ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Pasolini e il diritto di scandalizzare l’uomo medio
di Maurizio Di Masi
Sommario: 1. Pier Paolo Pasolini, un intellettuale di rottura… - 2. e un bersaglio politico del suo tempo (il processo a “La ricotta”) - 3. Su diritto e violenza, oggi - 4. Approcciarsi al diritto oltre la prospettiva dell’uomo medio.
1. Pier Paolo Pasolini, un intellettuale di rottura…
Ringrazio la Redazione di Giustizia Insieme per l’opportunità di riprendere e sviluppare alcune riflessioni elaborate in occasione del Convegno svoltosi a Perugia dal 15 al 18 luglio 2015 “Visioni del giuridico. Rileggendo Pasolini: il diritto dopo la scomparsa delle lucciole”[1].
L’incipit del breve ragionamento che qui si intende fare è dato da un noto saggio di Stefano Rodotà “Il processo. In memoria di Pier Paolo Pasolini”, ripubblicato in appendice a “La vita e le regole. Tra diritto e non diritto”, ove si ricorda magistralmente come, nella sua attività di scrittore e regista, Pier Paolo Pasolini abbia dovuto più volte confrontarsi con il sistema giudiziario italiano e sia stato chiamato a difendere in tribunale quasi tutta la propria produzione artistica, oltre che il proprio stile di vita[2]. Tanto che non si esagera se si afferma che Pasolini è stato l’intellettuale più processato di tutta l’Italia repubblicana: nonostante questo, egli in giudizio non si è mai comportato da vittima o da perseguitato, ma ha sempre rivendicato con orgoglio il diritto dell’artista a scandalizzare il proprio pubblico, facendo coincidere questo diritto con la funzione civile dell’intellettuale nelle società democratiche tardo-capitalistiche.
D’altra parte ciò che caratterizza Pasolini rispetto a tutti gli altri artisti e intellettuali del suo tempo, ciò che fa di lui un Autore di rottura con il paradigma di letteratura mainstream negli anni ’60 e ’70 del Novecento, è proprio il fatto che la sua opera è segnata da una radicale impurità estetica[3]. Impurità estetica che ben emerge nella commistione, in tutta la sua produzione artistica, fra vita privata e opera, tanto che l’intero lavoro intellettuale di Pasolini può essere considerato «come una grande performance, in cui l’oggetto estetico è meno importante della presenza o dell’azione dell’artista. Impossibile leggerla come un testo autosufficiente, senza un riferimento alla persona dell’autore»[4].
L’intellettuale, secondo Pasolini, deve dunque avere un ruolo (anche politico) attivo, performativo della realtà, e non cullarsi nella roccaforte della convenzionalità delle istituzioni e dell’industria culturale; l’artista, agendo in prima persona sul mondo reale, deve opporsi alle tendenze che Pasolini vedeva svilupparsi intorno a lui e che stavano portando allo svuotamento di potere degli schieramenti politico-ideologici classici dell’Italia del dopoguerra, con conseguente affermazione di un nuovo potere fascista in seno alle società neocapitalistiche[5].
La funzione civile dell’intellettuale viene ben tratteggiata dallo stesso Autore nel discorso scritto, e mai pronunciato a causa della morte, per il 36° Congresso del Partito Radicale del novembre 1975[6]. In questo testo infatti, Pasolini, dopo aver ritenuto «adorabili le persone che non sanno di avere dei diritti» e quelle che «pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono o addirittura ci rinunciano», e dopo aver definito, invece, «abbastanza simpatiche […] quelle persone che lottano per i diritti degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli)», riconosce espressamente il ruolo degli «intellettuali impegnati», i quali:
«considerano dovere proprio e altrui far sapere alle persone adorabili, che non lo sanno, che hanno dei diritti; incitare le persone adorabili, che sanno di avere dei diritti ma ci rinunciano, a non rinunciare; spingere tutti a sentire lo storico impulso a lottare per i diritti degli altri; e considerare, infine, incontrovertibile e fuori da ogni discussione il fatto che, tra gli sfruttati e gli sfruttatori, gli infelici sono gli sfruttati».
Accanto agli intellettuali impegnati, per aggiunta, Pasolini – in considerazione del contesto – plaude i più estremisti di questi intellettuali, coloro cioè che
«si pongono come obiettivo primo e fondamentale quello di diffondere tra la gente direi, apostolicamente, la coscienza dei propri diritti. Lo fanno con determinazione, rabbia, disperazione, ottimistica pazienza o dinamitarda impazienza, secondo i casi (…)».
Tanto che l’invito per i Radicali è quello di
«continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili.
Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare».
Ebbene, lo stretto legame fra opera e Autore, fra impegno intelletuale e politico[7], spiega il perché ad essere messi sotto processo sono stati, ogni volta, tanto la produzione artistica di Pasolini quanto la sua personalità scandalosa, il suo stile di vita, attraverso quello che è stato ben spiegato da Barbara Castaldo come «un singolare meccanismo di interscambiabilità che rivela uno dei punti chiave dei processi: laddove era imputata l’arte, veniva coinvolta la realtà privata dell’artista per fornire ulteriori prove d’appoggio all’accusa o alla difesa; quando invece era la vita privata a essere sotto indagine, inevitabilmente se ne cercavano indizi nella produzione artistica dell’autore»[8].
2. e un bersaglio politico del suo tempo (il processo a “La ricotta”)
L’esperienza giudiziaria di Pasolini, in un’altra prospettiva, mostra in maniera nitida il dark side del diritto, dal momento che per oltre un trentennio, nei vari processi che lo hanno coinvolto più o meno direttamente, lo strumento processuale è stato usato come vera e propria arma politica per censurare e reprimere una voce dissenziente, per tentare di omologare una identità molesta e difforme da quanto il pensiero dominante a cavallo fra gli anni ’60 e ’70 del Novecento era disposto a tollerare. Siamo, d’altra parte, nella fase di quello che è stato definito il “disgelo costituzionale”, quando cioè i principi e i valori espressi nella Costituzione repubblicana comincino assai lentamente a diffondersi nella società civile[9].
Come ha scritto nitidamente Stefano Rodotà, le prese di posizione contro Pasolini rappresentavano indubbiamente uno degli strumenti di cui si sono serviti quanti cercavano e creavano pretesti, occasioni, simboli per contrastare le novità che stavano faticosamente emergendo nella società italiana. E le aggressioni all’intellettuale hanno seguito due strade:
«quella della violenza fisica, firmata in modo addirittura ostentato dai gruppi fascisti; e quella della violenza giudiziaria, che non a caso vede protagoniste le due istituzioni più rappresentative della faccia autoritaria dello Stato, la magistratura e la polizia. Pasolini si rileva, dunque, un bersaglio politico»[10].
Si consideri il processo al film “La ricotta”, sequestrato per vilipendio alla religione di Stato[11]. Il capo d’imputazione nei confronti di Pasolini, invero, era volto a imputargli il reato di cui all’art. 402 c.p. (reato dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale solo nel 2000[12]):
«per avere, nella sua qualità di soggettista e regista dell’episodio “La ricotta” del film “Ro.Go.Pa.G.”, pubblicamente vilipeso la religione dello stato, rappresentando con il pretesto di descrivere una ripresa cinematografica, alcune scene della Passione di Cristo, dileggiandone la figura e i valori con il commento musicale, la mimica, il dialogo e altre manifestazioni sonore, nonché tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica».
Più di altri, il processo a “La ricotta” è emblematico sia della concezione pasoliniana del ruolo dell’intellettuale nelle società democratiche e pluraliste, sia dei limiti del diritto positivo e della propria incapacità di “reggere” giuridicamente l’eccesso nell’uso della parola scritta (e dell’immagine filmica) all’interno di una griglia concettuale pensata per il “buon padre di famiglia” (locuzione tipica delle codificazioni moderne, traduzione giuridica dell’uomo medio). Nel processo di primo grado, non a caso, il Pubblico Ministero chiede espressamente ai giudici di scegliere fra sè, che rappresenta il comune sentimento (l’uomo medio, verrebbe da dire), e Pasolini, che rappresenta il nemico del senso comune.
Significativo quanto si legge nella sentenza di condanna di primo grado:
«[è] un fatto che il cinema è stato il mezzo scelto da Pasolini per manifestare il proprio pensiero, per diffondere le proprie istanze e tutti sanno che il cinema è un mezzo efficacissimo di comunicazione di massa.
Ora, con la sua opera, Pasolini non si rivolge soltanto ad una élite di intellettuali, perché, nella loro sufficienza, traggono da essa motivo per disquisire e sofisticare su cose e sentimenti sacri, di cui magari, nella loro evoluta incredulità, hanno maturato il superamento. E neppure l’opera di Pasolini è destinata soltanto alla meditazione di chi, con la propria cultura e la propria educazione religiosa, non si sente affatto scalfito nella sua fede ragionata, dalla grossolana aggressione ai propri sentimenti religiosi.
L’opera di Pasolini è destinata a tutti e cioè anche alla massa compatta del popolo italiano, ancora sana e gelosa del proprio patrimonio spirituale, ma appunto per questo meno difesa e più soggetta a subire gli attacchi ideologici di chi, con disinvoltura ed abilità, riesca a mettere in ridicolo e a immiserire le componenti essenziali della sua credenza.
Di qui la indiscussa idoneità della pellicola a offendere, mediante il vilipendio della religione, quel patrimonio».
Pasolini viene condannato a 4 mesi con condizionale, mentre la Corte d’Appello di Roma lo assolve perché il fatto non costituisce reato, dal momento che – aderendo alla difesa di Pasolini – il film riproduce le irriverenze e le sconcezze della troupe e costituisce perciò «una rappresentazione di vita contemporanea», che descriveva «la primitiva rozzezza e il grossolano umorismo della plebe»[13].
Ma la sentenza d’appello viene impugnata dal procuratore generale Battiati, il quale torna a sostenere che lo scopo del film sia di vilipendere la religione cattolica: la sentenza del 24 febbraio 1967 la Cassazione ha accolto le ragioni del procuratore generale. La Terza sezione penale ha perciò annullato la sentenza d’assoluzione «per erronea applicazione della legge» e «per vizio di motivazione», ritenendo che «l’istanza sociale a carattere protestatario perseguita dal regista non esclude affatto il fine di vilipendere la religione».
Alla sentenza della Cassazione non è seguito, però, il rinvio alla Corte d’Appello, giacché nel frattempo è intervenuta l’amnistia, che ha estinto il reato[14].
Dagli atti di questo processo emerge in sintesi lo scenario di un Paese, l’Italia degli anni ‘60, che si declama con compiacimento democratico, ma che operativamente dimostra di affondare le proprie radici su di una cultura civile e giuridica ancora troppo legata a vecchi paradigmi conservatori – se non addirittura reazionari – e che soltanto a parole, per l’appunto, si è lasciata dietro la propria esperienza patriarcale e fascista.
3. Su diritto e violenza, oggi
In un bell’articolo scritto da Wu Ming 1[15] sono citate alcune interessanti dichiarazioni di Pasolini:
«Appena avrò un po’ di tempo pubblicherò un libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con zelo…».
Che la forza dell’apparato statale si metta in moto per reprimere voci ritenute scomode, anormali o scandalose non è, invero, esperienza che l’ordinamento giuridico si è davvero lasciato alle spalle, se pensiamo – ad esempio – al violento dibattito pubblico e parlamentare che vi è stato attorno alla legge Cirinnà sulle Unioni civili omosessuali[16] o, per rimanere in tema di identità non eterosessuali, alle violenza istituzionale rispetto al dibattito – ancora una volta pubblico e parlamentare – sul più recente d.d.l. Zan e l’identità di genere[17]. Violenza simbolica, certo, ma che finisce per legittimare culturalmente e socialmente la violenza fattuale, agita, a cui diverse minoranze sono quotidianamente soggette.
Violenza che spesso diventa istituzionale e che, purtroppo, in alcuni interventi delle forze dell’ordine diventa ancor oggi difficilmente giustificabile in un contesto pluralistico e democratico[18].
Si pensi, ad esempio, alle stravaganti iniziative di alcune Questure italiane rispetto a pacifiche contromanifestazioni organizzate in tutta Italia da associazioni LGBTQIA+ italiane contro le c.d. “Sentinelle in piedi”, movimento mobilitatosi contro il d.d.l. Scalfarotto volto – come il d.d.l. Zan – ad estendere la legge Mancino-Reale sulle discriminazioni etniche, razziali e religiose anche ad atti motivati da omo-transfobia.
Emblematico, in particolare, quanto accaduto a Perugia, nel non troppo lontano 2014: un singolare episodio che ha visto coinvolti attivisti omosessuali, imputati ex artt. 110 e 659 c. p. (Disturbo alla quieta pubblica) per essersi, tra l’altro, baciati in pubblico fra le “Sentinelle in piedi”.
Lo “scandalo” procurato da tale gesto, innocuo ma nelle nostre strade ritenuto (ancora!?) non convenzionale[19], emerge chiaramente dal verbale della Questura, ove la Digos, descrivendo l’azione di uno degli imputati, esponente dell’associazione Omphalos LGBTI, così letteralmente scrive:
«[...] avvicinandosi ad altro individuo di sesso maschile si esibiva in un prolungato e concupiscente bacio sulla bocca con lo stesso nel bel mezzo di Corso Vannucci ed in presenza di numerose famiglie con bambini e ragazzi molti dei quali minorenni che in quel momento affollavano il centro cittadino lasciando i passanti disgustati da tale dimostrazione [...]».
Senza contare, poi, che altri contromanifestanti, appartenenti anche al collettivo “Bella Queer”, «si sono mascherati con dei “boa di struzzo”» viola e hanno disturbato la manifestazione con rumori consistenti nel gridare slogan e cori a suon di un tamburello di grosse dimensioni...
Al di là della facile ironia che il verbale della Questura perugina può (e dovrebbe!) suscitare a chi ha un minimo a cuore se non la libertà di manifestazione di pensiero almeno il buon senso, e che ci restituisce davvero, ad opera della Digos, l’idea di un “buon costume” degli anni ’40 del Novecento, mi preme qui sottolineare come il confine fra diritto e violenza si fa, tanto nei processi a Pasolini quanto nel caso considerato, assai labile, entra in una zona di indifferenza.
La violenza istituzionale, non senza scomode contraddizioni, era come noto emersa altresì nel processo a Pino Pelosi per l’omicidio Pasolini[20], che in certo qual modo ci racconda di una Magistratura che aveva ricostruito (e liquidato) l’accaduto con gli occhi del buon padre di famiglia, dell’uomo medio che considerava normali omosessuali uccisi e ragazzi di borgata assassini[21].
D’altra parte la differenza fra diritto e violenza, ricordando Eligio Resta, è anche il loro confine, a volte certo, altre volte sfumato[22]. Ciò che caratterizza il diritto – che è pur esso forza e violenza, sia pure “regolata, statuita, limitata” – è precisamente la sua differenza dalla violenza che esso intende regolare, scongiurare e mettere al bando: una differenza che lo stesso diritto – performativamente – istituisce, ma che rimane esposta al rischio della sua negazione, cioè dell’in-differenziazione rispetto alla stessa violenza illegittima. E ciò perchè tale differenza non si dà mai una volta per tutte e non ha nulla di essenziale, ma muta nel tempo con la società e richiede alla scienza giuridica e agli operatori del diritto di mantenere un carattere omeostatico rispetto ai mutamenti socio-culturali.
Quanto, invece, alla differenza fra ieri e oggi, mi pare importante sottolineare come essa sia data da un approccio (se non sempre meno personalistico almeno) più democratico della Magistratura[23], oggi maggiormente disposta a tutelare il cittadino valorizzandone le diversità e i diritti fondamentali, sinanche dall’inopportuno esercizio della violenza che talvolta viene ancor fatto dalle forze dell’ordine, o – e sempre più spesso – dall’inattività del Parlamento.
Sebbene possa sembrare superfluo raccontarlo, la storia giudiziaria ha un lieto fine: gli attivisti e le attiviste LGBTIAQ+ di Perugia sono stati assolti, chi in primo grado (come l’attivista di Omphalos del bacio “concupiscente”, perché il fatto non sussiste) chi in secondo grado[24], con costi emotivi inestimabili e un processo che avrebbe potuto non ingolfare la già farraginosa macchina della giustizia italiana…
4. Approcciarsi al diritto oltre la prospettiva dell’uomo medio
Come ci ricorda sempre Stefano Rodotà, spetta a Pier Paolo Pasolini il merito di aver costretto i giudici a spostare ogni volta più in là le frontiere del “buon costume”, che rispecchiava il pudore del “buon padre di famiglia”, in maniera maggiormente rispettosa delle ansie e delle istanze di libertà dell’Italia degli anni ’70[25].
Discostandosi dal senso comune costruito dall’ideologia borghese liberale, accogliendo la lezione gramsciana[26], Pasolini va anche oltre la ricerca del buon senso per disfare le posizioni conformiste. Scandalizzare, per il poeta di Casarsa, è un modo efficace per opporsi alla “mutazione antropologica”[27], per mettere in discussione la realtà conformata dall’uomo medio, dietro cui si nasconde – per usare le celebri parole di Orson Welles nel film “La ricotta” – «un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista».
Attraverso le sue opere Pasolini sembra profanare[28] lo status quo edificato dal fascismo, prima, e dalla Democrazia cristiana e dal consumismo, poi, per restituire a ciascuno una umanità e una dignità che non si prestano (o, meglio, non dovrebbero prestarsi) ad essere ingabbiate, da un sistema fondato sul consumismo, in schemi convenzionali, in rigide regole predefinite e omologanti.
Monito attuale ancora oggi per chi si approccia allo studio del diritto, dispositivo omologante per antonomasia, che, se non usato cum grano salis, rischia – come visto – di non essere troppo differente dalla stessa violenza che esso pretende di regolare[29]. Tanto che, in questa prospettiva, si è anche paragonato metaforicamente il diritto al φάρμακον: il farmaco, invero, è al tempo stesso veleno e antidoto, malattia e cura, idoneo a funzionare come rimedio proprio in virtù della sua natura duttile rispetto al male da curare[30].
