ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La presunzione di onestà e la fondatezza del credito impositivo “oltre ogni ragionevole dubbio”
di Alessandro Giovannini
Non è un bel diritto quello che si legge nel comma 5-bis dell’art. 7, d.lgs. n. 546 del 1992, introdotto dalla legge n. 130 del 2022. Eppure, ciò nonostante, qualcosa di importante la norma riesce a dirlo. La prima indicazione è una conferma della regola sulla ripartizione dell’onere della prova per cui i fatti costitutivi del credito impositivo devono essere provati dall’amministrazione. L’altra attiene al grado di robustezza che l’apparato probatorio deve possedere affinché il giudice possa ritenere fondata la pretesa dell’amministrazione medesima. Infine, la nuova norma introduce il divieto di prove incoerenti con il diritto sostanziale, che fondano il credito su elementi da questo non qualificati come costitutivi della fattispecie impositiva o come condizioni oggettive di imponibilità. Ancor prima la norma pare volere dare un’altra indicazione, di portata generale. È possibile che in essa si annidi l’intento di portare allo scoperto, fra i semi dello stato costituzionale, quello sulla presunzione d’onestà del contribuente accertato. Il lavoro si sofferma su tutti questi aspetti nel tentativo di offrirne un inquadramento sistematicamente coerente.
It’s not a nice right what is read in the paragraph 5-bis of art. 7, legislative decree n. 546 of 1992, introduced by law no. 130 of 2022. Yet, nevertheless, the law manages to say something important. The first indication is a confirmation of the rule on the distribution of the burden of proof according to which the facts constituting the credit right must be proved by the administration. The other concerns the degree of robustness that the evidentiary apparatus must possess in order for the judge to consider the claim of the administration itself founded. Finally, the new regulation introduces the prohibition of evidence inconsistent with the substantive law, which bases the credit on elements which it does not qualify as constituting the tax situation or as objective conditions of taxability. Even before that, the provision seems to want to give another indication, of general scope. It is possible that in it lurks the intention of bringing into the open, among the seeds of the constitutional state, the one on the presumption of honesty of the taxpayer ascertained. The work dwells on all these aspects in an attempt to offer a systematically coherent framework.
Parole chiave: presunzione onestà contribuente - principio personalistico - processo tributario - prove - onere della prova - ripartizione soggettiva - vicinanza alla prova - libero convincimento giudice - fondatezza prove - presunzioni semplici - presunzioni semplicissime - conformità prove diritto sostanziale
Keywords: taxpayer honesty presumption - personalistic principle - tax process - proofs - burden of proof - subjective division - proximity to the proof - judge's free conviction - evidence foundation - simple presumptions - very simple presumptions - conformity of evidence substantive law
Sommario: 1. La riforma della legge n. 130 del 2022 sull’onere della prova, sulle prove e sul giudizio: “eppur si muove”. - 2. L’onestà presunta del contribuente: un seme costituzionale portato allo scoperto. - 3. La presunzione d’onestà e l’architrave costituzionale del principio personalistico. - 4. La ripartizione dell’onere della prova. - 5. La fondatezza del credito “al di là di ogni ragionevole dubbio”. - 6. La questione della presunzione semplice. - 7. La presunzione semplice nelle leggi sull’accertamento: un ritorno all’auspicato rigore del passato? - 8. La questione della presunzione “semplicissima”. - 9. La coerenza della prova con il diritto sostanziale. - 10. Conclusione: l’impervio cammino della “giustizia nell’imposizione”.
1. La riforma della legge n. 130 del 2022 sull’onere della prova, sulle prove e sul giudizio: “eppur si muove”
Per il comma 5-bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, introdotto dalla legge n. 130 del 2022, l’amministrazione «prova in giudizio le violazioni contestate con l'atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l'atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l'irrogazione delle sanzioni»[1].
Non è un bel diritto quello che si legge in questa disposizione: una mistura di parole prive di sorveglianza anche stilistica, un concentrato di concetti mal posti e forse mal conosciuti[2]. Anche per questo è probabile che essa, contrariamente agli intendimenti, alimenterà ulteriore contenzioso perfino sul significato fatto palese dalle parole in essa stessa contenute.
Eppure, ciò nonostante, qualcosa di importante riesce a dirlo ed anzi di molto importante, che va al di là della reazione di “forza” che con il profluvio di aggettivi e sostantivi il legislatore ha forse voluto manifestare nell’intento di riportare al rigore probatorio l’azione amministrativa.
Le cose principali che dice sono queste. La prima è una conferma della regola sulla ripartizione dell’onere della prova: i fatti costitutivi del diritto di credito impositivo devono essere provati dall’amministrazione[3].
L’altra attiene al grado di robustezza che l’apparato probatorio deve possedere affinché il giudice possa ritenere fondata la pretesa dell’amministrazione medesima.
Infine, la nuova norma introduce il divieto di utilizzare prove incoerenti con il diritto sostanziale, ovvero prove che fondano il credito su elementi da questo non qualificati come costitutivi della fattispecie impositiva o alla stregua di condizioni oggettive di imponibilità.
2. L’onestà presunta del contribuente: un seme costituzionale portato allo scoperto
Ancor prima di queste pur fondamentali indicazioni, sulle quali tornerò nei prossimi paragrafi, la norma, se letta unitariamente, pare volerne dare una di portata generale. E’ possibile che in essa si annidi l’intento di piantare nel sistema un seme o forse è più corretto dire di portare allo scoperto, fra i semi dello stato costituzionale, quello sulla presunzione d’onestà del contribuente accertato.
Un seme, come cercherò di dimostrare in positivo, che io considero già presente in Costituzione ma che finora, per la sua immanenza, è rimasto sepolto. Il comma 5-bis contribuisce, forse, a dissotterrarlo.
Ponendosi attentamente all’ascolto della norma è possibile percepire un’eco proveniente dalla tradizione garantista d’origine penale formatasi intorno alla presunzione di non colpevolezza dell’imputato[4]. Il risuono è quello dell’art. 27, comma 2, della Costituzione, interpretato alla luce dell’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dell’art. 6, comma 2, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che parlano di “innocenza” dell’imputato “fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata”.
Non si tratta, dev’esser chiaro, di invocare in ambito fiscale l’applicazione delle previsioni penalistiche. Non solo sarebbe sbagliato, ma neppure è necessario, come verificheremo nelle prossime pagine. Quella eco garantista, tuttavia, è ugualmente fondamentale perché può farsi viatico per verificare se l’ipotizzata presunzione di onestà possa trarre anch’essa forza dalla trama costituzionale. Solo così, infatti, potrebbe essere elevata a principio e qualificata alla stregua di “parametro su cui modellare le regole probatorie e di giudizio”, proprio com’è pacificamente qualificata, per una delle sue funzioni, la norma dell’art. 27 Cost.[5].
Epperò, se il terreno non è quello penalistico, in quale altro la nostra presunzione potrebbe affondare la sua radice? È mia convinzione che esso coincida con il principio personalistico, principio che informa tutta la Carta e “sovrasta assiologicamente tutti gli altri”[6].
Per dirsi costituzionalmente conforme, infatti, l’accertamento deve rispettare non solo il corredo delle garanzie “esterne” di natura sostanziale riconducibili agli artt. 53, 3, 41 e 42, e il corredo di quelle “interne” di natura procedimentale, ascrivibili all’art. 97, agli artt. 24 e 111 e alle norme sovranazionali sul giusto procedimento, ma anche ed anzitutto i diritti della persona, non in quanto o soltanto contribuente, ma in quanto persona, appunto, che si trova esposta agli effetti dell’esercizio del potere degli organi statali.
Qui sta il cuore del discorso: è nella sfera delle garanzie della persona umana che entra in gioco, primeggiando, la presunzione di onestà. Il principio di personalità, inserito in questo contesto, diviene allora il punto di saldatura fra presunzione di non colpevolezza e presunzione di onestà poiché fonte, anche per quest’ultima, delle garanzie del soggetto sottoposto al potere esecutivo d’accertamento e coercitivo[7].
3. La presunzione d’onestà e l’architrave costituzionale del principio personalistico
Per non esporre il discorso alla critica dell’incompletezza, mi soffermo ulteriormente sulla relazione fra stato costituzionale, principio personalistico e presunzione di onestà. In questa relazione, infatti, sta il bandolo della matassa per giungere a qualificare la presunzione stessa alla stregua di principio, seppure immanente, di fonte costituzionale.
Non si scopre una nuova America affermando che è la persona il centro dell’ordine assiologico disegnato dalla Costituzione. Non è la legge ad assegnarle il palco d’onore, piuttosto è la legge a derivare e dipendere dalle libertà e dai diritti di quella[8]. Questo discorso si può ripetere, nella sostanza, anche per i poteri dello stato e in particolare per quelli da ultimo richiamati, ossia esecutivo d’accertamento e coercitivo.
Il principio personalistico, nella sua essenza più profonda e densa di conseguenze, ha questo contenuto. Ed è per questo, come ho ricordato, che possiede un’eccedenza assiologia su tutti gli altri[9].
A scomparire dal tavolo d’analisi, intendiamoci, non è il potere e non è neppure la legge, ma per un verso è la loro supremazia sulla persona e sui suoi diritti e, per un altro, sono la “volontà generale”, la “ragion fiscale”, l’”interesse fiscale” e tutte le ulteriori escrescenze del potere stesso. Escrescenze e supremazia collocate, in ragione della storia, sui gradini superiori di un’illusoria scala alla cui base stavano - e forse tuttora si prova ingannevolmente a collocare - gli scalpiccii dei consociati con i loro diritti. In forza del principio personalistico tutto questo non ha più spazio: la scala si è capovolta e i diritti della persona, ora, ne costituiscono l’apice[10].
I poteri dello stato, compreso quelli esecutivo d’accertamento e coercitivo, non sono scomparsi, ma traggono legittimazione soltanto dal loro essere portatori di forze orientate a dare sbocco alla dimensione politica dei diritti appartenenti ab origine ai loro titolari[11].
In questo consiste lo stato costituzionale e la “sovranità della Costituzione”: essere al tempo stesso tavole assiologiche, deontologiche e normative al cui interno il potere si pone al servizio dei diritti e, direttamente o per il tramite di questi, al servizio della persona[12].
Certo, sarebbe eccessivo predicare l’integrale “sostituzione del fondamento di valore al fondamento di autorità”[13] che sorregge e sostanzia il potere nella sua concezione tradizionale. Una sostituzione di tal fatta sarebbe eccessiva giacché pure nelle costituzioni moderne residuano spazi autoritativi di singoli apparati dello stato per l’esercizio di specifiche funzioni, specie quando legate ai doveri di osservanza della Costituzione e delle leggi (art. 54, primo comma, Cost.)[14]. Ma, anche in questi casi, nello stato costituzionale, a differenza che nello stato legislativo, ai diritti fondamentali si contrappone non il potere che li domina, ma il potere che li rispetta e in questo modo li serve, ossia il potere volto unicamente all’esercizio della funzione per la quale è composto[15].
In questa chiave, dunque, l’accertamento fiscale qualificato come funzione non può che trovare la sua piattaforma relazionale, comprensiva dei suoi limiti, nel principio personalistico. E il corrispondente potere vi entra non più con i fregi della supremazia, ma “nudo” giacché strumentale, puramente e semplicemente, all’esercizio della funzione.
La presunzione di onestà intesa alla stregua di diritto della persona discende da questa trama. Il comma 5-bis dell’art 7 aiuta la percezione di un simile diritto, ma non lo crea. E non solo perché la nuova norma è legge ordinaria e dunque dalla struttura “fragile”, vorrei dire inadatta a sorreggere un così importante cardine, ma perché la Costituzione già lo esprime.
4. La ripartizione dell’onere della prova
Le osservazioni finora svolte, pur scheletriche e come tali senz’altro incomplete, facilitano l’analisi delle tre indicazioni illustrate all’inizio provenienti dal comma 5-bis.
La prima attiene alla ripartizione dell’onere della prova: l’amministrazione è onerata di provare le violazioni contestate, ossia, più esattamente, i fatti sui quali pretende di radicare il credito o il maggior credito accertato[16].
La regola è pacifica da molto tempo, sostenuta dai fautori vuoi della teoria costitutiva dell’obbligazione d’imposta, vuoi della teoria dichiarativa[17]. Il comma 5-bis si limita a confermarla[18].
La regola di ripartizione, per come appena tratteggiata, riprende nella sostanza quella stabilita dall’art. 2697 cod. civ., per il quale chi vanta un diritto deve provare i fatti che lo costituiscono, mentre chi eccepisce la loro inefficacia, oppure che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.
Di qui un dubbio, che introduco con questa domanda: la regola della “vicinanza” alla prova, quando determina l’addossamento del relativo onere sul contribuente[19], deve essere d’ora in poi espunta dalla ripartizione soggettiva dell’onere stesso[20]?
Non sarebbe corretto, io credo, rispondere affermativamente. La nuova disposizione reagisce sulla regola della “vicinanza” bensì limitandone l’ampia - e spesso improvvida - applicazione compiuta dalla giurisprudenza più recente[21], ma non ne legittima l’espunzione. Conformemente alla sua ratio, ossia quella di salvaguardare il diritto sostanziale della parte processuale che non è oggettivamente in grado di raggiungere la pienezza dimostrativa dei fatti, potrà continuare ad essere utilizzata. Ma potrà nei limiti in cui le fonti di prova non siano producibili perché non apprendibili dalla stessa amministrazione nella fase dell’istruttoria primaria[22].
È la non apprendibilità della prova intesa come fonte a dover essere dimostrata in giudizio perché in questo modo il fatto sul quale l’attore sostanziale pretende di radicare il diritto entra nel processo pur sempre in maniera “puntuale e circostanziata”, come richiede, proprio, il comma 5-bis[23], e vi entra anche rispettando in qualche modo le regole soggettive di ripartizione dello stesso onere probatorio.
5. La fondatezza del credito “al di là di ogni ragionevole dubbio”
L’altra indicazione del comma 5-bis si riferisce al livello minimo di robustezza che la prova deve raggiungere per essere considerata decisiva - vien da dire, se non si cadesse in un gioco di parole, per essere considerata “probante” - e quindi idonea a consentire al giudice di adottare una sentenza d’accertamento sulla fondatezza del diritto di credito[24]. Questo, infatti, deve essere accertato e dichiarato come esistente se le prove su cui lo stesso si radica sono in grado di dimostrarne la fondatezza in modo “circostanziato e puntuale”.
