ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario (seconda parte): 9. La notifica dell’ordine/ingiunzione e il ruolo del difensore. - 10. Il termine di pagamento e la richiesta di rateizzazione. - 11. L’accertamento del pagamento o del mancato pagamento e la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza per la conversione. - 12. L’esecuzione di pene concorrenti. - 13. Il condannato irreperibile. - 14. l’irreperibilità e la estinzione della pena pecuniaria per decorso del tempo. - 15. Entrata in vigore della riforma. - 16.L’esecuzione europea.
9. La notifica dell’ordine/ingiunzione e il ruolo del difensore
L’ordine/ingiunzione di cui all’art. 660 c.p.p. ai sensi del secondo comma va notificato al condannato e al suo difensore, espressamente nominato per la fase di esecuzione ovvero, in mancanza, il difensore della fase di cognizione.
In merito alla notifica al condannato, va osservato che - anche nel codice novellato - dalla separazione tra procedimento esecutivo e di cognizione[41] discende che l’elezione di domicilio (probabilmente anche digitale[42]) fatta in sede di cognizione non possa estendere i suoi effetti in quella successiva, anche qualora il domicilio eletto sia lo studio del difensore destinatario della notifica[43]. Ciò è confermato dal fatto che, rispetto al sistema previgente, la riforma ha ridotto l’efficacia della elezione di domicilio (art. 164 c.p.p.)[44] e, richiedendo una nuova elezione di domicilio anche per l’impugnazione a pena di inammissibilità[45], ha contratto l’ambito di efficacia della elezione iniziale, riducendola dalla intera fase di cognizione alla fase di merito di primo grado.
Qualora non abbia eletto domicilio per la fase esecutiva (come peraltro solitamente accade) ed in assenza di specifiche indicazioni, è da ritenere che la notifica dell’ordine/ingiunzione debba essere fatta ai sensi degli artt. 157 e seguenti del codice di rito, come modificato dal d.lgs. 150/22, con possibile conclusione nel decreto di irreperibilità e conseguente notifica al difensore ai sensi dell’art. 159 c.p.p., norma non modificata in modo significativo. L’unica disposizione specifica (art. 660 comma 5 c.p.p.) è mutuata dal comma 8 bis dell’art. 656 c.p.p., inserito dalla legge 19 gennaio 2001 n. 4:
«Quando è provato o appare probabile che il condannato non abbia avuto effettiva conoscenza dell'avviso di cui al comma 5, il pubblico ministero può assumere, anche presso il difensore, le opportune informazioni, all'esito delle quali può disporre la rinnovazione della notifica.»
Quello del comma quinto è un un potere/dovere del pubblico ministero che consente ed impone all’ufficio di superare nel caso concreto, sulla base di elementi fattuali emersi o informazioni successivamente assunte, le presunzioni formali di validità della normativa sulla notifica. Il suo ambito pratico di applicazione – che contempla la possibilità di assunzione di informazioni da parte del p.m. presso il difensore - in realtà si concentra soprattutto sulla possibilità di rinnovo della notifica apparentemente valida e dunque di remissione in termini per pagare, presentare istanza rateale od altro. La norma istituisce una sorta di “onere probatorio” a carico del condannato di dimostrare la “impossibilità”, temperato dalla valutazione in bonam partem del p.m. delle giustificazioni addotte, evidenziata dalla frase “o appare probabile”.
In sede esecutiva, stante l’indicazione dell’art. 655 c.p.p. comma quinto[46], il mandato difensivo reso nella fase di cognizione non è più efficace (Cass. Sez. III 28.9.2016 n. 11934, RV 270350). La giurisprudenza (Cass. 1, sent. 8.7.2020 n. 23735 RV 279443) ha escluso peraltro che ove la nomina per la fase di cognizione contenga “genericamente” un riferimento alla fase esecutiva non possa valere per tale fase (fatto salvo l’art. 656 comma 5 c.p.p.).
Il rischio che la soluzione del legislatore di coinvolgere in esecuzione un difensore nominato di ufficio non possa garantire appieno la difesa tecnica del condannato, ha quindi indotto il legislatore (analogamente a quanto disposto dalla novella l. 165 del 27 maggio 1998, nella modifica dell’art. 656 comma 5 c.p.p.), ad indicare in via derogatoria nel difensore (o nei difensori) della fase di cognizione, in mancanza di nomina per l’esecuzione, il destinatario della notifica dell’ordine/ingiunzione. Questa forma di “perpetuazione” del mandato difensivo, diversa sia dalla figura del difensore di fiducia che da quella di ufficio[47] è ideata in modo da garantire maggiormente la conoscenza del provvedimento da parte del condannato da parte del professionista che ha con lui maggiori possibilità di contatto reale, visti i brevi termini per proporre istanza di pagamento rateale ai sensi dell’art. 660 comma 3 c.p.p. (venti giorni).
L’obbligo di notificare l’ordine di esecuzione anche al difensore, a pena di nullità ex art. 655 c.p.p., non ha solo uno scopo “informativo”, di garantire la chiarezza e comprensibilità dell’ordine, ma anche e soprattutto di promuovere la funzione difensiva di controllo in contraddittorio della correttezza della azione esecutiva del p.m. ed eventualmente riportarla su un piano di legalità, attraverso il ricorso al giudice dell’esecuzione[48]. I provvedimenti del p.m. in fase esecutiva, in virtù della loro natura non giurisdizionale, sono peraltro revocabili e liberamente modificabili dall’ufficio che li ha emessi, anche a richiesta di parte. Il difensore può pertanto anche rivolgersi direttamente all’organo che ha emesso il provvedimento per ottenerne la correzione o revoca in tempi rapidi, senza attendere la fissazione dell’udienza per incidente di esecuzione. L’eventuale provvedimento di rigetto, anch’esso da notificare (perché altrimenti nullo ex art. 178 c.p.p.) può essere oggetto di incidente di esecuzione, anche promosso dallo stesso p.m. interessandone contestualmente il giudice.
Ciò può accadere ad esempio per errori nell’ordine/ingiunzione nel riportare il comando del giudice, avvenuto pagamento entro i termini non registrato correttamente dal sistema, oppure errori di persona, difetti nelle notifiche, pluralità di sentenze per lo stesso fatto (669 c.p.p.), in caso di cumulo, sui criteri di formazione del cumulo, questioni sul titolo esecutivo come l’avvenuta depenalizzazione del reato ovvero mancata traduzione dell’ordine nella lingua del condannato alloglotta.
A quest’ultimo proposito, sin dal 1995, a seguito della sentenza n.10 del 19 gennaio 1993 della Corte costituzionale, la Cassazione ha rappresentato la necessità di tradurre in lingua nota al condannato che non comprendesse la lingua italiana l’ordine di esecuzione per la carcerazione, anche se tale atto non è previsto nell’elenco di cui all’art. 143, comma 2 c.p.p. (non modificato dalla riforma Cartabia)[49]. L’obbligo di tradurre l’ordine/ingiunzione di pagamento emerge peraltro da una serie di pronunce della Suprema corte sulla necessità di disporre la traduzione dell’ordine di esecuzione[50]. Sicuramente è opportuno, per non rischiare di incorrere in nullità dell’ordine, tradurre gli avvisi quando dagli atti emerga che il condannato non conosce la lingua italiana, in modo da renderlo edotto dei termini e delle modalità del pagamento e delle conseguenze dell’inadempimento.
10. Il termine di pagamento e la richiesta di rateizzazione
Il terzo comma dell’art. 660 c.p.p. fissa il contenuto dell’intimazione di pagamento, che deve avvenire entro il termine di novanta giorni dalla notifica. L’intimazione di pagamento è accompagnata dall’avviso che, in mancanza di pagamento, la pena pecuniaria sarà convertita nella semilibertà sostitutiva (cfr. art. 102 l. n. 689/1981) o, in caso di accertata insolvibilità, nel lavoro di pubblica utilità sostitutivo o nella detenzione domiciliare sostitutiva (cfr. art. 103 l. n. 689/1981).
Dalla Relazione illustrativa si evince che il legislatore ha ritenuto congruo prevedere un termine di novanta giorni dalla notifica “per consentire al condannato di recuperare la disponibilità della somma di denaro necessaria per il pagamento della pena”.
L’ordine di esecuzione contiene inoltre l’avviso al condannato che, quando non è già stato disposto nella sentenza o nel decreto di condanna, entro venti giorni (da intendersi dalla notifica), può depositare presso la segreteria del pubblico ministero istanza di pagamento rateale della pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 133 ter del codice penale. Si tratta di una previsione ricalcata sulla istanza di misure alternative, e si ritiene che – come tale istanza - anche questa possa essere inviata a mezzo posta (e naturalmente PEC, come da nuove disposizioni sul deposito degli atti)[51]: la scelta di depositare presso il p.m. anziché presso l’ufficio di sorveglianza (cui è destinata) l’istanza di rateazione nasce dall’esigenza di interrompere il termine per il pagamento integrale e dunque di impedire che venga immediatamente chiesta la conversione. L’istanza, come quella di misure alternative, se presentata direttamente al magistrato di sorveglianza non è da considerare tuttavia inammissibile[52].
L’istanza, che ha per presupposto – giusto il richiamo all’art. 133 ter cp- le disagiate condizioni economiche del condannato, anche in relazione alla entità della pena inflitta, deve essere documentata, a pena di inammissibilità (art. 233 t.u. spese di giustizia). Il termine di venti giorni è da ritenere decorra dall’ultima notificazione tra quelle previste, tuttavia una istanza di rateizzazione inammissibile presentata dal difensore potrebbe impedire una nuova presentazione nei termini decorrenti dalla notifica al condannato.
Se è presentata istanza di pagamento rateale, il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente, che procede ai sensi dell’articolo 667, comma 4, senza udienza partecipata.
È da ritenere che magistrato di sorveglianza, una volta accolta l’istanza, debba trasmettere il decreto di rateizzazione al p.m. per gli accertamenti sul pagamento delle rate. E’ da chiedersi se il legislatore implicitamente abbia previsto che tale decreto contenga, analogamente all’ordine di esecuzione di pena rateizzata dal giudice della cognizione, l’indicazione del numero delle rate, dell’importo e delle scadenze di ciascuna per il pagamento ovvero (ma in tal caso – come osservato dalla Relazione del Massimario - lo avrebbe espressamente previsto) la rateizzazione sia da comunicare al p.m. per emissione di nuovo ordine.
Quando invece la pena pecuniaria è stata già rateizzata dal giudice dell’esecuzione, al comma 4 si prevede che “con l’ordine di esecuzione il pubblico ministero ingiunge al condannato di pagare la prima rata entro trenta giorni dalla notifica del provvedimento, avvertendolo che in caso di mancato tempestivo pagamento della prima rata è prevista l’automatica decadenza dal beneficio e il pagamento della restante parte della pena in un’unica soluzione, da effettuarsi, a pena di conversione ai sensi del terzo comma precedente, entro i sessanta giorni successivi”. Per il pagamento della prima rata, come emerge dalla relazione, il legislatore ha ritenuto congruo prevedere un termine più breve rispetto a quello ordinario di novanta giorni; si osserva che il mancato pagamento della prima rata non determina l’immediata conversione della pena pecuniaria, potendo il condannato – decaduto dal beneficio del pagamento rateale – pagare in un’unica soluzione la multa o l’ammenda entro i successivi sessanta giorni e, pertanto, entro l’ordinario termine di novanta giorni.
11. L’accertamento del pagamento o del mancato pagamento e la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza per la conversione
Il sesto comma dell’art. 660 c.p.p. disciplina l’ipotesi in cui, entro il termine stabilito, la multa o l’ammenda vengano pagate. Organo competente a verificare l’avvenuto pagamento e a dichiarare l’avvenuta esecuzione della pena è il pubblico ministero: “se, entro il termine indicato nell’ordine di esecuzione, il pubblico ministero accerta l’avvenuto pagamento della multa o dell’ammenda, da parte del condannato, dichiara l’avvenuta esecuzione della pena. In caso di pagamento rateale, il pubblico ministero accerta l’avvenuto pagamento delle rate e, dopo l’ultima, dichiara l’avvenuta esecuzione della pena”.
Come lo accerta? Anche in questo caso è necessario uno sforzo organizzativo e un investimento informatico, che consenta di mettere in diretta comunicazione l’ufficio “cassa” della Agenzia delle entrate con gli uffici di procura. Uno dei motivi per i quali il previgente sistema di esecuzione delle pene pecuniarie non ha dato i suoi frutti, è il mancato coordinamento e i difetti di comunicazione tra l’ufficio del p.m. , l’ufficio di cancelleria (unico che aveva accesso al registro SIAMM su cui interviene l’Agenzia della riscossione). Non vi era una banca dati aperta che consentisse al p.m. di verificare se il pagamento fosse o meno avvenuto, né a che punto fosse la procedura di riscossione. Ora, l’armonizzazione delle banche dati o altre agevolazioni informatiche in questo senso sono adempimenti di assoluta necessità, né è ragionevole investire la segreteria del p.m. di controlli telefonici, ovvero prevedere che possa attendere o dover sollecitare la comunicazione formale del pagamento, posto che il codice impone (anche se la norma ha lo scopo di scandire i tempi e non ha sanzioni processuali) che “entro il termine indicato nell’ordine di esecuzione”, il p.m. accerti l’avvenuto pagamento.
Il settimo comma, disciplina l’ipotesi in cui l’ordine/ingiunzione non sia andato a buon fine. “Quando accerta il mancato pagamento della pena pecuniaria, ovvero di una rata della stessa, entro il termine indicato nell’ordine di esecuzione, il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente per la conversione ai sensi degli articoli 102 e 103 della legge 24 novembre 1981, n. 689 ovvero, quando si tratta di pena pecuniaria sostitutiva, ai sensi dell’articolo 71 della medesima legge”. In ogni caso, se il pagamento della pena pecuniaria è stato disposto in rate mensili, è convertita la parte non ancora pagata. Il magistrato competente è quello relativo alla residenza del condannato o al suo luogo di detenzione.
Infine, l’undicesimo comma disciplina il caso in cui vi sia condanna ai sensi dell’art. 534 c.p.p. del “civilmente obbligato per la pena pecuniaria”, a pagare se il condannato risultasse insolvibile. In caso di rilevata insolvibilità del condannato, il magistrato di sorveglianza ne dà comunicazione al p.m. , il quale “ordina” al civilmente obbligato di provvedere al pagamento della pena entro un termine e poi – laddove il pagamento entro il termine non avvenga – di nuovo lo comunica al magistrato di sorveglianza per la conversione. Anche per questo passaggio, come si è già osservato, vi è la complicazione rappresentata dal possibile cambiamento dell’ufficio del p.m.
Nella verifica dell’inadempimento, il p.m., a quanto parrebbe, dovrebbe (data la novità, il condizionale è d’obbligo) essere esentato da ogni valutazione sui motivi, in particolare sulla reale insolvibilità, controllo rimesso invece al magistrato di sorveglianza. Ciò si desume dalla lettera della norma (“quando accerta il mancato pagamento”) nonché dall’intero sistema, che tende a limitare e ridurre i controlli sulla situazione patrimoniale del condannato, affidandoli al magistrato di sorveglianza (“previo accertamento della condizione di insolvenza ovvero di insolvibilità del condannato”) che peraltro ha a disposizione i medesimi mezzi della procura, potendo avvalersi della polizia giudiziaria (art. 660 comma 9 c.p.p.). Non così conclude la Relazione del Massimario[53], richiamandosi alle sentenze Nikolic e Duri: “Al pubblico ministero spetta l’accertamento della impossibilità di esazione, ossia di una obiettiva situazione, attribuibile a qualsiasi ragione, transitoria o definitiva, che costituisce impedimento al regolare recupero della pena pecuniaria.”, tuttavia le due sentenze citate – di cui si è detto – trovano la loro collocazione in un sistema normativo completamente diverso, e comunque riguardano il tema specifico della irreperibilità, in cui è evidente che prima di trasmettere gli atti ogni ricerca del condannato debba essere fatta con cura[54].
La medesima procedura è prevista per la esecuzione delle pene pecuniarie comminate dal giudice di pace: la materia è oggetto di disciplina specifica (d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274) modificata dal d.lgs. 150/22 nel senso di prevedere specificamente, all’art. 72, comma 1, lett. b) del d. lgs. n. 150 del 2022, l’ estensione della disciplina in materia di esecuzione delle pene pecuniarie prevista dal nuovo art. 660 c.p.p. anche ai procedimenti di competenza del giudice di pace.
12. L’esecuzione di pene concorrenti
Quanto osservato per l’esecuzione singola, deve riportarsi anche per l’esecuzione concorsuale, che si ha in presenza di più titoli da eseguire. Il codice di rito, all’art. 663, impone al requirente, qualora siano passate in giudicato più sentenze di condanna in capo al medesimo soggetto, di determinare — mediante decreto — la pena finale da eseguirsi e rinvia, quanto alle regole per il computo, agli artt. 71 ss. c.p.
Il decreto di esecuzione di pene concorrenti, come ogni atto del pubblico ministero, dev’essere notificato al difensore a pena di nullità, ed in caso di una pluralità di pene pecuniarie (anche aggiunte a pena detentiva) nella parte finale dovrebbe riportare per intero il contenuto della ordinanza/ ingiunzione.
Il cumulo non è solo un provvedimento tecnicamente complesso, ma anche “composto”, poiché comprende in sé, oltre alla determinazione della pena finale e all’elenco delle sentenze suscettibili di esecuzione — che ne costituiscono elementi essenziali — anche richieste al giudice dell’esecuzione di revoca dei benefici correlate al complesso delle condanne irrevocabili subite dal soggetto. Le domande rivolte al giudice dell’esecuzione possono essere anche contenute in atti diversi dal decreto di esecuzione di pene concorrenti: tuttavia, poiché il presupposto in fatto della revoca dei benefici richiede il passaggio in giudicato di sentenze di condanna, solitamente nella richiesta è contenuto il richiamo al cumulo o l’elencazione delle condanne che ne fanno parte.
Il magistrato del pubblico ministero è chiamato a redigere il decreto di cumulo ogni qualvolta lo “sviluppo esecutivo” lo richieda, vale a dire — come testualmente recitava l’abrogato art. 582 comma 1 c.p.p. del 1930 — ogni qualvolta l’operazione si renda necessaria per l’avvenuta irrevocabilità di altre sentenze nei confronti della stessa persona. Il motivo è duplice: da un lato, l’interesse del condannato a conoscere con esattezza e completezza la propria situazione esecutiva e, dall’altro, l’interesse dell’ordinamento all’instaurazione di un ordinato rapporto esecutivo unitario. Ciò vale naturalmente anche per il passaggio in giudicato di sentenze che irrogano la sola pena pecuniaria.
In questi casi, il succedersi dei provvedimenti di cumulo può determinare il mutamento della “competenza” del pubblico ministero: l’art. 663 c.p.p., indica infatti come legittimato all’emissione del cumulo, l’ufficio di procura presso il giudice che ha emesso la sentenza divenuta definitiva per ultima, cosicché può determinarsi per ogni nuovo titolo una diversa competenza territoriale. La giurisprudenza ha precisato che la regola della competenza è valida anche per le sentenze ineseguibili, come quelle già espiate in custodia cautelare o interamente condonate, quindi è da ritenere anche per le sentenze con pena pecuniaria pagata.
Richiedono parimenti l’emissione di nuovo cumulo — pur non incidendo sulla competenza — le ordinanze del giudice dell’esecuzione che riconoscono la continuazione in sede esecutiva ex art. 671 c.p.p. o che si pronunciano sulla revoca di benefici, o revocano sentenze per abolizione del reato (art. 673 c.p.p.) o che riconoscono la non eseguibilità per remissione in termini (art. 175 c.p.p.) o qualsiasi altro motivo che determini il venir meno del titolo esecutivo (art. 670 c.p.p.). Anche alcuni provvedimenti del tribunale di sorveglianza che incidono sulla conversione della libertà controllata o della pena pecuniaria di cui agli artt. 47 e seguenti della legge sull’ordinamento penitenziario.
Alla emissione del primo decreto di cumulo nei confronti di un condannato, e comunque ogni qualvolta ne divenga necessaria nuova emissione per i motivi di cui si è detto, la segreteria del pubblico ministero è tenuta a svolgere tutte le attività istruttorie già descritte per il titolo esecutivo singolo. Naturalmente l’attività si presenta più complessa, poiché la corretta redazione del cumulo presuppone una precisa conoscenza anche delle situazioni esecutive precedenti: si devono pertanto raccogliere gli stati di esecuzione, i precedenti cumuli, e se possibile le sentenze che ne fanno parte.
La giurisprudenza ha fornito specifiche indicazioni in merito alla individuazione delle “pene concorrenti” da inserire nel cumulo: lo sono certamente tutte le pene non espiate in tutto o in parte al momento del passaggio in giudicato dell’ultima sentenza di condanna, anche a pena pecuniaria o di assoluzione con applicazione di misura di sicurezza[55].
Gli articoli 73, 75 e l’art. 78 del codice penale definiscono i principi per il calcolo della pena principale in caso di condanna unica per più reati e in virtù del richiamo dell’art. 80 c.p. e dell’art. 663 c.p.p. sono utilizzate per il calcolo della pena per più condanne. Questi precetti definiscono il sistema così detto del “cumulo materiale”, perché si risolvono in una somma aritmetica delle pene concorrenti del medesimo genere (cioè per multa ed ammenda secondo la “moneta corrente”). All’art. 75 c.p. si precisa che eventuali pagamenti di pene pecuniarie in un cumulo vanno detratti prima dalle condanne alla multa e poi da quelle alla ammenda.
È solo il caso di accennare come il principio di unicità della pena in esito al cumulo non esista in tutti gli ordinamenti europei, ma sia un istituto tipico del nostro ordinamento. Nella maggior parte degli altri ordinamenti le pene restano separate così come le condanne e si eseguono l’una dietro l’altra.
Sin dal 1930, il legislatore aveva inteso mitigare la risposta sanzionatoria in caso di pene concorrenti, stabilendo, all’art. 78 c.p., alcune regole per il temperamento delle pene principali. Il limite fissato dall’art. 78 c.p. per le pene principali è del quintuplo della più grave tra le pene concorrenti, e comunque di 15.493,00 euro per la multa (64.557 euro se la multa è applicata con i criteri di cui all’art. 133-bis c.p., commisurata alle condizioni economiche del reo), 3.098 euro per l’ammenda e 12.911 euro, nel caso dell’art. 133-bis c.p.
Le limitazioni di cui all’art. 78 c.p., almeno per le pene pecuniarie, trovino applicazione esclusivamente per i reati previsti nel codice penale e nelle leggi entrate in vigore prima della l. n. 689 del 1981, il cui art. 101 ha novellato la disposizione. La normativa complementare successiva contempla limiti edittali superiori a quelli dell’art. 78 c.p. per le pene pecuniarie, ma in virtù della prevalenza della legge speciale, si applica la disciplina derogatoria, giusto disposto dell’art. 15 c.p.[56] Parimenti, il criterio moderatore non vale per le pene pecuniarie proporzionali, ad esempio quelle finanziarie, come espressamente previsto dall’art. 27 c.p.
13. Il condannato irreperibile
Che cosa accade in caso di irreperibilità del destinatario dell’ordine/ingiunzione? [57]
Come è noto, per l’ordine di esecuzione con sospensione per pena detentiva, la declaratoria di irreperibilità conduce, scaduti i termini per la notifica, alla emissione di un ordine di esecuzione diffuso sulle piattaforme SDI, cosicché appena trovato il condannato è condotto in detenzione e è suo onere dimostrare la mancata conoscenza incolpevole del provvedimento di cui all’art. 656 comma 5 c.p.p., ovvero impugnare l’ordine davanti al giudice dell’esecuzione per nullità del decreto di irreperibilità.
In relazione alla pena pecuniaria, nel sistema precedente la riforma, ai sensi dell’art. 235 t.u. spese di giustizia in caso di esecuzione della sola pena pecuniaria la notifica ex art. 143 c.p.c. della ingiunzione di pagamento era ostativa alla iscrizione a ruolo. In caso in cui la condanna comprendesse anche la pena detentiva la cancelleria rimetteva gli atti al p.m. per la notifica ex art. 159 c.p.p., e, solo nel caso il condannato ritornasse reperibile, il credito veniva nuovamente iscritto a ruolo. Tale disposizione, “congelando” di fatto la procedura, impedisce che possa procedersi a conversione nel caso di irreperibilità, in conformità agli arresti giurisprudenziali.
