego è necessario per evitare il pregiudizio dell’interesse ritenuto prevalente dal legislatore». Il ruolo attivo dell’amministrazione nella valutazione sul pregiudizio dell’interesse, pubblico o privato, alla riservatezza, peraltro, secondo l’A., non può non retroagire sulla tesi della funzionalizzazione, confermandone la sua inadeguatezza: «Il fatto che l’interesse alla conoscenza venga fatto dipendere dall’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione ha conseguenze significative sulla comprensione della natura di un tale interesse e delle modalità e dei limiti della sua protezione. Spiega e si correla al fatto che non è necessario vantare la titolarità di una situazione soggettiva qualificata per poter agire e che si può agire uti cives perché le forme e i limiti della protezione di tale interesse sono quelle consentite e riconosciute nei confronti del merito delle decisioni amministrative, ovvero quelle proprie dell’interesse semplice. Salva sempre la possibilità che nello specifico del caso concreto il mancato rispetto delle garanzie procedimentali o la violazione dei limiti intrinseci alla spendita della discrezionalità amministrativa consentano di sostanziare la situazione in termini d’interesse legittimo, in presenza di interessi sufficientemente differenziati».
([29]) L’Ad. Plen., 2020/10, facendo riferimento all’interesse privato alla riservatezza, afferma in particolare che la tutela dello stesso «può e deve essere conseguito appunto, in una equilibrata applicazione del limite previsto dall’art. 5-bis, comma 2, lett. c), del d. lgs. n. 33 del 2013, secondo un canone di proporzionalità, proprio del test del danno (c.d. harm test), che preservi il know-how industriale e commerciale dell’aggiudicatario o di altro operatore economico partecipante senza sacrificare del tutto l’esigenza di una anche parziale conoscibilità di elementi fattuali, estranei a tale know-how o comunque ad essi non necessariamente legati, e ciò nell’interesse pubblico a conoscere, per esempio, come certe opere pubbliche di rilevanza strategica siano realizzate o certi livelli essenziali di assistenza vengano erogati da pubblici concessionari».
([30]) TAR Lazio, sent. 2021/8838, cit., «Il Collegio non ravvede ragioni per discostarsi da quanto statuito dal Consiglio di Stato, Sezione III, in altro caso sovrapponibile a quello sub judice e deciso con sentenza n. 1121/2020, cui rinvia ai sensi e per gli effetti dell’art. 88, comma 2, lett. d) c.p.a.», ove, com’è noto, è previsto che la sentenza del giudice amministrativo debba contenere una concisa esposizione in fatto e in diritto della decisione «anche con rinvio a precedenti cui intende conformarsi».
([31]) TAR Lazio, sent. 2021/8838, cit. La prospettazione della tesi della funzionalizzazione rispetto all’accesso civico semplice, si diceva, appare inedita essendosi la stessa formata con specifico riferimento all’accesso civico generalizzato. Tale esito, tuttavia, era stato pronosticato da F. FRANCARIO, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva, cit., sulla scorta della sentenza della Corte costituzionale n. 20 del 2019: «la motivazione di una decisione sostanzialmente giusta, laddove garantisce e limita l’obbligo di trasparenza alla conoscenza di come vengano impiegate le risorse pubbliche, scivola sul terreno del sindacato sulle finalità perseguite dall’accesso civico, avallando la possibilità di limitazioni d’ordine generale sotto questo profilo. Apprezzamento della possibile esposizione al rischio corruttivo e effettiva utilità dell’informazione diventano in tal modo presupposti che condizionano l’esercizio del diritto di accesso civico». Lo stesso A., in proposito, non manca di ribadire come sia «indubbio che in ambedue i casi il diritto d’accesso venga configurato come diritto civico, azionabile cioè da qualsiasi cittadino uti cives». La sentenza della Corte Costituzionale citata è stata commentata, tra gli altri, da F. CAPORALE, La parabola degli obblighi di pubblicazione, in Riv. trim. dir. pub., 2021, n. 3, pag. 853.
([32]) TAR Lazio, sent. 2021/8838, cit.
([33]) Cons. St., 2022/4735, §7 ss. e in particolare §7.3., ove si conclude statuendo che «L’impugnata sentenza del Tar Lazio, che ha ritenuto necessarie l’allegazione e la prova di un interesse “proprio della generalità dei cittadini”, non essendo in linea con il dato normativo e con la riferita interpretazione dell’Adunanza plenaria, va pertanto riformata in parte qua».