Queste parole, se non si vogliono considerare come scritte sull’acqua o ridurle ad un’esangue esercizio di retorica legislativa, possono assumere un solo significato: quello di legittimare sentenze d’accertamento positive quando il corredo degli elementi di prova consente al giudice di formarsi il convincimento della fondatezza del credito “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Sicché il giudice dovrà dichiararne l’infondatezza quando manca, è insufficiente o contraddittoria la prova che il fatto costitutivo sussiste.
Non si tratta qui di riprendere l’art. 533, comma 1, e l’art. 530, comma 2, c.p.p., per calarli di peso nel processo tributario, se non per mutuarne l’espressione del “ragionevole dubbio” per la sua efficacia evocativa. E non si tratta neppure di ridurre o mettere in discussione il principio del libero convincimento del giudice[25]. Si tratta, invece, di valorizzare adeguatamente il significato delle espressioni accolte nella nuova disposizione in coerenza con l’intero ordito nel quale è calata.
Ed è per questo che a me sembra ragionevole sostenere che la prova del fatto posto a fondamento del diritto si può considerare decisiva solo se supera una soglia molto alta di attendibilità ricostruttiva, che non deve lasciare margini apprezzabili di dubbio: la prova deve essere “circostanziata” e quindi riferibile, soggettivamente, al contribuente accertato e, oggettivamente, corredata di tutti i particolari necessari per determinare la fattispecie alla quale la stessa prova si riferisce. E deve essere “puntuale”, ossia esatta, precisa, univoca, in modo da fugare ogni significativa incertezza sull’esistenza del fatto.
6. La questione della presunzione semplice
Che dire, allora, della presunzione semplice? La nuova norma quali conseguenze produce su questa prova[26]?
Per andare dritti al nocciolo delle questioni, credo che la dimostrazione “circostanziata e puntuale” esiga che il fatto ignorato sia ricostruito alla stregua di conseguenza univoca del fatto noto; che il fatto noto sia certo, reale, specifico, determinato oggettivamente e soggettivamente, e adeguato a sorreggere l’inferenza; che gli elementi indiziari non si contraddicano o si elidano vicendevolmente, dovendo tutti concorrere a favore di una sola ricostruzione possibile; che la presunzione di “secondo grado”, ove utilizzata, muova da un fatto noto connotato da certezza, ovvero da univocità del nesso causale tra i fatti noto e ignoto costitutivi dell’inferenza di “primo grado”.
Non è in dubbio che la presunzione semplice possa continuare a fondare la verità giuridica del processo anche alla luce della nuova disciplina, ma affinché ciò accada è necessario che possieda in sé il tratto della più alta approssimazione possibile del fatto ricostruito alla storicità degli accadimenti. Una così elevata approssimazione o un così elevato avvicinamento del fatto ignorato alla realtà si ha solo se tra questo e il fatto noto corre una relazione di necessità. E ciò non si potrebbe predicare se s’intendesse continuare a digradare il livello di verosimiglianza dell’ignoto alla molteplicità dei probabili o addirittura dei possibili[27].
La verosimiglianza massima del ricostruito alla realtà storica dell’accaduto, come scriveva Virgilio Andrioli oltre cinquant’anni fa[28], è così tendenzialmente assicurata per volere della legge. S’impone perciò che il corredo probatorio indicato nell’avviso d’accertamento e comunque portato in giudizio dalla parte pubblica[29], non lasci margini significativi di dubbio, che non siano quelli “naturali” di tutte le prove indirette ad apprezzamento critico.
Ragionando in questo modo, l’interpretazione della nuova normazione si avvicina a quella corrente dell’art. 192, secondo comma, del codice di procedura penale dedicato alle presunzioni. In entrambe, infatti, l’accento cade sulla necessità che gli elementi indiziari determinino nel giudice “una elevata intensità persuasiva di ogni singolo strumento gnoseologico indiziario”[30]. Ancora una volta, tuttavia, non si tratta di trasportare armi e bagagli il fenomeno tributario sotto la bandiera processuale penale. Non è questo lo scopo della mia proposta interpretativa. L’intendimento, piuttosto, e quello di mettere in risalto lo spirito fortemente garantista che la riforma ha voluto iniettare con determinazione nelle vene delle istruttorie probatorie e delle decisioni giudiziali.
7. La presunzione semplice nelle leggi sull’accertamento: un ritorno all’auspicato rigore del passato?
È mia convinzione che nella nostra materia a questo risultato si dovesse giungere anche senza attendere la recente normazione sol che fosse stata adottata un’interpretazione rigorosa della disciplina dell’accertamento analitico-presuntivo per come dettata dalle leggi sull’accertamento delle imposte sui redditi e dell’imposta sul valore aggiunto.
In altra occasione[31] avevo cercato di dimostrare come il fatto noto non potesse consistere in mere asserzioni, in parametri quantitativi riferibili ad una generalità di soggetti e dunque privi di riscontri soggettivi, in congetture sguarnite di fattualità o basate su osservazioni non riscontrabili oggettivamente, in sospetti o mere probabilità di esistenza del fatto stesso. E men che meno il fatto noto poteva essere rivestito con gli abiti della certezza per rispondere a spinte moraleggianti o per dare corpo al supposto ma inesistente “interesse fiscale”[32]. Discorso simile, poi, si sarebbe dovuto fare per l’esito dell’inferenza[33]. La ricostruzione del fatto ignoto doveva mostrarsi come la necessaria conseguenza del fatto noto, sicché a petto di un ventaglio di ricostruzioni tutte probabili e tutte legittimate dal medesimo fatto iniziale, quello finale si doveva considerare sguarnito di prova[34].
Amministrazione e giurisprudenza, sostenuti da una parte della dottrina[35], hanno invece preferito adottare interpretazioni lasche a scapito della giustizia del processo e delle giustezza della decisione, ma anche a scapito della certezza del diritto e dei rapporti giuridici.
Ricorrendo ad una concezione gradualistica delle risultanze probatorie, dove si passa, senza soluzione di continuità, da ricostruzioni del tutto rigorose a ricostruzioni poco attendibili, solo probabili o perfino solo possibili, si è finito per cacciare il discorso sulle prove indirette in un cul-de-sac contrassegnato dalla sfuggevolezza, dall’impalpabilità del risultato inferenziale, come l’ha definito Cesare Glendi[36], incontrollabile dall’esterno con parametri oggettivi. Si è creato, per dirla in maniera molto semplice, una Babele delle lingue, contraddicendo così le connotazioni pubblicistiche di tutti i processi degli stati costituzionali.
Di qui, come già sottolineato, la reazione “muscolare” del Parlamento, che si è tradotta, proprio, nell’inserimento del comma 5-bis nell’art. 7 della nostra legge processuale.
8. La questione della presunzione “semplicissima”
La presunzione “semplicissima”, è perfino banale ricordarlo, è una fonte dimostrativa anomala, che si caratterizza per essere priva dei requisiti di gravità, precisione e concordanza[37]. È una semi-prova, piuttosto che una prova piena, come invece è la presunzione semplice.
In prima battuta la sua compatibilità con il comma 5-bis appare dubbia ed ancor di più lo sembra se la si pone in relazione con la presunzione di onestà della persona accertata per come qui ipotizzata. Ragionando concretamente, tuttavia, non sembra immaginabile un abbandono o una declaratoria di illegittimità della sua disciplina, tanto è diffuso l’uso che ne è fatto dall’amministrazione e tanto è importante il vantaggio istruttorio che alla fine la macchina statale ne ritrae.
La strada è così quella di verificare la possibilità di contemperare le diverse pulsioni del sistema e per questa via provare ad adottare un’interpretazione costituzionalmente conforme. Un tentativo in questa direzione può essere quello di recuperare, da un lato, la ratio originaria di questa forma di presunzione e, da un altro, la struttura del sistema normativo nella quale essa si cala[38].
Per fare questo è necessario innanzitutto tornare a distinguere la prova in senso proprio dei fatti rappresentanti il presupposto dell’accertamento dalla (semi) prova del quantum dell’imponibile rettificato o accertato. La presunzione “semplicissima”, per come disciplinata dalle disposizioni sull’accertamento e dando a queste un’interpretazione corrispondente alla loro ratio storica, può intervenire soltanto come ausilio nel procedimento di quantificazione dell’imponibile.
In secondo luogo occorre tornare a considerare la presunzione “semplicissima” come fonte indiziaria d’eccezione o straordinaria, traente giustificazione dalla speciale gravità delle violazioni riscontrate nella fase istruttoria. Il sistema, infatti, tollera sì che a petto di violazioni particolarmente gravi la quantificazione del maggiore imponibile si fondi su semi-prove, ma lo consente perché la gravità delle stesse è in sé indice dell’alta probabilità di evasione e perché non è dato conoscere strumenti storicamente più accreditati per risalirne all’entità. Fra rinunciare ad una sua quantificazione con le ordinarie fonti di prova e quantificarla con fonti dalla forza dimostrativa assai labile, il sistema ha preferito non abdicare alla ricostruzione, seppure a scapito del grado di attendibilità del risultato. E ha preferito, sempre in ragione di quella gravità, rimettere la verifica della congruità del risultato medesimo al vaglio, semplicemente, della ragionevolezza e non arbitrarietà.
La compatibilità della disciplina sulle presunzioni “semplicissime" con il comma 5-bis passa, allora, da una doppia condizione: dalla dimostrazione, puntuale e circostanziata, mediante prove “piene”, della violazione che legittima l’accertamento induttivo; dall’uso rigoroso delle stesse presunzioni “semplicissime”, preordinato soltanto alla quantificazione, ragionevole e non arbitraria, dell’imponibile accertato o del maggiore imponibile rettificato.
9. La coerenza della prova con il diritto sostanziale
Rimane da indagare il requisito della “coerenza” della prova, qui da intendere come risultato del procedimento probatorio, con la “normativa tributaria sostanziale. È un requisito esterno alla prova ma che su questa reagisce rendendola inutilizzabile.
Sfrondando il ragionamento, ciò significa che il giudice - e prima l’amministrazione - non può radicare la decisione su prove che finiscono per modificare oppure ampliare gli elementi costitutivi della fattispecie impositiva o le condizioni di imponibilità per come diversamente determinate dal diritto positivo sostanziale.
Se il risultato al quale l’amministrazione perviene con l’uso, ad esempio, della presunzione semplice non si conforma ed anzi contrasta con le disposizioni del testo unico delle imposte sui redditi relative ai ricavi (art. 85) o alla percezione dei compensi (art. 54) e forse anche a quelle sulla percezione degli utili nelle società a ristretta base sociale (art. 45), la presunzione non può legittimare la pretesa creditoria. E non la può legittimare non già perché viziata in sé, ovvero costruita malamente nell’individuazione del fatto noto, nell’uso del ragionamento deduttivo o nell’esito ricostruttivo di quello ignoto, ma perché contrastante con il diritto sostanziale, modificabile o integrabile solo dal legislatore.
In altri termini, fintanto che questi non interviene, magari introducendo specifiche presunzioni legali, la pretesa creditoria non si può fondare su una prova preordinata, negli effetti concreti, ad allargare o modificare gli elementi costitutivi della fattispecie impositiva o le condizioni oggettive di imponibilità[39].
10. Conclusione: l’impervio cammino della “giustizia nell’imposizione”
Riprendo, per concludere, una riflessione contenuta in un recente libro di Raffaello Lupi[40]. L’autore mette acutamente in risalto il disagio del giudice, specie quello chiamato a trattare questioni amministrative, quando deve esaminare e comprendere le dinamiche dell’attività istruttoria che precede il suo intervento. E parallelamente mette in evidenza le difficoltà d’orientamento ed anche di ponderazione che inevitabilmente, al di là del formalismo leguleio, l’amministrazione si trova a dover compiere, specialmente in un sistema di “fiscalità di massa”.
Non v’è dubbio che le cose stiano in questo modo. Non v’è nemmeno dubbio, però, che anche per questi motivi il sistema di somministrazione della giustizia abbia talvolta perso di vista l’essenzialità del suo ruolo, ossia quello di garantire protezione ai beni della vita, privati o pubblici che siano, nel rigore della dialettica probatoria delle parti.
La riforma tenta di limitare i margini, per così dire, dinamici degli attori di questo complesso procedimento. E però lo fa non tanto per riaffermare una primazia del legislatore sugli altri poteri, compreso quello giudiziario, o per impedire la libera formazione del convincimento, ma per riportare al centro del palcoscenico i diritti della persona accertata. Un tentativo, insomma, per dare gambe ad un principio basilare dello stato costituzionale: la giustizia nell’imposizione. Principio che corre con quello, anch’esso fondamentale, della presunzione d’innocenza della persona accertata.
Come tutti gli idoli, anche quello della giustizia va trattato con cura, per non correre il rischio, come ammonisce Gustave Flaubert in Madame Bovary, che un po’ di oro rimanga sulle dita e alla fine, paradossalmente, l’idolo stesso si rivolti contro chi ha provato a toccarlo. L’auspicio è che questo non accada e che, anzi, la “scossa” del legislatore determini una riflessione a tutto campo, come sottolinea Lupi, sulla socialità del diritto e, aggiungo io, sui princìpi dello stato costituzionale letti alla luce del principio di realtà del diritto stesso.
[1] Per un primo commento all’intera legge n. 130, cfr. F. Gallo, Prime osservazioni sul nuovo giudice speciale tributario, in Rass. trib., 2022, 783 ss. ; G. Melis, La legge 130 del 2022: lineamenti generali, in giustiziainsieme.it, 19 dicembre 2022.
[2] È una critica diffusa, espressa ancor più severamente da C. Glendi, La nuovissima stagione della giustizia tributaria riformata, in Il quotidiano giuridico, 22 settembre 2022, ed anche da S. Muleo, Onere della prova, disponibilità e valutazione delle prove nel processo tributario rivisitato, in AA.VV., La riforma della giustizia e del processo tributario, a cura di A. Carinci e F. Pistolesi, Milano, 2023, 83 ss.