Già dal 1996, infatti, la Suprema Corte, nella sentenza a Sezioni Unite Nikolic[58] aveva escluso che si potesse procedere a conversione delle pene pecuniarie in caso di irreperibilità, proprio perché tale stato non consentiva al magistrato di sorveglianza di raccogliere elementi per l’accertamento della insolvenza o insolvibilità del condannato.
Certamente anche nella disciplina riformata i principi indicati dalla Suprema Corte sui poteri di conversione in mancanza di reperibilità possano essere di guida all’interprete nella ricostruzione della procedura da seguire.
Resta dubbio se, in caso di irreperibilità del destinatario della notifica dell’ordine di esecuzione/ingiunzione ex art. 660 commi 1 e 2 c.p.p. ai sensi dell’art. 159 c.p.p. [59], irreperibilità accertata in seguito a indagini scrupolose, il p.m. sia tenuto comunque a trasmettere gli atti al magistrato di sorveglianza per la conversione.
Ritenendo che il p.m. non possa entrare in alcun modo nella valutazione della possibilità di conversione, e comunque ricalcando lo schema dell’art. 656 comma 5 c.p.p., si potrebbe ipotizzare che, a seguito di irreperibilità ed emesso il relativo decreto, il p.m. perfezioni la fase notificando l’atto al difensore. Poi, scaduti i termini e verificato il mancato pagamento (che potrebbe avvenire anche da parte di terzi), trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza per la conversione. Si ritiene che il magistrato di sorveglianza, dovrebbe essere tenuto a svolgere le ricerche e solo in caso di conferma della irreperibilità del condannato con conseguente impossibilità di verifica delle sue condizioni economiche, possa restituire gli atti al p.m.
Mentre in passato, sulla scorta della sentenza Nikolic, in considerazione della attribuzione della competenza alla riscossione delle pene pecuniarie in capo alla cancelleria del giudice della esecuzione si escludeva che il p.m. potesse (e dovesse) procedere a nuove ricerche del condannato (non potendo ritenersi il p.m. un organo “servente” alla cancelleria)[60], con l’attuale attribuzione al p.m. della competenza esecutiva è invece ipotizzabile che una volta restituiti gli atti dal magistrato di sorveglianza l’ufficio requirente (presso il giudice dell’esecuzione, come si è detto) dovrebbe riprendere le ricerche, o comunque rinnovare quelle già a suo tempo inserite in SDI.
Ma, evidenziando la diversità di funzione tra la notifica del decreto di sospensione ex art. 656 comma 5 c.p.p., solo di tipo sospensivo/informativo e quella dell’ordine ex art. 660 c.p.p. di vera e propria ingiunzione al pagamento diretta al condannato entro un termine, potrebbe anche ritenersi che la notifica che fa decorrere il termine di novanta giorni sia solo quella effettivamente ricevuta dal condannato, e dunque in caso di irreperibilità, fatta salva la notifica al difensore del relativo decreto, il p.m. non possa avviare il procedimento di conversione e debba limitarsi a andare avanti nelle ricerche. Questo avrebbe il pregio di evitare un inutile passaggio al magistrato di sorveglianza che peraltro ha i medesimi poteri investigativi del p.m. nell’accertare la reperibilità a la condizione economica del condannato e che dovrebbe comunque restituire gli atti.
Ma fino a quando può essere cercato il condannato? Il tema è quello della estinzione della pena per decorso del tempo.
14. L’irreperibilità e la estinzione della pena pecuniaria per decorso del tempo
Ai sensi degli artt. 172 e 173 c.p., la pena (anche pecuniaria) si estingue decorso un termine dal passaggio in giudicato della sentenza ovvero dalla scadenza di un termine o dal verificarsi di una condizione cui è subordinata l’esecuzione della pena. La multa si “prescrive” nel termine di dieci anni, ovvero, se congiunta a pena detentiva, nel tempo corrispondente all’estinzione di quest’ultima -pari al doppio della pena concretamente inflitta - con un minimo di dieci anni e un massimo di trenta. Per le pene da delitto l’effetto prescrittivo viene espressamente escluso dall’art. 172, comma settimo, c.p. per i recidivi, per i delinquenti professionali, abituali o per tendenza e per coloro che, durante il tempo previsto per l’estinzione della pena, riportano una condanna alla reclusione per un delitto della stessa indole.
L’ammenda invece, così come l’arresto, si prescrive nel termine di cinque anni. Per i recidivi, per i delinquenti professionali, abituali o per tendenza il termine è raddoppiato. Non vi sono motivi impeditivi all’esito prescrittivo.
Le circostanze che escludono la prescrizione sono veri e propri fatti impeditivi, né l’istituto soggiace alle regole della sospensione e della interruzione proprie della estinzione dei reati[61].
La norma trova il suo fondamento - come la prescrizione (ed infatti la giurisprudenza la definisce “prescrizione della pena”) - sul venir meno dell’interesse pubblico alla punizione una volta decorso un certo lasso di tempo dalla condanna. La dottrina ha parlato di un “rapporto di proporzione inversa esistente tra il decorso del tempo e la potestà punitiva dello Stato, che si concretizza nell’irrogazione delle sanzioni penali”[62]. Ulteriore principio a fondamento dell’istituto, l’interesse del condannato a non restare a tempo indeterminato in attesa di una attività esecutiva.
L’inizio della esecuzione, cioè il momento in cui lo Stato esercita la sua potestà punitiva, “blocca” il decorso della prescrizione, che comunque ricomincia a decorrere al momento della volontaria sottrazione alla esecuzione già iniziata (art. 172 comma 5 c.p.). Da tale norma si evince che l’inizio della esecuzione non costituisca un fatto impeditivo in senso tecnico, legato alla condotta del condannato o alla sua qualità personale di recidivo (o dichiarato delinquente professionale ecc…) ma un vero e proprio termine finale, che infatti al momento della recuperata libertà ricomincia a decorrere per intero.
Il dies a quo dal quale computare il decorso del termine prescrizionale è il passaggio in giudicato della sentenza, ma solo laddove possa fungere da “titolo esecutivo”, cioè sia “teoricamente” eseguibile[63], mentre l’inizio della esecuzione è da individuare al momento della carcerazione (o, per l’affidamento in prova ai servizi sociali al momento della sottoscrizione del verbale di affidamento)[64]”. Una ricostruzione completa del sistema della prescrizione delle pene in questo senso è stata di recente operata dalla sentenza a Sezioni Unite Scott Uhuwamango n. 46387 del 15/07/2021, Rv. 282225, che ha escluso che la decorrenza parta dalla “concreta” eseguibilità del titolo, ovvero al momento in cui la pena possa avere esecuzione per conclusione di ogni elemento condizionante o sospensivo, ad esempio la sospensione ex art. 656 comma 5 c.p.p., ancorandola invece ad una data certa, come quella del passaggio in giudicato per sentenza di condanna a pena determinata.
Analogamente, ricostruisce il termine finale di decorrenza (“l’inizio della esecuzione”) per la pena carceraria disancorandolo da ogni attività degli organi deputati alla esecuzione e fissandolo solo nell’inizio della sottoposizione a misura[65].
Nel sistema previgente, la Suprema Corte si era trovata a dare indicazioni per individuare il momento dell’”inizio della esecuzione” (fermo restando il dies a quo) particolarmente problematico, per i diversi passaggi che compongono il procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie.
Certamente l’esecuzione doveva ritenersi iniziata al momento della conversione della pena disposta dal magistrato di sorveglianza. La terza Sezione della Corte nella sentenza n. 11464 del 19/01/2001 Rv. 21875, Nicolosi, nell’indicare questo principio di diritto, in motivazione fa riferimento specifico a tutti i passaggi a partire dalla notifica dell’estratto esecutivo al condannato con l’intimazione al pagamento/atto di precetto, che considera primo atto della esecuzione, ai sensi dell’allora vigente art. 181 disp. att. c.p.p.[66].
Anche “l'effettuazione del pagamento parziale ne impedisce l'estinzione, indipendentemente dalla circostanza che ad esso seguano altri pagamenti fino al completo adempimento del debito, ovvero che sia stata successivamente notificata una cartella esattoriale per la somma residua” (Sez. 3, Sentenza n. 17228 del 03/11/2016 Ghidini, Rv. 269981). Questa sentenza consente di confermare anche per la pena pecuniaria l’idea secondo cui l’inizio della esecuzione non operi come “fatto impeditivo” in senso stretto, ma come termine finale che “chiude” ogni possibilità di prescrizione[67].
Né è da ritenere “sospeso” il termine durante il periodo di carcerazione del condannato[68]. Così Sez. 1, Sentenza n. 8166 del 16/01/2018 Esposito Rv. 272418 “Il termine di prescrizione della pena pecuniaria individuato dall'art. 172, comma terzo, cod. pen. è determinato "per relationem", in funzione di quello applicabile alla pena detentiva congiuntamente inflitta, e non è influenzato da vicende successive, quali quelle concernenti l'esecuzione della predetta sanzione detentiva o la sua stessa estinzione. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato l'ordinanza del giudice dell'esecuzione che aveva ritenuto sospeso il termine di prescrizione della pena pecuniaria durante l'espiazione di quella detentiva)”.
Infine, la giurisprudenza più recente, fondandosi sugli artt. 212 e 227 ter t.u. spese di giustizia, (Sez. 1, Sentenza n. 22312 del 08/07/2020 Vitobello Rv. 279453) ha ritenuto che fatto impeditivo del decorso della prescrizione fosse unicamente “l’inizio dell'esecuzione”, da individuare nel momento in cui “il debito erariale viene iscritto a ruolo, oppure, secondo una tesi alternativa, quando venga notificata la cartella esattoriale”. In quel momento lo Stato manifesta infatti la sua pretesa punitiva, fermando per sempre il decorso della prescrizione.
La procedura per i condannati irreperibili non trovava comunque alcun ostacolo al decorso dei termini per l’estinzione della pena. Ai sensi dell’art. 235 t.u. spese di giustizia, infatti, in caso di irreperibilità del destinatario della notifica dell’invito al pagamento la iscrizione a ruolo non avveniva, e dunque non si aveva mai un “inizio della esecuzione”.
Nel sistema disegnato dalla riforma, non vi è il passaggio della iscrizione a ruolo, dunque secondo quali modalità opera la estinzione della pena per decorso del tempo?
Il legislatore ci dà una risposta nel comma 10 del novellato art. 660 c.p.p., che tratta della richiesta del condannato di differimento al magistrato di sorveglianza. La norma precisa: “ai fini della estinzione della pena pecuniaria per decorso del tempo, non si tiene conto del periodo durante il quale la conversione è differita”. Da questo inciso si desume che, prima della ordinanza di conversione, anche durante il periodo in cui il magistrato di sorveglianza svolge i suoi accertamenti, non vi è alcuna attività di avvio della esecuzione. Non solo, ma si desume anche che unico atto sospensivo sia il differimento su richiesta ad opera del magistrato di sorveglianza.
Per questo, rispondendo alla domanda posta alla fine del precedente paragrafo, si può ragionevolmente ritenere che la ricerca dell’irreperibile per la notifica dell’ordine/ingiunzione e poi per la conversione della pena pecuniaria trovi la sua conclusione temporale nella estinzione per “prescrizione”. Laddove quindi la trasmissione degli atti per la conversione si sia interrotta per irreperibilità del condannato (e dunque impossibilità di accertamento[69]), con la restituzione degli atti al p.m. da parte del magistrato di sorveglianza, le eventuali rinnovate ricerche o il mantenimento delle previgenti potrebbero andare avanti solo fino alla estinzione della pena (salvo che per altri impedimenti, quale ad esempio la “recidiva ostativa” che escludono in toto l’effetto estintivo).
Viceversa, nel caso in cui l’ordine/ingiunzione sia notificato, la pena non pagata si prescrive se nel termine estintivo di legge non venga emessa l’ordinanza di conversione. Tale atto, invece, impedisce per sempre il decorso della prescrizione.
Nel caso invece che il condannato inizi a pagare, è da ritenere, sulla scorta di quanto indicato dalla Corte di Cassazione nella citata sentenza della terza Sezione del 2016 Ghidini, che l’esecuzione abbia avuto inizio e dunque - indipendentemente se si proceda o meno a conversione per il residuo – la prescrizione non possa più realizzarsi.
15. Entrata in vigore della riforma
Ai sensi dell’art. 97 d.lgs. 150/2022 (disposizioni transitorie in materia di esecuzione e conversione delle pene pecuniarie) è disposto che” 1. Salvo che risultino più favorevoli al condannato, le disposizioni in materia di conversione delle pene pecuniarie, previste dall'articolo 71 e dal Capo V della legge 24 novembre 1981, n. 689, come modificate dal presente decreto, si applicano ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore. 2. Fermo quanto previsto dal comma 1, ai reati commessi prima della data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi le disposizioni in materia di conversione ed esecuzione delle pene pecuniarie previste dal Capo V della legge 24 novembre 1981, n. 689, dall'articolo 660 del codice di procedura penale e da ogni altra disposizione di legge, vigenti prima della data di entrata in vigore del presente decreto. 3. Le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, abrogate o modificate dal presente decreto, nonché' le disposizioni di cui all'articolo 1, comma 367, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, continuano ad applicarsi in relazione alle pene pecuniarie irrogate per reati commessi prima della sua entrata in vigore”.
Anche in mancanza di norma transitoria, era comunque da ritenere che le disposizioni – in quanto direttamente incidenti sul trattamento sanzionatorio – benché inserite nel codice di rito, fossero “sostanzialmente” di natura penale[70]e dunque non applicabili ai procedimenti per reati commessi in vigenza del regime precedente. L’irretroattività consegue peraltro al fatto che, in generale, il nuovo regime prevede per il condannato insolvente un trattamento peggiore di quello ante riforma. La Relazione del Massimario[71] osserva infatti che la disciplina, per il complessivo irrigidimento dei presupposti della conversione sarebbe da ritenersi “peggiorativa” e dunque irretroattiva. Lascia un limitato spazio alla possibile retroattività in concreto alla disciplina di favore dettata in tema di rateizzazione a seguito della intimazione di pagamento della pena pecuniaria, “atteso l’ampliamento delle possibilità di richiesta dell’agevolazione e la intervenuta dilatazione dei tempi di pagamento e del numero delle rate mensili in cui questo può essere suddiviso ex art. 133-ter cod. pen”.
La conclusione è tendenzialmente da condividersi: d’altra parte anche per l’insolvente “incolpevole” di cui all’art. 103 del t.u. spese di giustizia richiamato dall’art. 660 c.p.p., l’esito della conversione è l’applicazione della detenzione domiciliare o del lavoro di pubblica utilità sostitutivo, entrambe le misure maggiormente gravose che la libertà controllata applicata nella vigenza del regime precedente.
Peraltro, la possibile natura più favorevole della nuova disciplina rispetto alla precedente in materia di misura della conversione derivante dalle diverse norme e pronunce che nel tempo hanno modificato, fino alla sentenza 1/2012 della Corte costituzionale, i termini di ragguaglio, verrebbe ad incidere solo sulla misura della pena convertita e non sulla procedura di esecuzione/conversione[72].
In concreto, la nuova procedura esecutiva dovrebbe dunque entrare in vigore per i fascicoli di esecuzione relativi a fatti commessi dopo il 30 dicembre 2022. Ciò non significa però che le procedure organizzative e gli strumenti da parte del Ministero non debbano essere assunti con tempestività: infatti i procedimenti con arresto in flagranza per reati, come la rapina o inerenti gli stupefacenti, in cui è prevista una pena pecuniaria, potrebbero divenire irrevocabili e dunque esecutivi in pochi mesi, con obbligo per le procure di procedere a notificare l’ordine di esecuzione/ingiunzione comprensivo di modalità di pagamento prevista dalla norma, verifica della inadempienza, trasmissione per la conversione, tutte attività estremamente difficoltose senza gli adeguati strumenti, tra cui modulistica, banche dati, sistema di produzione automatica del modello di pagamento ed altri previsti dal nuovo articolato.
16. L’esecuzione europea
Naturalmente il procedimento, come nel sistema previgente, vale anche per le pene pecuniarie oggetto di sentenza straniera riconosciuta in cui lo Stato italiano sia interessato per la esecuzione. Con il d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 37, il legislatore nazionale ha dato attuazione alla decisione quadro 2005/214/GAI, con la quale gli Stati membri dell'Unione Europea hanno fissato - disciplinandone l'operatività - il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni applicative di sanzioni pecuniarie, quale ulteriore strumento di cooperazione giudiziaria nell'Unione tanto in materia civile quanto in materia penale "al fine di facilitare l'esecuzione di dette sanzioni in uno Stato membro diverso dallo Stato in cui sono state comminate" quando il condannato ha residenza ovvero beni in altro Stato membro[73]. La competenza è del procuratore generale presso la Corte di appello competente del luogo dove il condannato risiede o ha i beni. Questo ufficio, quando riceve da un altro Stato membro dell'Unione europea, ai fini dell'esecuzione in Italia, una decisione sulle sanzioni pecuniarie, corredata dal certificato (modello da riempire), deve fare richiesta di riconoscimento “senza ritardo” alla Corte competente.
Il riconoscimento della decisione straniera - poggiando sul reciproco affidamento fra gli ordinamenti dei Paesi membri - non è subordinato alla condizione che l'ordinamento processuale straniero e quello italiano siano del tutto simili o assimilabili e che la decisione cui sarà data esecuzione in Italia sia stata resa all'esito di un giudizio disciplinato da regole procedurali sovrapponibili a quelle dello Stato membro di esecuzione. Proprio per prevenire possibili ostacoli di natura processuale derivanti dalle disomogeneità nella previsione delle autorità competenti ad applicare le diverse pene pecuniarie, il legislatore comunitario ha, inoltre, espressamente previsto che possano essere riconosciute le decisioni applicative di sanzioni pecuniarie rese tanto dall'autorità giudiziaria, quanto dall'autorità amministrativa (art. 2 d.lgs. n. 37 del 2016). E’ prevista invece in via generale come limite al riconoscimento la “doppia incriminazione” ad eccezione delle ipotesi elencate all’art. 10, tra cui le sanzioni conseguenti a violazioni del codice della strada.
La possibilità di conversione della pene pecuniaria in pena diversa è subordinata al consenso dell’autorità richiedente espressa nel certificato, pertanto, se non sia stato espresso, nel nuovo sistema in cui non vi è spazio per l’esecuzione forzata civile, ciò potrebbe essere di ostacolo alla esecuzione.
[41] Più volte si è ritenuta la nullità in fase esecutiva della notificazione al domicilio eletto nella fase di cognizione (Sez. 3, n. 22778 del 11/04/2018, Scicolone, Rv. 273154; Sez. 1, n. 43551 del 10/10/2013, Ciranna, Rv. 257173; Sez. 3, n. 14930 del 11/02/2009, Amato, Rv. 243385). Non a caso, il condannato non detenuto ha l'obbligo di fare la dichiarazione o l'elezione di domicilio con la domanda con la quale chiede una misura alternativa alla detenzione (art. 677, comma 2-bis, cod. proc. pen.).
[42] Art. 161 c.p.p. comma 1. Il giudice, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, nel primo atto compiuto con l'intervento della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato non detenuto né internato lo invitano, a dichiarare uno dei luoghi indicati nell'articolo 157, comma 1, o un indirizzo di posta elettronica certificata ovvero a eleggere domicilio per le notificazioni dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450 comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna.
[43] Cfr. in relazione all'art. 656 comma 5 c.p.p., Cass., Sez. IV, 27 settembre 2002 n. 35979 RV 222577 ed altre.
1. La determinazione del domicilio dichiarato o eletto è valida per ogni stato e grado del procedimento, salvo quanto è previsto dagli articoli 156 e 613 comma 2 per le notificazioni dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale, salvo quanto previsto dall’articolo 156, comma 1
[44] Art. 164. Durata del domicilio dichiarato o eletto 1. La determinazione del domicilio dichiarato o eletto è valida per ogni stato e grado del procedimento, salvo quanto è previsto dagli articoli 156 e 613 comma 2 per le notificazioni dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale, salvo quanto previsto dall’articolo 156, comma 1.
[45] 3.1.1 Per la proposizione dell’impugnazione è ora innanzitutto previsto che con l’atto di impugnazione delle parti private e dei difensori debba sempre essere depositata anche la dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio ([4]). La sanzione è quella dell’inammissibilità dell’atto di impugnazione [581.1-ter]. L’indicazione pare inequivoca nel senso di un deposito contemporaneo dei due documenti (l’atto di impugnazione e la dichiarazione o elezione di domicilio), con la conseguenza che, in ogni caso, solo se il secondo documento sarà depositato entro la scadenza del termine per impugnare l’appello sarà ammissibile (prescindendo da ogni altra questione sulla sua autonoma ammissibilità formale).
La presenza di tale indicazione formale del proprio domicilio da parte dell’imputato dovrà pertanto essere oggetto di specifica verifica già nello spoglio preliminare dei fascicoli pervenuti.
Si è scelto di evitare alcun automatismo, con una imposta elezione di domicilio presso il difensore che assiste l’imputato, perché foriero di potenziali problematiche sull’effettiva conoscenza della citazione per quanto attiene all’evoluzione possibile del rapporto e contatto tra difensore (pur diligente) ed assistito, dopo la proposizione dell’impugnazione. La dichiarazione o elezione di domicilio (che appunto va depositata anche quando l’atto sia materialmente redatto e depositato dal difensore) deve, per logica sistematica, essere successiva alla deliberazione della sentenza impugnata: essa infatti è appunto finalizzata a consentire la efficace e tempestiva citazione per quel giudizio di appello che proprio dall’imputato e nel suo interesse viene espressamente richiesto. Nelle indagini preliminari e nel giudizio di primo grado è fisiologico che sia lo Stato a dover cercare la persona nei cui confronti si procede e informarlo dei passaggi essenziali del procedimento e, in particolare, della fase processuale. Ma quando appellante è solo la parte privata, che è pertanto il soggetto processuale che attiva il secondo grado di giudizio che impedisce l’immediata irrevocabilità della prima decisione, era e rimarrebbe francamente poco comprensibile che l’ “attore” si possa poi sottrarre al tempestivo rintraccio per atti che sono indispensabili per giungere a quel giudizio rivisitante che proprio lui ha chiesto.
La dichiarazione o elezione di domicilio (ovviamente quest’ultima anche presso il difensore che assiste l’imputato al momento del deposito dell’atto di appello) deve quindi essere depositata sia che l’imputato abbia presenziato al giudizio sia in caso di sua assenza dichiarata dal primo giudice ([5]).
3.1.2. Per i soli imputati dichiarati assenti, invece, per proporre l’atto di impugnazione il difensore deve essere munito di specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza, da intendersi anche solo la pubblicazione del dispositivo. Tale mandato deve contenere anche la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio [581.1-ter] ([6]).
[46] I provvedimenti del pubblico ministero dei quali è prescritta nel presente titolo la notificazione al difensore, sono notificati, a pena di nullità [177-186], entro trenta giorni dalla loro emissione, al difensore nominato dall'interessato o, in mancanza, a quello designato dal pubblico ministero a norma dell'articolo 97, senza che ciò determini la sospensione o il ritardo dell'esecuzione.
[47] Cfr. Cass. Sez. I, 21 febbraio 2017, n. 39894, Seck, non massimata.
[48] Legge 16 febbraio 1987, n. 81. Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale. Art. 2 direttiva 96).
[49] Cass., Sez. VI, 8 marzo 1995 n. 843, RV n. 201441;Cass., Sez. I, 19 aprile 2000 n. 3043, RV n. 216095;Cass., Sez. I, 6 maggio 2010, n. 20275, RV., n. 247212; Cass., Sez. III, ordinanza 15 novembre 2002 n. 1715 RV., n. 223278; Nella sentenza della seconda Sezione Ciausu (Cass., Sez. 2, 14 marzo 2002 n. 18136 RV., n. 221857, accompagnata da Relazione dell’ufficio del Massimario in cui si rileva la parziale discordanza di questa pronuncia da quelle precedenti. Relazione numero 20021059R Data 16/09/2002
[50] Nella sentenza Ogyanov del 2018, la Suprema Corte, pur ribadendo la nullità dell’ordine di esecuzione non tradotto in lingua conosciuta dal condannato, ha precisato «Va incidentalmente rilevato che diverso esito s'imporrebbe nell'ipotesi viceversa regolata dall'art. 656, comma 5, cod. proc. pen.; qui, a fronte di pena residua espianda contenuta entro i limiti stabiliti, l'ordine di esecuzione (assieme al decreto di sospensione che in tal caso vi accede) si atteggia ad autonomo presupposto di specifici diritti e facoltà in capo al condannato, da esercitarsi prima della materiale carcerazione (mediante la presentazione, dalla libertà, delle istanze di misura alternativa), in grado di essere irrimediabilmente pregiudicati dai vizi dell'ordine stesso, anche ad esso immanenti; vizi che dunque si ripercuoterebbero sulla regolarità dell'espiazione che fosse ciò nonostante intrapresa.»
