ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il riparto di giurisdizione in materia di sanzioni amministrative non pecuniarie
di Antonella Manzione
Sommario: Premessa. - 1. Il quadro normativo. - 2. La natura sanzionatoria di un provvedimento. -3. La decadenza. - 4. La stratificazione normativa in materia di occupazione di suolo pubblico. - 5. Le sanzioni di natura non pecuniaria - 6. La rimozione dell’occupazione di suolo pubblico nella normativa a tutela della sicurezza della città. - 7. Problematiche di ne bis in idem. - Conclusioni.
Premessa.
La tematica del riparto di giurisdizione in materia di sanzioni amministrative non pecuniarie costituisce una delle questioni più dibattute nell’ambito del c.d. diritto punitivo, malgrado l’apparente chiarezza della norma che da tempo ne declina in maniera esplicita i confini. L’art. 6 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, infatti, nel riprendere l’elencazione delle materie per le quali la sanzione è opponibile al tribunale civile, per lo più già contenuta nell’art. 22-bis della l. 24 novembre 1981, n. 689, contestualmente riscrivendone l’art. 22, continua a demandare all’interprete sia il compito di tracciare l’esatto confine della natura sanzionatoria del provvedimento, sia quello, ancor più arduo, di collocarne con precisione il regime delle tutele laddove lo stesso sia intervenuto autonomamente, quale unico rimedio avverso il comportamento del destinatario ovvero in aggiunta ad altro, di natura pecuniaria o meno, finanche a carattere penale.
La lacuna di disciplina che interessa le sanzioni non pecuniarie, infatti, accessorie o meno, consegue alla formulazione letterale della richiamata l. 24 novembre 1981, n. 689, ambiziosamente riferita dal legislatore dell’epoca a tutto l’illecito amministrativo, ma letteralmente riferibile solo a quello conseguito al corposo intervento di decriminalizzazione di originarie fattispecie di reato operato dalla stessa.
Il successivo sviluppo delle legislazioni speciali ha determinato poi il proliferare di rimedi alternativi, aggiuntivi o meno, al pagamento di una somma di danaro per lo più ricompresa in una forbice edittale predeterminata, di ancor più difficile inquadramento proprio in ragione del loro “reagire” ad un comportamento lato sensu illecito sostanzialmente identico, seppure astrattamente lesivo di una pluralità di interessi pubblici diversi[1]. Ciò chiama in causa l’ulteriore tematica, alternativa a quella del concorso formale di illeciti e del relativo regime, del rispetto del principio del ne bis in idem, a maggior ragione laddove il provvedimento limitativo dell’altrui sfera giuridica sopraggiunga a distanza di tempo dalla commissione del presunto illecito, con riferimento al quale sono già stati adottati altre e più tempestive misure, con quanto ne consegue in termini di potenziale pregiudizio del diritto di difesa. In taluni casi addirittura il contenuto della “sanzione” o comunque la si voglia denominare, si palesa esso stesso identico, tanto da rendere difficile l’individuazione del procedimento da seguire, spesso rimessa alla scelta discrezionale dell’Amministrazione procedente, in una logica di ricercata efficacia del provvedimento, ovvero, al contrario, di diluizione dei suoi tempi di attuazione[2].
Le esigenze di semplificazione da sempre invocate in primo luogo a livello di riduzione delle fonti non può non passare dunque dalla razionalizzazione delle stesse anche con riferimento alla fase per così dire patologica delle reazioni dell’ordinamento a condotte ritenute “scorrette” degli operatori economici, a maggior ragione laddove le stesse si risolvano in provvedimenti ablatori o interdittivi della relativa attività. Speculari cioè alle lamentate difficoltà di avvio di un’attività produttiva correlate alla proliferazione dei titoli di legittimazione, e tuttavia meno scrutinate dall’interprete, si palesano infatti quelle riconducibili alla pluralità dei “rimedi” a fronte di accertate violazioni delle singole discipline di settore[3]. Emblematico al riguardo il tentativo di imporre a livello normativo un coordinamento delle attività di controllo, essendo indubbio il danno all’attività economica, finanche in termini di immagine e tutela dell’avviamento, riconducibile alla loro atomistica reiterazione. Con l’art. 14 del d.l.9 febbraio 2012, n.5, convertito, con modificazione, dalla l. 4 aprile 2012, n. 35, recante «Semplificazione dei controlli sulle imprese», vennero dunque individuati i criteri ispiratori comuni all’attività di vigilanza, statuendo che «fermo quanto previsto dalla normativa dell’Unione europea», essa si attenga «ai principi della semplicità, della proporzionalità dei controlli stessi e dei relativi adempimenti burocratici alla effettiva tutela del rischio, nonché del coordinamento dell’azione svolta dalle amministrazioni statali, regionali e locali» (comma 1), demandandone la concreta declinazione ad apposite Linee guida, da adottare in sede di conferenza unificata per quanto attiene agli enti locali. La mancanza di sanzioni ovvero di qualsivoglia tipologia di deterrenza o, al contrario, di incentivo al coordinamento, ha fatto sì che l’intento sia rimasto sostanzialmente sulla carta, dopo che peraltro ciascuna amministrazione aveva tentato in via ermeneutica di svuotare la portata precettiva della norma in difesa della rivendicata specificità di competenze connotante l’intervento di ogni singola forza di polizia.
1. Il quadro normativo.
La cornice normativa in materia di riparto di competenze giurisdizionali sulle sanzioni è dunque oggi contenuta nel d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, recante «Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69». In particolare, l’art. 34 ha riscritto l’art. 22, comma 1, della l. 24 novembre 1981, n. 689, abrogando gli ulteriori commi della norma, nonché l’art. 22-bis, che era stato introdotto dal d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, così da adeguare il sistema all’avvenuta soppressione della figura del pretore, cui la normativa originaria faceva necessariamente riferimento. Con l’art. 6 del d.lgs. n. 150/2011, dunque, è stata ripresa la ripartizione di competenze contenuta nell’art. 22-bis della l. n. 689/1981 tra giudice di pace e tribunale in composizione monocratica, cui ci si rivolge in opposizione all’ordinanza-ingiunzione secondo le regole del rito del lavoro. Da un lato, quindi, il novellato art. 22 continua a rappresentare la norma cardine all’interno della legge sull’illecito amministrativo, con un’attribuzione in termini generali della competenza a conoscere delle sanzioni amministrative pecuniarie e della confisca al giudice ordinario, fatti salvi i casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133 del c.p.a. nel frattempo approvato; dall’altro, il nuovo art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011, cui l’art. 22 della l. n. 689/1981 fa espresso rinvio, in una cornice sistematica più ampia, si appropria della precedente ripartizione tra tribunale e giudice di pace, estendendola a qualsivoglia sanzione, anche chiaramente estranea al contesto di decriminalizzazione, replicando la metodica dell’elencazione analitica dei soli casi di spettanza del primo, con individuazione in via residuale di quelli attribuiti all’altro. In maggior dettaglio, rispetto al previgente art. 22-bis della l. n. 689 del 1981, che operava il medesimo distinguo, l’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011 elimina alcune materie. Spiccano, per il tema odierno, l’urbanistica ed edilizia (lett. c), ma anche società e intermediari finanziari (lett. f), nonché il diritto tributario (lett. g, prima parte). Si ritiene di poter escludere che si tratti di una dimenticanza del legislatore, poiché dal combinato disposto delle norme citate si evince chiaramente, ad esempio, che con riferimento alle espunte sanzioni in materia urbanistico-edilizia si è inteso fare espresso riferimento con la clausola di salvaguardia della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo contenuta nell’art. 22 della l. n. 689 del 1981. E’ indubbio quindi, ad esempio, che le sanzioni amministrative previste dal d.P.R. n. 380 del 2001 (si pensi a quanto previsto dagli artt. 24 in materia di agibilità, 31, comma 4-bis, per il caso di inottemperanza all’ingiunzione a demolire un abuso edilizio, 37, per gli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla s.c.i.a.), rientrando nella materia edilizia ed urbanistica in quanto ulteriore strumento afflittivo per la tutela dell’ordinato sviluppo del territorio, sono soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo[4].
2. La natura sanzionatoria di un provvedimento.
La disciplina del c.d. diritto punitivo amministrativo o, secondo altra denominazione, del diritto penale amministrativo, distinto dal diritto amministrativo della prevenzione e da quello disciplinare, ha trovato nella l. 24 novembre 1981, n. 689 una sua prima organica razionalizzazione, sia sostanziale che processuale. Tuttavia l’art.12 della stessa, concernente il relativo ambito di applicazione, include nel proprio perimetro solo le sanzioni (e conseguentemente, gli illeciti puniti con le stesse) pecuniarie, con ciò rischiando di svuotare sensibilmente la portata della riforma, finalizzata anche a dar vita ad un vero e proprio “codice” dell’illecito amministrativo.
La dottrina pressoché unanime ha tentato da subito in vario modo di svalutare la portata delimitatrice dell’art. 12, seppur di difficile lettura, sottolineandone la pluralità di interpretazioni possibili, per addivenire ad una diversa ricostruzione in via interpretativa della rilevanza ratione obiecti della legge.
In particolare, si sono individuati all’interno dell’articolato normativo tre nuclei fondamentali: a) i principi in materia di tutela giurisdizionale (originariamente contenuti negli artt. 22-25, oggi riconducibili, come sopra detto, all’art. 6 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, che si occupa in maniera esplicita anche delle sanzioni non pecuniarie; b) i principi sul procedimento (artt. 13-21); c) i principi sostanziali sull’illecito e la sanzione. Mentre le regole procedimentali, con l’esclusione secondo taluni dell’art. 13, invocato come modello generale per ogni caso di applicazione di una sanzione amministrativa, paiono attagliarsi solo a quelle pecuniarie; quelle sostanziali, pur con talune eccezioni (si pensi alla previsione della forbice edittale di cui all’art. 10 ovvero alle regole sulla prescrizione, che peraltro sono collocate nella sez. II del capo I, all’art. 28), non possono non trovare applicazione ad ogni sanzione amministrativa in senso stretto, ancorché non pecuniaria[5]. La giurisprudenza amministrativa ha da subito ricondotto alle norme di principio anche quelle procedurali relative all’immediatezza della contestazione o comunque ad una non irragionevole dilatazione dei suoi tempi. Ciò riconoscendo quale intento del Legislatore «quello di assoggettare ad un statuto unico ed esaustivo (e con un medesimo livello di prerogative e garanzie procedimentali per il soggetto inciso) tutte le ipotesi di sanzioni amministrative, sia che siano attinenti a reati depenalizzati sia che conseguano ad illeciti qualificati “ab origine” come amministrativi, con la sola eccezione delle violazioni disciplinari e di quelle comportanti sanzioni non pecuniarie»[6]. La preventiva comunicazione e descrizione sommaria del fatto contestato con l’indicazione delle circostanze di tempo e di luogo (idonee ad assicurare, già nella fase del procedimento amministrativo anteriore all’emissione dell’ordinanza-ingiunzione, la tempestiva difesa dell’interessato), viene ricondotta ai principi del contraddittorio, e per tale ragione si ritiene pacificamente che il termine per la contestazione delle violazioni amministrative abbia natura perentoria.
La l. n. 689/1981, dunque, finisce per avere un ambito di applicazione elastico, in quanto investe un genus di sanzioni (principalmente, ma non esclusivamente pecuniarie) comprensivo di una pluralità di species, solo in alcuni casi dotate di una disciplina speciale (si pensi, ad esempio, alle già ricordate sanzioni pecuniarie in senso stretto in materia urbanistico-edilizia).
Una lettura sistematica e costituzionalmente orientata, non può tuttavia non condurre all’estensione applicativa dei principi fondamentali di cui agli artt. 1, 2, 3 e 4 della l. 689/1981 ad ogni sanzione amministrativa in senso stretto e quindi ad ogni illecito amministrativo, anche se la sanzione prevista non è pecuniaria. Restano fuori dall’applicabilità degli stessi solo quei provvedimenti che, seppur pregiudizievoli per il destinatario, assumono carattere primariamente riparatorio, tra i quali, come è evidente, non può rientrare la chiusura temporanea di un’attività commerciale quale conseguenza (ulteriore) dell’avvenuto accertamento della commissione al suo interno di specifiche ipotesi di illecito, anche penale[7]. Solo integrando, pertanto, il dato testuale dell’art. 12 con considerazioni ispirate in ambito sanzionatorio ad ineludibili esigenze di garanzia, emerge chiaramente tutta l’importanza di sistema dei principi sostanziali e procedimentali fissati nella l. n. 689/1981, intorno alla quale è possibile costruire l’edificio della repressione amministrativa[8].
La problematica sopra delineata vale, ovviamente, per le sanzioni diverse da quelle pecuniarie, vuoi che le si possa qualificare come “accessorie” ad altre, di regola consistenti nel pagamento di una somma di danaro, ma talvolta anche di natura penale[9]; vuoi che intervengano in via autonoma.
La l. n. 689/1981 si occupa delle cd. Sanzioni “accessorie” diverse dalla confisca all’art. 20, prevedendone la possibile applicazione da parte dell’autorità amministrativa competente qualora esse già conseguissero al reato soggetto a depenalizzazione ad opera della medesima legge. Anche in questo caso, dunque, il dato letterale è legato al contesto di generalizzata decriminalizzazione di precedenti illeciti operata dalla normativa sulla base della tipologia di pena per gli stessi prevista. Sotto tale profilo, quindi, solo nel caso in cui un reato, divenuto illecito amministrativo, già prevedesse l’applicazione, in via accessoria, di sanzioni consistenti nella privazione o sospensione di diritti e facoltà derivanti da provvedimenti dell’amministrazione, esse possono facoltativamente essere applicate dall’amministrazione con l’ordinanza ingiunzione che commina anche la sanzione amministrativa pecuniaria.
La lacunosità del riferimento letterale spiega dunque il tentativo di alcuni autori di sottrarre dall’ambito sanzionatorio le misure consistenti nella privazione o nella sospensione di diritti e facoltà (le sanzioni interdittive, appunto) che non siano accessorie rispetto ad un illecito amministrativo da depenalizzazione, individuandone la ratio nella protezione e realizzazione diretta degli interessi dell’Amministrazione in quanto permetterebbero l’ “interdizione” di un soggetto o di una sua attività in ragione della ritenuta inidoneità a soddisfarli, avuto riguardo alla condotta preventivamente tenuta[10].
L’art. 20, co.2, della l. 689/1981 prevede che le sanzioni accessorie ad una sanzione amministrativa pecuniaria non siano applicabili - rectius, esecutive - fino a che sia pendente il giudizio di opposizione contro il provvedimento di condanna o, nel caso di connessione con un reato, fino a che il provvedimento stesso non sia divenuto esecutivo. Ciò da un lato ne conferma la natura afflittiva e la funzione deterrente, dall’altro evidenzia l’attenzione del legislatore al principio - sebbene fortemente temperato- di colpevolezza del destinatario del provvedimento. L’applicazione della sanzione accessoria, infatti, avviene, almeno di regola solo al momento in cui il soggetto è riconosciuto responsabile, a seguito di un giudizio a cognizione piena, della violazione amministrativa[11].
La normativa consente invece l’immediata esecuzione della sanzione pecuniaria, che per la sua fungibilità comporta effetti pregiudizievoli più facilmente rimediabili, nonché, si ritiene, delle sanzioni amministrative non pecuniarie autonome, quanto meno in assenza di un’esplicita deroga di legge. Per contro, proprio nell’immediatezza del rimedio può ravvisarsi un indice della sua natura cautelare o riparatoria, giusta la necessità, cui esso fa fronte, di cauterizzare nel più breve tempo possibile la lesione che l’ordinamento giuridico ha subito a causa del comportamento del presunto trasgressore[12].
La natura sanzionatoria di un provvedimento va ricercata anche nei confini delineati dal diritto europeo. La Corte di Strasburgo ha infatti elaborato propri e autonomi criteri (i notissimi cd. Engel criteria) al fine di stabilire la portata “penale” o meno di un illecito e della relativa sanzione, laddove il relativo termine ha una connotazione diversa rispetto a quella attinta dal diritto nazionale. A ciò consegue che essi non si risolvono affatto in un’indebita ingerenza nella scelta di politica criminale tra qualificazione di un fatto illecito come amministrativo o penale, rimessa al legislatore nazionale (di particolare interesse il dialogo tra le Corti sviluppatosi al riguardo in tema di confisca, quale tipica sanzione amministrativa accessoria al reato di lottizzazione abusiva, su cui v. da ultimo Corte Cost., 26 marzo 2015, n. 49). Ma impongono una valutazione estensiva del concetto per non sottrarre l’applicazione di vere e proprie “sanzioni” ad ineludibili requisiti sostanziali, prima ancora che a precise garanzie procedurali.
Perché possa parlarsi di sanzione “sostanzialmente penale”, dunque, i requisiti vanno ricercati: nella qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, con la puntualizzazione che la stessa non è vincolante quando si accerta comunque la valenza “intrinsecamente penale” della misura; nella natura dell’illecito, desunta dall’ambito di applicazione della norma che lo prevede e dallo scopo perseguito; nel grado di severità della sanzione (sentenze 4 marzo 2014, r. n. 18640/10, resa nella causa Grande Stevens e altri c. Italia; 10 febbraio 2009, ric. n. 1439/03, resa nella causa Zolotoukhine c. Russia; si v. anche Corte di giustizia UE, Grande sezione, 5 giugno 2012, n. 489, nella causa C-489/10), che è determinato con riguardo alla pena massima prevista dalla legge applicabile e non a quella concretamente applicata. La Corte EDU, dunque, per evitare la c.d. “truffa delle etichette”, impone di guardare al di là dell’inquadramento formale e ricercare la «realtà della procedura in questione» (Corte EDU, 27 febbraio 1980, caso 6903/75, Deweer v. Belgium, par. 44). In tale ottica, assume rilievo la circostanza che la previsione sanzionatoria si rivolga ad una generalità di soggetti –il che è escluso, ad esempio, per la sanzione disciplinare- e che abbia un contenuto afflittivo e una funzione deterrente, requisiti questi che secondo la costante giurisprudenza di Strasburgo sono tra loro alternativi e non cumulativi. Sicché, da un lato, la gravità (severità) può non rilevare, ove la sanzione abbia in sé stessa una inequivoca funzione deterrente e punitiva; dall’altro, entro certi limiti, anche una misura nella quale il carattere afflittivo non sia prevalente (o addirittura manchi), ma che comporti conseguenze di una certa gravità per il destinatario, può essere considerata di natura penale e, quindi, rientrare nel perimetro di applicazione dell’art. 6 CEDU, che costituisce la cartina di tornasole alla stregua della quale è stata evidentemente delineata la cornice sopra tratteggiata. Pertanto, anche provvedimenti di carattere interdittivo o ripristinatorio comunemente ritenuti espressione di un generico potere ablatorio possono, a certe condizioni, ricadere nella nozione di «accusa penale» di cui a ridetto art. 6 della Carta EDU (Corte EDU, 24 aprile 2012, caso n. 1051/06, Mihai Toma v. Romania, par. 26; id., 30 maggio 2006, caso n. 38184/03, Matyjec v. Polland, par. 58)[13].
Di particolare sensibilità il tema della necessità dell’elemento psicologico dell’illecito, ovvero della necessaria colpevolezza del suo autore o comunque del soggetto individuato come destinatario della sanzione, affinché la stessa possa essergli legittimamente imposta.
La questione ha assunto un notevole rilievo ancora una volta in materia di illecito urbanistico-edilizio, con riferimento in particolare alla confisca quale conseguenza della lottizzazione abusiva, ma non solo.
Attingendo ancora ai suggerimenti della Corte EDU riferiti, questa volta, all’art. 7 della Convenzione, va ricordato come pronunciandosi sull’affaire di Punta Perotti, si sia fatta leva sulla presenza del sintagma «persona colpevole» nelle versioni inglese e francese della norma per richiedere comunque un criterio d’imputabilità soggettiva dell’illecito laddove soggetto a sanzione penale (Corte EDU, sez. II, 20 gennaio 2009, caso n. 75909/01, Sud Fondi s.r.l. e altri c. Italia, par. 116).