[3] Non affronto il tema del rimborso e dell’onere probatorio gravante sul contribuente. Seppure il comma 5-bis lo disciplini («Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso»), mi sembra che la norma in esso contenuta si limiti a confermare una regola assolutamente pacifica.
[4] Cfr. G. Illuminati, La presunzione di innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, passim, ma specie 69 ss.
[5] Per tutti, M. D’Amico, Sub art. 27 Cost., in Comm. Cost., vol. I, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Torino, 2006, 570.
[6] Cfr. J. Luther, Ragionevolezza (delle leggi), in Digesto, Disc. pubbl., XII, Torino, 1997, 341 ss., 358.
[7] Seppure, ça va sans dire, per fatti e in ambiti diversi. Per evitare equivoci preciso che, sebbene in passato vi siano stati tentativi di accostare alcuni profili delle leggi d’imposta alle norme di matrice penalistica - si pensi alle questioni sull’interpretazione e al divieto di analogia - tassazione e pena sono fenomeni radicalmente diversi e nessuna assimilazione è concepibile per le radici costituzionali che li diversificano. L’àmbito, invece, dove un qualche risuono può echeggiare è quello delle garanzie della persona rispetto al potere degli organi dello stato, come dirò meglio nel prossimo paragrafo.
[8] L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura E. Vitale, Roma-Bari, 2001, 90, per il quale i diritti costituzionali, ad iniziare da quelli fondamentali, “rappresentano non già un’autolimitazione sempre revocabile del potere sovrano, ma al contrario un sistema di limiti e di vincoli ad esso sopra ordinato; non dunque «diritti dello Stato» o «per lo Stato» o «nell'interesse dello Stato» [ … ] ma diritti verso e se necessario contro lo Stato, ossia contro i poteri pubblici sia pure democratici o di maggioranza”. Per N. Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo (1963), ora in N. Matteucci e N. Bobbio, Positivismo giuridico e costituzionalismo, con introduzione di T. Greco, Trento, 2021, 145 ss., nello stato legislativo era dalla legge ordinaria e dal potere dello stato-persona o stato-ordinamento che nascevano libertà e diritti. Come “illusione concettuale” - ha scritto Matteucci - questa ricostruzione era funzionale alle esigenze di quel tipo di stato, al quale faceva da pendant il positivismo formalista, ma ormai essa ha smarrito qualsiasi validità ricostruttiva alla luce del ribaltamento compiuto dalla Carta del 1948.
[9] Anche A. Ruggeri, Il principio personalista e le sue proiezioni, in Federalismi, 17, 2013, arriva a conclusione similare. Così, nella sostanza, anche E. Rossi, Principi fondamentali, sub art. 2 Cost., in Commentario Cost., a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, I, Torino, 2006, 42 ss.
[10] Cfr. N. Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo, cit., 149 e 150; F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano, 1970, 12 ss. Sullo stato costituzionale come evento dalle potenzialità rivoluzionarie anche dal punto di vista del rapporto fra persona e poteri degli organi dello stato, fra i tanti, cfr. N. Bobbio, Mutamento politico e rivoluzione, a cura di L. Caragliotto, L. Merlo Pich, E. Bellando, con prefazione di M. Bovero, Roma, 2021, 463 ss., 468; Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, già cit., 138; E. Cheli, I fondamenti dello “Stato costituzionale”, in Lo Stato costituzionale. I fondamenti e la tutela, a cura di L. Lanfranchi, I, Roma, 2006, 41 ss.; M. Fioravanti, Stato costituzionale in trasformazione, Modena, 2021, 7 ss.
[11] Per un’analisi cristallina, cfr. G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, passim, ma già 4 ss.
[12] J. Habermas, Fatti e norme, trad. it. di L. Ceppa, Roma-Bari, 2013, 200 ss.; A. Baldassarre, Il costituzionalismo e lo stato costituzionale, Modena, 2020, 34 ss.; G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna, 2017, 133 ss.
[13] Lo spiega ampiamente V. Omaggio, Saggi sullo Stato costituzionale, Torino, 2022, 134 (nel testo, enfasi di chi scrive).
[14] In altra occasione mi sono occupato di questi temi (se si vuole, A. Giovannini, Territorio invisibile e capacità contributiva nella digital economy, in Riv. dir. trib., 2022, I, 497 ss., specie 511 ss.). In quella circostanza ho precisato - e qui lo ribadisco - che la sovranità applicata ai tributi non è “altra” dalla sovranità che convenzionalmente si definisce generale. Anche se guardata dall’angolo prospettico dei tributi, la sovranità si articola sempre nell’esercizio di un triplice ordine di poteri: quello ordinamentale, funzionale alla normazione generale ed astratta, quello di governo e quello coercitivo. Il potere impositivo, perciò, è solo un elemento della sovranità, che deve essere esercitato nel rispetto e all’esclusivo fine di attuare l’ethos dei princìpi costituzionali. Cfr. G.A. Micheli, Profili critici in tema di potestà d’imposizione (1964), ora in Opere minori di diritto tributario, II, Milano, 1982, 30 ss.; E. De Mita, La legalità tributaria, Milano, 1993, 5 ss.; G. Marongiu, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria. Profili storici e giuridici, Torino, 1995, 10 ss.; F. Gallo, Le ragioni del fisco, Bologna, 2011, 79 ss.; A. Fedele, Diritto tributario (principi), in Enc. dir., Annali, II, t. 2, Milano, 2008, 447 ss., specie 453, 467 e 468; G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, 8 ss., 81 ss.; L. Antonini, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996, 21 ss., 123 ss.
[15] Cfr. N. Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo, cit., 149 e 150; F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano, 1970, 12 ss.
[16] Come ho già precisato nella nota 3, non affronto il tema del rimborso e dell’onere probatorio gravante sul contribuente poiché la regola che pure il comma 5-bis stabilisce («Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso») è meramente ripetitiva di un’impostazione assolutamente pacifica.
[17] Per chi aderisce alla teoria costitutiva dell’obbligazione d’imposta la ripartizione dell’onere non si salda alla norma codicistica, ma discende dal principio di precostituzione della prova: “a nessun atto la pubblica amministrazione può (possa) accingersi senza aver procurato a se stessa la prova dei fatti che determinano la sua potestà di dar vita a quell’atto”. Così E. Allorio, Diritto processuale tributario,Torino, 1962, 377-378). Sviluppa la teoria del Maestro, F. Tesauro, L’onere della prova nel processo tributario (1986), ora in Scritti scelti, II, a cura di F. Fichera, M. C. Fregni, N. Sartori, 2022, 268 ss., e la riprende più recentemente N. Sartori, I limiti probatori nel processo tributario, Torino, 2023, 79-80. Danno dimostrazione della linearità e semplicità ricostruttiva dell’impostazione dichiarativa, alla quale aderisco, che riferisce la ripartizione direttamente all’art. 2697 c.c., fra gli altri, P. Russo, Il nuovo processo tributario, Milano, 1974, e Id., Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2013, 195 ss.; F. Batistoni Ferrara, Appunti sul processo tributario, Padova 1995, 67 ss. La questione, va detto, ha ormai perduto rilievo fors’anche teorico giacché la Corte costituzionale, oltre alla Cassazione, ha affermato espressamente l’applicazione dell’art. 2697, cod. civ., al processo tributario. Si veda Corte Cost., n. 109 del 2007.
[18] È senz’altro condivisibile la ricostruzione di P. Russo, Problemi in tema di prova nel processo tributario dopo la riforma della giustizia tributaria, in Riv. dir. trib. online, 7 dicembre 2022. In termini opposti, ma con argomentazioni che a me sembrano non convincenti, C. Glendi, L’istruttoria del processo tributario riformato. Una rivoluzione copernicana!, in Quotidiano IPSOA, editoriale 24 settembre 2022.
[19] La Cassazione ha fatto applicazione della “vicinanza”, fra l’altro, in materia di transfer pricing, così addossando al contribuente l’onere di provare la normalità o la correttezza dei prezzi praticati. Fra le molte, Cass. n. 13571/2021, n. 17512/2019. Molto criticamente, in termini condivisibili per quanto riguarda l’approdo giurisprudenziale, cfr. G. Vanz, Criticità nell’applicazione delle regole giurisprudenziale della “vicinanza della prova”, in Dir. prat. trib., 2021, I, 2584 ss. La Cassazione ha fatto inoltre uso della regola anche in materia di inerenza dei costi, qualificandoli come “fatti impeditivi” del diritto di credito dell’amministrazione e addossando così al contribuente la prova della loro inerenza all'attività. L’interpretazione giurisprudenziale è assai discutibile, non foss’altro perché tratta l’inerenza come fosse un fatto, quando invece è regola d’interpretazione. Si veda, per la tesi qui criticata, Cass. n. 11942/2016, n. 12127/2022, 33568/2022.
[20] Su questo tema cfr. puntualmente S. Muleo, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2021, 603 ss.
[21] Condivisibile la critica di S. Muleo, Onere della prova, disponibilità e valutazione delle prove, già cit.
[22] È senz’altro condivisibile la tesi di Tesauro che riporta l’onere della prova, almeno in prima battuta, al procedimento amministrativo e dunque alla fase sostanziale di ricerca della capacità contributiva. La distribuzione dell’onere, afferma l’autore, “dipende dal diritto sostanziale”. Cfr. F. Tesauro, Prova (diritto tributario), in Enc. dir., Agg. III, Milano, 1999, 884 ss., 886 e 893.
[23] Questo requisito della prova sarà esaminato nel prossimo paragrafo.
[24] Non mi sfugge che la disposizione parla di “annullamento” dell’atto impugnato se manca la prova o questa difetta nella sua compiutezza. Si deve però dire che l’espressione è scarsamente significativa dal punto di vista ricostruttivo generale, sia perché, com’è noto, le teorie scientifiche hanno basamenti diversi da quelli nominalistici; sia perché la stessa mal si lega con il sostantivo “fondatezza” di cui parla la stessa disposizione nello stesso alinea, requisito che all’evidenza si può riferire anche al diritto di credito; sia perché l’annullamento non si concilia con la locuzione “pretesa tributaria” utilizzata nel comma 4 dello stesso art. 7, anch’esso riformato della legge n. 130 del 2022. E’ quanto basta, io credo, per dimostrare l’approssimazione concettuale con la quale la riforma è stata scritta e dunque per non assegnare alle singole espressioni un’importanza eccessiva e decisiva, specialmente se tramite di esse si pretende o si pretendesse di consacrare una teoria piuttosto che un’altra sulla natura dell’obbligazione d’imposta e del processo tributario. Mi sembra, insomma e in altre parole, di poter sostenere che, per chi come me ha da sempre sposato l’impostazione dichiarativista, la ricostruzione del processo come di impugnazione-merito - per usare un’espressione celeberrima ampiamente sviluppata da Pasquale Russo e ripresa dalla giurisprudenza assolutamente maggioritaria - mantenga inalterata la sua validità.
[25] Il principio del libero convincimento, tuttavia, “non può favorire una sorta di anarchia delle operazioni del giudice e, negli ordinamenti moderni, che hanno acquisito consapevolezza delle necessità che il sistema probatorio sia fondato su basi razionali, non può servire da cortina per mascherare operazioni autoritarie”. Così G. Verde, Prova, cit., 591.
[26] Per come disciplinata dagli artt. 2727 e 2729 c.c., e dall’art. 39, comma 1, lettera d), d.P.R. n. 600 del 1973, e dall’art. 54, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972.
[27] L’approccio teorico che probabilmente si coglie in questa esposizione si rifà, da un lato, agli insegnamenti chiovendiani sulla tutela dei beni della vita dei consociati come scopo principale della giustizia; per un altro al costituzionalismo principialista, così da superare la rigidità avaloriale del positivismo formalistico, da quello di Karl von Gerber fino a quello di Hans Kelsen; per un altro verso ancora alle teorie realistiche del diritto d’origine nord-europee e nord-americane. In questa sede mi limito soltanto, per chi vuole, a rinviare a A. Giovannini, Sull’azione processuale e sulla tutela dei beni della vita, ora in Per principi, Torino, 2022, 127 ss.; Id., Sul diritto, sul metodo e sui principi, ivi, 3 ss.; Id., Note controvento su interesse fiscale e “giustizia” nell’imposizione come diritto fondamentale, in Riv. dir. trib., 2023, I
[28] V. Andrioli, Presunzioni (diritto civile e diritto processuale civile), in Noviss. dig. it., XIII, Torino, 1966, 767 ss.
[29] L’indicazione degli elementi di prova nell’avviso di accertamento è prescritto dall’art. 56, secondo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972 e, per l’atto di contestazione della violazione, dall’art. 16, secondo comma, del d.lgs n. 472 del 1997, non anche dall’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973. L’indicazione, tuttavia, in un’interpretazione costituzionalmente orientata e per coerenza sistematica, si deve ritenere obbligatoria anche per le imposte sui redditi non solo perché fra questi tributi corre quasi sempre identità di rettifica e unicità del provvedimento d’accertamento, ma anche perché quella indicazione è essenziale per l’esercizio del diritto alla difesa nella sua pienezza ed effettività, ed anche per consentire al contribuente di controllare fin dalla fase preprocessuale l’uso non arbitrario del potere d’accertamento. Il che non significa che l’amministrazione non possa integrare in corso di causa il ventaglio delle prove, purché, ovviamente, entro i fatti già indicati nell’avviso di accertamento e al ricorrente-contribuente sia riconosciuto un termine di replica, peraltro previsto espressamente dall’art. 24, secondo comma, del d.lgs. n. 546 del 1992. Cfr. F. Batistoni Ferrara, La prova nel processo tributario: riflessioni alla luce delle più recenti manifestazioni giurisprudenziali, in Giur. trib., 2007, 745 ss.
[30] Così G. Ubertis, Prova penale (teoria della), in Diz. dir. pubbl., diretto da S. Cassese, V, Milano, 2006, 4719 ss., 4726. Più ampiamente M. Nobili, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974, passim, ma specie 255 ss., nonché F. Cordero, Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, fin da 7 ss.
[31] Sia consentito rinviare ad A. Giovannini, Ipotesi normative di reddito e accertamento nel sistema d’impresa, Milano, 1992, passim, e più recentemente Id., L’onore della prova nell’accertamento analitico-presuntivo, in Trattato sull’onore della prova, diretto da L. Tosi, Milano, 2023.