[51] La possibilità che sia trasmessa anche con mezzo postale è contemplata da Cass. Sez. I, 24 aprile 2013 n. 18441, RV. 255852 e il termine è quello della ricezione.
[52] Cass., Sez. I, 17 marzo 2005, n. 12329, RV n.231440
[53] p.221.
[54] V. infra, par. 9, in cui si sostiene che il controllo sulla reperibilità sia da svolgere comunque da parte del p.m. successivamente alla restituzione degli atti da parte del magistrato di sorveglianza per irreperibilità.
[55] Cfr., da ultimo, Sez. 1 - , Sentenza n. 13985 del 25/02/2020 Cc. (dep. 07/05/2020 ) Rv. 278939
[56] In questo senso, sulle sanzioni del d.lgs. n. 277 del 1991 sulla sicurezza del lavoro, vedi Cass., Sez. III, 27 giugno 1995, n. 9775, RV, n. 202951. Le pronunce sono relative alla pena pecuniaria: cfr. da ultimo, Cass., Sez. III, 6 dicembre 2012, n. 2302, RV. 254140; Cass., Sez. III, 12 marzo 1998, n. 5590, RV. 210939.
[57] Secondo la giurisprudenza sul 656 comma 8 bis c.p.p., la disposizione non si applica agli irreperibili. Cfr. Cass., Sez. I, 30 novembre 2017 n. 1779, in C.E.D. Cass., n. 272054.
[58] Sez. U, n. 35 del 25/10/1995, dep. 1996, Nikolic, Rv. 203295, in motivazione, fa riferimento alla insolvibilità come condizione oggettiva di impossibilità di esazione della pena pecuniaria (nella specie, nei confronti di condannato irreperibile), che legittima la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza. Sul medesimo tema, Sez. 1, n. 2668 del 02/05/1995 P.M. min. in proc. Duri, Rv. 201480, ha affermato che In tema di conversione di pene pecuniarie per insolvibilità del condannato, atteso che l'accertamento della insolvibilità compete, ai sensi dell'art. 660, comma secondo, c.p.p., al magistrato di sorveglianza, questi, anche quando la impossibilità di esazione che ha dato luogo alla trasmissione degli atti da parte del pubblico ministero sia dovuta a irreperibilità del condannato, non può per ciò solo restituire gli atti medesimi al summenzionato ufficio, ma deve invece disporre comunque le opportune indagini in ordine alla solvibilità del soggetto ed al connesso punto della reperibilità di costui. Ancora, deve essere ricordato come la Corte costituzionale con ordinanza 107 dicembre 1997 n. 416 abbia dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 660 c.p.p. sollevata nella parte in cui non consente la conversione delle pene pecuniarie non recuperate per insolvibilità del condannato ove quest'ultimo risulti irreperibile.
[59]L’ art. 159 c.p.p., non è stato modificato dalla riforma in modo sostanziale.
[60] In motivazione: “Neppure condivisibile appare, però, la soluzione adottata dall'altro indirizzo giurisprudenziale, perché pone a carico del P.M. l'onere di accertare l'effettiva insolvibilità del condannato, in contrasto con Il regolamentazione che sembra discendere dal combinato disposto degli art. 660 comma 2 c.p.p., 181 e 182 delle disp.att.al c.p.p..
Benvero, da un armonico coordinamento delle richiamate norme, appare evidente che il compito del P.M. nella procedura in argomento è limitato, soltanto, ad un controllo formale dell'attività svolta dalla cancelleria del giudice dell'esecuzione cui fa carico, istituzionalmente. ai sensi dell'art. 181 disp. att. c.p.p., l'attivazione della procedura volta al "recupero delle pene pecuniarie" per accertare "la impossibilità di esazione della pena pecuniaria, o di una rata di essa".
Il P.M., cioè, ha il compito , una volta che quella cancelleria gli ha trasmessi gli atti riguardanti la procedura di recupero risoltasi con esito negativo, di accertare se le ragioni di tale esito siano tali da dar luogo ad una effettiva "impossibilità" di esazione della pena pecuniaria, ovvero se risultino, in qualche modo, superabili: in questa seconda ipotesi, il P.M. dovrà restituire gli atti alla predetta cancelleria perché riprenda la procedura di riscossione, mentre nella prima ipotesi, dovrà rivolgersi come espressamente previsto dall'art. 660, co. 2 C.P.P. al magistrato di sorveglianza, perché, questi, provveda alla conversione, previo accertamento dell'effettiva insolvibilità del condannato.
Appare, quindi, chiaro che la legge affida al giudice dell'esecuzione e, per esso, alla cancelleria del suo ufficio il compito di accertare la permanenza dell'insolvenza e l'insorgenza delle ragioni che rendano possibile l'ulteriore accertamento dell'effettiva insolvibilità, mentre, al P.M. è devoluto il controllo di cui innanzi ed al magistrato di sorveglianza è demandata l'attività di accertamento per il passaggio dalla situazione fisiologica di insolvibilità per impossibilità ad insolvenza effettiva e concreta.
Alla stregua di tali constatazioni, è da riconoscersi che si impone una terza soluzione interpretativa - rispetto alle due precedentemente ricordate -, per la quale, riscontrata dal magistrato di sorveglianza, nell'ambito del procedimento volto ad accertare la sussistenza, o meno, dello stato di insolvenza, l'irreperibilità del condannato e, quindi, la impossibilità di dichiarare il predetto stato di insolvenza, gli atti dovranno essere restituiti al P.M. (non potendosi dar luogo al provvedimento di conversione), ed il P.M., a sua volta, dovrà restituirli alla cancelleria del giudice dell'esecuzione, perché provveda a rinnovare periodicamente la procedura dell'esecuzione, essendo detto ufficio come già in precedenza rilevato quello istituzionalmente preposto alla riscossione delle pene pecuniarie”.
[61] All’istituto della prescrizione della pena delineato dagli artt. 172 e 173 cod. pen., al quale, a differenza di quanto previsto per la prescrizione del reato, non sono applicabili gli istituti della sospensione e dell'interruzione (cfr. Sez. U, n. 2 del 30/10/2014, dep. 2015, Maiorella, Rv. 261399), né quello della rinuncia da parte del condannato.
[62] R. GARGIULO-M. VESSICHELLI, Art. 172, in Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, a cura di E. Lupo e G. Lattanzi, Giuffrè, Milano, 2010, V, pp. 480 ss.. Una completa ricostruzione dell’istituto si ha nella relazione svolta al corso organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura dal 19 al 21 settembre 2016, intitolato “La pena: calcolo, determinazione, giustificazione, prescrizione” da A.CENTONZE Il decorso del tempo e i suoi effetti sull’esecuzione della pena: aspetti problematici in tema di prescrizione della pena e pubblicata in Diritto Penale Contemporaneo.
[63] Non vi è eseguibilità concreta, ad esempio, nel caso di sentenza che statuisce sulla responsabilità rinviando per la determinazione della pena. (Sez. U, n. 4460 del 19/01/1994, Cellerini, Rv. 196889). V. Anche Sez. U, n. 4904 del 26/03/1997, Attinà, Rv. 207640, «l'irrevocabilità può non coincidere con la definitività del decisum quando [...] si sia formato un giudicato (parziale) sulla responsabilità dell'imputato e non è ancora intervenuta la determinazione della pena e quindi la sentenza non è ancora utilizzabile come titolo esecutivo». A distinguere il momento in cui la sentenza assume autorità di cosa giudicata dal momento in cui diviene titolo esecutivo, Sez. U, n. 3423 del 29/10/2020, dep. 2021, Gialluisi, Rv. 28026.
[64] Sez. 1 , Sentenza n. 57890 del 26/06/2018 Zonta, Rv. 274660
[65] Osserva la Relazione del Massimario alla sentenza Uhuwamango che “la soluzione accolta da Sez. U, Uhuwamangho, trova giustificazione anche nei principi costituzionali e convenzionali di ragionevole durata del processo, di sollecita definizione e di minor sacrificio esigibile per il condannato e di finalità rieducativa della pena, evincibili dagli artt. 111, secondo comma, 27, terzo comma, Cost.; 5 e 6 CEDU, evitando che il condannato sopporti l’incertezza di una decorrenza soggetta alle variabili contingenze processuali, sulle quali non può in alcun modo incidere, e che l’esecuzione avvenga a grande distanza di tempo dalla data di commissione del reato e dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna. Invero, l’interpretazione che intende applicare l’art. 172, quinto comma, nel caso di sospensione dell’esecuzione ex art. 665, comma 5, cod. proc. pen., entrerebbe in tensione anche con il principio costituzionale di uguaglianza secondo due prospettive. In primo luogo, con riferimento ai condannati nella medesima posizione, rispetto ai quali l’inizio dell'esecuzione della sentenza di condanna o della misura alternativa alla detenzione potrebbe realizzarsi in momenti differenti, in conseguenza di circostanze del tutto indipendenti dalla loro volontà, quale il tempo necessario per la notifica del decreto del pubblico ministero di carcerazione e contestuale sospensione dell'esecuzione, ovvero quello di decisione sull'istanza di misure alternative alla detenzione da parte del tribunale di sorveglianza”.
[66] Così la motivazione: “Ma - come ricorda opportunamente il pubblico ministero requirente - la conversione della pena pecuniaria per insolvibilità del condannato, se non configura un atto interruttivo della prescrizione, costituisce però un atto vero e proprio di esecuzione della pena (per l'ordinanza impugnata è solo un equipollente dell'esecuzione). Infatti: a) ai sensi dell'art. 181 disp. att. cod. proc. pen., collocato entro il capo 15^, contenente le disposizioni relative alla esecuzione, l'esecuzione delle pene pecuniarie inizia con la notifica al condannato dell'estratto della sentenza in forma esecutiva, unitamente all'atto di precetto, contenente l'intimazione di pagare entro dieci giorni: sicché tutti gli atti successivi e conseguenti rientrano nella procedura di esecuzione della pena; b) ai sensi del successivo art. 182 disp. att. cod. proc. pen., se la procedura esecutiva ha esito negativo, la cancelleria del giudice dell'esecuzione rimette gli atti al pubblico ministero, il quale a norma dell'art. 660 c.p.p. trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente, che a sua volta, se accerta l'insolvenza del condannato, dispone la conversione della pena pecuniaria nella pena detentiva, salvo che non ritenga di rateizzare la pena pecuniaria oppure di differire brevemente la conversione, per verificare la persistenza dell'insolvenza; c) anche da un punto di vista dommatico, la conversione della pena pecuniaria, si configura come un provvedimento giudiziario che concretizza il rapporto punitivo stabilito nella condanna, modificandone soltanto la modalità esecutiva: e in tal modo rivela i caratteri propri della esecuzione penale; d) se poi si considera la ratio che ispira l'istituto della prescrizione penale, appare evidente che la conversione della pena pecuniaria, lungi dall'indicare una rinunzia all'esercizio della potestà punitiva, configura al contrario proprio la concreta volontà dello Stato di dare esecuzione alla pena; e) anche la competenza attribuita al magistrato di sorveglianza (art.660 c.p.p) denota la natura esecutiva della conversione; f) l'inciso dommaticamente improprio, contenuto nell'ultimo periodo del terzo comma art. 660 c.p.p., secondo cui "ai fini della estinzione della pena per decorso del tempo, non si tiene conto del periodo durante il quale l'esecuzione (della conversione) è stata differita" per verificare la persistenza dell'insolvibilità del condannato, sotto il profilo sistematico non può qualificarsi come "sospensione" della prescrizione; ma si spiega piuttosto come una irrilevanza di quel segmento temporale derivante dal fatto che lo Stato ha già esercitato in concreto la sua potestà punitiva, limitandosi solo a differire nel tempo la conversione della pena pecuniaria in quella detentiva”.
[67] In senso contrario, LEPERA M. Il condannato che "smette di pagare" la pena pecuniaria dell'ammenda: un caso di sottrazione volontaria alla esecuzione della pena rilevante ai fini dell'individuazione del "dies a quo" per il decorso del termine di prescrizione della pena. Cass. Pen., 2017, fasc. 9 p. 3240, nota a Sez. 3, Sentenza n. 17228 del 03/11/2016.
[68] Così Sez. 1, Sentenza n. 8166 del 16/01/2018 Esposito Rv. 272418 “Il termine di prescrizione della pena pecuniaria individuato dall'art. 172, comma terzo, cod. pen. è determinato "per relationem", in funzione di quello applicabile alla pena detentiva congiuntamente inflitta, e non è influenzato da vicende successive, quali quelle concernenti l'esecuzione della predetta sanzione detentiva o la sua stessa estinzione. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato l'ordinanza del giudice dell'esecuzione che aveva ritenuto sospeso il termine di prescrizione della pena pecuniaria durante l'espiazione di quella detentiva)”.
[69] Sez. U, n. 35 del 25/10/1995, dep. 1996, Nikolic, Rv. 203295.
[70] Sulla natura sostanziale delle pene convertite, vedi Sez. U, Sentenza n. 12872 del 19/01/2017, Punzo, Rv. 269125: “ Merita in primo luogo piena condivisione la tesi della natura di vera e propria pena autonoma delle sanzioni sostitutive, piuttosto che di semplice modalità esecutiva della pena sostituita, sostenuta già in tempi risalenti dalle Sezioni Unite sul rilievo del carattere afflittivo delle prime, della loro convertibilità - in caso di revoca - nella pena sostituita residua, dello stretto collegamento con la fattispecie penale cui conseguono, con la rilevante conseguenza, nel caso allora esaminato, del riconoscimento della natura sostanziale delle disposizioni che le contemplano, soggette, in caso di successione di leggi nel tempo, alla disciplina di cui all'art. 2, terzo comma, cod. pen., che prescrive l'applicazione della norma più favorevole per l'imputato (Sez. U, n. 11397 del 25/10/1995, Siciliano, Rv. 202870). Tesi ribadita, contestualmente, da Sez. 1, n. 12732 del 27/10/1995, Abbatelli, Rv. 203349, e, successivamente, da Sez. 1, n. 43589 del 13/10/2004, Massiah, Rv. 229818, che hanno sottolineato come le disposizioni in tema di "sostituzione" delle pene detentive brevi, dettate dagli artt. 53 e segg. della legge 24 novembre 1981 n. 689, costituiscano un sistema sanzionatorio "parallelo" a quello "ordinario" connotandosi quindi inequivocabilmente come norme penali sostanziali governate dal principio generale della lex mitior.”
[71]P. 232: “Il secondo comma prevede, inoltre, espressamente, che ai reati commessi prima dell’entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi le disposizioni in materia di conversione ed esecuzione delle pene pecuniarie previste dal Capo V della l. n. 689 del 1981, dall’art. 660 cod. proc. pen. e da ogni altra disposizione di legge, vigenti prima dell’entrata in vigore del presente 444 La legge n. 134 del 2021, all’art. 1, comma 17, ha delegato il Governo a riformare la disciplina delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, contenuta negli articoli 53 e seguenti della legge n. 689 del 1981, con la finalità di anticipare l’applicazione delle sanzioni sostitutive già in fase di cognizione, sgravando così la magistratura di sorveglianza. Le nuove pene sostitutive – semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria – secondo la norma di delega dovranno essere infatti direttamente irrogabili dal giudice della cognizione, entro il limite di 4 anni di pena inflitta. 445 La base di calcolo della durata delle pene limitative della libertà personale, applicate in caso di conversione della pena pecuniaria, dipende anche e proprio dall’ammontare della pena pecuniaria, sulla base dei criteri di cui all’art. 133-bis cod. pen. Di qui, anche per eventuali esigenze di proporzione, che dalla pena pecuniaria possono estendersi a pene da conversione più afflittive, la necessità di una attenta commisurazione e individualizzazione del trattamento sanzionatorio, sorretta da adeguata motivazione (spesso nella prassi ridotta a clausole di stile) e corroborata dall’acquisizione di elementi di prova. Ne consegue una tendenziale irretroattività della nuova disciplina, che prevede un irrigidimento complessivo dei presupposti per l’esecuzione e la conversione della pena pecuniaria nei casi di insolvenza. 232 Ne consegue una tendenziale irretroattività della nuova disciplina, che prevede un irrigidimento complessivo dei presupposti per l’esecuzione e la conversione della pena pecuniaria nei casi di insolvenza. Un limitato ambito di applicabilità retroattiva potrebbe avere in concreto la disciplina di favore dettata in tema di rateizzazione a seguito della intimazione di pagamento della pena pecuniaria, atteso l’ampliamento delle possibilità di richiesta dell’agevolazione e la intervenuta dilatazione dei tempi di pagamento e del numero delle rate mensili in cui questo può essere suddiviso ex art. 133-ter cod. pen.”.
[72]V. A. BOGA, Libertà controllata: la pronuncia di incostituzionalità comporta, anche per le pene pecuniarie già convertite ma non ancora estinte, l’applicazione del nuovo criterio di conversione, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 6. Nota a Tribunale di Sorveglianza di Milano, 16 aprile 2018. La pronuncia si sofferma sulla natura retroattiva delle norme più favorevoli relative al ragguaglio.
[73] Art. 9 (Condizioni per il riconoscimento):
1. La Corte di appello riconosce la decisione sulle sanzioni pecuniarie quando ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:
a) la persona condannata dispone nel territorio dello Stato di beni o di un reddito, ovvero risiede e dimora abitualmente, ovvero ha la propria sede legale;
b) il fatto per cui è stata emessa la decisione è previsto come reato anche dalla legge nazionale, indipendentemente dagli elementi costitutivi o dalla denominazione, salvo quanto previsto dall'articolo 10.
Sommario (prima parte): 1. La necessità di una riforma della esecuzione della pena pecuniaria. - 2. Brevissimi cenni sul sistema precedente. - 3. L’art. 660 c.p.p. del codice Vassalli e le vicende della procedura esecutiva. - 4. Funzione del pubblico ministero nel procedimento di esecuzione. - 5. Il procedimento disegnato dalla riforma Cartabia. - 6. Il p.m. e il ruolo di avvio del procedimento. Problemi in tema di legittimazione attiva. - 7. La procedura: Gli adempimenti preliminari alla emissione dell’ordine di esecuzione/ingiunzione. - 8. Il contenuto dell’ordine di esecuzione/ingiunzione.
1. La necessità di una riforma della esecuzione della pena pecuniaria
Con l’art. 1 comma 16 della legge delega (l. 134/21 “per l'efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”) il legislatore delegante richiedeva di “restituire effettività” al sistema delle pene pecuniarie attraverso 1) la razionalizzazione/semplificazione della procedura di esecuzione delle pene pecuniarie 2) la revisione del procedimento di conversione e 3) la previsione di procedure efficaci sul piano amministrativo.
Questo perché, fino ad allora, come evidenziato nei dati della Relazione illustrativa al decreto legislativo 150/2022, la procedura esecutiva aveva dimostrato una tale inefficienza ed ineffettività da far venir meno, di fatto, lo scopo afflittivo delle pene pecuniarie, spingendo alcuni interpreti a propugnare un consistente ridimensionamento del ricorso a tale tipo di sanzione[1]. Ciò per una serie di motivi, che la Relazione illustrativa – richiamando il monito proveniente da più parti, tra cui la Corte costituzionale e la Corte dei conti - riporta in modo analitico.
Il sistema è stato definito dalla Corte costituzionale nella sentenza 279/19 (e poi ribadito nella sentenza 15/20) “farraginoso e complesso”[2]: a fondamento di tale impietosa definizione - come evidenziato dalla Relazione al decreto legislativo - il fallimento della visione tradizionale che costruisce l’esecuzione della pena pecuniaria come un credito da recuperare, al pari delle spese di giustizia, seguendo la procedura di esazione prevista per le imposte non pagate e i crediti erariali[3]. Sin dal codice Zanardelli, l’esecuzione della pena pecuniaria era inserita infatti – al pari delle spese di giustizia – in un sistema di recupero crediti di natura civile e amministrativa complesso e dispendioso che, attraverso passaggi ed intervento di soggetti diversi con enorme dispendio di energie, ha sempre prodotto risultati estremamente limitati anche in relazione agli investimenti fatti[4].
La riforma, modificando l’art. 660 c.p.p., rovesciando la visione tradizionale, ha l’obiettivo di semplificare ed accelerare la procedura, anche allo scopo di rendere la pena pecuniaria una alternativa “credibile” alla pena detentiva[5] e, per quanto possibile, ridurne la naturale iniquità[6]. Se questo sarà possibile, dipenderà dalle energie messe in campo: certamente la persona priva di mezzi avrà poca scelta tra il pagare e dover sottostare ad una sanzione, e la mancanza di dimora potrebbe ostare alla applicazione della “detenzione domiciliare sostitutiva”, ma se lo Stato investe nel lavoro sostitutivo è possibile che la sanzione consegua realmente effetti risocializzanti.
2. Brevissimi cenni sul sistema precedente
Come ricostruito con attenzione nella Relazione al d.lgs. 150/2022, lo scopo della procedura esecutiva era il recupero delle somme comminate a titolo di sanzione, indipendentemente se il motivo del mancato pagamento derivasse dalle condizioni economiche del condannato o da semplice inadempimento. Solo in caso di impossibilità si procedeva a conversione: il nucleo concettuale del sistema si poggiava infatti sulla distinzione tra il condannato (definitivamente) ” insolvibile”, cioè del tutto incapiente, e il condannato “insolvente”, cioè volontariamente non adempiente, che in caso di documentate difficoltà temporanee poteva ottenere una ratizzazione o dilazione.
Il principio, commutato dal codice sardo del 1859 (artt. 67 e 68) si ritrova in altri ordinamenti di cultura giuridica francese, tra cui il code de procédure pénale che anche attualmente (art. 707) prevede l’esecuzione dei beni per mancato pagamento delle sanzioni.
Il binomio insolvibilità/insolvenza era già presente nel codice Zanardelli del 1889 che, per il primo, prevedeva il potere del pubblico ministero o del pretore di procedere con decreto a conversione della pena pecuniaria in privazione della libertà personale o lavoro sostitutivo (art. 19), per il secondo, disponeva di proseguire l’escussione, ad opera degli organi amministrativi, con il duplice scopo di “fare cassa” e di evitare, per quanto possibile, la detenzione. Era prevista anche la possibilità di ottenere una rateizzazione in favore di chi dimostrasse la propria solvibilità "con certificati di catasto o di ipoteche" ovvero presentasse un fideiussore, onde evitare la conversione[7].
Il codice Rocco – previlegiando il recupero della pena comminata - si limitava ad inasprire le conseguenze della insolvibilità, disponendo all’art. 136 c.p. la conversione della pena pecuniaria in pena detentiva quando fossero accertati non solo l’inadempimento ma anche la definitiva incapienza del condannato e, "se ne è il caso", la incapienza del civilmente obbligato per l'ammenda, affidando l’onere della conversione sempre al pubblico ministero o al pretore (art. 586 c.p.p.), sulla base di accertamenti del cancelliere e dell’ufficiale giudiziario sulla presenza di beni nel patrimonio del destinatario (art. 40 disp. att. c.p.p. approvate con r.d. 28 maggio 1931, n. 602)[8].
Il sistema dei codici Zanardelli e Rocco attribuiva al p.m. una funzione di verifica attiva della situazione economica del condannato e della capacità di far fronte ai suoi debiti, funzione pienamente decisoria. All’attività dell’organo dell’esecuzione (p.m. o pretore) viene riconosciuta piena natura giurisdizionale anche dalla Corte costituzionale, che nella sentenza 108/87 ( e già prima nella sentenza 53/68) ha osservato come spetti a tale organo l’accertamento del presupposto della conversione, la “insolvibilità”, accertamento che non si può basare su una mera accettazione acritica delle conclusioni degli organi amministrativi incaricati della materiale esazione[9]. In precedenza, la Corte costituzionale, intervenendo sulla legittimità costituzionale dell’art. 136 c.p., laddove consentiva di procedere a conversione sulla base della sola dichiarazione di fallimento del condannato, aveva già evidenziato come il p.m. avesse il compito di verificare in concreto l’insolvibilità attendendo la chiusura della procedura fallimentare[10].