L’invito per il giurista e gli operatori del diritto e delle forze dell’ordine, che la Magistratura di oggi ha certo fatto proprio, è quello ad adottare un approccio critico e rispettoso delle singole dignità personali, al di là del senso comune e dei pregiudizi. Ciò per garantire quello sviluppo della persona (Artt. 2 e 3² Cost.) che costituisce la cifra di un sistema giuridico realmente democratico e pluralista.
Detto altrimenti, è l’utilizzo che vien fatto del diritto che può portare a storture ed aberrazioni, per evitare le quali occorre pensare un altro modo di approcciarsi al, di “fare” diritto, proprio come Pasolini, rompendo paradigmi ben consolidati, ha consacrato la sua vita ad un altro modo di “fare” arte.
Rivendicando, sino alla fine, il diritto dell’intellettuale di scandalizzare il conformista, l’uomo medio, il moralista[31].
[1] In parte confluite in F. Bettini, M. Di Masi, Pier Paolo Pasolini, i processi e l’orgoglio dello scandalo, in E. Contu, A. Guerrieri, G. Romano, Rileggendo Pasolini. Il diritto dopo la scomparsa delle lucciole. Atti di Convegno, Perugia, 15-18 luglio 2015, vol. II, Aracne, Roma,2016, p. 23 ss.
[2] S. Rodotà, Il processo. In memoria di Pier Paolo Pasolini, oggi in Id., La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 267 ss.
[3] C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, p. 14. L’Autrice sottolinea come Pasolini abbia sempre avuto presente l’idea di poesia come azione: in particolare si veda p. 139 ss.
[4] Ivi, p. 15.
[5] Sul punto si rinvia a A. Manna, Pier Paolo Pasolini. Il Re è altrove: dal “fascismo archeologico” al “nuovo fascismo”, in Aa. Vv., L’uniforme e l’anima. Indagine sul vecchio e nuovo fascismo, Edizioni Action30, Bari, 2009, p. 99 ss. Come viene qui osservato: il «nuovo fascismo di cui parla Pasolini non ha nulla in comune né con la violenza del regime mussoliniano, né con la falsa democrazia democristiana. Al contrario, esso emerge con la nascita di un tipo di società, la società del consumo di massa. Una delle caratteristiche salienti di questo nuovo tipo di potere è la sua capacità di omologare i rapporti tra gli individui» p. 108.
[6] P. P. Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino, 1976, p. 189 ss., ma il testo è reperibile anche on-line: Lo scandalo Radicale: la lettera che Pier Paolo Pasolini non lesse mai al Congresso, in MessinaOra.it, 1 novembre 2015.
[7] Per quanto va precisato che la militanza politica di Pasolini non lo ha mai spinto a rivendicare, in prima persona, diritti civili. Pasolini guardava con sospetto al diritto, come parte del femminismo italiano di quei tempi (cfr. M. R. Marella, Le donne, in L. Nivarra (a cura di), Gli anni settanta del diritto privato, Giuffrè, Milano, 2008, p. 341 ss., in particolare p. 358 ss.), considerandolo strumento di una malevola tolleranza del tardo capitalismo: si veda N. Mirenzi, Pasolini contro Pasolini, Edizioni Lindau, Torino, 2016.
[8] B. Castaldo, Quando i personaggi querelano l’autore, ovvero come prendere le distanze dal realismo di Pier Paolo Pasolini, in G. Capuzzo, D. David, S. Felicioni, Rileggendo Pasolini. Il diritto dopo la scomparsa delle lucciole. Atti di Convegno, Perugia, 15-18 luglio 2015, vol. I, Aracne, Roma, 2016, p. 213.
[9] S. Rodotà, Libertà e diritti in Italia dall’unità ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 2011, in particolare p. 98 ss.; vedi altresì C. Salvi, Capitalismo e diritto civile. Itinerari giuridici dal Code civil ai Trattati europei, il Mulino, Bologna, 2015, specialmente p. 81 ss.
[10] S. Rodotà, Il processo, cit., p. 270.
[11] Diffusamente cfr. F. Treggiari, Il processo a La ricotta (l’Inquisizione all’epoca del “boom”), in G. Capuzzo, D. David, S. Felicioni, Rileggendo Pasolini, vol. I, cit., p. 261 ss.; sul ruolo della Magistratura in questo processo, poi, cfr. S. Rodotà, Il processo, cit.
[12] Corte cost., 20-11-2000, n. 508, in Giur. it., 2001, p. 2228 ss., con nota di Albo. La sentenza, redatta da Gustavo Zagrebelsky, precisa che è costituzionalmente illegittimo l’art. 402 c.p. per contrasto con gli artt. 3, primo comma e 8, primo comma, della Costituzione: la tutela penale privilegiata accordata alla religione cattolica in quanto già “religione dello Stato” o in quanto religione professata dalla maggioranza degli italiani costituisce un anacronismo e viola il principio supremo di laicità dello Stato, il quale importa non indifferenza, ma equidistanza ed imparzialità dello Stato rispetto a tutte le confessioni religiose.
[13] Cfr. F. Treggiari, Il processo a La ricotta, cit., p. 268, il quale sottolinea come l’assoluzione possa essere letta alla luce dei cambiamenti di quegli anni: papa Giovanni XXIII era morto nel giugno dell’anno prima ed era appena nato il primo centro-sinistra guidato da Aldo Moro.
[14] Gli atti processuali e le sentenze sono raccolti in A. Guadagni (a cura di), Processo Pasolini, L’Unità, Roma, 1994, supplemento al n. 115 dell’Unità del 18 maggio 1994, n. 4 della collana I grandi processi.
[15] Wu Ming 1, La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia, in Internazionale, 29 ottobre 2015, on-line. Qui ci si chiedere, fra l’altro, da dove derivi e perché tanto accanimento contro Pasolini: «Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia».
[16] Cfr. per tutti M. R. Marella, Qualche notazione sui possibili effetti simbolici e redistributivi del d.d.l. Cirinnà, in AboutGender. Rivista internazionale di studi di genere, Vol. 5, n. 9, 2016, p. 151 ss.
[17] A. Schillaci, Riconoscere pari dignità promuovendo coesione: per una difesa del d.d.l. Zan, in questa Rivista; F. Zappino, Se la destra strumentalizza il pensiero queer, in DinamoPress, 11 maggio 2021; Y. De Guerre, DDL Zan, un dibattito pubblico cinico e disonesto, in ValigiaBlu, 7 luglio 2021.
[18] Emblematici i noti fatti della scuola Diaz in occasione del G8 del 2001 a Genova: sull’esito in termini di violazione dei diritti umani cfr. F. Buffa, La Cedu e la Diaz 2.0, in Questione Giustizia, on-line, 28 giugno 2017.
[19] Peraltro gli attivisti perugini sono stati persino rinviati a giudizio: vedi Perugia, bacio gay tra le Sentinelle in Piedi: si va a processo, in Gay.it, 7 febbraio 2018; M. R. Marella, Di calze, violenza e dissenso. Su Perugia, in EuroNomade.info, 12 dicembre 2018.
[20] Cfr. G. Landi, Pier Paolo Pasolini. Assassinio di un intellettuale scomodo, Corriere della Sera (RCS Media Group), Milano, Collana “Grandi delitti nella storia”, n. 10, 2020.
[21] S. Rodotà, Il processo, cit., p. 276 e ss., ove vien dato merito ai soli giudici Salmè e Moro, del Tribunale dei Minorenni di Roma di aver provato a mettere in dubbio la frettolosa e negligente indagine condotta sul caso Pasolini, ipotizzando un “concorso con ignoti”.
[22] E. Resta, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, Laterza, Roma-Bari, 1992.
[23] Cfr. L. Ferrajoli, Magistratura e democrazia, in Questione Giustizia, on-line, 28 luglio 2021.
[24] Poiché ad alcune attiviste erano stati imputati anche altri reati.
[25] S. Rodotà, Il processo, cit., p. 272.
[26] P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano, 2009; sull’influenza di Gramsci in Pasolini cfr. L. Peloso, Pasolini in dialogo con Gramsci, giugno 2012; P. Voza, Il Gramsci di Pasolini, in La Sguardo. Rivista di filosofia, 19, 2015, p. 243 ss. Nei Quaderni dal carcere Gramsci fa più volte riferimento al buon senso, identificato con la razionalità, e il senso comune, che spesso indica una opinione volgare diffusa (vedi, ad esempio, Quaderno 11 (XVIII) §56). Sulle ricadute nel diritto del pensiero di Gramsci cfr. G. Marini, L’Italian style fra centro e periferia ovvero Gramsci, Gorla e la posta in gioco nel diritto privato, in Riv. it. sci. giur., 2016, p. 95 ss.; J. Esquirol, Le strategie intellettuali dell’analisi critica, in Riv. crit. dir. priv., n. 2/2021, p. 187 ss.
[27] Su cui cfr. A. Tricomi, Anatomia di un’opera tarda, in G. Capuzzo, D. David, S. Felicioni, Rileggendo Pasolini, cit., p. 245 ss.; e ivi, M. Balestrieri, Legge e Apocalisse. Note critiche intorno a La rabbia di Pier Paolo Pasolini, p. 41ss.
[28] Nel senso di G. Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma, 2005, secondo cui «Profanare significa: aprire la possibilità di una forma speciale di negligenza» (p. 110), forma che ignora la separazione fra sacro e profano o, rectius, che ne fa un uso differente, libero dalle norme prestabilite dalla religio e dal loro significato.
[29] Cfr. ancora E. Resta, La certezza e la speranza, cit., ove si afferma chiaramente che il diritto «sarà differente dalla violenza se lo sarà; sarà soltanto un’altra violenza se finirà per assomigliare troppo all’oggetto che dice di regolare» p. XI.
[30] Ivi, p. 31 ss.
[31] «Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere, e chi rifiuta di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista»: così rispose Pasolini nella sua ultima intervista, nel 1975 poco prima del suo omicidio, a Philippe Bouvard di “Dix de Der”.
Silenzio-assenso e tutela del legittimo affidamento: il perfezionamento della fattispecie non è subordinato alla presenza dei requisiti di validità. (Nota a Cons. Stato, Sez. VI, 8 luglio 2022, n. 5746)
di Antonio Persico
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il silenzio-assenso e la rilevanza (non ostativa) dei requisiti di validità. – 3. La non operatività dell’istituto in caso di inconfigurabilità giuridica dell’istanza. – 4. Silenzio assenso e obbligo di provvedere. – 5. Conclusioni e prospettive.
1. Premessa.
La sentenza in commento ha preso posizione su una serie di aspetti legati alla natura e al funzionamento del silenzio-assenso provvedimentale[1]. Nel caso di specie, si trattava di valutare la formazione del silenzio-assenzo ex art. 20, comma 8, d.P.R. n. 380/2001 su un’istanza di permesso di costruire presentata da un privato, il quale tuttavia aveva già realizzato l’intervento (una demo-ricostruzione) di cui richiedeva l’autorizzazione. Parte ricorrente, in particolare, sosteneva l’illegittimità dell’ordine di demolizione avente ad oggetto il manufatto abusivo, per ciò che il Comune avrebbe dovuto tenere conto della formazione del silenzio-assenso sull’istanza di permesso. L’ente locale, non avendo provveduto in forma espressa sull’istanza, avrebbe invero consentito il perfezionamento di un permesso di costruire “tacito”, indipendentemente dalla sussistenza dei presupposti di legge per il rilascio del titolo, rispetto al quale l’ordine di demolizione successivamente intervenuto si sarebbe posto in rapporto di insanabile contraddizione.
Il Consiglio di Stato, nel negare la fondatezza di una simile ricostruzione, ha ritenuto opportuno soffermarsi (ed è la parte centrale della pronuncia) sull’istituto del silenzio-assenso verticale, mediante una digressione che, se pure non in tutte le sue parti si rivela indispensabile ai fini del decidere, è sicuramente importante in termini generali. In particolare, il supremo Consesso della giustizia amministrativa ha colto l’occasione per affrontare un profilo critico dell’operatività del meccanismo di semplificazione in parola, riassumibile nell’interrogativo se la formazione del silenzio-assenso sia configurabile in caso di mancanza dei requisiti di validità del titolo che l’istante miri a ottenere[2]. Con risolutezza, i giudici di Palazzo Spada hanno risposto affermativamente al quesito, prendendo le distanze da quell’indirizzo giurisprudenziale che predica la necessità della prova della sussistenza di tutti i requisiti soggettivi e oggettivi ai quali è subordinato il rilascio del titolo ai fini del perfezionamento della fattispecie silenziosa[3]. Come si vedrà, il ragionamento seguito da Collegio si basa su argomenti già ampiamente invocati dalla dottrina più sensibile alla tutela del legittimo affidamento dei privati[4].
2. Il silenzio-assenso e la rilevanza (non ostativa) dei requisiti di validità.
La digressione sul silenzio-assenso provvedimentale, contenuta nei punti 8.1-8-2 della sentenza, esordisce con la presa di posizione sulla natura giuridica dell’istituto[5]. Il Collegio scarta apertamente la concezione “attizia”, la quale ravvisa nel silenzio-assenso un provvedimento autorizzativo tacito nell’intento di consentire l’esperibilità del rimedio impugnatorio da parte del terzo controinteressato. È questa, invero, una fictio iuris ritenuta non necessaria. Di contro, viene accolta la posizione della dottrina maggioritaria[6] che qualifica il silenzio-assenso come mero fatto reso giuridicamente rilevante da una scelta legislativa, la quale fa discendere dall’inerzia della p.a. gli stessi effetti dell’accoglimento della domanda (tesi dell’equivalenza). L’equiparazione quoad effectum, sarebbe peraltro “totale”, nel senso «gli effetti promananti dalla fattispecie sono sottoposti al medesimo regime dell’atto amministrativo».
Effettuata questa premessa, la sentenza s’incentra sulla rilevanza dei requisiti di validità della fattispecie in relazione al funzionamento del meccanismo di semplificazione in parola. L’assenza di detti requisiti, consistenti nei presupposti oggettivi e soggettivi richiesti dalla normativa applicabile, non impedisce la formazione del silenzio-assenso, contrariamente a quanto sostenuto da quella parte della giurisprudenza che a proposito del rilascio tacito del permesso di costruire si è così espressa: «la cristallizzazione del titolo a seguito dell’inerzia dell’Ente presuppone logicamente la sussistenza di tutti i requisiti per la legittima esplicazione dell’attività […]: allorché, dunque, […] il progetto sia oggettivamente contrastante con le previsioni pianificatorie, non vi è spazio logico, né prima ancora, margine giuridico, per ritenere formato per silentium il titolo edilizio»[7]. Il silenzio-assenso si forma quindi anche se l’attività da intraprendere in virtù del titolo abilitativo richiesto non sia conforme a legge, non ostando la mancanza dei requisiti di validità all’operatività dell’istituto.
La carenza dei requisiti di legge, invero, rileva solamente nell’ottica dell’esercizio di poteri di autotutela caducatoria della p.a., ovvero dei poteri demolitori del g.a. Al riguardo, il Collegio ritiene logico e coerente che tutti i titoli abilitativi “taciti” siano sottoposti al regime dell’“annullabilità” (non specificando se ci si riferisce all’annullamento d’ufficio o all’annullamento in sede giurisdizionale). Poco dopo, con riguardo all’annullamento d’ufficio, la sentenza precisa che, venuto meno con il decorso dei termini il potere primario di provvedere, residua solamente «la possibilità di intervenire in autotutela sull’assetto di interessi formatosi ‘silenziosamente’». Pertanto, si evince che la mancanza dei requisiti di legge determina l’annullabilità del titolo abilitativo silenzioso per violazione di legge, ma non impedisce il perfezionamento della fattispecie per silentium.
La soluzione prospettata appare in linea con la ratio di semplificazione (ex parte civium) dell’istituto e con le esigenze di tutela del legittimo affidamento, coerentemente ai principi di collaborazione e buona fede che, in base all’art. 1, comma 2-bis, l. 241/1990, informano i rapporti tra cittadini e amministrazione[8]. Sul punto il Collegio fa propria l’icastica osservazione della giurisprudenza maggioritaria[9], secondo cui «[n]essun vantaggio, infatti, avrebbe l’operatore se l’amministrazione potesse, senza oneri e vincoli procedimentali [il riferimento implicito, per differentiam, è ai presupposti dell’annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies], in qualunque tempo disconoscere gli effetti della domanda».
A sostegno della correttezza della ricostruzione effettuata, la sesta Sezione elenca una serie di indici normativi, tratti dalla legge 241/1990 e ampiamente valorizzati dalla dottrina, dai quali si desume la formazione del silenzio-assenso anche in mancanza dei presupposti di legge per lo svolgimento dell’attività.
Il primo di questi indici a essere preso in considerazione è contenuto nell’art. 21-nonies, il quale contempla l’annullamento d’ufficio del «provvedimento […] formato ai sensi dell’art. 20», così presupponendo il perfezionamento della fattispecie anche in caso di violazione di legge[10]. Viene poi valorizzato il comma 8-bis dell’art. 2, il quale, nel comminare l’inefficacia alle determinazioni adottate dopo i termini di cui all’art. 20, comma 1, fermo restando quanto previsto dall'articolo 21-nonies, conferma l’operatività del meccanismo del silenzio-assenso allo scadere dei termini per provvedere[11]. Ancora, il Collegio dà risalto al nuovo comma 2-bis dell’art. 20, il quale prevede il rilascio obbligatorio, da parte dell’amministrazione su richiesta del privato, di un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell’intervenuto accoglimento della domanda in virtù della formazione del silenzio-assenso. Ora, questa disposizione, preceduta temporalmente e propiziata dall’introduzione di un ultimo periodo nell’art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001, dal contenuto analogo, ma non identico, mira a porre rimedio alle incertezze relative alla formazione del silenzio-assenso, stabilendo a favore del privato un «diritto ad un’attestazione»: di vero e proprio diritto soggettivo sembrerebbe trattarsi, ma il Collegio altro non aggiunge al riguardo. Sul punto può rinviarsi al contributo dottrinario che ha invocato una soluzione del genere, a tutela del legittimo affidamento del privato e della certezza >span class="Nessuno"> [12]. Infine, viene preso in esame l’art. 21 della l.n. 241 del 1990, nella sua formulazione attuale e previgente. Com’è noto, in passato il comma 2 di detto articolo sanzionava coloro che avessero intrapreso l’attività sottoposta al modulo del silenzio-assenso «in mancanza dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente». Ora, l’avvenuta abrogazione del comma in parola priverebbe di un argomento la tesi che subordina l’operatività dell’istituto all’esistenza dei requisiti di validità: sarebbe infatti venuta meno l’equiparazione tra attività intrapresa in assenza di titolo e attività svolta in mancanza dei presupposti soggettivi e oggettivi previsti dalla legge[13]. Per quanto riguarda invece il comma 1 dell’articolo 21 (il quale afferma che in caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge), la pronuncia in commento prende atto atto del difficile raccordo tra questa norma e l’art. 21-nonies, non essendo chiaro se possa formarsi il silenzio su un’istanza recante dichiarazioni mendaci o false attestazioni e, in caso affermativo, se sussistano in capo all’amministrazioni poteri d’intervento successivo diversi da quelli previsti dal comma 2-bisdell’articolo ultimo citato[14]. Quale che sia la corretta ricostruzione del rapporto tra le due norme, appare chiaro al Collegio che dalla lettura del primo comma dell’art. 21, emerga l’operatività del silenzio-assenso nelle ipotesi di semplice incompletezza delle dichiarazioni effettuate dal privato[15].