[32] Lo sostiene P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002. Diversamente, in termini netti, mi sono espresso in Note controvento su interesse fiscale e “giustizia nell’imposizione” come diritto fondamentale, in Riv. dir. trib., 2023, I,
[33] G. A. Micheli, Le presunzioni e la frode alla legge nel diritto tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1976, I, 396 ss.; F. Moschetti, Avviso d’accertamento tributario e garanzie del cittadino, in Dir. prat. trib., 1983, I, 1930 ss.
[34] E ciò come conseguenza della distinzione fra gradazione probabilistica della prova indiretta e pluralità dei risultati inferenziali. Nella prova indiretta, come fonte e quale che essa sia, la gradazione probabilistica è sua caratteristica naturale. Ciò nondimeno, questa caratteristica non impedisce di qualificare il fatto ricostruito come processualmente certo. La pluralità dei risultati dedotti in via presuntiva e quindi non sorretti da un nesso necessario tra fatto noto e quello ignoto, invece, incidono sull’attendibilità della fonte ed è per questo che non possono essere qualificati come dimostrativi del fatto ignorato, che infatti lasciano nell’incertezza della pluralità degli esiti. Questo accennato, ne sono consapevole, è uno degli aspetti fra i più controversi del dibattito sulle presunzioni, ma ho sempre ritenuto che l’impostazione sommariamente richiamata sia quella da preferire per evitare continue e perniciose slabbrature del sistema probatorio e dei princìpi costituzionali. Esattamente quello che è accaduto negli ultimi lustri.
[35] Per quella tributaria, ex pluris, G. Gentili, Le presunzioni nel diritto tributario, Padova, 1984, 158 ss.; Tesauro F., Le presunzioni nel processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, I, 188 ss.; R. Lupi, Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario, Milano, 1988, 210 ss.; M. Trimeloni, Le presunzioni tributarie, in Trattato dir. trib., diretto da Amatucci A., II, Padova, 1994, 81 ss.; A. Marcheselli, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, Torino, 2008; G.M. Cipolla, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, 445 ss. Per la letteratura processuale civile, cfr. L.P. Comoglio, Le prove civili, in Trattato dir. priv., diretto da Rescigno U., XXXI, rist., Torino, 1999, 322 ss.; M. Taruffo, Studi sulla rilevanza della prova, Padova, 1970, 192 ss., 233 ss.
[36] Cfr. C. Glendi, Il giudice tributario e la prova per presunzioni, in Le presunzioni in materia tributaria, a cura di A.E. Granelli, Rimini, 1987, 157.
[37] È disciplinata dall’art. 39, secondo comma, d.P.R. n. 600 del 1973 e dall’art. 54, terzo comma, d.P.R. n. 633 del 1972. Cfr. ampiamente F. Tesauro, Le presunzioni nel processo tributario, loc. cit.
[38] Sia consentito rinviare, anche per riferimenti bibliografici, al mio Ipotesi normative di reddito e accertamento, cit., 93 ss.
[39] Riprendo l’orientamento giurisprudenziale che finisce per permettere alle presunzioni semplici di surrogare presunzioni legali o, di fatto, per allargare o modificare fattispecie impositive disciplinate dal diritto sostanziale. E’ il caso, ad esempio, dell’equiparazione della conclusione delle prestazioni professionali alla percezione dei compensi (art. 54 T.U.I.R.), oppure della presunzione che tende a riqualificare come ricavi gli apporti finanziari dei soci in società di capitali (art. 85 T.U.I.R.). Cfr., per asciutte e puntuali osservazioni, M. Basilavecchia, Corso di diritto tributario, Torino, 2022, 415 ss.
[40] R. Lupi, Studi sociali e diritto, Roma, 2022, 83 ss., 92 ss.
Il 10 marzo: la ricorrenza al di là della retorica
di Maria Teresa Covatta
Il 29 aprile del 2021 l’Assemblea generale dell’ONU ha proclamato il 10 Marzo giornata internazionale delle donne giudici (A/RES/75/274).
La Risoluzione partendo dall’Agenda 2030 e dall’assoluta centralità del target dell’effettiva uguaglianza di genere in tutti i settori della società, constata che le donne che svolgono la funzione giurisdizionale, a tutti i livelli e soprattutto in posizione di vertice, sono ancora poche.
Afferma, come già fatto in altre sedi, che la partecipazione delle donne al processo decisionale anche in campo giudiziario è essenziale per il raggiungimento di obiettivi di uguaglianza, sviluppo sostenibile, pace e democrazia; e invita gli Stati ad impegnarsi con piani e strategie concrete affinché le donne possano inserirsi ed avanzare nel sistema giudiziario in termini egualitari rispetto agli uomini.
L’invito a promuovere una partecipazione che sia davvero “piena e completa” amplia la platea dei destinatari della Risoluzione che si indirizza anche a quegli Stati, tra cui l’Italia e molti altri degli Stati europei, in cui l’accesso delle donne in magistratura è prevista da tempo (legge 9 febbraio 1963 n. 66) e gli steccati ancora da superare riguardano fattori diversi quali le politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia e le strategie utilizzate per garantire un accesso paritario alle posizioni di leadership.Quasi inesistente le prime, nonostante la presenza maggioritaria delle donne in magistratura; in progressivo aumento le seconde, con tempi non proprio veloci, tenuto conto che le donne sono entrate per la prima volta in magistratura del 1965, dunque ben 58 anni fa.
Ma il processo è ben avviato come comprovato dalla nomina di Margherita Cassano a presidente della Suprema Corte di Cassazione, nomina che, citando le parole della stessa presidente (1) “rappresenta il risultato collettivo che consegue allo sforzo profuso dalle donne magistrato e dalla parte più sensibile della società ai temi della parità di genere nei vari ambiti”.
Un risultato che parte dall’impegno e dall’esempio di quelle prime 8 magistrate che nel 65 superarono il concorso, tra cui Gabriella Luccioli, anche lei prima donna a ricoprire un ruolo apicale alla Suprema Corte; magistrate che, citando ancora le parole della stessa presidente “hanno segnato la vita professionale di noi tutte”.
Brenda Hale presiede la Corte Suprema Britannica dal 2017 e anche per lei si può parlare del raggiungimento di un traguardo per l’intero sistemza giudiziario del Paese, spronato più volte dalla stessa giudice a promuovere diversità e parità di genere al suo interno, lottando contro atteggiamenti sessisti e classisti.
Clantal Arens ricopre la più alta carica dell’ordine giudiziario francese dal 2019, già preceduta, quasi 30 anni prima, da Simon Rozès che aveva ricoperto l’incarico dall’1984 al 1988.
Siofra O’Leary, irlandese, è la prima donna ad essere stata nominata, nel novembre dell’anno scorso, presidente della Corte Europea dei diritti Umani.
La situazione non è così confortante in altre realtà e basta un rapido sguardo alla situazione internazionale per valorizzare il peso della Risoluzione ONU.
Infatti, al di là di tutto ciò che si può pensare di o contro queste ricorrenze, a cominciare da una certa ritrosia degli Stati a votarle nel timore che comportino spese obbligatorie aggiuntive (2), a proseguire con la censura sulla poca concretezza che le caratterizza o lo stigma di essere una delle tante celebrazioni retoriche, credo che conoscerne il background possa essere utile a spiegarne il valore che non è meramente simbolico.
La proposta nasce dalle magistrate quatarine all’esito di una collaborazione internazionale cui partecipano anche molte magistrate, in una indagine relativa al traffico internazionale di droga e ad altri fenomeni criminali connessi: lavoro poi ricompreso e apprezzato nell’ambito del Global Judicial Integrity Network of UN Office on Drugs and Crime, che la Risoluzione richiama in premessa (3).
Niente di strano se non fosse che tra quelle magistrature ve ne erano talune per le quali, per contesto sociale, culturale e religioso, la presenza delle donne nell’esercizio della giurisdizione non è così scontato e comunque, quando consentito formalmente, è sempre in bilico tra il concesso e il non più concesso.
A maggior ragione quando si esula dal recinto di contesti giurisdizionali strettamente connessi alla famiglia e approda, niente meno, che alla sfera della giurisdizione penale.
Non ci sono giudici donne in Iran dopo il 1979 e c’è da chiedersi, ove invece vi fossero state, se la storia recente della rivolta avrebbe preso una piega diversa, pur in presenza di tutte le difficoltà costituzionali connesse alla sharia che gravano sulla libertà delle donne in generale.
Già in un’intervista di tanti anni fa (2003), rilasciata insieme a Carla Del Ponte, la Premio Nobel iraniana Shirin Ebadi, già membro dell’Alta Corte Iraniana, costretta a ritirarsi con l’avvento del regime degli Ayatollah, rifletteva sulla difficoltà di essere magistrate ma al tempo stesso sull’importanza di avere la presenza delle donne nell’esercizio della giurisdizione in Paesi dove la parola di un solo uomo ha un valore maggiore di quella di più donne.
Le giudici donne in Afghanistan sono state cancellate. Molte di loro sono state uccise. Altre sono riuscite, con l’aiuto internazionale, ad “evadere” dal loro Paese come se fossero delle criminali.
È di questi giorni (24.2.2023) la testimonianza di Obaida Shahar Sharify una delle 21 giudici e procuratrici che hanno trovato rifugio in Spagna a seguito di un procedimento di urgenza per la concessione dell’asilo (4) dopo la fuga dall’Afghanistan attraverso il Pakistan dove hanno vissuto senza status di rifugiate e con il terrore di essere catturate e riportate in Afghanistan.
Al dolore dell’abbandono del proprio Paese si aggiunge quello di non poter più svolgere il proprio lavoro e di essere considerate un nemico da abbattere proprio per la funzione esercitata, inaccettabile per i guardiani della sharia se svolta da una donna.
In Birmania le donne, tutte, sono state oscurate dal golpe militare del 2021 e naturalmente anche le magistrate, avvocate e giuriste e tutte coloro che hanno contestato la brusca “sospensione”, o meglio la cancellazione, dei diritti umani tra cui quelli delle donne.
In Palestina, che pure vantava il primato di essere una delle poche società arabe che già negli anni 70 aveva previsto la possibilità di nominare giudici donna, in concreto le donne giudici continuano ad essere poche. E comunque occupano ruoli nella giurisdizione di conciliazione e non invece nel settore penale, dove sono solo gli uomini ad occuparsi dalla problematica del delitto d’onore, della violenza domestica, per la quale manca ogni forma di normativa a tutela delle vittime, dello stupro, che non è riconosciuto come reato se consumato nell’ambito del matrimonio, e comunque di ogni aspetto che coinvolge la tutela dei diritti delle donne: così perpetuando tutte le storture di una società ancora profondamente patriarcale (5).
Così in Siria, così in Nigeria, tanto per citare alcune delle realtà in cui guerre, terrorismo,tratta, traffico di droga e soprattutto lo stupro, utilizzato costantemente come arma di guerra, richiederebbero tribunali ad alta presenza femminile.
Anche il Pakistan, che sembrava costituire una piccola eccezione nel panorama asiatico, visto che dal 2008 ha visto una sostanziosa immissione di donne nella magistratura fino ad arrivare a quasi un terzo di rappresentanza femminile, ha di recente vissuto una vera e propria ribellione ideologica nel momento in cui una donna (Ayesa Malik) è stata chiamata a far parte della Corte Suprema Pakistana nel settore penale, sia pure unica donna tra 16 colleghi uomini.
Una scelta epocale, intervenuta dopo molte bocciature e che ha scatenato fortissime reazioni contrarie sia tra i colleghi sia da parte dell’avvocatura che ha persino minacciato il blocco delle attività giurisdizionali.
La “colpa” di Ayesa Malik, per cui è stata avversata e criticata, oltre al fatto di essere una donna, è stata quella di aver posto un principio di diritto e di civiltà bloccando, nei processi a lei assegnati, l’esecuzione dei test di verginità sulle vittime di stupro, pratica molto invasiva e molto diffusa come tecnica di indagine sul passato sessuale delle donne.
Il che racconta, più di tante parole, quale può essere - ovunque - il valore aggiunto di una magistratura femminile, più evidente in sistemi ancora profondamente patriarcali ma valido anche in realtà a noi più vicine, dove grandi passi sono stati fatti su temi fondanti quali la violenza contro le donne ma ancora sussistono stereotipi e steccati che resistono anche nell’esercizio della giurisdizione e impediscono il raggiungimento effettivo della parità. La vittimizzazione secondaria ne è un esempio ma purtroppo non l’unico.
E dunque festeggiamo senza riserve questa ricorrenza internazionale come riconoscimento del valore dell’apporto della magistratura femminile nel progresso dei diritti delle donne, sia per quelle che già esercitano la funzione con pieno diritto sia per tutte quelle che hanno appena intrapreso un cammino che va sostenuto da tutti.
Note
(1) Lettera di ringraziamento della Presidente all’ADMI - Associazione Italiana Donne Magistrato per il comunicato di congratulazioni per la nomina.
(2) Come esprime la clausola “stressed that the cost of all activities that may arise from the implementation of the present resolution should be met from voluntary contribution”.
(3) Costituito a Vienna nel 2018 il Network delle N.U. è finalizzato (art 11) a rafforzare l’integrità giudiziaria intesa come abilità del sistema e dei singoli membri a rispettare i valori fondamentali di indipendenza, imparzialità, competenza e diligenza; prevedendo altresì una serie di strumenti per consolidare a livello globale tali valori.
(4) “24.2.2023 Comunicato Associazione 14 Lawyers di Bilbao i quali, unitamente all’Union Progresista de Fiscales(UPF) e Magistradoseuropeos per la democraciay lasLibertades” (Medel), hanno patrocinato l’operazione di salvataggio e le procedure di asilo.
(5) Così Thuraya Judi Alwazir, membro dell’Autorità giudiziaria palestinese dal 2009.
Il nostro saluto a Piero Curzio
di Cristiano Valle
Pietro Curzio lascia la magistratura il 5 marzo 2023, dopo quasi quarantacinque anni di servizio, poiché nominato con d.m. del giugno 1978. Vinse il concorso per uditore giudiziario e poi partì per quello che, allora, era il servizio militare obbligatorio (la naja abolita, solo molti anni dopo, dal Governo nel quale sedeva, quale Ministro della Difesa, Sergio Mattarella).