Dopo l’attribuzione del potere di conversione alla magistratura di sorveglianza, l’art. 102 della legge 689/81, ha ridisegnato la procedura (e le pene applicabili in caso di conversione) , non toccando però l’ambito del sistema esecutivo “primario”, volto al recupero del credito: a seguito della fase propedeutica “amministrativa” finalizzata alla constatazione oggettiva dell'inadempimento, affidata alla cancelleria del giudice e all’agente della riscossione, il p.m. o il pretore trasmetteva copia del provvedimento al magistrato di sorveglianza del luogo di residenza del condannato, il quale non operava alcuna verifica dei presupposti della conversione, ma curava esclusivamente l’esecuzione della misura, disponendo l'applicazione della libertà controllata o, su richiesta del condannato, la ammissione al lavoro sostitutivo e determinandone le relative modalità di svolgimento.
3. L’art. 660 c.p.p. del codice Vassalli e le vicende della procedura esecutiva
L’art. 660 del codice Vassalli, al primo comma, semplicemente rimanda le modalità esecutive della pena pecuniaria ai “modi stabiliti da leggi e regolamenti”. La disciplina della procedura era contenuta negli artt. 181 e 182 disp. att. c.p.p. nonché negli articoli 102 e seguenti della legge 698/81. Il sistema vedeva una prima fase, “amministrativa”, affidata alla cancelleria del giudice della esecuzione e al concessionario per la riscossione, volta alla intimazione al pagamento al condannato e al recupero forzato del dovuto attraverso il pignoramento dei beni, cui ne seguiva un’altra, eventuale, avente natura “giurisdizionale”[11], al cui centro poneva il magistrato di sorveglianza, che, su iniziativa del p.m.[12], provvedeva alla conversione, questa volta previa verifica della effettiva “insolvibilità”, stabilendo con il medesimo provvedimento le modalità di esecuzione. Lo strumento esecutivo primario, in caso di mancato pagamento, era ancora l’escussione con i mezzi consentiti dal codice civile, mentre la conversione agiva esclusivamente come “alternativa punitiva” in caso di impossibilità.
Nella fase “amministrativa”, il soggetto chiamato alla esecuzione era la cancelleria del giudice della esecuzione, o “campione penale”: entro trenta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza o del decreto penale di condanna la cancelleria notificava al condannato l'estratto della sentenza in forma esecutiva o il decreto unitamente all'atto di precetto contenente l'intimazione di pagare entro dieci giorni dalla notificazione o, se si tratta di decreto, dalla scadenza del termine per proporre opposizione, le somme in esso specificamente indicate per pena pecuniaria (e spese). L'avviso di pagamento e il precetto per le pene pecuniarie pagabili ratealmente precisavano l'indicazione dell'importo e della scadenza delle singole rate, da cui decorreva il termine per il pagamento.
Scaduti i termini, l’ufficio procedeva ad iscrivere a ruolo la pena (cioè il credito), e interessava il concessionario per la riscossione. Il concessionario operava con gli strumenti dell’erario, vale a dire pignoramento dei beni e ad esecuzione forzata dell’”insolvente”. La normativa di riferimento era costituita dal d.P.R. n. 602 del 1973 come modificato dal d.lgs. 26 febbraio 1999 n. 46, e dal d.lgs. 13 aprile 1999 n. 112, concernente il riordino del servizio nazionale della riscossione, che disciplina le modalità di affidamento del servizio di riscossione, la vigilanza sui concessionari, i diritti e gli obblighi del concessionario.
In caso di infruttuosa esazione, di mancanza di beni su cui operare il pignoramento, di mezzi con cui pagare (“l’insolvibilità”) il concessionario interessava nuovamente la cancelleria della esecuzione, che comunicava l’esito al p.m. al fine di trasmettere gli atti al magistrato di sorveglianza per la conversione.
Il binomio insolvibilità/insolvenza elaborato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità[13], si riflette nei riferimenti nel secondo comma dell’art. 660 c.p.p. alla “accertata impossibilità di esazione” come presupposto per la trasmissione degli atti e conversione e nel terzo comma alla possibilità del magistrato di sorveglianza di concedere il differimento e rateizzazione in presenza di situazioni di temporanea “insolvenza”. Temporanea insolvenza che, secondo la giurisprudenza[14], potrebbe emergere già a partire dalla fase “amministrativa” della procedura, al momento dell’invito al pagamento, cioè, in cui il condannato può rivolgersi immediatamente al magistrato di sorveglianza per ottenere la rateizzazione, prima dell’avvio, ad opera del p.m. della procedura di conversione.
Nel 2002 viene emanato il t.u. spese di giustizia (d.P.R. 115/2002), che disciplinava in modo più puntuale la procedura per la riscossione delle pene pecuniarie. Il soggetto chiamato alla esecuzione era sempre la cancelleria del giudice della esecuzione (art. 208). La procedura della esecuzione era analoga a quella precedente[15]. Gli articoli 223 e 224 richiamavano espressamente la già citata normativa sulla riscossione tributi a mezzo ruolo ( il d.P.R. n. 602 del 1973, come modificato dal d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 ed il d.lgs. 13 aprile 1999, n. 112). Inoltre, nel tentativo di rendere il sistema più efficace, negli artt. 237 e 238 il t.u. innovava radicalmente la disciplina del procedimento di conversione, affidandola al giudice dell’esecuzione anziché al magistrato di sorveglianza. Con l’art. 299 si abrogavano infatti gli artt. 660 c.p.p. e 181 e 182 disp. att. c.p.p.
La modifica aveva breve durata. Infatti già dal giugno 2003 la Corte costituzionale (sentenza n. 212/2003) dichiarava l’ incostituzionalità per eccesso di delega degli articoli 237, 238 e 299 del T.U., determinando così la reviviscenza della disciplina dettata dagli artt. 660 c.p.p. ( e secondo parte della dottrina anche dell’art. 182 disp. att. c.p.p.)[16] e restituendo la competenza a procedere alla conversione al magistrato di sorveglianza.
Sempre con la medesima finalità di accelerare la procedura, questa volta con lo scopo di sollevare il “campione penale” da alcune incombenze, la legge finanziaria del 2008 all’articolo 1, commi da 367 a 372 disponeva che la gestione dei crediti relativi a spese e pene pecuniarie fosse affidata ad una società interamente posseduta da Equitalia s.p.a., previa stipula di un’apposita convenzione con il Ministero della Giustizia. Una volta notificata la sentenza e ingiunto il pagamento da parte del “campione penale”, la residua attività (acquisizione dei dati anagrafici del debitore; quantificazione del credito e iscrizione a ruolo del credito) doveva essere totalmente affidata ad Equitalia Giustizia s.p.a.
Costituita nell’anno 2008 per accentrare le competenze di numerosi concessionari, diversi per area geografica, Equitalia Giustizia s.p.a. stipulava nel settembre 2010, la convenzione prevista dalla legge finanziaria con il Ministero acquisendo, per le pene irrogate con provvedimenti irrevocabili dopo il 1 gennaio 2008, parte delle attività in precedenza svolte dagli uffici recupero crediti degli uffici giudiziari. Quanto alla attività di riscossione, dal 1° luglio 2017 l’attività di riscossione era esercitata da un ente pubblico economico denominato “Agenzia delle entrate – Riscossione” sottoposto all’indirizzo e vigilanza del Ministro dell’Economia e delle Finanze.
Alle cancellerie dunque resta la sola attività di intimazione al pagamento, mentre l’intera procedura dalla iscrizione a ruolo era svolta da Equitalia giustizia e la riscossione dalla Agenzia delle Entrate. Questa parcellizzazione ha costituito un problema per l’utente, in quanto il soggetto titolare dell’azione esecutiva resta l’ufficio riscossione, cui l’utente si deve rivolgere e non ha risolto i problemi di inerzia e difetto di comunicazione all’origine della inefficienza della procedura di esecuzione e conversione. Oltre alle difficoltà legate al recupero coattivo del dovuto, la mancata comunicazione degli esiti infruttuosi delle procedure esecutive alle cancellerie da parte del concessionario e le numerose proroghe concesse per la comunicazione sono ritenuti una delle principali cause della misura limitata della conversione delle sanzioni pecuniarie.[17]
Proprio per imporre una scansione temporale, la legge 27 dicembre 2017, n. 205 ha integrato la disciplina del TU spese di giustizia mediante l'inserimento nel testo del d.P.R. 115/2002 dell'art. 238 bis[18], ai sensi del quale, l’Ufficio recupero crediti investe il pubblico ministero perché avvii il procedimento di conversione in due casi:
a) entro venti giorni dalla ricezione della prima comunicazione da parte dell'Agente della riscossione relativa all'infruttuoso esperimento del primo pignoramento su tutti i beni;
b) ovvero se decorsi ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte del predetto Agente della riscossione ed in mancanza della ricordata comunicazione, non risulti esperita alcuna attività esecutiva ovvero se gli esiti di quella esperita siano indicativi dell'impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa (commi 2 e 3).
Il Ministero della Giustizia (DOG), con una serie di circolari nel 2017 (prot. 147874 4.8.2017) e poi del 2018 (9958U del 16 gennaio 2018 e 122979 U del 31 maggio 2018) ha dato una serie di direttive volte al progressivo smaltimento, da parte degli uffici recupero crediti, dei crediti non riscossi per condannati insolvibili, ora resi possibili dal termine biennale dal momento della presa in carico a ruolo, e delle modalità di individuazione sulle banche dati di tale momento.
In sostanza, con cadenza biennale, l’ufficio recupero crediti doveva comunicare al p.m. i crediti non riscossi, indipendentemente da ogni verifica sulla insolvibilità o sulla insolvenza. Questa procedura, finalizzata ad anticipare il controllo sulla solvibilità del condannato ancorava anche all’inerzia amministrativa (presupposto indipendente dalla condotta del condannato) l’interessamento del magistrato di sorveglianza. Proprio l’equivalenza tra l’inerzia dell’agente della riscossione e la insolvenza ha condotto i giudici remittenti a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 238-bis, ritenuta iniqua e lesiva dei principi di eguaglianza e diritto di difesa. Con la sentenza 20 dicembre 2019 n. 279 la Corte costituzionale, dichiarando infondata la questione (argomentando come il condannato abbia comunque avuto comunicazione di provvedere al proprio obbligo a mezzo dell'avviso di pagamento notificato nelle forme dell'art. 140 c.p.c.), lanciava un severo monito al legislatore perché modificasse il sistema di cui si è detto in premessa.
4. Funzione del pubblico ministero nel procedimento di esecuzione
Come già rilevato, in seguito alla attribuzione al magistrato di sorveglianza della competenza di disporre la conversione, il p.m. sostanzialmente una funzione di “cerniera” tra i vari soggetti istituzionali preposti alla procedura, rivolgendosi nei diversi casi al giudice dell’esecuzione (sulle questioni sul titolo) e al magistrato di sorveglianza per gli accertamenti sulla solvibilità e la conversione, ruolo del tutto ancillare[19], che si attiva al momento della iniziativa per la conversione. Allora, analogamente a quanto accade per l’esecuzione delle pene detentive, il p.m. prima di procedere alla richiesta di conversione deve verificare se la pena pecuniaria si sia estinta (per indulto, depenalizzazione, prescrizione) oppure modificata per via di ipotetiche altre statuizioni del giudice dell'esecuzione (ad es. applicazione della continuazione in fase esecutiva), ovvero se la norma incriminatrice sia stata oggetto di depenalizzazione ovvero di censura di incostituzionalità.
Per il resto, dottrina e la giurisprudenza hanno ritagliato al p.m. un puro ruolo di controllore “formale” della attività di riscossone e dei suoi esiti. Anche antecedentemente all'entrata in vigore del d.P.R. 115/2002 in giurisprudenza era stato affermato che «nel procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie, il compito del pubblico ministero, nelle ipotesi in cui la procedura di recupero - cui è preposta istituzionalmente la cancelleria del giudice dell'esecuzione - abbia avuto esito negativo, consiste soltanto nel controllo formale dell'attività svolta dalla cancelleria medesima. Pertanto, una volta ricevuti gli atti della procedura risoltasi negativamente, egli deve limitarsi ad accertare se le ragioni di tale esito diano luogo a un'effettiva impossibilità di esazione della pena pecuniaria ovvero se risultino in qualche modo superabili, rivolgendosi, nella prima ipotesi al magistrato di sorveglianza - cui è demandato l'accertamento del passaggio dalla situazione di mera e contingente impossibilità di esazione a una condizione di insolvenza effettiva e concreta - perché provveda alla conversione della pena pecuniaria, e, nella seconda ipotesi, restituendo gli atti alla cancelleria del giudice dell'esecuzione, perché riprenda la procedura di riscossione» (così Cass. pen., Sez. Unite 35/1995 RV 203294-1, Cass. sez I, 19 maggio 1997, n. 3460, RV 207974).
In seguito alla introduzione dell’art. 238 bis dpr 115/2002 qualche interprete[20] ha ritenuto di potervi rinvenire una fonte per dare concretezza ai poteri di controllo “formale” del p.m. volti anche alla verifica della correttezza della procedura di esazione e dunque in parte di “recupero” delle valutazioni sulla insolvibilità.
Un tentativo di dettagliare l’attività “formale” di controllo del p.m. è contenuto anche nella circolare emessa in data 26 settembre 2018 dalla procura generale della Repubblica presso la Corte di appello di Reggio Calabria, in cui si indica tra i compiti del pubblico ministero competente la valutazione della fondatezza della impossibilità di escutere il condannato creditore verificando “l'esistenza attuale del credito e il decorso dei 24 mesi nelle ipotesi di cui al comma 3 della disposizione in esame, controllando la rispondenza formale tra l'importo iscritto a ruolo dall'Agente della riscossione e l'entità della sanzione pecuniaria inevasa”.
Un ruolo significativo del p.m., stavolta nella fase di cognizione, è la richiesta di sequestro conservativo (art. 316 ss. c.p.p.). Già previsto come garanzia patrimoniale di esecuzione nel precedente codice di rito, il sequestro conservativo è divenuto nel codice del 1989 una misura cautelare reale, ancorata ai presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora, la cui finalità è quella di impedire che l’imputato ed il responsabile civile (ove presente) possano disporre materialmente e/o giuridicamente dei propri beni, compromettendo le ragioni creditorie del danneggiato e dello Stato, anche nella esecuzione della pena pecuniaria. Dopo il passaggio in giudicato della sentenza si converte in pignoramento, allineandosi alla disciplina civilistica cautelare di cui all’art. 671 c.p.c. Nella prassi, tuttavia, è raramente usato per garantire l’esecuzione della pena pecuniaria.
5. Il procedimento disegnato dalla riforma Cartabia
La nuova formulazione dell’art. 660 c.p.p. e delle relative disposizioni di attuazione (art. 181 bis disp. att. c.p.p.) ridisegna in modo sostanziale la procedura esecutiva delle pene pecuniarie, semplificandola e riducendone il numero dei passaggi e degli attori. Analogamente a quanto accade per l’esecuzione della pena detentiva, a gestire la procedura sono il magistrato di sorveglianza e il giudice dell’esecuzione, mantenendo al centro, quale autorità di collegamento e di iniziativa, il pubblico ministero.
Separato dalla riscossione delle spese di giustizia, per le quali resta la disciplina previgente, il sistema recupera una più coerente dimensione endopenalistica[21]. L’esito possibile, infatti, in caso di mancato pagamento, non è più il passaggio ad una fase analoga alla esecuzione dei crediti di diritto pubblico, cioè iscrizione a ruolo, cartella di pagamento/precetto, eventuale pignoramento e - solo in caso di impossibilità - conversione in misura limitativa della libertà, bensì direttamente la conversione in semilibertà sostitutiva (art. 660 comma 2 c.p../ art. 102 l. n. 689/1981) o, in caso di accertata mancanza di mezzi, nel lavoro di pubblica utilità sostitutivo o nella detenzione domiciliare sostitutiva (cfr. art. 103 l. n. 689/1981).
Il concessionario – ai cui annosi ritardi, anche nella comunicazione delle impossibilità di esazione, viene imputata la maggiore responsabilità delle inefficienze del sistema precedente[22] - viene sollevato da ogni compito e l’agente di riscossione ridotto ad una mera funzione di incasso e registrazione del pagamento da comunicare alla procura.
La dicotomia insolvenza/insolvibilità viene riproposta in chiave non di possibile o impossibile o ritardato guadagno per l’erario, ma piuttosto di responsabilità personale, in cui la posizione del soggetto solvente (ma di fatto inadempiente) è ritenuta più grave di quella del soggetto che per le sue condizioni economiche non è in grado di pagare. La conversione diviene sostanzialmente uno strumento di pressione e non una conseguenza del mancato pagamento. Per chi, sulla base di accertamenti, viene ritenuto in grado di pagare, la pena è infatti convertita in semilibertà, misura alternativa in cui il soggetto resta in stato di detenzione e il suo reinserimento nell’ambiente libero è parziale[23]. Si tratta di una misura molto più afflittiva della libertà controllata di cui alla disciplina previgente, ed anche del lavoro di pubblica utilità o della detenzione domiciliare sostitutiva previste invece dalla novella per l’insolvibile.
La separazione dal procedimento civile di escussione del creditore fa venir meno anche la funzione di garanzia della esazione della pena pecuniaria svolta dal sequestro conservativo. Nei novellati artt. 316 e 320 c.p.p., infatti, è scomparso il riferimento alla pena pecuniaria. La Relazione illustrativa, nel commentare la modifica, rileva come lo strumento del sequestro conservativo in passato non abbia comunque contribuito ad incrementare la riscossione (p. 303).
In molti paesi, anche europei[24], la conversione della pena pecuniaria è prevista non solo per l’insolvibile, ma anche e soprattutto per l’insolvente. L’insolvente mette infatti in atto un mancato pagamento colpevole, in quanto, pur avendone la possibilità, decide di non adempiere: minacciare la pena da conversione induce a pagare la pena pecuniaria. Significativamente la Relazione illustrativa cita il commento all’art. 40 del codice penale tedesco secondo cui la pena pecuniaria senza la minaccia della conversione sarebbe “una tigre senza denti”. Anche il sistema britannico (sect. 39 Power Criminal Courts Act 2000) prevede la conversione in caso di mancato pagamento della pena pecuniaria, così come il sistema spagnolo (art. 53 codigo penal).
Naturalmente il pagamento interrompe in ogni momento l’esecuzione della pena da conversione già iniziata.
La presenza, in molti ordinamenti dell’Unione della possibilità della conversione della pena pecuniaria non pagata in pena detentiva si riflette nella Decisione quadro 2005/214/GAI del Consiglio, del 24 febbraio 2005, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie e attuata in Italia con il d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 37 nella quale è prevista, in caso di impossibilità di esazione, l’applicazione di una sanzione detentiva. Ai sensi dell’art. 10 di tale Decisione quadro (“Detenzione o altra sanzione alternativa in sostituzione del mancato recupero della sanzione pecuniaria”), “Qualora risulti totalmente o parzialmente impossibile dare esecuzione alla decisione, lo Stato di esecuzione può applicare sanzioni alternative, tra cui pene privative della libertà, ove la sua legislazione lo preveda in tali casi e lo Stato della decisione abbia consentito l’applicazione di tali sanzioni alternative…” (cfr. art. 13, co. 5 d.lgs. n. 37/2016).
D’altra parte, proprio nella Decisione quadro, l’aspetto punitivo della pena pecuniaria (rappresentato dalla diminuzione patrimoniale) è scorporato dall’aspetto remunerativo per la collettività, in quanto la somma versata resta allo Stato di esecuzione (art. 13 comma 6 d. lgs. n. 37/2016).
6. Il p.m. e il ruolo di avvio del procedimento. Problemi in tema di legittimazione attiva
La riforma ridimensiona significativamente la funzione della cancelleria del giudice dell’esecuzione (o ufficio del “campione penale”) – già sollevata dalla convenzione del 2010 con Equitalia giustizia dello svolgimento di molti incombenti - che resta responsabile solo del recupero spese di giustizia. Scompare infatti dalla procedura l’attività di iscrizione a ruolo delle pene pecuniarie, controllo e comunicazione con il concessionario o comunque con l’Agenzia incaricata della riscossione.
Il pubblico ministero invece rafforza il ruolo di “motore” della esecuzione della pena pecuniaria che in precedenza era limitato dalla necessaria interlocuzione e intervento dell’ufficio recupero crediti, e a ciò consegue un considerevole incremento degli sforzi organizzativi ed operativi richiesti alle segreterie dedicate, nonché una nuova attività di interlocuzione con la Agenzia di riscossione.
Un primo tema da affrontare è l’individuazione dell’ufficio del p.m. competente per i singoli passaggi, a partire dalla emissione dell’ordine/ingiunzione.
La riforma nulla dispone sul punto, ma è da ritenere che il p.m. tenuto ad emettere l’ordine di esecuzione sia lo stesso competente per l’esecuzione della pena detentiva, cioè quello presso il giudice dell’esecuzione, da individuare secondo le regole dell’art. 665, commi 1 e 2 c.p.p., di primo o di secondo grado a seconda se vi sia stata modifica sostanziale della sentenza[25].
Il problema sorge al momento della richiesta di conversione: nel silenzio della normativa previgente (gli unici riferimenti sono l’art. 678 comma 3 c.p.p., individuazione della procura presso il “magistrato di sorveglianza” e l’art. 107 della l.689/81) la soluzione era frutto di attività interpretativa.
La Procura generale presso la Corte di cassazione affrontava la questione in due decreti, il n. 370 e il n.473 del 2018 che risolvevano altrettanti conflitti negativi di competenza tra pubblici ministeri per la richiesta di conversione della pena pecuniaria per insolvibilità, ritenendo competente la procura presso l’ufficio di sorveglianza. Il 3 giugno 2019, il Procuratore generale della Cassazione emanava una nota in tema di “orientamenti e buone prassi in materia di pena pecuniaria inesigibile” in cui, sulla scorta del processo motivazionale dei due decreti e ragionando in analogia con la procedura prevista nell’art. 658 c.p.p. in tema di misure di sicurezza, individuava nel p.m. presso l’ufficio di sorveglianza quello legittimato a trasmettere la richiesta di conversione, cui il p.m. presso il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto trasmettere gli atti una volta informato dal relativo ufficio recupero crediti della impossibilità di esazione[26]. Rileva la nota che l’attribuzione dell’iniziativa della conversione al p.m. “presso il giudice dell’esecuzione” avrebbe avuto l’effetto paradossale di ritenere competente ad inoltrare una richiesta all’ufficio di sorveglianza una procura diversa da quella competente per l’impugnazione dei provvedimenti del medesimo ufficio, da individuare “in via esclusiva” in quello sedente presso l’ufficio di sorveglianza (cfr., da ultimo, Cass. 1 Sez., sent. n. 18886 del 28/02/2019 Rv. 275472)[27].
Certamente la rapidità della procedura può rallentarsi a causa della “variabilità” della competenza: il p.m. del giudice della sentenza esecutiva (che peraltro può mutare nel caso di “cumulo”) al momento della richiesta di conversione è tenuto ad inviare il fascicolo al p.m. “presso il magistrato di sorveglianza”, e quindi del luogo di residenza, di detenzione ecc. del condannato, luogo che a sua volta può rapidamente cambiare nel tempo[28].
Nel silenzio del legislatore e salvo future diverse valutazioni della giurisprudenza, è da ritenere che nulla sia cambiato e che dunque in caso di necessità di conversione, il p.m. “del giudice dell’esecuzione”, che emette il relativo ordine/ingiunzione di pagamento della pena pecuniaria, in caso di mancato pagamento nei termini, trasmetterà il fascicolo al p.m. “del magistrato di sorveglianza” per la relativa richiesta. Poiché competente per la conversione è solo il magistrato di sorveglianza, l’ufficio di procura sarà sempre quello di primo grado in quanto la il procuratore generale presso la Corte di appello non interloquisce con il magistrato di sorveglianza ma solo con il collegio (art. 678, 3 comma c.p.p.).
