ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Note sul procedimento di localizzazione e approvazione delle opere pubbliche nello schema di codice dei contratti dopo il parere della Conferenza unificata[*]
di Pier Luigi Portaluri
1. È anzitutto opportuno definire la cornice normativa al cui interno operano le Commissioni parlamentari chiamate a pronunciarsi sullo schema di decreto legislativo recante il codice dei contratti pubblici (breviter, SCC).
Come noto, l’art. 1, comma 4, 3° e 4° periodo, l. 21 giugno 2022, n. 78 (rubricato «Delega al Governo in materia di contratti pubblici»), prevede: «Ove il parere delle Commissioni parlamentari indichi specificamente talune disposizioni come non conformi ai principi e criteri direttivi di cui alla presente legge, il Governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, trasmette nuovamente i testi alle Camere con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni, corredate dei necessari elementi integrativi di informazione e motivazione. Le Commissioni competenti per materia possono esprimersi sulle osservazioni del Governo entro dieci giorni dall'assegnazione; decorso tale termine il decreto legislativo può essere comunque emanato.».
La norma è chiara nell’attribuire alle Commissioni parlamentari il potere di sindacare – sia pur in sede consultiva – la conformità delle disposizioni codicistiche ai principi e ai criteri direttivi contenuti nella legge delega: onde, poi, il ritorno alle Camere (e quindi alle Commissioni stesse) qualora il Governo non intenda conformarsi ai pareri parlamentari.
Poiché parametro di una tale verifica sono, ovviamente, le dorsali regolative desumibili dalla normazione delegante, trovo arduo – a pena di una vacua ineffettività dell’apporto di Camera e Senato – sostenere che il ruolo delle Commissioni non possa spingersi sino a individuare nel dettaglio i profili ritenuti dissonanti rispetto all’armatura concettuale consegnata dalla l. n. 78/’22.
Vi sono, peraltro, basi positive che orientano in questo senso. Infatti, il parere delle Commissioni – puntualizza il 3° periodo cit. – può indicare «specificamente talune disposizioni». Si tratta, pertanto, di una verifica di compatibilità che può sia essere di sistema, concernendo le scelte e i nodi d’apice che connotano lo schema di codice; sia riguardare – restringendo progressivamente l’angolo visuale – blocchi organici di disposizioni; sia giungere, infine, all’analisi critica di una singola disposizione. Uno spettro d’azione così ampio implica di necessità un altrettale potere “consultivo”: per cui le Commissioni potranno esprimere pareri che riguardino l’intelaiatura normativa generale, ovvero – all’opposto – che focalizzino questioni meno strutturali.
Inerisce naturalmente a uno spatium consulendi così largo l’eventualità che le Commissioni non si limitino a esporre il proprio avviso sull’articolato in esame, ma che invece propongano – sopra tutto ove si tratti di interventi su disposizioni singole (cfr. il 3° periodo cit.) – anche modalità concrete di superamento delle criticità rilevate. In altre parole, ritengo che il potere di proposta emendativa sia interno alla loro sfera d’azione.
Altra conferma, sia pure indiretta, ci viene dal parere ex art. 8, d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, che la Conferenza unificata – in base all’art. 1, comma 4, 1° periodo, l. n. 78/’22 cit. – ha reso in senso favorevole «nei termini di cui in premessa e di cui agli allegati documenti, che costituiscono parte integrante del presente atto».
A loro volta, questi allegati sono tre:
- la «Posizione sullo schema di decreto legislativo recante “Codice dei contratti pubblici”» del 26 gennaio 2023, n. 23/06/CU06/C4, espressa dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome: il documento si suddivide, al suo interno, in emendamenti prioritari, da una parte, ed emendamenti meramente collaborativi, dall’altra parte; come vedremo, l’emendamento n. 3 prende espressamente in considerazione il nostro art. 38, comma 11, e propone di sopprimerne alcune parti fondamentali;
- il «Parere sullo schema di decreto legislativo recante “Codice dei contratti pubblici”», reso da ANCI sempre il 26 gennaio scorso, che però non si occupa del nostro tema;
- il coevo «Contributo UPI», che – come ANCI – non affronta la questione.
In sintesi, recependo la citata Posizione della Conferenza delle Regioni, la Conferenza unificata ha formulato proposte emendative puntualissime: e ciò, si noti, pur in assenza di una norma della l. n. 78/’22 che – a differenza di quanto previsto dall’art. 1, comma 4, 3° periodo, cit., per le Commissioni parlamentari – quel potere conferisca.
Mi pare inutile soffermarmi, a questo punto, sulla contrarietà al senso del diritto positivo e comunque sulla illogicità di un’interpretazione restrittiva che negasse alle Commissioni parlamentari il potere di formulare pareri corredati da specifiche proposte emendative.
Possiamo quindi passare all’esame della norma oggetto delle mie riflessioni.
2. L’art. 38 SCC – rubricato «Localizzazione e approvazione del progetto delle opere» – nel suo comma 11 stabilisce: ««Nella procedura di cui al presente articolo, le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante o dall’ente concedente e comunque coinvolte ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 3, della legge n. 241 del 1990, in qualsiasi caso di dissenso o non completo assenso, non possono limitarsi a esprimere contrarietà alla realizzazione delle opere o degli impianti, ma devono, in ogni caso, a pena di decadenza, indicare le prescrizioni e le misure mitigatrici che rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso. Tali prescrizioni sono determinate conformemente ai principi di proporzionalità, efficacia e sostenibilità finanziaria dell’intervento risultante dal progetto originariamente presentato. Le disposizioni di cui al primo e secondo periodo si applicano, senza deroghe, a tutte le amministrazioni comunque partecipanti alla conferenza, incluse quelle titolari delle competenze in materia urbanistica, paesaggistica, archeologica e del patrimonio culturale.».
La disposizione potrebbe essere ritenuta, ma solo se ci si ferma a un’interpretazione letterale, un altro passo della traiettoria che l’ordinamento sta percorrendo da qualche tempo verso la parificazione e l’amministrativizzazione spoliticizzante di tutti gli interessi pubblici: inclusi quelli sensibili.
Per chiarezza, conviene rifare questo cammino a ritroso.
3. Se identifichiamo come punto di partenza il 1990, e dunque la l. n. 241, l’assetto iniziale è abbastanza chiaro. Di segno opposto all’attuale, però: gli interessi pubblici sono gerarchizzati e anche in modo ben delineato. Infatti le regole acceleratorie del modulo conferenziale ex art. 14, comma 3, l. n. 241/’90 (silenzio assenso dell’amministrazione convocata ma assente, salve possibilità marginali di dissenso postumo) non si applicano «alle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini» (comma 4): chiamate cioè a tutelare – o a difendere, se si preferisce – quei tre interessi.
4. Il quadro cambia abbastanza presto.
La l. n. 127/’97 (la nota legge Bassanini-bis) sostituisce il comma 4 appena ricordato con un altro, di ispirazione diversa: non più una protezione tendenzialmente assoluta dei super-interessi, ma una conflittualizzazione e politicizzazione del tema.
In caso di motivato dissenso espresso da una Amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute dei cittadini, la p.A. procedente – purché non vi sia stata una pregressa valutazione di impatto ambientale negativa – può investire della questione il Presidente del Consiglio dei ministri, che si esprime previa deliberazione del Consiglio dei ministri.
Come si vede, gli interessi sensibili cessano di essere sottratti alla logica del bilanciamento ponderativo, nella quale sono ora fatti entrare senza riserve: l’unica particolarità, certo non secondaria, è appunto la devoluzione del contrasto al decisore politico d’apice.
5. Camminando svelti, ricordiamo adesso la l. n. 124/’15 (c.d. Madia), il cui art. 3 introduce nella l. n. 241/’90 l’art. 17-bis: si arriva così a estendere il modello del silenzio assenso ai procedimenti che coinvolgono una pluralità di Amministrazioni pubbliche, anche se si tratti di «amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini». L’unica differenza è data dal termine per la formazione del provvedimento tacito: trenta giorni per le pp.AA. che tutelano interessi “ordinari”, novanta per quelle preposte alla gestione di interessi sensibili.
Ma ciò non significa semplicemente imprimere una accelerazione ai procedimenti.
Vi è una scelta sottostante ben precisa, che presuppone e implica una modifica nella tavola dei valori protetti, cioè nella loro gerarchia. In generale, il modello del silenzio-assenso presuppone un ripensamento al ribasso del rilievo endoconferenziale attribuito ad alcune Amministrazioni e agli interessi della cui cura sono attributarie.
In altre parole, l’art. 17-bis genera una dequotazione sostanziale degli interessi sensibili. La maggior durata del termine previsto per la formazione del silenzio (novanta giorni in luogo di trenta) sta a indicare una differenza che è oramai solo quantitativa, non più qualitativa.
Resta operativo il meccanismo di conflittualizzazione e politicizzazione del mancato accordo tra le Amministrazioni coinvolte, incluse quelle preposte alla «tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini»: l’art. 17-bis prevede infatti che in questi casi «il Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, decide sulle modifiche da apportare allo schema di provvedimento».
6. Mi soffermo ora sull’ecosistema normativo del PNRR perché, come vedremo, si trova qui il modello cui s’ispira l’art. 38 SCC.
Con la normazione PNRR l’ordinamento raggiunge un traguardo inseguito a lungo: l’unicità del procedimento al cui interno si forma la decisione finale rilevante per il governo del territorio, sopra tutto con riguardo a interventi infrastrutturali (puntuali o a rete che siano). Meta non priva però di conseguenze: comprimere nel tempo e nello “spazio” giuridico l’acquisizione degli interessi (anche) pubblici comporta la riduzione – se non l’eliminazione – delle manifestazioni dissensuali.
È quello che, almeno a mio avviso, ha perseguito quella normazione, in particolare il d.l. n. 77/’21 (c.d. «Semplificazioni-bis»).
Mi limito a richiamare l’art. 44, d.l. cit.: rubricato «opere pubbliche di particolare complessità o di rilevante impatto», tratta di alcune specifiche infrastrutture ferroviarie, idriche e portuali.
Questo il comma 4, che la Relazione illustrativa allo schema di codice licenziato dalla Commissione Carbone richiama come modello ispiratore: «[…] la stazione appaltante convoca la conferenza di servizi per l’approvazione del progetto ai sensi dell’articolo 27, comma 3, del decreto legislativo n. 50 del 2016. La conferenza di servizi è svolta in forma semplificata ai sensi dell’articolo 14-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241 e nel corso di essa, ferme restando le prerogative dell’autorità competente in materia di VIA, sono acquisite e valutate le eventuali prescrizioni e direttive adottate dal Consiglio superiore dei lavori pubblici ai sensi del secondo periodo del comma 1, nonché gli esiti del dibattito pubblico e le osservazioni raccolte secondo le modalità di cui all'articolo 46 del presente decreto, della verifica preventiva dell’interesse archeologico e della valutazione di impatto ambientale. La determinazione conclusiva della conferenza approva il progetto e tiene luogo dei pareri, nulla osta e autorizzazioni necessari ai fini della localizzazione dell’opera, della conformità urbanistica e paesaggistica dell’intervento, della risoluzione delle interferenze e delle relative opere mitigatrici e compensative. La determinazione conclusiva della conferenza perfeziona, ad ogni fine urbanistico ed edilizio, l’intesa tra Stato e regione o provincia autonoma, in ordine alla localizzazione dell’opera, ha effetto di variante degli strumenti urbanistici vigenti e comprende il provvedimento di VIA e i titoli abilitativi rilasciati per la realizzazione e l’esercizio del progetto, recandone l’indicazione esplicita.».
Non sono previsti, nel testo della norma, meccanismi per sollevare conflitto e quindi per politicizzarlo.
Per cui – restando all’interno dell’ecosistema PNRR – dovrebbe trovare applicazione o l’art. 13, d.l. n. 77/’21, rubricato «Superamento del dissenso», secondo cui «In caso di dissenso, diniego, opposizione o altro atto equivalente proveniente da un organo statale che, secondo la legislazione vigente, sia idoneo a precludere, in tutto o in parte, la realizzazione di un intervento rientrante nel PNRR, la Segreteria tecnica di cui all’articolo 4, anche su impulso del Servizio centrale per il PNRR, ove un meccanismo di superamento del dissenso non sia già previsto dalle vigenti disposizioni, propone al Presidente del Consiglio dei ministri, entro i successivi cinque giorni, di sottoporre la questione all'esame del Consiglio dei ministri per le conseguenti determinazioni; ovvero – ratione materiae – il meccanismo preventivo ex art. 29, comma 2, d.l. n. 77/’21, che istituisce una Soprintendenza «speciale» (cioè unica) per il PNRR. Norma, questa, che esautora stabilmente le articolazioni ministeriali territoriali, spogliandole delle funzioni di tutela ove si tratti di beni culturali e paesaggistici che siano «interessati da interventi previsti dal PNRR sottoposti a VIA in sede statale» oppure che «rientrino nella competenza territoriale di almeno due uffici periferici del Ministero». Sempre in base all’art. 29, comma 2, cit., poi, «in caso di necessità e per assicurare la tempestiva attuazione del PNRR, la Soprintendenza speciale può esercitare, con riguardo a ulteriori interventi strategici del PNRR, i poteri di avocazione e sostituzione» nei confronti delle Soprintendenze periferiche.
7. Possiamo adesso esaminare l’art. 38, comma 11, SCC.
Preferisco, per comodità di analisi, riportarne nuovamente il testo: «Nella procedura di cui al presente articolo, le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante o dall’ente concedente e comunque coinvolte ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 3, della legge n. 241 del 1990, in qualsiasi caso di dissenso o non completo assenso, non possono limitarsi a esprimere contrarietà alla realizzazione delle opere o degli impianti, ma devono, in ogni caso, a pena di decadenza, indicare le prescrizioni e le misure mitigatrici che rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso. Tali prescrizioni sono determinate conformemente ai principi di proporzionalità, efficacia e sostenibilità finanziaria dell’intervento risultante dal progetto originariamente presentato. Le disposizioni di cui al primo e secondo periodo si applicano, senza deroghe, a tutte le amministrazioni comunque partecipanti alla conferenza, incluse quelle titolari delle competenze in materia urbanistica, paesaggistica, archeologica e del patrimonio culturale.».
Come dicevo al punto 2., se ci fermassimo alla lettera, quella disposizione ben potrebbe essere inserita nella traiettoria ordinamentale verso la “scomparsa” degli interessi sensibili, non più intesi come valori collettivi giuridicizzati in modo differenziato rispetto a tutti gli altri. La comunanza di regolazione fra le due categorie di interessi (“ordinari” e sensibili) sarebbe confermata dall’inciso «senza deroghe» che – in quanto posto all’interno di un periodo che è già deontico-performativo («si applicano a tutte le amministrazioni» – avrebbe un effetto di senso rafforzativo.
In breve, la disposizione esprimerebbe una declinazione forte del principio di unicità procedimentale, perché vi assoggetterebbe anche le Amministrazioni titolari di interessi sensibili.
Peraltro, il richiamo all’art. 44, comma 4, d.l. n. 77/’21, cit. – contenuto, come ho detto, nella Relazione illustrativa (che correttamente si autodefinisce Gesetzesmaterial) della Commissione Carbone – sembrerebbe confermare questa interpretazione.