Pietro Curzio è stato pretore mandamentale, giudice istruttore del vecchio rito penale (applicato, da pretore, in tribunale), pretore del lavoro, sostituto procuratore della Repubblica, anche nella direzione distrettuale antimafia, consigliere di corte d’appello e consigliere e presidente della Corte di Cassazione.
Ha svolto sia funzioni requirenti che giudicanti e queste sia nell’ambito civile che in quello penale, oltre che, per trenta anni, quelle, d’elezione, di giudice del lavoro.
Il suo nome figura tra i collaboratori delle numerose edizioni (per trenta anni, dal 1984 a un decennio fa) di uno dei più noti e diffusi volumi di diritto sindacale.
L’Autore di quel volume, Gino Giugni (poi Ministro del Lavoro, colpito dal terrorismo brigatista), esprimeva, nella quarta di copertina, o comunque nelle prime pagine della prima edizione, i suoi ringraziamenti al pretore Pietro Curzio, assistente volontario nell’Università di Bari, ed è, mi sia consentita la nota personale, in quella veste, di cultore del diritto sindacale, che lo lessi per la prima volta e, dato che quando io ero all’università lui era già magistrato, mi colpì il fatto che un giudice fosse così attento e vicino alla cultura giuridica più progressista e sicuramente meno paludata.
Scrivere di Piero Curzio non è facile, perché l’uomo e il magistrato è nemico di ogni eccesso.
Lo stile sobrio e essenziale connota la sua persona e tutti i suoi scritti, sia di stretto ambito giudiziario che di dottrina o di carattere organizzativo, quali i decreti e le circolari rese nelle funzioni di presidente di sezione e di primo presidente della Corte di Cassazione.
L’organizzazione del lavoro, anche con lo sviluppo dell’uso dei sistemi informatici, ha connotato le sue funzioni di pubblico ministero, di consigliere e di presidente titolare delle Sezioni VI e IV civile, del Lavoro, e delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Durante la pandemia da Covid-19, nel biennio 2020-2021, è stato sempre presente in Corte, come sicuro punto di riferimento per i magistrati, il personale amministrativo e il foro.
La vivacità intellettuale lo ha portato a essere instancabile organizzatore di convegni di dottrina giuridica, direttore della biblioteca dei magistrati della Cassazione ─ per la quale ha letteralmente riportato alla luce numerosi, antichi, volumi, sepolti negli scantinati della Corte ─ oltre che formatore di magistrati di merito e di legittimità nonché autore di decine di libri e centinaia di articoli, in materia di diritto del lavoro, diritto processuale, diritto sindacale, della previdenza e dell’assistenza sociale. Un ampio scritto di Pietro Curzio è dedicato, a testimonianza della varietà dei suoi interessi, al palazzo che ospita la Corte, il Palazzaccio, nella tipica espressione romana.
L’attività in ambito spiccatamente dottrinario non ha in alcun modo diminuito quella di carattere strettamente giudiziario, che, anzi, ne è stata arricchita, come ben sanno i consiglieri di cassazione che lo hanno avuto accanto nella seconda sezione penale, in quella del lavoro, la IV civile, e nelle Sezioni Unite civili, queste ultime da lui presiedute per diversi anni.
Nelle camere di consiglio delle Sezioni Unite civili il suo apporto ha spaziato in tutti gli ambiti, ben oltre le sue materie d’elezione.
Per il diritto del lavoro, in tutte le sue componenti, sostanziali e processuali, nazionali e sovranazionali, Pietro Curzio ha avuto una vera, laica, vocazione e negli ultimi cinquanta anni non vi sono, credo, nell’ambito della magistratura italiana, colleghi che, tra i giuslavoristi, lo superino per acume, profondità di pensiero, capacità di elaborazione e di scrittura.
In apparenza taciturno e severo si apre alla battuta di spirito in compagnia ed è conversatore assai attento all’interlocutore.
Pietro Curzio ci mancherà negli uffici ─ ove è stato attivo fino alla fine del mandato, firmando, appena lo scorso I° marzo, il Protocollo d’intesa sul processo civile in Cassazione ─ e nelle camere di consiglio della Corte, ma speriamo che, dopo il 5 marzo, e molti mesi di riposo e viaggi con Annamaria, torni spesso a visitare la Corte, venendo da Bari con il suo sorriso, e comunque ci segua con il suo affetto, la sua intelligenza aperta e versatile e i volumi della sua Biblioteca.
Le garanzie di conoscibilità degli algoritmi e l’esigenza di assicurare un controllo umano del procedimento amministrativo (c.d. human in the loop). (Nota a Tar Campania, Sez. III, 14 novembre 2022, n. 7003)
di Martina Sforna
Sommario: 1. Premessa. – 2. La vicenda processuale. – 3. Human in the loop: il controllo umano del procedimento in funzione di garanzia. – 4. Conoscenza e comprensibilità degli algoritmi. – 5. Cenni conclusivi sul ruolo della giurisprudenza in tema di decisioni algoritmiche.
1. Premessa
La pronuncia in commento si inserisce nell’ambito della tematica, già da alcuni anni affrontata in seno alla giurisprudenza amministrativa[1], dell’ammissibilità e dei limiti del ricorso alla c.d. decisione algoritmica all’interno dei procedimenti amministrativi[2]. In particolare, tale sentenza, non mettendo seriamente in discussione la possibilità di impiegare algoritmi al fine di operare scelte amministrative, insiste sull’esigenza di assicurare un controllo umano del procedimento in funzione di garanzia per il privato. Il Collegio, al proposito, si riferisce, espressamente, al concetto del c.d. human in the loop, ovverosia all’esigenza che l’uomo sia mantenuto all’interno dei processi decisionali intrapresi da algoritmi e ulteriori tecnologie di intelligenza artificiale (IA)[3]. Il Collegio si sofferma, altresì, sulle esigenze di conoscibilità e trasparenza che, con riferimento all’utilizzazione di algoritmi da parte delle Amministrazioni, devono apparire rafforzate, in modo che sia garantita la «piena conoscibilità della regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico»[4].
2. La vicenda processuale
La vicenda origina dal ricorso presentato da un soggetto, dichiaratosi titolare di una azienda agricola e proprietario di una vasta area agricola in zona classificata montana in Provincia di Salerno, per l’annullamento delle note con cui AGEA aveva rielaborato le sue domande di pagamento relative agli anni 2018 e 2019 per la Misura 13.1.1 “Indennità compensativa zone montane” del PSR Campania 2014-2020, accertando l’indebita percezione di determinati importi. Si trattava, nella specie, di una indennità che, sulla base dell’applicazione della Direttiva 75/268/CEE, era volta a compensare i costi aggiuntivi e, in generale, gli svantaggi derivanti dalla localizzazione delle attività agricole in territori classificati montani.
Il ricorrente lamentava l’applicazione, da parte di AGEA, di un nuovo algoritmo di calcolo degli importi delle riduzioni e delle sanzioni. In particolare, rappresentava che, dopo essere risultato beneficiario di tale indennità compensativa per gli anni 2018 e 2019 sulla base dell’applicazione di un algoritmo disciplinato dai bandi attuativi della predetta misura, era risultato destinatario di due note di AGEA che, facendo applicazione di un nuovo algoritmo di calcolo, avevano riscontrato degli importi versati in eccesso.
Nello specifico, il ricorrente censurava i provvedimenti impugnati perché viziati secondo plurimi profili. Invero, l’Amministrazione si era limitata a esternare il risultato della procedura di ricalcolo senza, però, menzionare quale fosse il nuovo algoritmo utilizzato, con il relativo funzionamento. In tal modo aveva, quindi, violato l’obbligo di motivazione, nonché impedito al ricorrente di fornire elementi utili per evitare il ricalcolo in sede di contraddittorio procedimentale. Il ricorrente lamentava, inoltre, la violazione della lex specialis, in quanto la rideterminazione degli importi si sarebbe tradotta in una modifica ex post delle regole contenute nel bando attuativo, nonché la violazione dell’art. 21 quinquies L. 241/1990, risolvendosi i provvedimenti impugnati in revoche implicite delle precedenti determinazioni.
Il Tribunale Amministrativo ha, quindi, accolto il ricorso ritenendolo fondato quanto alle censure inerenti il vizio di violazione delle garanzie partecipative e il difetto di motivazione delle note di AGEA. Invero, il Collegio ha rilevato come l’Amministrazione abbia giustificato il ricalcolo degli importi dovuti sulla base di un «generico e indeterminato riferimento alla normativa vigente, alle indicazioni della Commissione Europea e all’utilizzo di una differente modalità di calcolo degli importi delle riduzioni e delle sanzioni che avrebbero condotto alla applicazione del nuovo algoritmo».
Nel dettaglio, quanto alla carenza di motivazione, il Tribunale ha rilevato come essa appaia duplice in considerazione della particolare natura di provvedimenti di secondo grado degli atti impugnati. Infatti, da un lato l’Amministrazione non ha esplicitato quali fonti normative avessero legittimato tale esercizio del potere con effetti retroattivi. Dall’altro lato, il Collegio ha evidenziato come le note di AGEA «non contengono alcun tipo di riferimento all’algoritmo utilizzato, che viene semplicemente menzionato come il “nuovo algoritmo”, in questo modo venendo meno tanto all’obbligo di indicare quale sia stato il meccanismo informatico di decisione impiegato (c.d. conoscibilità), quanto all’obbligo di spiegare il suo funzionamento in termini comprensibili per l’utente non dotato di competenze tecniche (c.d. comprensibilità). Tutto ciò con il risultato di una frustrazione anche delle correlate garanzie processuali che declinano sul versante del diritto di azione e difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost. […]».
Per questi motivi, il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania ha disposto l’annullamento delle note di AGEA impugnate.
3. Human in the loop: il controllo umano del procedimento in funzione di garanzia
Il Collegio, nella pronuncia che qui si commenta, dopo aver rilevato che, in generale, l’utilizzo di algoritmi nell’ambito dei procedimenti amministrativi risponde a esigenze di semplificazione nonché di buona amministrazione[5], sottolinea l’esistenza di una opposta esigenza. Si tratta della necessità di assicurare un controllo umano del procedimento, in funzione di garanzia (c.d. human in the loop - HITL). Questa espressione, sorta nel settore matematico e informatico, è utilizzata per indicare quei modelli caratterizzati dalla necessità che, al fine di ottenere il risultato finale, la macchina interagisca con l’essere umano. Applicato all’ambito del procedimento amministrativo, dunque, il rispetto di tale principio implica, come affermato dal Collegio stesso, che «il funzionario possa in qualsiasi momento intervenire per compiere interlocuzioni con il privato, per verificare a monte l’esattezza dei dati da elaborare, mantenendo il costante controllo del procedimento».
Il principio in questione, inoltre, implica la necessaria riferibilità del provvedimento amministrativo a un soggetto umano[6]. Del resto, si potrebbe affermare che tale esigenza antropomorfica permei la stessa struttura del procedimento amministrativo ai sensi della L. n. 241/1990. Invero, l’art. 5 di tale Legge, nel disciplinare i compiti e le funzioni del responsabile del procedimento, lo individua nelle persona di un dirigente o di altro dipendente addetto all’unità organizzativa[7]. Invero, l’istituzione della figura del responsabile del procedimento risponde proprio alle esigenze di «personalizzare la funzione amministrativa» nonché di «individuare un punto di riferimento del cittadino all’interno dell’organizzazione»[8]. Ciò è confermato dagli stessi schemi di legge elaborati dalla Commissione Nigro, nell’ambito dei quali si sottolineava come fosse necessario abbandonare l’allora «attuale condizione di “spersonalizzazione” e “anonimato” dell’operare amministrativo e […] invece creare le condizioni per l’individuazione delle responsabilità personali esterne e interne»[9].
Proprio con riferimento alla garanzia dell’individuazione del responsabile del procedimento, il Collegio rileva che essa non può mai essere sacrificata, neppure quando l’Amministrazione decida di ricorrere all’utilizzo di algoritmi, non solo in funzione integrativa e servente della decisione umana, ma anche in funzione parzialmente decisionale.
Ciò appare, del resto, coerente con le precedenti pronunce del Consiglio di Stato in tema di decisione algoritmiche, alcune delle quali già, espressamente, riferitesi al concetto del c.d. human in the loop. In particolare, con la pronuncia n. 881/2020, i giudici di Palazzo Spada, avevano affermato che «deve comunque esistere nel processo decisionale un contributo umano capace di controllare, validare ovvero smentire la decisione automatica. In ambito matematico ed informatico il modello viene definito come HITL (human in the loop), in cui, per produrre il suo risultato è necessario che la macchina interagisca con l’essere umano»[10].
In quella pronuncia, il Consiglio di Stato aveva, inoltre, richiamato l’art. 22, par. 1 del Regolamento europeo per la protezione dei dati personali 2016/679 (GDPR)[11], il quale consacra il principio della non esclusività della decisione algoritmica. In altri termini, tale norma stabilisce che le persone hanno diritto a non essere destinatarie di decisioni incidenti nella propria sfera giuridica che siano completamente automatizzate e, cioè, prive di qualsivoglia coinvolgimento umano. Invero, «occorre sempre l’individuazione di un centro di imputazione e di responsabilità, che sia in grado di verificare la legittimità e la logicità della decisione dettata dall’algoritmo»[12]. Non è stato, invece, richiamato il paragrafo successivo dell’art. 22, il quale contiene tre ampie eccezioni al principio, con la conseguenza che a livello nazionale «i giudici hanno imposto una tutela maggiore di quella europea»[13].
Tale principio è, evidentemente, strettamente connesso al concetto del c.d. human in the loop. Invero, al fine di assicurare la non esclusività della decisione algoritmica, il funzionario dell’Amministrazione deve, anzitutto, essere mantenuto all’interno del processo decisionale, nonché essere in grado di controllare il sistema utilizzato, potendo intervenire in qualsiasi momento (c.d. human in command[14]).