Le complicazioni si moltiplicano nel caso, considerato dall’undicesimo comma del novellato art. 660 c.p.p., della condanna del civilmente obbligato alla pena pecuniaria[29]. Il p.m. “della esecuzione” ordina il pagamento al condannato, poi in caso di mancato pagamento, trasmette gli atti al p.m. “presso il magistrato di sorveglianza” per la richiesta di conversione. Poi se la sorveglianza rileva l’insolvibilità del condannato, prima di convertire rimanda al p.m., da ritenersi quello del giudice della esecuzione, perché ordini al civilmente obbligato il pagamento. In caso di insolvenza del civilmente obbligato, di nuovo viene ripetuto il primo passaggio per ottenere questa volta la conversione.
Se di regola, nei grandi distretti, i due uffici del p.m. della esecuzione e del p.m. della sorveglianza coincidono, per i medio piccoli questa parcellizzazione delle competenze può essere foriera di difficoltà.
7. La procedura: Gli adempimenti preliminari alla emissione dell’ordine di esecuzione/ingiunzione
Al primo comma dell’art. 660 c.p.p. si legge: “quando deve essere eseguita una condanna a pena pecuniaria, anche in sostituzione di pena detentiva, il pubblico ministero emette ordine di esecuzione con il quale ingiunge al condannato il pagamento”.
Sul piano pratico, la prima attività da svolgere è di tipo amministrativo e riguarda la formazione del fascicolo ai sensi degli artt. 27, 28 e 29 del regolamento attuativo del codice di procedura penale. La normativa secondaria (art. 28) dispone che ogni sentenza, comprese quindi anche quelle di condanna a pena esclusivamente pecuniaria, quelle del giudice di pace e quelle a pena sostitutiva, siano comunicate dalla cancelleria del giudice “senza ritardo”, e comunque entro cinque giorni, al pubblico ministero presso il giudice che lo ha deliberato, perché ne curi l’esecuzione.
L’estratto esecutivo deve indicare «le generalità del condannato, l’imputazione, il dispositivo, la precisazione che non è stata proposta impugnazione» ovvero copia dei provvedimenti che hanno definito gli eventuali altri gradi del procedimento. Anche prima della riforma era previsto lo svolgimento di tale incombente, tuttavia, intervenendo concretamente il p.m. solo nella fase della conversione, gli estratti venivano inviati esclusivamente all’ufficio recupero crediti/campione penale, nella sostanza una diversa sezione della cancelleria.
L’art. 29 del regolamento di esecuzione indica poi gli adempimenti che deve compiere la segreteria del pubblico ministero una volta ricevuto l’estratto esecutivo. Deve iscrivere la condanna a pena detentiva nel registro delle esecuzioni[30] e formare un fascicolo (cartaceo) con un numero progressivo corrispondente a quello di iscrizione nel registro, in cui viene inserito l’estratto esecutivo, i certificati del casellario giudiziale, nonché, se esistente, il documento riassuntivo di tutti gli atti esecutivi precedenti, anche provvisori o svolti in altro ufficio, detto “stato di esecuzione” [31]. Attualmente il registro (chiamato SIEP) è diviso in sezioni, una in cui vengono iscritte le esecuzioni a pena detentiva, uno per le pene pecuniarie, uno per le pene sospese, uno per le pene da convertire.
Poiché la procedura per l’esecuzione della pene pecuniaria e quella per l’esecuzione della pena detentiva potrebbero nel concreto divergere (ad esempio per una condanna per reati contro il patrimonio o stupefacenti in cui la pena detentiva sia scontata in custodia cautelare prima del passaggio in giudicato della sentenza, ma resti da eseguire la sola pena pecuniaria, ovvero per pagamenti rateali parziali) verrà creato un fascicolo doppio, con doppia o diversa numerazione. Questa esigenza peraltro nasce anche dal problema dello “spostamento” di competenza del p.m. in caso di richiesta di conversione di cui si è detto.
L’estratto esecutivo a condanna a pena condizionalmente sospesa – che vale per la pena pecuniaria applicata come pena principale ma non (ai sensi della novella dell’art. 61 bis della l. 689/81) se la pena pecuniaria è applicata come sanzione sostitutiva di pena detentiva fino ad un anno - non viene iscritto nel registro, ma viene archiviato, di solito in ordine cronologico, in attesa di una eventuale revoca del beneficio e comunque iscritto nel registro in apposito modello, in attesa di estinzione del reato (art. 167 c.p.) ovvero di revoca del beneficio nei casi previsti dalla legge.
Una volta creato il fascicolo per l’esecuzione della pena pecuniaria, e prima di emettere l’ordine, analogamente a quanto accade per l’esecuzione della pena detentiva, il titolo esecutivo viene sottoposto al p.m., cui è proprio «l’obbligo di svolgere ogni accertamento opportuno per vagliare l’effettiva eseguibilità dell’atto Giudiziale»[32].
Oggetto dell’analisi del p.m. è in primo luogo la reale e persistente eseguibilità del titolo: viene verificata dal magistrato la possibile applicazione dell’indulto, dell’amnistia, dell’incidenza di modifiche normative favorevoli o della abolitio criminis, o anche, come di recente è avvenuto, eventuali interventi caducatori della Corte costituzionale o di Corti internazionali. A quest’ultimo riguardo, ad esempio, è stato ritenuto possibile far ricorso all’art. 673 c.p.p. (revoca della sentenza per abolitio criminis) anche nel caso di inapplicabilità sopravvenuta della norma nazionale per effetto di pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha affermato l’incompatibilità della norma di diritto interno con quella comunitaria[33].
Nell’attuazione del comando giudiziale, al pubblico ministero è preclusa ogni interpretazione del giudicato (anche ritenuto erroneo) che non sia strettamente letterale. La giurisprudenza ha più volte affermato che il p.m. non possa chiedere al giudice una preventiva “verifica della esecutività” del giudicato ma debba procedervi autonomamente: in questo senso, espressamente, tra le altre[34], vedi Cass., Sez. I, 31 ottobre 2001, n. 3791 (RV 218044), in cui si ritiene «inammissibile la richiesta, rivolta dal P.M. al giudice dell'esecuzione, di preventiva valutazione dell'esecutività della sentenza e della conseguente legittimità dell'ordine di esecuzione», in considerazione della titolarità in capo all’organo dell’esecuzione del potere-dovere di emettere il relativo ordine, valutandone in proprio la legalità, rinviando al momento del conflitto l’intervento del giudice.
Nella prassi, tuttavia, il ricorso all’incidente di esecuzione in via “preventiva” ed interpretativa concerne non tanto la esecutività quanto la “interpretazione” esatta del dispositivo su elementi di fatto, o anche solo correzione di errori materiali. La necessità di ricorrere al giudice, ad esempio, può avvenire per indicazioni contraddittorie tra dispositivo e motivazione. In materia di pene pecuniarie, particolarmente suscettibile di confusione, nella pratica, può essere la rateizzazione e certamente nei primi tempi la procedura per l’applicazione di pene sostitutive. Il sistema delle quote previsto per le pene sostitutive, nella sua fase iniziale di applicazione, potrebbe infatti portare a mancanza di chiarezza.
Altro tema all’attenzione del p.m. nella fase preventiva alla emissione dell’ordine è quello della c.d. possibile “illegalità della pena”, venuto in rilievo in seguito alle sentenze della Corte Costituzionale in materia di pene edittali per i delitti in materia di stupefacenti, oggetto di possibile rideterminazione fino all’esaurimento del “rapporto esecutivo”[35]. In questo contesto, persistendo l’interesse del condannato alla rideterminazione della pena pecuniaria anche in caso di espiazione delle pena detentiva, il tema può venire in rilievo anche per la sola pena pecuniaria, la cui mancata escussione mantiene in vita il c.d. “rapporto esecutivo”[36].
Il tema della “pena illegale” è stato di recente esplorato dalla giurisprudenza producendo contrasti anche in seno alla Corte di cassazione. In generale, “illegale” è la pena non prevista dall'ordinamento giuridico ovvero, per specie e quantità, eccedente il limite legale. In tema di pena pecuniaria, è stata ritenuta “illegale” ad esempio la pena superiore al massimo edittale (Cass. Sez. V, n. 46122 del 13.6.2014 RV 262108 ed anche, recentemente, la pena inferiore al minimo di legge (cfr. Cassazione penale sez. II, 17/11/2021, (ud. 17/11/2021, dep. 15/12/2021), RV 46003).
Della pena illegale in quanto derivante da “macroscopico errore di calcolo” si sono occupate le Seioni Unite ,proprio in materia di poteri del giudice dell’esecuzione, prima nella sentenza Basile (27.11.2014, n. 6240 Rv 262327), inerente la misura delle pene accessorie e poi nella sentenza Butera ( 26.5.2015 n. 47766 RV 265108), inerente l’applicazione della pena della reclusione per reati di competenza del giudice di pace. Di recente, in motivazione, nella sentenza Savini (Cass. S.U. 47182 depositata il 13.12.2022 RV 283818), si è precisato che illegale è la pena derivante da macroscopico errore di calcolo solo nel caso in cui ciò sia avvenuto “senza alcuna giustificazione”, non all’esito di una ricostruzione motivazionale. Questa ultima sentenza, che argomentava in merito ai poteri della Cassazione di conoscere questioni non dedotte nel giudizio di appello, ha escluso che fosse illegale la pena irrogata in sede di giudizio abbreviato con erronea applicazione della misura della diminuente per le contravvenzioni.
Naturalmente questo ruolo di controllo di legalità del p.m. esisteva anche nel regime previgente. Per le condanne a sola pena detentiva tuttavia l’intervento veniva sollecitato su iniziativa dell’Ufficio recupero crediti (per esempio nel 2006 in occasione dell’indulto) oppure si attivava al momento della richiesta di conversione o su istanza del condannato, quasi sempre inerenti la estinzione della pena per il decorso del tempo.
8. Il contenuto dell’ordine di esecuzione/ingiunzione
Una volta verificata la persistente ed attuale eseguibilità della pena pecuniaria, il p.m. deve emettere l’ordine (ingiunzione di pagamento), vera novità della riforma Cartabia, in cui all’ordine di pagamento entro un termine segue l’avviso delle conseguenze del mancato adempimento[37]. L’ordine riporta i dati del condannato (“le generalità della persona nei cui confronti deve essere eseguito e quanto altro valga a identificarla”), in particolare il codice CUI[38], l’imputazione, il dispositivo del provvedimento, l’indicazione dell’ammontare della pena, nonché le modalità del pagamento.
La struttura di tale “ordine”, che per brevità chiameremo ordine/ingiunzione, è ricalcata sulla figura dell’ordine esecuzione “con sospensione” dell’art. 656 comma 5 c.p.p., anche se si tratta di un istituto molto diverso.
Infatti, l’ordine di esecuzione che “dispone” la carcerazione è diretto alle forze dell’ordine e viene solo “comunicato” al condannato mediante notifica. Il decreto di cui al quinto comma dell’art. 656 c.p.p. è finalizzato a sospendere l’efficacia dell’ordine e ad informare il condannato del diritto di chiedere misure alternative. Invece quello della pena pecuniaria è un vero e proprio ordine diretto al condannato, avente ad oggetto un “facere”, correlato da un contenuto informativo afferente ai suoi diritti ed alle conseguenze del mancato pagamento. Presenta forse maggiori analogie con un istituto di creazione giurisprudenziale quale l’ingiunzione alla demolizione degli immobili abusivi ordinata in sentenza, che il p.m. notifica al condannato dandogli un termine e avvertendolo che in caso di inottemperanza si provvederà a demolire con imputazione delle spese[39].
Come l’ordine di esecuzione a pena detentiva, è da ritenere che anche quello alla pena pecuniaria dovrà essere redatto sulla base di moduli standard ministeriali. Nell’ordine/ingiunzione di pagamento, la novella (art. 181 disp. att. c.p.p.) impone peraltro al p.m. di indicare le modalità del pagamento stesso, che sono quelle indicate in sentenza, per intero o rateale, allegando un modulo precompilato[40]. Nel caso di pagamento a rate mensili, al quarto comma dell’art. 660 c.p.p. si dispone che sia indicato “il numero delle rate e l’importo” che sono dati desumibili dalla sentenza, ma altresì “le scadenze” di ciascuna rata per il pagamento.
Come determinare queste scadenze? Una possibilità ragionevole è quella di indicare non una data ma un termine (a sessanta, novanta, centoventi giorni ecc.) a partire dalla notifica, perché a differenza della pena detentiva non può indicarsi una data specifica. Dovrà essere approntata da parte del Ministero una modulistica adeguata, nonché un sistema informatico che consenta di riportare i dati tratti dalla sentenza in modo agevole nell’ingiunzione di pagamento., soprattutto in riferimento alla scadenza delle diverse rate.
Va da sé che l’inottemperanza non espone il condannato alla violazione dell’art. 650 c.p., proprio perché tale norma, sussidiaria, si applica solo alle violazioni cui non segue un aggravamento o una specifica sanzione (Cass. Sez. 3 - , Sentenza n. 25322 del 15/02/2019 Rv. 276005).
La maggiore incisività derivante dal rischio automatico di conversione della pena pecuniaria rispetto al rischio di riscossione coattiva ha reso necessario anche modificare la tutela rafforzata contro l’inadempimento rappresentata dall’art. 388 ter c.p., ora limitata agli atti “fraudolenti”, e in cui, significativamente, è stato eliminato il riferimento al “precetto”, istituto non più coerente con il sistema esecutivo delle pene pecuniarie.
L’art. 181 bis delle disposizioni attuative, nella nuova formulazione, dispone che “Le modalità di pagamento delle pene pecuniarie applicate dal giudice con la sentenza o con il decreto di condanna sono indicate dal pubblico ministero, anche in via alternativa, nell’ordine di esecuzione di cui all’articolo 660 del codice. Esse comprendono, in ogni caso, il pagamento attraverso un modello precompilato, allegato all’ordine di esecuzione.”. Dalla lettura che della norma fa la Relazione illustrativa si evince come essa contenga un preciso obbligo per il p.m. di chiarire, nel senso indicato dall’art. 660 c.p.p. misura e termini di pagamento della pena pecuniaria, modalità concrete, con indicazione del codice tributo e di quanto disposto dalla normativa secondaria e dalle circolari ministeriali. Poiché la norma prevede anche l’allegazione alla ingiunzione di un modulo precompilato di pagamento, per poter consentire l’avvio della novella è necessario uno sforzo organizzativo da parte del Ministero per dotare le segreterie rapidamente di un sistema informatico che inserisca automaticamente i dati dell’ordine nel modulo, pena la paralisi degli uffici.
[1] Vedi i lavori della commissione Nordio di riforma del Codice penale del 2004, che miravano ad escludere la pena pecuniaria per i delitti di competenza del giudice ordinario. La “storia” delle pene pecuniarie è ripercorsa in L. GOISIS, Le pene pecuniarie. storia, comparazione, prospettive, relazione tenuta alla SSM dal titolo «La funzione della pena: storia, teoria, prospettive», nei giorni 20-22 settembre 2017, poi pubblicata in Diritto penale contemporaneo, 2017. I dati impressionanti sui tassi di esazione e di conversione delle pene pecuniarie sono riportati nella Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo di attuazione della legge delega 134/2021, cui si rimanda.
[2] Corte cost., sent. 20 dicembre 2019, n. 279, Pres. Carosi, Red. Viganò, in Sistema penale, 23 dicembre 2019, con nota di G.LEO. Scrive la Corte: “Già nella sentenza n. 108 del 1987, questa Corte aveva invocato un intervento del legislatore sulla disciplina processuale della conversione, ritenuta inficiata da «difetti che la rendono non pienamente adeguata ai principi costituzionali in materia, e che possono indirettamente frenare un più ampio ricorso alla pena pecuniaria, da molti auspicato». Un simile monito deve essere ora ribadito. Il procedimento di esecuzione della pena pecuniaria, del quale i provvedimenti di conversione costituiscono uno dei possibili esiti, è oggi ancor più farraginoso di quanto non lo fosse nel 1987, prevedendo l’intervento, in successione, dell’ufficio del giudice dell’esecuzione, dell’agente della riscossione, del pubblico ministero e del magistrato di sorveglianza. A tutti questi soggetti sono demandati plurimi adempimenti più o meno complessi, che tuttavia non riescono, allo stato, ad assicurare né adeguati tassi di riscossione delle pene pecuniarie, né l’effettività della conversione delle pene pecuniarie non pagate”.
[3] Nella Relazione illustrativa al decreto legislativo si legge, sul punto, che “L’abbandono del sistema del recupero crediti, in caso di mancato pagamento della pena pecuniaria per mera insolvenza, è realizzato, sul piano processuale, concependo la pena pecuniaria non come un credito che lo Stato deve recuperare, attivandosi e sforzandosi in tal senso, bensì come una pena che, al pari di quella detentiva, deve essere eseguita dall’autorità giudiziaria attraverso un ordine di esecuzione.“ (pag. 274). Così la relazione della Commissione Lattanzi, a commento delle due sentenze della Corte costituzionale: “A parere della Commissione queste lapidarie parole della Corte costituzionale non possono restare inascoltate, nel contesto di un’articolata proposta di riforma del sistema sanzionatorio. Superare il luogo comune e la cultura del carcere, come unica o comunque irrinunciabile, risposta al reato, richiede anche di valorizzare la più tradizionale e risalente delle sue alternative: la pena pecuniaria. Ciò richiede in primo luogo, attraverso interventi normativi e di riorganizzazione amministrativa, di razionalizzare e semplificare il procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie, rivedendo, secondo criteri di equità e di effettività, i meccanismi di conversione in caso di mancato pagamento per insolvenza o insolvibilità del condannato. L’effettività della pena pecuniaria dipende in larga misura, come mostra l’esperienza di altri ordinamenti, dalla certezza e dalla serietà delle conseguenze della mancata esecuzione; prima ancora, dipende dalla certezza che lo Stato chiederà conto del pagamento della pena pecuniaria inflitta dal giudice. La circostanza che la “certezza della pena”, nel dibattito pubblico, venga invocata a proposito della pena detentiva, e non anche della pena pecuniaria, che è la più incerta delle sanzioni penali, testimonia come sia ancora radicata l’idea del carcere – e della privazione della libertà personale – come unica pena possibile”. In dottrina, tra gli altri, E. DOLCINI: Pene detentive, pene pecuniarie, pene limitative della libertà personale: uno sguardo sulla prassi, in Riv. it. dir. e proc. pen., fasc.1, 2006, pag. 95; U. NANNUCCI L'esecuzione della pena pecuniaria ovverosia con quale impegno lo stato punisce se stesso, in Cass. pen., fasc.7-8, 1998, pag. 2238. Una ricostruzione del sistema è in L. GOISIS, Le pene pecuniarie. storia, comparazione, prospettive, in diritto penale contemporaneo, 22 novembre 2017. F. FIORENTIN, L’esecuzione delle pene pecuniarie, in F. FIORENTIN, G.G. Sandrelli, L’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali. Disciplina dell’esecuzione penale e penitenziaria, Cedam, Padova, 2007. Sulla riforma, A. GAUDIERI, “le novità introdotte nel nuovo procedimento di esecuzione”, in “La Riforma Cartabia, a cura di G. SPANGHER, Pacini giuridica.
[4] Sul rapporto tra investimenti fatti e risultati in termini di recupero, vedi la Relazione allegata alla delibera 3/2017 della Sezione Centrale di Controllo sulla Gestione Delle Amministrazioni Dello Stato il Recupero Delle Spese di Giustizia e i Rapporti Convenzionali tra Il Ministero della Giustizia ed Equitalia Giustizia.
[5] E. DOLCINI. “Dalla riforma Cartabia nuova linfa per le pene sostitutive”. In Sistema penale, 30 agosto 2022. Il riferimento alla “credibilità” della pena pecuniaria è in Corte cost., sent. 20 dicembre 2019, n. 279, Pres. Carosi, Red. Viganò, in Sistema penale, 23 dicembre 2019, con nota di G.LEO.
[6] Una interessante e rapida analisi del tema della iniquità della sanzione pecuniaria, in cui sono riportati anche i riferimenti alle sentenze costituzionali è nel contributo di L. GOISIS Le pene pecuniarie, cit., pp.1-9.
[7] L’art. 37 del r.d. 23 dicembre 1865, n. 1701 consentiva all'Intendenza di Finanza - su parere dell'organo dell'esecuzione, procuratore della Repubblica o pretore - ovvero al Ministro - ove l'Intendente dissentisse da tale parere - di dilazionare o rateizzare (fino a sei anni) il pagamento della pena pecuniaria.
[8] “L'insolvibilità del condannato e della persona civilmente obbligata per la multa o per l'ammenda agli effetti indicati negli artt. 136, 196 e 197 c.p. e nell'art. 586 c.p.p., si prova con certificati dell'Autorità comunale, del procuratore delle imposte e dell'ufficio di polizia tributaria del luogo ove il condannato o la persona civilmente obbligata per la multa o per l'ammenda ha il domicilio o la residenza, ovvero si deve ritenere che possieda beni o cespiti di reddito. Tali certificati devono essere richiesti e rilasciati di urgenza”. In ordine alle concrete modalità operative, occorreva ricollegarsi nella ricostruzione del sistema procedimentale alle norme contenute nel r.d. 23 dicembre 1865, n. 2701 sulla tariffa penale, la quale indicava il percorso che si doveva seguire: gli artt. 221 e 222 disponevano che entro cinque giorni dalla scadenza del termine prefisso con l'atto di precetto la cancelleria del giudice competente richiedeva il pignoramento; entro venti giorni dal pignoramento presentava istanza di vendita dei beni pignorati; qualora poi l'esito fosse stato infruttuoso, per mancato reperimento di beni pignorabili o per l'insufficienza del ricavato dalla vendita, l'ufficiale giudiziario doveva (art. 224 della legge) richiedere al comune certificato di insolvibilità; ottenuto il certificato, doveva presentare al pretore i verbali (di mancato pignoramento o di vendita con ricavato insufficiente) insieme al certificato; il pretore dopo avere attestato che non risultava il possesso di immobili, provvedeva alla trasmissione degli atti all'autorità competente a disporre la conversione.
[9] Corte cost. sent. 108/87: Innanzitutto, che il provvedimento di conversione non sia meramente esecutivo della sentenza di condanna lo si arguisce agevolmente - come già rilevato - dal fatto che esso, alla stregua dello stesso tenore dell'art. 586, sesto comma, presuppone non solo la condanna ma anche l'accertamento del mancato pagamento della pena pecuniaria irrogata e, soprattutto, quello dell'insolvibilità del condannato. Dipendendo la legittimità del provvedimento dalla effettiva sussistenza di tali presupposti, non é concepibile che il compito dell'organo dell'esecuzione si risolva in un'acritica presa d'atto dell'operato di altri organi: e che quindi gli sia precluso, ad esempio, il sindacato sulla sufficienza degli elementi posti a base dell'attestazione dell'ufficiale giudiziario di notorietà dell'insolvibilità, ovvero sulla congruità delle indagini volte a verificare l'eventuale esistenza di altri luoghi, diversi dal domicilio e dalla residenza, ove "si deve ritenere" che il condannato possieda beni o cespiti di reddito. Basterebbe, del resto, por mente ai problemi che può comportare la stessa identificazione delle persone od enti civilmente obbligati per l'ammenda alla stregua del nuovo testo degli artt. 196 e 197 c.p. - la cui accertata insolvibilità é pure presupposto di legittimità della conversione - per rendersi conto che non può non spettare all'autorità giudiziaria il sindacato sull'eventuale erroneità dell'attività del cancelliere. E del resto, la legittimità del provvedimento comporta anche accertamenti di ordine diverso, quali ad es. quelli relativi all'eventuale estinzione del reato o della pena pecuniaria o all'eventuale computo della pena presofferta a titolo diverso.
Tutto ciò da un lato dà ragione del già rilevato carattere decisorio del provvedimento (cfr. par. 3), del resto confermato dal suo assoggettamento al rito degli incidenti di esecuzione (art. 586, ult. comma); dall'altro concorre a far ritenere - secondo quanto sostenuto dalla più recente dottrina - che ad esso debba assegnarsi natura giurisdizionale: conclusione, questa, che trova conferma non tanto nel fatto che dalle suesposte considerazioni discende che il provvedimento deve essere motivato (e che esso assume, quindi, la forma dell'ordinanza); quanto, soprattutto, nell'assorbente rilievo che trattasi di provvedimento dell'autorità giudiziaria limitativo della libertà personale.