([34]) Cons. St., 2022/4735, § 8.1. La tesi della funzionalizzazione è stata sfruttata in tal senso dal TAR Lazio, sez. III-bis, 30 marzo 2018, n. 3598, in cui, facendo leva sull’art. 5, comma 2, dlgs. n. 33/2013, si è ritenuto illegittimo il diniego all’istanza di accesso sulle «relazioni, appunti, informative ecc. che non hanno assunto natura provvedimentale né si sono trasfusi in atti ufficiali, neppure in fase istruttoria», poiché tali atti «non esprimono attività di gestione dell’amministrazione»; contra, TAR Emilia-Romagna, sez. I, 28 novembre 2018, n. 325: «non è possibile sostenere che le finalità identificate dall’art. 5, comma 2, […] debbano trovare diretta declinazione nella tipologia di documenti richiesti, innanzitutto perché è arduo individuare un atto pubblico che, in un regime di trasparenza e democraticità delle istituzioni, debba restare interno e non conoscibile – al di fuori dei limiti di tutela riconosciuti agli interessi pubblici e privati ‘sensibili’».
([35]) Cons. St., 2022/4735, § 8.2. Il collegio censura proprio tale tentativo, sottolineando come ai sensi della l. n. 839, «ciò che rileva ai fini dell’obbligo di pubblicazione degli accordi internazionali, compresi quelli in forma semplificata, non è […] la loro natura amministrativa o politica, quanto piuttosto l’assunzione, da parte dello Stato italiano, di impegni nei confronti di uno Stato estero»; e come tale interpretazione letterale possa trovare riscontro nella stessa ratio della l. n. 839, con cui il legislatore «ha inteso perseguire il duplice obiettivo di consentire il controllo democratico, dei cittadini e delle Camere, sulla politica estera del Governo e, per tale via, di contrastare il fenomeno, ben noto alla dottrina costituzionalistica, della “fuga” dall’autorizzazione parlamentare alla ratifica prevista dall’art. 80 della Costituzione per il caso di trattati “di natura politica”». La conclusione che ne deriva è che ove si ravvisi l’obbligo di pubblicazione ai sensi della menzionata previsione normativa, il suo inadempimento comporta che gli accordi in discussione possano essere oggetto di accesso civico semplice.
([36]) Cons. St., 2022/4735, § 8.3.
([37]) Cons. St., 2022/4735, § 8.3.
([38]) Cons. St., 2022/4735, § 8.3.
([39]) Cons. St., 2022/4735, § 8.4.
([40]) L’intervento legislativo, d’altra parte, è auspicabile rispetto a un’altra causa di affievolimento dell’accesso civico, vale a dire, l’identificazione dell’interesse alla riservatezza all’interno delle previsioni regolamentari, adottate per escludere determinate categorie di atti dall’accesso documentale. L’art. 5-bis, comma 3, in effetti, tra le cause di esclusione dell’accesso civico generalizzato annovera i «casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'art. 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990». Tale previsione andrebbe modificata al fine di rafforzare il suddetto interesse, anche in considerazione del carattere fondamentale del diritto alla conoscibilità, che, ai sensi dell’art. 10 CEDU, è coperto da riserva di legge; è significativo, infatti, come lo stesso Ministero per la pubblica amministrazione, all’interno della circolare n. 2/2017, Attuazione delle norme sull’accesso civico generalizzato (c.d. FOIA)– su cui cfr. infra nel testo e in nota successiva – si appunti su tale riserva di legge per tentare di mitigare le conseguenze dell’incauto riferimento contenuto nel Testo unico: per essa «ciascuna amministrazione può disciplinare con regolamento, circolare o altro atto interno esclusivamente i profili procedurali e organizzativi di carattere interno. Al contrario, i profili di rilevanza esterna, che incidono sull'estensione del diritto (si pensi alla disciplina dei limiti o delle eccezioni al principio dell'accessibilità), sono coperti dalla suddetta riserva di legge» di modo che «diversamente da quanto previsto dall'art. 24, comma 6, legge n. 241/1990 in tema di accesso procedimentale, non è possibile individuare (con regolamento, circolare o altro atto interno) le categorie di atti sottratti all'accesso generalizzato».
([41]) Il principio della tutela preferenziale dell’interesse conoscitivo è enunciato nella circolare del Ministero della pubblica amministrazione n. 2/2017, cit., al § 2.2., let. i), ove si legge «Nei sistemi FOIA, il diritto di accesso va applicato tenendo conto della tutela preferenziale dell’interesse a conoscere. Pertanto, nei casi di dubbio circa l’applicabilità di una eccezione, le amministrazioni dovrebbero dare prevalenza all’interesse conoscitivo che la richiesta mira a soddisfare». Lo stesso principio, peraltro, è condiviso anche all’interno delle Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui all’art. 5 co. 2 del d.lgs. 33/2013, adottate dall’A.N.A.C. con delibera n. 1309 del 28 dicembre 2016, che al § 2.1. sollecitano a valorizzare i principi delineati dal Testo unico come «canone interpretativo in sede di applicazione della disciplina dell’accesso generalizzato da parte delle amministrazioni e degli altri soggetti obbligati, avendo il legislatore posto la trasparenza e l’accessibilità come la regola rispetto alla quale i limiti e le esclusioni previste dall’art. 5-bis del d.lgs. 33/2013, rappresentano eccezioni e come tali da interpretarsi restrittivamente».
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