Andiamo oltre, però, l’approccio letterale e asistematico.
A me pare – lo dico subito – che l’art. 38, comma 11, SCC, non possa essere interpretato nel senso di definire nella loro interezza i diritti procedimentali delle Amministrazioni titolari di interessi sensibili. Ove così fosse – qualora cioè queste pp.AA. vedessero esaurirsi il loro ruolo nell’espressione di un dissenso che dev’esser non solo costruttivo, ma anche tale da non comportare modifiche sproporzionate, inefficaci o tali da rendere irrealizzabile il progetto originario per insostenibile aumento dei costi – si porrebbero forse problemi di compatibilità con l’art. 9 Cost.
Privare tout court – cioè senza contrappesi e compensazioni – le Soprintendenze del potere di veto significherebbe in concreto che ogni progetto deve essere comunque approvato e realizzato; e che eventuali modifiche sarebbero ammissibili solo se non comportassero un aggravio di costi. Per fare un esempio, una Soprintendenza non solo non potrebbe opporsi a un progetto di strada che attraversasse un sito archeologico; ma non potrebbe neanche proporre una modifica del percorso viario che giri intorno a quel sito: una tale variante sarebbe molto probabilmente inammissibile poiché comporterebbe un allungamento del tracciato e dunque un aumento – magari trascurabile – della spesa.
S’impone dunque, come prima cosa, un’interpretazione estensiva dei concetti giuridici indeterminati che connotano i requisiti della proposta ammissibile: «proporzionalità» «efficacia»,«sostenibilità finanziaria» rispetto al progetto originario arrivato in conferenza di servizi.
Se si volesse comunque elidere anche la sola possibilità, il solo rischio, di un’interpretazione del concetto di sostenibilità finanziaria in termini di rigida invarianza dei costi progettuali, non c’è altra via che quella dell’emendamento. In questo caso si potrebbero aggiungere, dopo la parola «efficienza», le parole «nonché, se comportano un aumento dei costi».
In questo modo, la norma riconoscerebbe implicitamente la possibilità di un incremento dell’esborso. E l’esigenza di sostenibilità verrebbe a costituire non una tagliola per espellere automaticamente qualunque proposta che comporti un sia pur minimo aumento dei costi, ma una soglia – elastica, perché da determinare caso per caso mediante discrezionalità tecnica – che solo in caso di suo sforamento renderebbe inammissibile la variante indicata.
Tuttavia il problema, sebbene mitigato, resta.
La sottrazione del potere di veto, ancorché compensato da un potere di proposta ragionevolmente ampio (nei termini e limiti appena indicati), darebbe comunque vita a un modello che qualifica nella sua complessità e articolazione la posizione delle Amministrazioni differenziate all’interno della conferenza di cui all’art. 38.
Ci si deve domandare, insomma, se lo scrutinio di costituzionalità di cui dicevo debba essere riferito unicamente a questo schema procedimentale, oppure se la disposizione in esame esaurisca o meno la posizione (e i poteri) di tali, particolari pp.AA.
Due argomenti letterali indurrebbero a ritenere che queste pp.AA. – anche se orbate del ius vetandi assoluto (la c.d. opzione zero, che blocca irreparabilmente il progetto) – conservino comunque il potere di escalation, cioè di devolvere la loro opposizione alla delibazione dell’organo politico d’apice, il Presidente del Consiglio dei ministri.
Il primo argomento discende dal comma 1 dell’art. 38: «L’approvazione dei progetti da parte delle amministrazioni è effettuata in conformità alla legge 7 agosto 1990, n. 241 […]».
Per dare un senso alla disposizione, altrimenti ridondante, si deve ritenere che essa non contenga una inutile clausola di stile, ma rinvii a quella legge con pienezza di effetti giuridici: rimandi, ai nostri fini, all’intero sistema delle decisioni conferenziali di cui agli artt. 14 – 14-quinquies.
Ed è proprio l’art. 14-quinquies che viene qui in rilievo: «Avverso la determinazione motivata di conclusione della conferenza, entro 10 giorni dalla sua comunicazione, le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini possono proporre opposizione al Presidente del Consiglio dei ministri a condizione che abbiano espresso in modo inequivoco il proprio motivato dissenso prima della conclusione dei lavori della conferenza. Per le amministrazioni statali l’opposizione è proposta dal Ministro competente.» (comma 1).
È vero: fra le due disposizioni si pone un problema di coordinamento, che però può essere superato. L’art. 38, comma 11, impone infatti alla p.A., a pena di decadenza, di articolare un dissenso costruttivo; mentre l’art. 14-quinquies ritiene sufficiente ad attivare l’escalation l’espressione, da parte dell’Amministrazione, di un dissenso meramente oppositivo (purché motivato).
Ne deriverebbe, sempre restando intra litteram, che se la p.A. esprimesse un dissenso oppositivo all’interno della conferenza ex art. 38, comma 11, esso sarebbe inammissibile e dunque non produrrebbe gli effetti devolutivi di cui all’art. 14-quinquies.
In realtà, si può comporre la questione ritenendo che il dissenso oppositivo comporti una sorta di inammissibilità relativa: le motivazioni contenute a corredo e supporto, anche se particolarmente stringenti, non entreranno in comparazione, ma l’opposizione produrrà comunque l’effetto devolutivo dell’affare all’organo politico.
In sostanza, le pp.AA. titolari di interessi sensibili avrebbero due strade avanti a sé, percorribili alternativamente.
La prima, ex art. 38, comma 11, SCC: esprimere un dissenso costruttivo.
La seconda, ex art. 14-quinquies, l. n. 241/’90: formulare un dissenso oppositivo, da cui l’escalation politica della questione.
Quelle pp.AA. perderebbero dunque il potere di veto, ma non anche quello devolutivo.
Dicevo che vi sarebbe un secondo argomento a sostegno di questa lettura. È un po’ più formale, e non privo di ambiguità.
Secondo il comma 9 dell’art. 38 in esame «La conferenza di servizi si conclude nel termine di 60 giorni dalla sua convocazione, prorogabile, su richiesta motivata delle amministrazioni preposte alla tutela degli interessi di cui all’articolo 14-quinquies, comma 1, della citata legge n. 241 del 1990, una sola volta per non più di 10 giorni. […]».
Questo comma contiene l’espressa nominazione sia delle Amministrazioni in esame, sia dell’art. 14-quinquies cit.
Se ne possono trarre due letture, opposte tuttavia negli esiti.
La prima valorizza il (mero) richiamo dell’art. 14-quinquies per dedurne l’applicabilità in totodella disposizione: l’escalation sarebbe sempre consentita, anche sulla base di una ermeneusi più ispirata dall’art. 9 Cost.
La seconda, invece, enfatizza la possibilità di prorogare la conferenza su richiesta di quelle stesse Amministrazioni per inferirne che ciò esaurisce il loro spazio d’azione anche esoprocedimentale: nessuna devoluzione al livello politico, dunque, sarebbe prevista.
8. Più sopra, al punto 1., ho accennato al parere reso dalla Conferenza unificata il 26 gennaio 2023 e alla coeva «Posizione sullo schema di decreto legislativo recante “Codice dei contratti pubblici”», espressa dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e recepita integralmente da quel parere.
Ho pure detto che l’emendamento prioritario n. 3 della Posizione si occupa proprio dell’art. 38, comma 11, SCC, proponendo di eliderne e modificarne alcune parti di importanza primaria.
Ne risulterebbe questo testo (uso il condizionale perché il complesso degli interventi conduce a una disposizione già sintatticamente di non facile lettura): «Nella procedura di cui al presente articolo, le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante e comunque coinvolte esprimono il proprio parere ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 3, della citata legge n. 241 del 1990, in qualsiasi caso di dissenso o non completo assenso, devono indicare le prescrizioni che, ove possibile, rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso. Tali prescrizioni sono determinate conformemente ai principi di proporzionalità, efficacia e sostenibilità finanziaria dell’intervento risultante dal progetto originariamente presentato. Le disposizioni di cui ai periodi precedenti si applicano, senza deroghe, a tutte le amministrazioni comunque partecipanti alla conferenza, incluse quelle titolari delle competenze in materia urbanistica, paesaggistica, archeologica e del patrimonio culturale».
Par di comprendere, in breve, che si vorrebbe attribuire a tutte le Amministrazioni partecipanti il potere di veto: il dissenso, infatti, non deve più essere necessariamente costruttivo, come rivela l’inciso «ove possibile» riferito all’indicazione delle prescrizioni che «rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso».
È però un modello che ritengo passatista e massimalista all’un tempo. Se non m’inganno, si perderebbe infatti la gerarchizzazione degli interessi procedendo però in senso vettorialmente opposto rispetto alla traiettoria di cui dicevo all’inizio: non una compressione verso il basso degli interessi sensibili, tendenzialmente parificati agli altri; ma una “elevazione” di questi ultimi, che andrebbero a comporre – insieme ai primi – un’indistinta panoplia capace di paralizzare qualunque processo decisionale.
La citata Posizione (e dunque la Conferenza unificata), tuttavia, «chiede di proseguire il confronto sugli ulteriori temi, sempre inseriti tra quelli prioritari, (es. conferenza dei servizi […]) sui quali ancora non si è raggiunta una condivisione»; e precisa che su questi emendamenti «è tuttora in corso un'interlocuzione con il MIT su iniziativa del Ministero stesso». Con riferimento specifico all’art. 38, comma 11, poi, la Posizione precisa: «Pur comprendendo la ratio della norma, si propone di valutare l'opportunità di mantenere il comma stanti le disposizioni già vigenti della l. 241/90».
La Conferenza, in somma, non ha ancora assunto un orientamento definitivo.
9. Il lavoro interpretativo sull’art. 38, comma 11, SCC, sembra condurre ai risultati che ho sin qui indicato.
Non intendo nascondere le penumbrae esegetiche che restano.
Se si ritenesse comunque preferibile proporre l’eliminazione di questi dubbi ermeneutici, e si condividesse il modello secondo cui le pp.AA. che gestiscono interessi sensibili possono alternativamente esprimere un dissenso costruttivo oppure formulare un dissenso oppositivo che provoca l’escalation politica, le Commissioni parlamentari competenti potrebbero formulare il proprio parere nel senso di proporre un intervento sul testo attuale dell’art. 38, comma 11, SCC.
Si potrebbe, dunque, consultivamente proporre di aggiungere, dopo il terzo periodo del citato comma 11, il seguente: «Restano comunque esperibili i rimedi di cui all’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990».
10. Indico, in fine, alcune possibili modifiche del testo del comma 11 che riguardano solo il drafting.
a) Poiché il testo adopera la parola «determinazioni» con riguardo agli atti di alcune pp.AA. partecipanti («[…] le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante […]»), appare preferibile non usare nuovamente, non essendo un tecnicismo, una forma/voce della stessa famiglia lessicale con riferimento alle prescrizioni di quelle pp.AA. («sono determinate»). Si potrebbero quindi sostituire le parole «[…] sono determinate conformemente» con le parole «[…] devono essere conformi».
b) Poiché le pp.AA. partecipanti possono indicare sia «prescrizioni», sia «misure mitigatrici», l’uso della sola parola «prescrizioni» nel periodo successivo («Tali prescrizioni […]») potrebbe far ritenere che quelle pp.AA possano indicare solo prescrizioni e non anche misure mitigatrici. Si potrebbe quindi sostituire la parola «prescrizioni» con la parola «indicazioni», che fungerebbe da vero e proprio incapsulatore semantico.
11. In definitiva, le Commissioni parlamentari potrebbero sul punto esprimere il proprio parere proponendo questo testo dell’art. 38, comma 11, cit.:
«11. Nella procedura di cui al presente articolo, le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante o dall’ente concedente e comunque coinvolte ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 3, della legge n. 241 del 1990, in qualsiasi caso di dissenso o non completo assenso, non possono limitarsi a esprimere contrarietà alla realizzazione delle opere o degli impianti, ma devono, in ogni caso, a pena di inammissibilità, indicare le prescrizioni e le misure mitigatrici che rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso. Tali indicazioni devono essere conformi ai principi di proporzionalità e di efficacia nonché, se comportano un aumento dei costi, di sostenibilità finanziaria dell’intervento risultante dal progetto originariamente presentato. Le disposizioni di cui al primo e secondo periodo si applicano, senza deroghe, a tutte le amministrazioni comunque partecipanti alla conferenza, incluse quelle titolari delle competenze in materia urbanistica, paesaggistica, archeologica e del patrimonio culturale. Restano comunque esperibili i rimedi di cui all’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990».
[*] Questo scritto riprende i contenuti delle mie audizioni svoltesi il 23 gennaio 2023 innanzi all’VIII Commissione (Ambiente, territorio e lavori pubblici) della Camera, e il 1° febbraio 2023 davanti all’VIII Commissione (Ambiente, transizione ecologica, energia, lavori pubblici, comunicazioni, innovazione tecnologica) del Senato nell’ambito dei lavori parlamentari inerenti al parere da rendere sullo «Schema di decreto legislativo recante codice dei contratti pubblici» (Atto del Governo n. 19): di qui la presenza di mie proposte emendative rispetto al testo della disposizione esaminata.
Il rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c.: una nuova «occasione» di nomofilachia?
di Antonio Scarpa
Sommario: I. Inquadramento normativo – II. Un nuovo strumento per la perfezione della «funzione nomofilattica» - III. Il procedimento di rinvio pregiudiziale dinanzi al giudice di merito - IV. Le condizioni di ammissibilità del rinvio pregiudiziale - V. Il procedimento dinanzi alla Corte di cassazione - VI. La prosecuzione del giudizio di merito.
I. Inquadramento normativo
L’art. 363-bis del codice di procedura civile, recante la rubrica “Rinvio pregiudiziale”, è stato introdotto dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, ed è applicabile (avuto riguardo alla disciplina transitoria dettata dall’art. 35 dello stesso decreto, come modificato dall’art. 1, comma 380, lettera a, della legge n. 197 del 2022) a tutti i procedimenti di merito pendenti[1]. Pur trattandosi di diposizione destinata ad operare nel primo o nel secondo grado del processo di cognizione, ordinario o semplificato, come anche nel corso di procedimenti di natura camerale o cautelare che non esitano in provvedimenti ricorribili in cassazione, il legislatore della recente ennesima riforma del rito civile ne ha scelto la collocazione sistematica nell’ambito del capo del secondo libro del codice che disciplina il giudizio di legittimità[2].