[10] Corte cost., sentenza 149/71. La Corte costituzionale interviene poi nel 1979 (131/79) dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 136 c.p. e 586 c.p.p., laddove prevedono la conversione della pena pecuniaria in detenzione, fonte di evidente ineguaglianza tra i condannati basata sul reddito.
[11] Le fasi sono così descritte da Corte cost. Corte cost. sent. 279/19.
[12] Il p.m. perde il potere di accertamento della insolvibilità e di disporre la conversione e agisce solo come “tramite”, trasmettendo gli atti.
[13] Così la massima di Sez. 1, Sentenza n. 26358 del 09/06/2005 Cc. (dep. 15/07/2005 ) Rv. 232056: Presupposto della conversione delle pene pecuniarie è la verifica dell 'effettiva insolvibilità del condannato, da intendersi come permanente impossibilità di adempiere, ed è distinta dalla situazione di insolvenza, che rappresenta invece uno stato transitorio, che consente il differimento o la rateizzazione della pena pecuniaria.
[14] Cfr, da ultimo, Sez. 1, Sentenza n. 25355 del 16/05/2014 Cc. Rv. 262545: “Il provvedimento di rateizzazione della pena pecuniaria, attribuito alla competenza del magistrato di sorveglianza dall'art. 660, comma terzo, cod. proc. pen., è subordinato alla esistenza di "situazioni di insolvenza" e non presuppone affatto la richiesta di conversione della pena pecuniaria da parte del pubblico ministero, alla quale deve darsi luogo, ai sensi del precedente comma secondo dello stesso art. 660 cod. proc. pen., solo in presenza della diversa condizione costituita dall'accertata "impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa". In precedenza, ai sensi dell’art. 238 t.u. spese di giustizia, poi dichiarato incostituzionale, in senso contrario si era pronunciata la giurisprudenza di merito che riteneva inammissibile la richiesta prima del procedimento di conversione (cfr. Tribunale Cassino 13.11.2002 in giur. Merito 2003, 2050).
[15]Entro un mese dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna, la cancelleria del giudice dell'esecuzione (Campione penale) deve notificare al condannato l'invito al pagamento. L'invito contiene l'intimazione di pagare entro il termine di 30 giorni e di depositare la ricevuta di versamento entro 10 giorni dall'avvenuto pagamento.
Per effettuare il pagamento occorre però aspettare la notifica da parte del Campione penale e deve essere fatto per intero, salvo rateizzazione (art. 212 T.U.).
Se il condannato non paga entro il termine previsto (sostanzialmente entro un mese e 10 giorni dalla notifica dell'invito), la cancelleria iscrive a ruolo la somma dovuta dal condannato provvedendo contestualmente alla consegna della relativa pratica al concessionario per la riscossione dei tributi. (art. 213/223 T.U.. L’art.)
A questo punto il concessionario ha un termine di 4 mesi per notificare la cartella di pagamento al debitore, contenente l'intimazione al pagamento entro 60 giorni, decorsi i quali il concessionario può procedere alla riscossione coattiva tramite esecuzione forzata da parte degli ufficiali esattoriali.
Se anche tale procedura esecutiva ha esisto negativo il concessionario provvede a darne comunicazione al Campione penale il quale, a sua volta, da impulso alla successiva fase della procedura di conversione della pena pecuniaria
[16] A. FAMIGLIETTI, Rateizzazione e conversione delle pene pecuniarie: evoluzioni ed involuzioni normative e giurisprudenziali Giur. merito, fasc.1, 2004, pag. 210, MARCHESELLI, L'esecuzione delle pene pecuniarie tra inerzie ed eccessi di delega del legislatore, in Giust. pen., 2003, II, 672.
[17] Sul punto, L. GOISIS, L'effettività (rectius, ineffettività) della pena pecuniaria in Italia, oggi, in Diritto penale contemporaneo, 13 novembre 2012, p. 7
[18] Art. 238-bis t.u. spese di giustizia (Attivazione delle procedure di conversione delle pene pecuniarie non pagate)
Entro la fine di ogni mese l'agente della riscossione trasmette all'ufficio, anche in via telematica, le informazioni relative allo svolgimento del servizio e all'andamento delle riscossioni delle pene pecuniarie effettuate nel mese precedente. L'agente della riscossione che viola la disposizione del presente comma è soggetto alla sanzione amministrativa di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112, e si applicano le disposizioni di cui agli articoli 54, 55 e 56 del predetto decreto.
2. L'ufficio investe il pubblico ministero perché attivi la conversione presso il magistrato di sorveglianza competente, entro venti giorni dalla ricezione della prima comunicazione da parte dell'agente della riscossione, relativa all'infruttuoso esperimento del primo pignoramento su tutti i beni. 3. Ai medesimi fini di cui al comma 2, l'ufficio investe, altresì, il pubblico ministero se, decorsi ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte dell'agente della riscossione e in mancanza della comunicazione di cui al comma 2, non risulti esperita alcuna attività esecutiva ovvero se gli esiti di quella esperita siano indicativi dell'impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa. 4. Nei casi di cui ai commi 2 e 3, sono trasmessi al pubblico ministero tutti i dati acquisiti che siano rilevanti ai fini dell'accertamento dell'impossibilità di esazione.
5. L'articolo di ruolo relativo alle pene pecuniarie è sospeso dalla data in cui il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente.
6. Il magistrato di sorveglianza, al fine di accertare l'effettiva insolvibilità del debitore, può disporre le opportune indagini nel luogo del domicilio o della residenza, ovvero dove si abbia ragione di ritenere che lo stesso possieda altri beni o cespiti di reddito e richiede, se necessario, informazioni agli organi finanziari. 7. Quando il magistrato di sorveglianza competente accerta la solvibilità del debitore, l'agente della riscossione riavvia le attività di competenza sullo stesso articolo di ruolo. 8. Nei casi di conversione della pena pecuniaria o di rateizzazione della stessa o di differimento della conversione di cui all'articolo 660, comma 3, del codice di procedura penale, l'ufficio ne dà comunicazione all'agente della riscossione, anche ai fini del discarico per l'articolo di ruolo relativo. 9. Le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 trovano applicazione anche per le partite di credito per le quali si è già provveduto all'iscrizione a ruolo alla data di entrata in vigore delle medesime.
[19] F. FIORENTIN, La riforma della procedura di conversione delle pene pecuniarie nella nuova disciplina introdotta dal Testo Unico in materia di spese di giustizia, in www.diritto.it, Osservatorio sul diritto dell'esecuzione penale, Commenti, 17 settembre 2002. A. FAMIGLIETTI, Rateizzazione, cit., pag. 196.
[20]E. QUARTA, “Il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inevase. L'art. 238-bis t.u. spese di giustizia tra mondo omerico, spada di Damocle e logos eraclitèo, 2018 ha suggerito che l’art. 238 bis t.u. spese di giustizia, portando l'ufficio recupero crediti a investire il pubblico ministero affinché attivi la conversione presso il magistrato di sorveglianza competente anche in caso di mancata effettuazione di procedure di pignoramento potenzialmente fruttuose, potrebbe aver dotato il pubblico ministero, in caso accertasse l’inadeguatezza della procedura esecutiva, del potere di investire l'ufficio incaricato della riscossione per l'ulteriore corso della procedura esecutiva stessa, ossia procedere alla rimessione degli atti al concessionario (Agenzia delle Entrate-Riscossione) perché esperisca l'attività di riscossione coattiva necessaria, anziché trasmettere subito gli atti al magistrato di sorveglianza per l'attivazione del procedimento di conversione.
[21] V. Relazione illustrativa allo Schema di decreto legislativo recante attuazione della legge 27 settembre 2021 n. 134 recante delega al governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari. P. 181 ss.
[22] Evidenzia questa criticità la Relazione allegata alla delibera 3/2017 della Sezione Centrale di Controllo sulla Gestione Delle Amministrazioni Dello Stato il Recupero Delle Spese di Giustizia e i Rapporti Convenzionali tra Il Ministero della Giustizia ed Equitalia Giustizia. L’analisi compiuta in dettaglio dalla Corte dei Conti fa emergere i seguenti nodi problematici: l’irrazionalità del controllo operato su Equitalia Giustizia, dapprima da Equitalia s.p.a, a sua volta controllata dall’Agenzia delle Entrate, e oggi demandato al Ministero dell’economia e delle finanze, a seguito del d.l. n. 193/2016; il fatto che il modello adottato “si è risolto essenzialmente nella sostituzione di parte dell’attività precedentemente svolta dagli operatori degli uffici giudiziari con quella demandata agli operatori di Equitalia giustizia. É mancato un decisivo intervento nella direzione dell’effettiva reingegnerizzazione dell’intero processo gestionale, che a giudizio della Corte dovrebbe costituire lo strumento principale da utilizzare nell’innovazione dei processi operativi della pubblica amministrazione”; la reiterazione delle proroghe legislative della comunicazione d’inesigibilità che ha determinato la caducazione della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva (art. 660 c.p.p) una volta decorso il termine di estinzione, sul presupposto che lo stesso non sia suscettibile di interruzione, evidenziando altresì l’urgenza “di un intervento normativo per rendere compatibili i tempi previsti per l’esame delle comunicazioni di inesigibilità con la citata disposizione penale”.
[23] Ai sensi dell’art. 48 ss. legge 354/1975, al condannato e all’internato è concesso di trascorrere parte del giorno fuori dall’Istituto di pena per partecipare ad attività lavorative, istruttive e utili al reinserimento sociale, in base a un programma di trattamento, la responsabilità del quale è affidata al direttore dell’Istituto di pena.
[24] Dalla Relazione: In Germania la pena pecuniaria non eseguita si converte in pena detentiva quale che sia la ragione del mancato pagamento (§ 40 Codice penale tedesco). Si afferma comunemente che senza la prospettiva della conversione in una pena limitativa della libertà personale, in caso di mancato pagamento, multa e ammenda sono come “una tigre senza denti”. E si rileva tra gli studiosi che sarebbe opportuno considerare il caso dell’insolvibilità in ragione delle condizioni economiche. Analogo modello è previsto in Svizzera (art. 36 del codice penale), in Austria (§19 del codice penale) e in Belgio (art. 40 del codice penale). La possibilità di infliggere una pena detentiva, in caso di mancato pagamento delle pene pecuniarie, è prevista, secondo modelli di disciplina maggiormente articolati, anche in Francia (artt. 749 ss. del codice di procedura penale), in Spagna (art. 53 del codice penale) e in Portogallo (art. 49 del codice penale).
[25] Il procuratore generale presso la Corte di cassazione non detiene funzioni esecutive e, in caso di annullamento con rinvio, la competenza in executivis è assegnata alla corte d’appello — quale giudice di rinvio — ed alla procura generale presso la corte d’appello. In caso di modifica della sentenza in appello, è la natura “sostanziale” o meno dell’intervento del giudice di secondo grado a determinare la competenza in executivis anche del pubblico ministero. È considerato intervento “sostanziale” quello sulla qualificazione giuridica, sulla responsabilità, sul riconoscimento e comparazione delle circostanze, viceversa quello sulla misura della pena e sulla sospensione condizionale non è tale da determinare spostamento della competenza.
[26] Questo il testo della nota: “L'introduzione dell'art. 238 bis D.P.R. 2002, n. 115 in materia di disciplina del procedimento di conversione delle pene pecuniarie non pagate, nello stabilire che gli uffici competenti compulsino il pubblico ministero perché attivi la conversione presso il magistrato di sorveglianza competente, nulla dice in ordine ai criteri di individuazione del pubblico ministero che, ai sensi dell'art. 660~ comma 2, c.p.p., è tenuto a promuovere tale procedura.
In assenza di indicazioni interpretative precise, in prima battuta la questione è stata risolta dai pubblici ministeri, nella maggioranza dei casi, individuando la competenza del pubblico ministero presso il giudice dell'esecuzione.
Sulla questione sono poi intervenuti due decreti della Procura Generale della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione (n. 370 e n. 473 del 2018) su altrettanti contrasti negativi tra pubblici ministeri, che hanno concluso invece nel senso che la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza non può essere fatta direttamente dal pubblico ministero presso il giudice dell'esecuzione, ma deve passare per il tramite di quello competente ad esercitare le funzioni presso lo stesso ai sensi dell'art. 678 c.p.p ..La soluzione interpretativa è stata elaborata attraverso una lettura analogica dell'art. 658 c.p.p., attinente all'individuazione del pubblico ministero competente ad attivare la procedura di applicazione di una misura di sicurezza ordinata con sentenza, rilevandosi peraltro che, alla luce del disposto dell'art. 667 comma 4 c.p.p., qualora si intenda che il pubblico ministero competente a promuovere la conversione della pena pecuniaria. inesigibile sia quello dell'esecuzione, ne deriverebbe una distonia di sistema per cui il pubblico· ministero che assume l 'iniziativa propositi va sarebbe diverso da quello legittimato ad impugnarla. La regola che deve guidare il Pubblico Ministero nella promozione di istanze di conversione della pena pecuniaria inesigibile. La soluzione giuridica adottata dalla Procura Generale della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione (n. 370 e n. 473 del 2018) su contrasti negativi tra pubblici ministeri appare condivisa da tutti i Procuratori Generali intervenuti i quali peraltro hanno evidenziato come la magistratura di sorveglianza nulla ha mai osservato sul punto. Conclusivamente può affermarsi che, ai fini propulsivi della procedura di sostituzione della pena pecuniaria inesigibile ai sensi degli artt. 238 bis D.P.R. n. 115/2002 – 660 comma 2 c.p.p., il pubblico ministero cui spetta la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza competente è quello individuato ai sensi dell'art. 678 comma 3 c.p.p. e non il pubblico ministero presso il giudice dell'esecuzione”.
[27] Cass., Sez. 1, sent. n. 18886 del 28/02/2019 Rv. 275472: La legittimazione a proporre ricorso per cassazione avverso i provvedimenti del magistrato di sorveglianza spetta, in via esclusiva, al procuratore della Repubblica presso il tribunale del luogo in cui ha sede l'ufficio di sorveglianza, ai sensi dell'art. 678, comma 3, cod. proc. pen. (Conf. Sez. 1, n. 1337/95, Rv. 201614-01; Sez. 1, n. 1320/95, Rv. 200594-01).
[28] La giurisprudenza ha sancito che in caso di detenzione il magistrato di sorveglianza competente è quello presso l’istituto di detenzione, non quello individuato ai sensi dell’art. 107 l.698/81 (cfr. Cass. Sez. 1 - , Sentenza n. 4392 del 08/01/2020 Cc. (dep. 03/02/2020 ) Rv. 278160)
[29] Gli artt. degli artt. 196 e 197 cod. pen. dispongono che, in caso di mancato pagamento della pena pecuniaria da parte del civilmente obbligato, la conversione ha luogo nei confronti del condannato, secondo il modello della responsabilità penale.
[30] Il registro esecuzioni, come tutti i registri giudiziari, è informatico e prende l’acronimo di SIEP (sistema informativo dell’esecuzione penale) I dati vengono inseriti in maschere e il sistema provvede anche a redigere, sulla base dei dati inseriti, i provvedimenti- tipo da sottoporre al p.m., in modo da garantire uniformità per tutti gli uffici di procura. Il sistema possiede anche un programma che consente di calcolare, sulla base del calendario effettivo, i giorni di residuo pena da scontare, consentendo di ridurre al minimo il rischio di errori. Vedi Circolare Ministero Giustizia 14 gennaio 2006 - Tenuta informatizzata dei registri nei settori esecuzione penale e sorveglianza.
[31] Vedi Circolare Ministero Giustizia 14 gennaio 2006 - Tenuta informatizzata dei registri nei settori esecuzione penale e sorveglianza
[32] La dottrina ha precisato che la funzione del p.m.. quale organo dell’esecuzione, ha un ruolo di controllo della chiarezza e precisione della attività esecutiva: F. Fiorentin – G.G. Sandrelli, L’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali, CEDAM, Padova, 2007, p. 98.
[33] Secondo la Suprema Corte in questi casi infatti ci si trova di fronte ad un caso assimilabile a quello della declaratoria di illegittimità costituzionale. A queste conclusioni si è giunti sia nel caso di detenzione di CD privi del contrassegno SIAE, sia con riferimento al reato di inottemperanza all’ordine di espulsione, di cui all’art. 14 c.5 ter del D.L.vo 286/1998. Sul contrassegno SIAE, vedi Cass. pen.,, Sez. VII, 6 marzo 2008, n. 21579 non massimata; sull’inottemperanza all’ordine di espulsione, vedi per tutte Cass., Sez. I, 29 aprile 2011 n. 18586, RV. N. 250233: « L'efficacia diretta nell'ordinamento interno della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2008/115/CE (cosiddetta direttiva rimpatri) impone la disapplicazione dell'art. 14, comma 5-ter, D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, con il conseguente annullamento senza rinvio, per non essere il fatto più previsto dalla legge come reato, della sentenza di condanna. (V. Corte di Giustizia UE 28 aprile 2011, El Didri)».
[34] Più di recente Cass. Sez. I, 7 ottobre 2009, n. 41325, RV., n. 245060: «È inammissibile l'istanza con la quale il P.M. chieda al giudice dell' esecuzione di esprimere un parere preventivo sull'interpretazione del giudicato (nella specie circa l'avvenuta applicazione della recidiva) in vista dell'adempimento di doveri gravanti esclusivamente su di lui per l' esecuzione della pena.»; Cass., Sez.I, 24 novembre 2010, n. 43500, RV., n. 248988, proprio in tema di indulto: «È inammissibile la richiesta del P.M. al giudice dell'esecuzione diretta non già all'applicazione dell'indulto ma a determinare se ed in quale misura debba avvenire detta applicazione previa interpretazione del giudicato, spettando tale compito allo stesso P.M. ».
[35] Le sentenze cui si fa riferimento sono Corte cost., 12 febbraio 2014, n. 32 e da ultimo, Corte Cost., 8 marzo 2019, n. 40. In via generale, la giurisprudenza ha escluso in sede esecutiva possa essere messa in discussione la pena irrogata, tranne nel caso in cui «la sanzione irrogata non sia prevista dall'ordinamento giuridico ovvero quando, per specie e quantità, risulti eccedente il limite legale ma non quando risulti errato il calcolo attraverso il quale essa è stata determinata - salvo che non sia frutto di errore macroscopico - trattandosi di errore censurabile solo attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione della sentenza». Diverso è tuttavia il caso in cui la pena sia stata “riconosciuta” illegale perché contemplata in norma dichiarata incostituzionale, con effetti retroattivi, situazione in cui le Sezioni Unite della Cassazione, a partire dalla nota sentenza “Gatto” hanno espressamente riconosciuto al p.m. il dovere di intervenire, attivandosi per chiedere al giudice la “rideterminazione” della pena inflitta, in considerazione del divieto, immanente al sistema, di mantenere nell’ordinamento una norma “originariamente incostituzionale” con effetti sulla libertà personale. Unico limite alla rideterminazione, l’esaurimento del c.d. “rapporto esecutivo”.
[36] Sez. 5, Sentenza n. 370 del 19/10/2021 Cc. (dep. 10/01/2022 ) Rv. 282420 – 01: In tema di stupefacenti, sussiste l'interesse del condannato ad ottenere la rideterminazione "in executivis" della pena divenuta illegale a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019 qualora, pur interamente espiata la pena detentiva, non sia stata ancora eseguita quella pecuniaria contestualmente irrogata, atteso che, agli effetti dell'art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il rapporto esecutivo si esaurisce soltanto con l'estinzione di entrambe tali pene.
[37] Sul nuovo art. 660 c.p.p. e in generale sul procedimento, vedi la Relazione dell’Ufficio del Massimario della Cassazione, 5 gennaio 2023, p. 215 ss.
[38] Il numero CUI è il Codice univoco individuo, introdotto dalla legge 30 giugno 2009 n. 85. Il codice è generato automaticamente dal sistema AFIS (automatic fingeprints identification system) per l’identificazione della persona attraverso le impronte digitali sul casellario centrale delle identità presso il Ministero degli interni.
[39] Una volta ricevuto l’estratto esecutivo della sentenza con ordine di demolizione, il pubblico ministero deve svolgere taluni accertamenti preventivi onde verificare la persistenza dei presupposti per l’esecuzione della demolizione: accertare, informandosi presso il Comune, se eventualmente l’opera sia stata demolita; se, al contrario, siano intervenuti provvedimenti dell’Amministrazione (ad esempio acquisizione al patrimonio del Comune ai sensi dell’art. 1 comma 3 d.lgs. n. 380 del 2001, ovvero emissione di delibera del Consiglio Comunale di prevalente interesse pubblico alla conservazione dell’opera); se risulti avanzata istanza di condono edilizio da parte dell’interessato o siano intervenuti provvedimenti amministrativi di condono. In caso negativo, il pubblico ministero da avvio alla procedura esecutiva, notificando al condannato o comunque all’obbligato l’ingiunzione a demolire le opere dichiarate abusive ed a ripristinare lo stato dei luoghi, con allegata copia del dispositivo della sentenza di condanna. Il contenuto dell’ingiunzione, provvedimento non previsto dalla legge ma di origine pretoria, è quello tipico dell’ordine di esecuzione, vale a dire il riferimento alla sentenza che deve essere eseguita, il titolo e l’epoca del commesso reato, nonché l’oggetto dell’esecuzione con l’indicazione delle opere che in concreto devono essere rimosse e distrutte. La prevalente giurisprudenza ritiene che la notifica dell’ingiunzione a demolire al condannato, finalizzata ad evitare al condannato aggravi di spesa consentendogli di aderire spontaneamente, sia presupposto essenziale della demolizione; l’eventuale omissione ne determina la nullità (cfr. Cass., Sez. III, 9 marzo 2011, n. 13345, in C.E.D. Cass., n. 249922; Cass., Sez. III, 2 ottobre 2011, n. 46209, ivi, n. 251593; Cass., Sez. III, 6 luglio 2011, n. 3589, ivi, n. 251871. ). Al fine di fornire all’interessato la possibilità di ottemperare all’ordine impartito nelle modalità per lui economicamente più vantaggiose, il provvedimento solitamente contiene l’indicazione di un termine entro il quale l’interessato deve effettuare la demolizione.
Decorso inutilmente il termine per la spontanea esecuzione e in mancanza di elementi ostativi, il pubblico ministero dà inizio al procedimento, emettendo ordine di esecuzione coattiva alla demolizione, contenente le prescrizioni attuative necessarie. Dell’effettivo inizio delle operazioni demolitorie viene dato congruo preavviso all’esecutato (e ad altri eventuali interessati), con l’avvertimento che saranno a lui addebitate, con apposito provvedimento, le spese relative.
[40] Viene indicata come possibile modalità può essere il pagamento mediante PagoPA.
Nell’ambito dei possibili scambi internazionali, quale Sostituto Procuratore presso la Procura della Repubblica di Trapani ho avuto la possibilità di prendere parte al programma Justfree a Parigi della durata di quattro giorni, risalente a novembre 2021.
Prima di illustrare l’esperienza parigina, intendo premettere che tale è stata la mia prima esperienza di questo tipo, tuttavia gli spunti di interesse e riflessione, il concreto confronto con i colleghi di tutta Europa, mi ha entusiasmato e mi ha spinto a fare domanda per altri corsi internazionali, ai quali, successivamente, ho preso parte. Da ultimo, nel novembre 2022, in Romania per uno scambio EJTN di due settimane.
Diversamente dai programmi di scambio di breve o lunga durata, il corso a cui ho preso parte non era finalizzato alla presentazione del sistema giudiziario francese, quanto piuttosto a creare una tavola rotonda alla quale facessero parte rappresentanti, sia giudicanti che requirenti, dei vari Paesi dell’Unione europea, per confrontarsi specificamente sul tema del rapporto tra giustizia e media anche alla luce della direttiva 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 09.03.2016.