3. La non operatività dell’istituto in caso di inconfigurabilità giuridica dell’istanza.
Al termine di tale digressione, il Collegio affronta il punto veramente dirimente ai fini del decidere. Il decorso del tempo non può determinare indefettibilmente la formazione del silenzio-assenso. Al riguardo, la sentenza in commento accoglie implicitamente la distinzione tra requisiti di validità, non ostativi al perfezionamento del silenzio-assenso, e requisiti di formazione del silenzio-assenso, cui viene ricondotta l’ipotesi di «radicale ‘inconfigurabilità’ giuridica dell’istanza». Quest’ultima eventualità ricorre allorquando l’istanza non sia aderente al «modello normativo astratto» prefigurato dal legislatore. La pronuncia risulta epigrafica, omettendo di fornire quei chiarimenti necessari alla comprensione di una “regola” di carattere generale.
La distinzione tra requisiti di validità ed elementi essenziali alla formazione del silenzio-assenso era invero già stata tracciata dalla giurisprudenza[16]. La dottrina, a sua volta, ha chiarito che alla seconda categoria andrebbero ricondotte le ipotesi di carenza di legittimazione dell’istante, di incompletezza formale e di intempestività dell’istanza[17]. Ora, potrebbe ritenersi che nella fattispecie all’esame del Consiglio di Stato l’istanza di permesso di costruire non risultasse tempestiva e chiudere così il discorso, oppure tentare di ravvisare un criterio distintivo non empirico tra requisiti di validità e requisiti di esistenza.
Seguendo questa seconda pista, si osserva che nella sentenza in commento, il Collegio ha ravvisato un’ipotesi di radicale inconfigurabilità giuridica dell’istanza nella mancanza di un «necessario presupposto logico-normativo», essendo l’intervento da autorizzare già stato realizzato. La categoria della radicale inconfigurabilità giuridica dell’istanza, espressiva del difetto dei requisiti essenziali/di formazione del silenzio-assenso, sembra riposare in ultima analisi sulla gravità dei vizi presenti nella fattispecie. In precedenza si è detto che per il Collegio la carenza dei requisiti di validità, che si registra quando «l'attività oggetto del provvedimento di cui si chiede l’adozione non sia conforme alle norme», è causa di annullabilità del titolo tacito, tracciandosi così una corrispondenza tra annullabilità del provvedimento per violazione di legge e difetto dei requisiti di validità. Di contro, la preclusione all’operatività del silenzio-assenso per inconfigurabilità giuridica dell’istanza ricorre in presenza di vizi più gravi della violazione di legge, che determinerebbero la nullità o l’inesistenza del provvedimento favorevole ipoteticamente adottato in forma espressa. Sembra potersi tracciare in tal senso una corrispondenza tra vizi di nullità/inesistenza e difetto dei requisiti di formazione del silenzio-assenso.
In effetti, nella fattispecie attenzionata dalla sesta Sezione, un ipotetico provvedimento espresso di assenso sarebbe stato nullo per carenza di un elemento essenziale, ex art. 21-septies l. 241/1990: l’oggetto del provvedimento risultava impossibile secondo lo schema degli art. 1418 e 1346 e c.c. in quanto l’attività da autorizzare era già stata realizzata. Stando poi alle affermazioni contenute nella sentenza, l’ipotetico provvedimento favorevole avrebbe potuto ritenersi addirittura inesistente, in quanto assolutamente non riconducibile al «‘modello normativo astratto’ prefigurato dal legislatore»[18].
4. Silenzio-assenso e obbligo di provvedere.
Infine, si segnala che la pronuncia in commento ha toccato anche il tema, particolarmente dibattuto in dottrina, del rapporto tra obbligo di provvedere e silenzio-assenso. Com’è noto, l’obbligo di provvedere, perentoriamente enunciato all’art. 2, comma 1, periodo primo della l. 241/1990, viene valorizzato da alcuni Autori nell’ottica di ribadire la non fungibilità per il privato tra titolo espresso e titolo formatosi per silentium, essendo il secondo, tra l’altro, intrinsecamente più instabile del primo a fronte dei poteri di autotutela caducatoria[19]. Orbene, il Collegio sembra recepire le preoccupazioni alla base di quest’orientamento allorché precisa che la funzione semplificatoria del silenzio-assenso opera a beneficio esclusivo del privato, senza sollevare la p.a. dal dovere di provvedere in forma espressa[20]. In quest’ottica, risulta del tutto coerente l’aver in precedenza sostenuto la natura di mero fatto giuridicamente rilevante del silenzio-assenso, scartando la teoria attizia che vuole il silenzio-assenso interamente sovrapponibile, ad ogni effetto, al provvedimento espresso. La pronuncia valorizza il dettato dei commi 1 e 9 del ridetto articolo 2, i quali rispettivamente stigmatizzano la condotta del funzionario che ometta o ritardi l’emanazione di un provvedimento espresso e ribadiscono l’obbligo di provvedere espressamente, seppur in forma semplificata, in caso di domande manifestamente irricevibili, inammissibili, improcedibili o infondate.
In sintesi, il Collegio afferma che il silenzio-assenso non costituisce una modalità ordinaria di svolgimento della funzione, così prendendo le distanze da quelle tesi dottrinarie volte a ravvisare nel silenzio-assenso verticale una deroga all’obbligo di provvedere, ovvero un modello alternativo e fisiologico di provvedere[21].
5. Conclusioni e prospettive.
In conclusione, la sentenza in esame ha affrontato una serie di temi rilevanti relativi all’istituto del silenzio-assenso provvedimentale, con affermazioni nette e recise che rendono spesso necessario uno sforzo interpretativo e ricostruttivo per dipanare il ragionamento sottostante. In conformità con quanto evidenziato a più riprese dalla dottrina[22], la decisione risulta ispirata dall’esigenza di garantire, il più possibile, le istanze di legittimo affidamento del privato, ampliando l’ambito applicativo del silenzio-assenso anche alle domande difformi dai requisiti di validità.
Preso atto che la mancanza dei requisiti di validità non osta alla formazione del silenzio-assenso, e ribadito l’obbligo di provvedere in forma espressa nei termini, resta necessario un importante chiarimento su un aspetto legato a una disposizione pur citata nella digressione sul silenzio-assenso. Il riferimento è al comma 8-bis dell’art. 2 della legge 241/1990, il quale prevede l’inefficacia del provvedimento di diniego intervenuto dopo la formazione del silenzio-assenso. Orbene, il problema meritevole di chiarificazione riguarda il regime di validità dell’atto sopravvenuto, e assume oggi rilevanza eminentemente processuale: ferma restando la sua inefficacia, ci si interroga sul rimedio esperibile a fronte di tale atto tardivo. La risposta al quesito dipende evidentemente dalla natura dell’invalidità in questione e presenta notevoli ricadute pratico-applicative[23]. Volendo escludere la mera annullabilità, permane il dubbio se il provvedimento in questione sia nullo, e pertanto impugnabile nel termine di 180 con l’azione di cui all’art. 31 c.p.a. (ferma l’eccepibilità perpetua), ovvero inesistente: in questo caso si pone il tema dell’ammissibilità di una domanda di accertamento atipica volta a rimuovere l’incertezza da esso derivante. Lungi il problema dal trovare una soluzione univoca in dottrina, occorrerà attendere sul punto i necessari assestamenti giurisprudenziali.
[1] Per un inquadramento generale sul silenzio-assenso provvedimentale e sui problemi che esso pone si v. G. MARI, L’obbligo di provvedere e i rimedi preventivi e successivi ai silenzi provvedimentali e procedimentali della P.A., in M.A. SANDULLI (a cura di), Princìpi e regole dell’azione amministrativa, III ed., Milano, 2020; tra le prime ricostruzioni dell’istituto, antecedenti alla generalizzazione del suo regime operata dalla l. n. 15/2005, si v. B. TONOLETTI, Silenzio della pubblica amministrazione, in Dig. disc. pubbl., vol. XIV, Torino, 1995; A.M. SANDULLI, Il silenzio della pubblica amministrazione oggi: aspetti sostanziali e processuali, in Dir. e soc., 1982, 715 ss; F.G. SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1971.
[2] Vari sono i contributi che indagano la (controversa) portata semplificatoria dell’istituto, tra i quali si v. M.A. SANDULLI, Gli effetti diretti della 7 agosto 2015 L. n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in Federalismi.it, n.7/2015; ID., L’istituto del silenzio assenso tra semplificazione e incertezza, in Nuove autonomie, 2012, 435 ss.; L. FERRARA, Dia (e silenzio assenso) tra autoamministrazione e semplificazione, in Dir. Amm., 2006, 759 ss.; M. ANDREIS, Silenzio-assenso, semplificazione competitiva e D.I.A.: problemi e profili applicativi alla luce dei nuovi articoli 19 e 20 della l. n. 241 del 1990, sostituiti dalla L. 80/2005, Milano, 2005; V. CERULLI IRELLI, F. LUCIANI, La semplificazione dell’azione amministrativa, in Dir. Amm., 2000, 617 ss.; G. VESPERINI, Il silenzio assenso e la denuncia sostitutiva di autorizzazione dopo la legge 241 del 1990: un bilancio, in Dir. e società, 1997.
[3] Indirizzo cui hanno aderito di recente TAR Campania, Napoli, Sez. II, 10 gennaio 2022, n. 171; Cons. Stato, sez. IV, 25 febbraio 2021, n. 1629; Cons. Stato Sez. IV, 1 luglio 2021, n. 5018.
[4] In particolare, da ultimi, M.A. SANDULLI, Silenzio assenso e termine a provvedere. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, in Il Processo, n. 1/2022, e ivi ulteriori richiami anche a precedenti scritti dell’A.; M. CALABRÒ, Silenzio assenso e dovere di provvedere: le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in Federalismi.it, n. 10/2020.
[5] Sulla natura giuridica del silenzio-assenso provvedimentale si v. M. CALABRÒ, Silenzio assenso e dovere di provvedere,cit.; G. MARI, L’obbligo di provvedere, cit.
[6] In dottrina, cfr. M. D’ORSOGNA, R. LOMBARDI, Silenzio assenso, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, p. 972; F. GAMBARDELLA, Il silenzio assenso tra obbligo di procedere e dovere di provvedere, in www.giustizia-amministrativa.it; F.G. SCOCA, M. D’ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, in Dir. proc. amm., 1995, p. 393 ss.; A. TRAVI, Silenzio-assenso ed esercizio della funzione amministrativa, Padova, 1985. Sul tema si v. anche V. PARISIO, Il silenzio della pubblica amministrazione tra prospettive attizie e fattuali, alla luce delle novità introdotte dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15 e dalla L. 14 maggio 2005, n. 80, in Foro amm. - TAR, 2006, p. 2798 ss.
[7] Cons. Stato, Sez. IV, 17 dicembre 2019, n. 8529. V. anche nota 2.
[8] Cfr. M.A. SANDULLI, Silenzio assenso e termine a provvedere, cit.; M. CALABRÒ, Silenzio assenso e dovere di provvedere, cit.
[9] TAR Valle d’Aosta, 19 novembre 2020, n. 60; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 6 febbraio 2017, n. 210; TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 20 febbraio 2015, n. 521.
[10] Cfr. G. MARI, L’obbligo di provvedere, cit., p. 229.
[11] Ibidem, p. 228 e M.A. SANDULLI, Silenzio assenso e termine a provvedere, cit., p. 18.
[12] M. CALABRÒ, Silenzio assenso e dovere di provvedere, cit. In argomento, si v. anche G. STRAZZA, L’ambito di operatività del silenzio-assenso e le esigenze di certezza (nota a Cass., Sez. III, ord. 6 luglio 2020, n. 13865), in Riv. giur. ed., 4, 2020, 864 ss. In generale, sul contenuto e sulla portata del principio di certezza del diritto si v. M.IMMORDINO, Il principio di certezza del diritto nei rapporti tra Amministrazione e cittadini, Torino, 2003.
[13] Il carattere stridente di tale disposizione con le esigenze del legittimo affidamento dei privati era stato segnalato da M.A. SANDULLI, Riflessioni sulla tutela del cittadino contro il silenzio della p.A., in Giust. Civ. 1994, 485 ss.
[14] Il difettoso coordinamento tra le due norme è stato denunciato dai pareri n. 839 e 1784/2016 del Consiglio di Stato sui decreti SCIA, e da ultimo, in dottrina, da M.A. SANDULLI, Silenzio assenso e termine a provvedere, cit.
[15] Afferma sul punto M. CALABRÒ, Silenzio assenso e dovere di provvedere, cit., p. 47: «In ogni caso, ciò che almeno in teoria appare non essere oggetto di discussione è che, in caso di dichiarazioni non false, ma semplicemente incomplete, il silenzio dovrebbe formarsi».
[16] TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 20 febbraio 2015, n. 521.
[17] Cfr. G. MARI, L’obbligo di provvedere, cit..
[18] Sui rapporti tra invalidità e nullità nel diritto amministrativo si v. M. CALARESU, F. PIGNATIELLO, La nullità del provvedimento, in M.A. SANDULLI (a cura di), Princìpi e regole dell’azione amministrativa, cit.
[19] Su tutti, i già citati M.A. SANDULLI, Silenzio assenso e termine a provvedere, cit.; M. CALABRÒ, Silenzio assenso e dovere di provvedere, cit.
[20] M. CALABRÒ, Silenzio assenso e dovere di provvedere, cit.
[21] Cfr. A. POLICE, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, in M.A. SANDULLI, Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, p. 285; G. MORBIDELLI, Il silenzio-assenso, in V. CERULLI IRELLI (a cura di), La disciplina generale dell’azione amministrativa, Napoli, 2006; F.G. SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del suo nuovo trattamento processuale, in Dir. proc. amm., 2002, p. 245; ID., Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano 1971.
[22] Cfr. note 3 e 12.
[23] Il problema viene segnalato da M.A. SANDULLI, Silenzio assenso e termine a provvedere, cit.
Movimento per la Giustizia: la sua storia* di Armando Spataro** - prima parte
Sommario della prima parte: 1. Premessa: le correnti dell’ANM – Brevi cenni introduttivi. - 2. Il percorso di nascita del Movimento ed il “manifesto fondativo”. La fusione con Proposta ’88.
Coerentemente con l’impostazione del Corso, cercherò, in questo intervento, di concentrarmi sulla storia del Movimento per la Giustizia (poi “Movimento per la Giustizia-Proposta’88” ed infine “Movimento per la Giustizia–Articolo 3”), limitandomi, solo quando necessario, a brevi considerazioni sull’ANM, sulle altre correnti e su fatti successivi al dicembre 2018 che conosco meno a seguito della cessazione del mio servizio per raggiunti limiti di età.
1. Premessa: le correnti dell’ANM – Brevi cenni introduttivi
La storia dell’Associazione nazionale magistrati, fondata nel 1909 è ampiamente nota ed è stata descritta e ricostruita in molti testi, unitamente a quella delle prime correnti[1]. A tal proposito, può qui schematicamente ricordarsi che le «correnti» iniziarono a formarsi dalla fine degli anni ’50, allorché – dopo il Congresso di Napoli del 1957 e in vista delle elezioni per il rinnovo del Comitato direttivo centrale del 1958 – si formarono due schieramenti contrapposti, uno dei quali si autodenominò Terzo Potere, che – su posizioni conservatrici – si opponeva alla maggioranza dell’Associazione. Nel 1961, addirittura, un gruppo di magistrati ultraconservatori abbandonò l’Anm formando l’Unione magistrati italiani (UMI), che si estinse, però, nel 1979, rifluendo nell’Anm stessa.