È stata, del resto, così data attuazione alla norma di delega dettata dall’art. 1, comma 9, lettera g), della legge 26 novembre 2021, n. 206, il quale, appunto, comprendeva fra i principi e criteri direttivi da rispettare nell’apportare modifiche al codice di procedura civile in materia di giudizio di cassazione:
«(…) introdurre la possibilità per il giudice di merito, quando deve decidere una questione di diritto sulla quale ha preventivamente provocato il contraddittorio tra le parti, di sottoporre direttamente la questione alla Corte di cassazione per la risoluzione del quesito posto, prevedendo che:
1) l’esercizio del potere di rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione è subordinato alla sussistenza dei seguenti presupposti:
1.1) la questione è esclusivamente di diritto, non ancora affrontata dalla Corte di cassazione e di particolare importanza;
1.2) la questione presenta gravi difficoltà interpretative;
1.3) la questione è suscettibile di porsi in numerose controversie;
2) ricevuta l’ordinanza con la quale il giudice sottopone la questione, il Primo presidente, entro novanta giorni, dichiara inammissibile la richiesta qualora risultino insussistenti i presupposti di cui al numero 1) della presente lettera;
3) nel caso in cui non provvede a dichiarare l’inammissibilità, il Primo presidente assegna la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice tabellarmente competente;
4) la Corte di cassazione decide enunciando il principio di diritto in esito ad un procedimento da svolgere mediante pubblica udienza, con la requisitoria scritta del pubblico ministero e con facoltà per le parti di depositare brevi memorie entro un termine assegnato dalla Corte stessa;
5) il rinvio pregiudiziale in cassazione sospende il giudizio di merito ove è sorta la questione oggetto di rinvio;
6) il provvedimento con il quale la Corte di cassazione decide sulla questione è vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione e conserva tale effetto, ove il processo si estingua, anche nel nuovo processo che è instaurato con la riproposizione della medesima domanda nei confronti delle medesime parti».
L’art. 363-bis c.p.c. stabilisce, allora, che il “giudice di merito può disporre con ordinanza, sentite le parti costituite, il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione per la risoluzione di una questione esclusivamente di diritto”, nel concorso di quattro condizioni: 1) la questione deve essere “necessaria alla definizione anche parziale del giudizio”; 2) la stessa non deve essere “stata ancora risolta dalla Corte di cassazione”; 3) deve presentare “gravi difficoltà interpretative”; 4) deve essere “suscettibile di porsi in numerosi giudizi”.
L’ordinanza che dispone il rinvio pregiudiziale deve perciò essere motivata, indicando anche le “diverse interpretazioni possibili”. Essa è trasmessa alla Corte di cassazione e comunicata alle parti, e, dal giorno del suo deposito, il procedimento di merito resta sospeso, “salvo il compimento degli atti urgenti e delle attività istruttorie non dipendenti dalla soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale”.
Il Primo Presidente della Corte di cassazione, ricevuta l’ordinanza, entro novanta giorni assegna la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice per l’enunciazione del principio di diritto, oppure dichiara con decreto l’inammissibilità della medesima questione per la mancanza di una o più delle quattro condizioni specificate.
Ai sensi dell’art. 137-ter disp. att. c.p.c. (anch’esso introdotto dal d.lgs. n. 149 del 2022), fermo quanto stabilito dall’art. 51 del d.lgs. n. 196 del 2003 in tema di trattamento dei dati personali in ambito giudiziario e informatica giuridica, i provvedimenti che dispongono il rinvio pregiudiziale e i decreti del Primo Presidente ad esso relativi sono pubblicati nel sito istituzionale della Corte di cassazione, a cura del CED.
La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia in pubblica udienza, con la requisitoria scritta del pubblico ministero e con facoltà per le parti costituite di depositare “brevi memorie” ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Il provvedimento che definisce la questione dispone la restituzione degli atti al giudice a quo.
Il principio di diritto enunciato dalla Corte è vincolante nel procedimento pendente e, se questo si estingue, anche nel nuovo processo in cui venga proposta la medesima domanda tra le stesse parti.
II. Un nuovo strumento per la perfezione della «funzione nomofilattica»
Inserito in consecuzione all’art. 363 c.p.c. (Principio di diritto nell’interesse della legge), l’art. 363-bis sembra dunque volersi proporre come nuovo “strumento offerto dall’ordinamento per la perfezione della funzione nomofilattica” (Andrioli). A differenza, però, della disposizione cui segue nell’ordine del codice, l’art. 363-bis non slega l’esercizio della nomofilachia dall’esercizio della funzione attinente allo ius litigatoris, interviene necessariamente in una fase del processo di cognizione, postula che sia garantito il contraddittorio tra le parti, mantiene una stretta inerenza alla concreta vicenda processuale, assicura al principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte un’efficacia vincolante nel giudizio di merito a quo ed anche esterna (“panprocessuale”) nei successivi processi tra le stesse parti, proiettandosi, quindi, per sua natura verso un indispensabile seguito procedimentale.
Inoltre, il rinvio pregiudiziale prescinde, alla lettera, da una valutazione di «particolare importanza» della «questione» (che era indicata dalla legge di delega) e richiede, piuttosto, che la stessa denoti «gravi difficoltà interpretative» ed appaia «suscettibile di porsi in numerosi giudizi», alla stregua, quindi, di un primo dato desumibile non solo dal punto di vista normativo, ma anche da elementi di fatto, e di un secondo dato che sovrasta l’immediata influenza della regola di giudizio espressa dalla Corte di cassazione in relazione alla singola vicenda processuale e la eleva a criterio di decisione di casi analoghi o simili.
L’art. 363-bis non configura, pertanto, una ipotesi di “giurisdizione puramente consultiva”, né è una sorta di certiorari attribuito alla Suprema Corte per consentirle di riesaminare la correttezza degli atti di un procedimento di merito. I primi commentatori ne hanno indicato le analogie e le differenze rispetto: al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, ai sensi dell’art. 267 TFUE; al rilievo incidentale della questione pregiudiziale di legittimità costituzionale, ai sensi dell’art 23 della legge 11 marzo 1953, n 87; agli effetti della sentenza della Cassazione di accertamento pregiudiziale dell’efficacia, validità e interpretazione dei contratti o accordi collettivi, ai sensi dell’art. 420- bis c.p.c. e dell’art. 146-bis disp. att. c.p.c.; alla saisine pour avis dell’ordinamento francese (artt. 1031-1 e seg. del Code de procédure civile e L441-1 e seg. del Code l’organisation judiciaire) (F. Barbieri; A. Briguglio; F. De Stefano; M. Fabiani; C.V. Giabardo).
Si è scritto che la pronuncia ex art. 363-bis è “semplicemente occasionata dal giudizio a cui si riferisce, ma ha una portata ben superiore”. La Corte di cassazione si esprimerà “grazie a la vicenda, ma non solo per quella…. La causa è un pretesto perché la voce della Corte si faccia sentire da tutti” (C.V. Giabardo). Lo strumento andrà perciò sfruttato proprio per rimediare alla non più sostenibile “occasionalità” della nomofilachia adempiuta soltanto per il tramite di un terzo grado di giudizio, che interviene a distanza di anni dalla domanda di merito e comunque condizionatamente alla formazione progressiva del giudicato derivante dall’acquiescenza, la quale è espressione del principio di disponibilità dei mezzi di impugnazione[3].
Il “rinvio pregiudiziale” è, dunque, una nuova occasione di nomofilachia a portata di mano: come tutte le buone occasioni, però, essa difficilmente si presenta e facilmente può perdersi.
III. Il procedimento di rinvio pregiudiziale dinanzi al giudice di merito
Il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione può essere disposto dal “giudice di merito”, dunque in ogni fase del giudizio di primo grado o di appello, ed anche in sede di decisione.
Dovendosi, tuttavia, trattare pur sempre di “questione necessaria alla definizione anche parziale del giudizio”, il rinvio non sarà consentito al giudice di primo grado se la stessa questione esuli del thema decidendum definito dalle domande, eccezioni e conclusioni proposte, precisate o modificate, dalle parti, a norma degli artt. 163, 166, 167, 183 (171-ter) c.p.c., o da quelle altrimenti comunque rilevabili d’ufficio. E’ auspicabile, inoltre, che il giudice di primo grado provveda al rinvio pregiudiziale dopo che abbia proceduto nel corso dell’udienza di trattazione alla eventuale richiesta di chiarimenti alle parti. Il giudice d’appello potrà invece disporre il rinvio pregiudiziale sempre che la questione rientri nell’ambito di ciò che sia rimasto sottratto alla regola della formazione progressiva del giudicato ed all’operatività dell’acquiescenza, e dunque nei limiti devolutivi segnati dagli artt. 329, 342 e 346 c.p.c.
Il giudice di pace, il tribunale o la corte d’appello provvede al rinvio alla Corte di cassazione “con ordinanza”, non contenendo il provvedimento alcuna statuizione di natura decisoria, idonea a definire il giudizio.
Vi è obbligo per il giudice di disporre il rinvio soltanto dopo aver sentito le parti costituite, e cioè dopo aver provocato il contraddittorio sulla questione mediante invito alla stesse a prendere posizione al riguardo. La mancata instaurazione del preventivo contraddittorio sul rinvio implicherà una nullità dell’ordinanza, rilevabile su iniziativa della parte interessata nella prima istanza o difesa successiva, a norma dell’art. 157, comma 2, c.p.c.
Il secondo comma dell’art. 363-bis prescrive che l’ordinanza debba essere “motivata”, dettando altresì uno specifico requisito di contenuto, che va oltre il “succintamente” di cui all’art. 134, comma 1, c.p.c., in quanto viene stabilito che il provvedimento di rinvio rechi “specifica indicazione delle diverse interpretazioni possibili”, a dimostrazione delle “gravi difficoltà interpretative” che connotano la questione. Ove manchi una motivazione così qualificata sul contrasto esegetico, l’ordinanza dovrà reputarsi inidonea ad assolvere allo scopo cui è diretta, cioè quello di investire la Corte di cassazione della risoluzione della questione, e perciò inammissibile, non potendo la Corte adita disporne la rinnovazione ai sensi dell’art. 162, comma 1, c.p.c.
Le “diverse interpretazioni” devono peraltro sempre concernere la questione di diritto “necessaria alla definizione” del giudizio, e dunque occorre che la motivazione del giudice rimettente spieghi l’incidenza attuale del contrasto ermeneutico sulla norma da applicare nel giudizio innanzi a lui pendente. Sarebbe, altrimenti, improprio l’utilizzo del rinvio pregiudiziale da parte del giudice del merito ove rivolto unicamente a conseguire un avallo interpretativo dalla Suprema Corte diretto a preservare la propria decisione da una diversa lettura ed applicazione delle norme ad opera del giudice dell’impugnazione. Non è indispensabile che il giudice del rinvio sindachi la fondatezza e la praticabilità delle diverse interpretazioni di cui è suscettibile la questione devoluta, né che indichi le ragioni che lo inducano a preferire una tra le possibili soluzioni ermeneutiche che si contendono il campo. Le diverse interpretazioni da rappresentare in motivazione postulano (oltre che la questione non sia stata ancora “risolta dalla Corte di cassazione”, come meglio si vedrà in seguito) che, utilizzando i criteri dettati dall’art 12 delle preleggi, si pervenga ad almeno due possibili esiti divergenti, ovvero che comunque vi siano differenti posizioni nella giurisprudenza e nella dottrina in ordine alle problematiche sollevate, e perciò manchi una communis opinio.
Se, peraltro, il giudice di merito ravvisi profili di illegittimità costituzionale o di contrasto con il diritto dell’Unione europea delle norme coinvolte nella questione di diritto, sarebbe impropria la strada del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione finalizzato a che questa proceda poi alla rimessione alla Corte Costituzionale o alla Corte di Giustizia UE.
L’ordinanza che dispone il rinvio pregiudiziale è “immediatamente trasmessa alla Corte di cassazione” ed è comunicata alle parti a cura del cancelliere del giudice rimettente, ai fini del contraddittorio. La mancata comunicazione dell’ordinanza, ove rilevata dalla Corte, determinerebbe la necessità di provvedere all’adempimento a cura del giudice rimettente.
A norma dell’art. 137-bis disp. att. c.p.c., che richiama espressamente l’art. 363-bis, il cancelliere della Corte, entro sessanta giorni dalla trasmissione dell’ordinanza, acquisisce il fascicolo d’ufficio dalla cancelleria del giudice che ha pronunciato il provvedimento (senza che dunque occorra che questi disponga nell’ordinanza la relativa rimessione del fascicolo).
Dal giorno stesso in cui è depositata l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, il processo è sospeso[4], ma è fatto salvo “il compimento degli atti urgenti e delle attività istruttorie non dipendenti dalla soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale”, la quale, invero, può risultare necessaria anche alla definizione di parte soltanto del giudizio. La disposizione si salda con le ipotesi già regolate dagli artt. 48, comma 2, 298, comma 1, e 367 c.p.c. e potrà perciò avvalersi delle consolidate esperienze applicative di tali norme.
Il provvedimento di sospensione del processo in ragione del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione, integrando una sospensione cd. impropria, non sarà ovviamente impugnabile mediante regolamento di competenza, trattandosi di ipotesi che esula dall’ambito dell’art. 42 c.p.c.[5]
Gli atti urgenti del procedimento che il giudice del merito potrà compiere durante la sospensione per rinvio pregiudiziale sono quelli di natura conservativa ed indifferibile, che attengono al merito della controversia e tendono alla conservazione dello stato di fatto in attesa della riassunzione. Le inderogabili esigenze pratiche che potranno legittimare l’adozione degli atti del processo sospeso non si identificano con l’urgenza che ha la parte di conseguire la soddisfazione del proprio interesse sostanziale, ma consistono, invece, nella necessità di evitare che il protrarsi della quiescenza della causa produca irreparabile pregiudizio alle ragioni dei contendenti, oppure provochi la perdita per i medesimi della facoltà di fornire una prova. Non deve, dunque, trattarsi di atti a contenuto decisorio che suppongano risolta la questione rimessa alla Corte di cassazione.
Quanto alle attività istruttorie, di per sé non anche “urgenti”, che possono svolgersi in costanza della sospensione, esse non devono essere correlate alla parte della controversia che attende la soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale. In ogni caso, i provvedimenti che dispongano l’ulteriore istruzione restano revocabili altresì alla luce della successiva pronuncia della Corte di cassazione sul rinvio pregiudiziale.
IV. Le condizioni di ammissibilità del rinvio pregiudiziale
L’art. 363-bis prescrive innanzitutto che il rinvio pregiudiziale riguardi “la risoluzione di una questione esclusivamente di diritto”. Può certamente prevedersi che tale presupposto apra un dibattito analogo a quello già da tempo in essere in ordine agli artt. 101, comma 2, e 384, comma 3, c.p.c. ed al distinguo fra questioni di puro diritto, questioni di fatto e questioni miste di fatto e di diritto. E’ davvero configurabile, nel corso di una causa di merito pendente, una “questione esclusivamente di diritto”, che però sia, allo stesso tempo, altresì “necessaria alla definizione anche parziale del giudizio”? Ai fini della praticabilità del rinvio pregiudiziale, certamente le questioni di diritto che lo giustificano non si riducono a quelle di esclusiva rilevanza processuale e possono ben riguardare pure la decisione del merito della causa, in rapporto alla norma che il giudice individui come applicabile al caso concreto. E’ inoltre inevitabile che ogni questione che attenga sia alle vicende costitutive, modificative o estintive del diritto dedotto in giudizio, sia a profili di rito litis ingressus impedientes, una volta che il giudice segnali alle parti, disponendone l’audizione sul punto, l’intenzione di investirne pregiudizialmente la Corte di cassazione, indurrà i medesimi contendenti a sviluppare altresì il dibattito mediante nuove allegazioni sul quadro fattuale della lite ed a riesaminare il materiale probatorio, sicché forse si ex ante, ma difficilmente ex post, possono rivelarsi al giudice di merito questioni risolutive che siano davvero “esclusivamente di diritto”.