La natura “reale” delle sanzioni amministrative edilizie[14]ha tuttavia portato la giurisprudenza nazionale a prescindere dallo scrutinio dell’elemento psicologico, ritenendo, ad esempio, che la fattispecie di lottizzazione abusiva rilevi in modo oggettivo e indipendentemente dall’animus dei proprietari interessati, i quali, sussistendone i presupposti, potranno far valere la propria buona fede nei rapporti interni e di natura civilistica con i propri danti causa (cfr., ex multis Cons. Stato, sez. II, 24 giugno 2019, n. 4320). Si è così arrivati a distinguere sul piano sistematico tra ablazione della proprietà che consegua alla decisione del giudice penale ovvero ai provvedimenti dell’autorità comunale, relegando l’applicazione dei principi costituzionali e sovranazionali di buona fede e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai trasgressori allo scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale consistente nell’omessa individuazione dell’elemento psicologico dell’illecito contestato solo alla prima, ovvero all’applicazione della sanzione penale accessoria della confisca urbanistica contemplata dall’art. 44 del d.P.R. n. 380/2001 (che in base alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Chambre, 28 giugno 2018, n. 1828 viene ritenuta in ogni modo compatibile con l’art. 7 CEDU). L’argomento medesimo non è stato invece ritenuto utilmente invocabile al fine dell’irrogazione della sanzione ammnistrativa dell’acquisizione coattiva dell’immobile al patrimonio del Comune, contemplata dall’art. 30, comma 1 e 8, ovvero dall’art. 31 del medesimo T.U.E., in quanto atti vincolati[15]. I profili sollevati riguardano le garanzie inerenti alla titolarità del diritto di proprietà e, in particolare, all’aspetto dell’acquisizione della titolarità delle aree dei privati in capo all’Amministrazione quale conseguenza delle misure sanzionatorie previste dall’art. 30, comma 1 ed 8, del D.P.R. n. 380/2001, con un effetto sostanzialmente espropriativo per il proprietario inciso. La Corte Costituzionale con sentenza 24 luglio 2009, n. 239 (riguardante la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 44, co. 2, del medesimo d.P.R. n. 380/2001, sollevata in riferimento agli art. 3, 25, comma 2, e 27, comma 1, della Costituzione, nonché ai principi dettati dalla CEDU, nella parte in cui la norma impone al giudice penale, in presenza di accertata lottizzazione abusiva, di disporre la confisca dei terreni e delle opere abusivamente costruite anche a prescindere dal giudizio di responsabilità e nei confronti di persone estranee ai fatti) ha dichiarato l’inammissibilità della questione anche sotto il profilo dell’omissione da parte del giudice a quo della sperimentazione della possibilità di un’interpretazione conforme alla disposizione internazionale, quale interpretata dalla predetta Corte europea dei diritti dell’uomo. Spetta infatti «agli organi giurisdizionali comuni l’eventuale opera interpretativa dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 che sia resa effettivamente necessaria dalle decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo; a tale compito, infatti, già ha atteso la giurisprudenza di legittimità, con esiti la cui valutazione non è ora rimessa a questa Corte. Solo ove l'adeguamento interpretativo, che appaia necessitato, risulti impossibile o l'eventuale diritto vivente che si formi in materia faccia sorgere dubbi sulla sua legittimità costituzionale, questa Corte potrà essere chiamata ad affrontare il problema della asserita incostituzionalità della disposizione di legge».
Non osta, dunque, al disposto della norma in questione un’interpretazione che tenga conto, in linea con i principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, dei profili soggettivi di assenza di colpa e buona fede, che, anzi, si impone alla luce della natura di sanzione amministrativa della misura acquisitiva prevista dai suddetti comma in quanto nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione o omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa.
A ben guardare in effetti mentre l’accertamento dell’ipotesi di reato, nella sua forma materiale o negoziale, presuppone necessariamente la prova dell’elemento psicologico, l’acquisizione al patrimonio del Comune consegue al decorso di 90 giorni senza avere ottemperato all’ingiunzione di sospensione dei lavori, evidentemente ancora in corso, ovvero di non cedere il bene con atto tra vivi.
L’indifferenza in ordine alla sussistenza o meno di un comportamento colposo è stata interpretata nel senso di porre una presunzione iuris tantum di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che l’abbia commesso, spettando allo stesso l’onere della prova della propria incolpevolezza[16]. L’aspetto relativo alla necessità della sussistenza di un elemento soggettivo, quale indice di rimproverabilità, può recedere dinanzi alla funzione concretamente ripristinatoria della sanzione che in quanto tale «ha l’attitudine di imporsi, per il suo carattere reale, anche nei confronti di soggetti in stato di incolpevole buona fede, in quanto misura necessaria al ripristino del bene. In base a tale interpretazione, che tiene conto del profilo soggettivo di responsabilità nella condotta, la sanzione acquisitiva di cui all’art. 30 (commi 1, 7 e 8) si palesa in linea con i principi espressi dalla Corte di Strasburgo ed a quest’ultimo riguardo, il dovere di dare all'ordinamento interno una interpretazione conforme alla CEDU, come esplicitata dalla Corte di Strasburgo, deriva dall'art. 117 Cost., comma 1, ed è stato affermato in modo generale dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 348 e 349 del 2007 e, con riferimento specifico al citato art. 44, comma 2, con la sentenza 24 luglio 2009 n. 239» (v. Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2021, n. 7380).
3. La decadenza.
Con il termine “decadenza” si può intendere sia un provvedimento di natura sanzionatoria, sia più in generale un atto di esercizio del potere di autotutela, sia un distinto istituto di natura rimediale che fa cessare gli effetti dell’atto precedente con effetto ex nunc o per il venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto, o per inadempimento di obblighi imposti dal provvedimento o per mancato esercizio per un determinato periodo di tempo delle facoltà che derivano dallo stesso[17].
La distinzione ha trovato implicita consacrazione nelle affermazioni dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che ha così perimetrato “in negativo”, evidenziando gli elementi di affinità e quelli di divergenza, il provvedimento con il quale il Gestore Servizi Energetici (GSE), a conclusione di un procedimento di verifica condotto ai sensi dell’art. 42 del d.lgs. n. 28 del 2011 e del D.M. 31 gennaio 2014 in relazione ad un impianto fotovoltaico, ha dichiarato la decadenza, appunto, dal diritto alle tariffe incentivanti fruite da un operatore economico, con conseguente recupero integrale degli incentivi percepiti. Ciò essendo emerso nel caso di specie dall’istruttoria, con riferimento all’attestazione dell’origine dei pannelli fotovoltaici, che era stato presentato un documento (Factory Inspection Attestation) non conforme a quello che lo stesso ente aveva originariamente emesso. Secondo l’Adunanza plenaria, dunque, la decadenza, intesa quale vicenda pubblicistica estintiva, «ex tunc (o in alcuni casi ex nunc)»[18], di una posizione giuridica di vantaggio (c.d. beneficio) se rientra nell’esercizio dell’autotutela, si connota per la sottoposizione ai presupposti, condizioni ed effetti statuiti a livello generale dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990; se ha carattere sanzionatorio, richiede l’elemento soggettivo del dolo o della colpa e l’effetto ablatorio prodotto al massimo coincide con l’utilità concessa attraverso il pregresso provvedimento ampliativo sul quale viene ad incidere; se istituto autonomo (quale ritenuto quello in esame non presenta alcun tratto comune con il diverso istituto della sanzione, della quale non condivide i due richiamati requisiti, ma «pur presentando tratti comuni col più ampio genus dell’autotutela, ne deve essere opportunamente differenziato, caratterizzandosi specificatamente: a) per l’espressa e specifica previsione, da parte della legge, non sussistendo, in materia di decadenza, una norma generale quale quelle prevista dall’art. 21 nonies della legge 241/90 […];b) per la tipologia del vizio, more solito individuato nella falsità o non veridicità degli stati e delle condizioni dichiarate dall’istante, o nella violazione di prescrizioni amministrative ritenute essenziali per il perdurante godimento dei benefici, ovvero, ancora, nel venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto; c) per il carattere vincolato del potere, una volta accertato il ricorrere dei presupposti;[…]»[19]. La giurisprudenza ha già avuto modo di confermare tale distinzione tra decadenza e autotutela avuto riguardo ai provvedimenti del G.S.E. anche dopo la modifica dell’art. 42, comma 3, d.lgs. 28/2011 introdotta dall’art. 56, comma 8, del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, il quale ha esteso alla prima i presupposti di cui all’art. 21 nonies l. 241/1990, anche allo scopo di circoscriverne nel tempo l’irrogazione, ma non ha mutato la natura del potere (che rimane di decadenza), né il carattere vincolato dello stesso. La titolarità del potere di verifica e controllo, pertanto, non consente l’indiscriminata rimessa in discussione dei presupposti iniziali, senza il rispetto delle necessarie garanzie e degli affidamenti in capo alle imprese direttamente coinvolte, in quanto una volta che il procedimento si è concluso con il vaglio positivo degli elementi forniti dal privato, il riesame dei medesimi elementi deve seguire i canoni ed i presupposti del potere di autotutela, sotto tutti i punti di vista. Ne discende che «anche l’esercizio di poteri di revisione del precedente assenso regolatorio debbano essere esercitati nel rispetto dei principi dettati, in generale per le tradizionali autorità, con riferimento al potere di autotutela. Ciò non solo con riferimento al formale rispetto dei presupposti, ma anche relativamente alla verifica istruttoria e motivazionale degli elementi forniti dai soggetti passivi, sia in relazione ai presupposti iniziali sia rispetto alle alternative che le stesse società avrebbero potuto perseguire, in specie dinanzi al mutamento di interpretazione dell’autorità». (Cons. Stato, sez. VI, 29 luglio 2019, n. 5324, nonché, più di recente, sez. II, 17 giugno 2022, n. 4983)[20]. Sotto il profilo del regime delle tutele non si pongono a tale riguardo particolari problematiche giusta la riconducibilità della materia ad una di quelle di competenza esclusiva del giudice amministrativo.
Ma traslando le relative affermazioni al più generale quadro delle decadenze previste nell’ordinamento, si viene così ad imporre all’interprete un distinguo, appunto, su funzione “punitiva” della stessa e funzione meramente ripristinatoria, di non sempre agevole individuazione.
A titolo di esempio, la previsione nominativa, nonché la finalità di tutela di prescrizioni amministrative imposte dalla legge per giustificare il perdurante godimento del beneficio parrebbe attrarre nella sfera di competenza del giudice amministrativo la decadenza di cui all’art. 29 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 (a vario titolo riprodotta nelle discipline regionali di settore) che consegue al mancato utilizzo del posteggio in concessione per un lasso di tempo predeterminato[21]. Né pare condurre a soluzione opposta la circostanza che della stessa si faccia menzione in una norma rubricata “sanzioni”, stante che la sanzione ivi prevista consegue alla decadenza (revoca del titolo), laddove la stessa, proprio in quanto non sanzionatoria, non consente giustificazioni alternative rispetto a quelle tassativamente individuate dal legislatore (malattia, gravidanza e servizio militare).
4. La stratificazione normativa in materia di occupazione di suolo pubblico.
Il “suolo pubblico” è quella porzione di territorio non coperta da edificazioni suscettibile di occupazione per varie finalità, per lo più economiche[22], previa concessione o autorizzazione da parte dell’Ente proprietario. Trattandosi per lo più di strade o piazze, esso è riconducibile alla nozione di demanio stradale, la cui disciplina è rinvenibile ancora oggi negli artt. 822 e 824 c.c., a seconda che appartengano allo Stato, ovvero a Province e Comuni. La richiamata sistematica ha assunto oggi connotazioni più sfumate, laddove il suolo (e più in generale il bene pubblico) sia utilizzato da una specifica collettività, sì da essere ancorato alla tutela dell’interesse pubblico che fa capo alla stessa. Emblematica al riguardo la vicenda giuridica delle lagune venete, che non solo in quanto non menzionate come tali nell’elencazione dei beni demaniali (che contempla spiagge, rade dei porti, lidi) sono state ricondotte alla più moderna dizione di “bene comune” da due ormai famose sentenze “gemelle” della Corte di Cassazione, che hanno fornito lo spunto per lo sviluppo di una teoria giuseconomica della proprietà pubblica laddove affermano che «il solo aspetto della demanialità non appare esaustivo per individuare beni che, per loro intrinseca natura, o sono caratterizzati da un godimento collettivo o [..] risultano funzionali ad interessi della stessa collettività», di fatto valorizzando l’utilizzo, piuttosto che la titolarità [23].
Ciò ha consentito nel tempo la valorizzazione di istituti, quali il c.d. ‘baratto amministrativo”, che fondano il rapporto sinallagmatico tra privato e pubblica amministrazione proprio sul coinvolgimento dei cittadini, singoli o associati, nella gestione del “bene comune”, in un’ottica di recupero di contenitori degradati, politiche di sicurezza delle periferie, ovvero più semplicemente perequazione tra diretta presa in carico di servizi pubblici, quali il mantenimento del verde o la pulizia e assunzione dell’onere economico degli stessi[24].
La fruizione del suolo pubblico, sottraendolo all’uso della collettività, è soggetta a concessione[25], per l’attribuzione della quale operano i principi di evidenza pubblica come ormai definitivamente chiarito nell’organica evoluzione normativa, dottrinaria e giurisprudenziale della materia, diretta a ricondurre l’attribuzione di tutte tali fattispecie al rispetto dei principi di matrice comunitaria di imparzialità e di trasparenza[26]. In sintesi, pur avendo avuto la vicenda minore risonanza, anche mediatica, le medesime affermazioni riferite alla sottrazione all’uso collettivo di aree del demanio marittimo si attagliano anche alla mera concessione di “preselle” di suolo pubblico (posteggi e simili), tanto che l’affermazione della diretta applicabilità dei principi eurounitari da parte anche del singolo funzionario chiamato a gestire la normativa di settore ha da tempo determinato la preoccupazione degli operatori economici e l’inerzia degli uffici comunali competenti. Non a caso, nel parere espresso dall’AGCOM in sede di audizione parlamentare, si richiamano la giurisprudenza nazionale e comunitaria in materia di concessioni demaniali marittime per evocarne i principi anche con riferimento alle concessioni per l’esercizio del commercio su aree pubbliche[27]. La materia peraltro è stata ulteriormente complicata dal fatto che in alcune Regioni molti Comuni hanno comunque provveduto ai rinnovi delle concessioni in base alla legislazione in vigore, “sfruttando” le norme emergenziali relative all’epidemia da Covid-19 che consentono la conclusione dei procedimenti entro novanta giorni dalla cessazione dello stato di emergenza[28]. Quanto detto mentre cominciano a farsi strada le prime sentenze nelle quali si riconosce espressamente la riferibilità della disciplina comunitaria al settore del commercio in aree pubbliche sulla base del percorso argomentativo dell’Adunanza Plenaria laddove afferma che «la tutela della concorrenza (e l’obbligo di evidenza pubblica che esso implica) è, d’altronde, una “materia” trasversale, che attraversa anche quei settori in cui l’Unione europea è priva di ogni tipo di competenza o ha solo una competenza di “sostegno”: anche in tali settori, quando acquisiscono risorse strumentali all’esercizio delle relative attività (o quando concedono il diritto di sfruttare economicamente risorse naturali limitate), gli Stati membri sono tenuti all’obbligo della gara, che si pone a monte dell’attività poi svolta in quella materia. Altrimenti, si dovrebbe paradossalmente ritenere che anche le direttive comunitarie in materia di appalti e concessioni non potrebbero trovare applicazione ai contratti diretti a procurare risorse strumentali all’esercizio di attività riservate alla sovranità nazionale degli Stati». In altri termini, la direttiva impone l’indizione di gare pubbliche a tutela della concorrenza per il mercato, materia “trasversale” che è suscettibile di trovare applicazione in vari settori dell’ordinamento nazionale, tra cui deve senz’altro farsi rientrare quello delle concessioni di parcheggi a rotazione per l’esercizio del commercio su aree pubbliche per altro caratterizzati anch’essi, come già detto, dalla scarsità delle concessioni assentibili[29].
In linea di massima, le controversie che attingono alle concessioni di suolo pubblico sottostanno alle regole generali individuate dalla giurisprudenza per il riparto di giurisdizione. Spettano dunque al giudice ordinario quelle concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi, in quanto a contenuto meramente patrimoniale, senza che assuma rilievo un potere d’intervento della P.A. a tutela di interessi generali (ex plurimis, Cass., SS.UU., ord. 30 luglio 2020, n. 16459).
Con riferimento al canone, solo quando venga in contestazione - come, nel caso dell’impugnazione del regolamento – l’esercizio di poteri valutativo-discrezionali nella sua determinazione «sia in punto di an debeatur sia in punto di individuazione dei criteri di determinazione del quantum debeatur, e non già il suo mero calcolo aritmetico sulla base di criteri già predeterminati», la competenza è del giudice amministrativo[30].
Giova rammentare il quadro normativo: l’art. 42 del d.lgs. n. 507 del 1993, concernente la «Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei Comuni e delle Province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale Ecologia», ha introdotto la distinzione tra occupazioni di spazi ed aree pubbliche “permanenti” o meno, considerando tali quelle «di carattere stabile, effettuate a seguito del rilascio di un atto di concessione, aventi, comunque, durata non inferiore all’anno, comportino o meno l’esistenza di manufatti o impianti» (comma 1, lett. a), per le quali era dovuta una tassa, a tariffa - variabile - «graduata a seconda dell’importanza dell’area sulla quale insiste l’occupazione» e«commisurata alla superficie occupata»; l’art. 63 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n.446, in attuazione della delega, conferita al Governo dalla legge del 23 dicembre 1996, n. 662, ha demandato alle Province ed ai Comuni il potere di adottare un regolamento per assoggettare il titolare della concessione di occupazione, permanente o temporanea, appunto, di strade, aree e relativi spazi soprastanti e sottostanti appartenenti al demanio o patrimonio indisponibile dell’ente, comprese le aree destinate a mercati, anche attrezzati, all’obbligo del pagamento di un canone «con riferimento alla durata dell'occupazione» e maggiorabile «di eventuali oneri di manutenzione derivanti» dall’occupazione stessa, commisurato alle esigenze del bilancio dell’ente, al valore economico delle aree e all’entità del sacrificio imposto alla collettività con la rinuncia all’uso pubblico generalizzato degli spazi occupati. Inizialmente, era stata prevista anche l’abolizione, con decorrenza dal primo gennaio 1999, delle tasse per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui al capo II del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 50 (TOSAP), ma l’art. 31, comma 14, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 ha poi ripristinato il precedente assetto normativo, anche ai fini della giurisdizione, sicché si è stabilito che l’obbligo del pagamento del canone (COSAP) poteva coesistere con l’obbligo del pagamento della tassa per l’occupazione di aree pubbliche (TOSAP), stante la diversità della natura delle prestazioni dovute dal concessionario, essendo il canone COSAP, per l’appunto, non un tributo ma il corrispettivo di una concessione, reale o presunta (nel caso di occupazione abusiva), dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici. La medesima norma, infine, al comma 20, nel modificare il comma 1 dell’art. 63 del d.lgs. n. 446 del 1997, stabilì che «i comuni possono», adottando appositi regolamenti, «escludere l’applicazione nel proprio territorio della TOSAP», e in alternativa «prevedere che l’occupazione, sia permanente che temporanea, degli spazi e delle aree», elencati nella norma sostituita, sia assoggettata ad un canone di concessione (COSAP) determinato in base a tariffa, con relativa giurisdizione in capo al giudice ordinario e non tributario, anche a seguito della sentenza della Corte costituzionale sull’art. 3-bis, comma 2, lett. b), della legge 2 dicembre 2005, n. 248, intervenuto a novella, dato atto della diversa natura giuridica del COSAP rispetto alla TOSAP. Al fine di evitare che le scelte concessorie dipendessero da decisioni estemporanee degli Enti territoriali contrarie anche ad un ordinato governo del territorio, l’art. 63 del d.lgs. 446 del 1997 demandava al regolamento comunale anche la disciplina delle condizioni di rilascio e di rinnovo delle autorizzazioni, nonché degli ambiti sanzionatori, facendo salve peraltro le previsioni del sopra richiamato art. 20 del Codice della strada. Tale principio ha trovato consacrazione in numerose pronunce dei giudici di legittimità e amministrativi, in particolare a far data dalla decisione del 7 gennaio 2016, n.61, delle Sezioni Unite della Cassazione, che ha ribadito la natura di corrispettivo del Cosap per la concessione dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici, e non per la sottrazione al sistema della viabilità di un’area o spazio pubblico. Da ultimo, il Capo I del d.lgs. n. 507 del 1993 è stato formalmente abrogato con l’art. 1, comma 847 della legge 27 dicembre 2019, n. 160, salvo essere ripristinato dal d.l. 30 dicembre 2019, n. 162, convertito, con modificazioni dalla l. 28 febbraio 2020, n. 8, che all’art. 4, comma 3-quater ha disposto che l’abrogazione non operi per l’anno 2020. E’ stato infatti introdotto un “canone unico” di concessione, autorizzazione o esposizione pubblicitaria, che assorbe anche quello di cui all’art. 27, commi 7 e 8, del Codice della Strada, limitatamente alle strade di pertinenza dei comuni e della province, con portata comprensiva di qualunque canone ricognitorio o concessorio previsto da norma di legge o di regolamento, fatti salvi quelli connessi a prestazioni di servizi. Il potere regolamentare dei Comuni resta tuttavia anche nella nuova cornice normativa, giusta le previsioni in tal senso contenute ai commi da 816 a 836 del richiamato art. 1 della legge di bilancio 2020, che ne demanda al Consiglio comunale, specificando tra i contenuti obbligatori anche le condizioni di rilascio della concessione e il regime sanzionatorio, il cui importo non può superare il 50 % del canone dovuto, ferme restando le sanzioni previste dal codice della strada stesso. Il canone può essere maggiorato di eventuali effettivi e comprovati oneri di manutenzione in concreto derivanti dall’occupazione del suolo e del sottosuolo che non siano, a qualsiasi titolo, già posti a carico dei soggetti che hanno effettuato le occupazioni. Il comma 822 pone a carico dell’Ente proprietario la rimozione dell’occupazione abusiva previa redazione di processo verbale di constatazione redatto da competente pubblico ufficiale, con oneri derivanti dalla rimozione a carico dei soggetti che hanno effettuato le occupazioni.