Altre correnti o gruppi organizzati furono successivamente fondati:
- tra il 1962 e il 1963 Magistratura indipendente;
- nel 1964, Magistratura democratica, a opera di magistrati che fuoriuscirono da Terzo Potere;
- nel 1969, Impegno costituzionale ad opera di un’estesa frangia di magistrati di Md;
- nel 1980, Unità per la Costituzione a seguito della fusione di Impegno Costituzionale con Terzo Potere;
- nel 1988, il Movimento per la Giustizia per le ragioni e per i fini di cui parlerò appresso;
- nel 1988, Proposta ’88, ad opera di magistrati che fuoriuscirono da Magistratura Indipendente. Anche di Proposta ’88 si parlerà nel paragrafo seguente;
- nel marzo del 1999, fu per la prima volta pubblicato il “Ghibellin Fuggiasco”, un “foglio critico-informativo” di Unità per la Costituzione, curato da giovani rappresentanti di quel gruppo del distretto della Corte d’Appello di Napoli. Successivamente alcuni di quei magistrati lasciarono Unicost, realizzando attività in comune con colleghi del distretto di Salerno aderenti a “Impegno per la legalità” ed assumendo per la prima volta, nell’ottobre del 2003, la denominazione di Articolo 3. Nel corso dell’Assemblea di Roma del 13 e 14 dicembre 2008, fu formalmente ratificata – dopo un periodo di vicinanza associativa - la fusione in un unico gruppo del Movimento per la Giustizia ed Articolo 3. Se ne parlerà nel paragrafo 4;
- nel 2013, Area, per effetto di una scelta di Magistratura Democratica e del Movimento per la Giustizia, che, come appresso si dirà, non si sono sciolte e che nel 2017 hanno poi mutato la denominazione del “gruppo comune”, chiamandolo Area Democratica per la Giustizia. Se ne parlerà nel paragrafo 7;
- nel 2012, Articolo 101 (o anche “Altra Proposta” e prima ancora “Proposta B”, denominazione usata per la lista di candidati presentata in occasione delle elezioni del CDC del 2012), gruppo che duramente contesta ANM e CSM ed il cui programma si fonda su scelte che da tempo definisco inaccettabili: sorteggio “temperato” per designare i componenti del CSM, rotazione per incarichi direttivi e semidirettivi, abolizione della immunità funzionale dei membri del CSM, temporaneità effettiva degli incarichi direttivi per contrastare il cd. “carrierismo” etc.;
- il 28 febbraio 2015, data dell’Atto costitutivo e dello Statuto approvato, Autonomia & Indipendenza (prevalentemente grazie alla fuoriuscita di vari fondatori da Magistratura Indipendente), il cui principale scopo sembra essere quello della cancellazione delle correnti e della valorizzazione del sorteggio per la designazione dei rappresentanti dei magistrati, sia in seno all’ANM che nel CSM, giudicate rispettivamente associazione ed istituzione non in grado di adempiere con onore ai rispettivi compiti e doveri. Nell’aprile del 2016 un suo noto rappresentante fu nominato presidente dell’ANM, ma nel luglio del 2017 lasciò la GEC, insieme a tutti i componenti della corrente in polemica con le modalità di scelta dei magistrati per gli incarichi direttivi.
2. Il percorso di nascita del Movimento ed il “manifesto fondativo”. La fusione con “Proposta ‘88.
Voglio premettere che questo intervento conterrà varie citazioni del mio percorso professionale e associativo: me ne scuso, ma ciò inevitabilmente serve ove si voglia raccontare, come in questo caso, una storia vissuta in prima persona.
Per cominciare, ricordo che, dopo il tirocinio, avevo assunto nel settembre 1976 le funzioni di sostituto procuratore della Repubblica di Milano e che dopo qualche mese di lavoro avevo iniziato ad interessarmi all’attività dell’Associazione Nazionale Magistrati: non avendo maturato alcuna opzione e volendo conoscerne la situazione, presi a frequentare, sia pure non con assiduità, le riunioni di Magistratura Democratica, di Terzo Potere, di Magistratura Indipendente (lo feci per due volte) e di Impegno Costituzionale. Ascoltavo ciò che vi si discuteva e cercavo di capire quale delle correnti sentivo più vicina al mio modo di pensare. Ero indeciso tra Magistratura Democratica ed Impegno Costituzionale ma, durante una riunione di MD, fui negativamente colpito dalle dure critiche che un collega iscritto formulò nei confronti dei magistrati che avevano accettato di condurre inchieste di terrorismo (io ero uno di loro). Solo Edmondo Bruti Liberati intervenne con forza per contestare quelle affermazioni.
Anche per questo, scelsi di iscrivermi ad Impegno Costituzionale, il cui leader indiscusso era all’epoca Adolfo Beria d’Argentine, gruppo in cui si riconoscevano alcuni miei maestri come Emilio Alessandrini, Guido Galli, Gerardo D’Ambrosio ed altri ancora. Il mio impegno personale nella corrente aumentò progressivamente tanto che divenni uno dei componenti della segreteria milanese .
Grande, però, fu la delusione allorchè nel 1980, nel corso di un’assemblea a Milano, proprio Beria d’Argentine annunciò ai presenti che gli organismi dirigenti di Impegno Costituzionale e di Terzo Potere avevano deliberato la fusione dei due gruppi, la cancellazione delle loro denominazioni e la conseguente nascita di una nuova corrente che si sarebbe chiamata Unità per la Costituzione (Unicost). Molti dei presenti (tra i quali pochissimi erano a conoscenza di quella novità) furono d’accordo su quella scelta, alcuni rimasero perplessi, mentre io – che ero rimasto assolutamente sorpreso – chiesi la parola e domandai ai dirigenti nazionali presenti come mai, vista la sua indubbia importanza, quella decisione non era stata prima sottoposta al giudizio degli iscritti (oggi si direbbe “della base”).
Non ebbi alcuna risposta per cui, prima che l’assemblea venisse dichiarata chiusa, rassegnai le mie dimissioni sia dalla carica di componente della segreteria milanese che da quella di iscritto ad Impegno Costituzionale.
Era il 1980 e per i seguenti otto anni non svolsi alcuna attività associativa, non partecipai ad alcuna riunione e votai sempre secondo preferenze nei confronti di singoli candidati da me stimati e non delle loro correnti di appartenenza.
Certo, rispetto a quella personale scelta di disinteresse associativo, ebbe un ruolo determinante anche il mio impegno professionale nel settore del terrorismo interno che davvero non mi lasciava tempo per altro.
Ma nel 1988 finirono sostanzialmente gli “anni di piombo” e – pur senza nesso causale tra i due eventi – fui tra i fondatori del Movimento per la Giustizia.
La premessa della nascita del gruppo fu costituita da uno «storico» documento che alcuni magistrati allora “militanti” in UNICOST diffusero all’inizio del 1988 per manifestare il proprio disagio per la gestione di quel gruppo e dell’ANM, caratterizzata dalla regola della lottizzazione correntizia. Casualmente quel manifesto fu stampato su carta verde (perché il tipografo sotto casa di Mario Almerighi, ove fu stampato, disponeva in quel momento solo di carta di quel colore), da cui il nome di «Verdi» che, all’inizio, venne usato per designare, anche con qualche punta spregiativa, quel gruppo di persone che intendevano impegnarsi per riaffermare il metodo del dibattito aperto e tra le quali vi erano Mario Almerighi, Pierpaolo Casadei Monti, Vito D’Ambrosio, Enrico Di Nicola, Luciano Gerardis, Ubaldo Nannucci, Giovanni Tamburino, Vladimiro Zagrebelsky, Pasquale D’Ascola. Ci fu, anzi, qualche “avversario” che li definiva “meloni”, verdi fuori e rossi dentro.
Va doverosamente ricordato però che il primo storico documento “verde” risale al 1982 e faceva riferimento ad una tempestosa riunione del comitato di coordinamento di Unità per la Costituzione successiva alle elezioni del CDC ed allo straordinario successo elettorale della candidatura di un magistrato che, nella funzione precedentemente rivestita di componente del CSM, era stato protagonista di una interferenza presso la Procura Generale di Milano in relazione ad una nota indagine dell’epoca. MD chiese di non affidare la presidenza dell’ANM a quel magistrato, pur essendo stato nettamente il più votato tra i candidati, e soltanto i “verdi” (Tamburino, Zagrebelsky, Di Nicola, Sciacchitano, Almerighi, Condorelli, Anna Creazzo), appoggiando quella richiesta, impedirono il formarsi di una unanimità a sostegno della candidatura alla Presidenza ANM di quel magistrato plurivotato che dovette così rinunciare all’incarico. A quella riunione dei “verdi” altre ne seguirono, sempre più partecipate. I magistrati prima citati ed altri ancora furono protagonisti di numerose mobilitazioni e “battaglie”: indimenticabile la resistenza al Pres.te Cossiga in occasione del suo primo conflitto del 1985 con il CSM, riguardante la formazione dell’odg e le prerogative dei Pubblici Ministeri. I magistrati del gruppo dei “verdi” erano in gran parte tutti provenienti da Impegno Costituzionale, contrari alla fusione – che volevano far annullare - con Terzo Potere che, come si è detto, aveva dato luogo ad Unità per la Costituzione.
Così nacquero dunque i “verdi”[2] che quindi, dopo essere stati minoranza dissenziente in Unicost per circa 6 anni densi di avvenimenti e fatiche, furono determinanti per la fondazione del Movimento nel 1988.
Tornando, dunque, al manifesto del 1988, esso rappresentò l’atto di nascita di un nuovo metodo di confronto e di quello che sarebbe stato il Movimento per la Giustizia. Il Movimento, infatti, nacque nell’aprile del 1988 nell’ambito dell’Associazione Magistrati, grazie alla citata iniziativa dei “verdi” e di altri magistrati. Quella del Movimento – come ha scritto Giovanni Tamburino - fu una storia di successive e spontanee aggregazioni di magistrati di varia estrazione culturale e professionale, che intendevano manifestare la propria insoddisfazione per la logica imperante che riduceva l’Anm a mero contenitore di decisioni prese dalle correnti, così minando l’effettiva unità associativa e rendendola formale e vuota di contenuti.
L’Anm, secondo molti di noi, non era all’epoca una sede aperta di riflessione e confronto sulla «politica» giudiziaria, bensì luogo dove le correnti “depositavano” i loro deliberati interni.
Il nuovo gruppo decise non a caso di denominarsi “Movimento per la Giustizia”, poiché si voleva in tal modo mettere in evidenza la scelta di aprirsi agli interventi di qualsiasi componente del mondo dei giuristi, escludendo ogni rischio di autoreferenzialità.
Per questa ragione lo statuto consente tuttora la formale iscrizione di avvocati e professori: non furono molti, però, gli appartenenti a tali categorie professionali che si iscrissero al gruppo…e forse noi stessi abbiamo spinto poco in tale direzione.
L’evento che contribuì in modo decisivo a determinare la fondazione del Movimento per la Giustizia fu la mancata nomina di Giovanni Falcone a capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, dopo che Antonino Caponnetto era stato trasferito ad analoghe funzioni al Tribunale di Firenze. Solo pochi componenti del Csm avevano tentato invano, in quella occasione, di evitare che logiche ottusamente formalistiche (secondo cui la maggiore anzianità, purchè senza demerito, doveva essere il criterio prevalente nella nomina dei magistrati per incarichi direttivi e semidirettivi), quando non di mero potere, prevalessero sulla necessità di potenziare l’efficacia dell’azione giurisdizionale in terra di mafia: il 19 gennaio 1988, 16 consiglieri (tra cui 2 di MD) votarono per Antonino Meli (che vinse), 10 (tra cui Vito D’Ambrosio, Pietro Calogero che erano allora iscritti ad Unità per la Costituzione, nonché Stefano Racheli che era iscritto a Magistratura Indipendente e Gian Carlo Caselli di MD) per Falcone e 5 si astennero.
Tornerò più avanti sulla vicenda Falcone.
Quell’episodio, che richiamava i temi della professionalità e della questione morale insieme, risvegliò l’impegno associativo di decine di magistrati, fino a quel momento apprezzati soprattutto per le loro qualità professionali che furono i fondatori del gruppo.
In ordine alfabetico ne vengono elencati i nomi, collocando in un primo gruppo coloro che sottoscrissero il 16.4.1988 un documento di dimissioni da Unicost, (custodito nell’archivio del Movimento, il cui incipit è il seguente: “I sottoscritti, avendo constatato l’impossibilità di proseguire ulteriormente la propria azione – come gruppo e come singoli – all’interno di Unità per la Costituzione, nel promuovere con altri colleghi un movimento aperto alla partecipazione di tutti i magistrati, comunicano di rassegnare le proprie dimissioni dalla corrente di Unità per la Costituzione”): Leonardo Agueci, Mario Almerighi, Fausto Angelucci, Rodolfo Attinà, Walter Basilone, Angelo Bozza, Pietro Calogero, Nino Condorelli, Mario Conte, Anna Creazzo, Vito D’Ambrosio, Luigi De Ficchy, Luigi De Liguori, Enrico Di Nicola, Massimo Fabiani, Giovanni Falcone, Olindo Ferrone, Giuseppe Fici, Francesco Garofalo, Pina Geremia, Mario Giarrusso, Anna Introini, Franco Ionta, Ferdinando Licata, Onofrio Lo Re, Gabriella Luccioli, Sergio Materia, Maria Monteleone, Mario Morisani, Domenico Nataloni, Angelo Palladino, Federico Palomba, Vittorio Paraggio, Ippolisto Parziale, Antonio Petrella, Carlo Peyron, Franco Providenti, Nicla Restivo, Ciro Riviezzo, Giuseppe Sajeva, Roberto Sciacchitano, Matia Teresa Saragnano, Armando Spataro, Giovannantonio Tabasso, Franco Testa, Raffaele Tito, Andrea Vardaro, Guido Viola;
Altri fondatori del Movimento, in gran parte anch’essi dimissionari da Unicost, furono: Ernesto Aghina, Giuseppe Ayala, Maria Teresa Cameli, Rosario Cantelmo, Domenico Carcano, Pierpaolo Casadei Monti, Aldo Celentano, Angelo Costanzo, Gerardo D’Ambrosio, Michele Del Gaudio, Marco Di Napoli, Matteo Frasca, Mario Fresa, Luciano Gerardis, Francantonio Granero, Pietro Grasso, Giovanni Kessler, Sergio Lari, Giorgio Lattanzi, Ernesto Lupo, Antonella Magaraggia, Sergio Materia, Gianni Melillo, Alfredo Morvillo, Francesca Morvillo, Ubaldo Nannucci, Nello Nappi, Gioacchino Natoli, Guido Papalia, Roberto Parziale, Piervalerio Reinotti, Franco Roberti, Giovanni Tamburino, Vladimiro Zagrebelsky ed altri ancora.
Questo il manifesto fondativo che approvammo all’unanimità il 17 aprile 1988, al termine di una indimenticabile assemblea svoltasi nell’Hotel Salus di Roma, in piazza Indipendenza, a cento metri circa dal CSM:
Sono stato a lungo indeciso se inserire l’intero “manifesto fondativo” in questo documento: “forse è troppo lungo” - mi dicevo – ma, letto e riletto, mi è parso pensato e scritto oggi! Allora valeva la pena di inserirlo qui .
Il documento, infatti, oltre a tracciare le linee d’azione lungo cui il Movimento si è mosso nei decenni successivi, dava corpo ad una seria presa di distanza dalle deviazioni correntizie che già allora si manifestavano. Vorrei essere chiaro: a prescindere dalla mia esperienza personale non sono mai stato tra coloro che demonizzano le «correnti», ove con questo termine ci si riferisca ad aggregazioni di magistrati legati da una comune concezione del proprio ruolo, della propria indipendenza, dei rapporti possibili con l’avvocatura, il mondo accademico e la società in genere. Questo tema sarà appresso approfondito (par. “9.a” e 9”b”), ma non si può negare che il meccanismo delle correnti – così come quello dei partiti in politica – ha prodotto mostri e degenerazioni, anche prima dell’esplodere del “caso – Palamara”: appartenere a una corrente ha troppo spesso indotto l’iscritto a ritenere di avere diritto a protezione e trattamenti di riguardo da parte dei «suoi» rappresentanti e ha spinto questi ultimi – persino in seno al Csm – a scegliere in base a criteri di appartenenza, anziché di merito. Ciò è avvenuto spesso – ed è la deviazione più eclatante – per le nomine dei dirigenti degli uffici, ma anche per i trasferimenti in Cassazione o in altri uffici ambiti, per le designazioni dei relatori nei corsi di aggiornamento professionale e così via. Meccanismi perversi, dunque, ai quali – è bene ricordarlo – non si sottraggono affatto i componenti «laici» del Csm, i quali non celano, a loro volta, vicinanze e attenzioni alle aspettative delle forze politiche che li hanno proposti come candidati a quella carica.
Il Movimento per la Giustizia, sin dai suoi primi passi, intese porre all’attenzione della magistratura associata tali deviazioni che già allora si manifestavano, denunciando la cd. “questione morale” e proponendo strumenti di contrasto che sarebbero stati in breve da tutti i magistrati condivisi, almeno a parole: estraneità rispetto a qualsiasi aspettativa della politica, necessità di efficienza e trasparenza nella gestione degli uffici giudiziari (il termine “giustizia partecipata”, ormai diventato di uso comune, fu coniato proprio in un convegno del Movimento), controlli di professionalità tali da valorizzare, specie rispetto al conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi, la specializzazione professionale dei magistrati nei diversi settori della loro attività. Temi urgenti e difficili che ci fecero guadagnare l’appellativo irridente di «moralisti ed aziendalisti» e che le correnti tradizionali, tutte, seppure in misura diversa e per ragioni diverse, avevano trascurato, condizionate da meccanismi che ne impedivano la discussione senza reticenze.
Era fuori di dubbio la nostra vicinanza, sul piano della condivisione dei principi su cui deve reggersi la giurisdizione, alla corrente di Magistratura democratica. Personalmente, ne apprezzavo la capacità di produzione culturale e l’organizzazione interna. Ma eravamo abbastanza critici rispetto a una compattezza ideologica così forte da conferirle una sorta di forma-partito. D’altro canto, penso che i colleghi di MD, pur apprezzando molte nostre posizioni, ci considerassero affetti da ricorrenti sintomi di qualunquismo. Solo con il tempo, abbiamo superato, credo in modo sincero, quelle reciproche diffidenze.
Il primo congresso nazionale del Movimento per la Giustizia si svolse a Milano nel novembre del 1988: le posizioni del gruppo erano diventate, in gran parte e in tempi relativamente brevi, oggetto di ampia conoscenza all’interno della magistratura, nonostante le iniziali fortissime resistenze ed i tentativi, in seguito attuati persino con una precipitosa manipolazione della legge elettorale relativa al C.S.M. del 1990 (si veda appresso su questo punto), di tenerci fuori dal C.S.M. stesso e conseguentemente di farci a breve scomparire dalla scena della magistratura associata. Di quel convegno in tanti ricordiamo uno storico intervento di Giovanni Falcone che venne pubblicato su La Repubblica del 9 novembre e che dovrebbe oggi essere ripubblicato. Iniziava così: “Gli italiani non ci vogliono più bene? Per forza: siamo incompetenti, poco preparati, corporativi, irresponsabili. Tende a prevalere, rispetto alla figura del magistrato-professionista, quella del magistrato impiegato…Basta con un’Associazione magistrati che è sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi, basta con le correnti che si sono trasformate in macchine elettorali per il CSM”.
Tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, il Movimento fu oggetto di interesse da parte di molti giovani magistrati “innamorati” della Costituzione che vedevano in tanti modi violentata. Fuor di metafora il Movimento per questi neo magistrati fu la naturale scelta di associazionismo perché costituito da persone che non badavano a sé medesimi, che non parlavano di carriera e di posti, bensì di come inverare la Costituzione e di come servirla al meglio: insomma furono in tanti a scommettere il meglio delle proprie energie sulla scelta “movimentista”, sia pure con fortune alterne.
Alla fine degli anni ‘80, il Movimento iniziò un percorso di comune impegno associativo insieme al gruppo di Proposta ’88, che, nato da una scissione all’interno di Magistratura indipendente per ragioni in qualche modo simili a quelle che avevano indotto i “verdi” a lasciare Unicost, era guidato da Stefano Racheli, Alfonso Amatucci ed altri colleghi. Ad un certo punto, dopo un intenso confronto ed iniziative comuni, i due gruppi decisero di fondersi adottando inizialmente la denominazione “Movimento per la Giustizia – Proposta ‘88”, mutata poco dopo, più semplicemente, in “Movimento per la Giustizia”. La fusione fu seguita in particolare da un primo comitato paritetico provvisorio di cui facevano parte – per il Movimento - Mario Almerighi, Leo Agueci, Gianni Kessler e Ippolisto Parziale. Il conseguente apparentamento elettorale diede ottimi risultati in occasione del rinnovo del CSM nel 1990, di cui parlerò appresso.
Intanto, in un crescendo di impegno diffuso, il Movimento aveva per la prima volta pubblicato un proprio periodico autofinanziato, Impegno per la Giustizia, ovviamente in cartaceo verde. Il primo numero fu quello dell’ottobre/dicembre 1989[3], stampato presso una tipografia romana. Il primo direttore fu Roberto Sciacchitano. Stampa, pubblicazione e diffusione del periodico, come tutte le attività del Movimento ancora oggi, furono autofinanziate[4].
Proprio tra il 1989 e l’inizio del 1990, il Movimento si trovò di fronte al problema che storicamente si presenta per gruppi o movimenti che, nati per fungere da stimolo per le istituzioni di riferimento, devono a un certo punto decidere se andare avanti limitandosi a criticarle e a dare suggerimenti dall’esterno o se concorrere a renderle più trasparenti ed efficienti dell’interno.
Partecipare o no alle elezioni del 1990 per il rinnovo del Csm, dunque, fu l’interrogativo che il Movimento affrontò in un importante congresso nazionale a Milano. Vladimiro Zagrebelsky, io ed altri eravamo contrari. L’assemblea decise diversamente ed ebbe ragione, nonostante il varo in extremis della citata legge elettorale che, introducendo un quorum altissimo di consensi (9%) per accedere all’assegnazione dei posti con metodo proporzionale, intendeva dichiaratamente colpire il nostro neonato gruppo «eretico», impedendone l’accesso al Csm. Ma il Movimento, ormai corpo unico con Proposta ’88, riportò un successo inaspettato, specie tra i giovani magistrati, raggiungendo il 14% circa dei consensi e portando nel Csm ben tre suoi candidati (Alfonso Amatucci, Nino Condorelli e Luigi Fenizia) anche se tra gli eletti non vi fu Giovanni Falcone che, dopo la nascita del gruppo, vi si era dedicato con tutta l’energia che gli impegni di lavoro gli consentivano. Aveva accettato di candidarsi alle elezioni per il rinnovo del Csm ma non fu eletto, nonostante si fosse ben “speso” nella campagna elettorale. Credo che, al di là delle eccellenti qualità degli altri eletti, anche la parte di magistratura che rappresentavamo dimostrò in tal modo la falsità dell’assunto secondo cui chi si impegna strenuamente nel settore dell’antimafia, acquistando notorietà e però rischiando la pelle, diventa per ciò solo popolare e amato da tutti e fa più facilmente carriera. Lo aveva teorizzato, come si sa, Leonardo Sciascia: «I lettori, comunque, prendano atto» – scriveva Sciascia chiudendo il suo celebre attacco ai «professionisti dell’antimafia», pubblicato sul «Corriere della Sera» del 10 gennaio 1987 – «che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso». Si riferiva in quel caso alla nomina di Paolo Borsellino a procuratore della Repubblica di Marsala che il Csm aveva deliberato pochi mesi prima, preferendolo a magistrati con maggiore anzianità ma minor esperienza nel campo delle indagini sulla criminalità mafiosa.
Tornando a Falcone, a quella piccola grande delusione egli reagì con il sorriso ironico e con il distacco proprio dei siciliani colti, fatalisti, abituati a vivere alla giornata e a non meravigliarsi di nulla. Fu probabilmente più forte un’altra successiva sua delusione e anch’io, in questo caso, contribuii alla sua amarezza. Ne voglio spiegare le ragioni che rimandano anch’esse alla visione della giustizia del nostro gruppo.
Era accaduto che alla vigilia del varo della Direzione nazionale antimafia – e subito dopo – altre discussioni divisero noi magistrati: riguardavano appunto Giovanni Falcone. Non posso dire di avere lavorato con lui nel settore dell’antimafia, ma siamo stati molto vicini tra il 1988 e il 23 maggio del 1992, anche lavorando intensamente insieme nel Movimento per la Giustizia, fin quasi alla sua morte.
Ciononostante, in molti non approvavamo il fatto che egli avesse assunto nel marzo del 1991 il ruolo di direttore generale degli Affari penali offertogli dal ministro della Giustizia ad interim Claudio Martelli. Capivamo il suo disagio nel continuare a lavorare nella Procura di Palermo – alla quale nel frattempo era stato trasferito con funzioni di procuratore aggiunto – ormai diretta secondo criteri che non condivideva e che a molti sembravano burocratici: una situazione simile, cioè, a quella che Paolo Borsellino aveva denunciato pubblicamente nel luglio del 1988. E credevamo pure alla sua volontà di dimostrare con i fatti quanto infondato fosse il nostro timore di vederlo ingabbiato e trasformato in testimonial inconsapevole del governo. Ciononostante, avremmo preferito che non avesse accettato quell’incarico: gli scrissi una lunga lettera per spiegare le mie forti perplessità e lui mi rispose mostrandomi amicizia e comprensione. Era come se mi avesse detto: «.. .capisco i vostri timori, ma io sarò più forte di loro... e sarò più utile al paese ed alla magistratura lavorando al ministero piuttosto che ingabbiato a Palermo». Ovviamente ci vedemmo altre volte, ma mai, sul suo volto o nelle sue parole, ho potuto cogliere un solo cenno di risentimento. Elaborò, mentre era al ministero, il progetto di costituzione della Direzione nazionale antimafia (DNA) e delle Direzioni Distrettuali Antimafia (DDA) e anche in questo caso patì qualche critica per la sua originaria impostazione. Il 28 ottobre del 1991 una sessantina di magistrati (tra cui io stesso) sottoscrisse un documento contenente alcune critiche e preoccupazioni : alla luce delle competenze che si volevano attribuire alla DNA, in particolare, era forte il rischio di una centralizzazione delle indagini in tema di mafia e di una sua sostanziale dipendenza dall’esecutivo. Qualcuno ancora oggi, spero senza ricordare o voler capire, considera quell’appello un subdolo attacco a Giovanni. Per smentire questa tesi, basta citare tra le tante firme sotto quel testo quelle di Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto e Gian Carlo Caselli.
Si trattava di critiche, dunque, che nulla avevano a che fare con altre posizioni inaccettabili, come quelle leggibili in una retriva circolare del CSM del 1993 che definiva le DDA come potenziali incrostazioni e centri di potere. Per cambiare quella circolare il Movimento si impegnò in nome della necessità della specializzazione dei saperi.
Ma altre critiche, più personali, piovvero addosso a Falcone quando, approvata la legge istitutiva, si candidò alla carica di procuratore nazionale antimafia: in molti, anche all’interno della nostra corrente, pensavamo che per Giovanni fosse inopportuno proporre domanda per quella carica dopo essere stato l’artefice della legge con cui essa era stata istituita. Io stesso gli scrissi l’8 febbraio del 1982 un’altra lettera di cui conservo copia: gli esprimevo con franchezza le mie riserve pur confermandogli amicizia e stima. Giustamente, Vladimiro Zagrebelsky ha ricordato più volte l’assurdità di quei dubbi diffusi: chi, se non Giovanni Falcone, poteva essere in quel momento il procuratore nazionale antimafia? Ma quelle discussioni finirono forse con il raffreddare i rapporti di Giovanni con il Movimento, pur se quei dubbi non avevano in alcun modo intaccato la nostra stima ed i nostri sentimenti nei suoi confronti.
Comunque, prima che il Csm nominasse il procuratore nazionale, Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, con Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro, furono trucidati dalla mafia. Ricordo precisamente dov’ero, quel 23 maggio 1992, quando appresi della tragedia. Così come lo ricordo per gli annunci dell’assassinio di John Kennedy, dello sbarco del primo uomo sulla Luna e dell’impatto degli aerei sulle Twin Towers.
Tornando al Movimento ed alla mia esperienza professionale e di “militante”, rammento che il gruppo mi chiese la disponibilità a candidarmi per il rinnovo del CSM nel 1994, ma rifiutai per gli assorbenti impegni di lavoro nella Procura di Milano. Quelle elezioni fecero registrare un nostro successo ancora maggiore di quello del 1990 e i nostri rappresentanti in seno al Csm passarono da tre a quattro. Mi impegnai in campagna elettorale accompagnando presso i Tribunali della Lombardia il nostro candidato di spicco, Vladimiro Zagrebelsky, magistrato e studioso di eccezionale livello, eletto insieme a Sergio Lari, Saverio Mannino e Paolo Fiore.
Fu proprio Zagrebelsky, unitamente a Stefano Racheli, a chiedermi di candidarmi nel 1998. Questa volta accettai. Negli anni precedenti, a causa dell’impegno nel settore Antimafia, mi ero anche dimesso dal ruolo di segretario nazionale del Movimento, appena tre mesi dopo esservi stato designato dall’assemblea del gruppo. Avevo sbagliato a pensare di poter esercitare quella funzione in presenza di un impegno professionale così assorbente, sulla cui priorità non ho mai avuto alcun dubbio. Ma nel 1998, avevo ormai esaurito tutti i principali dibattimenti di mafia, potevo sentirmi in pace con la mia coscienza professionale, ero decisamente motivato per un impegno nell’organo di autogoverno e, soprattutto, mi spingeva l’affetto dei tanti colleghi che mi chiedevano di fare quella scelta. In tanti mi accompagnarono in campagna elettorale, presso le sedi giudiziarie della Lombardia, del Trentino, della Toscana, della Sardegna e della Calabria che costituivano il mio collegio elettorale. La «campagna elettorale» fu coinvolgente e ricca di entusiasmo: tanti volti di giovani colleghi che non conoscevo – e le loro attese – mi incoraggiarono facendomi comprendere che il Movimento per la Giustizia era ormai ben radicato nel territorio nazionale. Il successo fu confortante e, soprattutto, era evidente che non eravamo in alcun modo considerati un gruppo elitario da sostenere per ottenere qualcosa in cambio: a dieci anni dalla fondazione del gruppo, come ha scritto Giovanni Tamburino, potevano ormai contare sull’apporto ed i contributi di chi non aveva partecipato a quella fase iniziale, ma si era a noi avvicinato condividendo i nostri programmi e le nostre conseguenti condotte associative, istituzionali e professionali.
Con me, furono eletti altri due “storici” colleghi del Movimento per la Giustizia: Ippolisto Parziale, giudice a Roma ed uno dei maggiori protagonisti della “messa in opera” organizzativa del gruppo, e Gioacchino Natoli, sostituto procuratore della Repubblica a Palermo ove aveva speso molti dei suoi anni di lavoro accanto a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: erano stati per lui i fratelli e maestri che per me erano stati Guido Galli ed Emilio Alessandrini.
Il 31 luglio del 1998, al Quirinale, prestammo giuramento quali componenti eletti del Consiglio superiore della magistratura, stringendo la mano di Oscar Luigi Scalfaro, uno dei presidenti della Repubblica più amati dagli italiani, che era stato magistrato prima di entrare in Parlamento.
Molti magistrati, specie negli ultimi anni, sostengono che l’approdo al Csm costituisca il punto d’arrivo al termine di una carriera associativa a ciò finalizzata. E si dolgono se chi ha svolto attività associativa a livello dirigenziale o è stato componente del Csm transiti poi tra i magistrati fuori ruolo presso il ministero della Giustizia o altri ministeri. Insomma, viene denunciata l’esistenza di una sorta di carriera parallela o alternativa rispetto a quella di chi passa i giorni seduto alle scrivanie di uffici, spesso in condizioni di estrema difficoltà. Talvolta è possibile individuare un fondo di verità in queste impietose valutazioni, ma si scivola nel qualunquismo, a mio avviso, se accuse di questo tipo vengono formulate in modo immotivato e indistinto. Penso, infatti, che le esperienze di molti magistrati possano risultare proficue anche in incarichi ministeriali se si conservano, come spesso ho detto, le caratteristiche di indipendenza e autonomia proprie della nostra professione. Ma penso anche che la vita associativa possa assumere un significato alto ove non comporti disattenzione verso i propri doveri professionali e sia ispirata non da logiche particolaristiche, bensì dai valori e dagli scopi che furono condivisi da quei magistrati che il 13 giugno del 1909 fondarono, a Milano, l’Associazione generale tra i magistrati italiani (Agmi, come allora si chiamava).
Rivendico con un certo orgoglio - e forse con una dose di ingenuità - le ragioni che hanno indotto magistrati appartenenti al Movimento per la Giustizia (e certamente non solo loro) a candidarsi per ruoli elettivi come quelli di componenti del Csm o degli organi direttivi dell’ANM : lo hanno fatto – mi auguro e credo – pensando al CSM e all’Associazione quali organi capaci di difendere la dignità e l’indipendenza assoluta dei magistrati, ma contemporaneamente attenti alla tutela dei diritti dei cittadini. Credo che il Movimento per la Giustizia non abbia mai pensato all’ANM come l’organo di rappresentanza di una «corporazione» o come un «sindacato delle toghe», una definizione, come ha detto giustamente Giuseppe Berruti, componente del Csm nel quadriennio 2006-2010, che è già un modo per intaccarne l’autorevolezza.
Ricordo molte cose belle ed interessanti della mia esperienza al CSM da cui molto ho appreso, ma c’è un episodio che non dimenticherò: vivevamo il difficile periodo in cui Ministro della Giustizia era Roberto Castelli che l’l marzo del 2002 fece una rapida apparizione a Salerno, dove era in corso il XXVI Congresso nazionale dell’Anm su Tempi e qualità della giustizia. Castelli arrivò nell’affollato salone e prese posto in prima fila, giusto pochi minuti prima che prendesse la parola Nello Rossi, il collega consigliere di Magistratura democratica che, con la sua consueta capacità oratoria e con puntualità di argomenti, ebbe modo di elencare al ministro le ragioni di delusione e preoccupazione della magistratura italiana. Castelli parlò subito dopo di lui, suscitando con le sue parole accentuati mormorii e proteste. Immediatamente dopo, mentre come membro del CSM mi accingevo anche io a salire sul palco per il mio intervento, lasciò la sua poltrona in prima fila e abbandonò i lavori congressuali. Il fatto non mi sconvolse più di tanto ed anzi acuì la mia vis oratoria. Parlai, così, rivolto a quella poltrona vuota in prima fila, quasi si trattasse di un preordinato colpo di teatro: «Prendo atto, preliminarmente, che il ministro della Giustizia, appena terminato il suo intervento, sta abbandonando il convegno: è il suo modo di mostrarsi disposto al dialogo, interventi ‘mordi e fuggi’, senza attribuire alcun rilievo alle opinioni altrui. Parlerò, dunque, alla sua poltrona vuota, pregando i presenti di non occuparla». Dopo avere elencato i guasti prodotti dalle leggi varate in quei mesi, ricordai le critiche che piovevano addosso all’Italia da ogni parte d’Europa e, sempre fissando la sua sedia vuota, chiesi al ministro se pensasse davvero che l’Europa fosse popolata di toghe rosse e di nemici dell’Italia. «State portando il paese verso l’oscurantismo giudiziario», conclusi.... Il Ministro non c’era, ma forse sapeva quale era la posizione del Movimento che in quell’occasione esposi in nome dell’intera magistratura.
*Prima parte della Relazione tenuta al corso - “Storia della magistratura e dell’Associazionismo” per la SSM a Scandicci 3/5 ottobre 2022 nella Quarta sessione: “Le Correnti dell’ANM dai programmi ai segni della crisi: una prospettiva storica”. La seconda e la terza parte saranno pubblicate nei prossimo giorni.
**Armando Spataro è stato uno dei fondatori del Movimento per la Giustizia nel 1988. Questo intervento contiene riflessioni ed ampi brani in parte già pubblicati in un suo libro (Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e Mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa, Laterza, 2010), nonché in interviste ed articoli vari, tra cui quelli pubblicati su Giustizia Insieme, Questione Giustizia, I diritti dell’uomo, Politica del Diritto e in relazioni predisposte per Corsi di aggiornamento della SSM. Vengono anche riportati, con l’assenso degli autori, brani tratti da due interventi di Giovanni Tamburino e Vito D’Ambrosio, pubblicati sulla rivista “Giustizia Insieme” 0/2008, in occasione del ventennale della fondazione del Movimento per la Giustizia. Anche ogni più limitata citazione di interventi ad altri attribuibili, comunque, è qui riportata con l’assenso dei rispettivi autori. Va precisato, infine, che – ai fini della redazione del presente documento – sono risultati utili i suggerimenti di altri vari “storici” appartenenti al Movimento per la Giustizia – Art. 3.
Durante il suo intervento a Scandicci (SSM), l’autore – secondo lo schema previsto anche per gli altri tre relatori (Mario Cicala per Magistratura Indipendente; Wladimiro De Nunzio per Unità per la Costituzione e Vittorio Borraccetti per Magistratura Democratica) - è stato intervistato da Antonella Magaraggia, co-fondatrice e già Presidente del Movimento per la Giustizia.