Le altre condizioni, tutte concorrenti e non dunque alternative, di ammissibilità del rinvio ex art. 363-bis, sono: la pregiudizialità della questione sollevata rispetto alla definizione del processo merito; l’assenza di una precedente “risoluzione” della questione da parte della Corte di cassazione; la presenza di “gravi difficoltà interpretative”; l’idoneità della questione a porsi in numerosi giudizi.
La necessaria pregiudizialità della questione rimessa alla Corte di cassazione comporta che la stessa costituisca un indispensabile antecedente logico-giuridico influente sull’esito del thema decidendum del processo di merito pendente tra le parti.
L’assenza di una precedente “risoluzione” della questione da parte della Corte di cassazione lascia pensare, approfittando dell’elaborazione acquisita con riguardo alla inammissibilità del ricorso per cassazione per regioni merito di cui all’art. 360-bis, n. 1, c.p.c., che il legislatore del d.l. n. 149 del 2022 abbia immaginato che sia superfluo chiamare la Corte a riesaminare in via pregiudiziale una quaestio iuris che essa abbia già deciso con orientamento consolidato ed uniforme, non bastando, peraltro, al rimettente (a differenza che al ricorrente) offrire “elementi per mutare … l’orientamento della stessa” [6]. Si tratta di valutazione che il Primo Presidente dovrà svolgere al momento della verifica preliminare di ammissibilità della questione, ovvero prima di decidere se assegnare la stessa alle sezioni unite o alla sezione semplice, e che comunque dovrà rinnovare la Corte in sede di pronuncia, apparendo irragionevole che sia dichiarato ammissibile un rinvio pregiudiziale su questione che non fosse stata risolta dalla giurisprudenza di legittimità all’epoca del deposito dell’ordinanza del giudice di merito e che invece sia poi stata medio tempore decisa con valenza nomofilattica. Potrà, al contrario, capitare che solo a seguito della adozione del provvedimento di rinvio pregiudiziale venga a verificarsi una difformità di decisioni delle sezioni semplici in ordine alla questione di diritto, e ciò potrebbe giustificare l’assegnazione della stessa alle sezioni unite.
Come già per il parametro della conformità alla «giurisprudenza della Corte» di cui all’art. 360-bis, a proposito del riscontro della condizione della mancanza di preventiva «risoluzione» della questione occorrerà intendersi su quante pronunce servano per dire che essa sia data per «risolta dalla Corte di cassazione». Ci si interrogherà se basta un precedente di legittimità degli oltre quarantamila annui della nostra Suprema Corte per risolvere stabilmente una questione[7]. Rimane, quindi, di stretta attualità l’argomento del sofisma del sorite, del quale scriveva Taruffo: quanti granelli ci vogliono per fare un mucchio di sabbia, ovvero, quale granello, singolarmente aggiunto, fa divenire mucchio ciò che prima tale non era?
La questione rimessa alla Corte di cassazione deve, poi, presentare “gravi difficoltà interpretative”. L’aggettivo “gravi” potrebbe far pensare che il dubbio ermeneutico debba implicare la soluzione di problemi di speciale complessità, ma può pensarsi che nell’applicazione concreta dell’art. 363-bis l’ammissibilità del rinvio venga giustificata già soltanto in presenza delle “diverse interpretazioni possibili”, di cui si sia dato conto in motivazione dal giudice rimettente.
La condizione di più complessa accertabilità attiene sicuramente alla idoneità della questione a porsi in numerosi giudizi. Al giudice del merito, nel valutare la praticabilità del rinvio pregiudiziale, ed al Primo Presidente della Corte di cassazione, in sede di verifica di ammissibilità, viene richiesto un arduo giudizio oracolare, il quale prescinde dal singolo caso in esame e impone un calcolo prognostico su identici casi futuri[8]. Come già avvenuto con le riforme del giudizio di cassazione operate dal d.lgs. n. 40 del 2006, dalla legge n. 69 del 2009 e dal d.l. n. 168 del 2016, convertito nella legge n. 197 del 2016, si affida alla Suprema Corte il compito di stabilire ex ante se la pronuncia che si appresta a rendere è, o meno, destinata a precostituire un precedente per le generazioni future. E’, tuttavia, il giudice del caso seguente che decide se sussiste tra questo ed il caso pregresso quella identità di ratio che impone, o per lo meno consiglia, di fare buon uso del precedente. D’altro canto, l’art. 363-bis postula alla lettera soltanto che la questione “esclusivamente di diritto” possa “porsi in numerosi giudizi”, e cioè sia “ripetibile”, il che rispecchia, in verità, i caratteri di generalità ed astrattezza di ogni legge, la quale, appunto, ha di per sé destinatari indeterminati ed è suscettibile di essere applicata un numero indefinito di volte. La ripetibilità della questione non può, invece, mai supporre l’identità dei fatti. In un sistema come il nostro, l’astratta enunciazione o interpretazione di una regola di diritto contenuta in una pronuncia della Corte di cassazione non vale comunque a precostituire un precedente nel senso proprio degli ordinamenti di common law, questo consistendo, piuttosto, nell’applicazione data alla legge in relazione al fatto concreto oggetto di lite. L’ultimo comma dell’art. 363-bis precisa in proposito, come meglio si vedrà nelle prossime pagine, che il principio di diritto enunciato dalla Corte sia “vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione” (ed anche nel nuovo processo in cui, a seguito dell’estinzione di quello, sia riproposta la domanda”).
Per gli ulteriori “numerosi giudizi” in cui, invece, la questione oggetto del rinvio pregiudiziale dovesse porsi, la regola di diritto formulata in termini generali dalla Corte di cassazione servirà, invece, ad infittire la cortina dei precedenti dotati di efficacia persuasiva, ma è facile preconizzare che, nella pratica, essi si ergerà a norma universale passibile di applicazione deduttiva: potremo averne (ipotetici) vantaggi sotto il profilo della “calcolabilità giuridica” delle decisioni, ma per alcuni è facile presagirne anche i rischi correlati ad una (ennesima) deriva autoritaria e burocratica nell’esercizio della giurisdizione. Basti pensare al rilievo che la mancata conoscenza di un provvedimento che definisca una questione pregiudiziale potrebbe assumere ai fini della responsabilità civile nell’esercizio delle funzioni giudiziarie[9].
V. Il procedimento dinanzi alla Corte di cassazione
Il Primo Presidente, ricevuta l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, verifica dapprima la sussistenza delle condizioni di ammissibilità della questione, dichiarandone, in caso di esito negativo, l’inammissibilità con decreto. Tale provvedimento rivela, quindi, l’esercizio di una funzione presidenziale non meramente organizzativa, quanto “giurisdizionale”, che viene peraltro prevista come strumento di filtro nell’utilizzo di una nuova attribuzione della Corte, non impugnatoria, né, dunque, “cassatoria”, ma consultiva, e perciò, secondo alcuni, essa poi “non giurisdizionale” (G. Scarselli)[10].
All’eventuale declaratoria di inammissibilità adottata dal Primo Presidente farà seguito la restituzione degli atti al giudice a quo, e il processo di merito riprenderà mediante fissazione della successiva udienza, senza necessità che si proceda a riassunzione ai sensi dell’art. 297 c.p.c.
Se, viceversa, la questione appare ammissibile, il Primo Presidente assegna la stessa alle sezioni unite (è da ritenere nel concorso dei presupposti di cui all’art. 374 c.p.c.) o alla sezione semplice.
La disposizione sembra scritta nel senso che, passato il vaglio di ammissibilità presidenziale, la Corte pronunci (senz’altro) in pubblica udienza definendo la questione. E’ tuttavia sostenibile che la preventiva valutazione di “non inammissibilità” della questione, che il Primo Presidente compie, non preclude alla Corte, all’esito dell’udienza pubblica, di dichiarare con sentenza l’inammissibilità della stessa per carenza di alcuna delle relative condizioni, in quanto la delibazione del collegio non rimane vincolata dalla precedente valutazione ed anzi, in virtù della più ampia garanzia assicurata dalla pubblica udienza, si estende a tutti profili posti dalla questione (così ad esempio F. De Stefano).
L’art. 363-bis chiarisce che la Corte pronuncia in pubblica udienza, ipotesi che va quindi ad aggiungersi a quelle di cui all’art. 375, comma 1, c.p.c. E’ prevista la “requisitoria scritta” del pubblico ministero (che si segnala, oltre che per l’espressione più propriamente processualpenalistica, per la sua apparente obbligatorietà), mentre alle “parti costituite” è data “facoltà di depositare brevi memorie”. Il richiamo dei termini di cui all’art. 378 c.p.c. sembra da intendere generale (non oltre venti giorni prima dell’udienza per il pubblico ministero, e non oltre dieci giorni per le parti).
La facoltà di presentare le memorie è attribuita alle “parti costituite”, ma il procedimento delineato dall’art. 363-bis non contempla autonomi atti di costituzione dinanzi alla Corte di cassazione, nei quali poter eventualmente rilasciare altresì la procura speciale ad avvocato iscritto nell’apposito albo, ai sensi degli artt. 83 e 365 c.p.c., e ciò deve considerarsi anche ai fini della comunicazione dell’udienza e dello svolgimento delle difese in sede di partecipazione alla discussione orale. E’ vero che manca una norma sul modello dell’art. 47, comma 1, c.p.c. in tema di regolamento di competenza, ma appare coerente con la natura del giudizio ex art. 363-bis concludere che a tali attività sia legittimato il difensore della parte munito di procura speciale per il giudizio di merito (in tal senso, F. De Stefano; in senso opposto, A. Mondini).
La pronuncia in pubblica udienza stabilita dalla norma in esame suppone che la discussione si svolga ai sensi dell’art. 379 c.p.c. e che all’esito venga deliberata una sentenza, a norma dell’art. 380 c.p.c., la quale avrà il contenuto proprio di tale provvedimento ed enuncerà il principio di diritto, disponendo la restituzione degli atti al giudice, anche qui senza che si renda necessaria una riassunzione della causa davanti al giudice di merito su iniziativa di una delle parti.
VI. La prosecuzione del giudizio di merito
L’ultimo comma dell’art. 363-bis sancisce che il principio di diritto enunciato dalla Corte sia vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione e, se questo si estingue, anche nel nuovo processo in cui è proposta la medesima domanda tra le stesse parti[11].
Il vincolo del principio di diritto non riguarda, allora, soltanto il giudice che aveva disposto il rinvio pregiudiziale, ma l’intero procedimento, e quindi anche i giudici delle eventuali impugnazioni, ivi compresa la stessa Corte di cassazione successivamente adita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., la quale neppure potrà aderire, semmai, ad un nuovo orientamento giurisprudenziale che si sia formato sul punto.
La norma ricorda gli artt. 384, comma 2, e 393 c.p.c., in ipotesi di cassazione con rinvio per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, pur differenziandosene, in quanto il giudice del rinvio ex art. 392 e ss. c.p.c. deve uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre il giudice di merito cui gli atti vengano restituiti a seguito della pronuncia del provvedimento che definisce la questione oggetto del rinvio pregiudiziale potrà, sulla base di tale provvedimento, sia valutare i fatti già accertati, sia indagare su altri fatti, se gli sia tuttora consentito dal sistema delle preclusioni.
Paiono più nette le diversità tra l’art. 363-bis ed il principio di diritto nell’interesse della legge enunciato su richiesta del Procuratore generale o d’ufficio, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., non avendo quest’ultimo, come già si è accennato, alcuna efficacia per le parti del processo a quo.
In ciò sta il mistero del nuovo istituto: la risoluzione di una questione esclusivamente di diritto, adottata nel corso del processo di merito indipendentemente dalla definizione del thema decidendum e del thema probandum, è vincolante in esso ed il giudice ad quem deve trarre dalla fattispecie astratta enunciata dalla Suprema Corte la regola che decide la fattispecie concreta. Acquisisce una stabilità irreversibile, tanto nel processo pendente, quanto nel nuovo processo in cui venisse riproposta la medesima domanda, una questione di diritto che individua la sola sequenza logica fra norma ed effetto giuridico e che anticipa l’accertamento in essa sussumibile[12].
Analogamente a quanto avviene per l’efficacia del principio di diritto enunciato nella sentenza di annullamento, la risoluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale potrà perdere la sua vincolatività se la norma da applicare risulti abrogata o modificata in conseguenza di ius superveniens, dichiarazioni di illegittimità costituzionale o sentenze della Corte di giustizia UE. Non inficeranno, invece, la stabilità della pronuncia ex art. 363-bis gli eventuali intervenuti mutamenti della stessa giurisprudenza di legittimità.
Strana, indubbiamente, è la sorte che attende il giudice del merito dopo la risoluzione del rinvio pregiudiziale. La questione di diritto, ricavata dalla norma che detta la disciplina degli interessi in conflitto in ordine ai beni oggetto di lite ed il complesso dei fatti che costituiscono ipoteticamente il fondamento della pretesa azionata in giudizio, dal cui verificarsi discende un determinato effetto giuridico, è, come detto, da intendersi definitivamente fissata dalla Corte di cassazione. Ciò avviene senza che la soluzione della questione investita dal rinvio pregiudiziale acquisti l’efficacia positiva del giudicato; non di meno, la sentenza della Suprema Corte contiene un principio di diritto che è incontestabilmente eretto a presidio della relazione strutturale tra la questione risolta e l’effetto giuridico oggetto del processo successivo, come anche dei giudizi fra le stesse parti in cui essa si presenti. La decisione del giudice investito dalla restituzione degli atti è chiamata unicamente a convalidare che quel fatto o complesso di fatti supposti dalla Corte di cassazione siano realmente accaduti, per poi calarli nella relazione fatto-effetto coperta da statuizione irretrattabile.
Si è ipotizzato che la vincolatività della pronuncia interpretativa della Corte di cassazione per giudici anche diversi da quello che ha sollevato la questione si pone in contrasto con il principio costituzionale per cui il giudice è soggetto solo alla legge (art. 101, comma 2 Cost.)[13]. Il dubbio potrà essere dipanato frugando fra i righi della sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 1970. Essa afferma che la Costituzione, legando il giudice alla legge, vuole assoggettarlo non solo al vincolo di una norma che specificatamente contempli la fattispecie da decidere, ma altresì all’efficacia di ciò che abbia “deciso altra sentenza emessa nella stessa causa”, che è quel che avviene nel sistema del rinvio dalla Cassazione. Ma ciò perché “l’efficacia della sentenza che dispone il rinvio è determinata dalla regola del non bis in idem, che porta, di necessità e a seconda dei casi, ad una preclusione, alla cosa giudicata o, comunque, ad un punto fermo nel processo di graduale formazione logica della pronunzia finale”. Il vincolo che il principio di diritto enunciato dalla Corte ai sensi dell’art. 363-bis determina per i giudici del procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione (o nei nuovi identici processi che seguano all’estinzione di quello) sarebbe, allora, costituzionalmente tollerabile se ci si convincesse che anche la nuova norma abbia “ritenuto conchiusa una fase del processo e immutabilmente fissato il punto di diritto deciso, con effetto limitato alla causa”. Si potrebbe sostenere che la pronuncia che risolve il rinvio pregiudiziale definisce l’oggetto del procedimento che prosegue, il quale si svolge “per riportare al fatto la regola che è stata rilevata, in modo che la sentenza della Corte suprema abbia un suo effetto concreto”.