In relazione alle impugnative degli avvisi di pagamento, la loro contestazione dedotta in via derivata rispetto al regolamento Cosap (ora del canone unico), è stata fatta rientrare nella giurisdizione del Giudice amministrativo. Diverse considerazioni valgono, invece, in ordine a eventuali profili di censura in via autonoma (si veda, in proposito, Cass. SS. UU. Sentenza n. 21950 del 2015, ove si legge: «le controversie relative ai canoni per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, perché l’obbligo di pagamento di un canone per l'utilizzazione del suolo pubblico non ha natura tributaria, esulando dalla doverosità della prestazione e dal collegamento di questa alla pubblica spesa»)[31]. Si consideri, peraltro, che la stretta correlazione tra l’atto amministrativo generale presupposto "a monte" e l’atto applicativo "a valle" non ha una rilevanza circoscritta ai profili giurisdizionali; esso incide, altresì, sull’accertamento del momento in cui possa dirsi integralmente manifestata la lesività del medesimo regolamento.
Avuto riguardo al delicato settore delle concessioni demaniali marittime – ma il principio può essere esteso ad ogni ambito - si è altresì affermato che spetta al giudice amministrativo la giurisdizione sul contenzioso concernente i provvedimenti di rideterminazione del canone, adottati in applicazione dell’art. 1, comma 251, della legge finanziaria n. 296 del 2006, qualora non si tratti della sua mera quantificazione, ma la controversia riguardi anche altri aspetti comportanti una valutazione tecnico-discrezionale da parte dell’Amministrazione (es., l’integrale revisione previa ricognizione tecnico-discrezionale del carattere di pertinenze demaniali marittime delle opere realizzate in precedenza dal concessionario, anche in considerazione dell’inamovibilità o meno delle stesse; la questione se le opere realizzate sul suolo demaniale divenissero di proprietà dello Stato soltanto alla scadenza della concessione; l’applicabilità della normativa sopravvenuta alle concessioni in corso)[32].
5. Le sanzioni di natura non pecuniaria.
Individuare la natura sanzionatoria della misura applicata può non essere sufficiente a individuare anche il giudice competente in relazione alla sua impugnazione. Ciò nello specifico laddove essa venga irrogata autonomamente, ovvero costituisca l’unica conseguenza della condotta illecito oppure l’ulteriore conseguenza della stessa, già sanzionata in via amministrativa, pecuniaria e non solo, ovvero penale. L’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011, infatti, con riferimento alla competenza del tribunale, parla di “sanzione di natura diversa” applicata “congiuntamente” a quella pecuniaria, ovvero “da sola”.
In passato, sulla base della formulazione letterale dell’art. 22 della l. n. 689 del 1981, si era affermata la giurisdizione amministrativa per tutte le sanzioni accessorie diverse dalla confisca, purché irrogate autonomamente. La questione è stata ancora di recente oggetto di una pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione (ordinanza 21 settembre 2020, n. 19664), che pronunciandosi sul regolamento di giurisdizione sollevato in relazione alla sanzione della chiusura per dieci giorni dell’esercizio destinato al gioco sportivo e alle lotterie irrogata dall’Agenzia delle Dogane e dei monopoli per l’accertata violazione, da parte della Questura, dell’art. 24, comma 21, del d.l. n. 98 del 2011, convertito con modificazioni dalla l. n. 11 del 2011, ha ritenuto di individuare l’elemento di discrimine nella mancanza di discrezionalità applicativa. In tal modo il giudice ha inteso discostarsi dal precedente orientamento che ravvisava, appunto, nell’autonomia della sanzione l’elemento diversificante, giusta la stretta connessione di quella irrogata contestualmente ad altra pecuniaria con i presupposti di quest’ultima. Al contrario, l’autonomia era considerata quasi ex se indizio di un contenuto conformabile dalla pubblica amministrazione, mediante l’esercizio del proprio potere discrezionale, alla violazione concretamente posta in essere ed espressione dell’esercizio del potere, anch’esso discrezionale, di vigilanza e controllo dell’autorità amministrativa.
Al contrario, il perno della questione viene ora a spostarsi propria sulla sussistenza o meno di discrezionalità applicativa, a prescindere dal momento in cui si addivenga alla scelta, rilevando caso mai lo stesso quale vizio del procedimento sanzionatorio in qualunque sede rilevato. La discrezionalità va dunque effettivamente accertata e costituisce la cartina di tornasole non della natura sanzionatoria o meno del provvedimento, ove comunque afflittivo, ma della sua portata doverosa nell’an e necessitata nel quomodo. Solo laddove, quindi, non vi è alcuna possibilità di scelta da parte della P.A. procedente, la giurisdizione in materia di sanzione di natura non pecuniaria è del giudice ordinario[33].
La natura esclusivamente afflittiva e il potere interamente vincolato della norma che definisce dettagliatamente il fatto che integra la violazione stabilisce l’obbligo di applicare la sanzione determinandone in via esclusiva e non alternativa il contenuto anche in relazione alla durata, con la prescrizione inderogabile del minimo e del massimo irrogabili. A quel punto l’applicazione della sanzione consegue ad un obbligo di legge, derivante dalla commissione del fatto illecito, accertata dall’autorità di polizia, e non costituisce il risultato di un’autonoma attività di vigilanza e controllo dell’autorità amministrativa irrogante.
Questo importante ripensamento giurisprudenziale ci consente oggi di azzardare qualche conclusione sulla giurisdizione, venendo a specificarsi (attraverso qualche grossa semplificazione) che, eccezion fatta per i casi di giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo, le sanzioni non pecuniarie, comminabili in carenza di discrezionalità, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla loro specifica afflittività.
Una interessante applicazione dei ridetti principi è dato ravvisare nelle numerose pronunce di primo grado (inappellate) nelle quali il giudice amministrativo ha declinato la propria competenza avuto riguardo a talune sanzioni previste dalla legislazione emergenziale per fronteggiare l’epidemia da COVID-19. Con riferimento, ad esempio, alla disciplina di cui all’art. 4, comma 2, del d.l.ec n. 19 del 2020, convertito in l. n. 35 del 2020 – che prevede espressamente quale sanzione accessoria non alternativa la chiusura dell’esercizio da 5 a 30 giorni nei casi di cui all’art. 1, comma 2, lettere i), m), p), u), v), z) e aa) – si è infatti riconosciuto che trattasi indiscutibilmente di fattispecie in cui risultano predeterminate sia la condotta sia la sanzione minima e massima, così che «la sanzione accessoria ha natura esclusivamente afflittiva al pari di quella pecuniaria alla quale si aggiunge ancorché senza alcun collegamento causale o consequenziale». Ne discende «che non venga in tal caso, in rilievo alcun potere discrezionale, in quanto l’autorità è priva del potere di stabilire se applicare la sanzione, né può articolarne il contenuto come nelle sanzioni ripristinatorie della situazione modificata a causa della condotta illecita» e in considerazione del fatto che non risulta ascrivibile all’esercizio di un potere propriamente discrezionale la mera determinazione dei giorni di chiusura del locale aperto al pubblico, da effettuarsi dalla stessa tra un minimo e un massimo, rigorosamente predeterminati dalla norma[34]. A tutto ciò consegue che la afflittività della misura irrogata ne implica la portata “sanzionatoria” e le conseguenti garanzie anche procedurali nella irrogazione; ma è l’obbligo applicativo e contenutistico a sancirne il regime delle tutele.
6. La rimozione dell’occupazione di suolo pubblico nella normativa a tutela della sicurezza delle città.
Con la legge 15 luglio 2009, n. 94, è stato inserito un particolare tipo di rimedio avverso occupazioni abusive di suolo pubblico che va ad aggiungersi a quelli già previsti e che ha dato luogo a un interessante contenzioso che attinge i principi poco sopra enunciati. Trattasi dell’art. 13, commi 16, 17 e 18. La norma prevede dunque che fatta salva l’applicazione dei provvedimenti dell’autorità per motivi di ordine pubblico (per esempio, ordinanze contingibili e urgenti), in tutti i casi di indebita occupazione di suolo pubblico riconducibile o al reato di cui all’articolo 633 del codice penale o alla fattispecie di cui all’articolo 20 del codice della strada, il sindaco per le strade urbane e il prefetto per quelle extraurbane o per ogni luogo quando ricorrono motivi di sicurezza pubblica, possono ordinare il ripristino dello stato dei luoghi a spese degli occupanti[35].
In caso di accertamento di tali illeciti, peraltro, è prevista sempre la trasmissione di copia del verbale di accertamento alla Guardia di finanza (art. 1, comma 18), ai sensi dell’art. 36 della del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.
Come affermato da subito dai primi commentatori, la tipologia di provvedimento previsto da questa disposizione non è riconducibile al genus delle ordinanze contingibili ed urgenti, pur nascendo da esigenze di sicurezza, lato sensu intesa. Con tale norma si generalizza caso mai una specifica sanzione accessoria riferita a due diverse tipologie di illecito, penale (art. 633 c.p.) e amministrativo (art. 20 Codice della strada), in quanto esplicitamente richiamati[36]. Il tema è stato affrontato nuovamente dal dal d.l. 20 febbraio 2017, n. 14, convertito dalla l. 18 aprile 2017, n. 48, che ha inteso peraltro valorizzare in termini più generali la potestà regolamentare del comune in materia di “sicurezza delle città”, e dunque in una visione prospettica ben diversa da quella a carattere economico comunque sottesa alla riscossione del canone. Il legislatore dunque da un lato ha riscritto per l’ennesima volta il potere di ordinanza del sindaco per la tutela della “sicurezza urbana”[37]; dall’altro, ha delimitato inediti spazi di intervento per i regolamenti comunali. Si è cercato in tal modo di porre rimedio ad una delle principali contraddizioni sorte a seguito della novella dell’art. 54 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attuata con l’art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito dalla legge 24 luglio 2008, n. 125. In primo luogo, mediante l’inserimento del comma 7-ter nell’art. 50, dunque, concernente il potere di ordinanza del Sindaco quale capo del governo locale, è stata attribuita ai comuni la potestà di dotarsi di appositi regolamenti nelle medesime materie per le quali gli è riconosciuto di provvedere in via d’urgenza. Si tratta delle «situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche». In secondo luogo, si è demandata ai regolamenti comunali di polizia urbana la possibilità di «individuare aree urbane su cui insistono scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli ovvero adibite a verde pubblico», nell’ambito delle quali applicare a chi ponga in essere condotte che ne impediscono l’accessibilità e la fruizione, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da euro 100 a euro 300 e il contestuale ordine di allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto[38]. Va peraltro precisato che l’art. 5, comma 1, lett. c) del decreto rimette ai patti per l’attuazione della sicurezza urbana la “valorizzazione” di forme di collaborazione interistituzionale tra le amministrazioni competenti quale tipico strumento di sicurezza partecipata anche l’eventuale supporto all’ente locale nell’individuazione delle aree urbane da sottoporre alla particolare tutela di cui all’articolo 9, comma 3 dello stesso.
Nel complicato gioco di rimandi riveniente dalle numerose clausole di rinvio agli illeciti previsti dalle varie norme richiamate (ad esempio, l’art. 29 del d.lgs. n. 114 del 1998 per quanto concerne il commercio su aree pubbliche, senza peraltro distinguere all’interno dello stesso le varie tipologie di violazioni), il richiamato comma 3 dell’art. 9 fa salva anche l’applicazione dell’art. 52, comma 1-ter, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali) e dell’art. 1, comma 4, del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222 (Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività -SCIA-, silenzio assenso e comunicazione di inizio lavori e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell’articolo 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124)[39]. La prima di tali disposizioni, al fine di assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti, nonché delle aree a essi contermini, avoca al livello statale (i competenti uffici territoriali del ministero per i beni e le attività culturali, id est le Soprintendenze), seppure d’intesa con la regione e i comuni, l’adozione di determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attività ambulanti –recte, itineranti - senza posteggio, nonché, ove se ne riscontri la necessità, l’uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico[40]. L’art. 1, comma 4, del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 222, egualmente prevede, a riprova della ribadita necessità di porre alcuni argini al processo di liberalizzazione delle attività economiche nell’ambito delle scelte di governo, un invertito assetto delle competenze, per cui è il comune, d’intesa con la regione, sentito il competente soprintendente del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, ad adottare le deliberazioni volte a individuare, sentite le associazioni di categoria, zone o aree aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico in cui è vietato o subordinato ad autorizzazione, l’esercizio di una o più attività, in quanto ritenuta non compatibile con le esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Come si vede da un’analisi comparata delle disposizioni richiamate, le finalità di tutela finiscono per essere sovrapponibili, laddove al Comune è consentito in maniera più ampia riservarsi l’imposizione del titolo abilitativo espresso, così da demandare al momento del relativo rilascio la verifica della compatibilità con l’assetto dei luoghi che si vogliono tutelare. La possibilità, cioè, di imporre un titolo di legittimazione che non sia la segnalazione certificata di inizio di attività, prevista in tutte le altre aree del territorio, anche per reintrodurre surrettiziamente il controllo della tipologia o categoria merceologica e valutarne la compatibilità con le esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, diviene strumento per controllarne l’insediamento. Ovviamente, affinché ciò non si risolva in una limitazione indiscriminata della concorrenza in dispregio delle disposizioni europee recepite nelle d.lgs. 59/2010, si prevede un costante monitoraggio da parte del ministero dei provvedimenti adottati. Allo scopo, le deliberazioni adottate sulla base di tale norma devono essere trasmesse alla competente soprintendenza del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e al ministero dello sviluppo economico per il tramite della regione. La digressione intrapresa, tuttavia, mette in luce la astratta sovrapponibilità di assetti regolatori diversi, anche a livello locale, giusta le variegate possibilità di intervento, in ragione dei diversificati interessi pubblici evidenziati, previste dal legislatore.
Limitandosi, dunque, ad alcuni dei possibili strumenti di eliminazione di un’occupazione abusiva, va rimarcato come il provvedimento (scritto) del Sindaco o del Prefetto previsto dalla normativa del 2009 è rimesso alla discrezionalità dell’Amministrazione; al contrario, l’ordine di allontanamento è doveroso al ricorrere delle condizioni date, come dimostrato dalla perentorietà dei termini utilizzati dal legislatore, al pari, del resto, dell’attivazione della sanzione accessoria del ripristino dello stato dei luoghi prevista dall’art. 20 del Codice della Strada e della rimozione dell’abuso cui fa riferimento, da ultimo, la legge n. 160 del 2019. Sicché a parità di effetto afflittivo, utilizzando il paradigma da ultimo fornito dalle Sezioni unite della Cassazione, le relative opposizioni vanno ricondotte alla competenza del giudice ordinario, salva la prima ipotesi richiamata, pur incidendo comunque la misura su diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà di movimento[41].
Le sentenze del Consiglio di Stato aventi ad oggetto il provvedimento di chiusura dell’attività commerciale che ha posto in essere un’occupazione abusiva di suolo pubblico sono moltissime, e per lo più già andavano nella direzione da ultimo tracciata dai giudici di legittimità: avendo il legislatore utilizzato il verbo “possono”, a sottolineare il discrezionale esercizio del potere, la competenza a decidere sui ricorsi va attribuita al giudice amministrativo.
Occorre se mai chiedersi se siano ancora attuali le stesse affermazioni ove riferite alla determina dirigenziale che dà attuazione ad una previsione regolamentare a monte, non impugnata, che ne ha imposto l’adozione a presupposti dati, addirittura indicando l’entità dei giorni di chiusura nell’ambito del tetto massimo fissato dal legislatore. Ciò laddove evidentemente, mutatis mutandis quanto richiamato a proposito degli avvisi di accertamento, non si intenda attraverso l’atto conseguente censurare vizi dell’atto regolamentare presupposto. Per contro, la giurisprudenza ha al riguardo affermato con riferimento alla scelta regolamentare attuata dal Comune di Roma Capitale: «La norma attributiva del potere conferisce al sindaco una facoltà discrezionale di chiusura dell’attività commerciale per un termine non inferiore a cinque giorni. Nella specie, il sindaco di Roma, in assenza di vincoli normativi in ordine alle modalità di esercizio del potere discrezionale, lo ha legittimamente esercitato, all’esito di una complessiva comparazione degli interessi rilevanti, mediante l’adozione di un atto di natura generale. In particolare si è ritenuto che per le ragioni indicate nell’atto in tutti i casi in cui fosse stata accertata l’occupazione abusiva di suolo pubblico, in determinate zone storiche della città di Roma, sarebbe stato necessario applicare anche la sanzione della chiusura dell’attività commerciale. La particolare situazione in cui versavano ampie zone della parte storica ha pertanto giustificato l’adozione di un provvedimento di valenza generale con il quale si è disposta l’applicazione delle sanzioni previste» (Cons. Stato, Sez. V, 23 marzo 2015, n. 1611). Per completezza, è interessante ricordare come in relazione alla potenziale violazione delle disposizioni in materia di liberalizzazione, si è comunque affermato che l’esercizio di un potere di tipo sanzionatorio può sempre legittimamente limitare l’iniziativa economica garantita dall’articolo 41 della Costituzione. Nel caso di specie, la sua riconducibilità al potere di ordinanza ordinario, oltre a renderlo rispettoso delle indicazioni rivenienti dalla sentenza della Corte costituzionale 7 aprile 2011, n. 115, che, come noto, ha inciso sul comma quattro dell’articolo 54 del T.u.e.l. laddove aveva inserito la possibilità di adottare anche provvedimenti ordinari per ragioni di sicurezza urbana, ben si concilia con la sua riconduzione allo strumento regolamentare tipicamente espressivo del potere normativo dell’organo elettivo del Comune. Viene infatti ritenuto «conforme a costituzione la previsione normativa attributiva di un potere sindacale ordinario che contenga sia il fine pubblico da raggiungere (cosiddetta legalità-indirizzo) sia contenuto in modalità di esercizio del potere (cosiddetta legalità-garanzia)». Ciò anche relativamente alla scelta di elevare a livello generale il potere sanzionatorio stabilito dalla norma, fissandone appunto i presupposti con apposito regolamento e con ciò trasformando in verità una mera facoltà, correlata alla valutazione dei singoli interessi in gioco, ivi compresa, si ritiene, la concomitante attivazione di diversi procedimenti sanzionatori, in obbligo di irrogazione[42]. Spetterebbe dunque al giudice ordinario valutare la legittimità della sopravvenienza del provvedimento a distanza di molto tempo dalla commessa violazione, laddove al contrario il giudice amministrativo ha ritenuto ininfluente finanche l’avvenuto ripristino della situazione di legalità, proprio in ragione della portata “ineludibile” della sanzione prevista. La cessazione dell’illegittima occupazione, il ripristino dei luoghi e il pagamento delle sanzioni irrogate da parte del contravventore non fanno venire meno, infatti, gli «indefettibili presupposti» per l’adozione del provvedimento di chiusura dell’esercizio, «dal momento che quei fatti sopravvenuti all’accertato abuso non possono avere natura di eliminazione dell’abuso stesso, laddove il provvedimento di chiusura ha natura sanzionatoria e va comunque adottato, la chiusura dell’esercizio per un periodo di cinque giorni rappresentando la misura minima della sanzione in caso di occupazione indebita di suolo pubblico per fini commerciali »[43].