[1] Va qui citato “Cento anni di Associazione magistrati”, a cura di Edmondo Bruti Liberati e Luca Palamara (Ipsoa, Milano 2009), distribuito dall’Anm in occasione del centenario della sua fondazione, celebrato a Roma, alla presenza del capo dello Stato e di altre alte autorità, il 25 giugno del 2009. Nel libro, vi è anche descritta la storia delle correnti dell’Associazione, in buona parte analizzata anche nell’intervento di Giovanni Mammone (1945-1969. Magistrati, Associazione e correnti nelle pagine de «La Magistratura»).
[2] Nel sito web del Movimento per la Giustizia, si può leggere comunque uno storico volantino scritto tra il 1984 ed il 1988, cioè nel periodo in cui il gruppo allora dei "Verdi" era ancora nella corrente di Unità per la Costituzione, che cercava di cambiare dall'interno. Vi si possono rinvenire le linee-guida di un'idea della giustizia – fatta propria dal Movimento - che ancora oggi appassiona perché spinge ad esaminarne i problemi nell'ottica e nell’interesse del cittadino, non del magistrato.
[3] Autorizzazione del Tribunale di Roma del 7 giugno 1989.
[4] Attualmente la “quota sociale” versata dagli iscritti ammonta a 12,00 euro mensili (144,00 euro annuali).
Sul rapporto tra controllo giudiziario ad esito favorevole e aggiornamento dell’informativa anti-mafia (nota a Consiglio di Stato sez. III, 16 giugno 2022, n. 4912)
di Giovanni Botto
Sommario: 1. premessa - 2. La vicenda contenziosa - 3. La decisione del Consiglio di Stato - 4. Alcune considerazioni sul primo ‘ciclo’ di relazioni - 5. Il secondo ciclo di relazioni - 6. Considerazioni a carattere conclusivo.
1. premessa
Il tema delle misure di prevenzione, penali ed amministrative, poste in campo dal legislatore statale al fine di preservare le pubbliche amministrazioni, e non solo, dal contrarre rapporti giuridici con imprese a rischio d’infiltrazione mafiosa, impegna ormai da lungo tempo la giurisprudenza e la dottrina più rilevanti, cui è spettato l’onere di far emergere i nodi critici della normativa in questione, nonché di indirizzare il legislatore verso le riforme necessarie a garantirne l’organicità, l’effettività e la ragionevolezza (e la proporzionalità).
Proprio quest’ultime, in effetti, paiono essere le principali ‘leve’ di una discussione che si è incentrata sull’equilibrio tra il necessario raggiungimento degli obiettivi preventivi, rispetto ad un fenomeno notoriamente pervasivo e radicato dal punto di vista sociale e territoriale – quale quello mafioso – ed il rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza che necessariamente guidano il potere pubblico ove quest’ultimo operi limitazioni alle libertà fondamentali dei privati, nel caso in questione alla libertà d’iniziativa economica delle imprese interessate a contrarre con le pubbliche amministrazioni[1]. Non si può non notare, inoltre, l’importanza che tale equilibrio ricopre nell’attuale quadro politico e normativo, che vede le istituzioni impegnate nel difficile ed esiziale rispetto delle scadenze imposte dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (c.d. “PNRR”). Il rischio, in questo panorama, è duplice e speculare: d’un canto, è di primaria importanza difendere le ingentissime risorse pubbliche a disposizione dalle possibili ingerenze della criminalità organizzata, d’altro canto, è necessario evitare che la prevenzione risulti in una paralisi del sistema economico, con conseguente dilatazione dei tempi utili al raggiungimento degli obiettivi di ripresa.
Se il binomio fondamentale, dunque, è quello costituito dai fattori dell’effettività e della proporzionalità – con tutti corollari che da essi dipendono – l’aspetto più critico è ed è stato quello dell’organicità della regolazione. Un problema, quest’ultimo, legato alla complessa strutturazione della disciplina, costituita da due distinte forme di prevenzione – quella penale e quella amministrativa – dapprima rigidamente separate e, successivamente, vieppiù comunicanti.
Molte e articolate sono le questione derivanti da detta necessaria comunicanza, tanto che la stessa pronuncia in commento[2] fa efficacemente riferimento a diversi ‘cicli’ di relazioni tra il provvedimento amministrativo prefettizio a carattere interdittivo (e il suo sindacato da parte del giudice amministrativo) e il procedimento condotto dal giudice della prevenzione penale, il controllo giudiziario[3].
A scopo chiarificatorio, pare utile delineare alcuni tratti essenziali dell’attuale normativa sulla prevenzione dell’infiltrazione mafiosa nelle imprese, per poi passare all’analisi del particolare ‘ciclo’ di relazioni di cui alla sentenza chi ci si propone di annotare.
A seguito della novella del 2021[4] con la quale il Legislatore ha introdotto, sul versante amministrativo, il nuovo istituto della c.d. “prevenzione collaborativa”, è possibile affermare che sia nella prospettiva della prevenzione amministrativa, sia in quella della prevenzione penale, la distinzione che assume valenza dirimente è quella sussistente tra i casi d’infiltrazione mafiosa c.d. “strutturata” e quelli di infiltrazione c.d. “occasionale”.
Tale distinzione, come noto, era già rilevante ai fini della prevenzione penale, che può estrinsecarsi nella forma dell’Amministrazione giudiziaria, nei casi di infiltrazione strutturata, o nella forma del controllo giudiziario, nei casi caratterizzati dall’occasionalità del rischio infiltrativo.
Oggi, tuttavia, detta ripartizione ha acquisito pregnanza anche ai fini della prevenzione amministrativa, che viene dunque a scindersi nei due istituti dell’interdittiva, per le situazioni più gravi, e della prevenzione collaborativa, per le infiltrazioni occasionali.
La novella presenta conseguenze di non poco momento – anche con riferimento alle questioni trattate dalla sentenza in parola – poiché interviene sui rapporti tra prevenzione amministrativa e penale e sulla stessa necessità di quel ‘ponte’ normativo – il controllo giudiziario su richiesta – che ha rappresentato, fino ad ora, la soluzione delle principali problematiche relazionali tra le due diverse forme di prevenzione.
Il controllo giudiziario su richiesta origina, infatti, dall’esigenza di evitare l’effetto paradossale derivante dalla diversa decisione del giudice della prevenzione e del Prefetto in relazione al pericolo di infiltrazione. È capitato, infatti – quando vigeva esclusivamente l’istituto del controllo giudiziario tout court – che uno stesso imprenditore, colpito dal provvedimento interdittivo prefettizio – il cui esito presenta effetti sostanzialmente esiziali per l’impresa – non fosse ammesso all’istituto del controllo giudiziario, unico strumento utile alla sospensione dell’interdittiva, per insufficienza degli elementi comprovanti il pericolo d’infiltrazione. Come è stato posto in evidenza dalla dottrina[5], ciò si deve al diverso metro di giudizio dei soggetti pubblici coinvolti, quello del “più probabile che non” messo in campo dalla Prefettura, e quello dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio” utilizzato dal giudice penale. Le conseguenze di questa discrasia metodologica hanno indotto il Legislatore a intervenire con l’introduzione del comma 6 dell’art. 34-bis del D. lgs. n. 159/2011[6], disponendo il c.d. “controllo giudiziario a domanda”, che – come si diceva – funziona da ponte tra la misura interdittiva e l’istituto penale del controllo giudiziario. La novità risiede nella possibilità per l’imprenditore attinto dall’informazione antimafia di richiedere, sulla sola base di tale presupposto, l’applicazione del controllo giudiziario «così da risultare preclusa la possibilità di negare addirittura la misura ove si ritenga inesistente, con gli standard probatori propri del giudizio penale di prevenzione, quello stesso pericolo di infiltrazione che, invece, l’organo amministrativo ha affermato, sia pure sulla base di un diverso parametro di giudizio, in dimensione prospettica, attraverso una lettura prognostica delle informazioni acquisite»[7].
Come autorevolmente sottolineato, detto istituto ponte potrebbe oggi non essere più necessario dal punto di vista organico, in ragione del fatto che attualmente «se l’informativa è emessa è perché il Prefetto ha valutato il rischio infiltrativo come permanente e non già come occasionale. La domanda di controllo giudiziario proposto dall’imprenditore al Tribunale della prevenzione penale è dunque tesa a “criticare” l’informativa, non più a dimostrarne la mera sussistenza quale condizione di accessibilità alla misura del controllo giudiziario»[8]. Questo l’effetto, si può dire, della prevenzione collaborativa di novella introduzione.
Quanto detto al fine di evidenziare come la materia in questione rappresenti il risultato di un complesso mosaico normativo in cui l’aggiunta o l’elisione di un qualsiasi tassello è capace di modificare l’assetto dell’intero disegno. I diversi cicli relazionali – seguendo la terminologia del Consiglio di Stato – sono molteplici ed in continua evoluzione. Di qui l’esigenza di un intervento legislativo che, sulla scorta dell’apporto giurisprudenziale e dottrinale sul tema, ridefinisca in maniera organica la disciplina in questione.
La sentenza in comento, si occupa di un particolare ciclo relazionale – quello relativo al rapporto tra il controllo giudiziario conclusosi favorevolmente e l’aggiornamento[9] dell’informazione antimafia – sul quale, limitatamente ai profili del momento dell’aggiornamento e del soggetto ad esso preposto, si è recentemente espresso anche il T.A.R. Sicilia. Nel caso di specie, tuttavia, si aggiunge la questione dell’influenza dell’esito positivo del controllo sul provvedimento amministrativo di aggiornamento.
2. La vicenda contenziosa
La vicenda fattuale rimessa al vaglio del Consiglio di Stato è alquanto tipica: un’impresa, attinta da informazione interdittiva antimafia, veniva ammessa al controllo giudiziario a sensi dell’art. 34-bis d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159. L’interdittiva veniva dunque sospesa e l’impresa riacquisiva la capacità giuridica[10] persa, pur rimanendo soggetta al controllo dell’amministrazione giudiziaria.
A conclusione del periodo biennale di sottoposizione al controllo, il Tribunale di Catanzaro, sulla scorta delle conclusioni positive dedotte nelle relazioni dell’amministratore giudiziario, non riteneva necessario procedere alla proroga della misura. Il controllo giudiziario, dunque, si concludeva con esito favorevole all’impresa, avendo ritenuto il giudice che le azioni poste in essere dall’impresa fossero adeguate ad eliminare il rischio infiltrativo.
Nondimeno, la Prefettura di Catanzaro – a seguito della richiesta di aggiornamento presentata dalla società - riteneva di confermare l’interdizione. La decisione si basava essenzialmente su alcuni rapporti contrattuali intercorsi tra la società ricorrente e soggetti segnalati come controindicati.
Avverso l’atto confermativo della Prefettura, la società interdetta ricorreva al T.A.R. Calabria che accoglieva il ricorso, avendo ritenuto gli elementi indizianti apportati a sostegno della decisione non sufficienti a dimostrare il pericolo delle infiltrazioni. In particolare, a detta del giudice di prime cure, il provvedimento sarebbe stato viziato dalla mancata considerazione degli elementi positivi emersi dalla conclusione del controllo giudiziario. Il Prefetto, dunque, avrebbe mancato di attualizzare la sua valutazione, confermando l’interdittiva sulla base della mera ripetizione acritica delle sue ragioni iniziali[11].
Contro la sentenza di primo grado ha proposto gravame il Ministero dell’Interno, mettendo in luce come non si possa postulare che la pronuncia del giudice della prevenzione penale produca un accertamento vincolante, con efficacia di giudicato, sul rischio di infiltrazione dell’impresa da parte della criminalità organizzata. L’appello del Ministero, inoltre, eccepiva la contraddittorietà della decisione del giudice di primo grado, che «da un lato richiede l’attualizzazione degli elementi sintomatici del pericolo di infiltrazione mafiosa, non ritenendo sufficienti i dati fattuali che siano antecedenti al periodo di controllo giudiziario, dall’altro, non ritiene rilevanti, ai fini del quadro indiziario posto a base del provvedimento di diniego, i rapporti contrattuali avvenuti nel contesto ‘garantito’ del controllo giudiziario»[12].
L’impresa soggetta ad interdizione, costituitasi a sua volta in giudizio, affermava che «se è vero che l’esito favorevole del controllo giudiziario non osta a che il Prefetto emani nuovo provvedimento interdittivo, è pur vero che lo stesso non può essere sorretto dalla passiva, acritica e stereotipata ripetizione degli elementi ritenuti di rischio già considerati, ma deve essere sostenuto (anche) da ulteriori fattori di controindicazione che convincono della persistenza, concretezza ed attualità del pericolo infiltrativo, nonostante il controllo giudiziario»[13].
In buona sostanza, dunque, l’impresa lamenta che, pur nella consapevolezza che i due procedimenti, penale ed amministrativo, sinao sostanzialmente separati, non è comunque ammissibile che le risultanze del controllo giudiziario ad essa favorevoli non vengano tenute in debito conto e che prevalenza venga data ad elementi indiziari ritenuti irrilevanti dal giudice penale quali i rapporti contrattuali dedotti dalla Prefettura nel caso di specie.
Il tema, a bene vedere, non è tanto la valenza dell’esito positivo del controllo giudiziario nel procedimento di aggiornamento dell’interdittiva, discorso ormai pacificamente risolto dalla giurisprudenza, quanto quello di una decisione confermativa dell’interdizione sulla base di elementi, in questo caso le vendite di immobili a soggetti controindicati, che il giudice penale non ha ritenuto rilevanti e che, invece, la Prefettura ha ritenuto dirimenti.
La questione, in effetti, è alquanto spigolosa poiché l’impresa, non più soggetta al controllo giudiziario, ritenuto non più necessario dal giudice penale, ritorna ad essere assoggettata al regime dell’interdittiva antimafia.
3. La decisione del Consiglio di Stato
Il giudice d’appello – definito correttamente l’oggetto della controversia come «questione in cui è in rilievo il rapporto tra controllo giudiziario a domanda, conclusosi favorevolmente per il sottoposto, e valutazioni successive del Prefetto ai fini dell’aggiornamento dell’informativa antimafia»[14] - procede ad individuare i due principali cicli di relazioni che possono intercorrere tra le forme della prevenzione penale antimafia e la prevenzione amministrativa.
Il primo ciclo di relazioni, evidentemente, è quello tra «tra informativa (e suo sindacato) e controllo giudiziario conseguente all’informativa»[15]. A tal proposito, il Collegio richiama una serie di precedenti, propri e della Corte di cassazione, ricordando che «pretendere di sindacare la legittimità del provvedimento prefettizio alla luce delle risultanze della (successiva) delibazione di ammissibilità al controllo giudiziario, finalizzato proprio ad un’amministrazione dell’impresa immune da (probabili) infiltrazioni criminali, appare operazione doppiamente viziata: perché inevitabilmente diversi sono gli elementi (anche fattuali) considerati - anche sul piano diacronico - nelle due diverse sedi, ma soprattutto perché diversa è la prospettiva d’indagine»[16]. Ancora, si legge sempre con riferimento ai rapporti tra valutazione svolta ai fini dell’ammissione al controllo giudiziario a domanda e sindacato sulla valutazione prefettizia: «a) il Giudice penale deve considerare l’informativa antimafia quale presupposto insindacabile del giudizio; b) il Giudice amministrativo deve considerare il controllo giudiziario quale parentesi che dinamicamente tende all’emenda dell’imprenditore, e che non refluisce sul sindacato “statico” sull’informativa a suo tempo emessa, da esercitare alla luce del quadro istruttorio al tempo “fotografato” e vagliato dal Prefetto»[17].
La questione oggetto della sentenza in commento, tuttavia, afferisce ad un secondo ciclo di relazioni, ossia a quello tra controllo giudiziario conclusosi favorevolmente, e le successive valutazioni dal Prefetto in sede di aggiornamento dell’informativa.
Il Collegio riflette sulla particolare delicatezza ricoperta da questo rapporto, individuabile nella duplice funzione, cautelativa (per l’imprenditore attinto dal provvedimento interdittivo) e bonificante (rispetto a futuri rischi infiltrativi), svolta dal controllo giudiziario a domanda.
Proprio tale funzione bonificante fa sì che gli esiti del controllo giudiziario non possano considerarsi del tutto irrilevanti ai fini della successiva valutazione del Prefetto. Di talché, un provvedimento che confermasse l’interdittiva senza tenere in alcuna considerazione lo svolgimento del controllo giudiziario non potrebbe che risultare viziato per eccesso di potere.
Ciononostante, da quanto detto non deriva alcun vincolo automatico per la Prefettura che può legittimamente ritenere sulla base della globale valutazione degli elementi a sua disposizione, alcuni dei quali peraltro difficilmente conoscibili dall’amministratore giudiziario, che l’impresa in questione non sia stata effettivamente bonificata e che un rischio infiltrativo continui a persistere.
Del tutto legittimo dunque il provvedimento che, nonostante l’esito positivo del controllo giudiziario, vada a confermare, al termine del doveroso procedimento di aggiornamento, l’informazione antimafia, ciò «purché ne dia compiuta e concludente evidenza in sede motivazionale e non manchi di ponderarli con il percorso compiuto dall’imprenditore in costanza del controllo giudiziario, da valutare anche alla luce della storia del medesimo e delle ragioni del primigenio sorgere del rischio infiltrativo»[18].
Nel caso di specie, il Collegio ha ritenuto più che sufficiente la motivazione approntata dal Prefetto e, conseguentemente, ha rigettato il ricorso.
4. Alcune considerazioni sul primo ‘ciclo’ di relazioni
Appare evidente che l’esigenza più sentita in tema di normativa antimafia sia quella della coerenza sistematica; il mosaico di regole delineato dal Legislatore è estremamente complesso e costringe spesso gli interpreti a notevoli sforzi ermeneutici al fine di mantenere la coerenza e la ragionevolezza della loro interpretazione.
Non stupisce, infatti, che la copiosa giurisprudenza in materia si focalizzi frequentemente sulla ratio delle diverse norme che si intersecano in questo crocevia di tutele, tentando di riportarle – per quanto possibile – a fattor comune.
La stessa sentenza in commento non si esime dallo svolgere considerazioni sul punto, partendo – al fine di definire la specifica questione oggetto di controversia – dalla distinzione concettuale che sussiste tra le valutazioni amministrative (ed il loro sindacato da parte del giudice amministrativo) e quelle svolte in sede penale. Non si può negare, in effetti, che la comprensione di questo primo ciclo di relazioni tra le normative in questione sia dirimente al fine di risolvere le problematiche afferenti all’altro ciclo, ossia a quello riguardante il riesame dell’atto prefettizio a seguito di controllo giudiziario.