Le parole che la Corte costituzionale adoperava nella sentenza n. 50 del 1970, tuttavia, si riferivano al processo di cassazione inteso non più come strumento “per la custodia di una legge avente vita in sé e per sé, per una pronunzia cioè data all’infuori di ogni interesse di parte e di qualsiasi riferimento a un caso concreto”, ma come “processo di impugnazione”, il quale per sua natura “riceve limiti da ciò che alle parti è consentito di destinare ad un riesame e dà limiti ai giudici che hanno competenza a pronunciarsi nel prosieguo della causa”. Quanti di questi argomenti, allora, si confanno effettivamente al rinvio ex art. 363-bis? Compare sfocata sullo sfondo di queste pagine una questione che davvero presenta gravi difficoltà interpretative e che non è stata ancora risolta da alcuno.
[1] Si segnalano, fra i primi commenti, F. Barbieri, Brevi considerazioni sul rinvio pregiudiziale in cassazione: il giudice di merito superiorem recognoscens, in Nuove leggi civ. comm., 2022, 2, 369 ss.; A. Briguglio, Il rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di Cassazione, in Judicium, 21 dicembre 2022; B. Capponi, È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, in Giustizia insieme, 2021, 19 giugno 2021; F. De Stefano, Riforma processo civile: il nuovo rinvio pregiudiziale interpretativo, in ilProcessocivile 24 gennaio 2023; M. Fabiani, Rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione: una soluzione che non alimenta davvero il dibattito scientifico, in Riv. dir. proc., 2022, 1, 197 ss.; R. Frasca, Considerazioni sulle proposte della Commissione Luiso quanto al processo davanti alla Corte di Cassazione, in Giustizia insieme, 7 giugno 2021; C.V. Giabardo, In difesa della nomofilachia. Prime notazioni teorico-comparate sul nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione nel progetto di riforma del Codice di procedura civile, in Giustizia insieme, 22 giugno 2021; A. Mondini, Il rinvio pregiudiziale interpretativo, in Judicium, 27 dicembre 2022; G. Scarselli, Note sul rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione di una questione di diritto da parte del giudice di merito, in Giustizia insieme, 5 luglio 2021; E. Scoditti, Brevi note sul nuovo istituto del rinvio pregiudiziale in cassazione, in Questione Giustizia, 3/2021, 105 ss.; G. Trisorio Liuzzi, La riforma della giustizia civile: il nuovo istituto del rinvio pregiudiziale, in Judicium, 10 dicembre 2021.
[2] I primi commentatori escludono che il rinvio pregiudiziale sia esperibile dai giudici speciali; è invece controversa la praticabilità da parte dei giudici tributari (cfr. A. Briguglio; F. De Stefano; R. Frasca; A. Mondini).
[3] Si vedano, di recente, A. Spirito, Il giudizio civile di cassazione nel suo aspetto funzionale: ius constitutionis e ius litigatoris, in Il giudizio civile di cassazione, Collana I Quaderni della SSM, Quaderno 20, Roma 2022, 36; L. Lombardo, Passato e futuro della Cassazione civile (a cent’anni da “La cassazione civile” di Piero Calamandrei), in Riv. dir. proc., 2021, 3, 892 ss.
[4] Può essere utile ricordare che, secondo l’art. 2, comma 2-quater, della legge 24 marzo 2001, n. 89, ai fini del computo della ragionevole durata del giudizio presupposto, “non si tiene conto del tempi in cui il processo è sospeso”.
[5] Si assume, peraltro, che l’ordinanza di rinvio pregiudiziale possa essere revocata dal giudice di merito, in forza dell’art. 177 c.p.c., ovviamente prima che si pronunci la Corte (A. Briguglio). Tale conclusione appare plausibile, considerando che con l’ordinanza ex art. 363-bis il giudice di merito non esaurisce certamente la propria potestas iudicandi sulla causa dinanzi a sé, ed anche opportuna, allorché, ad esempio, quando ancora non sia stata attuata la verifica presidenziale di ammissibilità, la questione rimessa venga altrimenti “risolta” da una sopravvenuta decisione della Suprema Corte.
[6] Appare significativo notare che il d.lgs. n. 149 del 2022 ha tradotto con “questione non ancora risolta” il criterio della legge di delega che, invece, prevedeva che la questione, oltre a rivelarsi “di particolare importanza”, non dovesse essere stata “ancora affrontata dalla Corte di cassazione”. Il giudice di merito potrebbe, allora, rinviare alla Corte di cassazione una questione che questa abbia affrontato, senza tuttavia “risolverla”, o che semmai risulti “decisa in senso difforme dalle sezioni semplici”, così stimolandone la rimessione alla sezioni unite. Non sembra, viceversa, data facoltà al giudice di merito di sperimentare il rinvio pregiudiziale se “ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite”, come consentito alle sezioni semplici dall’art. 374, comma 3, c.p.c.
[7] A proposito dell’art. 360-bis, n. 1, c.p.c., Cass. 22 febbraio 2018, n. 4366, ha affermato che integra l’orientamento della giurisprudenza Suprema Corte il precedente “quand’anche unico e perfino remoto, ma univoco e chiaro”.
[8] Questa condizione viene sinteticamente etichettata nei primi commenti come “serialità della questione”: ad esempio così A. Briguglio.
[9] Si veda Cass. sez. un. 3 maggio 2019, n. 11747.
[10] Si è osservato che i diffusi timori di un uso assai disinvolto del rinvio pregiudiziale da parte dei giudici di merito sarebbero smentiti dalla costatazione dello scarso ricorso fatto all’omologo francese della saisine pour avis, la quale conta una decina di casi l’anno tra settore penale e settore civile, in particolare 131 casi di diritto civile dal 2010 al 2019 (F. Barbieri; B. Capponi).
[11] Questa efficacia limitata e rafforzata in rapporto al (solo) procedimento di rimessione segna una rilevante differenza rispetto all’omologo francese della saisine pour avis: F. Barbieri; F. De Stefano.
[12] Cfr. M. Fabiani.
[13] A. Mondini.
La giustizia civile nei ragionamenti critici di un giurista illuminista e riluttante
Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Giuliano Scarselli
«Mala tempora currunt. Scritti sull’ultima riforma del processo civile»
Il libro, pubblicato da Pacini Giuridica nel mese di febbraio 2023, che raccoglie gli scritti di Giuliano Scarselli sull’ultima riforma del processo civile introdotta dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (ma anche su alcuni temi alla stessa connessi, tra i quali: la nuova azione di classe, la composizione negoziata della crisi d’impresa, la riforma della magistratura tributaria, l’applicazione di schemi tipici di common law, la riforma dell’ordinamento giudiziario, il progetto di riforma volto ad inserire in Costituzione una c.d. Alta Corte quale organo di impugnazione delle decisioni del CSM) è l’occasione di questa conversazione a tutto campo con l’Autore che, come si legge nella seconda di copertina, invita i lettori ad una «riflessione sui mutamenti che stiamo vivendo, con il dovuto distacco e senso critico, e senza che niente sia dato per scontato e/o inevitabile».
V. A. Poso A cosa serve il processo civile? Una prima domanda che può sembrare, forse, troppo banale.
G. Scarselli Non è affatto una domanda banale.
Sinceramente, non so cosa rispondere.
Forse potrei rispondere utilizzando una frase di Giuseppe Chiovenda, il quale diceva che il processo civile “deve dare a chi ha un diritto, praticamente tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire”.
Questo dovrebbe essere lo scopo del processo civile: in tutte le ipotesi di crisi di collaborazione, il processo, e quindi lo Stato, deve dare, e/o essere in grado di dare, alla parte che ha subito un torto, quelle stesse utilità che avrebbe avuto in forza del diritto sostanziale se quel torto non ci fosse stato.
Anche un bambino direbbe: certo, questo è lo scopo del processo civile! Non può essere altrimenti!
Il paradosso, però, è che oggi non solo il processo civile non è in grado di fare ciò, ma addirittura da più parti si ritiene che le finalità del processo civile non debbano più essere queste, perché, come taluni sostengono, questa è una visione troppo individualista, troppo liberale, del processo civile, perché bisogna invece mediare, perché bisogna tener conto della ragionevole durata dei processi, perché v’è il rischio che il cittadino abusi degli strumenti di tutela, perché il PNRR non vuole, e poi ce lo chiede l’Europa, vogliamo scherzare?
E allora, chissà. Un tempo si diceva che il processo servisse a far guadagnare gli avvocati, oggi escludo radicalmente che possa avere anche questa funzione, visto che gli avvocati non li paga più nessuno.
Non si sa, dunque, a cosa serva il processo civile; ed infatti, secondo me, a breve non ci sarà più; l’ho scritto anche in più di un saggio.
V. A. Poso Torniamo seri. Quanto c’è di tecnica, e quanto c’è di ideologia nel processo civile?
G. Scarselli Ci sono entrambi, in misura direi paritetica.
Prima, viene l’ideologia, e poi la tecnica. Prima si tratta di stabilire cosa si voglia fare, quali siano gli obiettivi, le priorità, gli equilibri; successivamente segue la tecnica, ovvero le modalità con le quali il tutto deve essere realizzato.
L’ideologia, poi, si riduce a questo: trovare un equilibrio tra libertà e autorità, tra privato e pubblico, tra cittadino e Stato.
Una volta trovato l’equilibrio, seguono le norme.
L’analisi di una riforma dovrebbe così separare questi due momenti.
Dovremmo chiederci: quali sono gli equilibri? Ci convincono? Sono corretti?
E, una volta risposto a ciò, dovremmo poi ancora domandarci: le norme scritte sono chiare, sono coerenti, hanno individuato il percorso più semplice e breve per raggiungere l’obiettivo dato?
Oggi, però, la parte ideologica, o meglio dire politica, del processo civile, sembra non interessare più la maggioranza della dottrina, che è invece soprattutto presa dall’analisi degli aspetti tecnici, dall’esegesi delle norme.
Io soffro un po’ di questa situazione.
Si va a verificare, ad esempio, se una norma, che disciplina un problema specifico e settoriale, può essere interpretata in un certo modo piuttosto che in un certo altro, quando a me, quasi sempre, mi sembra che interpretata in un modo o nell’altro, poco cambia.
Poi ci sono invece le rivoluzioni degli equilibri, i mutamenti dei rapporti tra cittadino e Stato, e di quelli nessuno parla, nessuno dice niente.
Per questo ho esclamato: mala tempora currunt!
V. A. Poso Nel corso degli anni molte sono state le riforme del processo civile, sempre per rispondere a esigenze contingenti, mai con uno sguardo d’insieme, di sistema.
G. Scarselli Direi che lo “sguardo d’insieme” si è perso da tempo; tuttavia, è forse opportuno precisare che con “sguardo d’insieme” possono intendersi due cose assai diverse tra loro.
Ed infatti per “sguardo d’insieme” può intendersi l’esigenza di fare sistema, ovvero di fare in modo che la disciplina processuale sia rispondente ad un ordine sistematico e scientifico; e per “sguardo d’insieme” può intendersi invece quell’equilibrio ideologico del quale abbiamo detto, la consapevolezza delle ricadute “politiche” che ogni scelta “tecnica” ha.
Orbene, quanto al primo aspetto, l’idea di dar ordine sistematico al processo civile era obiettivo dei nostri padri, dei processualisti del primo Novecento, di Giuseppe Chiovenda, di Francesco Carnelutti.
Oggi penso che il tema sia superato.
Il processo civile ha funzioni pratiche, serve per tutelare il diritto sostanziale, non può essere assimilato ad una scienza, sinceramente non credo lo sia.
Il processo civile deve funzionare in ordine all’obiettivo di rendere giustizia, non altro.
Per mia natura, poi, devo confessare, non amo l’ordine più del disordine, credo che entrambi siano necessari.
Importante, viceversa, a mio avviso, è che vi sia l’altro “sguardo d’insieme”, che non si trascuri che nel disciplinare il processo civile è prioritario stabilire il rapporto che si vuole tra libertà e autorità, e solo dopo aver chiaro questo aspetto si può procedere a comporre una norma processuale, oppure ad analizzarla.
E, vede, penso che anche su quest’ultimo aspetto sia necessario porre una nuova distinzione: poiché, a fronte di molti che sembrano oggi non percepire il problema, ve ne sono altri che non lo vogliono affrontare.
Non v’è commento della riforma che si occupi di questo aspetto, non v’è nessuno che si domandi in che modo si possa, ad esempio, ridurre i tempi del processo senza comprimere la misura di libertà che il cittadino ha diritto di pretendere a fronte dell’autorità.
V. A. Poso Sotto questo profilo vorrei muovere dalla stagione del riformismo coraggioso, dal nuovo processo del lavoro introdotto dalla l. 11 agosto 1973, n. 533, che ancora oggi rappresenta un modello per la tutela dei diritti. O non è così?
G. Scarselli La riforma del processo del lavoro fu senz’altro coraggiosa ed importante per l’epoca, e si inserì perfettamente nelle novità di quegli anni ’70, insieme alla legge sul divorzio, alla riforma del diritto di famiglia, allo statuto dei lavoratori.
Che possa però essere oggi un modello, direi senz’altro di no.
Non condivido in primo luogo l’idea che per superare le diseguaglianze tra i litiganti possono aumentarsi i poteri del giudice, poiché, tutto al contrario, dinanzi al giudice, le parti sono sempre, inevitabilmente, tutte eguali, e il giudice deve in ogni momento mantenere la sua equidistanza e la sua terzietà.
Il processo non ha infatti niente a che vedere con l’art. 3, 2° comma Cost.
Lo Stato deve superare le diseguaglianze tra i cittadini sul piano del diritto sostanziale, non su quello processuale.
Si tratta, questa, della principale differenza tra diritto sostanziale e processo, ed è una differenza che purtroppo il processo del lavoro del 1973 in parte dimenticò.
In secondo luogo, oggi l’idea che l’oralità possa costituire aspetto centrale del processo, secondo gli schemi del processo del lavoro del 1973, appare davvero superata.
Con la (sostanziale) soppressione delle udienze, secondo un percorso già tracciato dalla riforma del giudizio di cassazione del 2016 e portata ora avanti con i nuovi artt. 127 bis e ter c.p.c., l’oralità nel processo civile possiamo dire che è morta.
Poi andrebbero ripensate le preclusioni degli atti introduttivi del processo, sulle quali io personalmente ho avuto sempre posizioni critiche, che furono al contrario la grande novità del processo del lavoro del 1973.
V. A. Poso Preciso che condivido solo in minima parte queste sue osservazioni. Comunque sia, tralasciando altri interventi normativi si arriva alla l. 26 novembre 1990, n. 353 che, a Suo dire, è la pietra d’inciampo di una serie di errori che si sono avuti nei vent’anni successivi nel porre rimedio alla crisi della giustizia civile.