7. Problematiche di ne bis in idem.
La astratta applicabilità di una pluralità di sanzioni impone di domandarsi anche se le stesse concorrano tra di loro ovvero si elidano a vicenda, giusta la applicabilità del principio del ne bis in idem, che costituisce il limite negativo alla disciplina del concorso formale di illeciti, seppure mitigato in termini di proporzionalità dal regime del cumulo giuridico[44].
Va ricordato brevemente come il principio del ne bis in idem ha subito negli ultimi anni una radicale trasformazione, perdendo la propria connotazione – esclusivamente processuale – di baluardo contro la sottoposizione, per il medesimo illecito, a due distinti procedimenti, originariamente penali, e divenendo garanzia sostanziale di proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio.
Preliminarmente, esso si declina dunque nel divieto di instaurare o proseguire un nuovo procedimento sugli stessi fatti o circostanze già oggetto di un precedente giudizio ovvero di un diverso procedimento. La ratio tutela, quindi, l’autorità della cosa giudicata e la certezza del diritto.
Tale divieto è codificato, nell’ordinamento interno, dall’art. 649 c.p.p., con implicita copertura costituzionale negli artt. 24 e 111 Cost. A livello internazionale, invece, il principio in esame è stato positivizzato dall’art. 4 p. 1 del VII Protocollo addizionale della CEDU e dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (dotata di efficacia vincolante al pari dei Trattati).
Astrattamente, tuttavia, come si evince dalle statuizioni delle Corti EDU e UE e dalle conclusioni della Suprema Corte di Cassazione, esso non si pone in contrasto con la tendenziale legittimità del c.d. doppio binario sanzionatorio[45].Una recente pronuncia dei giudici di legittimità aveva già tentato di mitigare la portata di tale ricostruzione, basata sulla sostanziale possibilità di duplicare i regimi sanzionatori. Si è dunque affermato che ai fini del divieto di bis in idem di cui all’art. 4, §1, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, la natura (sostanzialmente) penale della sanzione qualificata come amministrativa dall’ordinamento interno deve essere valutata applicando i cd. “Engel criteria”, ma la violazione non sussiste nei casi di litispendenza, quando cioè una medesima persona sia perseguita o sottoposta contemporaneamente a più procedimenti per il medesimo fatto storico e per l’applicazione di sanzioni formalmente o sostanzialmente penali, oppure quando tra i procedimenti vi sia una stretta connessione sostanziale e procedurale. In tali casi deve essere garantito un meccanismo di compensazione che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima così da evitare che la sanzione complessivamente irrogata sia sproporzionata. Ne consegue che in caso di sanzione (formalmente amministrativa ma) sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione EDU, irrevocabilmente applicata all’imputato successivamente condannato in sede penale per il medesimo fatto storico, il giudice deve commisurare la pena tenendo conto di quella già irrogata, utilizzando, a tal fine, il criterio di ragguaglio previsto dall’art. 135 c.p., applicando, se del caso, le circostanze attenuanti generiche e valutando le condizioni economiche del reo. Il meccanismo di compensazione non si applica se la sanzione amministrativa è stata precedentemente pagata da persona diversa dal reo[46].
La Corte costituzionale tuttavia si è spinta assai più avanti con la sentenza n. 149 del 10 maggio 2022, i cui effetti sul piano pratico nell’ambito del diritto punitivo sono ancora da scrutinare. I giudici della Consulta hanno dichiarato la illegittimità costituzionale proprio dell’art. 649 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell’imputato, al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo non legato a quello penale da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto, una sanzione avente carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dei relativi protocolli, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), apporta nuova linfa propulsiva alla tematica di riferimento. Nel caso di specie la Corte ha censurato la norma in quanto non impone al giudice di pronunciare una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsto dall’art. 171-ter della l. n. 633 del 1941, sulla tutela del diritto d’autore, il quale, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, definitivamente conclusosi, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174-bis della legge medesima. Ciò si pone infatti in contrasto con la ratio del principio delne bis in idem, ovvero «quella di evitare che un soggetto sia sottoposto ad un’ulteriore sofferenza nonché a costi economici, ovvero a quelle che sono le conseguenze naturali di un nuovo processo a fronte di fatti per i quali esso sia già stato giudicato. Sono presupposti per la configurazione del ne bis in idem: la sussistenza di un medesimo fatto, la sussistenza di una previa decisione (che concerna il merito della responsabilità penale dell’imputato e che sia divenuta irrevocabile) nonché la sussistenza di un secondo procedimento o processo di carattere penale per quei medesimi fatti». Laddove tuttavia la nozione di sanzione “penale” attinge largamente all’elaborazione europea, piuttosto che alla codifica di diritto positivo nazionale.
La Corte conclude affermando la propria consapevolezza dell’insufficienza della declaratoria di illegittimità costituzionale della norma in parte qua, rivolgendo un monito in senso correttivo al legislatore «nel quadro di un’auspicabile rimeditazione complessiva dei vigenti sistemi di doppio binario sanzionatorio».
Conclusioni.
La necessità di realizzare in Italia una radicale semplificazione normativa, accompagnata da quella amministrativa, viene unanimemente indicata dagli analisti, da rapporti internazionali e nazionali, nonché dalle forze politiche e dai settori produttivi, come un elemento essenziale per il rilancio del Paese. E ciò, sia in termini di competitività delle imprese, sia in termini di qualità della vita dei cittadini, favorendo l’accesso ai servizi e la tutela dei diritti. L’efficienza e la competitività del sistema produttivo, la crescita economica e la stessa qualità della vita risentono della qualità della regolazione, non meno che della semplificazione amministrativa: la deflazione normativa, la migliore e più coerente produzione e manutenzione delle regole scongiurano infatti il rischio di un’incertezza del diritto che alligna nell’eccesso di norme, soprattutto se confuse e contraddittorie, la quale può condurre alla negazione del diritto stesso e a porre le premesse per comportamenti illegali.
Quanto detto, tuttavia, come vale necessariamente nella fase di avvio delle attività economiche, non può non valere anche con riferimento alla eventuale patologia del relativo esercizio, sì da rendere la sanzione afflittiva in maniera commisurata al comportamento tenuto, e comunque non radicalmente ostativa, per reiterazione e non per intensità, alla loro prosecuzione.
L’interprete dunque, nel dipanare la intricata matassa di norme, nazionali e locali mal coordinate e sovrapposte, deve comunque tenere conto di tali elementari principi di garanzia, evitando la duplicazione di procedimenti sanzionatori, volti a censurare sotto l’egida della apparente diversità del valore giuridico tutelato la medesima condotta, addirittura con sanzioni di identico contenuto. Evidenti ragioni di sintesi non consentono di attingere anche le problematiche urbanistico-edilizie, igienico-sanitarie, ovvero ambientali connesse alla realizzazione in ampliamento di locali preesistenti della superficie destinata alla vendita o alla somministrazione di alimenti e bevande[47].
Se si eccettuano i profili di natura tributaria, dunque, la consistenza dell’abuso, tale da farlo assurgere a edificazione sine titulo, con quanto ne consegue in termini di rispetto delle eventuali disposizioni vincolistiche vigenti, dovrebbe indurre a riflettere sulla sua riconducibilità anche a tutte le ulteriori fattispecie di illecito astrattamente configurabili, laddove non sia ravvisabile un elemento certo di specialità di ciascuna di esse. A titolo di esempio, l’avvenuta attivazione del procedimento di cui all’art. 211 del Codice della strada, dovrebbe essere valutato al fine dell’applicazione di ulteriori misure della rimozione immediata dell’illecito, a maggior ragione ove introdotta più volte e con distinte finalità in distinti regolamenti comunali, di fatto riproducendo a livello locale le brutte abitudini regolatorie che affliggono la legislazione nazionale. E comunque, ancora una volta, è la Consulta a farsi da propulsore verso una razionalizzazione normativa che guidi a maggior ragione le scelte di politica punitiva, evitando di affidarle a spinte emozionali del momento e comunque imponendo la consapevole messa a sistema di tutte le possibili conseguenze di una condotta astrattamente contra ius.
[1] Con riferimento al caso in cui la medesima condotta violi diverse disposizioni normative, l’art. 8 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ha introdotto nel sistema sanzionatorio amministrativo il cumulo giuridico corrispondente a quello previsto per le pene dall’art. 81 del codice penale, ossia il concorso formale al primo comma, e successivamente, al secondo comma, la continuazione, ma limitatamente alle violazioni in materia di previdenza e assistenza obbligatorie. L’introduzione dell’istituto del concorso formale omogeneo o eterogeneo nel testo della legge ha avuto un andamento altalenante, indice della complessità della materia e del dibattito conseguitone: previsto nel disegno di legge 339 approvato dalla Camera dei deputati nella seduta del 18 settembre 1980, venne poi soppresso dal Senato (v. il testo trasmesso alla Camera il 17 giugno 1981) essendo stato, a quanto si legge nel resoconto della seduta della IV commissione della Camera del 22 luglio 1981, ritenuto superfluo perché la disposizione era ricavabile dai princìpi generali; ma fu ripristinato dalla richiamata commissione della Camera, nella seduta del 10 settembre 1981. A livello di disciplina generale non è stato invece previsto un regime mitigato in caso di concorso materiale di illeciti, che comporta pertanto la sommatoria “aritmetica” delle sanzioni, salvo il ricordato regime della continuazione introdotto dall’art. 1-sexies della legge 31 gennaio 1986, n. 11, di conversione in legge del decreto-legge 2 dicembre 1985, n. 688, limitatamente alle violazioni in materia previdenziale e contributiva, nel quadro della lotta all’evasione, con la dichiarata finalità di evitare una pesantezza delle sanzioni che avrebbe potuto scoraggiare gli autori degli illeciti evasori a mettersi in regola (seduta della Camera del 24 gennaio 1986). Sul tema v. Cons. Stato, sez. I, 15 aprile 2014, n. 1264.
[2] Basti ricordare, a mero titolo di esempio, le varie disposizioni (legislazione tributaria, regolamenti comunali, a loro volta riferiti alle varie materie destinate ad impattare sulla tematica, Codice della Strada, normativa urbanistico-edilizia ovvero vincolistica), da ultimo conseguite anche all’esigenza di fronteggiare l’emergenza pandemica e gli obblighi di distanziamento sociale ad essa correlati, che prevedono la rimozione dell’occupazione di suolo pubblico abusiva strumentale allo svolgimento di un’attività economica, determinando di fatto la sovrapposizione di procedure, per lo più connotate da modalità e tempistiche diverse. Sulla sopravvenienza della sanzione della chiusura dell’attività commerciale a distanza di anni dall’illecito, v. Cons. Stato, sez. II, 4 giugno 2020, n. 3548, riferita alla previsione dell’art. 5, comma 2, della l. 18 gennaio 1994, n. 50, quale conseguenza dell’accertamento del reato (per il quale era peraltro intervenuta estinzione per oblazione) di cui agli artt. 291-bis e 291-ter del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, relativo alla detenzione di tabacchi lavorati di contrabbando. La sentenza affronta anche il tema degli effetti del subingresso nell’attività commerciale intervenuto medio tempore, che può comportare l’estraneità dell’acquirente all’illecito originario, non potendoglisi certo imporre un onere di informativa sui procedimenti sanzionatori, di qualsiasi tipologia, pendenti o pregressi, vuoi in ragione della inesistenza di un’effettiva banca dati al riguardo, vuoi per non incorrere in violazione del divieto di gold platingnelle transazioni commerciali.
[3] Alla logica di semplificazione nell’accesso agli uffici pubblici rispondono, come noto, l’art. 24 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, di istituzione dello sportello unico delle attività produttive (S.U.A.P.) - la cui concreta operatività non a caso è stata tuttavia oggetto di disciplina regolamentare solo a distanza di molti anni (si veda da ultimo il d.P.R. 7 settembre 2010, n. 160) - nonché l’art. 5 del d.P.R. 30 giugno 2001, n. 380 (T.u.e.) concernente l’analoga struttura deputata all’istruttoria, anche informativa, delle sole pratiche edilizie di diversa natura. La prassi ha da subito evidenziato difficoltà di coordinamento finanche tra ridette articolazioni organizzative, in particolare negli Enti territoriali di dimensioni ridotte, anche laddove ci si avvalga dei previsti strumenti di gestione associata, per uno solo o per entrambi gli sportelli, con quanto ne è conseguito in termini di individuazione della effettiva titolarità delle competenze e, a cascata, delle conseguenti responsabilità). V. in proposito Cons. Stato, sez. IV, 9 dicembre 2020, n. 7773; sez. II, 27 febbraio 2020, n. 4774.
[4] L’elencazione delle sanzioni in materia urbanistico-edilizia riportata nel testo è volutamente limitata ad alcuni dei casi più frequenti di irrogazione di sanzioni pecuniarie individuate in una forbice edittale predeterminata. Più complesso l’inquadramento –ma di certo non il regime delle tutele, per quanto qui di interesse- delle medesime sanzioni pecuniarie, ove previste in alternativa alla demolizione, resa impossibile dal pregiudizio che ne deriverebbe alla parte “lecita” del manufatto (v. art. 34, comma 2, per il caso di realizzazione di un intervento in parziale difformità dal permesso di costruire), commisurate pertanto al valore venale del bene. Come è stato sottolineato dalla dottrina più rigorosa, il provvedimento che ingiunge la demolizione di un’opera abusiva, infatti, non ha natura propriamente sanzionatoria, ma è finalizzato a ripristinare la legalità oggettiva violata dall’abuso, tant’è che finisce per operare in maniera necessitata a prescindere dai profili di colpevolezza del proprietario dell’immobile. La stessa finalità finirebbe per condizionare anche le misure pecuniarie previste, per alcune fattispecie, proprio in alternativa alla demolizione stessa. Queste misure patrimoniali, inaugurate dalla legge-ponte del 1967, costituirebbero cioè uno strumento di riequilibrio patrimoniale diretto ad evitare che la violazione di norme urbanistico-edilizie possa determinare, in assenza della demolizione, un vantaggio patrimoniale in capo al titolare dell’immobile interessato, assumendo pertanto una finalità più propriamente perequativa, che ontologicamente sanzionatoria. Sul punto v. A. Albé, Provvedimenti repressivi di abusi e onere di motivazione, in Urbanistica e appalti, 2013, 12, 1329 (nota a Cons. Stato, sez. IV, 10 giugno 2013, n. 3182); D. Lavermicocca, Le sanzioni in edilizia. Atto vincolato e legittimo affidamento, in Urbanistica e appalti, 2019, 5, 641 (nota a Cons. Stato, sez. VI, 14 maggio 2019, n. 3133).
[5] Sul punto, v. ancora Cons. Stato, sez. II, n. 3548 del 2020, cit. sub nota 2. In dottrina, cfr. soprattutto gli studi di M.A. SANDULLI, La potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione. Studi preliminari, Napoli, 1981 (e ivi specifici capitoli sulla confisca e sulle sanzioni edilizie); Le sanzioni amministrative pecuniarie. Profili sostanziali e procedimentali, Napoli, 1983; Sanzione amministrativa, voce dell’Enc. giur. Treccani, Roma; Sanzioni non pecuniarie della P.A., in Libro dell’anno del dirittoTreccani, Roma, 2015; e di A. TRAVI, Sanzioni amministrative e pubblica amministrazione, Padova, 1984; Incertezza delle regole e sanzioni amministrative, in Dir. amm. 2014.
[6] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21 gennaio 2020, n. 512, ove si è esclusa la portata precettiva del termine per la contestazione delle violazioni solo nel caso in cui esista una diversa regolamentazione da parte di fonte normativa pari ordinata che per il suo carattere di specialità si configuri idonea ad introdurre deroga alla norma generale e di principio. La fattispecie esaminata dai giudici di Palazzo Spada concerneva le sanzioni irrogate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato in materia antitrust, con riferimento alle quali la tesi propugnata trova conforto anche nella previsione dell’art. 31 della l. 10 ottobre 1990, n. 287, che richiama le norme generali di cui alla l. 24 novembre 1981, n. 689 «in quanto applicabili», laddove il d.P.R. 30 aprile 1998, n. 217 non reca alcuna indicazione alternativa sulla scansione temporale del procedimento sanzionatorio.
[7] In taluni casi, tuttavia, la chiusura dell’attività sembra assumere proprio tale carattere riparatorio. Si pensi a quanto previsto a livello generale dall’art. 17-ter del r.d. 18 giugno 1931 (T.U.L.P.S.) per talune violazioni quali l’attivazione di un pubblico esercizio in assenza di titolo (violazione art. 86, sanzionata ai sensi dell’art. 17-bis): la previsione della cessazione dell’attività da disporsi entro 5 giorni costituisce un tipico esempio di misura cautelare riparatoria, al pari della sospensione per il tempo necessario ad adeguarsi alle prescrizioni, la cui durata non a caso viene scomputata dalla analoga sanzione accessoria (art. 17-quater). Solo nel primo caso si prescinde da qualsivoglia verifica sulla colpevolezza dell’autore della violazione, stante la finalità cautelare dell’intervento. La circostanza che per talune tipologie di pubblici esercizi, quali quelli di somministrazione di alimenti e bevande, sia da tempo intervenuta una distinta legislazione di settore, anche a livello nazionale (l. n. 287 del 1991) rende a questo riguardo particolarmente sensibile la scelta del legislatore di non abrogare comunque il sistema sanzionatorio previsto dal T.u.l.p.s., per la evidente finalità di conservare una qualche rilevanza alla vecchia categoria della autorizzazioni di polizia, tipicamente riconducibili allo stesso: pretermettendo tuttavia le conseguenti problematiche di potenziale duplicazione di sanzioni, anche accessorie, in tal modo previste, in dispregio del principio del ne bis in idem.
[8] Si pensi al recente revirement della giurisprudenza amministrativa in materia di perentorietà dei termini dei procedimenti sanzionatori facenti capo all’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente – ARERA. Se in linea generale, infatti, il carattere della perentorietà può essere riconosciuto a una scadenza temporale solo da un’espressa norma di legge, sicché, in assenza di una specifica disposizione che lo preveda come tale, esso va necessariamente inteso come sollecitatorio o ordinatorio e il suo superamento non determina l’illegittimità dell’atto, la particolarità del procedimento sanzionatorio rispetto al paradigma del procedimento amministrativo ha opportunamente portato a diverse conseguenze, attesa la stretta correlazione sussistente tra il rispetto di quel termine e l’effettività del diritto di difesa, avente protezione costituzionale (nel combinato disposto degli articoli 24 e 97 Cost.). Difatti, nei procedimenti sanzionatori consentire l’adozione del provvedimento finale entro il lungo termine prescrizionale (cinque anni, ex art. 28 della l. n. 689 del 1981), anziché nel rispetto del termine specificamente fissato per la sua adozione, equivarrebbe a esporre l’incolpato a un potere sanzionatorio di fronte al cui tardivo esercizio potrebbe essergli difficoltoso approntare in concreto adeguati strumenti di difesa, non adeguatamente tutelate dal generico richiamo ai principi sul giusto procedimento di cui alla l. n. 241 del 1990. L’esercizio di una potestà sanzionatoria, di qualsivoglia natura, non può dunque restare esposta sine die all’inerzia dell’autorità preposta al procedimento, per elementari esigenze di sicurezza giuridica e di prevedibilità in tempi ragionevoli delle conseguenze dei propri comportamenti (Cons. Stato, sez. VI, 12 gennaio 2021, n. 584; id., 17 marzo 2021, nn. 2307, 2308 e 2309, che hanno esteso i principi già affermati con riferimento ad altre Autorità - Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 2016, n. 1199; id., 6 agosto 2013, n. 4113; 29 gennaio 2013, n. 542, con riferimento alla Banca d’Italia; sez. VI, 4 aprile 2019, n. 2289, per l’ANAC; sez. VI, 17 novembre 2020, n. 7153, per l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni; sez. VI, n. 512 del 2010, cit. sub nota 6, con riferimento all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che ha tuttavia precisato come il termine di 90 giorni previsto dall’art. 14, comma 2, della l. n. 689 del 1981 per la contestazione dell’illecito, inizia a decorrere solo dal momento in cui è compiuta o si sarebbe dovuta ragionevolmente compiere, anche in ragione della complessità della fattispecie, l’attività amministrativa intesa a verificare l’esistenza dell’infrazione, comprensiva dei suoi elementi oggettivi e soggettivi.