Pur senza pretesa di esaustività, stante la complessità del tema, per comprendere a pieno l’utilità dello scambio, si ritiene opportuna una breve premessa. La direttiva sopracitata prevede il diritto dell’indagato/imputato a essere considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia dimostrata in via definitiva oltre ogni ragionevole dubbio (art.3); il divieto per le autorità pubbliche di rendere dichiarazioni pubbliche contrario alla suddetta presunzione d’innocenza (art.4, par.1); la divulgabilità di informazioni inerenti i procedimenti penali solo qualora ciò sia necessario per motivi connessi all’indagine o per l’interesse pubblico (art.4, par.3); il divieto di presentare l’indagato/imputato, in tribunale o in pubblico, come colpevole attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica, salve per ragioni di sicurezza (art. 5); l’onere per l’accusa di provare la colpevolezza degli indagati e imputati, salvo l’eventuale obbligo per il giudice o il tribunale di ricercare prove a carico e a discarico e il diritto della difesa di produrre prove in conformità del diritto nazionale applicabile (art.6, par.1); il principio secondo il quale ogni dubbio sulla colpevolezza è valutato in favore dell’indagato/imputato (art.6, par.2); il diritto dell’indagato/imputato di restare in silenzio e di non autoincriminarsi rispetto al reato che gli viene contestato e il divieto di utilizzare contro l’indagato/imputato l’esercizio de predetti diritti (art.7, par.5); il diritto dell’indagato/imputato a presenziare al proprio processo (art.8, par.1 e 2); l’obbligo per gli Stati di prevedere un rimedio effettivo in caso di violazione dei diritti previsti dalla direttiva (art. 10).
L’ordinamento italiano, in un primo momento, non aveva esercitato la delega di cui alla L. n. 163 del 25 ottobre 2017 ritenendo erroneamente che l’ordinamento interno fosse già conforme ai contenuti della direttiva europea. Tuttavia, alla luce delle criticità rilevate dalla Commissione europea, e che avevano dato luogo all'apertura di procedure di infrazione nei confronti di altri paesi dell’Unione, si è deciso di procedere a una nuova delega con la L. 22 aprile 2021, n. 53, recepita poi nel D.Lgs. 8 novembre 2021, n. 188. Da ultimo il quadro viene poi ulteriormente implementato dalla risoluzione del CSM in data 11 luglio 2018, contenente le linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale, e costituente coerente sviluppo delle precedenti delibere del CSM in data 24 settembre 2008 e in data 20 febbraio 2008, dedicate al tema dei rapporti tra l’ufficio del pubblico ministero e gli organi di informazione.
Tanto premesso, il tema centrale dello scambio oggetto del presente articolo è stato proprio quello di confrontarsi sulle diverse esperienze europee in relazione al delicato bilanciamento tra le opposte istanze in tema di informazione giudiziaria: da un lato esiste il diritto di cronaca giudiziaria che impone che i cittadini, nel nome dei quali la giustizia è amministrata, siano portati a conoscenza dei fatti di maggior interesse sociale, culturale, politico e dall’altro il diritto dell’indagato o dell’imputato che, stante la sopracitata presunzione di innocenza, potrebbe vedersi coinvolto in una spettacolarizzazione delle inchieste giudiziarie aprendo il sempre più sensibile tema della cd. “giustizia mediatica”. È la questione che parte della dottrina definisce il problema del processo “spettacolo”, è l’infotainment che caratterizza a volte il rapporto dei media con la giustizia con la possibile conseguenza che la decisione del pubblico “anticipi” quella del giudice, con il rischio che quest’ultima passi sotto traccia una volta adottata, anche se diversa a quella iniziale[1].
Il convegno, quindi, si articolava in due momenti. La mattina era dedicato a incontri frontali durante i quali i relatori ricostruivano sia le normative interne di riferimento che le criticità del proprio paese. Il profilo di maggiore interesse è sicuramente l’aver scelto diverse professionalità per tale scopo, avendo avuto cura di selezionare rappresentanti di ciascuna delle esigenze descritte. Erano pertanto presenti magistrati, avvocati e giornalisti impegnati nella cronaca giudiziaria.
Durante il pomeriggio, invece, il programma prevedeva la composizione in sottoclassi, composte da una decina di persone, nelle quali era previsto un confronto tra tutti i presenti su temi di assoluto interesse. Per quanto mi riguarda, tra l’altro, ho partecipato a una sezione nella quale la referente era la responsabile della gestione dei social network della Procura di Amsterdam.
In particolare, ha spiegato come in Olanda – così come in Francia – la maggior parte delle articolazioni della giustizia siano dotate di profili sui maggiori social network (Instagram, Facebook, Tiktok) e il suo lavoro consistesse, sostanzialmente, nel fornire l’informazione provvisoria di determinate operazioni, nonché seguire l’andamento di “gradimento” dell’ente di riferimento, rispondendo in via ufficiale ad eventuali disinformazioni o ai cd. “haters”. Spiegava come, pur non laureata in giurisprudenza ma in marketing, fosse in costante contatto con i magistrati e la polizia dai quali traeva le informazioni, e per loro conto fornisse le notizie ufficiali da diramare all’esterno. È stato particolarmente interessante prendere atto di come in molti paesi vi sia una particolare attenzione alle modalità di esternazione di informazioni relative a indagini e/o a operazioni di polizia. Tale attenzione verterebbe non solo sulla selezione dei contenuti ma anche alle modalità espositive: questa è d’altronde la ragione per cui si è scelto, in alcuni paesi, di individuare professionalità che non siano “tecniche” e che pertanto riformulino i contenuti dati loro dall’Autorità giudiziaria in termini che siano immediatamente comunicabili all’esterno anche tramite “post”.
Durante il confronto è emerso, inoltre, come molti paesi abbiamo questo sistema di informazione, non comprendendo come nel nostro ordinamento non fosse prevista un apposito profilo social network per ciascuna articolazione della giustizia. Ancor più incredibile appariva per i miei colleghi europei, e per la coordinatrice del gruppo, come nel nostro ordinamento l’informazione non fosse veicolata da organi interni preposti alla comunicazione (con competenze specifiche in materia), ma sia demandata direttamente ai magistrati e in particolare al Procuratore. Analogamente, molta distanza si è riscontrata sull’assenza della prassi da parte dei Tribunali di merito di rilasciare informazioni provvisorie, laddove ho potuto riscontrare come il ruolo del Presidente del Tribunale, in relazione alle comunicazioni di notizie di interesse pubblico, in molti paesi europei sia assolutamente assimilabile a quello che nell’ordinamento italiano è riservato al Procuratore. Ovviamente tale modalità accentrata, si diceva, potrebbe frustrare anche la professionalità dei giornalisti di cronaca giudiziaria che hanno tutto l’interesse, non solo a comunicare e riportare all’esterno le informazioni giudiziarie, ma anche eventualmente contestualizzare financo criticare, nel rispetto del principio di continenza, i provvedimenti dell’Autorità giudiziaria.
Si tratta di temi particolarmente delicati, in relazione ai quali il corretto bilanciamento di interessi in gioco subisce inevitabilmente la storia sociale, politica e giudiziaria di ciascun paese, sicché tale diversità di presupposti ha virtuosamente condotto a illustrare le esperienze di ciascun in modo dubitativo e costruttivo di fronte a prospettive diverse.
Accanto a questo tema si è poi affrontato quello relativo all’uso personale dei social network da parte dei magistrati.
Anche rispetto a questa questione, gli approcci nei vari paesi sono molto diversi tra loro: da lato c’è chi prevede un account ufficiale – ogni magistrato, infatti, si vede assegnare unitamente all’email istituzionale un account facoltativo ma istituzionale per i social network più popolari – e chi invece esclude l’utilizzo di social network nell’ambito dell’attività lavorativa, e anzi integra il quadro deontologico con risoluzioni emanati dagli organi di autogoverno o delle rappresentanze sindacali in punto di termini e modalità di utilizzo, anche dei profili personali.
Sul punto si richiama il contenuto della relazione del Massimario della Suprema Corte di cassazione in tema di “attività secondarie e l’uso dei social media da parte dei magistrati” [2] nonché della delibera del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa che, nella seduta del 25 marzo 2021, ha illustrato le linee guida in tema di uso dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social media da parte dei magistrati amministrativi. In sintesi, è un provvedimento – che secondo la relazione del massimario riportata in nota deve essere valorizzata anche nell’ambito dei magistrati ordinari – in cui si richiama in primis la necessità che l’uso dei social media avvenga in maniera tale da garantire il rispetto dei diritti dei consociati e la dignità, l’integrità l’imparzialità e l’indipendenza del magistrato e dell’intero corpo della magistratura. Inoltre, esplicitano, con riguardo ai magistrati amministrativi, l’esigenza di rispetto del canone di continenza espressiva, che, per i magistrati ordinari, è già desumibile dalle generali regole deontologiche[3] che prescrivono la sobrietà e la compostezza dei comportamenti.
Sono molto diverse quindi le soluzioni assunte dai diversi Paesi e, dal confronto costruitosi durante i diversi incontri, è stato particolarmente interessante ricostruire non solo le soluzioni adottate da ciascun paese, ma soprattutto il percorso logico che ha condotto i diversi ordinamenti a preferire una o l’altra impostazione. A tale incontro si è pensato di fare seguire ulteriori incontri da svolgere con modalità similari, in altri sedi europee, proprio per proseguire in questo percorso di analisi volto a uniformare i diversi ordinamenti.
In conclusione, ritengo assolutamente formativa, utile e virtuosa la promozione di iniziative che abbiano un risvolto internazionale, e soprattutto europeo. In generale, è auspicabile continuare a sviluppare momenti di incontro volti a uniformare, nel pieno rispetto dell’autonomia di ciascun paese, alcuni aspetti della giustizia, ciò a maggior ragione alla luce dell’istituzione della Procura europea. Penso che il confronto con colleghi in servizio in altri paesi sia occasione di grandissimo arricchimento professionale e per questo, non solo continuerò a fare domande di partecipazione a tali scambi, ma penso sia utile per ciascuno di prendervi parte, costituendo crescita personale e professionale.
[1] https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/5408-ferrarelladpctrim317.pdf
[2]QUESTIONARIO_SULLE_ATTIVITA_SECONDARIE_DEI_GIUDICI_REPUBBLICA_CECA_.pdf (cortedicassazione.it)
[3] Codice etico | Associazione Nazionale Magistrati (associazionemagistrati.it)
Magistrati sul campo, magistrati nella vita. Il Torneo A.N.M. di calcio
di Ignazio Fonzo, Procuratore aggiunto e allenatore UEFA B
Un giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Solle: “Come spiegherebbe a un bambino che cosa è la felicità?”. “Non glielo spiegherei” rispose. “Gli darei un pallone per farlo giocare”(Eduardo Galeano).
“Chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio” (José Mourinho).
“Il calcio è la cosa più importante delle cose meno importanti” (Arrigo Sacchi).
“Alcuni pensano che il calcio sia una questione di vita o di morte. Non sono d'accordo. Posso assicurarvi che è molto, molto di più” (Bill Shankly).
Queste frasi, la prima riportata dal grande scrittore sudamericano le altre di tre formidabili maestri di questo gioco, racchiudono la vera essenza del calcio.
Oreste Tolone (ricercatore senior di Filosofia morale presso l’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara) ha curato l’edizione del libro Filosofia del calcio di Bernhard Welte.
Ciò che emerge nel saggio, a proposito della popolarità planetaria del football, é che” questo successo avrebbe radici più profonde. Esso nascerebbe dal fatto che nel calcio troverebbe piena espressione un archetipo del comportamento umano, una disposizione fondamentale dell’uomo in campi di battaglia, in gare di rivalità con avversari a cui contendere una vittoria; ma allo stesso tempo una predisposizione della natura umana alla ricerca dell’ordine continuamente desiderato e richiesto. Nel calcio, più che altrove, impulso agonistico e rituale agonistico – la regolamentazione a cui il combattimento sottostà – trovano un pieno equilibrio e una piena possibilità di manifestazione”.
Per Welte il calcio ha addirittura una funzione escatologica, ed a questo proposito il filosofo, come sottolinea Tolone, sostiene che il calcio “é emblema di una irrinunciabile tensione dell’uomo verso una società e un mondo più ordinati e pacificati. L’impulso agonistico pone sin da subito l’’uomo all’’interno di una partita, di un campo di scontro nel quale esercitare questa sua innata propensione alla contesa; contesa che, nonostante i singoli scontri e le singole battaglie, continua a riproporsi incessantemente, partita dopo partita, quasi a dimostrazione di una sua radice mitica. La gara di rivalità tra avversari, tuttavia, è sempre pronta a trasformarsi in uno scontro di ostilità fra nemici, il cui esito è incerto fino alla conclusione. Il fatto, tuttavia, che esistono regolamenti e arbitri che presiedono all’applicazione dei regolamenti, serve nel gioco e nel calcio a impedire che avvenga questo travalicamento. Il gioco sportivo è una sorta di anticipazione del principio speranza di Ernst Bloch, la testimonianza che una forma di convivenza pacifica e pacificata, ordinata è possibile: la testimonianza di un confronto-scontro civile, di vivaci conflitti, che indicano un perfetto equilibrio tra la vitalità dell’’esistenza e l’ordine. In termini teologici giocare a calcio, contenere i conflitti all’interno di un rituale prelude a una forma di convivenza perfetta, a una forma di vita irrealizzabile nella storia, e che dunque trova un suo pieno corrispettivo in ciò che nella Bibbia viene definito il Regno di Dio. L’ agonismo sportivo, nella sua capacità di consentire una tensione pacifica, è un’ anticipazione del Regno di Dio”.
Il calcio come “metafora della vita”, “perché la vita viene giocata con le carte di cui disponiamo, facendo i conti con l’imprevedibile che sfugge al nostro controllo, contendendo spesso ad altri concorrenti il risultato finale. Questo scenario, direbbe Welte, vede l’uomo agire in un campo di contese – la concorrenza nel libero mercato potrebbe esserne un esempio – che rischia continuamente di trasformarsi in un campo di battaglia, se non intervengono regolamenti, leggi, norme a contenere tale rischio; nella vita spesso inutilmente, nel gioco e nello sport quasi sempre con successo.”
Dopo questa lunga introduzione, forse noiosa e supponente tenendo conto che anche il calcio (lo sport tutto) ha inevitabilmente le sue magagne ed i suoi lati tristi ed oscuri come ben noto, qualcuno si chiederà dove si vuole andare a parare (tanto per restare in tema …).
È semplice: dal 23 al 25 aprile 2023 a Coverciano (FI) presso il Centro Tecnico Federale della FIGC si disputerà la IX edizione del Torneo di calcio ad 8 ANM.
La magistratura, ed i singoli magistrati, non vivono in una turris eburnea, non si rinchiudono in attività slegate dagli affari pratici della vita di ogni giorno, interagiscono con il mondo, figli del loro tempo.
Ed in questo essere, come é normale, espressione della società sono anch’ essi (i magistrati, ça va sans dire) appassionati, tifosi e, non ci si stupisca, calciatori (sic!), allenatori (doppio sic !) e dirigenti (triplo sic!).
Ed é così che dal 2015, dopo un’edizione estemporanea del 2009 limitata a rappresentative regionali vinta dalla selezione siciliana, grazie all’ iniziativa della sezione ANM piemontese il Torneo di calcio ad 8 é stato nuovamente organizzato con squadre rappresentative delle Corti d’Appello.
Dalle dieci squadre presenti nella città sabauda (Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Lecce, Napoli, Palermo, Roma, Torino e Venezia), si è arrivati alle diciassette presenti all’ultima edizione perugina del 2022 ed annunciate per l’edizione 2023 (si sono aggiunte Abruzzo, Caltanissetta, Catanzaro, Messina, Milano, Salerno, Partenope – Napoli 2, Reggio Calabria, Umbria, si è persa per strada, per sopravvenuta mancanza di vocazioni, Venezia…).
Può subito sottolinearsi che, nel corso degli anni, la partecipazione sempre crescente ha fatto sì che, in un clima di grande empatia, il numero di magistrati – calciatori (si fa sempre per dire…) sia esponenzialmente cresciuto fino a superare le 300 unità.
Gli sforzi organizzativi sono diventati non indifferenti, in un contesto ove principalmente si fa ricorso all’autofinanziamento, non trascurando la possibilità di fare beneficenza.
Basti solo ricordare un piccolo esempio concreto.
Edizione 2018, Lecce.
Tutte le squadre si autotassarono e la somma di denaro raccolta fu devoluta alla palestra di judo di Scampia (Napoli) gestita dal Maestro Gianni Maddaloni, nota per operare in una zona campana ad alto rischio camorristico, che per difficoltà economiche rischiava la chiusura: lo sfratto fu scongiurato!
Si deve rimarcare, quindi, che nel corso di questi anni si sono verificate esattamente le situazioni richiamate all’inizio.
300 e passa magistrati, proprio come il bambino di Dorothee Solle, per un week end l’anno generalmente a fine aprile, giocano a pallone e quindi conoscono la felicità!
Per questi stessi magistrati, nel medesimo periodo, il calcio, come affermato da Arrigo Sacchi, diventa la cosa più importante delle cose meno importanti!
Ovviamente essi - presuntuosamente ? – pensano di sapere di calcio (sic !), ma in realtà nulla sanno, contrariamente a quanto sostenuto da Josè Mourinho, anche se a vederli giocare sembra veramente che il calcio sia più di una questione di vita o di morte, come sosteneva Bill Shankly!
In conclusione, l’appuntamento, per chi ne avrà voglia è per il prossimo 23 aprile, a Coverciano, sui campi verdi dove si allena anche la Nazionale italiana, che si spera di non “sminuire” con la nostra presenza.
Infine, l’albo d’oro delle edizioni precedenti con le finaliste vincenti:
2015 Napoli (d.c.r. vs Catania)
2016 Catania (d.c.r. vs Palermo)
2017 Napoli (d.c.r. vs Palermo)
2018 Cagliari/Milano (d.c.r. vs Catania)
2019 Roma (vs Torino)
2020 non disputato
2021 Reggio Calabria (d.c.r. vs Palermo)
2022 Roma (vs Milano)
2023 ?
Vicinitas e dies a quo del termine di impugnazione: tra potenzialità e attualità della lesione (nota a Tar Lecce, sez. I, n. 1665/2022)
di Edoardo Pellegrino
Sommario: 1. I fatti ed il ricorso al Tar Lecce - 2. Sui presupposti processuali: interesse al ricorso e vicinitas - 2.1. Vicinitas e presunzioni - 3. Dies a quo del termine di impugnazione: potenzialità o integralità? - 4. Conclusioni.
1. I fatti ed il ricorso al Tar Lecce.
Il Tar Lecce, con la recente pronuncia[1], ha fornito una interessante lettura circa la portata dell’onere di diligenza in relazione al termine per l’impugnazione di un permesso di costruire, ove sia contestato non l’an, ma il quantum di edificabilità dell’area.
In particolare, i giudici affrontano la delicata questione dell’onere incombente sulla parte che assume di poter subire una lesione dal completamento di uno stabile non ancora ultimato, sciogliendo il conseguente dubbio circa l’individuazione del dies a quo dell’impugnazione. Sono due le alternative sul punto già vagliate da altri Tribunali amministrativi[2] e dal Consiglio di Stato[3]: ritenere sufficiente la prospettazione di una futura lesione causata dal completamento dell’opera oppure, al contrario, attendere che la costruzione dell’immobile sia portata a compimento per verificare la concretizzazione della lesione stessa.
La sentenza in commento offre, altresì, lo spunto per affrontare la tematica afferente alla legittimazione ad agire[4] e all’interesse a ricorrere, con particolare riferimento all’elemento della vicinitas[5], di recente oggetto anche di varie pronunce del Consiglio di Stato.
Sul punto, in particolare, è interessante vagliare il rapporto tra tale elemento e alcune presunzioni che possono operare nell’ambito del processo amministrativo. Su un primo versante, come si vedrà, la vicinitas è stata “letta” da parte della giurisprudenza come presunzione di interesse a ricorrere. Sotto altro angolo visuale, la vicinitas è stata interpretata anche come indice presuntivo di conoscibilità della possibile lesione subenda da parte del ricorrente.
Nella nostra vicenda Tizia e Caia hanno proposto ricorso al Tar Lecce avverso il comune Alfa, nonché nei confronti della società Beta, per l’annullamento di un permesso di costruire viziato, secondo la tesi delle ricorrenti, non tanto nell’an, quanto nel quantum, perché l’intervento ultimato comporterebbe la realizzazione di un edificio di dimensioni e di altezza rilevanti, tale da impedire completamente la vista del mare.
In altre parole, le ricorrenti fondano il proprio interesse a ricorrere sull’assunto di essere proprietarie di due unità immobiliari dalle quali, una volta terminata l’opera oggetto di permesso di costruire, non sarebbe più stato possibile vedere il mare, concretizzandosi, dunque, in tale evento il danno lamentato.
A fronte di tale contestazione, si è costituita la società Beta, la quale ha preliminarmente evidenziato la tardività del ricorso. In particolare, e questo punto, come si vedrà, si rivelerà nodale, la società afferma che la potenziale lesione sarebbe stata conoscibile sin dal momento della pubblicazione del permesso di costruire nell’albo pretorio oppure, al più tardi, dal momento della esposizione del cartello di cantiere (contenente gli estremi del titolo edilizio, gli interventi assentiti e il renderdelle opere di progetto) e non anche, come sostenuto dalle ricorrenti, dal momento del completamento dell’opera.
Il Tar Lecce, coerentemente con la giurisprudenza del Consiglio di Stato, con la sentenza in commento sposa la tesi della società Beta, ritenendo sufficiente, per individuare il dies a quo, la conoscibilità della lesione che la parte subirà dal completamento dell’opera (nel caso di specie garantita quanto meno dalla esposizione del cartello di cantiere).
Come anticipato, dunque, la pronuncia in commento offre lo spunto per affrontare alcune delle tematiche che afferiscono ai presupposti e ai termini processuali e che sono state, di recente, oggetto di dibattito giurisprudenziale.
2. Sui presupposti processuali: interesse al ricorso e vicinitas.
Tale questione inevitabilmente si interseca con quella, chiaramente molto più ampia e sulla quale, pertanto, non ci soffermeremo in profondità, della tipologia di giurisdizione (amministrativa) accolta nel nostro ordinamento: giurisdizione oggettiva o soggettiva.
Come noto, a lungo la giurisdizione amministrativa è stata interpretata in senso obiettivo avente, dunque, come principale scopo quello di tutelare il primario interesse pubblico e solo occasionalmente quello privato imbattutosi nel potere pubblico. In altre parole, intanto il privato poteva tutelare una propria posizione giuridica soggettiva, in quanto tale tutela rappresentasse un riflesso del perseguimento dell’interesse pubblico.
Tuttavia, tale impostazione, evidentemente, sacrifica l’interesse del cittadino a mera posizione strumentale rispetto a quella pubblicistica, rischiando di creare un significativo vuoto di tutela.
Per tale ragione, in disparte da alcuni interventi normativi che hanno fatto vacillare un tale assunto[6], da tempo si ritiene preferibile un modello di giurisdizione soggettiva[7] in cui la predetta impostazione risulta capovolta: la situazione soggettiva del privato assume una importanza “frontale”, mentre la tutela del pubblico interesse è perseguita indirettamente[8].
Ciò comporta, come immeditato corollario, la centralità assoluta nel processo amministrativo del bene della vita, ovvero del “vantaggio” personale e concreto cui aspira il ricorrente in virtù della propria posizione differenziata rispetto al cittadino comune.
Come noto, infatti, al fine di attivare un giudizio amministrativo è necessario che sussistano le tre condizioni della legittimazione al ricorso, dell’interesse ad agire e della legitimatio ad causam attiva o passiva[9].
La prima consente di capire chi possa agire in giudizio, individuando il soggetto titolare della posizione giuridica soggettiva differenziata e qualificata, nonché protetta dall’ordinamento; il quale ha anche la conseguente tutela processuale, differenziandosi dal quisque de populo.
A differenza del processo civile, in cui la legittimazione ad agire si sostanzia nell’affermazione (o prospettazione) della titolarità di una situazione giuridica soggettiva, nel processo amministrativo non è sufficiente la mera prospettazione dell’interesse legittimo (o diritto soggettivo nelle materie di giurisdizione esclusiva), essendo necessaria l’effettiva titolarità della situazione soggettiva[10]. In altre parole, si ha una sorta di sovrapposizione della legittimazione ad agire con l’interesse legittimo in omaggio ad una “premessa iperpositivistica”[11].
Il problema di una siffatta impostazione, se intesa in senso restrittivo, è che resterebbero esclusi dalla tutela innanzi al giudice amministrativo i soggetti terzi rispetto al provvedimento, nonostante siano stati incisi dallo stesso, perché estranei al rapporto amministrativo. Per tale motivo, come vedremo, la giurisprudenza utilizza anche altri criteri per agganciare la legittimazione del terzo a ricorrere come, nel caso di cui ci occupiamo, la vicinitas.