Il tema, per l’appunto, è stato recentissimamente oggetto di due identiche ordinanze[19] del Consiglio di Stato con le quali la Sezione ha rimesso la decisione – ai sensi dell’art. 99 c.p.a. – all’Adunanza Plenaria. La questione, in questo caso, riguarda la necessità o meno di sospendere il giudizio amministrativo sull’interdittiva antimafia ogni qual volta l’impresa attinta acceda al controllo giudiziario.
Tali ordinanze risultano interessanti anche ai fini della tematica oggetto del presente contributo poiché, ricapitolando i diversi orientamenti giurisprudenziali inerenti alla sospensione del giudizio e affermando una propensione – sulla base dell’assunto che vede le valutazioni svolte nelle due sedi come intrinsecamente diverse e separate – per l’orientamento che nega la possibilità di sospendere o di rinviare il giudizio, affermano pure che «Il provvedimento positivo emesso dal Tribunale della prevenzione all’esito del controllo giudiziario si esprime sulle sopravvenienze rispetto alle interdittive e dunque: da un lato, non incide sull’esito del giudizio amministrativo che risulti ancora pendente (avente per oggetto la legittimità dell’interdittiva, da esaminare tenendo conto degli elementi sussistenti al momento dell’interdittiva). Dall’altro, non può che rilevare in sede procedimentale, quando l’impresa formuli al Prefetto una istanza di riesame»[20].
In altri e più chiari termini, il controllo giudiziario ed i suoi esiti rappresentano elementi estranei al giudizio sulla legittimità dell’interdittiva, poiché rientrano tra le sopravvenienze successive alla medesima. La ragione di ciò risiede nel fatto che il provvedimento interdittivo “fotografa” la situazione di una determinata impresa in un certo momento nel tempo, ritenendola passibile di infiltrazioni mafiose; tale provvedimento dunque si rivolge sempre al passato ed il giudizio svolto dal giudice amministrativo sulla sua legittimità non può che guardare al tempo in cui è stato adottato, a nulla rilevando le sopravvenienze successive. Il fatto che un’azienda ritenuta a rischio dalla Prefettura sia stata successivamente “bonificata” tramite controllo giudiziario non implica l’illegittimità del precedente provvedimento interdittivo. Al più, ciò deporrà a favore del buon funzionamento del controllo svolto dall’amministratore giudiziario.
Da tale impostazione, la terza Sezione del Consiglio di Stato – pur rimettendosi alla Plenaria – deriva l’erroneità dell’orientamento che riteneva necessario sospendere il giudizio amministrativo sull’interdittiva in pendenza di controllo giudiziario.
Non meno interessante, però, è ciò che si può derivare sul versante del secondo ciclo di relazioni.
5. Il secondo ciclo di relazioni
Con riferimento al secondo ciclo relazionale, ossia – come si è più volte detto – quello intercorrente tra l’esito positivo del controllo giudiziario e il successivo riesame prefettizio[21], gli esiti sortiti dal controllo in sede penale devono certamente refluire in sede di aggiornamento del provvedimento interdittivo, sebbene in maniera non vincolante.
Il procedimento di aggiornamento, infatti, rappresenta un tassello fondamentale della normativa in oggetto, permettendo di bilanciare le esigenze della prevenzione antimafia con i diritti fondamentali di rango costituzionale da esso incisi, quale – ad esempio – la libertà di iniziativa economica sancita dall’articolo 41 della Costituzione. La provvisorietà intrinseca dell’informazione interdittiva è essenziale al fine del rispetto dei principi di legalità e di tassatività intesi sia in senso formale, sia in senso sostanziale[22].
Ciò che risulta fondamentale è che l’aggiornamento dell’interdittiva sia fondato sulla valutazione degli elementi intervenuti a seguito del provvedimento originario. Se il giudizio amministrativo sull’interdittiva emessa riguarda solamente la legittimità dei presupposti al momento della sua adozione, il suo riesame – affinché possa effettivamente svolgere il ruolo di garanzia affidatogli – deve tenere da conto il mutamento di quel quadro indiziario globale che aveva condotto la Prefettura alla valutazione della presenza di un rischio infiltrativo, sulla base del paradigma cognitivo del “più probabile che non”. Come afferma il T.A.R. Napoli «l’attualità del quadro indiziario, da cui trarre la sussistenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa, permane fino all’intervento di circostanze nuove, ulteriori rispetto ad una precedente valutazione di presenza di tentativi siffatti, che evidenzino il venir meno della situazione di pericolo»[23] e il rischio d’infiltrazione può considerarsi venuto meno «per il sopraggiungere di fatti positivi, idonei a dar conto di un nuovo e consolidato operare dei soggetti a cui è stato ricollegato il pericolo, che persuasivamente e fattivamente dimostri l’inattendibilità della situazione rilevata in precedenza»[24].
Da quanto detto derivano alcune considerazioni. In primo luogo, non si può negare che tra le sopravvenienze rilevanti ai fini dell’aggiornamento prefettizio debba considerarsi l’esito positivo del controllo giudiziario, tant’è che lo stesso Consiglio di Stato lo afferma sia nella sentenza in commento, sia nelle recenti ordinanze di cui supra, ove suggerisce che «si potrebbe considerare sussistente un obbligo del Prefetto di provvedere sulla istanza di riesame, dovendo avere rilevanza la sopravvenienza tenuta in considerazione dal legislatore (la conclusione positiva del controllo giudiziario)»[25]. Affermazioni di questo genere, peraltro, paiono corroborare l’idea che l’esito positivo di detto controllo non solo sia rilevante, ma debba anche avere un certo peso nella rivalutazione del Prefetto.
In secondo luogo – e come si è già detto – dall’esito del controllo giudiziario non deriva alcun vincolo per il Prefetto che ben potrà confermare il provvedimento interdittivo. Ciò pare ragionevole sulla scorta di quanto detto fino a questo momento. Prevenzione amministrativa e prevenzione penale – ancorché comunicanti – sono essenzialmente diverse, anche in relazione all’oggetto delle loro valutazioni. Diverse sono anche le autorità competenti e – conseguentemente – gli elementi indiziari e conoscitivi a disposizione. A tal proposito, la sentenza in commento ci ricorda che anche se «il controllo giudiziario è idoneo a creare un ambiente di impresa e di relazioni commerciali “garantito”, caratterizzato dal controllo analitico dell’amministratore sugli atti di disposizione […] Potrebbero tuttavia verificarsi vicende non facilmente intercettabili dall’amministratore giudiziario in quanto destinate a muoversi sul piano dei rapporti personali dell’imprenditore e degli ambienti familiari e sociali nel quale egli opera»[26]; inoltre l’informativa è frutto «di una visione ampia che ingloba anche la storia dell’imprenditore, i suoi legami passati e le pregresse vicende, nei limiti in cui esse siano ancora significative e portatrici di un potenziale pregiudicante ancora provvisto di riverberi attualità»[27].
In terzo luogo tuttavia – e ciò pare meritevole di essere sottolineato – se, d’un lato, si riconosce la pregnanza dell’esito positivo del controllo giudiziario come sopravvenienza oggetto di necessaria valutazione da parte del Prefetto e, d’altro lato, si conferma la libertà di quest’ultimo di riconfermare l’interdittiva qualora – a seguito di una valutazione globale della storia dell’imprenditore che tenga conto anche dei fatti sopravvenuti – ritenga ancora attuale il rischio infiltrativo, diviene assolutamente fondamentale l’aspetto motivazionale del provvedimento amministrativo confermativo. Se si vuole evitare che l’atto amministrativo in questione risulti viziato per eccesso di potere, è necessario che la sua motivazione dia debitamente conto delle ragioni concrete che – nonostante la valutazione positiva dell’amministratore giudiziario – non permettono di fugare i dubbi dell’Autorità amministrativa[28].
La centralità dell’apparato motivazionale del provvedimento amministrativo di conferma dell’interdittiva – che si ricorda essere un provvedimento autonomo fondato su di una nuova ed attualizzata valutazione dei presupposti dell’informativa – sta emergendo sempre più chiaramente in giurisprudenza. Sia sufficiente il riferimento alla recentissima decisione del T.A.R. Bari[29], ove il giudice amministrativo di prime cure – fatti propri i principi espressi dalla sentenza oggetto del presente commento – ha accolto il ricorso presentato dall’impresa attinta dal provvedimento interdittivo, nonostante l’esito positivo del controllo giudiziario. L’accoglimento è stato fondato interamente sul difetto di motivazione[30] del provvedimento prefettizio che non avrebbe preso in considerazione – se non in via del tutto formale – gli elementi riportati nella relazione dell’amministratore giudiziario.
Il fatto che il giudice amministrativo stia dimostrando – nonostante la notevole vis attrattiva delle istanze preventive in un ambito sentito e delicato quale quello della lotta alla criminalità organizzata – un notevole attenzione a non cadere in facili atteggiamenti di deferenza rappresenta – quantomeno a parere di chi scrive – un segnale importante. L’effettività e l’efficienza del sistema amministrativo di prevenzione dipendono in gran parte dalle sue ragionevolezza e proporzionalità.
6. Considerazioni a carattere conclusivo
Gli orientamenti esposti fino a questo momento relativamente ai diversi, separati, eppur comunicanti, cicli relazionali tra gli istituti giuridici coinvolti, paiono sostanzialmente convincenti poiché riescono nell’impresa di mantenere – operando anche una ricostruzione finalistica degli istituti stessi – la coerenza del sistema nel suo complesso.
Tuttavia, è da considerare che la riforma del 2021, la quale – come si è anticipato in premessa – ha introdotto anche nel sistema delle prevenzione amministrativa un doppio binario fondato sulla distinzione tra infiltrazione occasionale e strutturata – cui corrispondono rispettivamente le misure della prevenzione collaborativa e dell’informazione interdittiva – ha nuovamente complicato il quadro d’insieme.
Come si è detto, in primo luogo, si pone un problema in relazione al perdurare della necessità del c.d. “ponte” costituito dal controllo giudiziario a domanda. La questione non è di poco momento rispetto a quanto si è in precedenza descritto, dal momento che si pone il rischio – vista la valutazione di occasionalità o meno che la Prefettura è oggi tenuta ad effettuare in via preliminare – di trasformare la valutazione del giudice penale in sede di controllo giudiziario in una critica ai presupposti dell’informativa[31], modalità estranea a quanto si è cercato di delineare fino a questo punto.
In secondo luogo, poi, un problema si pone certamente in sede di aggiornamento dell’interdittiva a seguito di controllo giudiziario positivamente conclusosi; a seguito della riforma, come si diceva, la Prefettura che adotti il provvedimento interdittivo effettua non più una generica valutazione di rischio, ma deve giudicare il rischio come non meramente occasionale. Ebbene, il controllo giudiziario – a sua volta – si basa su una valutazione di occasionalità del pericolo infiltrativo, da cui il problema che si accennava. Di talché, in sede di aggiornamento dell’informativa per esito positivo di detto controllo, il Prefetto che riconfermasse la necessità del provvedimento interdittivo non si limiterebbe più ad affermare la generica e sufficiente presenza – sulla base dei suoi particolari criteri di valutazione – di un rischio infiltrativo non eliminato dalla bonifica dell’amministratore giudiziario, ma dovrebbe affermare la persistenza di un rischio infiltrativo “strutturato” a fronte di un controllo giudiziario – di per sé già basato su una valutazione di occasionalità del rischio – conclusosi favorevolmente per l’impresa e che, dunque, ha ritenuto non più sussistente – sempre secondo i suoi diversi canoni di giudizio – alcun pericolo, nemmeno occasionale.
Ebbene, se prima della riforma, la riconferma del provvedimento interdittivo poteva facilmente giustificarsi sulla sola base delle differenze tra la cognizione svolta in sede penale ed amministrativa, in ragione del fatto che le due diverse modalità di valutazione ben potevano portare la Prefettura a ritenere presente un rischio occasionale invece escluso dall’amministratore giudiziario, oggi, successivamente alla riforma del 2021, potrebbe discutersi della possibilità per l’autorità prefettizia di confermare un provvedimento interdittivo – che dovrebbe basarsi sull’accertamento di un rischio strutturato – a suo tempo sospeso dall’ammissione dell’impresa al controllo giudiziario conclusosi positivamente, e dunque con una valutazione di assenza di pericolo, anche occasionale.
Nel contesto che si è descritto – con ogni probabilità – la chiave di volta del sistema dovrebbe risiedere – oltre che nella pregnanza della motivazione prefettizia – nel garantire la massima partecipazione possibile delle imprese al procedimento di riesame dell’interdittiva, di modo che il potere esercitato dalla Prefettura – eventualmente sfavorevole al suo destinatario – possa fondarsi su elementi consistenti assunti nel pieno contraddittorio procedimentale[32].
[1] Sul tema della proporzionalità della misura interdittiva si è espressa la Corte costituzionale in Corte cost., 18 gennaio 2018, n. 4, e in Corte. Cost., 26 marzo 2020, n. 57, ove si afferma che «Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 89-bis e 92, commi 3 e 4, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, censurati per violazione degli artt. 3 e 41 Cost., in quanto estendono gli effetti della informazione antimafia interdittiva agli atti funzionali all’esercizio di una attività imprenditoriale puramente privatistica, così privando un soggetto del diritto di esercitare l’iniziativa economica, ponendolo nella stessa situazione di colui che risulti destinatario di una misura di prevenzione personale applicata con provvedimento definitivo. La risposta amministrativa non si può ritenere sproporzionata rispetto ai valori in gioco, la cui tutela impone di colpire in anticipo il grave e persistente fenomeno mafioso, anche tenuto conto del carattere provvisorio della misura. L’efficacia immediata del provvedimento è poi connaturata ai provvedimenti amministrativi, e alla stessa si può comunque porre rimedio in sede giurisdizionale con una pressoché immediata sospensione nella fase cautelare». La sentenza presenta l’autorevole nota di F.G. Scoca, Adeguatezza e proporzionalità nella lotta “anticipata” alla mafia, in Giurisprudenza costituzionale, 2020, 2. Sul punto si richiamano anche F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in Giustamm., 2018, 6; A. Longo La Corte costituzionale e le informative antimafia. Minime riflessioni a partire dalla sentenza n. 57 del 2020, in Nomos, 2020, 2; R. Rolli, M. Maggiolini, Interdittiva antimafia e questioni di legittimità costituzionale (nota a ord.za TAR - Reggio Calabria, 11 dicembre 2020, n. 732), in Giustiziainsieme, 2020. Si richiama anche al recentissima sentenza Corte Cost., 8 luglio 2022, n. 180, ove si tratta il tema – legato a quello della proporzionalità – della legittimità dell’art. 92 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, ove non prevede – come invece dispone l’art. 67, comma 5, cod. antimafia per le licenze e le autorizzazioni di polizia – il potere del Prefetto di tenere in considerazione l’effetto dell’interdittiva sulla capacità di sostentamento del suo destinatario. La questione era stata già oggetto di attenzione da parte del Corte nella citata sentenza n. 57/2020, ma anche la sentenza del 2022 – pur riaffermando la necessità di un ripensamento legislativo della normativa – ha respinto la questione di legittimità costituzionale, non ritenendo auspicabili il perseguimento di tale via.
[2] Cons. Stato, Sez. III, 16 giugno 2022, n. 4912.
[3] Sul punto, senza pretesa di esaustività, si richiamano M.A. Sandulli, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario, in Giustiziainsieme, 2022; G. Veltri, La prevenzione antimafia collaborativa: un primo commento, in www.giustizia-amministrativa.it, 2022; R. Rolli, M. Maggiolini, Accertamento penale e valutazione amministrativa: pluriformi verità (nota Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, decreto presidenziale n. 544 del 3 agosto 2021), in Giustiziainsieme, 2022; R. Rolli, M. Maggiolini, Interdittiva antimafia e giudicato penale (nota a Consiglio di Stato sez. III, 4 febbraio 2021, n. 1049), in Giustiziainsieme, 2021; R. Rolli, M. Maggiolini, Interdittiva antimafia e controllo giudiziario (nota a Consiglio di Stato, sez. III, 11 gennaio 2021, n. 319), in Giustiziainsieme, 2021.
[4] D.l. 6 novembre 2021, n. 152. Sulle novità della riforma, si veda anche D. Albanese, Le modifiche del d.l. 152/2021 al ‘codice antimafia’: maggiori garanzie nel procedimento di rilascio dell’interdittiva antimafia e nuove misure di ‘prevenzione collaborativa’, in Sistema penale, 2022; M. Vulcano, Le modifiche del decreto-legge n. 152/2021 al codice antimafia: il legislatore punta sulla prevenzione amministrativa e sulla compliance 231 ma non risolve i nodi del controllo giudiziario, in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 11.
[5] R. Rolli, M. Maggiolini, Accertamento penale e valutazione amministrativa: pluriformi verità, cit.; R. Rolli, M. Maggiolini, Interdittiva antimafia e giudicato penale, cit.; F. Fracchia-M. Occhiena, Il giudice amministrativo e l’inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell’interesse pubblico, in Dir. econ., 2018, 3, 1125-1164.
[6] D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159.
[7] Cass. 28 gennaio 2021, n. 9122.
[8] G. Veltri, La prevenzione antimafia collaborativa: un primo commento, cit.
[9] A seguito dell’introduzione del controllo giudiziario a domanda, che presuppone l’interdittiva, si è reso necessario prevedere l’obbligo di aggiornamento di quest’ultima a seguito dell’ammissione al primo. Sul punto T.A.R. Catania, 1 maggio 2022, n. 1219, «Al di là del dato normativo, per come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale con la sentenza n. 57/2020 sopra citata, la quale non riconosce una definitiva ultrattività dell’interdittiva, il Collegio ritiene che una lettura costituzionalmente orientata della normativa di cui all’art. 34 bis co. 6 e 7 del Codice Antimafia, impone che al decorso del termine di efficacia del disposto controllo sia già stato avviato e concluso il procedimento di verifica della persistenza o meno del pericolo di infiltrazione mafiosa, tenuto conto della condotta assunta dall’impresa durante il periodo del controllo. Pertanto, mentre in generale, per come detto sopra, spetta all’interessato fornire elementi nuovi che giustifichino la revisione del negativo giudizio prognostico insito in un provvedimento interdittivo al fine di ottenere l’aggiornamento del provvedimento negativo, nel caso dell’ammissione dell’impresa al controllo giudiziario, l’istruttoria deve essere avviata d’ufficio, perché l’elemento nuovo è fornito dal giudice della prevenzione, che ha qualificato il contatto come occasionale e che ha ritenuto l’impresa potenzialmente suscettibile di essere risanata», inoltre «il provvedimento di aggiornamento non è un atto meramente confermativo della precedente interdittiva, ma un nuovo provvedimento, che giunge all’esito della necessaria, rinnovata istruttoria, la quale deve obbligatoriamente tenere conto di quanto accaduto durante il periodo di controllo giudiziario».
