Donne che aiutano donne: i centri anti-violenza come risposta sociale alla violenza di genere
Intervista di Marta Agostini a Teresa Manente
1) Quando si parla di violenza di genere, violenza sui minori, violenza intrafamiliare l’attenzione e le aspettative dei cittadini, talvolta veicolate dai media e da un certo modo di fare informazione, si focalizzano spesso sugli aspetti legati alla repressione e, di conseguenza, sull’intervento delle forze dell’ordine e dell’autorità giudiziaria. Si parla allora di tutela penale, di “codice rosso”, di politiche tese – giustamente – ad implementare gli strumenti a disposizione per contrastare il fenomeno criminale, come se l’unico scudo rispetto al dilagare drammatico dei femminicidi e degli abusi sui minori o sui soggetti vulnerabili siano le Procure della Repubblica. Ci si dimentica, talvolta, che esiste un mondo tra la vittima della violenza ed il processo penale al suo aggressore, un mondo fatto di enti, di associazioni, di volontari, di professionisti, che lavorano per tutelare e sostenere la persona che subisce maltrattamenti o abusi. Si tratta di una vera e propria rete di cui senz’altro i centri antiviolenza costituiscono il motore. Che cosa sono, come operano e cosa offrono i centri antiviolenza?
I centri antiviolenza e le case rifugio nascono dalla pratica politica delle donne come risposta indipendente alla necessità delle donne in situazione di violenza di porsi al riparo, insieme ai figli e alle figlie, dalle condotte illecite. Al contempo, nella pratica femminista si sono affermati come luoghi non solo di protezione, ma anche di rafforzamento individuale delle donne, le quali trovano lo spazio sicuro per intraprendere un percorso di rielaborazione del proprio vissuto al di fuori della diffusa narrazione colpevolizzante della violenza così come prodotta dalla cultura patriarcale che addossa alla donna per il ruolo di subordinazione assegnatole il peso e la causa di quanto subito nella relazione. I centri antiviolenza e le case rifugio femministi hanno sviluppato una metodologia che mira al rafforzamento delle donne alla loro presa di consapevolezza della situazione che tiene conto dei fattori sociali e storici sessisti che sono sottesi alla violenza maschile.
La pratica femminista sviluppata all’interno dei centri antiviolenza e delle case rifugio gestite da sole donne ha trovato riconoscimento per la sua efficacia nelle sedi istituzionali, consolidandosi come riferimento imprescindibile per la costruzione delle politiche di prevenzione e di contrasto della violenza nei confronti delle donne.
Dall’esperienza dell’associazione Differenza Donna, di cui sono parte, viene la conferma che è solo l’indipendenza e l’autonomia delle donne che gestiscono i centri e le case rifugio che possono garantire spazi di autentica pratica politica che sposta l’attenzione da una violenza intesa come “patologia” a una dinamica complessa di fattori sociali, culturali, economici, ossia politici, da comprendere e superare come singole e come collettività.
Nella raccomandazione del gruppo di esperti riunitisi nel 1999 in Finlandia per definire il quadro di politiche da implementare nei paesi dell’Unione europea, si chiariva, infatti, che diritto primario da garantire alle donne e ai figli è la protezione, anche mediante l’allontanamento del maltrattante , tuttavia gli Stati devono garantire un alloggio in un rifugio alle donne che preferiscono lasciare la casa di convivenza, predisponendo «un rifugio ogni 10.000 abitanti e un centro antiviolenza ogni 50.000 abitanti» .
Nella raccomandazione si riversavano altresì i capisaldi della pratica femminista di organizzazione e gestione dei centri antiviolenza e delle case rifugio: l’obiettivo primario è garantire protezione nell’immediatezza e strutturare nel lungo periodo un progetto individuale che rafforzi la donna nelle sue competenze e autonomia, nel rispetto della massima riservatezza di ciascuna.
L’accesso ai centri antiviolenza e alle case rifugio non dovrebbe mai essere subordinato a una valutazione della situazione finanziaria delle donne, ma consentito a tutte, comprese le donne senza figli, donne appartenenti a gruppi minoritari, vittime di qualsiasi forma di violenza, indipendentemente dallo status di soggiorno sul territorio, per il tempo necessario per valutare le decisioni da assumere.