Al proposito, però, in dottrina si è messo in evidenza un aspetto problematico. Infatti, se a controllare i sistemi di IA deve essere il funzionario pubblico, appare necessario che lo stesso abbia delle adeguate competenze matematiche e informatiche[15]. Invero, «tendenzialmente, solo se l’umano è in grado di comprendere il modo in cui il sistema di IA decide (e può avere fiducia in esso solo se ne comprende il funzionamento), può operare un controllo effettivo sulla macchina e, nel caso, revocarle la delega e correggerne gli output»[16]. Ecco, che appare, allora, opportuno che all’interno delle Pubbliche Amministrazioni, venga promosso lo sviluppo di competenze informatiche e matematiche. Altrimenti, infatti, l’estromissione del soggetto umano dai procedimenti automatizzati apparirebbe, decisamente, favorita.
4. Conoscenza e comprensibilità degli algoritmi
Tra le garanzie che devono essere sempre assicurate al cittadino di fronte all’utilizzo di algoritmi e sistemi di intelligenza artificiale in funzione decisoria, il Collegio, conformemente alle precedenti e già citate pronunce del Consiglio di Stato sul tema[17], include anche il rispetto del principio di trasparenza, il quale trova un immediato corollario nell’obbligo di motivazione di cui all’art. 3 L. 241/1990. In particolare, il principio di trasparenza necessita di essere declinato nella duplice veste di conoscenza o conoscibilità dell’algoritmo, nonché di comprensibilità dello stesso.
Tale conoscibilità dell’algoritmo, secondo il Collegio, deve essere garantita con riferimento a tutti gli aspetti che lo riguardano, quali il procedimento utilizzato per la sua elaborazione, l’identità dei suoi autori, il meccanismo di funzionamento e i criteri dallo stesso applicati. Ciò posto, siccome è evidente che per conoscere questi aspetti non sono sufficienti delle competenze giuridiche, è necessario che la formula tecnica che descrive l’algoritmo sia resa, non solo conoscibile, ma anche comprensibile per il privato. Ciò in ossequio, anzitutto, al diritto a una buona amministrazione di cui all’art. 41 della Convenzione Edu, nonché agli articoli 13 e 14 del GDPR, i quali, in maniera generale, individuano tutte le informazioni che devono essere fornite all’interessato da parte del titolare del trattamento dei suoi dati, a prescindere che sia un soggetto pubblico e privato. Solo in tal modo, infatti, può essere garantita, da un lato, la concreta possibilità di partecipazione del privato al procedimento e, dall’altro un pieno sindacato del giudice amministrativo in ossequio ai canoni dell’effettività della tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. Al proposito, è stato rilevato in dottrina come ciò comporti «l’evidente peculiarità che l’esigenza di trasparenza – sino ad oggi riferita all’attività e all’organizzazione –, viene ad essere estesa anche ad alcuni mezzi tecnici adoperati dalle pa»[18].
Anche con riferimento alla conoscibilità, dunque, la pronuncia si pone in linea con i precedenti arresti del Consiglio di Stato. Invero, dapprima con la sentenza n. 2270/2019 e, in seguito, con la n. 881/2020 giudici di Palazzo Spada hanno elaborato un preciso statuto della legalità algoritmica[19]. In particolare, con il primo dei due citati arresti, si era affermato come «il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) deve essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico».
Con la seconda pronuncia, poi, si è rilevato come il principio di conoscibilità, «per cui ognuno ha diritto a conoscere l’esistenza di processi decisionali automatizzati che lo riguardino e in questo caso a ricevere informazioni significative sulla logica utilizzata», sia ricavabile in termini generali anche dal diritto sovranazionale. In particolare, l’art. 41 Cedu, che sancisce il diritto a una buona amministrazione, stabilisce l’obbligo per l’amministrazione di fornire le ragioni alla base delle proprie decisioni.
Da ultimo, si segnala come, anche con riferimento alla conoscibilità dell’algoritmo, come per l’esigenza di dominabilità del procedimento da parte di un soggetto umano, si è, però, evidenziato in dottrina come molto spesso, «la pubblica amministrazione che utilizza macchine intelligenti per la propria attività, quasi mai, al pari dei comuni cittadini, è nelle condizioni di conoscere nel profondo il meccanismo algoritmico, cioè la logica sottesa all’algoritmo e la sua base di conoscenza»[20]. Tale questione non viene affrontata nella pronuncia in analisi, come, del resto, non è stato fatto dalle precedenti sentenze amministrative sul tema. Ciò nonostante, si ritiene come essa, evidentemente, si rifletta sul procedimento amministrativo e, cioè, sull’impossibilità di rendere effettivamente conoscibile il meccanismo attraverso i quali si perviene alla decisione.
Inoltre, al proposito, è stato parte della dottrina ha messo in luce come la conoscibilità dell’algoritmo non sia sempre un sufficiente strumento di tutela con riferimento ai sistemi di intelligenza artificiale. Infatti, «nell’intelligenza artificiale è proprio la logica ad essere strutturalmente non conoscibile. Ignota per definizione»[21]. In questo senso, il nucleo decisionale di alcune tipologie di intelligenza artificiale viene definito quale black box[22], proprio a evidenziarne l’impenetrabilità e l’imperscrutabilità.
5. Cenni conclusivi sul ruolo della giurisprudenza in tema di decisioni algoritmiche
In conclusione, si può senz’altro constatare come la giurisprudenza non metta ormai seriamente in discussione la possibilità per la Pubblica Amministrazione di avvalersi di algoritmi che diano luogo a procedimenti decisionali automatizzati. Anzi, la sentenza in commento – come, del resto, le altre richiamate – rileva, come l’utilizzo di algoritmi possa condurre a una maggiore velocità, efficienza e, in astratto, anche in imparzialità del procedimento amministrativo. Ciò, del resto, appare coerente anche con le intenzioni del legislatore, il quale, per tramite del c.d. Decreto semplificazioni n. 76/2020, ha modificato l’art. 3-bis della L. n. 241/1990, stabilendo che «le amministrazioni pubbliche agiscono mediante strumenti informatici e telematici»[23].
Allo stesso tempo, però, si deve rilevare come, al di fuori di tale disposizione, il legislatore non sia intervenuto, espressamente, nella regolamentazione dell’utilizzo di algoritmi nelle fasi decisorie, e non meramente strumentali, dei procedimenti amministrativi[24]. Invero, anche l’art. 50-ter del D.lgs. n. 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale – CAD), il quale prescrive l’istituzione di una Piattaforma digitale nazionale dati, si riferisce all’utilizzo delle tecnologie soltanto in chiave di interconnessione tra amministrazioni.
Ecco, dunque, che, in questo ambito, il ruolo della giurisprudenza si rivela fondamentale nella fissazione delle garanzie che devono circondare l’utilizzo di algoritmi e sistemi di intelligenza artificiale da parte della Pubblica Amministrazione. È, infatti, essenziale che, anche di fronte a modalità innovative di esercizio del potere pubblico, il cittadino debba continuare a disporre delle garanzie di partecipazione, motivazione, trasparenza ed effettività della tutela proprie del procedimento amministrativo. Ciò, in quanto l’incentivato processo di informatizzazione e digitalizzazione delle amministrazioni non può, in nessun caso, tradursi nella violazione dei generali canoni della legalità amministrativa.
Tra questi, assumono rilevanza decisiva le garanzia di “umanità” del procedimento amministrativo e di conoscibilità e comprensibilità della regola algoritmica. Come, infatti, ribadito più e più volte dalla giurisprudenza, è fondamentale che venga salvaguardato il concetto del c.d. human in the loop e cioè la riferibilità della decisione amministrativa a un soggetto umano che possa esercitare funzioni di controllo e intervento.
Sarà, dunque, rimesso al giudice stabilire, caso per caso, se l’utilizzo di un determinato algoritmo sia governabile dall’amministrazione e, soprattutto, se sia in concreto possibile comprendere l’iter logico seguito dalla macchina per l’elaborazione della decisione finale, al fine di stabilirne la compatibilità con i principi generali del diritto amministrativo.
[1]Cons. St. Sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2270; Cons. St., Sez. VI, 13 dicembre 2019, nn. 8472 – 8473 – 8474; Cons. St., sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 881; Cons. St., Sez. VI, 8 settembre 2022, n. 6236; Cons. St., sez. III, 25 novembre 2021, n. 7891;
[2] Per le questioni definitorie in tema di algoritmi e intelligenza artificiale si rinvia a C. Filicetti, Sulla definizione di algoritmo (nota a Consiglio di Stato, Sezione Terza, 25 novembre 2021, n. 7891), in www.giustiziainsieme.it, 8 febbraio 2023.
[3] Per approfondimenti sul concetto del c.d. human in the loop, anche in chiave etica, si veda P. Benanti, Human in the loop, cit.161. Si veda anche, M. Tampieri, L’intelligenza artificiale e le sue evoluzioni. Prospettive civilistiche, Milano, 2022, 331.
[4] Sul punto, il Collegio cita espressamente Cons. St., Sez. VI, n. 2270/2019.
[5] Tra i vantaggi per l’Amministrazione si è soliti ricomprendere quello dell’efficienza, della celerità, nonché dell’oggettività o neutralità. Sul punto cfr. C. Napoli, Algoritmi, intelligenza artificiale e formazione della volontà pubblica: la decisione amministrativa e quella giudiziaria, Riv. it. cost., 2020, 3, 318 ss.
[6] Al proposito è stato affermato che «sarebbe sempre implicato nei discorsi del diritto amministrativo qualcosa che potremmo chiamare, prendendo in prestito l’espressione contenuta nel Libro bianco AGID, un principio antropomorfico, a denotare che il conferimento di potere decisionale a un certo apparato implichi la riferibilità a un atto intenzionale umano se non diversamente stabilito» (Così, S. Civitarese Matteucci, Umano troppo umano. Decisioni amministrative automatizzate e principio di legalità, in Dir. pub., 1, 2019, 22).
[7] G. Berti, La responsabilità pubblica, Padova, 1994, 305, al proposito, si riferì al responsabile del procedimento come al «funzionario designato a dare una sembianza fisica all’istruttoria amministrativa».
[8] F. Patroni Griffi, La l. 7 agosto 1990 n. 241 a due anni dall’entrata in vigore. Termini e responsabile del procedimento; partecipazione procedimentale, in Foro it., 1993, vol. 116, III, 70. Sulla figura del responsabile del procedimento si vedano anche G. Navarra, S. Russo, Il responsabile del procedimento amministrativo nella pubblica amministrazione, Rimini, 1998, 176; F.C. Rampulla, I principi generali della L. 241/1990 e s.m. ed il responsabile del procedimento, in Foro amm., 2008, 2, 641 ss.; R. Ursi, Il responsabile del procedimento “rivisitato”, in Dir. amm., 2021, 2, 365 ss.
[9] Le parole, riportate in G. Sciullo, Il responsabile del procedimento. In ricordo di Giorgio Pastori, in Dir. pubbl., 2019, 3, 863, sono tratte dalla Relazione introduttiva al XXXII Convegno di Varenna del 1986 e dedicato a “La disciplina generale del procedimento amministrativo – Contributi e iniziative legislative in corso” in cui vennero illustrati gli schemi di legge elaborati dalla Commissione Nigro.
[10] Cons. St., sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 881.
[11] In particolare, l’art. 22, par. 1 afferma che: «L’interessato ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona». È doveroso, però, sottolineare come lo stesso articolo contenga, al paragrafo successivo, tre eccezioni all’applicazione di tale principio, di ampia portata. Si tratta dei casi in cui la decisione sia necessaria per la conclusione o l’esecuzione di un contratto, quando essa sia autorizzata dal diritto dell’Unione o dello Stato membro, ovvero si basi sul consenso esplicito dell’interessato.
[12] Cons. St., sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 881.
[13] B. Marchetti, The algorithmic administrative decision and the human in the loop, in BioLaw Journal, 2021, 2, 13.
[14] Al proposito il parere del Comitato economico e sociale europeo su L’intelligenza artificiale – Le ricadute dell’intelligenza artificiale sul mercato unico (digitale), sulla produzione, sul consumo, sull’occupazione e sulla società, 2017/C, al punto 1.6 «raccomanda di adottare, nei confronti dell’IA, l’approccio “human-in-command”, con la condizione essenziale che l’IA sia sviluppata in maniera responsabile, sicura e utile, e che la macchina rimanga macchina e l’uomo ne mantenga il controllo in ogni momento».
[15] Cfr. B. Marchetti, The algorithmic administrative decision and the human in the loop, cit., 17 che afferma come tali competenze servano a evitare «la cattura dell’umano da parte della macchina (c.d. effetto aggancio)».
[16] B. Marchetti, The algorithmic administrative decision and the human in the loop, cit., 18.
[17] Supra, nota n. 1.
[18] A.G. Orofino, L’attuazione del principio di trasparenza nello sviluppo dell’amministrazione elettronica, in Judicium. Il processo civile in Italia e in Europa, disponibile al seguente link https://www.judicium.it/wp-content/uploads/2020/10/Orofino.pdf.
[19] Nello specifico, con la sentenza n. 881/2020, il Consiglio di Stato ha individuato i principi fondamentali della c.d. legalità algoritmica. Si tratta del principio di conoscibilità e comprensibilità dell’algoritmo, del principio di non esclusività della decisione algoritmica e di quello della non discriminazione algoritmica. Sul tema si veda G. Marchianò, La legalità algoritmica nella giurisprudenza amministrativa, in Il diritto dell’economia, 2020, 3, 229-258.
[20] G. Pesce, Il giudice amministrativo e la decisione robotizzata, in www.judicium.it, 15 giugno 2020.
[21] M. Corradino, Intelligenza artificiale e pubblica amministrazione: sfide concrete e prospettive future, in www.giustizia-amministrativa.it, 2021.
[22] Il problema non si pone per tutti gli algoritmi, ma sono per quelli che si avvalgono di meccanismi di machine learning, cfr. C. Silvano, Prospettive di regolazione della decisione amministrativa algoritmica: un’analisi comparata, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2022, 265 ss. Sul tema delle black box, si veda F. Pasquale, The Black box society, The Secret Algorithms That Control Money and Information, Londra, 2015, 144 ss.
[23] Nella versione precedente, l’articolo configurava questa come una semplice possibilità per le Amministrazioni.
[24] Al proposito è stato affermato che «a fronte della diffusione di testi ricognitivi non vincolanti, il quadro delle norme vigenti sull’utilizzo dei software di intelligenza artificiale nel settore giuspubblicistico appare scarno e lacunoso». Così, V. Neri, Diritto amministrativo e intelligenza artificiale: un amore possibile, in Urb. e appalti, 2021, 5, 587.