G. Scarselli Sì, a mio sommesso parere la riforma del 1990 è stata l’inizio della discesa.
È stata la prima riforma che in modo espresso si è mossa sulla base della sfiducia nella classe forense.
Basti pensare alla prima udienza ex art. 183 c.p.c., ove si prevedeva, appunto, la comparizione personale delle parti per consentire al giudice un contatto diretto con le stesse al di là degli avvocati.
È stata poi una riforma che, più che di problemi concreti, si è occupata della risoluzione di nodi teorici: si pensi, solo a titolo di esempio, alla nullità della citazione ex art. 164 c.p.c., o alla riforma della tutela cautelare ex artt. 669 bis e ss. c.p.c.
Ed è stata una riforma che ha avuto a modello proprio il processo del lavoro del 1973, con il preciso obiettivo di aumentare i poteri del giudice e di inquadrare i diritti delle parti entro rigide preclusioni fino ad allora inesistenti.
Le riforme che poi si sono susseguite hanno fatto propri questi criteri.
Con una aggravante, però, che è bene tener presente: esse, quasi sempre, sono state pensate e studiate dall’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, ovvero da magistrati, i quali, per loro forma mentis, le hanno quasi sempre progettate dal loro punto di vista, orientate, più che a risolvere i problemi del processo tout court, a risolvere i problemi che hanno i magistrati nell’adempiere ai loro compiti nel processo.
E gli avvocati, in queste dinamiche, non sono mai riusciti ad esercitare un ruolo, perché hanno tenuto (quasi sempre) in debita considerazione che per sedere ai tavoli delle commissioni dovevano avere posizioni morbide e accondiscendenti, ed hanno così quasi sempre accettato, con qualche sola rarissima eccezione, questo metodo riformatore.
Di riforma in riforma, non v’è stato poi niente di nuovo, solo l’aggravarsi del metodo già fatto proprio dalla riforma del 1990.
V. A. Poso Insomma, un rincorrersi di riforme tutte uguali alle precedenti.
G. Scarselli Sì, dal 1990 non si fanno che tre cose: si contrae il diritto di agire in giudizio, si aumentano i poteri del giudice, si aumentano i tributi giudiziari e/o comunque i rischi economici legati all’esercizio del diritto di azione. Non si fa altro.
Ed anche la riforma di cui al d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, che oggi ci interessa, ha precisamente questi difetti.
Anch’essa, come le precedenti, vede nella parte che introduce una causa non il soggetto che ha subito un torto e chiede l’intervento dello Stato per porre rimedio a quel torto, ma solo e semplicemente un rompiscatole da arginare.
È vero che in alcuni casi la parte attrice è veramente un rompiscatole che pretestuosamente fa valere in giudizio un diritto che non ha, ma nella normalità dei casi, direi, è invece un soggetto che ha un problema, e che si rivolge allo Stato proprio perché spera che lo Stato gli risolva quel problema e gli renda giustizia.
E lo Stato, dinanzi a questi cittadini, e dinanzi anche a quelli che ormai, demoralizzati e demotivati, subiscono torti senza più nemmeno reagire, non può avere l’atteggiamento del disinteresse e della superficialità, non può dar tutela e attuazione al diritto sostanziale solo se il tutto possa farsi brevemente, non può chiedere, sempre e in primo luogo, di mediare, perché mediare è quasi sempre indurre la parte a rinunciare a qualcosa per chiudere velocemente un processo, e ciò costituisce deroga al principio chiovendiano secondo il quale, come abbiamo detto all’inizio, la tutela giurisdizionale deve invece dare a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire.
V. A. Poso Non a caso, riprendendo il titolo di una Sua raccolti di scritti pubblicata da Giuffrè Editore nel 2012 si faceva portatore di un manifesto di intenzioni «Per un ritorno al passato».
G. Scarselli Beh, sono considerato un conservatore, anche se non mi ritengo tale.
Non si tratta infatti di essere progressisti o conservatori; di volere il futuro o il passato.
Si tratta di definire gli equilibri che sopra ho indicato.
Il difetto di queste riforme, per me, non sta tanto nella tecnica, spesso anche pregevole, ma proprio nell’equilibrio.
V. A. Poso Arriviamo, quindi, all’ultima riforma, c.d. Cartabia, approvata dal Governo con il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, in attuazione della delega contenuta nella l. 26 novembre 2021, n. 206. Qual è lo spirito di questa riforma, il cui evolversi ha seguito fin dal suo inizio, a partire dal maxiemendamento 1662/S/XVIII? Le chiedo anche: era proprio necessaria una riforma così estesa per rendere adeguato ai tempi (e alle richieste degli organi europei) il nostro processo civile?
G. Scarselli Evidentemente no, per ridurre i tempi della giustizia era sufficiente fare una cosa: aumentare il numero dei magistrati.
Lo ha detto anche il Presidente della Commissione Francesco Paolo Luiso, io l’ho rilevato altresì nella mia audizione alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati: questa riforma non è pertinente con l’obiettivo che intende perseguire, non è in grado di ridurre i tempi del processo. Modificare il rito non serve per ridurre i tempi del processo, se vogliamo ridurre i tempi del processo va aumentato il numero dei magistrati.
Lo diceva soprattutto un grande magistrato del passato, Lodovico Mortara, nel 1919, nelle sue Istituzioni di ordinamento giudiziario, per il quale il numero dei magistrati e dei cancellieri deve essere portato ad una misura idonea al bisogno del pubblico servizio.
Ma su questa ovvietà, sa cosa mi è stato risposto? Che i soldi del PNRR non potevano essere spesi per questo, né impiegati per aumentare l’organico, ma solo per strutturare l’ufficio del processo; così vuole l’Europa.
E allora, dico io, andiamo avanti con l’ufficio del processo, e pace a Lodovico Mortara.
V. A. Poso Siamo sempre allo stesso punto: più risorse economiche e più persone, soprattutto magistrati. Ricordo, da ultimo, le proposte del Dott. Marco Modena e del Prof. Andrea Proto Pisani.
G. Scarselli Si, condivido sul punto le proposte del Dott. Marco Modena e del Prof. Andrea Proto Pisani.
V. A. Poso Tra i materiali della legge, tuttavia, ci sono anche i lavori della Commissione presieduta dal Prof. Francesco Paolo Luiso che rappresentano il canovaccio sul quale è stato cucito il testo del decreto legislativo, che non ha recepito tutto ciò che gli studiosi avevano indicato.
G. Scarselli Sì, per quel che so io il canovaccio non è stato recepito, se non in parte.
Tuttavia, non ho informazioni precise perché non ho fatto parte della Commissione.
Il Governo ha rivisto il testo della relazione della Commissione Luiso (e dell’articolato normativo predisposto) e ha mantenuto inalterata la versione rimaneggiata anche dopo numerose critiche giunte a seguito della sua prima pubblicazione, e in quella forma lo ha presentato al Parlamento quale disegno di legge delega.
Il Parlamento lo ha dovuto approvare senza discussione, in quanto su esso veniva messa da parte del Governo la fiducia.
E, sempre al fine di evitare la discussione parlamentare, il disegno di legge delega veniva riscritto, seppur con analogo contenuto, in un solo articolo a fronte di 16 articoli che conteneva il progetto n. 1662. Questo unico articolo era lungo ben 39 pagine.
Il tutto, sia consentito, in una situazione un po’ grottesca, poiché ai sensi dell’art. 76 Cost., una legge delega dovrebbe essere una legge con la quale il Parlamento delega il Governo a fare un decreto legislativo nel rispetto di certi principi; qui è stato il Governo che, imponendo la legge al Parlamento, di fatto ha delegato sé stesso a fare quella medesima cosa.
V. A. Poso Insomma, mi par di capire: gli studiosi consigliano e il Parlamento (e il Governo) decide. È così?
G. Scarselli Non il Parlamento, il Governo decide, e forse nemmeno il Governo, perché è la UE che dà le direttive.
Per scherzo ho scritto che non si sa più con chi prendersela.
V. A. Poso I temi della riforma, anche quelli trattati nel Suo libro, sono molti e non li possiamo affrontare tutti. Non sbaglio, però, se dico che, in estrema sintesi, la critica alla nuova riforma sia tutta nel pensiero di Montesquieu, tratto da Lo spirito delle leggi, che compare anche in esergo: l’esasperata semplificazione delle formalità della giustizia non considera che «le difficoltà, le spese, le lungaggini, i pericoli stessi della giustizia, sono il prezzo che ogni cittadino paga per la sua libertà».
G. Scarselli Sì, trovo Montesquieu oggi ancora più attuale, e ancora più necessario che in passato, e per questo ho inserito in esergo quella frase tratta da Lo spirito delle leggi.
Sono oggi in discussione due valori che a me al contrario sembrano vitali: la libertà dei cittadini e la separazione dei poteri.
Dobbiamo difendere questi valori, e dobbiamo così non dimenticare mai questo grande filosofo francese.
V. A. Poso Le critiche, generalizzate, al processo telematico e digitale, che costituiscono nel volume la sua prima preoccupazione, le trovo ingenerose, anche perché tutto è nato prima della pandemia. C’è una ragione dirimente che possa convincere non solo me del contrario?
G. Scarselli Io non sono contrario a priori al processo telematico e digitale.
Ho scritto, e lo ripeto, che ben venga il processo telematico se serve per il deposito di atti, per procedere a comunicazioni e/o notificazioni, per consentire talune (ma solo talune) udienze a distanza, per facilitare la sottoscrizione e/o l’autentica di un atto o per avere immediato accesso al fascicolo del processo; ma certo il mezzo informatico non può essere utilizzato oltre ciò, e non può essere pensato né per condizionare o limitare l’esercizio del diritto di azione da parte degli avvocati, né per limitare e/o circoscrivere lo ius dicere del giudice.
Credo che su questo potremmo essere tutti d’accordo.
Altrimenti il rischio è quello di impedire ogni evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali e avere una giustizia che guarda solo al passato, mai al futuro; è quello di impedire ai cittadini, attraverso i loro difensori, di potersi esprimere, di ipotizzare degli scenari, di opporre una teoria o un orientamento; significherebbe considerare del tutto inutile, se non addirittura eversivo, il pensiero dottrinale; significherebbe impedire alle parti di sottoporre al giudice, oltre agli aspetti giuridici di una lite, anche quelli umani o di semplice equità; significherebbe trasformare la scienza giuridica in matematica, attribuendo al precedente una forza che nel nostro sistema non ha e non deve avere; preluderebbe ad un mondo di eguali e obbedienti, ad un mondo dove non esistono più i diritti soggettivi ma solo tanti, indistinti, interessi; preluderebbe ad un mondo dove la persona non è più il centro del sistema ma solo un irrilevante punto inserito in una grande macchina che tutto determina e decide.
In breve, si tratterebbe di reprimere tutto ciò che viceversa uno Stato libero e democratico deve garantire.
Spero che l’avvocatura (un tempo baluardo delle libertà), si renda conto che dinanzi a questa prospettiva non può restare silente come in tante recenti occasioni ha fatto, poiché certo nessuno si rivolgerà più ad un avvocato se il compito di questi sarà solo quello di riempire un formulario o mettere delle crocette su un modulo.
V. A. Poso Una seconda critica riguarda l’invadenza del Governo, soprattutto con il Ministero della Giustizia, in materie riguardanti l’esercizio della funzione giurisdizionale (norme sull’azione di classe, codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, riforma della magistratura tributaria).
G. Scarselli È un grande tema (e un segnale d’allarme) che, come vede, chiama ancora in causa Montesquieu.
Esattamente ho notato, nello studio delle ultime riforme ruotanti intorno alla giustizia civile, che sempre più il Governo, soprattutto con il Ministero della Giustizia, si è ricavato degli spazi nell’esercizio della funzione giurisdizionale che prima non aveva.
Sono piccole cose, molte certamente prive di quella malizia che io invece ho lasciato intendere vi sia stata.
Però il timore è che una giustizia che si immagina predittiva, se non addirittura presto resa almeno in parte da macchine, potrebbe trovare eccessive tutte quelle disamine del filosofo francese, e fuorvianti le idee dell’illuminismo rispetto alle nuove esigenze di celerità ed efficienza.
In Italia si ritiene ancora che una cosa sia la Giustizia, altra cosa il Ministro della Giustizia.
Dobbiamo vigilare affinché questa contrapposizione non si perda, dobbiamo ricordare che ai sensi dell’art. 110 Cost. il Ministro della Giustizia si deve occupare solo dei servizi, non dell’esercizio della funzione giurisdizionale.
V. A. Poso Il principio di libertà della forma degli atti viene superato dalla riforma; e questo è oggetto di critica, al netto delle disarmonie rilevate tra la legge delega e il decreto legislativo di attuazione.
G. Scarselli Sì, è oggetto di critica sotto due profili: a) in primo luogo perché la determinazione delle forme viene demandata ad un decreto del Ministro della Giustizia, e a me pare veramente discutibile che il Ministro della Giustizia possa indicare a giudici e avvocati la misura e i criteri di redazione degli atti; b) ed in secondo luogo perché si sta marciando verso l’idea che gli atti giudiziari si debbano tutti adeguare a delle misure e a dei criteri standard perché una prima lettura degli stessi deve esser affidata a breve a delle macchine.
Non possiamo far finta che non ci siamo accorti di ciò.
Si tratta di una prospettiva non solo totalmente nuova, bensì anche, a mio parere, inquietante, poiché al Ministro della Giustizia spettano solo, lo ripeto, “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi”, e certo non rientrano, né sono mai rientrati, nel concetto di servizi relativi alla giustizia, le modalità di stesura degli atti processuali.
Si tratta di una novità che potrebbe alterare lo stesso rapporto che fino ad oggi abbiamo avuto tra giudici e Ministro.
V. A. Poso C’è poi il tema della valutazione, per così dire, in chiave economica, delle decisioni giurisdizionali, improntate a criteri di immediatezza e prevedibilità, con l’abbandono di inutili formalismi, che contraddicono, però, importanti principi costituzionali, primo fra tutti quello della indipendenza e della terzietà del giudice.
G. Scarselli Beh, quando uscì la proposta di riforma del processo civile da parte dell’Osservatorio conti pubblici italiani della Università Cattolica di Milano mi consultai con la mia cara amica Giuliana Civinini e sembrò ad entrambi una proposta così bizzarra da non credere.
Si proponeva di “disincentivare, sia per i clienti sia per gli avvocati, il ricorso in giudizio”, di “condannare l’attore soccombente in appello o in cassazione a pagare un importo pari al quadruplo del contributo unificato”, di “limitare la possibilità di ricorso in cassazione ai casi attualmente affidati alle sezioni unite”, di “creare un organo giurisdizionale di supporto (alla cassazione) che operi sotto la direzione del primo presidente per trasferire allo stesso la funzione di filtro”, di rendere il ricorso di cognizione sommaria “l’unica forma di atto introduttivo di una causa civile per tutti i livelli di giudizio”, fino a proporre il diniego di idoneità quadriennale ai magistrati “le cui cause vengono annullate dalla cassazione o totalmente riformate in appello in una percentuale superiore al 40 per cento della media nazionale”, o fino a sostenere che “Non c’è una ragione perché una controversia tra privati debba essere necessariamente gestita solo dallo Stato”.