[10] Cons. St., sez. IV, 20 luglio 2016, n. 32, richiamata nello scritto di F.G. Scoca, Adeguatezza e proporzionalità nella lotta “anticipata” alla mafia, cit., «Il Consiglio di Stato ha elaborato una teoria, che suscita ammirazione per la intuizione giuridica e insieme forti perplessità per la sua fondatezza: considera, cioè, che effetto della informazione interdittiva sia una particolare forma di incapacità giuridica della impresa a rischio di infiltrazione: essa diverrebbe incapace di stipulare contratti e di essere parte nei conseguenti rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione».
[11] T.A.R. Calabria, 29 luglio 2021, n. 1545 «Il fine ultimo della misura, è quello di incentivare l’interruzione, attraverso l’adozione di misure di self-cleaning, di ogni occasione di contatto con il mondo della criminalità organizzata, da cui può sorgere il pericolo di infiltrazione mafiosa, onde consentire la riammissione dell’operatore economico nel mercato, libero da condizionamenti criminali […] I dati fattuali sintomatici del pericolo di infiltrazione mafiosa che siano antecedenti al periodo di controllo giudiziario, dunque, possono essere valorizzati dall’amministrazione solo se ad essi corrispondano dati che attualizzano il pericolo».
[12] Cons. Stato, 4912/2022, cit.
[13] Ibidem.
[14] Cons. Stato, n. 4912/2022, cit.
[15] Ivi.
[16] Cons. Stato, Sez. III, 4 febbraio 2021, n. 1049; Cass. pen., Sez. VI, 9 maggio 2019, n. 26342.
[17] Cons. Stato, n. 4912/2022, cit.
[18] Cons. Stato, n. 4912/2022, cit., par. 5.
[19] Cons. Stato, Sez. III, 6 luglio 2022, n. 5615; Cons. Stato, Sez. III, 6 luglio 2022, n. 5624.
[20] Ivi, par. 26.
[21] Oggi da considerarsi obbligatorio.
[22] T.A.R. Veneto (Venezia), Sez. I, 15 febbraio 2021, n. 208, «Deve essere sottolineata l’importanza e la centralità del riesame periodico delle interdittive antimafia a cui sono chiamate le autorità prefettizie. Sono infatti il carattere provvisorio della misura e la possibilità che la stessa possa essere rivista gli elementi che garantiscono il rispetto del principio di proporzionalità tra le esigenze di prevenzione cui risponde l’azione amministrativa in questa specifica materia e la inevitabile limitazione alla tutela della libertà di impresa e al diritto all’iniziativa economica garantito dall’art. 41 della Costituzione che una tale configurazione dell’istituto comporta».
[23] T.A.R. Campania (Napoli), Sez. I, 17 aprile 2020, n. 1387.
[24] Ivi.
[25] Cons. Stato, n. 5615/2022, cit.
[26] Cons. Stato, n. 4912/2022, cit., par. 4. - 4.1.
[27] Ivi, par. 4.2.
[28] Ivi, par. 5.
[29] T.A.R. Puglia, Sez. II, 15 luglio 2022, n. 1044.
[30] Ivi, par. 3.1. «Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, ritiene il Collegio che la valutazione prefettizia di conferma dell’interdittiva sia illegittima per difetto e/o erronea istruttoria e carenza di motivazione».
[31] G. Veltri, La prevenzione antimafia collaborativa: un primo commento, cit.
[32] Trattasi di questione tutt’altro che ovvia, dal momento che – pur essendo previsto dalla normativa antimafia (art. 92, c. 2-bis, cod. ant.) – il contraddittorio è spesso svuotato della sua effettività. R. Rolli, M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979), Giustiziainsieme, 2020; R. Rolli, M. Maggiolini, Brevi note sul riformato contraddittorio procedimentale in tema di interdittiva antimafia (nota a Ordinanza TAR Lecce, sez. III, n. 116/2022), in Giustiziainsieme, 2021; M.A. Sandulli, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario, cit.
Linguaggio e lessico nella giurisdizione: le ragioni di un rinnovamento culturale.
Intervento alla tavola rotonda del convegno di Area dell’8 giugno 2022
di Maria Acierno
È opportuno prendere l’avvio per qualsiasi riflessione sul tema oggetto della tavola rotonda, considerando l’obbligo costituzionale di motivazione previsto per tutti i provvedimenti giurisdizionali (art. 111, c.6 Cost.).
Quale è il contenuto dell’obbligo e come è stato interpretato nel tempo?
Il contenuto si deve leggere alla luce della legittimazione e giustificazione costituzionale dell’indipendenza della magistratura italiana: le decisioni devono essere sottoposte al controllo ed alla verifica democratica di chi ne legittima la forza e efficacia cogente (il popolo italiano in nome del quale sono emanate ancorché non solo ad esso dirette).
In primo luogo, le motivazioni devono essere effettive, non formali, od apparenti, non devono limitarsi a formule di stile ma esplicitare le ragioni della decisione in relazione al caso concreto e solo quelle. “Solo quelle” sta ad indicare la necessità di una stretta consequenzialità senza interferenze con principi o regole non finalizzate alla decisione (i cd. obiter dicta) o contenenti digressioni che invece di inquadrare il focus e le alternative della decisione, costituiscono mero sfoggio di conoscenza giuridica e non rispecchiano fedelmente, nelle decisioni a carattere collegiale, il processo decisionale.
Le motivazioni devono essere chiare perché possano essere sottoposte al controllo ed alla verifica di chi legittima la forza cogente delle decisioni.
Questo è l’attributo di più complesso inveramento. Le ragioni problematiche sono molteplici.
Da un lato, la maggiore facilità di formulazione di un linguaggio burocratico, che semplifica l’esposizione attraverso formule di sintesi convenzionalmente decifrabili soltanto dal contesto di riferimento e produce separatezza e diffidenza generali per la oggettiva difficoltà di comprensione generale; dall’altro, il crescente e inarrestabile, oltre che fortemente antiilluminista, tecnicismo del lessico legislativo, sempre più settoriale e casistico e sempre meno “riformista” o quanto meno “ordinante” e dipanato per principi.
Inoltre, una parte rilevante dei provvedimenti giudiziari, specie civili – ma, per l’incidenza crescente delle leggi penali speciali, il discorso vale anche per quelli penali - è impegnata a definire il quadro normativo applicabile, data la frequenza delle modifiche legislative in molti settori, sia in relazione all’ambito contenutistico che al segmento temporale di vigenza dell’una o l’altra norma.
Infine, ma questa è la parte più “nobile”, che impone una sfida ed un impegno collettivo, l’attributo della chiarezza trova ostacolo nella complessità extragiuridica di molti dei temi affrontati dalla giurisdizione, molto frequentemente caratterizzati dalla necessità di definizioni e giudizi di carattere scientifico. A scopo meramente esemplificativo si pensi al quadro innovativo determinato dalle biotecnologie. Che cosa è la p.m.a., vale a dire la “procreazione medicalmente assistita”; quali sono le forme di p.m.a; quali quelle che non contrastano con i nostri principi di ordine pubblico e/o con quelli di diritto positivo; come si realizza il processo generativo; quali indicazioni predittive può fornire in più rispetto a quello biologico cd. naturale; quali indicazioni possono essere tratte da tracce di materiale genetico. Senza queste nozioni non può essere affrontato il complesso paradigma normativo che regola l’accesso alla procreazione assistita, fissa l’assunzione irrevocabile della responsabilità procreativa e genitoriale, definisce gli status filiali.
Tali ostacoli alla chiarezza, solo sommariamente indicati, devono essere superati.
In questo consiste l’assunzione di responsabilità professionale e deontologica che ci viene dalla nostra fortunata collocazione costituzionale.
Funzionali alla chiarezza sono senz’altro la concisione e la capacità di sintesi. Questa condivisibile affermazione tuttavia necessita di qualche precisazione.
L’attenzione e la conseguente comprensione di un’argomentazione sono favorite dalla sua esposizione sintetica. Ciò richiede uno sforzo ulteriore: dipanare tutti i passaggi logici che conducono ad una decisione fa parte integrante del processo decisionale; aiuta la trasparenza della decisione (specie se collegiale) anche in chiave dialettica ma la giustificazione delle ragioni delle decisioni richiede una consequenzialità sintetica, limitata ai passaggi essenziali che è molto difficile, in mancanza di una formazione adeguata da realizzare nel percorso universitario e durante il percorso professionale post concorso.
Nello stesso tempo, la motivazione deve restituire esclusivamente le ragioni della decisione così come logicamente espresse nella camera di consiglio.
Anche questo rilevante aspetto del self restraint costituisce parte integrante dell’assunzione di responsabilità costituzionale che il ruolo impone.
Soprattutto l’organo della nomofilachia deve sottrarsi alla tentazione di affermare principi estranei alle rationes decidendi quand’anche riferibili all’area giuridica di riferimento.
Pur se sostenuti da una finalità di maggiore chiarificazione dei principi che regolano un settore anche in funzione di sostegno di future decisioni, tali interventi costituiscono una grave patologia non solo della motivazione ma anche della decisione dal momento che introducono nel sistema del precedente principi che creano disordine, disorientamento; forzature interpretative che allontanano dall’esercizio della funzione nomofilattica la quale deve rimanere strettamente consequenziale all’affermazione dei principi costituenti il fondamento della decisione.
Ma se si parla di sintesi si deve evitare un fraintendimento: la chiarezza, la concisione e la sintesi, qualità complesse che si acquistano con la pratica, l’esperienza, la formazione (quella post concorso è molto ampia, articolata ed efficace) vengono qui poste in luce in funzione dell’obbligo costituzionale di motivazione (ed anche in funzione di una corretta comunicazione e diffusione della decisione) e non come strumenti volti esclusivamente ad un incremento dell’efficienza del prodotto finale (provvedimento) e, dunque, in esclusiva chiave d’incremento della produttività.
Il legislatore processuale, costantemente impegnato in riforme a costo zero, è sembrato rincorrere, attraverso i richiami alla concisione ed alla “succinta” esposizione (così adoperando un lessico arcaico per richiedere un adeguamento della motivazione all’attualità) l’obiettivo di scrivere meno per produrre di più.
Questa finalità è fuori dalla funzione costituzionale della motivazione e dalle esigenze di chiarezza e sintesi che impone. Anzi, si può verosimilmente ritenere che l’esigenza di una sempre maggiore produttività scoraggi la chiarezza e appiattisca il linguaggio verso quelle formule convenzionali linguistiche che producono semplificazioni soltanto nel contesto di riferimento e non inducono ad un miglioramento ed adeguamento effettivo del linguaggio giudiziario, ma piuttosto spingono verso una sorta di pigra coazione a ripetere arcaismi e formule poco comprensibili.
Formule ripetitive che si collocano, cioè, fuori dal rinnovamento culturale del linguaggio, che costituisce, come sollecita proprio questa tavola rotonda, un’urgenza per la giurisdizione.
Il richiamo legislativo svolge, tuttavia, una funzione virtuosa, nel limitato senso di imporre il criterio dell’adeguatezza e della stretta continenza della motivazione alla natura e complessità della decisione.
Il fenomeno del narcisismo espositivo è in calo ma ancora non può dirsi superato interamente. Il rigoroso assolvimento dell’obbligo costituzionale della motivazione non significa impegno uguale per qualsiasi tipologia di decisione.
Ove la decisione s’inserisca in un contenzioso seriale è sufficiente il richiamo per relationem a principi consolidati. Si tratta di un obbligo che cresce in relazione alla natura della decisione, sia con riferimento alla capacità proiettiva della decisione stessa che con riferimento ai rilievi dei diritti delle parti.
Fuori dell’intentio legislativa derivante dalle norme processuali che si sono avvicendate anche in modo caotico nell’ultimo decennio deve tuttavia rilevarsi un progressivo impegno virtuoso della formazione della Scuola della Magistratura e delle fonti provenienti dai testi normativi autoorganizzativi degli uffici ed anche dal Codice etico dell’Associazione Nazionale Magistrati.
Il richiamo più rilevante è quello contenuto nel Documento di Organizzazione di cui si è dotata la Corte di Cassazione.
Il Primo Presidente ha sottolineato espressamente la necessità e l’obbligo di essere chiari e sintetici e, tema che verrà affrontato nella seconda parte di questo breve discorso, di abbandonare valutazioni “pregiudiziali” che provengano da modelli culturali e valoriali soggettivamente introiettati ma non corrispondenti a quelli che si rispecchiano nel quadro multilivello costituzionale.
I problemi maggiori di separatezza delle ragioni della decisione rispetto al personale corredo etico-valoriale ed ideologico riguardano i cd. temi sensibili (giudizi su inizio e fine vita; scelte personali e relazionali non corrispondenti al paradigma eterosessuale etc.) per i giudizi civili e i procedimenti che riguardano il diritto di soggiorno dei cittadini stranieri e per i giudizi penali i reati che colpiscono in via generale un genere od un gruppo.
In questi ambiti, come è stato efficacemente sottolineato, l’empatia emotiva può sostituire quella cognitiva, che invece dovrebbe costituire l’humus che sorregge le decisioni, specie in quei settori ove la conoscenza delle radici geo e socio politiche delle domande di tutela (si pensi alla protezione internazionale) sono così rilevanti da essere legislativamente codificate o la conoscenza e la precisa definizione tecnico scientifica delle situazioni alle quali deve darsi una regolazione giuridica ed un regolamento d’interessi (per semplificare inizio e fine vita, p.m.a., status, etc) costituiscono il fondamento ineludibile dell’indagine da compiere ai fini della decisione.
La sottovalutazione dell’impatto dell’empatia emotiva sia sul percorso argomentativo, quanto, purtroppo, sulla decisione può determinare conseguenze lesive della dignità personale di individui e gruppi collegati, per esempio, per appartenenza ad un genere.
In relazione a quest’ultimo profilo deve segnalarsi, non senza rammarico, la necessità dell’intervento della Corte Europea dei diritti umani, sul linguaggio contenuto in una sentenza penale e rammentare che il codice etico dei magistrati modificato nel 2010, prevede all’'articolo 12, terzo comma: «Nelle motivazioni dei provvedimenti e nella conduzione dell'udienza [il giudice] esamina i fatti e gli argomenti prospettati dalle parti, evita di pronunciarsi su fatti o persone estranei all'oggetto della causa, di emettere giudizi o valutazioni sulla capacità professionale di altri magistrati o dei difensori, ovvero – quando non siano indispensabili ai fini della decisione – sui soggetti coinvolti nel processo.»
Afferma espressamente la Corte EDU, (caso J.L. c. Italia n. 5671/16), che gli obblighi positivi di proteggere le presunte vittime di violenza di genere impongono anche il dovere di proteggere l'immagine, la dignità e la vita privata di queste ultime, anche attraverso la non divulgazione di informazioni e dati personali senza alcun rapporto con i fatti.
Questo obbligo è, peraltro, inerente alla funzione giudiziaria e deriva dal diritto nazionale (paragrafi 57 e 62 supra) nonché da vari testi internazionali (paragrafi 65, 68 e 69 supra).
La Corte precisa in modo forte come non veda in che modo la condizione familiare della ricorrente, le sue relazioni sentimentali, i suoi orientamenti sessuali o ancora le sue scelte di abbigliamento nonché l'oggetto delle sue attività artistiche e culturali possano essere pertinenti per la valutazione della credibilità dell'interessata e della responsabilità penale degli imputati. Pertanto, non si può ritenere che le suddette violazioni della vita privata e dell'immagine della ricorrente fossero giustificate dalla necessità di garantire i diritti della difesa degli imputati.
Infine ritiene che il linguaggio e gli argomenti utilizzati veicolino i pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che possono ostacolare una protezione effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere nonostante un quadro legislativo soddisfacente.
Un esempio, citato dalla stessa Corte EDU, di condizionamento del giudice da parte del proprio bagaglio culturale o sub culturale è l’aver rafforzato il giudizio negativo di credibilità della parte offesa per l'atteggiamento ambivalente della ricorrente nei confronti del sesso.
La crescente incisività dell’intervento giurisdizionale in situazioni drammatiche, conflittuali o, come nell’esempio CEDU, di primaria rilevanza penale che coinvolgono individui, relazioni, e la loro autodeterminazione, fanno comprendere quanto sia necessaria una costante vigilanza sul linguaggio giudiziario e sulla consapevolezza del limite da non oltrepassare costituito dal giudizio soggettivo pregiuridico su alcune scelte od azioni della vita che tuttavia interferiscono con i diritti fondamentali della persona e con la sua dignità.
Proprio in questi ambiti, più vicini alla vita quotidiana di tutti e, in quanto tali, più esposti allo scivolamento “conformistico” dell’approccio emotivo, si può tendere ad adottare un linguaggio meno tecnico e sorvegliato, per una malintesa preconoscenza ed empatia.
Il sistema giudiziario, ha, tuttavia, notevoli anticorpi, costituiti non solo dal meccanismo impugnatorio ancorché non diretto a censurare specificamente la motivazione ma la decisione, ma anche dalla formazione costante che accompagna l’intero percorso della magistratura ordinaria. Inoltre per le decisioni collegiali, un forte contributo può provenire dalla rigorosa ed attenta lettura del testo da parte del presidente, accompagnato, ove necessario, dal riesame collegiale del testo. Infine, ove i confini del rispetto della dignità personale possano essere realmente travalicati, non può escludersi il controllo e l’intervento disciplinare nella consapevolezza, tuttavia, che il percorso da compiere è tracciato dalla crescita professionale, deontologica e culturale.
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