Note sul procedimento di localizzazione e approvazione delle opere pubbliche nello schema di codice dei contratti dopo il parere della Conferenza unificata[*]
di Pier Luigi Portaluri
1. È anzitutto opportuno definire la cornice normativa al cui interno operano le Commissioni parlamentari chiamate a pronunciarsi sullo schema di decreto legislativo recante il codice dei contratti pubblici (breviter, SCC).
Come noto, l’art. 1, comma 4, 3° e 4° periodo, l. 21 giugno 2022, n. 78 (rubricato «Delega al Governo in materia di contratti pubblici»), prevede: «Ove il parere delle Commissioni parlamentari indichi specificamente talune disposizioni come non conformi ai principi e criteri direttivi di cui alla presente legge, il Governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, trasmette nuovamente i testi alle Camere con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni, corredate dei necessari elementi integrativi di informazione e motivazione. Le Commissioni competenti per materia possono esprimersi sulle osservazioni del Governo entro dieci giorni dall'assegnazione; decorso tale termine il decreto legislativo può essere comunque emanato.».
La norma è chiara nell’attribuire alle Commissioni parlamentari il potere di sindacare – sia pur in sede consultiva – la conformità delle disposizioni codicistiche ai principi e ai criteri direttivi contenuti nella legge delega: onde, poi, il ritorno alle Camere (e quindi alle Commissioni stesse) qualora il Governo non intenda conformarsi ai pareri parlamentari.
Poiché parametro di una tale verifica sono, ovviamente, le dorsali regolative desumibili dalla normazione delegante, trovo arduo – a pena di una vacua ineffettività dell’apporto di Camera e Senato – sostenere che il ruolo delle Commissioni non possa spingersi sino a individuare nel dettaglio i profili ritenuti dissonanti rispetto all’armatura concettuale consegnata dalla l. n. 78/’22.
Vi sono, peraltro, basi positive che orientano in questo senso. Infatti, il parere delle Commissioni – puntualizza il 3° periodo cit. – può indicare «specificamente talune disposizioni». Si tratta, pertanto, di una verifica di compatibilità che può sia essere di sistema, concernendo le scelte e i nodi d’apice che connotano lo schema di codice; sia riguardare – restringendo progressivamente l’angolo visuale – blocchi organici di disposizioni; sia giungere, infine, all’analisi critica di una singola disposizione. Uno spettro d’azione così ampio implica di necessità un altrettale potere “consultivo”: per cui le Commissioni potranno esprimere pareri che riguardino l’intelaiatura normativa generale, ovvero – all’opposto – che focalizzino questioni meno strutturali.
Inerisce naturalmente a uno spatium consulendi così largo l’eventualità che le Commissioni non si limitino a esporre il proprio avviso sull’articolato in esame, ma che invece propongano – sopra tutto ove si tratti di interventi su disposizioni singole (cfr. il 3° periodo cit.) – anche modalità concrete di superamento delle criticità rilevate. In altre parole, ritengo che il potere di proposta emendativa sia interno alla loro sfera d’azione.
Altra conferma, sia pure indiretta, ci viene dal parere ex art. 8, d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, che la Conferenza unificata – in base all’art. 1, comma 4, 1° periodo, l. n. 78/’22 cit. – ha reso in senso favorevole «nei termini di cui in premessa e di cui agli allegati documenti, che costituiscono parte integrante del presente atto».
A loro volta, questi allegati sono tre:
- la «Posizione sullo schema di decreto legislativo recante “Codice dei contratti pubblici”» del 26 gennaio 2023, n. 23/06/CU06/C4, espressa dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome: il documento si suddivide, al suo interno, in emendamenti prioritari, da una parte, ed emendamenti meramente collaborativi, dall’altra parte; come vedremo, l’emendamento n. 3 prende espressamente in considerazione il nostro art. 38, comma 11, e propone di sopprimerne alcune parti fondamentali;
- il «Parere sullo schema di decreto legislativo recante “Codice dei contratti pubblici”», reso da ANCI sempre il 26 gennaio scorso, che però non si occupa del nostro tema;
- il coevo «Contributo UPI», che – come ANCI – non affronta la questione.
In sintesi, recependo la citata Posizione della Conferenza delle Regioni, la Conferenza unificata ha formulato proposte emendative puntualissime: e ciò, si noti, pur in assenza di una norma della l. n. 78/’22 che – a differenza di quanto previsto dall’art. 1, comma 4, 3° periodo, cit., per le Commissioni parlamentari – quel potere conferisca.
Mi pare inutile soffermarmi, a questo punto, sulla contrarietà al senso del diritto positivo e comunque sulla illogicità di un’interpretazione restrittiva che negasse alle Commissioni parlamentari il potere di formulare pareri corredati da specifiche proposte emendative.
Possiamo quindi passare all’esame della norma oggetto delle mie riflessioni.
2. L’art. 38 SCC – rubricato «Localizzazione e approvazione del progetto delle opere» – nel suo comma 11 stabilisce: ««Nella procedura di cui al presente articolo, le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante o dall’ente concedente e comunque coinvolte ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 3, della legge n. 241 del 1990, in qualsiasi caso di dissenso o non completo assenso, non possono limitarsi a esprimere contrarietà alla realizzazione delle opere o degli impianti, ma devono, in ogni caso, a pena di decadenza, indicare le prescrizioni e le misure mitigatrici che rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso. Tali prescrizioni sono determinate conformemente ai principi di proporzionalità, efficacia e sostenibilità finanziaria dell’intervento risultante dal progetto originariamente presentato. Le disposizioni di cui al primo e secondo periodo si applicano, senza deroghe, a tutte le amministrazioni comunque partecipanti alla conferenza, incluse quelle titolari delle competenze in materia urbanistica, paesaggistica, archeologica e del patrimonio culturale.».
La disposizione potrebbe essere ritenuta, ma solo se ci si ferma a un’interpretazione letterale, un altro passo della traiettoria che l’ordinamento sta percorrendo da qualche tempo verso la parificazione e l’amministrativizzazione spoliticizzante di tutti gli interessi pubblici: inclusi quelli sensibili.
Per chiarezza, conviene rifare questo cammino a ritroso.
3. Se identifichiamo come punto di partenza il 1990, e dunque la l. n. 241, l’assetto iniziale è abbastanza chiaro. Di segno opposto all’attuale, però: gli interessi pubblici sono gerarchizzati e anche in modo ben delineato. Infatti le regole acceleratorie del modulo conferenziale ex art. 14, comma 3, l. n. 241/’90 (silenzio assenso dell’amministrazione convocata ma assente, salve possibilità marginali di dissenso postumo) non si applicano «alle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini» (comma 4): chiamate cioè a tutelare – o a difendere, se si preferisce – quei tre interessi.
4. Il quadro cambia abbastanza presto.
La l. n. 127/’97 (la nota legge Bassanini-bis) sostituisce il comma 4 appena ricordato con un altro, di ispirazione diversa: non più una protezione tendenzialmente assoluta dei super-interessi, ma una conflittualizzazione e politicizzazione del tema.
In caso di motivato dissenso espresso da una Amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute dei cittadini, la p.A. procedente – purché non vi sia stata una pregressa valutazione di impatto ambientale negativa – può investire della questione il Presidente del Consiglio dei ministri, che si esprime previa deliberazione del Consiglio dei ministri.
Come si vede, gli interessi sensibili cessano di essere sottratti alla logica del bilanciamento ponderativo, nella quale sono ora fatti entrare senza riserve: l’unica particolarità, certo non secondaria, è appunto la devoluzione del contrasto al decisore politico d’apice.
5. Camminando svelti, ricordiamo adesso la l. n. 124/’15 (c.d. Madia), il cui art. 3 introduce nella l. n. 241/’90 l’art. 17-bis: si arriva così a estendere il modello del silenzio assenso ai procedimenti che coinvolgono una pluralità di Amministrazioni pubbliche, anche se si tratti di «amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini». L’unica differenza è data dal termine per la formazione del provvedimento tacito: trenta giorni per le pp.AA. che tutelano interessi “ordinari”, novanta per quelle preposte alla gestione di interessi sensibili.
Ma ciò non significa semplicemente imprimere una accelerazione ai procedimenti.
Vi è una scelta sottostante ben precisa, che presuppone e implica una modifica nella tavola dei valori protetti, cioè nella loro gerarchia. In generale, il modello del silenzio-assenso presuppone un ripensamento al ribasso del rilievo endoconferenziale attribuito ad alcune Amministrazioni e agli interessi della cui cura sono attributarie.
In altre parole, l’art. 17-bis genera una dequotazione sostanziale degli interessi sensibili. La maggior durata del termine previsto per la formazione del silenzio (novanta giorni in luogo di trenta) sta a indicare una differenza che è oramai solo quantitativa, non più qualitativa.
Resta operativo il meccanismo di conflittualizzazione e politicizzazione del mancato accordo tra le Amministrazioni coinvolte, incluse quelle preposte alla «tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini»: l’art. 17-bis prevede infatti che in questi casi «il Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, decide sulle modifiche da apportare allo schema di provvedimento».
6. Mi soffermo ora sull’ecosistema normativo del PNRR perché, come vedremo, si trova qui il modello cui s’ispira l’art. 38 SCC.
Con la normazione PNRR l’ordinamento raggiunge un traguardo inseguito a lungo: l’unicità del procedimento al cui interno si forma la decisione finale rilevante per il governo del territorio, sopra tutto con riguardo a interventi infrastrutturali (puntuali o a rete che siano). Meta non priva però di conseguenze: comprimere nel tempo e nello “spazio” giuridico l’acquisizione degli interessi (anche) pubblici comporta la riduzione – se non l’eliminazione – delle manifestazioni dissensuali.
È quello che, almeno a mio avviso, ha perseguito quella normazione, in particolare il d.l. n. 77/’21 (c.d. «Semplificazioni-bis»).
Mi limito a richiamare l’art. 44, d.l. cit.: rubricato «opere pubbliche di particolare complessità o di rilevante impatto», tratta di alcune specifiche infrastrutture ferroviarie, idriche e portuali.
Questo il comma 4, che la Relazione illustrativa allo schema di codice licenziato dalla Commissione Carbone richiama come modello ispiratore: «[…] la stazione appaltante convoca la conferenza di servizi per l’approvazione del progetto ai sensi dell’articolo 27, comma 3, del decreto legislativo n. 50 del 2016. La conferenza di servizi è svolta in forma semplificata ai sensi dell’articolo 14-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241 e nel corso di essa, ferme restando le prerogative dell’autorità competente in materia di VIA, sono acquisite e valutate le eventuali prescrizioni e direttive adottate dal Consiglio superiore dei lavori pubblici ai sensi del secondo periodo del comma 1, nonché gli esiti del dibattito pubblico e le osservazioni raccolte secondo le modalità di cui all'articolo 46 del presente decreto, della verifica preventiva dell’interesse archeologico e della valutazione di impatto ambientale. La determinazione conclusiva della conferenza approva il progetto e tiene luogo dei pareri, nulla osta e autorizzazioni necessari ai fini della localizzazione dell’opera, della conformità urbanistica e paesaggistica dell’intervento, della risoluzione delle interferenze e delle relative opere mitigatrici e compensative. La determinazione conclusiva della conferenza perfeziona, ad ogni fine urbanistico ed edilizio, l’intesa tra Stato e regione o provincia autonoma, in ordine alla localizzazione dell’opera, ha effetto di variante degli strumenti urbanistici vigenti e comprende il provvedimento di VIA e i titoli abilitativi rilasciati per la realizzazione e l’esercizio del progetto, recandone l’indicazione esplicita.».
Non sono previsti, nel testo della norma, meccanismi per sollevare conflitto e quindi per politicizzarlo.
Per cui – restando all’interno dell’ecosistema PNRR – dovrebbe trovare applicazione o l’art. 13, d.l. n. 77/’21, rubricato «Superamento del dissenso», secondo cui «In caso di dissenso, diniego, opposizione o altro atto equivalente proveniente da un organo statale che, secondo la legislazione vigente, sia idoneo a precludere, in tutto o in parte, la realizzazione di un intervento rientrante nel PNRR, la Segreteria tecnica di cui all’articolo 4, anche su impulso del Servizio centrale per il PNRR, ove un meccanismo di superamento del dissenso non sia già previsto dalle vigenti disposizioni, propone al Presidente del Consiglio dei ministri, entro i successivi cinque giorni, di sottoporre la questione all'esame del Consiglio dei ministri per le conseguenti determinazioni; ovvero – ratione materiae – il meccanismo preventivo ex art. 29, comma 2, d.l. n. 77/’21, che istituisce una Soprintendenza «speciale» (cioè unica) per il PNRR. Norma, questa, che esautora stabilmente le articolazioni ministeriali territoriali, spogliandole delle funzioni di tutela ove si tratti di beni culturali e paesaggistici che siano «interessati da interventi previsti dal PNRR sottoposti a VIA in sede statale» oppure che «rientrino nella competenza territoriale di almeno due uffici periferici del Ministero». Sempre in base all’art. 29, comma 2, cit., poi, «in caso di necessità e per assicurare la tempestiva attuazione del PNRR, la Soprintendenza speciale può esercitare, con riguardo a ulteriori interventi strategici del PNRR, i poteri di avocazione e sostituzione» nei confronti delle Soprintendenze periferiche.
7. Possiamo adesso esaminare l’art. 38, comma 11, SCC.
Preferisco, per comodità di analisi, riportarne nuovamente il testo: «Nella procedura di cui al presente articolo, le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante o dall’ente concedente e comunque coinvolte ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 3, della legge n. 241 del 1990, in qualsiasi caso di dissenso o non completo assenso, non possono limitarsi a esprimere contrarietà alla realizzazione delle opere o degli impianti, ma devono, in ogni caso, a pena di decadenza, indicare le prescrizioni e le misure mitigatrici che rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso. Tali prescrizioni sono determinate conformemente ai principi di proporzionalità, efficacia e sostenibilità finanziaria dell’intervento risultante dal progetto originariamente presentato. Le disposizioni di cui al primo e secondo periodo si applicano, senza deroghe, a tutte le amministrazioni comunque partecipanti alla conferenza, incluse quelle titolari delle competenze in materia urbanistica, paesaggistica, archeologica e del patrimonio culturale.».