La seconda condizione si sostanzia nell’interesse ad agire (o interesse al ricorso), disciplinato dall’art. 100 c.p.c., il quale trova applicazione nel processo amministrativo mediante il rinvio esterno dell’art. 39 c.p.a. alle norme sul processo civile. L’interesse si sostanzia nell’utilità concreta che il ricorrente può trarre dalla pronuncia che chiede al giudice.
Quindi, è necessario un collegamento con una posizione giuridica sostanziale.
Il problema, come detto, si pone con il soggetto terzo che, come nel caso di specie, afferma di essere leso da un provvedimento che non è destinato ad operare direttamente nei suoi confronti.
In termini generali, il vicino è titolare di un interesse legittimo oppositivo consistente nella finalità di avversare un atto ampliativo della sfera di altri soggetti (nel caso di specie un permesso di costruire).
La questione sorge dal momento che il provvedimento ed il procedimento amministrativo non contemplano tra i destinatari il terzo (rectius: il vicino) e dunque si pone, innanzitutto, il problema di stabilire se ed in che misura l’interesse a contrastare l’atto ampliativo da parte del terzo possa considerarsi qualificato e differenziato, nonché di individuare i criteri in base ai quali si possa identificare tale interesse.
Da un punto di vista storico, l’art. 10, comma 9, della L. 765/1967 (c.d. legge ponte)[12] affermava testualmente che “chiunque (…) può ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione”. Stando al tenore letterale di tale norma, dunque, sembrava che il legislatore avesse previsto un’ipotesi di giurisdizione oggettiva giacché non si richiedevano particolari posizioni qualificate al fine di impugnare il rilascio della licenza edilizia, identificando, piuttosto, un interesse alla regolarità urbanistica; interesse, dunque, per la sua vastità, giustiziabile su iniziativa di chiunque.
Tuttavia, al fine di scongiurare la configurabilità di un’azione popolare, la giurisprudenza ha richiesto, operando una rilettura della legittimazione a ricorrere in chiave soggettivistica, un criterio che radicasse il ricorrente all’area interessata dall’intervento edilizio[13]; la vicinitas, appunto.
Conseguentemente, l’elemento della vicinanza quale necessario requisito della legittimazione ad agire, nasce come criterio volto a restringere l’area dei potenziali ricorrenti, scongiurando un’ipotesi di giurisdizione oggettiva, peraltro in un settore particolarmente sensibile quale quello urbanistico.
Superate, almeno tendenzialmente, le istanze oggettivistiche con l’avvento del c.p.a. che, come detto, richiama, mediante l’art. 39, l’art. 100 c.p.c. il problema che si pone è in una certa misura speculare rispetto a quello affrontato post legge del ’67: è possibile individuare un interesse differenziato e qualificato in capo al vicino, tale da permettergli di impugnare un provvedimento ampliativo della sfera giuridica altrui? Ecco, di nuovo, giungere in soccorso il criterio della vicinitas, questa volta con finalità ampliative della legittimazione processuale, consentendo al terzo di impugnare un titolo edilizio afferente alla stessa area alla quale è collegato il terzo stesso.
Il problema che si è posto, a questo punto, è quello di indagare circa la sufficienza o meno della vicinanza al fine di fondare tanto la legittimazione ad agire, quanto l’interesse al ricorso.
Secondo un primo orientamento[14], maggioritario sino alla recente decisone dell’Adunanza Plenaria, il criterio della vicinitas è di per sé idoneo a legittimare l’impugnazione di singoli titoli edilizi, assorbendo in sé anche il profilo dell’interesse all’impugnazione[15].
Tale impostazione, sostanzialmente, si fonda sull’originaria funzione attribuita alla vicinitas (scongiurare un’azione popolare) e sulla considerazione che, diversamente opinando, si pretenderebbe una probatio diabolica (la prova dello specifico pregiudizio subito) andando ad incidere sul diritto costituzionalmente tutelato di adire l’autorità giudiziaria per la tutela di posizioni giuridiche soggettive. Per evitare tale eventualità, si individua una presunzione di interesse a ricorrere sulla base della vicinanza del ricorrente all’immobile oggetto di intervento edilizio.
Diversamente, per altra impostazione[16], la vicinitas è idonea a radicare la legittimazione ad agire, ma non è di per sé elemento sufficiente a fondare l’interesse a impugnare, dovendosi ulteriormente dimostrare che quanto contestato abbia la capacità di propagarsi sino a incidere negativamente sulla proprietà del ricorrente.
Sul punto, l’Adunanza Plenaria[17], sposando quest’ultima impostazione, ha riaffermato la distinzione tra interesse e legittimazione a ricorrere postulando la necessaria dimostrazione, oltre che della vicinitas anche della lesione in concreto subita dal ricorrente e ricollegata al titolo edilizio impugnato.
2.1. Vicinitas e presunzioni.
Stando a quanto affermato dal primo degli orientamenti in precedenza riportati, la vicinitas sarebbe idonea, dunque, a conglobare oltre alla legittimazione ad agire anche l’interesse a ricorrere.
Tuttavia, una volta superata tale impostazione, sovviene una seconda e, in un certo senso, speculare presunzione legata al concetto di vicinitas: quella riguardante la conoscibilità da parte del soggetto terzo della potenziale lesione che subirà dal completamento dell’opera. Questo tema, senza dubbio, risulta inscindibilmente legato a quanto si dirà nel prosieguo in tema di dies a quo del termine di impugnazione; tuttavia, per ragioni strutturali, è necessario “anticipare” l’argomento in tema di vicinitas.
In altre parole, si può sostenere, e parte della giurisprudenza[18] sostiene, che la vicinanza del soggetto terzo (identificato, appunto, come vicino) possa fondare, a determinate condizioni, una presunzione relativa di conoscibilità del provvedimento che si assume essere lesivo.
In concreto, ponendo lo sguardo alla fattispecie sottostante la pronuncia in commento, la vicinanza dell’immobile delle ricorrenti a quello oggetto del permesso di costruire costituirebbe indice di conoscibilità del permesso di costruire riportato sul cartellone esposto sul cantiere.
In disparte le questioni legate al termine di impugnazione (su cui infra) e limitandoci alle ricadute probatorie, è interessante notare questo mutamento compiuto nell’interpretazione della vicinitas che da elemento di presunzione dell’interesse a ricorrere diviene presunzione di conoscibilità del provvedimento, comportando un aggravio probatorio in capo al ricorrente.
Lo stesso, infatti, da un lato, dovrà dimostrare oltre alla vicinanza, anche l’interesse a ricorrere, ovvero la lesione derivante dal provvedimento; d’altro canto, a fronte della sussistenza della vicinitas (comunque necessaria per fondare la legittimazione ad agire) lo stesso dovrà anche superare la presunzione di conoscenza del provvedimento dimostrando di aver agito diligentemente e di non aver potuto conoscere il provvedimento, al fine di evitare di incappare nelle conseguenze connesse alla conoscibilità del provvedimento (essenzialmente lo spirare del termine d’impugnazione).
3. Dies a quo del termine di impugnazione: potenzialità o integralità?
Come detto in apertura, lo snodo principale della pronuncia in commento riguarda il dies a quo del termine per impugnare il permesso di costruire.
L’alternativa si pone tra la conoscibilità della futura lesione che si concretizzerà al momento dell’ultimazione dell’immobile e la esistenza attuale di siffatta lesione, ovvero il completamento della costruzione.
La questione è, senza dubbio, strettamente connessa alla tematica della diligenza[19] e del comportamento secondo buona fede giacché sposare l’una o l’altra soluzione implica, inevitabilmente, un allargamento o un restringimento delle maglie di operatività di tali principi. Qualora si sposasse, infatti, la tesi della attualità della lesione si depotenzierebbe la portata dell’obbligo di agire secondo buona fede poiché si consentirebbe al (futuro) ricorrente di attendere il completamento dell’opera per poi far valere le proprie censure.
Come noto, infatti, nei giudizi di legittimità il termine per impugnare l’atto decorre, per i soggetti destinatari, dal momento della notifica del provvedimento; per i soggetti terzi non esplicitamente indicati dal provvedimento, invece, dal momento della sua pubblicazione o comunque dalla piena conoscenza dello stesso. Risulta evidente, dunque, in astratto, che la pubblicazione pone un evidente onere di diligenza a carico degli interessati che devono verificare l’eventuale lesività del provvedimento.
Il problema, infatti, è quello di individuare il corretto punto di equilibrio tra l’esigenza di tutela giurisdizionale del terzo nei confronti di un titolo edilizio che si assume essere illegittimo e l’altrettanto meritevole interesse del titolare del permesso di costruire di poter fare affidamento sulla legittimità del titolo in modo da garantire la fiducia sulla stabilità del titolo stesso.
È evidente, infatti, che accogliendo la seconda impostazione si sacrificherebbe ingiustificatamente l’interesse del titolare del titolo edilizio per il solo fatto del comportamento negligente del terzo.
Con la pronuncia in commento, il Tar Lecce aderisce al primo degli esposti orientamenti, ponendosi in continuità con un orientamento giurisprudenziale[20] oramai divenuto maggioritario, stando al quale il dies a quo del termine di impugnazione di un permesso di costruire è quello in cui le opere realizzate rivelano, in modo certo ed univoco, le loro caratteristiche e, quindi, l’entità delle violazioni urbanistiche e della lesione eventualmente derivante dal provvedimento.
In altre parole, non è necessario attendere il completamento dell’opera posto che ciò determinerebbe il sorgere di una tutela irragionevolmente sbilanciata in favore del terzo. Di contro, su chi si ritenga leso incombe, come detto, un inevitabile onere di diligenza informativa circa la reale portata dell’immobile in via di costruzione e delle sue caratteristiche al fine di vagliarne, in anticipo, l’eventuale illegittimità e lesività dello stesso.
Tale soluzione rappresenta una valorizzazione del combinato disposto dei principi di buona fede e autoresponsabilità ex art. 1227 c.c.[21] i quali impongono di agire proattivamente e diligentemente al fine di poter, poi, domandare tutela giacché “vigilantibus, non dormientibus iura succurrunt”.
Una volta esclusa la possibilità di attendere il completamento dell’opera, il punto, allora, è individuare il momento esatto da cui si possa desumere la conoscibilità della lesività del provvedimento, ovvero del momento a partire dal quale un soggetto diligente possa avere cognizione effettiva della portata dell’opera e della sua potenziale lesività.
La sentenza individua due momenti alternativi consistenti nella pubblicazione nell’albo pretorio del provvedimento e nell’esposizione del cartello di cantiere (contenente, tra l’altro, un dettagliato render dell’opera stessa). Il primo, infatti, previsto dall’art. 20, comma 6, d.P.R. 380/2001, costituisce un indice di conoscibilità generalizzato, posto che risulta accessibile da chiunque.
Il secondo, reso obbligatorio dall’art. 27, comma 4, d.P.R. 380/2001, può essere inteso quale indice di conoscibilità particolare, riferito alla zona di interesse della costruzione. In altre parole, l’esposizione del cartello di cantiere rende conoscibile la portata dell’opera a chiunque frequenti abitualmente l’area interessata.
A questo punto la tematica si ricollega a quella della vicinitas e alla seconda delle presunzioni viste in precedenza.
A fronte di quanto detto supra, l’effettiva sussistenza della vicinanza, necessaria ai fini del radicamento della legittimazione ad agire, comporta la presunzione di conoscenza dell’esposizione del cartello di cantiere e quindi, del provvedimento stesso.
Si può dire, in ultima analisi, che sia la vicinitas a far scattare quel binomio diligenza- autoresponsabilità di cui si è detto in precedenza. In altre parole, qualora il terzo sia effettivamente vicino rispetto all’opera che si assume essere lesiva (condizione necessaria per radicare la legittimazione ad agire), il termine per impugnare il provvedimento inizierà a decorrere, al più, dal momento dell’esposizione del cartello di cantiere.
Il soggetto terzo, dunque, dovrà adoperarsi al fine di esercitare l’eventuale diritto di accesso per conoscere compiutamente gli atti del procedimento amministrativo sfociato nel provvedimento lesivo e per impugnare il provvedimento stesso. Infatti, stando a tale filone interpretativo, l’esercizio del diritto di accesso non può comportare una dilatazione del termine per impugnare il titolo edilizio con la conseguenza che anche tale diritto dovrà essere esercitato con solerzia al fine di non veder spirare il termine suddetto.
4. Coclusioni.
La pronuncia in commento consente, dunque, di riflettere su due snodi importanti e di recente attualità del contenzioso in materia edilizia.
In primo luogo, è interessare constatare l’evoluzione che ha interessato il concetto di vicinitas, passato da criterio utilizzato per restringere la legittimazione ad agire fino a divenire elemento fondante una presunzione di conoscenza della lesività di un provvedimento amministrativo.
Inoltre, venendo al cuore della sentenza, il Tar Lecce correttamente sposa l’orientamento che individua il dies a quodel termine per impugnare un provvedimento amministrativo nel momento di percepibilità della futura lesività del provvedimento stesso.
La soluzione adottata dai giudici leccesi appare corretta giacché si pone in continuità con un’evoluzione del processo (e del diritto sostanziale) amministrativo in cui si esalta il ruolo della diligenza e del principio di buona fede il quale, avendo portata bilaterale[22], deve informare anche il comportamento del privato, il quale ha l’onere di agire secondo i canoni della diligenza e dell’autoresponsabilità.
In realtà, a ben vedere, la fattispecie oggetto di sentenza involge un concetto di buona fede processuale che non riguarda solamente il binomio P.A. privato giacché, in questo caso, il comportamento diligente e di buona fede del soggetto terzo è imposto al fine di non sacrificare l’affidamento di un altro soggetto privato, il destinatario del titolo edilizio. Ciò comporta, dunque, una ulteriore valorizzazione del principio di buona fede poiché, come noto, in ambito di rapporti paritari risulta essere un principio cardine dell’ordinamento che non può tollerare comportamenti negligenti a discapito dell’altrui affidamento.
Alla luce di quanto detto, dunque, appare ormai inevitabile il consolidamento di tale orientamento e l’abbandono definitivo di quello che individua nel completamento dell’opera il momento a partire dal quale è possibile percepire la lesività del provvedimento e avvertire, dunque, il bisogno di tutela che innesca la volontà di impugnare tale provvedimento.
Appare coerente, in chiusura, la saldatura effettuata tra vicinitas e percepibilità della lesività del provvedimento con la prima che assurge a criterio stabile per presumere (salvo prova contraria) la conoscibilità dell’illegittimità e della lesività del provvedimento stesso.
[1] Il riferimento è a Tar Puglia, Lecce, sez. I, N. 1665/2022, in annotazione.
[2] Oltre alla sentenza in commento, si segnala Tar Campania, Napoli, sez II, n. 19/2022.
[3] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 7804/2022, Cons. Stato, sez. II, n. 4390/2019, Cons. Stato, sez. IV n. 3075/2018 e, naturalmente, Cons. Stato, Ad. Plen. n. 15/2011.
[4] C. Cudia, Gli interessi plurisoggettivi tra diritto e processo amministrativo, Rimini, 2012; B. Giliberti, Contributo alla riflessione sulla legittimazione ad agire nel processo amministrativo, Padova, 2020; M. Magri, L’interesse legittimo oltre la teoria generale, Rimini, 2017; S. Mirate, La legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo, Milano, 2018; G. Mannucci, La tutela dei terzi nel diritto amministrativo, Rimini, 2016; I. Piazza, L’imparzialità amministrativa come diritto, Rimini, 2021; P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff, Napoli, 2021.
[5] E. Travi, Vicinitas e interesse a ricorrere, in Foro it., 2018, III, 216 (nota a Cons. Stato, sez. IV, nn. 706/2018 e 707/2018).
[6] Ci si riferisce ai diversi poteri officiosi del giudice previsti nel contenzioso in materia di appalti; alla legittimazione dell’Agcm a impugnare gli atti amministrativi lesivi della concorrenza ex art. 21-bis, l. 287/1990.
[7] Corte cost., 13 dicembre 2019, n. 271. Per alcuni commenti, si vedano A. Travi in Foro it. 2020, I, p 1121; F. G. Scoca, Rito superaccelerato e discrezionalità del legislatore, in Giur. costit. 2019, p. 3248.
[8] Sul punto si vedano, P.L. Portaluri, Interessi e formanti giurisprudenziali: l’anti-Ranelletti?, in giustizia-amministrativa.it e in Urb. App., 2007; P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff, cit., p.127; in giurisprudenza si veda Cons. Stato, sez. VI, n. 1321/2019 in cui si afferma che è possibile “capovolgere definitivamente l’allocazione tradizionale delle due situazioni soggettive, entrambe attive, che si muovono nel processo, e ci si può forse spingere ad affermare che è l’interesse alla mera legittimità ad essere divenuto un interesse occasionalmente protetto, cioè protetto di riflesso in sede di tutela della situazione di interesse legittimo”.
[9] Cons. Stato, Ad. Plen., 27 aprile 2015, n. 5. Per alcuni commenti si vedano: A. Travi, Recenti sviluppi sul principio della domanda nel giudizio amministrativo, in Foro it., 2015, III, p. 265; D. Vaiano, Ordine di esame dei motivi, principio della domanda e funzione del giudice amministrativo, Urbanistica e appalti, 2015, p. 1177; G. Fanelli, “Tassonomia delle modalità di esercizio della potestas iudicandi” e tecnica decisoria dell’assorbimento in Riv. dir. proc., 2015, 1256; E. Follieri, Due passi avanti e uno indietro nell’affermazione della giurisdizione soggettiva, in Giur. it., 2015, p. 2192; L. R. Perfetti e G. Tropea, “Heart of darkness”: l’Adunanza Plenaria tra ordine di esame ed assorbimento dei motivi, Dir. proc. amm., 2015, p. 205. Per la verità, secondo una dottrina le condizioni dell’azione sarebbero quattro perché dovrebbe considerarsi quale ulteriore condizione la meritevolezza con una finalità, evidentemente, restrittiva dell’accesso alla tutela giudiziale. Cfr., sul punto, M.F. Ghirga, principi processuali e meritevolezza della tutela richiesta, in Riv. Dir. Proc., 2020. Critica questo punto P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff, cit., p.112 e ss., ove si sottolinea la pericolosità di una “teoria costruita in funzione restrittiva della tutela, ma che muove da presupposti indefiniti” perché la stessa “immette nel sistema un livello di incertezza che appare intollerabile anche per il rischio – cui si da la stura – di una svolta autoritaria e illiberale del diritto processuale”.
[10] Tale impostazione, in realtà, è messa in dubbio da A. Romano, Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, Milano, 1975 e da M. Clarich, I poteri di impugnativa dell’Agcm ai sensi del nuovo art. 21-bis l. 287/90, in giustizia-amministrativa.it, 2013.
[11] L’espressione è di P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff, cit., p.122. Il riferimento è a G. Mannucci, la tutela dei terzi nel diritto amministrativo. Dalla legalità ai diritti, Rimini, 2016.
[12] V. Spagnuolo Vigorita, Interesse pubblico e azione popolare nella legge-ponte per l’urbanistica, in Riv. giur. ed., 1967, II, p. 387 ss.; A.M. Sandulli, L’azione popolare contro le licenze edilizie, in Scritti giuridici, vol. VI, Napoli, 1990.
[13] Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. N. 23/1977.
[14] Cons. Stato, sez. IV, n. 6082/2013, secondo cui “La mera vicinitas, ossia l'esistenza di uno stabile collegamento con il terreno interessato dall'intervento edilizio, è sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente anche allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo”; Cons. Stato, sez. V, n. 360/1981, secondo cui “Anche se, con l'entrata in vigore della l. n. 765 del 1967, ai fini della qualificazione dell'interesse dei terzi a ricorrere contro il rilascio di licenze edilizie è sufficiente quello di opporsi alla degradazione dell'ambiente anche da parte di chi pur non confinante, sia almeno insediato abitativamente in un complesso territoriale più ampio della zona stessa, ciò non significa che sia stata introdotta una nuova azione popolare che legittimi qualsiasi cittadino ad impugnare i provvedimenti; è pertanto carente di interesse chi si opponga ad una licenza edilizia adducendo la lesione di un interesse di natura tipicamente commerciale che deriverebbe dalla realizzazione dell'opera”; Cass. civ., sez. un., n. 18493/2021, secondo cui “La legittimazione dei proprietari d'immobili o dei residenti in un'area interessata da un intervento idraulico ad impugnare atti amministrativi incidenti sull'ambiente (in quanto opere riguardanti acque pubbliche) può fondarsi anche sul solo requisito della "vicinitas", il quale costituisce elemento di differenziazione di interessi qualificati - appartenenti ad una pluralità di soggetti facenti parte di una comunità identificata in base ad un prevalente criterio territoriale che evolvono in situazioni giuridiche tutelabili in giudizio - allorché l'attività conformativa dell'Amministrazione incida in un determinato ambito geografico, modificandone l'assetto nelle sue caratteristiche non soltanto urbanistiche, ma anche paesaggistiche, ecologiche e di salubrità, e venga nel contempo denunziata come foriera di rischi per la salute, senza che occorra la prova puntuale della concreta pericolosità dell'opera, né la ricerca di un soggetto collettivo che assuma la titolarità della corrispondente situazione giuridica”; in dottrina, si veda E. Travi, Vicinitas e interesse a ricorrere, cit., il quale osserva che “La nozione di vicinitas, oltre a identificare una posizione qualificata idonea a rappresentare la legittimazione a impugnare il titolo edilizio, avrebbe assorbito anche l'interesse a ricorrere: questo esito sembrava scontato nel momento in cui veniva dato rilievo anche soltanto a una relazione stabile con la «zona» e veniva superata la concezione che ancorava la legittimazione a ricorrere alla titolarità di un diritto reale su immobili confinanti. In questa logica anche l'interesse alla conservazione di un certo ordine urbanistico poteva ritenersi sufficiente ai fini dell'interesse a ricorrere e un interesse del genere sembrava già implicito nel ricorso proposto in forza della vicinitas”.
[15] Si v., sul punto, C.G.A. per la regione siciliana, n. 759/2021, nel rimettere la questione all’Adunanza Plenaria.
[16] Cons. Stato, sez. III, n. 441/2016, secondo cui “Seppure il criterio della vicinitas, al fine di radicare la legittimazione ad agire dei singoli per la tutela del bene ambiente, ha valore elastico, nel senso che si deve necessariamente estendere in ragione proporzionale all'ampiezza e rilevanza delle aree coinvolte, come nel caso di interventi rilevanti che incidono sulla qualità della vita dei residenti in gran parte del territorio, tuttavia non è sufficiente a radicare la legittimazione dei ricorrenti che non abbiano allegato pregiudizi diretti e differenziati”; Cons. Stato, sez. II, n. 3440/2020; Cons. Stato, sez. IV, n. 1656/2019; Cons. Stato, sez. IV, n. 3843/2018.
[17] Cons. Stato, Ad. Plen. n. 22/2021. Per alcuni commenti, si vedano S. Tranquilli, Sull'incerto rapporto tra vicinitas e “vicinanza della prova” dopo la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 22/2021, in Il processo, 2022, p. 201 ss.; F. Saitta, C’era una volta un’azione popolare… mai nata, in Riv. giur. edil., 2021, p. 239 ss.; M. Ceruti, La vicinitas non basta a dimostrare l’interesse al ricorso per l’annullamento dei titoli edilizi. E nella materia ambientale? in RGA online, 2022.
[18] Cons. Stato, Sez. II, n. 566/2021, secondo cui “la vicinitas di un soggetto rispetto all'area e alle opere edilizie contestate, oltre ad incidere sull'interesse ad agire, induce a ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente conoscenza della loro entità̀ anche prima della conclusione dei lavori; Tar Campania, Napoli, sez. II, n. 19/2022.
[19] Sulla portata della diligenza e del principio di affidamento si veda Cons. Stato, Ad. Plen. nn. 19/2021 e 20/2021.
[20] Cons. Stato, sez. IV, n. 7804/2022, n. 5607/2022; n. 245/2018, n. 5125/2016.
[21] Sulla portata del principio di autoresponsabilità nel diritto amministrativo cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 2915/2022 con nota di C. Napolitano, Incertezza normativa e principio di autoresponsabilità degli operatori economici: sempre più verso una “Italia immobile”?, in giustiziainsieme.it, 2022.
[22] A. Di Majo, Diritto civile e amministrativo si contaminano a vicenda?, 2021, in giustizia-amministrativa.it. In giurisprudenza v. Cons. Stato, sez. III, n. 6753/2022.
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