[9] Il sistema sanzionatorio previsto dal d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, c.d. Nuovo Codice della Strada, costituisce un caso paradigmatico di coesistenza di sanzioni accessorie ad illeciti penali e ad illeciti amministrativi, essendo previste condotte punite con sanzioni amministrative pecuniarie ed altre costituenti reato, con riferimento a ciascuna delle quali sono fornite anche importanti indicazioni procedurali per l’organo di polizia stradale chiamato ad intervenire.
[10] Sul punto v. G. Napolitano, Manuale dell’illecito amministrativo, Sant’Arcangelo di Romagna, 2021, p. 318 ss.; G. Crespaldi - E. Comi, Le sanzioni amministrative accessorie, in La sanzione amministrativa, principi generali, Torino, 2011.
[11] Costituiscono una generalizzata eccezione le già ricordate violazioni in materia di circolazione stradale, caratterizzate da una sorta di anticipazione immediata degli effetti della sanzione, che talvolta ne esauriscono la portata afflittiva, talaltra necessitano di formalizzazione nell’atto di concreta irrogazione da parte dell’autorità competente.
[12] Si pensi a quanto già detto sub nota 7 in ordine agli illeciti conseguiti alla depenalizzazione del T.U.L.P.S. ad opera del d.lgs. 13 luglio 1994, n. 480. In taluni casi peraltro l’inquadramento del provvedimento interdittivo in termini cautelari o sanzionatori è tutt’affatto agevole. Si pensi ancora a quanto previsto dall’art. 666 c.p. con riferimento alle attività di spettacolo senza autorizzazione (originario reato ora depenalizzato dal d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507) per le quali è prevista la cessazione, senza ulteriori esplicitazioni procedurali, sicché se ne può immaginare l’irrogazione anche con ordine verbale ovvero formalizzato nel relativo atto di accertamento. La sua obbligatorietà, per quanto sviluppato nel prosieguo nel testo, finirebbe per impattare anche sul regime delle competenze, laddove lo si inquadri quale sanzione e non quale misura cautelare, come invece ritiene chi scrive.
[13] Sul tema v. fra i tanti M. Allena, La sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi CEDU: il problema della tassatività-determinatezza e la prevedibilità, in federalismi, n. 4/2017..
[14] In materia, da ultimi, in dottrina, S. Lucattini, Le sanzioni a tutela del territorio, Torino, 2022 e M.A. SANDULLI, voce Edilizia, in Funzioni amministrative, volume de “I tematici” dell’Enciclopedia del diritto, Milano, 2022, leggibile anche, in versione più ampia e aggiornata, in Riv. giur. edil. 2022.
[15] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2021, n. 7380; id., 3 febbraio 2020, n. 864; in senso contrario, v. Cons. Stato, sez.VI, 20 settembre 2017, n. 4400. Sul tema dell’applicabilità delle misure sanzionatorie in materia edilizia e della buona fede del terzo acquirente o, più in generale, del proprietario non responsabile dell’attività illecita, si richiama l’orientamento giurisprudenziale, che trae spunto dalla sentenza di Corte Costituzionale del 15 luglio 1991, n. 345, sviluppatosi in materia di acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area sulla quale insiste l'opera abusiva nel caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione, di cui all’art. 31 del D.P.R. 380/2001. Secondo l’indicata giurisprudenza amministrativa la sanzione acquisitiva al patrimonio dell’ente, a differenza di quella demolitoria volta al ripristino dello stato dei luoghi, non può essere comminata nei confronti del proprietario del fondo incolpevole, perché rimasto del tutto estraneo, dell’abuso edilizio. Da ciò discende la necessità per l’applicazione delle sanzioni amministrative privative della proprietà del bene, che non si palesino meramente ripristinatorie rispetto all’abuso perpetrato, di un elemento soggettivo almeno di carattere colposo da parte del soggetto proprietario che subisce la sanzione.
[16] Sul tema dell’applicabilità delle misure sanzionatorie in materia edilizia e della buona fede del terzo acquirente o, più in generale, del proprietario non responsabile dell’attività illecita, si richiama l’orientamento giurisprudenziale, che trae spunto dalla sentenza di Corte costituzionale del 15 luglio 1991, n. 345, sviluppatosi in materia di acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area sulla quale insiste l'opera abusiva nel caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione, di cui all’art. 31 del d.P.R. n.380/2001. Secondo l’indicata giurisprudenza amministrativa la sanzione acquisitiva al patrimonio dell’ente, a differenza di quella demolitoria volta al ripristino dello stato dei luoghi, non può essere comminata nei confronti del proprietario del fondo incolpevole, perché rimasto del tutto estraneo, dell’abuso edilizio. Da ciò discende la necessità per l’applicazione delle sanzioni amministrative privative della proprietà del bene che non si palesino meramente ripristinatorie rispetto all’abuso perpetrato, di un elemento soggettivo almeno di carattere colposo da parte del soggetto proprietario che subisce la sanzione.
[17] Sulla distinzione tra revoca in senso proprio e le altre figure così impropriamente qualificate nella prassi delle amministrazioni pubbliche e negli stessi testi legislativi, che in realtà hanno carattere sanzionatorio o decadenziale, appunto, in quanto trovano la loro fonte nella disciplina propria del rapporto o comunque connessa al rilascio del titolo (norma di legge, o regolamento, capitolato, convenzione, disciplinare, ecc.), v. V. Domenichelli, La revoca del provvedimento, in Codice dell’azione amministrativa a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2017, con aggiornamento di M. Sinisi, in particolare p. 1062.
[18] A ben vedere la sistematizzazione della complessa materia della decadenza da parte dell’Adunanza plenaria risente forse dell’eccesso di sintesi con la quale si intende delimitare quella di specifico interesse, sicché non è da condividere il richiamo all’evenienza di una decadenza quale provvedimento di secondo livello con efficacia ex tunc, anziché ex nunc, come tipico della stessa. Per la distinzione tra tale ulteriore revoca in senso atecnico, meglio definita quale rimozione o caducazione, che tende a rimuovere con effetto ex tunc un atto inopportuno ab origine e abrogazione, con effetto ex nunc, avuto riguardo ai provvedimenti ad efficacia durevole, v. A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, p. 702 ss.; Benvenuti F., Appunti di diritto amministrativo, Padova, 1987, p. 157.
[19] L’esatto inquadramento delle misure adottate dall’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente – ARERA e della disciplina ad esse applicabile è tutt’affatto che semplice e ne è riprova il recente – e condivisibile – revirement giurisprudenziale in materia di perentorietà dei termini del relativo procedimento “sanzionatorio”. Se in linea generale, infatti, il carattere della perentorietà può essere riconosciuto a una scadenza temporale solo da un’espressa norma di legge, sicché, in assenza di una specifica disposizione che lo preveda come perentorio, il termine va inteso come sollecitatorio o ordinatorio e il suo superamento non determina l’illegittimità dell’atto, tuttavia la particolarità del procedimento sanzionatorio rispetto al paradigma del procedimento amministrativo conduce a diverse conseguenze, attesa la stretta correlazione sussistente tra il rispetto di quel termine e l’effettività del diritto di difesa, avente protezione costituzionale (nel combinato disposto degli articoli 24 e 97 Cost.). Difatti, nei procedimenti sanzionatori consentire l’adozione del provvedimento finale entro il lungo termine prescrizionale (cinque anni, ex art. 28 della l. n. 689 del 1981), anziché nel rispetto del termine specificamente fissato per la sua adozione, equivarrebbe a esporre l’incolpato a un potere sanzionatorio di fronte al cui tardivo esercizio potrebbe essergli difficoltoso approntare in concreto adeguati strumenti di difesa. L’esercizio di una potestà sanzionatoria, di qualsivoglia natura, non può dunque restare esposta sine die all’inerzia dell’autorità preposta al procedimento, per elementari esigenze di sicurezza giuridica e di prevedibilità in tempi ragionevoli delle conseguenze dei propri comportamenti (Cons. Stato, sez. VI, 12 gennaio 2021, n. 584; id., 17 marzo 2021, nn. 2307, 2308 e 2309, che hanno esteso i principi già affermati con riferimento ad altre Autorità - Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 2016, n. 1199; id., 6 agosto 2013, n. 4113; 29 gennaio 2013, n. 542, con riferimento alla Banca d’Italia; sez. VI, 4 aprile 2019, n. 2289, per l’ANAC; sez. VI, 17 novembre 2020, n. 7153, per l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni).
[20] Sui poteri di controllo del GSE cfr. da ultimo lo studio critico di A. Coiante, I poteri del GSE nell’ambito dell’erogazione degli incentivi per la produzione di energia da fonte rinnovabile, in Federalismi, n. 17/2022 e ivi ampi richiami di e di giurisprudenza.
[21] Vero è che nel caso di specie il legislatore finisce per attribuire rilievo all’inerzia protratta nel tempo dell’operatore economico, sì da attribuirle il significato di rinuncia implicita al titolo, al pari di quanto avviene, mutatis mutandis, in caso di mancato avvio dei lavori entro il termine normativamente dato dal rilascio del permesso di costruire. La stretta connessione, tuttavia, esistente fra titolarità della concessione di suolo pubblico e legittimazione all’esercizio della vendita fa sì che a tale decadenza/rinuncia consegua automaticamente la revoca/sanzione dell’autorizzazione, astrattamente riferibile, peraltro, anche ad altri posteggi ovvero all’esercizio dell’attività in forma itinerante.
[22] Ma non necessariamente: si pensi all’occupazione temporanea per l’effettuazione di un trasloco, o per l’installazione di un ponteggio funzionale all’effettuazione di lavori edilizi sull’immobile prospiciente.
[23] Cfr. Cass., SS.UU., 11 febbraio 2011, n. 3811 e 3813. Partendo dal richiamato assunto che supera ampiamente la tradizionale sistematica codicistica, i giudici di legittimità reinterpretano il concetto di demanialità e auspicano politiche amministrative di tipo orizzontale che coinvolgano i cittadini nella gestione dei beni funzionali al soddisfacimento degli interessi della collettività. A monte, sotto il profilo testuale, l’art. 822 c.c. ricomprende nel cosiddetto demanio marittimo il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti ma nulla dice delle lagune, ossia gli specchi d'acqua in immediata vicinanza al mare, la cui natura demaniale è stata riconosciuta ogni qual volta vi sia la libera comunicazione con esso. Per un approfondimento sulla tematica si veda G.P. Cirillo, Il diritto di accesso al mare, in www.giustizia.amministrativa.it.
[24]Cfr. art. 190 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 del 2016, Codice dei contratti pubblici, che ha assorbito, in particolare dopo il così detto “correttivo”, d.lg. 19 aprile 2017, n. 56, la disposizione già contenuta nell’art. 24 del d.l. 12 settembre 2014, n.133, cosiddetto ‘sblocca Italia’, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164. Al riguardo v. A. Manzione, “Dal baratto amministrativo al partenariato sociale e oltre nel solco della atipicità”, in AA.VV., La co-città, a cura di P. Chirulli e C. Iaione, Iovene ed., 2018.
[25] Per quanto, infatti, talvolta si utilizzi in maniera impropria il riferimento all’autorizzazione, correttamente la legislazione nazionale, anche tributaria, riconduce il relativo titolo a siffatta dizione, con quanto ne consegue in relazione all’applicabilità dei medesimi principi elaborati con riferimento alle concessioni demaniali marittime in applicazione della c.d. Direttiva Bolkestein.
[26] Sulla materia è ormai nota la ricostruzione dei principi comunitari, seppure con specifico riferimento al tema delle concessioni demaniali marittime, contenuta nelle sentenze della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 9 novembre 2021, n. 17 e 18, cui ha fatto seguito un corposo dibattito dottrinario (v. ex multis i contributi di M.A. Sandulli, F. Ferraro, G. Morbidelli, M. Gola, R. Dipace, M. Calabrò, E. Lamarque, R. Rolli - D. Sammarro, E. Zampetti, G. Iacovone, M. Ragusa, P. Otranto, B. Caravita di Toritto - G. Carlomagno. In Diritto e Società, n. 3 del 2021 dedicato a La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenza 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria. Per una valorizzazione della tutela storico-identitaria delle attività economiche ospitate nei relativi locali della Galleria Vittorio Emanuele di Milano, v. ex multis Cons. Stato sez. V. 3 novembre 2021, n. 7340, nonché, nella stessa direzione, 3 settembre 2018, n. 5157, secondo cui «il principio della concorrenza deve recedere a fronte dell’interesse imperativo generale della tutela delle attività storiche e di tradizione che occupano immobili di proprietà pubblica, le quali contribuiscono a salvaguardare ed a conservare il patrimonio storico e artistico delle città». In tali circostanze si è ritenuto altresì legittimo il criterio oggettivo scelto dal Comune per la determinazione del canone, non determinato a seguito di una procedura concorsuale, ove l’offerente più forte avrebbe prevalso, ma « necessaria secondo le risultanze di una dinamica di mercato di cui non può non tenersi conto, anche nell’ottica di valorizzazione virtuosa dei beni pubblici, il rendimento dei quali contribuisce ad incrementare il bilancio dell’amministrazione». In tali fattispecie il Comune ha dunque garantito agli esercenti le attività storiche il rinnovo senza gara delle loro concessioni demaniali, applicando un canone più che equo e nettamente inferiore rispetto a quello che si sarebbe determinato in seguito ad una procedura concorsuale.
[27] Parere AS1721 del 15 febbraio 2021 dell’AGCOM, che opera anche un’accurata ricostruzione della normativa di settore, connotata, al pari di quanto avvenuto per le concessioni demaniali marittime, da un regime di reiterata proroga basato sull’assunto che la materia fosse estranea all’ambito di applicabilità della direttiva servizi. In particolare ha ricordato come con l’articolo 1, comma 686, della legge n. 145/2018 (c.d. legge di bilancio 2019) è stato modificato il d.lgs. n. 59 del 2010, di recepimento della Direttiva 2006/123/CE (c.d. Direttiva Servizi o Bolkestein), sottraendo espressamente l’intero settore del commercio al dettaglio su aree pubbliche dall’applicazione della stessa (artt. 7, lett. f-bis, e 16, comma 4-bis, del d.lgs. n. 59/2010, che escludono l’applicazione delle disposizioni normative che imponevano di individuare i prestatori all’esito di una procedura selettiva, secondo criteri trasparenti e non discriminatori, stabilendo una durata dei titoli autorizzatori limitata e non soggetta a rinnovo automatico). Il d.l. n. 34/2020 (c.d. decreto Rilancio), convertito in legge n. 77/2020, ha poi prorogato al 2032 le concessioni di posteggio per il commercio su aree pubbliche in scadenza (articolo 181, comma 4-bis), nonché previsto che eventuali posteggi liberi, vacanti o di nuova istituzione andassero assegnati «in via prioritaria e in deroga a qualsiasi criterio» agli aventi titolo, senza l’espletamento di alcuna procedura ad evidenza pubblica (articolo 181, comma 4-ter). Tali previsioni hanno poi trovato ulteriore conferma nei punti 6, 7 e 9 dell’Allegato A al Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 25 novembre 2020, recante le previste Linee Guida.
[28] Dell’intera materia si occupa l’art. 2 del d.d.l. concorrenza 2021, AS 2469.
[29] Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. II ter, 18 gennaio 2022, n. 530, ove peraltro si mutua anche il regime transitorio ideato dall’Adunanza plenaria, in quanto «consapevole del notevole impatto (anche sociale ed economico) che tale immediata non applicazione può comportare, specie in un contesto caratterizzato da un regime di proroga che è frutto di interventi normativi stratificatisi nel corso degli anni». Il giudice di prime cure ha dunque affermato che « Alla stessa stregua, il Collegio ritiene di dover modulare gli effetti di questa pronuncia di rigetto, precisando che le concessioni cui si riferiscono i provvedimenti impugnati mantengono efficacia fino al 31 dicembre 2023, previo accertamento degli ulteriori presupposti richiesti dalla normativa vigente, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’U.E. e fermo restando che, nelle more, l’amministrazione ha il potere/dovere di avviare le procedure finalizzate all’assegnazione delle concessioni nel rispetto dei principi della normativa vigente, come delineati dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria n. 17 e n. 18 del 2021». In pari data vedi anche nn. 537 e 539. Cfr. altresì nella stessa direzione T.A.R. Sardegna, sez. II, 28 dicembre 2021, n. 865. Per tutte e quattro le sentenze è pendente appello.
[30] Cfr. Cons. Stato, sez. V. 12 maggio 2016, n. 1926.
[31] Cfr. Cass. Ord. Sez. 5 n. 2552 del 2018; Cass. Ord. SS.UU. n. 24967 del 2017; id. n. 61 e n. 11134 del 2016; id. n. 21950 del 2015; Corte Costituzionale n. 64/2008.
[32] V. Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 2015, n. 336.
[33] L’ordinanza richiama anche la assai più risalente Cass., n. 134 del 2001, che ha escluso la giurisdizione del giudice amministrativo in ragione del paradigma normativo applicabile, ovvero l’art. 22 della l.r. Emilia Romagna n. 17 del 1991, nonché n. 14633 del 2011, ove è precisato che in caso di sanzione alternativa o autonoma rispetto a quella pecuniaria è rilevante, ai fini della qualificazione della natura e funzione della sanzione, verificare se essa sia «il mezzo prioritario per attuare la legge violata».
[34] Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. II ter, 25 marzo 2021, n. 3699; id., 22 dicembre 2020, n. 13868; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. III, 12 ottobre 2020, n. 2559.
[35] La disposizione opera un non del tutto chiaro distinguo tra le esigenze di “ordine pubblico”, che necessitano l’intervento dell’apposita Autorità preposta alla relativa tutela e quelle di “sicurezza pubblica”, che invece consente sempre al Prefetto di intervenire. Il concetto di ordine pubblico scompare peraltro con il d.l. n. 14 del 2017, (che viene richiamato solo nell’art. 11, ma limitatamente al settore delle occupazioni arbitrarie di immobili) a favore della diversa nozione di sicurezza pubblica, sub specie di sicurezza urbana. In passato la Corte costituzionale aveva più volte precisato come la sicurezza pubblica si riferisce all’integrità fisica e all’incolumità delle persone e si sostanzia in un concetto differente rispetto a quello più ampio di ordine pubblico, richiamato nell’art. 2 Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (la sicurezza pubblica si riferisce all’integrità fisica e all’incolumità delle persone e si sostanzia in un concetto differente rispetto a quello più ampio di ordine pubblico, richiamato nell’art. 2 Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza).
[36] Ragioni di sintesi inducono a non approfondire oltre la tematica del rapporto tra le due fattispecie, che la giurisprudenza penale ha talvolta ritenuto sussistere in concorso tra di loro, essendo diversa l’obbiettività giuridica delle due norme, la prima in quanto posta a tutela del patrimonio, l’altra della sicurezza della circolazione stradale.
[37] Per la ricostruzione della genesi e dei contenuti all’attualità della dizione di sicurezza urbana si veda A. Manzione, Potere di ordinanza e sicurezza urbana, in Fedarlismi.it, 13 settembre 2017, n. 17.
[38] La possibilità di applicare l’ordine di allontanamento alle aree destinate a fiere, mercati o pubblici spettacoli è stata inserita con il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito con modificazioni dalla l. 1 dicembre 2018, n. 132. Per completezza va ricordato che l’ordine di allontanamento è previsto anche, senza necessità di apposita previsione regolamentare:
· quando lo stazionamento avviene nelle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze;
· in “aggiunta” alle sanzioni previste per le fattispecie di cui agli artt. 688 c.p. (Ubriachezza), 726 c.p. (Atti contrari alla pubblica decenza. Turpiloquio), 29 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 (Violazioni in materia di commercio su aree pubbliche), 7, comma 15-bis, del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (parcheggiatore o guardiamacchine abusivo), 1-sexies del d.l. 24 febbraio 2003, n. 28, convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile 2003, n. 88 (c.d. “bagarinaggio”).