La raccomandazione chiariva, infine, che i centri antiviolenza e le case rifugio devono essere gestiti da organizzazioni di donne, in formazione permanente, con una prospettiva femminista e che «credono nelle donne che aiutano le donne», implementando una strategia delineata a partire dalla comprensione delle discriminazioni delle dinamiche e dei meccanismi della violenza.
Nel corso dei tanti anni trascorsi dall’adozione della raccomandazione citata, sul territorio dell’UE i centri antiviolenza e le case rifugio si sono moltiplicati, confermandosi ovunque come luoghi di rafforzamento individuale delle donne, ma anche come motore di trasformazione della risposta pubblica alla violenza nei confronti delle donne, compresa quella giudiziaria.
Le operatrici delle case rifugio e dei centri antiviolenza portano infatti nelle aule giudiziarie la loro conoscenza e lettura del fenomeno che consente la corretta applicazione delle leggi introdotte e supporta le donne nel percorso legale stesso.
Tra le misure attuative degli obblighi di dovuta diligenza stabiliti dalla Convenzione di Istanbul si rinvengono quelle necessarie a fornire, secondo una ripartizione geografica appropriata, i servizi di supporto immediato specializzati, nel breve e lungo periodo, per ogni vittima di un qualsiasi atto di violenza che rientra nel campo di applicazione della Convenzione .
Gli Stati sono tenuti a predisporre rifugi adeguati, facilmente accessibili e in numero sufficiente per offrire un alloggio sicuro alle vittime, in particolare le donne e i loro bambini, «per aiutarle in modo proattivo», con una specializzazione sulle molteplici forme di violenza cui le donne sono esposte.
Il comitato redattore della Convenzione di Istanbul ha aderito alla pratica dei centri antiviolenza e delle case rifugio femministi, ritenendo che le funzioni dei servizi specializzati e delle case rifugio «vanno al di là dell'offrire un luogo di soggiorno sicuro» .
Si legge, infatti, nel rapporto esplicativo, che i centri antiviolenza e le case rifugio «forniscono sostegno alle donne e ai loro figli, consentono loro di affrontare le loro esperienze traumatiche, di abbandonare le relazioni violente, di recuperare la propria autostima e di gettare le basi per una vita indipendente a loro scelta» .
Inoltre, i centri di accoglienza per le donne svolgono un ruolo centrale nella creazione di reti, nella cooperazione tra più agenzie e nel-la sensibilizzazione nelle rispettive comunità.
Al fine di assicurare alle donne la conoscenza dei servizi territoriali dedicati alla prevenzione e protezione delle vittime di violenza di genere, oggi la legge prevede che sin dal primo contatto con le forze dell’ordine, queste ultime devono procedere a informativa completa alle donne sui centri antiviolenza e case rifugio presenti sul territorio.
2) Abbiamo parlato di rete proprio perché i protagonisti del circuito che ruota attorno al supporto e dell’assistenza alle vittime di violenza sono (o dovrebbero essere) tanti ed eterogenei. Penso agli operatori sanitari dei reparti di pronto soccorso che per primi, spesso, entrano in contatto con la donna che ha subito maltrattamenti o abusi; ai servizi sociali ed agli psicologi che lavorano con i minori e con le famiglie che presentano disagi o problematiche di ogni sorta; penso alle associazioni di volontariato del c.d. terzo settore, che a loro volta collaborano e cooperano con le amministrazioni pubbliche locali o con la Chiesa. Esiste davvero questa rete? Funziona? Dove e come potrebbe essere migliorata ed implementata?
La rete è sicuramente la chiave per una politica di prevenzione e protezione efficace ed è nella costruzione di relazioni e pratiche collaborative sul territorio che le case rifugio e i centri antiviolenza producono quel cambiamento culturale che necessariamente anche i soggetti istituzionali devono avviare.
E si cambia la cultura mettendo al centro delle pratiche e delle strategie l’esperienza delle donne in fuga dalla violenza: la loro realtà, le paure, le difficoltà, ma soprattutto le infinite risorse. È fondamentale infatti contrastare un approccio assistenzialista e che disconosce le competenze delle donne e le discrimina: questo è il rischio di un approccio vittimario che schiaccia le donne nel ruolo di soggetti passivi e che orienta purtroppo anche le letture giudiziarie che, in luogo di riconoscere nelle donne in fuga soggetti di diritto autodeterminati e capaci, rileva erroneamente una fragilità, una incapacità da cui discendono forme di controllo, soprattutto della genitorialità.