Pensi: “creare un organo giurisdizionale di supporto”, veramente incredibile.
Ci si chiese come fosse possibile che simili proposte provenissero da una Università, e pensammo subito di scrivere insieme un articolo in risposta, se non altro per sottolineare che vi sono regole costituzionali che forse gli economisti ignorano ma che vanno rispettate, e che la ragionevole durata dei processi non può essere l’unico valore che lo Stato deve perseguire, perché, tutto al contrario, ci sono altri valori da tenere in considerazione, primo fra tutti la qualità delle decisioni giurisdizionali, la indipendenza e la terzietà del giudice, il diritto all’azione e al contraddittorio, il diritto alle prove e alle impugnazioni; ed anzi, se si deve dare una scala di valori, quest’ultimi diritti non possono venire affatto dopo la ragionevole durata, perché nessun processo è giusto se per durare poco sacrifica questi principi.
V. A. Poso L’esigenza di ridurre i tempi della giustizia civile, è, comunque, particolarmente sentita dagli operatori pratici e soprattutto dai cittadini. Ha una proposta concreta per realizzare positivamente questo obiettivo?
G. Scarselli Mi sia consentito separare la risposta in due momenti.
In primo luogo, io credo si debbano seguire le normali regole del rapporto tra domanda ed offerta per ridurre i tempi della giustizia.
Ho scritto da tempo che se la crisi del processo civile dipende da una sproporzione tra la domanda di giustizia dei cittadini e l’offerta di giustizia dello Stato, lo Stato semplicemente deve migliorare l’offerta per adeguarla alla domanda, non altro.
Invece la risposta che si dà per risolvere il problema, ormai da trenta anni, è quella di contrarre la domanda, non di migliorare l’offerta.
In tutti i sistemi economici una forte domanda è considerata in senso positivo, nella giustizia no.
Dobbiamo invece considerare che il numero eccessivo di cause non necessariamente è, né deve essere, un problema: esso è infatti segno di benessere e di consapevolezza dei cittadini di avere dei diritti.
Si migliori l’offerta invece di contrarre la domanda, ovvero si investa nel fenomeno giustizia potenziando mezzi e persone, e con un po’ di intelligenza il sistema giustizia potrebbe addirittura essere fonte di guadagno per lo Stato.
Sotto questo profilo torno alle proposte di Marco Modena e Andrea Proto Pisani.
In secondo luogo, poi, noi sentiamo tutti giorni questo mantra della durata eccessiva dei processi. Tutti i media ripetono questa cosa all’infinito, cosicché, alla fine, tutti si convincono che, effettivamente, il problema primo della giustizia sia indiscutibilmente quello della durata.
Io, però, non penso questo, e credo che anche molti giudici e avvocati siano di questo avviso.
Prima della ragionevole durata, ripeto, vengono il diritto alla difesa e al contraddittorio, il diritto alle prove, alle impugnazioni, all’accesso ad una giustizia che non sia semplicemente punitiva, all’idea che il giudice deve essere terzo, imparziale e indipendente, ecc.…
Per fortuna oggi questo è affermato solennemente anche dalla Cassazione (ordinanza 24 gennaio 2023, n. 2057), la quale ha statuito che: “Il principio della ragionevole durata del processo è certamente divenuto punto costante di riferimento nell’esegesi delle norme processuali…….ma, come è stato sottolineato anche in dottrina, mai è dato al giudice, in nome del citato principio, eludere distinte norme processuali improntate alla realizzazione degli altri valori di cui pure si sostanzia il processo equo: e tali sono per l’appunto il diritto di difesa, il diritto al contraddittorio, e, in definitiva, il diritto a un giudizio nel quale le parti siano poste in condizioni di interloquire con compiutezza nelle vari fasi in cui esso si articola”.
V. A. Poso Molti hanno enfatizzato l’ufficio del processo; ma davvero questo istituto è sufficiente a risolvere ogni problema?
G. Scarselli L’ufficio del processo, che più correttamente dovrebbe chiamarsi l’ufficio del giudice, certamente può migliorare la produttività di un Tribunale; tuttavia, presenta anche aspetti delicati ai quali non mi sembra sia stata data la giusta rilevanza.
La giustizia è infatti amministrata in nome del popolo, e quindi non può essere delegata ad un team di giovani, per quanto coordinati da un magistrato, appena usciti dalle università, assunti a tempo determinato e con compensi minimi; la giustizia deve essere resa personalmente dai magistrati, secondo scienza e coscienza, così come è sempre stato.
E tanto è più pericoloso l’ufficio del processo, quanto più si penserà ad esso in termini di riduzione dei tempi processuali, perché ogni tempo guadagnato con esso equivarrà ad una semplificazione e ad una banalizzazione della funzione giurisdizionale.
I Tribunali non sono aziende, e l’idea che il primo obiettivo da perseguire sia solo, o soprattutto, quello della brevità dei tempi, attraverso una standardizzazione aziendalistica delle decisioni, costituisce, a mio parere, un vulnus.
V. A. Poso È condivisibile la Sua critica alla «smaterializzazione della giustizia», che potrebbe essere anche la strada, veloce, per la rottamazione della giustizia civile. Farei, però, una distinzione tra udienze da remoto e udienze a trattazione scritta, anche in considerazione di quelli che sono gli effettivi adempimenti da realizzare e gli interessi delle parti da tutelare. E faccio mia la preoccupazione che, a lungo andare, il processo delle parti possa trasmodare nel processo delle carte, superando in tal modo il concetto stesso di udienza che necessariamente si deve svolgere di fronte al giudice, con il contraddittorio delle parti.
G. Scarselli Penso che quanto da Lei riportato sia esattamente il futuro che abbiamo dietro l’angolo.
L’idea tradizionale di udienza, ovvero l’idea che la giustizia si rende con l’incontro personale e diretto tra le parti, i difensori e il giudice, è idea che contrasta con un procedimento predittivo e meccanicizzato.
Se si vuole, gli artt. 127 bis c.p.c. e 127 ter c.p.c. rappresentano già il ponte tra il vecchio e il nuovo modo di intendere il processo, e certo una udienza a distanza è forse preferibile ad una udienza cartolare, ma credo che il problema resti nella sua interezza in entrambi i casi.
Ci attende una nuova procedura, dove le udienze non esisteranno praticamente più, perché l’udienza costituisce il momento dell’incontro tra gli esseri umani, e questa nuova giustizia vuole prescindere dall’essere umano, e ritiene infatti che gli esseri umani, meno si incontrano, meglio è.
Triste è poi per me immaginare che, per molti, la sparizione delle udienze sarà salutata con sollievo; si dirà: una perdita di tempo in meno, un contatto antipatico che i nuovi mezzi informatici riescono fortunatamente ad evitare.
V. A. Poso Una piccola digressione sull’atto di citazione, che Lei difende oltremodo. Mi ero fatto l’idea che fosse il ricorso lo strumento più adeguato di introduzione del giudizio, sempre che i tempi di fissazione dell’udienza risultassero contingentati e sottoposti a termini perentori (superando le prassi peggiori anche del rito del lavoro), seguendo il modello del ricorso per cassazione che porta all’attenzione del Supremo Collegio una causa già fatta, per così dire (con qualche rimodulazione necessaria per il giudizio di merito, per consentire l’attività istruttoria, in senso lato).
G. Scarselli Lo scritto sulla difesa dell’atto di citazione va considerato un gioco, nient’altro, un divertimento che mi sono concesso.
Senz’altro il ricorso può essere considerato lo strumento più adeguato di introduzione del giudizio, e senz’altro è così per i laburisti.
Mi sono semplicemente concesso il lusso di fare un passo indietro, di andare a scavare sull’ideologia che sta dietro la scelta tra citazione e ricorso.
Volevo fosse chiaro a tutti che la scelta tra citazione e ricorso non è soltanto tecnica, è una scelta anche ideologica.
Ho ricordato al riguardo la posizione del fascismo e mi sia consentito richiamarla anche qui: “Il congegno della citazione non ha per sé che la storia; trascurabile pregio per chi debba costruire un codice moderno; storicamente si spiega, appunto, la citazione, con una concezione del processo affatto opposta a quella che domina oggi ed ispira il progetto (Solmi) del quale si discute; quando si credeva che il processo fosse un affare tra le parti e perciò si riteneva che la domanda al giudice non potesse essere proposta se le due parti non fossero davanti a lui, era naturale che, prima di proporla, l’attore dovesse invitare il convenuto e perfino potesse trascinarlo in giudizio; ma adesso, quando sappiamo che in giudizio le parti non parlano tra loro, sibbene ciascuna di loro parla con il giudice, il principio del meccanismo dev’essere non tanto trasformato, quanto capovolto” (Giuseppe NAPPI, Commentario al codice di procedura civile, Società Editrice Libraria, Milano, 1942, II, 46).
In sostanza, la difesa dell’atto di citazione nient’altro era, per me, se non la difesa dell’ultimo simbolo della libertà nel processo civile.
V. A. Poso Nel novellato art. 342 c.p.c. (ma anche per il rito del lavoro con il riformato art. 434 c.p.c.) viene rafforzata l’inammissibilità dell’appello, anche per gli aspetti formali, con il rischio che la carenza dei requisiti formali ridondi nella carenza dei requisiti di cui ai nn. 1,2 e 3 dell’art. 324 c.p.c. Qualcosa di analogo vale anche con riferimento all’art. 366 c.p.c. per il ricorso per cassazione.
G. Scarselli Certo, si rischia che da domani un atto di impugnazione (e forse anche un atto difensivo tout court) possa essere dichiarato inammissibile perché privo di chiarezza oppure di sinteticità.
La trovo una cosa inammissibile, e scusate il gioco di parole.
Le Corti, infatti, a mio sommesso parere, non possono dare una esegesi delle disposizioni in tal senso, poiché l’inammissibilità di una impugnazione deve discendere da una condizione specifica e non da presupposti incerti e rimessi alla discrezionalità del giudice.
È la legge che, per prima, deve indicare in modo chiaro e specifico quali siano le ragioni di una possibile inammissibilità dell’impugnazione; e tra queste non possono esservi, nemmeno in via mediata e indiretta, quelle della chiarezza e/o sinteticità dell’atto di impugnazione.
Tra il serio e faceto si potrebbe allora dire questo: la chiarezza, la sinteticità e la specificità dell’atto non possono costituire condizioni di inammissibilità dell’impugnazione, poiché, a loro volta, non sono condizioni chiare e specifiche.
V. A. Poso Alcune critiche riferite al sistema sanzionatorio con l’aggiunta o la revisione, in senso peggiorativo, di pene pecuniarie diversamente modulate sono condivisibili. Ma l’abuso del processo può essere senza alcuna sanzione?
G. Scarselli Voglio essere chiaro sull’argomento, il testo dell’art. 96 c.p.c. nella versione degli anni ’50 era per me più che sufficiente; tutto quello che è stato fatto dopo è un eccesso, e non lo condivido.
Cerco di precisare, seppur nei limiti di una intervista: a) il diritto di azione comprende anche il diritto all’azione infondata; sanzionare l’azione infondata significa porsi in contrasto con l’art. 24 Cost.; b) l’abuso del processo deve essere tipicizzato dal legislatore, non può essere rimesso alla discrezionalità del giudice; c) l’abuso del processo non può costituire illecito amministrativo contro lo Stato ma solo illecito civile contro la parte che lo subisce; oggi lo si configura invece quale illecito amministrativo, per giunta senza le garanzie dell’illecito amministrativo, poiché tanto l’individuazione della fattispecie quanto la sanzione non è individuata dalla legge ma rimessa alla discrezionalità del giudice; d) l’abuso del processo non può che essere individuato dinanzi a liti di particolare gravità, poiché per tutto il resto deve suonare ancora forte l’avvertimento di Salvatore Satta: “se la forza della matematica è quella di non essere un’opinione, la forza del diritto è invece proprio quella di essere un’opinione”; e) l’aggravamento dei costi e dei rischi economici del processo è in contrasto con l’art. 3 Cost., poiché danneggia i diritti delle classi meno abbienti; lo diceva un liberale, non un comunista, quale Pasquale Stanislao Mancini, già nell’ottocento, per il quale, se si introducono ostacoli, costi o sanzioni all’esercizio dell’azione in giudizio, allora “una comune prudenza determinerà sovente il cittadino a sopportare in pace torti anche gravi piuttosto che ricorrere a mezzi cotanto onerosi di riparazione. Allora le liti diverranno il lusso dei ricchi, la giustizia un loro privilegio e non un bene ed un diritto egualmente garentito a tutti”.
V. A. Poso Che la nostra tradizione di civil law debba essere preservata lo penso anche io (non fosse altro per la mia formazione non solo universitaria ma anche mentale, quale allievo di Giuseppe Pera), ma davvero, se questa scelta fosse ineludibile, l’affermazione della common law sarebbe così preoccupante?
G. Scarselli Si tratta di un fenomeno che deve essere studiato, si tratta di rendere tutti consapevoli che qualcosa sta cambiando, che le nostre tradizioni stanno subendo una modificazione.
Peraltro, il termine common law è stato usato da me in senso meramente riassuntivo del fenomeno e per niente preciso; per scherzo, mettendo insieme l’inglese con il dialetto romanesco, io l’ho chiamata la common law de noantri.
È preoccupante?
Poco, se è una evoluzione naturale del sistema di tutela dei diritti.
Molto, se è qualcosa che qualcuno forzatamente vuole.
V’è comunque da vigilare, poiché in una logica di globalizzazione i paesi di civil law potrebbero essere in qualche modo indotti od obbligati ad abbandonare le loro tradizioni in favore di quelle della common law, visto che questa ultima meglio si presta ad una semplificazione dei processi.
Il rischio è poi che questa trasformazione mini il concetto stesso di “diritto soggettivo” e trasformi ogni diritto delle persone in meri interessi.
In ogni caso questa globalizzazione, portata avanti in nome della semplificazione e della immediatezza, ha per conseguenza, per i paesi di civil law, la banalizzazione assoluta del lavoro dei giudici e degli avvocati.
Nel medioevo vi era il c.d. causidico (dal latino causidicus, ovvero, colui che: “dice la causa”) il quale poteva agire in giudizio senza essere esperto di diritto.
Egli, infatti, si limitava a riportare i fatti; e questo era sufficiente, in quanto il causidico era solo un rappresentante della parte e non svolgeva ulteriori particolari funzioni.
A breve (io spero di no, ma credo di sì) ritorneremo ai causidici, poiché nient’altro sarà infatti richiesto agli avvocati se non rappresentare i litiganti e riferire i fatti controversi.
V. A. Poso Gli interventi normativi volti a rafforzare la vincolatività dei precedenti, che si sono susseguiti dal 2006 in poi, sino all’ultima riforma, sono molti. Anche questo è oggetto di critiche da parte Sua. Non è disposto ad accettare l’onere della vincolatività, ma nemmeno il principio della tendenziale vincolatività dei precedenti? A me sembra, questo, un modo adeguato per arrivare alla certezza del diritto applicato.
G. Scarselli Certo, dobbiamo salvaguardare e tutelare la certezza del diritto e il trattamento eguale di tutti i cittadini di fronte alla legge e nei processi, non c’è dubbio di ciò.