[39] Con il risultato che l’ordine di allontanamento “accede” a tutte le ulteriori fattispecie di illecito esplicitamente menzionate, ovvero a generici comportamenti impeditivi della fruizione collettiva del suolo, quale tipicamente la sua occupazione nei luoghi individuati a livello regolamentare, ove potrebbe addirittura trovare spazio una procedimentalizzazione operativa della relativa applicazione.
[40] La disposizione si completa con la riconosciuta possibilità di “riesame” ex art. 21-quinquies della l. n. 241 del 1990 delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico non ritenute più compatibili con le esigenze di tutela fatte proprie dalla norma, anche in deroga alla disciplina regionale.
[41] Diversa è la questione con riferimento al c.d. DASPO urbano, ovvero il divieto di accesso indirizzato ad una singola persona in alcune zone su ordine del Questore. Esso viene definito come fattispecie a formazione progressiva, nel senso che l’ordine man mano che passa il tempo assume caratteristiche diverse. Dopo una prima fase necessaria in cui il contravventore è raggiunto dal provvedimento di allontanamento dell’organo accertatore e dalla sanzione amministrativa irrogata dal sindaco, si apre una fase eventuale, con finalità preventiva e non punitiva, in cui il Questore, in presenza di determinati presupposti può confermare il divieto di ingresso in una zona urbana estendendolo fino a 2 anni. Si tratta di un provvedimento collegato strumentalmente con quello dell’organo accertatore ma autonomamente impugnabile perché autonoma è la sua natura.
[42] Cons. Stato, sez. V, 14 giugno 2017, n. 2892.
[43] Cons. Stato, sez. V, 11 maggio 2017, n. 2198.
[44] L’art. 8 della l. n. 689 del 1981, tuttavia, pare limitarlo ai soli casi di sanzioni amministrative pecuniarie, almeno secondo la lettura restrittiva dell’intero sistema dell’illecito amministrativo di cui ampiamente nel testo.
[45] V. A. Procaccino, Ne bis in idem: un principio in evoluzione- Assestamenti e osmosi nazionali sul bis in idem in Giur. It., 2019, 6, 1957; D.Cimadomo, Ne bis in idem: un principio in evoluzione-Illecito amministrativo e reato: un’apparente ipotesi di bis in idem, in Giur. It., 2019, 6, 1457; B. Lavarini, Corte europea dei diritti umani e ne bis in idem; la crisi del “doppio binario”, in Dir. Pen. E Processo, 2014, 12, Supplemento, 82 (commento alla normativa).
[46] Cass., sez. III penale, 20 gennaio 2022, n. 2245.
[47] Per un’interessante ricostruzione della disciplina vigente con riferimento alle strutture lato sensu denominate dehors utilizzate per lo più per la somministrazione di alimenti e bevande all’aperto, v. Cons. Stato, sez. VI, 4 gennaio 2022, n. 32, relativo alle c.d. “pergotende”. L’art. 6 del d.P.R. n. 380/2001 elenca una serie di opere eseguibili senza alcun titolo abilitativo, fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali: tale elencazione, consentendo la realizzazione di interventi edilizi che non comportano/consentono alcun tipo di controllo da parte dell’autorità pubblica, deve ritenersi in sé tassativo, ferma restando l’eventuale elasticità delle definizioni utilizzate, che può richiedere un’opera interpretativa del giudicante. In particolare va ricordata la definizione di opera stagionale (lett. e-bis), che presuppone un tempo di installazione correlato all’utilizzo e comunque non superiore a 180 giorni, incluso montaggio e smontaggio; lett. e-ter), consistenti in opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, che non può mai ricomprendere le strutture soprastanti una pedana, i cui elementi portanti sono costituiti da pilastri, travi e tetto; lett. e-quinquies), ovvero “area ludica senza fini di lucro” o “elemento di arredo” di area pertinenziale all’edificio, cui non è mai riconducibile un’area destinata ad ospitare la clientela dell’esercizio, perciò destinata ad un fine non ludico né di mero arredo, ma invece di lucro. Quanto sopra trova conferma nelle previsioni del D.M. 2 marzo 2018, pubblicato nella G.U. 7 aprile 2018 n.81, di “Approvazione del glossario contenente l'elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera”, ai sensi dell’articolo 1, comma 2 del citato d. lgs. 222/2016, il quale individua tra le principali opere di edilizia libera, riconducibili all’art. 6, comma 1, lett. e-quinquies), singoli arredi (quali barbecue, fioriere, fontane, muretti, panche), giochi per bambini, pergolati di limitate dimensioni, ricoveri per animali domestici e da cortile, ripostigli per attrezzi, sbarre d’accesso, separatori, stalli per biciclette, elementi divisori e “tende, tende a pergola, pergotende, coperture leggere di arredo”; e tra le opere riconducibili all’art. 6, comma 1, lett. e-bis), i gazebo, gli stand fieristici, i servizi igienici mobili, elementi di esposizione vari, aree di parcheggio, tensostrutture, pressostrutture e assimilabili. La norma va integrata con le previsioni dell’art. 3, comma 5, che definisce gli interventi di nuova costruzione, dai quali sono stralciati quelli volti ad edificare manufatti “diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”, nonché “tende” e “ unita' abitative mobili con meccanismi di rotazione in funzione, e loro pertinenze e accessori, che siano collocate, anche in via continuativa, in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, che non posseggano alcun collegamento di natura permanente al terreno e presentino le caratteristiche dimensionali e tecnico-costruttive previste dalle normative regionali di settore ove esistenti”.
La Corte di Giustizia sceglie tra tutela del consumatore e certezza del diritto
Riflessione sulle sentenze del 17 maggio 2022 della Grande Camera della CGUE
di Franco De Stefano
1. Si vuole prendere in considerazione, a titolo di riflessione senza pretesa di dignità dogmatica e scientifica ed in attesa degli opportuni approfondimenti in dottrina e giurisprudenza, l’impatto delle quattro sentenze del 17 maggio 2022 della Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in materia di rilievo dell’abusività delle clausole in danno del consumatore:
a) causa C-600/19 Ibercaja Banco
b) cause riunite C-693/19 SPV Project 1503, C-831/19 Banco di Desio e della Brianza
c) causa C-725/19 Impuls Leasing România
d) causa C-869/19 Unicaja Banco
Tutte queste, fermo il riconoscimento della valenza del giudicato anche in materia consumeristica (per tutte, vedi punti 57 e 58 di BancoDesio, ma anche i corrispondenti passaggi delle altre; e comunque occorrendo ribadire il punto anche in base ad altre pronunce della stessa CGUE), giungono alla conclusione che il giudicato non si forma sull’assenza di carattere abusivo di una clausola, se, in un procedimento sommario, non vi sia una anche solo sommaria motivazione e manchi l’indicazione della definitività di tale conclusione in caso di mancata contestazione: con la conseguenza, specificamente indicata per l’ordinamento italiano, che il giudice dell’esecuzione (così invadendo l’autonomia processuale del singolo Stato) possa rilevare l’abusività della clausola, non essendogli tanto precluso dalla definitività del decreto ingiuntivo non opposto.
2. Le pronunce della CGUE potrebbero essere sintetizzate nella formula che il giudicato – o l’analoga figura della preclusione pro iudicato pure avanzata in dottrina – derivante da mancata opposizione del decreto ingiuntivo continua a coprire quanto espressamente dedotto ma non copre più anche tutto il deducibile, poiché ne sono escluse, quanto a quest’ultimo, le questioni in tema di tutela del consumatore secondo la disciplina eurounitaria.
La tematica involge la c.d. cedevolezza del giudicato nazionale – non nuova nell’esperienza anche italiana, come dimostra il caso Olimpiclub di qualche anno fa, ma assurta ora ad un’importanza inusitata per l’ampiezza delle ricadute delle ultime affermazioni – dinanzi alla normativa eurounitaria e, stavolta, di quella a tutela del consumatore, qualificata inderogabile dalla CGUE.
Le quattro sentenze del 17 maggio 2022 impattano in modo dirompente su consolidati principi, quali:
- La tradizionale ricostruzione del decreto ingiuntivo (definitivo o meno) in termini di titolo esecutivo giudiziale e non stragiudiziale
- La tradizionale ricostruzione in termini di giudicato formale e sostanziale del decreto ingiuntivo non opposto (o nella in tutto equivalente preclusione pro iudicato)
- La preclusione, ad opera del giudicato, non solo di quanto sia stato dedotto, ma pure di quanto sarebbe stato deducibile
- L’impossibilità radicale, per il giudice dell’esecuzione in sede esecutiva, di sindacare il merito del titolo esecutivo giudiziale
- L’intangibilità assoluta, da parte del giudice dell’esecuzione anche quale giudice dell’opposizione a quest’ultima, del titolo esecutivo giudiziale per fatti anteriori alla sua definitività, da farsi valere solamente davanti al giudice delle impugnazioni del titolo stesso.
L’intera riflessione può suddividersi in due grandi tematiche, cioè sulle ricadute de futuro e su quelle de praeteritu, con la notazione che quelle relative al passato si possono riproporre per il futuro ove nessuna soluzione si adotti dai richiedenti e dai concedenti i decreti ingiuntivi prossimi venturi.
3. Quale premessa ad ogni sforzo ricostruttivo, può anticiparsi che una soluzione può profilarsi de futuro, comunque non senza problemi per il caso in cui essa non fosse in concreto applicata, ma enormi sono le difficoltà de praeteritu, dinanzi ad un numero tendenzialmente indefinito di decreti ingiuntivi mai opposti che potrebbero implicare la relativa questione.
Prima di illustrare l’una e le altre, occorre però valutare quali reazioni potrebbero trovare luogo; e pare possibile individuare questi sviluppi:
a) La norma eurounitaria scardina principi processuali da qualificarsi di ordine pubblico o perfino connotanti la tradizione giuridica nazionale, quanto meno con riferimento alla certezza del diritto e al giudicato da provvedimento giurisdizionale definitivo, idonei a contrapporsi come tali al diritto eurounitario: sarebbe ipotizzabile investire la Corte costituzionale per invocare, se non l’attivazione dei controlimiti (ciò che finora è successo per situazioni obiettivamente eclatanti), quanto meno la verifica della tenuta della norma processuale così ridisegnata ai principi fondamentali dell’ordinamento nazionale;
b) La norma eurounitaria scardina principi processuali da qualificarsi di ordine pubblico o perfino connotanti la tradizione giuridica nazionale, idonei a contrapporsi come tali al diritto eurounitario: sarebbe necessario investire nuovamente la Corte di giustizia, chiedendole di puntualizzare la sua pronuncia in considerazione del valore irrinunciabile del giudicato (quanto meno quello implicito “consapevole”, cioè seguito ad una informata inerzia dell’interessato, la cui tutela non è incondizionata ed illimitata) per il nostro ordinamento;
c) La norma eurounitaria introduce un nuovo concetto di giudicato e di titolo esecutivo giudiziale, escludendo il giudicato implicito e l’estensione dell’esecutività del titolo quando si tratta di clausole abusive per il consumatore non sottoposte al suo contraddittorio: ed impone un adeguamento, per quanto complesso ed articolato, del nostro sistema processuale; e tuttavia questo sarebbe impossibile senza un intervento da parte della Consulta (ad esempio, intervenendo in via additiva sugli strumenti già a disposizione, di cui al punto successivo: artt. 650 o 654 o 656-395 cpc);
d) La norma eurounitaria introduce un nuovo concetto di giudicato e di titolo esecutivo giudiziale, escludendo il giudicato implicito e l’estensione dell’esecutività del titolo quando si tratta di clausole abusive per il consumatore non sottoposte al suo contraddittorio: ed impone un adeguamento, per quanto complesso, del nostro sistema processuale, possibile anche in via interpretativa da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità, con intervento in via manipolativa – e lato sensu creativa – degli strumenti esistenti o, in ultima analisi, con la devoluzione ad un’ordinaria azione di accertamento.
Le prime tre opzioni hanno notevoli implicazioni sistematiche e ciascuna offre aspetti positivi e negativi, tuttavia tutti che trascendono l’aspetto tecnico-giuridico.
4. Ove si desse per scontata l’ineluttabilità di un adeguamento in via di interpretazione del sistema esistente (in accettazione – che, de iure condito ed allo stato attuale, appare doverosa – dei penetranti dicta della Corte di Giustizia), si dovrebbe poi operare un’altra scelta di principio sui valori da preservare, tra cui, soprattutto, i consolidati principi, che ben potrebbero dirsi di ordine pubblico processuale: quello dell’intangibilità del titolo esecutivo giudiziale definitivo e del giudicato, cui è funzionale la separazione tra cognizione (e titolo esecutivo giudiziale) ed esecuzione.
E deve poi ammettersi che nessuna delle opzioni ricavabili in via ermeneutica, se non altro di quelle su cui finora ci si è potuti soffermare, per l’adeguamento del sistema risulta appagante, pienamente compatibile con la lettera delle norme nazionali vigenti o perfino accettabile per le ricadute sul sistema attuale e di prossima evoluzione.
5. L’adeguamento puntuale alle pronunce del Kirchberg de futuro può forse risolversi con l’obbligo – derivante direttamente dalla normativa eurounitaria – per il giudice del monitorio dell’inserimento di una duplice clausola nel decreto ingiuntivo (che non risultano elementi in base ai quali reputare violata la normativa eurounitaria in materia di tutela del consumatore; che quest’ultimo sia espressamente avvisato che, in difetto di opposizione tempestiva, sarà definitivamente acquisito che non vi è stata violazione di tale normativa), se del caso mediante rinvio alle allegazioni che sul punto il creditore ingiungente è tecnicamente onerato di fare, o, in mancanza, su impulso del giudice ex art. 640 cpc anche a produrre la documentazione necessaria. Ove manchino tali menzioni, si potrebbe pensare ad un’opposizione ordinaria da parte del debitore, ma pure ad un’azione del creditore per integrare – soprattutto se era stata chiesta ed è mancata in concreto – l’ingiunzione con tale indagine specifica; in mancanza dell’una o dell’altra, si riproporrà anche per il futuro la problematica per il passato di cui appresso.
Le questioni della violazione della normativa a tutela del consumatore, pertanto, se non risulti che ve ne sia stata una delibazione anche sommaria o la loro sottoposizione al contraddittorio anche del consumatore mediante il chiaro avviso all’ingiunto che in mancanza di opposizione esse non potrebbero rimettersi in discussione, non solo NON sono coperte dal giudicato, ma neppure si estende ad esse l’accertamento del titolo esecutivo giudiziale. Anzi, il titolo esecutivo giudiziale costituito dal decreto ingiuntivo non opposto non copre tale questione, che quindi resta aperta e rilevabile anche successivamente.
Tanto significa che, se la questione è anche solo sommariamente motivata e vi è stato un monito sulla irretrattabilità della conclusione sul punto in mancanza di opposizione nel termine (sentenza Ibercaja, punti 51[1] e 56 e prima massima), non vi è più spazio per successive contestazioni.
6. E tuttavia, in mancanza di tanto, o comunque de praeteritu, il vero problema nasce dal fatto che la C-693/19 (SPV Project 1503, e C-831/19, Banco di Desio e della Brianza e a.) conclude espressamente nel senso che su di un decreto ingiuntivo che non abbia affrontato la questione dell’abusività delle clausole in danno del consumatore il giudice dell’esecuzione debba potere valutare, anche per la prima volta, il carattere abusivo, ove – deve ritenersi coordinando i principi espressi – ne sia mancato un anche solo sommario esame nel giudizio del merito con menzione dell’onere di tempestiva opposizione sull’esclusione dell’abusività; e tanto col solo limite che il bene sia stato già trasferito a terzi, nel qual caso deve residuare una tutela risarcitoria in altra sede (vedi C-600/19 Ibercaja, punto 59[2]).
L’applicazione pedissequa e non elusiva del principio devolverebbe al giudice dell’esecuzione la potestà (e quindi il potere-dovere) di esaminare per la prima volta l’abusività delle clausole; le sentenze parlano di giudice dell’esecuzione, ma al tempo stesso il principio di autonomia processuale (Banco di Desio, punto 55[3]) autorizza il mantenimento della linea del Piave della necessaria separazione tra esecuzione e cognizione e, quindi, consente una articolazione dei rimedi processuali all’ordinamento del singolo Stato membro.
Per raggiungere tale risultato dovrebbero coordinarsi:
- la necessità imprescindibile di mantenere la ferma distinzione tra giudice della cognizione e giudice dell’esecuzione dinanzi ad un titolo esecutivo giudiziale, che può dirsi di ordine pubblico processuale;
- i principi generali di scissione tra allegazione, rilievo ed avvio dell’azione di cognizione indispensabile per vanificare il titolo esecutivo giudiziale.
7. Si potrebbe allora ipotizzare, fermo il limite preclusivo del già avvenuto trasferimento del bene (Unicaja punto 59, sicché in tali casi residuerebbe soltanto una tutela risarcitoria), un rilievo, da parte del g.e. in sede esecutiva, d’ufficio o su sollecitazione anche non formale (semplice ricorso, non necessariamente opposizione) del debitore, del mancato esame dell’abusività delle clausole.
Si apre, però, in tal modo uno scenario diversificato, essendosi pensato via via:
- Ad un’ipotesi di 656 c.p.c. e quindi di 395 extra ordinem: qui le perplessità derivano dalla conclamata necessità, ai fini dell’ampliamento di quel catalogo, di interventi legislativi (si veda la riforma ex lege 206/21 sulla nuova ipotesi di revocazione per contrarietà a sentenza CEDU) o almeno della Consulta (sentenze nn. 17/86, 36/91, 51/95, 558/99);
- Ad un’ipotesi di 650 c.p.c. del pari extra ordinem, in cui il termine decorra quanto meno dal rilievo da parte del g.e. e non sia ostacolato dalla preclusione dell’inizio dell’esecuzione da oltre dieci giorni; e qui le perplessità sono nel superamento dei detti termini, conseguibile con la creativa configurazione - quale causa di forza maggiore! - del rilievo del giudice;
- Ad un’ipotesi di 654 c.p.c. pure questa extra ordinem, in cui si onera di fatto il creditore di munirsi di un ulteriore accertamento per fare conseguire, definitivamente, l’esecutorietà al d.i., avverso il quale sarebbe però poi almeno riattivata la possibilità per l’ingiunto di dispiegare opposizione, stavolta ordinaria; e qui le perplessità derivano dalla natura meramente formale del controllo in genere esercitato in quella sede e dalla sua non azionabilità nei casi in cui il provvedimento sia già stato reso;
- Ad un’ipotesi di opposizione esecutiva (ai sensi dell’art. 615 cpc), in cui il debitore può rimettere in gioco un titolo esecutivo giudiziale definitivo, ma che sarebbe essa stessa extra ordinem: infatti, tanto è normalmente riservato al giudice della cognizione sul titolo stesso (a differenza del titolo esecutivo stragiudiziale, che può essere rimesso in discussione, proprio perché manca un preventivo accertamento giudiziale, appunto in sede di opposizione ad esecuzione), a meno di non volere stravolgere anche i principi in tema di decreto ingiuntivo e degradarlo, per questo, a titolo esecutivo stragiudiziale (come pare avere dato per presupposto la stessa CGUE, non appieno informata delle caratteristiche di quell’istituto processuale) o di ritenere che il controllo ufficioso del giudice dell’esecuzione sull’esistenza stessa del titolo possa spingersi al merito del medesimo ed al riscontro dei suoi vizi anteriori alla sua formazione, che, com’è noto, sono sempre stati rimessi al giudice della cognizione che avrebbe potuto o dovuto pronunciarsi sulla sua validità;
- infine, un’ordinaria azione di accertamento, che inizi dal primo grado e davanti al giudice ordinariamente competente per territorio, materia e valore, nel cui corso si accerti, siccome non coperto dal giudicato, il carattere abusivo di una o più clausole a danno del consumatore (la buona vecchia querela o actio nullitatis, ammessa per ossequio al dictum della CGUE): e nella quale la sospensione (esterna) del titolo giudiziale può conseguirsi almeno ex art. 700 c.p.c. con provvedimento vincolante per il singolo processo esecutivo ed il coordinamento con il quale potrebbe avvenire con un rinvio tecnico per consentire il dispiegamento di tale azione.