Dopo oltre trent’anni di lavoro costante di tessitura della rete territoriale e internazionale, è solida la consapevolezza che non si può mai mollare: la rete cresce e si rafforza laddove si coltivi capacità di ascolto e specializzazione, altrimenti si burocratizza, si definiscono procedure estranee all’esperienza delle donne ridotte a mero oggetto di intervento stereotipato.
3) Come giudica la situazione dell’organizzazione della tutela e della prevenzione dei reati contro le donne nel nostro paese rispetto agli altri paesi europei dove si è trovata ad operare?
Il nostro ordinamento è astrattamente idoneo a garantire attraverso il sistema normativo ad oggi implementato un’adeguata protezione e prevenzione della violenza maschile nei confronti delle donne. La corte di cassazione, come noto, definisce il corpus di disposizioni introdotte come “un arcipelago” di norme, così evidenziando al contempo la consistenza, ma anche l’assenza di organicità.
Le norme devono essere applicate in modo tempestivo e indossando lenti di genere, credendo alle donne e disvelando gli stereotipi sessisti che sottendono la violenza di genere: dal CSM, che sin dal 2009 ha periodicamente monitorato la risposta giudiziaria, alla commissione d’inchiesta parlamentare sul femminicidio e ogni forma di violenza nei confronti delle donne, a livello istituzionale è stato ormai documentato ufficialmente come il sistema sia indebolito da pregiudizi discriminatori nei confronti delle donne che ancora minano il principio di uguaglianza. In definitiva, come ha segnalato il comitato CEDAW nella decisione F. contro Italia del luglio 2022, in Italia la legge non è uguale per tutti, e soprattutto per le donne rimane ancora più diseguale.
Rimane grave la diffusa sottovalutazione del pericolo cui sono esposte le donne in uscita dalla violenza, le misure di protezione esistenti sono adottate poco e con ritardo e ciò perché alle donne non si da’ credito: in ogni sede, in particolare quella dei tribunali civili e minorili, la violenza rimane invisibile e mistificata nelle forme del conflitto familiare, si ignora la violenza assistita e diretta che subiscono i figli e le figlie, costretti a frequentare padri violenti anche se lo rifiutano fino a forme di loro istituzionalizzazione forzata. I fatti di violenza spariscono dietro letture stereotipate e scientificamente infondate veicolate dinanzi ai tribunali dagli “esperti” del conflitto coniugale (dagli assistenti sociali agli psicologi forensi a molteplici figure che si susseguono nei processi) che intrappolano le donne in un percorso a ostacoli defatigante e difficile che fa ammalare quanto la violenza da cui hanno tentato di fuggire.
4) Gli allarmi, l’aggressione, il processo e la protezione della donna all’esito del processo: in quale delle fasi in cui solitamente si realizza la violenza su una donna siamo più indietro e dovremmo migliorare?
Lo stato di applicazione della legge in Italia è disomogeneo a livello territoriale perché disomogenea e non monitorata è la formazione degli operatori. Deve rimanere al centro delle politiche di sensibilizzazione e della formazione la pratica femminista, che parte dall’esperienza delle donne e ne riconosce il valore di fonte affidabile, accantonando una volta per tutte la diffidenza che storicamente, anche attraverso il diritto, la società ha loro riservato. Se una donna chiede aiuto, la risposta deve essere immediata e deve concretizzarsi nelle misure di protezione esistenti, il processo deve essere “equo” e ciò significa che deve essere bandita, e punita, ogni forma di vittimizzazione secondaria. Giustizia non si trova nelle aule giudiziarie, quelle che cercano le donne è un’autentica responsabilizzazione della società tutta per produrre una trasformazione profonda delle relazioni. Ciò non può realizzarsi se a fronte di modifiche formale dell’ordinamento si continuano ad alimentare cornici di intervento che normalizzino le violenze maschili, inquadrandola come reazioni accettabili a torti subiti, come gelosia o troppo amore, come strumento per realizzare a tutti i costi la paternità. Su questa dovremmo interrogarci: lontana da una ridefinizione della genitorialità, la paternità rimane declinata come strumento di controllo e di sopraffazione nei confronti delle donne, declinata secondo i bisogni degli adulti, e non come responsabilità nei confronti dei figli e delle figlie, che almeno hanno diritto a delle scuse per poter pensare a una relazione con colui che hanno visto umiliare e punire la loro madre.