Come dicevo al punto 2., se ci fermassimo alla lettera, quella disposizione ben potrebbe essere inserita nella traiettoria ordinamentale verso la “scomparsa” degli interessi sensibili, non più intesi come valori collettivi giuridicizzati in modo differenziato rispetto a tutti gli altri. La comunanza di regolazione fra le due categorie di interessi (“ordinari” e sensibili) sarebbe confermata dall’inciso «senza deroghe» che – in quanto posto all’interno di un periodo che è già deontico-performativo («si applicano a tutte le amministrazioni» – avrebbe un effetto di senso rafforzativo.
In breve, la disposizione esprimerebbe una declinazione forte del principio di unicità procedimentale, perché vi assoggetterebbe anche le Amministrazioni titolari di interessi sensibili.
Peraltro, il richiamo all’art. 44, comma 4, d.l. n. 77/’21, cit. – contenuto, come ho detto, nella Relazione illustrativa (che correttamente si autodefinisce Gesetzesmaterial) della Commissione Carbone – sembrerebbe confermare questa interpretazione.
Andiamo oltre, però, l’approccio letterale e asistematico.
A me pare – lo dico subito – che l’art. 38, comma 11, SCC, non possa essere interpretato nel senso di definire nella loro interezza i diritti procedimentali delle Amministrazioni titolari di interessi sensibili. Ove così fosse – qualora cioè queste pp.AA. vedessero esaurirsi il loro ruolo nell’espressione di un dissenso che dev’esser non solo costruttivo, ma anche tale da non comportare modifiche sproporzionate, inefficaci o tali da rendere irrealizzabile il progetto originario per insostenibile aumento dei costi – si porrebbero forse problemi di compatibilità con l’art. 9 Cost.
Privare tout court – cioè senza contrappesi e compensazioni – le Soprintendenze del potere di veto significherebbe in concreto che ogni progetto deve essere comunque approvato e realizzato; e che eventuali modifiche sarebbero ammissibili solo se non comportassero un aggravio di costi. Per fare un esempio, una Soprintendenza non solo non potrebbe opporsi a un progetto di strada che attraversasse un sito archeologico; ma non potrebbe neanche proporre una modifica del percorso viario che giri intorno a quel sito: una tale variante sarebbe molto probabilmente inammissibile poiché comporterebbe un allungamento del tracciato e dunque un aumento – magari trascurabile – della spesa.
S’impone dunque, come prima cosa, un’interpretazione estensiva dei concetti giuridici indeterminati che connotano i requisiti della proposta ammissibile: «proporzionalità» «efficacia»,«sostenibilità finanziaria» rispetto al progetto originario arrivato in conferenza di servizi.
Se si volesse comunque elidere anche la sola possibilità, il solo rischio, di un’interpretazione del concetto di sostenibilità finanziaria in termini di rigida invarianza dei costi progettuali, non c’è altra via che quella dell’emendamento. In questo caso si potrebbero aggiungere, dopo la parola «efficienza», le parole «nonché, se comportano un aumento dei costi».
In questo modo, la norma riconoscerebbe implicitamente la possibilità di un incremento dell’esborso. E l’esigenza di sostenibilità verrebbe a costituire non una tagliola per espellere automaticamente qualunque proposta che comporti un sia pur minimo aumento dei costi, ma una soglia – elastica, perché da determinare caso per caso mediante discrezionalità tecnica – che solo in caso di suo sforamento renderebbe inammissibile la variante indicata.
Tuttavia il problema, sebbene mitigato, resta.
La sottrazione del potere di veto, ancorché compensato da un potere di proposta ragionevolmente ampio (nei termini e limiti appena indicati), darebbe comunque vita a un modello che qualifica nella sua complessità e articolazione la posizione delle Amministrazioni differenziate all’interno della conferenza di cui all’art. 38.
Ci si deve domandare, insomma, se lo scrutinio di costituzionalità di cui dicevo debba essere riferito unicamente a questo schema procedimentale, oppure se la disposizione in esame esaurisca o meno la posizione (e i poteri) di tali, particolari pp.AA.
Due argomenti letterali indurrebbero a ritenere che queste pp.AA. – anche se orbate del ius vetandi assoluto (la c.d. opzione zero, che blocca irreparabilmente il progetto) – conservino comunque il potere di escalation, cioè di devolvere la loro opposizione alla delibazione dell’organo politico d’apice, il Presidente del Consiglio dei ministri.
Il primo argomento discende dal comma 1 dell’art. 38: «L’approvazione dei progetti da parte delle amministrazioni è effettuata in conformità alla legge 7 agosto 1990, n. 241 […]».
Per dare un senso alla disposizione, altrimenti ridondante, si deve ritenere che essa non contenga una inutile clausola di stile, ma rinvii a quella legge con pienezza di effetti giuridici: rimandi, ai nostri fini, all’intero sistema delle decisioni conferenziali di cui agli artt. 14 – 14-quinquies.
Ed è proprio l’art. 14-quinquies che viene qui in rilievo: «Avverso la determinazione motivata di conclusione della conferenza, entro 10 giorni dalla sua comunicazione, le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini possono proporre opposizione al Presidente del Consiglio dei ministri a condizione che abbiano espresso in modo inequivoco il proprio motivato dissenso prima della conclusione dei lavori della conferenza. Per le amministrazioni statali l’opposizione è proposta dal Ministro competente.» (comma 1).
È vero: fra le due disposizioni si pone un problema di coordinamento, che però può essere superato. L’art. 38, comma 11, impone infatti alla p.A., a pena di decadenza, di articolare un dissenso costruttivo; mentre l’art. 14-quinquies ritiene sufficiente ad attivare l’escalation l’espressione, da parte dell’Amministrazione, di un dissenso meramente oppositivo (purché motivato).
Ne deriverebbe, sempre restando intra litteram, che se la p.A. esprimesse un dissenso oppositivo all’interno della conferenza ex art. 38, comma 11, esso sarebbe inammissibile e dunque non produrrebbe gli effetti devolutivi di cui all’art. 14-quinquies.
In realtà, si può comporre la questione ritenendo che il dissenso oppositivo comporti una sorta di inammissibilità relativa: le motivazioni contenute a corredo e supporto, anche se particolarmente stringenti, non entreranno in comparazione, ma l’opposizione produrrà comunque l’effetto devolutivo dell’affare all’organo politico.
In sostanza, le pp.AA. titolari di interessi sensibili avrebbero due strade avanti a sé, percorribili alternativamente.
La prima, ex art. 38, comma 11, SCC: esprimere un dissenso costruttivo.
La seconda, ex art. 14-quinquies, l. n. 241/’90: formulare un dissenso oppositivo, da cui l’escalation politica della questione.
Quelle pp.AA. perderebbero dunque il potere di veto, ma non anche quello devolutivo.
Dicevo che vi sarebbe un secondo argomento a sostegno di questa lettura. È un po’ più formale, e non privo di ambiguità.
Secondo il comma 9 dell’art. 38 in esame «La conferenza di servizi si conclude nel termine di 60 giorni dalla sua convocazione, prorogabile, su richiesta motivata delle amministrazioni preposte alla tutela degli interessi di cui all’articolo 14-quinquies, comma 1, della citata legge n. 241 del 1990, una sola volta per non più di 10 giorni. […]».
Questo comma contiene l’espressa nominazione sia delle Amministrazioni in esame, sia dell’art. 14-quinquies cit.
Se ne possono trarre due letture, opposte tuttavia negli esiti.
La prima valorizza il (mero) richiamo dell’art. 14-quinquies per dedurne l’applicabilità in totodella disposizione: l’escalation sarebbe sempre consentita, anche sulla base di una ermeneusi più ispirata dall’art. 9 Cost.
La seconda, invece, enfatizza la possibilità di prorogare la conferenza su richiesta di quelle stesse Amministrazioni per inferirne che ciò esaurisce il loro spazio d’azione anche esoprocedimentale: nessuna devoluzione al livello politico, dunque, sarebbe prevista.
8. Più sopra, al punto 1., ho accennato al parere reso dalla Conferenza unificata il 26 gennaio 2023 e alla coeva «Posizione sullo schema di decreto legislativo recante “Codice dei contratti pubblici”», espressa dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e recepita integralmente da quel parere.
Ho pure detto che l’emendamento prioritario n. 3 della Posizione si occupa proprio dell’art. 38, comma 11, SCC, proponendo di eliderne e modificarne alcune parti di importanza primaria.
Ne risulterebbe questo testo (uso il condizionale perché il complesso degli interventi conduce a una disposizione già sintatticamente di non facile lettura): «Nella procedura di cui al presente articolo, le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante e comunque coinvolte esprimono il proprio parere ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 3, della citata legge n. 241 del 1990, in qualsiasi caso di dissenso o non completo assenso, devono indicare le prescrizioni che, ove possibile, rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso. Tali prescrizioni sono determinate conformemente ai principi di proporzionalità, efficacia e sostenibilità finanziaria dell’intervento risultante dal progetto originariamente presentato. Le disposizioni di cui ai periodi precedenti si applicano, senza deroghe, a tutte le amministrazioni comunque partecipanti alla conferenza, incluse quelle titolari delle competenze in materia urbanistica, paesaggistica, archeologica e del patrimonio culturale».
Par di comprendere, in breve, che si vorrebbe attribuire a tutte le Amministrazioni partecipanti il potere di veto: il dissenso, infatti, non deve più essere necessariamente costruttivo, come rivela l’inciso «ove possibile» riferito all’indicazione delle prescrizioni che «rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso».
È però un modello che ritengo passatista e massimalista all’un tempo. Se non m’inganno, si perderebbe infatti la gerarchizzazione degli interessi procedendo però in senso vettorialmente opposto rispetto alla traiettoria di cui dicevo all’inizio: non una compressione verso il basso degli interessi sensibili, tendenzialmente parificati agli altri; ma una “elevazione” di questi ultimi, che andrebbero a comporre – insieme ai primi – un’indistinta panoplia capace di paralizzare qualunque processo decisionale.
La citata Posizione (e dunque la Conferenza unificata), tuttavia, «chiede di proseguire il confronto sugli ulteriori temi, sempre inseriti tra quelli prioritari, (es. conferenza dei servizi […]) sui quali ancora non si è raggiunta una condivisione»; e precisa che su questi emendamenti «è tuttora in corso un'interlocuzione con il MIT su iniziativa del Ministero stesso». Con riferimento specifico all’art. 38, comma 11, poi, la Posizione precisa: «Pur comprendendo la ratio della norma, si propone di valutare l'opportunità di mantenere il comma stanti le disposizioni già vigenti della l. 241/90».
La Conferenza, in somma, non ha ancora assunto un orientamento definitivo.
9. Il lavoro interpretativo sull’art. 38, comma 11, SCC, sembra condurre ai risultati che ho sin qui indicato.
Non intendo nascondere le penumbrae esegetiche che restano.
Se si ritenesse comunque preferibile proporre l’eliminazione di questi dubbi ermeneutici, e si condividesse il modello secondo cui le pp.AA. che gestiscono interessi sensibili possono alternativamente esprimere un dissenso costruttivo oppure formulare un dissenso oppositivo che provoca l’escalation politica, le Commissioni parlamentari competenti potrebbero formulare il proprio parere nel senso di proporre un intervento sul testo attuale dell’art. 38, comma 11, SCC.
Si potrebbe, dunque, consultivamente proporre di aggiungere, dopo il terzo periodo del citato comma 11, il seguente: «Restano comunque esperibili i rimedi di cui all’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990».
10. Indico, in fine, alcune possibili modifiche del testo del comma 11 che riguardano solo il drafting.
a) Poiché il testo adopera la parola «determinazioni» con riguardo agli atti di alcune pp.AA. partecipanti («[…] le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante […]»), appare preferibile non usare nuovamente, non essendo un tecnicismo, una forma/voce della stessa famiglia lessicale con riferimento alle prescrizioni di quelle pp.AA. («sono determinate»). Si potrebbero quindi sostituire le parole «[…] sono determinate conformemente» con le parole «[…] devono essere conformi».
b) Poiché le pp.AA. partecipanti possono indicare sia «prescrizioni», sia «misure mitigatrici», l’uso della sola parola «prescrizioni» nel periodo successivo («Tali prescrizioni […]») potrebbe far ritenere che quelle pp.AA possano indicare solo prescrizioni e non anche misure mitigatrici. Si potrebbe quindi sostituire la parola «prescrizioni» con la parola «indicazioni», che fungerebbe da vero e proprio incapsulatore semantico.
11. In definitiva, le Commissioni parlamentari potrebbero sul punto esprimere il proprio parere proponendo questo testo dell’art. 38, comma 11, cit.:
«11. Nella procedura di cui al presente articolo, le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante o dall’ente concedente e comunque coinvolte ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 3, della legge n. 241 del 1990, in qualsiasi caso di dissenso o non completo assenso, non possono limitarsi a esprimere contrarietà alla realizzazione delle opere o degli impianti, ma devono, in ogni caso, a pena di inammissibilità, indicare le prescrizioni e le misure mitigatrici che rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso. Tali indicazioni devono essere conformi ai principi di proporzionalità e di efficacia nonché, se comportano un aumento dei costi, di sostenibilità finanziaria dell’intervento risultante dal progetto originariamente presentato. Le disposizioni di cui al primo e secondo periodo si applicano, senza deroghe, a tutte le amministrazioni comunque partecipanti alla conferenza, incluse quelle titolari delle competenze in materia urbanistica, paesaggistica, archeologica e del patrimonio culturale. Restano comunque esperibili i rimedi di cui all’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990».
[*] Questo scritto riprende i contenuti delle mie audizioni svoltesi il 23 gennaio 2023 innanzi all’VIII Commissione (Ambiente, territorio e lavori pubblici) della Camera, e il 1° febbraio 2023 davanti all’VIII Commissione (Ambiente, transizione ecologica, energia, lavori pubblici, comunicazioni, innovazione tecnologica) del Senato nell’ambito dei lavori parlamentari inerenti al parere da rendere sullo «Schema di decreto legislativo recante codice dei contratti pubblici» (Atto del Governo n. 19): di qui la presenza di mie proposte emendative rispetto al testo della disposizione esaminata.
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