8. Deve dirsi preferibile, nonostante le aporie ma in considerazione di quelle più gravi delle altre soluzioni, la devoluzione ad altra sede della rimessione in discussione del titolo stesso con l’adduzione dei fatti impeditivi lasciati impregiudicati dalla CGUE in tema di abusività, ma davanti allo stesso giudice che lo ha pronunciato, che sarebbe pur sempre uno ed uno solo, come in ogni ipotesi eccezionale di rimessione in discussione di titoli esecutivi giudiziali; e tanto per salvaguardare la sottrazione al giudice dell’esecuzione di ogni ingerenza, anche a titolo di giudice di opposizione ad esecuzione, sul titolo giudiziale, a garanzia del giudicato su titolo esecutivo giudiziale e del resto in un sistema che altrimenti vedrebbe devoluto ad una pletora indefinita di potenziali giudizi – dinanzi a ciascuno dei giudici dei processi esecutivi potenzialmente avviabili in forza di quel titolo giudiziale e con esponenziale incremento del loro carico di lavoro – il rischio di interventi caotici e diversificati.
9. La provvisoria conclusione di tali modeste riflessioni è che, forse, in un caso come questo, sarebbe davvero inevitabile l’intervento del legislatore (introducendo un’ipotesi di revocazione straordinaria o di opposizione tardiva altrettanto straordinaria, semmai proprio con la prima legge europea a disposizione, a rimarcare la conseguenzialità della scelta rispetto alle pronunce europee), a disciplinare – non dissimilmente dalle iniziative in tal senso adottate da altri Paesi Membri dell’Unione – le ricadute di così ampia portata sull’ordinamento nazionale di queste importantissime pronunce del Kirchberg; ma, in attesa o in mancanza di questo, un importantissimo ruolo gioca la riflessione che l’Accademia, l’Avvocatura e la Magistratura, in ogni sua articolazione, potrà sviluppare sul punto, a difesa di valori comuni, quali la certezza del diritto, che costituiscono la ragione stessa della giurisdizione e la prima garanzia offerta all’ordinata convivenza dei consociati.
[1] Per contro, si deve ritenere che tale tutela sarebbe garantita se, nell’ipotesi di cui ai punti 49 e 50 della presente sentenza, il giudice nazionale indicasse esplicitamente, nella sua decisione di autorizzazione dell’esecuzione ipotecaria, di aver proceduto a un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole del titolo all’origine del procedimento di esecuzione ipotecaria, che detto esame, motivato almeno sommariamente, non ha rivelato la sussistenza di nessuna clausola abusiva e che, in assenza di opposizione entro il termine stabilito dal diritto nazionale, il consumatore decadrà dalla possibilità di far valere l’eventuale carattere abusivo di siffatte clausole.
[2] Di conseguenza, si deve rispondere alla quarta questione dichiarando che l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che non autorizza un organo giurisdizionale nazionale, che agisce d’ufficio o su domanda del consumatore, a esaminare l’eventuale carattere abusivo di clausole contrattuali quando la garanzia ipotecaria sia stata escussa, il bene ipotecato sia stato venduto e i diritti di proprietà relativi a tale bene siano stati trasferiti a un terzo, purché il consumatore il cui bene è stato oggetto di un procedimento di esecuzione ipotecaria possa far valere i suoi diritti in un procedimento successivo al fine di ottenere il risarcimento, ai sensi della direttiva in parola, delle conseguenze economiche risultanti dall’applicazione di clausole abusive.
[3] Se è vero che la Corte ha pertanto già inquadrato, in più occasioni e tenendo conto dei requisiti di cui all’articolo 6, paragrafo 1, e dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13, il modo in cui il giudice nazionale deve assicurare la tutela dei diritti che i consumatori traggono dalla direttiva in parola, ciò non toglie che, in linea di principio, il diritto dell’Unione non armonizza le procedure applicabili all’esame del carattere asseritamente abusivo di una clausola contrattuale, e che tali procedure rientrano dunque nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, in forza del principio dell’autonomia processuale di questi ultimi, a condizione, tuttavia, che esse non siano meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività) (v., in particolare, sentenza del 26 giugno 2019, Addiko Bank, C 407/18, EU:C:2019:537, punti 45 e 46 nonché giurisprudenza ivi citata).
Rosario Livatino oggi avrebbe compiuto settant’anni
di Fernando Asaro
Quando la Chiesa beatifica una vita intende consegnare alla memoria comune i percorsi umani e spirituali di persone che diventano Santi allo scopo di suscitare l’imitazione dei valori vissuti e delle azioni da loro compiute.
La beatificazione del magistrato Rosario Livatino è un modello che la Chiesa addita al mondo dei viventi, credenti e non; se ciò determina per la magistratura italiana un motivo di gaudio e stimolo nel quotidiano operare, impone altresì l’assunzione di una precisa responsabilità nel saper trarre ispirazione dal magistrato Livatino.
Il riconoscimento del martirio del Servo di Dio ripercorre i tratti salienti della sua vita professionale e dei suoi provvedimenti, da cui attingere insegnamenti di Diritto ed allo stesso tempo, Rosario Livatino diviene un riferimento di etica professionale che può guidare non solo la magistratura italiana ma tutti coloro – avvocatura compresa – che sono i costruttori del valore Giustizia.
La beatificazione del magistrato stride con gli scandali, i processi, le degenerazioni e gli abusi di chi ha indossato o indossa la toga al solo scopo di creare gruppi di potere dediti alla spartizione di ogni forma di esercizio della giurisdizione, premiando la fedeltà degli immancabili lacchè al padrone di turno; stride con la modestia etica a cui si assiste e che determina una crescente perdita di credibilità - cara a Livatino - della magistratura imponendo certamente una seria e costruttiva autocritica, ma anche un rispettoso recupero e riscatto dei principi costituzionali del nobile servizio del magistrato. Ed in tale tumultuoso contesto va respinta al contempo, ogni forma di strumentalizzazione, cavalcata da varie componenti della società, con l’unico scopo di ridimensionare l’autonomia e l’indipendenza da ogni forma di potere della magistratura così da controllarne e dirigerne le scelte.
Rosario Livatino si è reso credibile perché ha svolto scrupolosamente il suo servizio in favore dello Stato.
Egli diviene modello di etica professionale perché ha indossato la toga per presentarsi, preparato e puntuale, in udienza; per celebrare i processi senza rinvii pretestuosi o scansando la fatica del decidere; per redigere sentenze motivando, senza condizionamenti o vanità, la condanna o l'assoluzione nel rispetto dei termini processuali; per svolgere le indagini in modo completo nel rispetto della legge, con tempestività, privo di influenze, esitazioni o personalismi; per esercitare l’azione giudiziaria svelando sacche di impunità e facendo emergere reti di protezione o clientele locali; per abbattere "l'arretrato"; per essere presente in ufficio al mattino e al pomeriggio, ben distante dalla ricerca del lavoro “agile” o peggio, “agilissimo”; per essere magistrato autonomo e indipendente senza tatticismi o titubanze, senza contare il numero di udienze o processi o turni del collega della porta accanto per confrontarlo con il proprio ruolo.
Il magistrato Livatino non ha inopportunamente chattato (o comunicato coi mezzi di quei tempi); non ha frequentato salotti, circoli per tramare o per relazionarsi indebitamente con potentati estranei alla magistratura allo scopo di cercare vacui consensi.
Rosario Livatino è stato magistrato e non ha semplicemente "fatto" il magistrato.
“...L'indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l'indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività”.
Lo scorso anno una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha stabilito la legittimità del vincolo amministrativo posto alla “Casa di Famiglia del Giudice Rosario Livatino” in quanto bene di straordinario valore storico e culturale; in motivazione si legge “In quell’appartamento si è formato un ragazzo che con adamantina riservatezza ha interpretato i valori di rettitudine ed indipendenza che devono caratterizzare il lavoro del magistrato…nell’impegno etico e morale del giovane magistrato che, con la sua “normalità”, ha indicato ai giovani, non solo siciliani, la via del riscatto e della liberazione dal predominio mafioso”.
Il modello Rosario Livatino è fondamentale per ripristinare la credibilità della magistratura e tutelare il capitale reputazionale, patrimonio dell’essere magistrato, davanti a comportamenti che - prima ancora di integrare profili penali o disciplinari - intaccano la fiducia che i cittadini devono avere nei costruttori dell’amministrazione della Giustizia.
“È importante che egli (il magistrato) offra di se stesso l'immagine non di una persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona equilibrata, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire”.
Il suo vissuto ci invita a rifuggire dal magistrato-burocrate appiattito al formale rispetto delle ore lavorative, non un magistrato isolato nella sua torre eburnea ma neanche un magistrato che gareggia all'interno di una scenografica arena accogliendo o incoraggiando tifoserie, dimenticando di “essere” un servitore dello Stato.
I valori vissuti da Rosario Livatino sono fruibili da tutti coloro – non solo dai magistrati – che condividono la responsabilità di compiere il valore Giustizia ed è auspicabile, nel recupero dell’etica professionale, trovare la presenza convinta e consapevole dell’Avvocatura, voce autorevole e composta dei diritti violati e cardine tra le domande di giustizia e lo Stato; insieme, per non disperdere – ciascuno per la propria parte – i principi dei rispettivi codici deontologici nell’esercizio quotidiano della Giustizia che, ascoltando Livatino, richiede "persone serie, persone equilibrate, persone responsabili ma anche persone comprensive ed umane, capaci di capire".
Donne, vita e libertà di Maria Teresa Covatta
È questo lo slogan chiave delle proteste che in questi giorni stanno dilagando in tutto l'Iran, compreso il tormentato Kurdistan.
Gli arresti sono centinaia, almeno dalle notizie diffuse dalle Ong che indirettamente operano sul territorio (molte sono costrette ad aver sede all'estero) e che si battono per i diritti delle donne. Tra questi anche l'arresto di Niloufar Hamedin, la giornalista che per prima ha dato la notizia della morte di Mahsha Amini e da sempre si batte per i diritti delle donne.
Mahsha è solo la punta dell'iceberg. La denuncia di ragazze multate, arrestate, picchiate e "punite" per colpe connesse alla loro moralità, che comprende anche aver indossato il velo in modo "inadeguato", ci sono da anni, purtroppo inascoltate.
Tante sono anche le morti causate dalla protesta. L'ultima, diffusa oggi dalla stampa internazionale, è quella di Hadith Najafi, una giovano donna simbolo delle proteste. Gli attivisti e i giornalisti locali dicono che è stata freddata a colpi di pistola. Ma le notizie sono poche e arrivano con il contagocce.
Tutte le dittature hanno imparato (la guerra russo ucraina ce lo ha insegnato) che Internet è il loro nemico e che va bloccato.
E' accaduto anche in Iran, "per evitare il caos creato dalle proteste", anche se all'Assemblea Generale ONU il presidente iraniano aveva assicurato accurate misure per accertare le cause del delitto di Mahsha .
Bella ciao in lingua persiana. Una mattina mi sono alzata e ho trovato l'invasor...
Ma le proteste di questi giorni, i capelli rasati in pubblico e i veli bruciati in piazza, ci dicono che una mattina le donne iraniane si sono alzate e davanti al delitto efferato di una donna perchè velata inappropriatamente, davanti a questa ennesima invasione brutale delle loro esistenze, hanno deciso che per la libertà vale la pena di dare anche la vita.
E hanno deciso di urlarlo al mondo con ogni mezzo possibile.
E' questo il senso del video diffuso su Twitter. Questa la sua grandissima utilità.
Donne, vita e libertà. Non lasciamole sole
La testimonianza scritta nel processo tributario riformato
di Francesco Pistolesi
Sommario: 1. Premessa. - 2. I limiti di ammissibilità della prova. - 3. La disciplina dell’assunzione della testimonianza scritta. - 4. Conclusioni.
1. Premessa.
Una significativa novità della riforma del processo tributario è rappresentata dall’introduzione della prova testimoniale in forma scritta ad opera del nuovo comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546/1992, applicabile ai giudizi introdotti con ricorsi notificati dopo l’entrata in vigore della L. n. 130/2022 (ossia dal 16 settembre 2022 in poi)[1].
Anzitutto, è apprezzabile, di per sé, la rimozione del divieto di prova testimoniale che finora ha limitato il diritto di difesa e violato il principio, di rilevanza costituzionale ed europea, del giusto processo.
Infatti, nel giudizio tributario hanno sempre trovato ingresso elementi probatori aventi natura analoga alla prova testimoniale ma non acquisiti con le cautele e le garanzie del rispetto del contraddittorio che invece caratterizzano, nel processo civile, l’assunzione della prova finora vietata.
Si tratta delle dichiarazioni di terzi sulle vicende di causa raccolte – generalmente prima e comunque fuori del giudizio – essenzialmente dall’ente impositore e talora pure dal contribuente.
La giurisprudenza[2] ritiene che tali dichiarazioni siano meri indizi, dovendosi perciò a esse affiancare prove ulteriori per dimostrare quanto ne forma oggetto; inoltre, occorre che il giudice ne disponga la verificazione se sorgono contestazioni in proposito.
Pertanto, il giudice, che se ne voglia servire per risolvere la lite, deve riscontrarne l’attendibilità, nel rispetto del contraddittorio: per l’esattezza, stando alla sentenza n. 18\2000 della Corte Costituzionale, ove le dichiarazioni introdotte dall’ente impositore siano messe in discussione, la Commissione tributaria – se non reputi la pretesa controversa confortata da altri mezzi di prova – “potrà e dovrà far uso degli ampi poteri inquisitori riconosciutigli dal comma 1 dell’art. 7 del D.L.vo n. 546 del 1992, rinnovando e, eventualmente, integrando – secondo le indicazioni delle parti e con garanzia di imparzialità – l’attività istruttoria svolta dall’ufficio”.
Tuttavia, siamo ben lungi dall’acquisizione di una prova che offra le garanzie di quella testimoniale. Basta pensare che solo il giudice individua i soggetti da sentire e formula le richieste di chiarimenti.
Non può, quindi, che essere salutata con favore la possibilità per le parti del processo tributario di avvalersi della prova testimoniale: esse vedono così significativamente rafforzato il loro diritto di tutela giurisdizionale.
Non v’era alcun motivo, d’ordine sistematico o logico, che sorreggesse il divieto di assunzione della prova per testi.
Non solo, al posto di questo mezzo istruttorio se ne è sempre impiegato un altro – la dichiarazione del terzo, appunto – che ne è una sorta di succedaneo, del tutto inadeguato alla luce dei ricordati valori del diritto di difesa e del giusto processo.
Se poi si considera quanto è diffuso nella prassi il ricorso alle presunzioni semplici, ci si avvede facilmente che la prova testimoniale potrà essere utilmente impiegata dalla parte – di regola, il contribuente – contro cui dette presunzioni vengono fatte valere per contrastarne la valenza probatoria.
Resta ferma, invece, l’inammissibilità del giuramento, nelle varie forme che può assumere nel processo civile. E ciò è ben comprensibile, siccome incompatibile con la natura non disponibile – per la parte pubblica – del credito tributario controverso.
Inoltre, la scelta per la forma scritta è adatta al giudizio tributario in cui manca una vera e propria fase istruttoria, stante la natura spiccatamente documentale dell’istruttoria processuale medesima.
Va altresì condivisa l’eliminazione del limite, presente nel disegno di legge di iniziativa governativa che ha condotto all’adozione della L. n. 130/2022, rappresentato dall’ammissibilità della prova qualora la pretesa tributaria fosse “fondata su verbali o altri atti facenti fede sino a querela di falso”.
Ora, questa prova può trovare ingresso in ogni giudizio. Ed è corretto, potendo essa risultare necessaria anche nelle cause che non traggano origine dall’impugnazione di atti basati sui menzionati verbali.
Vero è che, nella gran parte dei casi, la necessità della prova testimoniale emerge allorché nell’istruttoria condotta dall’ente impositore o dalla Guardia di Finanza vengono rese dichiarazioni da parte di soggetti terzi rispetto al contribuente, recepite nei menzionati verbali e atti facenti fede fino a querela di falso.
Tuttavia, l’esigenza di assumere una testimonianza può sorgere anche in altre circostanze.
Si faccia il caso in cui l’Agenzia delle Entrate contesti la fittizietà di determinate fatture adducendo – come di frequente avviene – la mancanza di struttura organizzativa del venditore dei beni o servizi e/o la non congruenza dei prezzi praticati. In un contesto del genere, potrebbe avere rilevanza decisiva chiamare a teste il dipendente dell’acquirente che ha seguito le operazioni contestate e/o l’agente che ha messo in contatto i contraenti e/o un esperto operatore del settore merceologico cui sono riconducibili dette operazioni. Oppure si pensi alla controversia relativa alla determinazione sintetica del reddito, nel cui ambito potrebbe risultare essenziale la testimonianza del familiare del contribuente che ha provveduto a sostenerne determinate spese o gli ha elargito denaro contante. O, ancora, si consideri la causa vertente sulla pretesa di collocare in Italia la residenza fiscale di una persona fisica, traente origine – come, di nuovo, l’esperienza insegna – da corrispondenza o documenti che ne collocherebbero nel nostro Paese il centro dei relativi interessi personali e/o economici: anche qui potrebbero assumere dirimente rilievo le testimonianze di coloro che hanno avuto continuativi rapporti all’estero con tale individuo.
Gli esempi potrebbero proseguire, ma è agevole rendersi conto che, una volta intrapresa la meritoria strada della soppressione del divieto di acquisizione della prova testimoniale, sarebbe stato contraddittorio porre una limitazione del genere di quella che si leggeva nel ricordato disegno di legge.
In sintesi, si è soppresso un limite di esperibilità della prova che sarebbe stato in contrasto con i ricordati valori della tutela giurisdizionale e del giusto processo.
2. I limiti di ammissibilità della prova.
Residuano, invece, due limiti oggettivi, uno processuale e l’altro sostanziale.
In virtù del primo, la Corte di giustizia tributaria può ammettere la prova “ove lo ritenga necessario ai fini della decisione”.
Nel disegno di legge, ciò sarebbe potuto accadere solo se la prova fosse stata ritenuta “assolutamente” necessaria.
Adesso, si è opportunamente soppresso l’avverbio “assolutamente”, evitando così le difficoltà interpretative che avrebbe suscitato ed elidendo altresì un palese e ingiustificato indice di ostilità nei riguardi di questa prova.
L’attuale versione coincide con quella recepita dall’art. 58, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992, per cui “il giudice d’appello non può disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione”.
Cosicché, per ammettere la prova testimoniale, si potrà fruire dell’interpretazione offerta all’art. 58, comma 1 e ritenere, quindi, che il giudice possa avvalersene ove essa sia l’unica – poiché non surrogabile con altri mezzi istruttori – idonea a dirimere l’incertezza sui fatti decisivi per risolvere la lite.
In sostanza, in difetto di questo mezzo istruttorio, il giudizio sul fatto imporrebbe il ricorso alla regola dell’onere della prova.
Pertanto, la prova testimoniale può dirsi “straordinaria” poiché ammissibile solo in mancanza di altri elementi istruttori.
Sarebbe stato preferibile consentirne l’impiego senza il limite della “necessità”, ossia quando il Giudice l’avesse ritenuta semplicemente rilevante per provare il fatto controverso. Detta “necessità” può comprendersi nell’istruttoria in appello per evitare che le parti riservino indebitamente al secondo grado l’esercizio delle facoltà esperibili nel primo, ma non per rendere più ardua l’ammissibilità della prova testimoniale.
Il secondo limite, sostanziale, consiste nell’ammettere la prova “soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale” quando “la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso”.
Si tratta di una previsione ovvia. Per superare l’efficacia probatoria dei fatti attestati dal pubblico ufficiale occorre la querela di falso.
Né può ipotizzarsi che la norma intenda altro.
È impensabile – poiché sarebbe eversivo della disciplina delle prove legali nel nostro ordinamento – che questo precetto, circoscrivendo la prova testimoniale ai fatti diversi da quelli attestati dal pubblico ufficiale, possa assegnare valore probatorio privilegiato al contenuto intrinseco di quanto il pubblico ufficiale afferma di aver compiuto.
Per esemplificare, il processo verbale di constatazione fa prova fino a querela di falso della veridicità del rinvenimento di un documento, di cui dà conto il pubblico ufficiale, ma non della veridicità del relativo contenuto. Potrà quindi ammettersi ogni prova, compresa quella testimoniale, per contrastare quanto rappresentato in tale documento.
Da segnalare, per terminare, che il nuovo comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546 impiega, in termini innovativi, l’espressione “pretesa tributaria”.
Ciò potrebbe indurre a pensare che il legislatore abbia inteso assecondare l’interpretazione per cui il processo tributario ha quale oggetto il rapporto sostanziale dedotto in giudizio, a meno che il contribuente non abbia dedotto uno o più vizi di legittimità del provvedimento impugnato.
Tale indicazione ermeneutica, tuttavia, è smentita da un’altra norma introdotta dalla L. n. 130/2022.
Si tratta del secondo periodo del nuovo comma 5-bis dello stesso art. 7, D.Lgs. n. 546, in base al quale “Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”.
Questa disposizione, pur menzionando nuovamente la “pretesa impositiva”, prevede che il giudice annulli l’atto impugnato quando difetta la prova della pretesa medesima. E questo contraddice l’idea che l’oggetto del giudizio sia il rapporto sostanziale, assecondando invece la diversa impostazione secondo cui il provvedimento opposto rappresenti, sempre e comunque (ossia anche quando non vengano dedotti motivi di sua illegittimità), l’oggetto del processo tributario.
Infatti, non ravvisando vizi dell’atto impugnato e ritenendo non provata la contestazione ivi recepita, il giudice, lungi dall’annullare l’atto, dovrebbe limitarsi a dichiarare priva di fondamento la pretesa con esso avanzata, disattendendola a ogni effetto.
Quanto precede dimostra come sia, il più delle volte, arduo trovare puntuale conferma nel dettato normativo di determinate impostazioni teoriche.
Ciò non toglie che il complessivo e sistematico apprezzamento della disciplina processualtributaria conduca alla riconduzione del nostro giudizio fra quelli di “impugnazione – merito”, per usare un’efficace espressione di frequente impiegata dalla giurisprudenza, “in quanto non diretto alla mera eliminazione dell’atto impugnato ma alla pronunzia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente sia dell’accertamento dell’amministrazione finanziaria”[3].
3. La disciplina dell’assunzione della testimonianza scritta.
Ora, merita esaminare le modalità di assunzione di questa prova.
In proposito, il comma 4 dell’art. 7 richiama l’art. 257-bis cod. proc. civ[4].
Tale rinvio va inteso in termini compatibili con il regime processualtributario.
In particolare, la Corte di giustizia tributaria potrà ammettere la testimonianza, pur in difetto dell’accordo delle parti previsto dall’art. 257-bis: infatti, nel processo civile la testimonianza scritta è alternativa rispetto a quella orale, mentre nel nostro giudizio essa è l’unica forma in cui risulta ammessa.
Ben ha fatto, quindi, il legislatore – nel riformare il comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546 – a precisare che non occorre l’accordo delle parti affinché questa prova sia ammessa.
Né si può pensare che il mancato accordo dei contraddittori possa pregiudicare la legittimità della disciplina testé introdotta dal punto di vista del rispetto del diritto di difesa e del principio del giusto processo.
Sebbene il contraddittorio sia attenuato nella fase di formazione della prova in ragione delle relative modalità di assunzione (sulle quali fra breve ci soffermeremo), è indubbio che il contraddittore possa opporsi all’ammissione del mezzo istruttorio invocato dall’altra parte e, nel caso in cui la deposizione testimoniale sollevi dubbi, possa chiedere al giudice di convocare il teste affinché renda oralmente le risposte ai quesiti postigli. Si aggiunga, come subito vedremo, che la controparte può chiedere che il medesimo teste si pronunci sugli stessi o su altri fatti, necessitanti di prova.
Vuol dire, allora, che il contraddittorio è posticipato, ma non disatteso. Ed è innegabile come sia ben più conforme ai menzionati principi della tutela giurisdizionale e del giusto processo la testimonianza scritta disciplinata dal comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546 rispetto all’invalsa consuetudine di immettere nel processo tributario dichiarazioni di soggetti terzi, rese in difetto del benché minimo controllo da parte del giudice e senza alcun coinvolgimento dei contraddittori.
Sempre con riferimento alle parti, occorre segnalare che, rispetto alla proposta dello scorso anno della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria (ma non al disegno di legge di iniziativa governativa), questa prova può essere invocata da ciascun contraddittore e non solamente dal ricorrente in primo grado, ossia dal contribuente.
Vi è da chiedersi se, tramite la testimonianza, l’ente impositore possa sviluppare la propria attività istruttoria nella fase processuale, contravvenendo la regola, che si ritrae dal vigente quadro normativo, per cui l’avviso di accertamento rappresenta – in linea di principio e con le eccezioni dell’atto “parziale” e della sopravvenuta conoscenza di elementi precedentemente non conoscibili, che ammette l’adozione dell’avviso “integrativo o modificativo” – l’espressione compiuta e tendenzialmente definitiva della funzione di controllo degli adempimenti fiscali dei contribuenti.
Non solo, se si riconoscesse questa facoltà all’ente impositore, si violerebbe il principio, di rilevanza costituzionale, di economicità ed efficienza dell’azione amministrativa di repressione degli illeciti tributari.
Viene così da pensare che tale ente possa chiedere l’assunzione della testimonianza solo nei giudizi di rimborso per provare fatti impeditivi, estintivi o modificativi della domanda avanzata dal privato, indicati nelle proprie controdeduzioni. E ciò a condizione che non li abbia già dedotti nell’eventuale provvedimento di diniego del rimborso, dovendo in tal caso aver previamente svolto la relativa attività istruttoria.
In casi eccezionali, nei processi generati dall’impugnazione di atti impositivi, l’ente impositore potrebbe invocare questa prova solo per dimostrare fatti dedotti a fronte di quelli impeditivi, estintivi o modificativi addotti dal contribuente per respingere la pretesa tributaria, purché essi non siano qualificabili come costitutivi di detta pretesa. Difatti, la deduzione dei fatti costitutivi della pretesa si “cristallizza” nell’atto impugnabile e non può esserne più consentita l’introduzione e la prova.
Questo mezzo istruttorio non potrà essere acquisito d’ufficio dal giudice, cui non è consentito svolgere un ruolo di supplenza o di assistenza della parte che non si è adeguatamente difesa.
L’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio è ristretto ai casi nei quali le parti abbiano almeno fornito, oltre ai fatti rilevanti per la decisione, pure i relativi temi di prova.
In tali occasioni, prima di risolvere la lite ricorrendo alla regola di giudizio dell’onere della prova, il giudice deve acquisire d’ufficio i mezzi istruttori ai quali le parti abbiano fatto riferimento e che non siano in grado di fornire.
Quindi, i poteri istruttori d’ufficio sono utilizzabili solo quando (a) sia impossibile o assai difficile acquisire, da parte di chi vi è tenuto, la prova, (b) quest’ultima sia stata indicata e (c) si prospetti un’oggettiva incertezza sui fatti di causa.
Un esempio è quello del contribuente che ha dedotto un fatto risultante da un documento che non rientra nella sua disponibilità e tale fatto non sia accertabile grazie ad altre prove acquisite agli atti di causa. In tale evenienza, la Corte può ordinare, d’ufficio, l’acquisizione di siffatto documento.
Emerge, quindi, come sia da escludere l’assunzione d’ufficio della prova testimoniale. Anche ove la parte abbia indicato il potenziale testimone, il giudice non può sostituirsi ad essa, superandone inerzia, per acquisire la relativa deposizione scritta.
Una conferma in tal senso si ritrae dalla formulazione letterale del nuovo comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546. Ivi si legge che la Corte di giustizia tributaria “può ammettere” la prova di cui trattasi. L’espressione, diversa da quelle che si rinvengono nei precedenti commi 1 e 2 (ove, rispettivamente, si prevede che le Corti di giustizia tributaria “esercitano” le facoltà istruttorie e “possono richiedere” determinati mezzi probatori), lascia chiaramente intendere che debba essere la parte a promuovere l’assunzione della prova per testi e spetti, poi, al giudice deciderne l’ammissibilità.
Per altro verso, la scelta della Corte di non ammettere questa prova è censurabile sia in appello che nel giudizio di legittimità.
Applicando l’art. 257-bis, il giudice, ritenuta ammissibile la prova e individuati con ordinanza i relativi capitoli, disporrà che la parte istante predisponga il modello di testimonianza sui fatti necessitanti di essere accertati e lo notifichi al testimone.
Tale modello dovrà precisare gli elementi identificativi del processo e dell’ordinanza, nonché il termine entro cui la risposta dovrà essere resa.
Il Giudice indicherà alla parte istante un termine per la notifica del modello al teste unitamente – è ragionevole ritenere – all’ordinanza di ammissione della prova. Il mancato rispetto di detto termine comporterà la decadenza – pronunciabile d’ufficio dal giudice – dal diritto di acquisire questa prova, a meno che la controparte dichiari di volerla comunque assumere o la Corte reputi giustificata – si pensi a un impedimento legittimante la remissione in termini – tale omissione. Si deve, infatti, applicare anche nel processo tributario l’art. 104 disp. att. cod. proc. civ., che sancisce quanto precede.
Il teste, poi, compilerà il modello, rispondendo separatamente a ciascuno dei quesiti ammessi dal giudice e indicando, chiarendone la ragione, a quali non potrà rispondere.
Nel processo civile, la disciplina del modello di testimonianza e delle relative istruzioni di compilazione si rinviene nell’art. 103-bis disp. att. cod. proc. civ. e nel d.m. 17 febbraio 2010: occorrerà adattare tali disposizioni attuative al giudizio tributario con un apposito regolamento.
Nel rispetto del principio del contraddittorio e come poc’anzi anticipato, se più parti intendano rivolgere diversi quesiti al medesimo teste (anche su circostanze di fatto diverse), ognuna di esse dovrà notificare un apposito modello di testimonianza recante le domande, previamente ammesse dal giudice, di rispettiva pertinenza. Non solo, potrà accadere che la richiesta di assunzione della prova testimoniale ad opera di una parte induca l’altra o le altre a formulare analoga istanza affinché siano acquisite le deposizioni di altri soggetti.
Ciò, ovviamente, avendo riguardo ai limiti, sopra evidenziati, entro i quali l’ente impositore può valersi di questo strumento istruttorio.
Il teste, poi, sottoscriverà la deposizione apponendo la propria firma autenticata su ogni facciata del modello di testimonianza e lo spedirà in busta chiusa con plico raccomandato o lo consegnerà alla segreteria della Corte.
Laddove intenda astenersi, ai sensi dell’art. 249 cod. proc. civ. (che, a sua volta, richiama gli artt. 200, 201 e 202 cod. proc. pen., relativi alla facoltà di astensione dei testimoni nel processo penale), il teste dovrà comunque compilare il modello di testimonianza, indicando le proprie complete generalità e i motivi di astensione.
Secondo il comma 7 dell’art. 257-bis, se la testimonianza avrà ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti, l’assunzione avverrà in termini semplificati. Ossia mediante dichiarazione sottoscritta dal testimone e trasmessa al difensore della parte nel cui interesse la prova è stata ammessa, senza il ricorso al menzionato modello. Trattasi, peraltro, di un’ipotesi che sembra di ardua verificazione nella nostra materia, essa concernendo la deposizione testimoniale volta a confermare i menzionati documenti di spesa, per tali dovendosi intendere i documenti che rappresentano l’esborso di somme di denaro sostenuto da una parte processuale e formante oggetto della materia del contendere.
Qualora il testimone non spedisca o non consegni le risposte scritte nel termine stabilito, la Corte potrà condannarlo alla pena pecuniaria non inferiore a euro 100 e non superiore a euro 1.000, contemplata dall’art. 255, comma 1, cod. proc. civ.
Se il teste non risponderà nel termine indicato dal giudice, non vi sarà alcuna conseguenza sulla possibilità di acquisirne la deposizione scritta. Il mancato rispetto del termine da parte di un soggetto terzo, infatti, non può pregiudicare la posizione della parte che ha fatto istanza per l’acquisizione del mezzo istruttorio.
Se la Corte, a seguito dell’esame delle risposte, lo riterrà opportuno, potrà sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre oralmente dinanzi a essa: ciò potrà verificarsi ove le risposte appaiano ambigue, contraddittorie o incomplete oppure se sussistano elementi che facciano sospettare dell’attendibilità del teste o dell’integrità o veridicità della deposizione resa per scritto.
Dunque, l’introduzione della testimonianza scritta tramite il richiamo all’art. 257-bis non esclude che la Corte, seppur nella sola (eccezionale) evenienza descritta, possa assumere questo mezzo istruttorio attraverso la diretta audizione del testimone, applicando – per quanto di ragione – gli artt. 244 e ss., cod. proc. civ.
L’istanza per l’acquisizione della testimonianza scritta potrà essere contenuta nel ricorso introduttivo della lite tributaria, nelle controdeduzioni della parte resistente o anche in un successivo atto difensivo, non ostandovi alcuna preclusione.
Peraltro, qualora tale istanza venga avanzata con la memoria di cui all’art. 32, comma 2, d.lgs. n. 546 o in occasione della discussione in pubblica udienza e la controparte non abbia la possibilità di svolgere i conseguenti rilievi o iniziative istruttorie, il giudice dovrà disporre un differimento della trattazione della controversia, onde consentire l’adeguato svolgimento del contraddittorio.
Nel caso in cui la parte non formuli l’istanza nel primo grado del processo, bisogna tener presente che l’art. 58, comma 1, d.lgs. 546 permette l’assunzione della nuova prova in appello solo se si dimostri di non averla potuta fornire nella precedente fase per causa non imputabile oppure qualora il giudice la ritenga “necessaria” per decidere la lite.
In ragione della coincidenza della “necessità” della prova nell’art. 7, comma 4 e nell’art. 58, comma 1, si potrebbe pensare che la condizione di ammissibilità della testimonianza sia identica nei due gradi del giudizio.
Però, se così fosse, si tradirebbe la ratio dell’art. 58, comma 1, che ha inteso comprimere lo svolgimento dell’istruttoria in appello.
Pertanto, non solo la testimonianza in appello dovrà risultare l’unica prova in grado di risolvere le incertezze sussistenti su un fatto decisivo per risolvere la causa, ma occorrerà anche dimostrare di non averla potuta invocare in primo grado per un motivo scusabile.
In pratica, si può ipotizzare che le due condizioni poste dall’art. 58, comma 1 in via alternativa per ammettere nuove prove in appello debbano, per la sola testimonianza e in via eccezionale, ricorrere congiuntamente.
Ancora, nel giudizio di rinvio cosiddetto “prosecutorio”, a seguito dell’annullamento da parte della Corte di Cassazione della sentenza impugnata per i motivi enunciati dall’art. 360, comma 1, n. 3) (violazione o falsa applicazione di norme di diritto) e n. 5) (omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio formante oggetto di discussione tra le parti) cod. proc. civ., la testimonianza scritta non richiesta nelle pregresse fasi di merito non potrà essere acquisita. Lo si ritrae dall’art. 63, comma 4, D.Lgs. n. 546, che preclude nel processo di rinvio la formulazione di richieste diverse da quelle prese nel giudizio in cui è stata pronunciata la sentenza cassata. Unica eccezione può essere rappresentata dal caso in cui la Corte Suprema fornisca una diversa impostazione giuridica della controversia che renda rilevanti fatti diversi da quelli precedentemente allegati dalle parti nelle fasi di merito. In tale peculiarissima circostanza potrebbe ipotizzarsi l’assunzione della testimonianza scritta non richiesta precedentemente.
Diverso è il discorso per il giudizio di rinvio cosiddetto “restitutorio”, allorché la sentenza impugnata sia stata cassata per uno degli altri motivi di ricorso per cassazione, ossia per ragioni attinenti alla giurisdizione, per violazione delle norme sulla competenza e per nullità della sentenza o del procedimento. In questo caso, le parti possono avvalersi di tutte le facoltà di cui non hanno potuto fruire nel giudizio di merito a causa del vizio riscontrato dalla Corte di Cassazione. Pertanto, volendo fare un esempio, se – a seguito dell’esame preliminare del ricorso in primo grado – fosse stato rilevato il difetto di giurisdizione del giudice tributario e la Corte di secondo grado lo avesse confermato, la cassazione della sentenza di appello non escluderebbe, nel conseguente giudizio di rinvio, la proposizione dell’istanza di acquisizione della testimonianza scritta.
4. Conclusioni.
In conclusione, la prova testimoniale è senz’altro benvenuta, sia pur con l’evidenziata nota critica sulla “necessità” della relativa assunzione.
Si tratta di una previsione avente il deliberato fine di circoscrivere la facoltà delle parti di disporre di questo mezzo istruttorio, di cui non si avvertiva l’esigenza.
Le cause nelle quali si porrà la concreta possibilità di ammettere la testimonianza saranno relativamente poche. Saranno, però e con ogni probabilità, quelle più complesse da decidere – per la molteplicità e la complessità dei fatti controversi – e, come l’esperienza insegna, quelle aventi ad oggetto le pretese impositive o le richieste di rimborso più cospicue.
Perché, allora, ostacolare il pieno esercizio delle facoltà difensive delle parti nelle liti più delicate prevedendo il menzionato limite processuale?
Oltretutto, tale eccessiva parsimonia nel consentire l’ingresso di questa prova può essere letta come un messaggio di sfiducia nelle capacità del giudice di discernere i mezzi istruttori ammissibili e di apprezzarne correttamente gli esiti. Messaggio contraddittorio se si tiene presente che, nel contesto del medesimo disegno riformatore, ha finalmente trovato spazio l’istituzione di una Magistratura tributaria professionale.
Ad ogni modo, l’esperienza dimostrerà se e in quale misura la prova per testi sarà apprezzata dal giudice tributario nel perseguire la doverosa aspirazione di appurare la verità reale delle vicende controverse in una materia di così decisiva rilevanza economica e sociale qual è quella su cui è chiamato a statuire.
Se questa esperienza sarà positiva, non potrà escludersi l’estensione, in via pretoria o grazie a un intervento legislativo, delle maglie troppo strette di ammissibilità della prova in oggetto.
Da ultimo, con l’introduzione della prova per testi, quale sarà la sorte delle dichiarazioni dei terzi, da tempo ammesse nel giudizio tributario?
Nulla osterà alla loro acquisizione e non potrà che trovare conferma il rammentato indirizzo giurisprudenziale che ad esse assegna valore indiziario, stante la piena efficacia probatoria che invece avrà la testimonianza scritta.
Questa, in ultima istanza, è la profonda e incolmabile differenza fra la prova testimoniale e tali dichiarazioni: la prima, a differenza delle seconde, non necessiterà di altre risultanze istruttorie per consentire al giudice di accertare la verità dei fatti controversi.
In sostanza, grazie alla riforma, si arricchisce la platea dei mezzi istruttori utilizzabili dai contraddittori senza comprimere alcuna delle facoltà finora esperibili.
[1] Sull’argomento, v. G. Melis, Il d.d.l. “Disposizioni in materia di giustizia e processo tributari”: una giustizia tributaria sull’orlo del precipizio, in Giustizia Insieme, 30 giugno 2022 e A. Giovanardi, La riforma della giustizia tributaria nel disegno di legge di iniziativa governativa AS/2636: decisivo passo avanti o disastrosa iattura?, in Riv. dir. trib., 8 luglio 2022.
[2] Cfr. Corte Cost. 21 gennaio 2000, n. 18 e, più di recente, Cass., sez. V, 2 ottobre 2019, n. 24531 e Cass., sez. V, 27 maggio 2020, n. 9903.
[3] V. Cass., sez. V, 6 agosto 2008, n. 21184; questo indirizzo ha trovato costante conferma nella giurisprudenza successiva.
[4] Sulla testimonianza scritta nel processo civile, fra gli altri, v. G. Balena, Commento all’art. 257-bis cod. proc. civ., in AA.VV., La riforma della giustizia civile. Commento alle disposizioni della Legge sul processo civile n. 69/2009, Milano, 2009, pp. 77 ss.; G. Palmieri – M. Angelone, La testimonianza scritta nel processo civile, in Judicium 2009; U. Berloni, Commento all’art. 257-bis cod. proc. civ., in AA.VV., Codice di procedura civile commentato. La riforma del 2009, a cura di C. Consolo e M. De Cristofaro, Milano, 2009, pp. 175 ss.; R. Crevani, L’istruzione probatoria, in AA.VV., Il processo civile riformato, diretto da M. Taruffo, Bologna, 2010, pp. 325 ss.; E. Fabiani, Note sulla nuova figura di testimonianza (c.d. scritta) introdotta dalla legge n. 69 del 2009, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, pp. 823 ss.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.