Ho solo detto, però, che una cosa è la nomofilachia, altra cosa la vincolatività dei precedenti; una cosa la civil law, altra cosa la common law.
Oggi queste distinzioni sembrano perse, e questo mi preoccupa.
La nomofilachia non può estendersi fino a ricomprendere la vincolatività delle decisioni della Corte di Cassazione.
Sono due concetti diversi, e tale a mio parere devono restare.
Ad ogni modo si tratta di un tema complesso che non può essere dibattuto in un’intervista.
Sto scrivendo proprio in questi giorni un articolo su questo, che penso di pubblicare a breve.
V. A. Poso Una piccola digressione. In un articolo che non fa parte degli scritti raccolti nel libro recensito, pubblicato sulla Rivista Judicium, 25 gennaio 2023, Sulle relazioni dell’ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, Lei pone il problema della nomofilachia e dell’indipendenza interna dei magistrati e del rapporto con quest’ultima delle relazioni di detto Ufficio, degno di essere approfondito, come se ci fosse un condizionamento, seppure indiretto ( e non voluto) nei confronti di tutti i magistrati (compresi quelli della stessa Corte di Cassazione). A me sembra – e per questo non condivido le Sue conclusioni – che diversi sono i piani in cui si muovono la nomofilachia, derivante dalle decisioni assunte dalla Suprema Corte, e le relazioni dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo: che necessariamente sono funzionali alla nomofilachia (e in tal senso è varia la loro articolazione nel sistema interno della Corte), ma rispondono, anche, all’esigenza di una periodica informazione all’esterno sui principali orientamenti della Corte di Cassazione
G. Scarselli Lo scritto al quale Lei fa riferimento pretende solo di essere momento di discussione su un aspetto che non mi pare secondario.
Le relazioni dell’Ufficio del Massimario non si limitano ad informare all’esterno sui principali orientamenti della cassazione ma prendono posizione sull’interpretazione delle nuove leggi.
Peraltro la legge sull’ordinamento giudiziario non prevede che l’Ufficio del Massimario svolga funzioni per l’esterno, ma solo compiti per l’interno della Suprema Corte.
Le relazioni sono utili e quasi sempre ben fatte, ma non è questo il problema.
Il problema è che i giudici del merito possono trovarsi in imbarazzo nell’interpretare personalmente la nuova legge, se questa è già stata interpretata dall’Ufficio del Massimario, ovvero dalla stessa Corte di Cassazione.
È conforme ciò all’indipendenza interna della magistratura?
È chiaro che i giudici del merito non sono tenuti a rispettare le indicazioni del Massimario, né il Massimario lo pretende; ma in un sistema che sempre più va verso l’uniformità delle decisioni e verso la gerarchizzazione della magistratura, per un giudice del merito assumere una posizione non conforme alle indicazioni del Massimario potrebbe essere difficile.
Ho quindi invitato a dibattere questi aspetti e valutare quale debba essere il giusto equilibrio tra nomofilachia e indipendenza della magistratura.
V. A. Poso In alcuni scritti raccolti nel libro oggetto di questa conversazione viene criticata la tendenziale prospettiva della nostra giurisprudenza a rendersi (sempre più) fonte del diritto. Cosa è che non la convince? La libertà o l’arbitraria interpretazione dei giudici?
G. Scarselli Anche qui, ho solo rilevato un dato, non ho espresso giudizi.
Non è questione di vedere se la cosa convince o non convince; nel nostro sistema la giurisprudenza non è fonte di diritto, punto.
Se invece lo diviene, allora significa che il nostro sistema di diritto è mutato.
Questo ho scritto; ed anche questo non è un tema secondario che possa essere trascurato.
E certo, se si arriva a dire, come è stato fatto (v. Corte Cost. 24 ottobre 2013, n. 248 e Corte Cost. 2 aprile 2014, n.77) che il giudice, in forza dell’art. 2 Cost. può mutare il tenore delle clausole di un contratto se queste sono “sbilanciate a danno di una parte”; oppure si arriva a dire (così Cass. 5 novembre 1999, n. 12310, ma vedi anche Cass. 13 settembre 2005, n. 18128; Cass. 24 settembre 1999, n. 10511; Cass. 20 aprile 1994, n. 3775), che il giudice, in una valutazione complessiva della relazione giuridica, “e a prescindere specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge”, può determinare, il “dovere di agire” ritenuto più equo, io credo che qualche domanda sia necessario porsela.
Perché, sia consentito, la certezza del diritto non sorge solo dalla nomofilachia, sorge anche dall’antica circostanza che, se io stipulo un contratto, faccio affidamento sulla relazione giuridica che in base a quel contratto mi lega ad un'altra persona.
Ma se il giudice, in deroga al contratto, può stabilire un’altra cosa, allora un problema di certezza del diritto devo pormelo, oltre al fatto che mi devo chiedere se ciò sia conforme al nostro sistema di civil law, visto che da noi, appunto, la giurisprudenza non è fonte del diritto.
V. A. Poso Una conclusione puramente accademica e di scuola. Dei processualisti dell’età aurea chi ha interpretato meglio di tutti lo spirito del processo civile?
G. Scarselli Il problema è che “lo spirito del processo civile” è soggettivo; se cambia lo spirito, cambia anche il processualista classico che meglio di tutti lo abbia interpretato.
A mio parere, comunque, questi è stato Piero Calamandrei.
So che così la pensava anche Franco Cipriani.
V. A. Poso E dopo di lui possiamo ritenere Virgilio Andrioli, non giurista, ma Maestro di giuristi, di intere generazioni di studiosi, molti dei quali diventati Maestri come lui?
G. Scarselli Sì, Virgilio Andrioli è stato un uomo e un giurista eccezionale.
Ricordo in proposito le parole di Andrea Proto Pisani: “voglio ricordare soprattutto l’affetto, l’umanità e l’intransigenza morale di Andrioli e proporlo come esempio in questo difficile momento che l’Università e la società tutta sta attraversando, spesso avendo dimenticato i valori che la Costituzione negli articoli 2 e 3 voleva porre a fondamento della nostra convivenza”.
E poi quelle di Francesco Carnelutti, riferite alle Lezioni di Virgilio Andrioli sul processo civile: “Andrioli è, secondo me, il miglior fenomenologo del diritto processuale che noi abbiamo in Italia; oserei dire, se mi si perdona il bisticcio, che la sua padronanza dei fenomeni processuali, così sub specie legis come sub specie judicii, è fenomenale”.
Sempre Proto Pisani dice del Maestro: “giudice della Corte costituzionale o collega di facoltà scontroso perché per natura inadatto alla mediazione propria dei collegi”.
Orbene, devo confessare che ho sempre apprezzato Virgilio Andrioli anche per il suo carattere, e amavo soprattutto la sua parlata, con un romanesco ostentato.
E torno a Piero Calamandrei.
V’è la possibilità di ascoltare su YouTube il discorso celebre che egli tenne agli studenti di Milano sulla Costituzione il 26 gennaio 1955.
Se lo si ascolta, si nota che Piero Calamandrei parlava quasi in vernacolo.
Si pensi: Piero Calamandrei che parla fiorentino e Virgilio Andrioli che parla in romanesco; e tutti noi, oggi, che ci sforziamo a parlare in inglese!
V.A. Poso Condivido il giudizio su Piero Calamandrei e Virgilio Andrioli (di questi due Maestri Giuseppe Pera ci ha dato sempre diretta testimonianza).Mi viene alla mente un giudizio lusinghiero a proposito della Sua densa monografia “ La condanna con riserva”, Giuffrè Editore, Milano, 1989, in due lettere di Virgilio Andrioli del 6 febbraio 1990 ( pubblicate con il n. 64 e il n. 65 , in appendice al libro dedicatogli dai suoi allievi, a cura di Andrea Proto Pisani, “ L’affetto, l’umanità e l’intransigenza morale di un Maestro: Virgilio Andrioli. Ricordi dei suoi allievi e lettere”, Jovene Editore, Napoli, 2020, pp. 150 e 151). E ovviamente, per il tempo presente, il riferimento è proprio al Suo Maestro fiorentino, Andrea Proto Pisani, un’altra voce calamitosa contro l’ultima riforma.
G. Scarselli Sì, ho avuto la fortuna di conoscere personalmente Virgilio Andrioli, una rarità per un giurista della mia generazione.
L’ho conosciuto la prima volta nel 1989: lui aveva 80 anni, io 29.
Non dimenticherò mai quell’incontro.
Il suo giudizio sul mio lavoro rimarrà per sempre la mia più grande soddisfazione professionale, qualunque altra cosa mi possa succedere.
Andrea Proto Pisani ha portato avanti la sua voce, e lo ha amato come un padre, forse più di un padre.
Voglio ricordare anche qui, a chiusura di questa intervista, un fatto per me indelebile.
Virgilio Andrioli, nell’ultimo periodo della sua vita, perse per ragioni di salute la capacità di intendere e volere, e Andrea Proto Pisani (Virgilio Andrioli non aveva figli) fu nominato dal Tribunale di Roma suo tutore.
Nell’ultimissimo periodo della sua vita Virgilio Andrioli non era più in grado di riconoscere le persone, ma Andrea Proto Pisani continuava egualmente a fargli visita, a passare del tempo con lui.
Virgilio Andrioli non lo riconosceva, e Andra Proto Pisani stava lì, stava lì egualmente.
Cos’altro posso aggiungere?
V. A. Poso Nulla. Questo e molti altri ricordi si possono leggere nell’intervista, intensa e passionale, che mi è stata rilasciata da Andrea Proto Pisani, “Ancora oggi in compagnia e a colloquio con il mio Maestro Virgilio Andrioli”, pubblicata su Giustizia Insieme il 7 novembre 2020.
Quali impatti avranno su di noi i Large Language Models e CHAT GPT (e quali saranno le conseguenze per il mondo del diritto)
di Fiorenzo Pilla
Sommario: 1. Introduzione - 2. Internet e la trasformazione della conoscenza - 3. L’universo digitale ci sta cambiando…e probabilmente ci cambierà ancora - 4. La delega ai sistemi digitali e la “consapevolezza” come strumento per affrontare il futuro - 5. Cosa sono i LLM e come funzionano - 6. Problemi effettivi e potenziali legati all’utilizzo dei LLM - 7. Conoscere per comprendere: predisporsi ai futuri impatti nel mondo del dritto.
1. Introduzione
I Large Language Model, e su tutti il più conosciuto tra essi, Chat GPT, hanno cambiato in brevissimo tempo il modo in cui concepiamo la tecnologia.
In un mondo in cui la quantità di informazioni e di dati disponibili è in costante crescita, i Large Language Model propongono al pubblico un nuovo modo per accedere e utilizzare queste informazioni: dialogare in linguaggio naturale con un sistema che fornisca l’illusione di una relazione con un’entità senziente, in grado di rispondere alle nostre domande e di elaborare testi, più o meno complessi, nella forma che più ci aggrada.
Ai Large Language Model, infatti, possiamo chiedere di scrivere un’e-mail su un argomento specifico, di produrre un articolo con un determinato numero di battute su un tema a nostra scelta, possiamo finanche indicargli di scrivere una poesia imitando lo stile dell’autore che più ci aggrada.
In tutti questi casi, il risultato potrà essere più o meno completo e dettagliato, ma nella gran parte delle occasioni fornirà la sensazione di trovarsi davvero di fronte a un prodotto dell’ingegno umano.
Al di là delle comprensibili tentazioni di rendere complessa ed eccessivamente tecnica la definizione, il funzionamento e i possibili campi di fruizione di tali modelli, tentazioni che possono riguardare sia gli operatori del diritto che quelli delle tecnologie, per comprendere appieno quanto dirompente possa essere stata la diffusione nell'utilizzo di questi strumenti, non solo nel definire il nostro rapporto con l'universo digitale, ma anche nell'esperienza quotidiana, è utile, se non necessario, riflettere su come l'avvento della diverse rivoluzioni digitali che si sono susseguite nell’ultimo quarto di secolo, a partire dalla prima, legata al World Wide Web, abbia modificato in maniera radicale il nostro rapporto con l'idea stessa di conoscenza.
2. Internet e la trasformazione della conoscenza
La diffusione dell'accesso a Internet, infatti, ha rappresentato una svolta epocale nella composizione e nella struttura delle fonti del sapere, una svolta tale da portare il filosofo Silvano Tagliagambe a definirla una seconda rivoluzione copernicana[1].
Il passaggio è stato rapido e repentino.
Se per lungo tempo, a partire dal Fedone di Platone, passando dal Novum Organum di Francis Bacon, fino al contemporaneo Albert Einstein, per rappresentare la conoscenza umana e le sue molteplici ramificazioni ci si è riferiti alla metafora dell'Albero, le tecnologie digitali hanno reso tale metafora non più applicabile su larga scala.
Nell'Albero, le radici formano le basi della conoscenza, il fusto simboleggia la sua struttura centrale e le diverse ramificazioni disegnano le molteplici branche del sapere.
Con Internet, tutto è cambiato, si è passati da una struttura gerarchica a una struttura distribuita e interconnessa, rappresentata proprio dalla nuova metafora della Rete.
Nella Rete, infatti, non esiste una base o un centro e i nodi sono tutti ugualmente importanti nella trasmissione del sapere. Ancora più importanti sono le interconnessioni tra i nodi, perché più la Rete è fitta, più è efficiente[2].
Se al tempo della prima diffusione di questa idea la natura democratica che sottendeva la metafora era apparsa come il preludio a una libertà totale nella costruzione del sapere, svincolata da oligopoli e concentrazioni, questa promessa appare, oggi, in buona parte disattesa.
Non solo.
Se da un lato la disponibilità planetaria ed orizzontale delle fonti ci ha garantito l'accesso, in potenza, a un sapere sconfinato, dall'altro, per le modalità con cui si è realizzata, ha influito su molti aspetti del nostro rapporto con l'assimilazione dei contenuti, prospettando finanche una modifica dei processi che poniamo alla base della ricerca e della memorizzazione.
3. L’universo digitale ci sta cambiando…e probabilmente ci cambierà ancora
Oggi, grazie a ricerche e studi che hanno esaminato la natura di questa metamorfosi[3], appare sempre più plausibile che l'evidente cambiamento nella proposizione e fruizione del sapere non riguardi solo un approccio funzionale e di natura pratica, ma investa anche la sfera fisiologica e le connessioni sinaptiche che definiscono i percorsi attraversati dai dati che elaboriamo nei nostri processi mentali.
Il nostro cervello, infatti, per adattarsi alla realtà che lo circonda, modifica i collegamenti neuronali e il modo in cui reagiscono agli stimoli esterni, generando i nuovi percorsi cerebrali che questi stimoli possono percorrere.
L'utilizzo del digitale, in forma consistente e costante, può amplificare queste modulazioni, sia per la sua natura di nuova realtà con cui socialmente ci troviamo a interagire, sia per le modalità con cui questa fruizione si realizza: rapida, breve, frequente.
Quel che emerge dai citati studi è un impatto, in generale, sulle capacità metacognitive, ovvero su quei processi mentali che ci permettono di organizzare e controllare le attività cognitive e di pensiero. Appare plausibile che le capacità metacognitive stiano parzialmente cedendo il passo alla componente più istintuale e affettiva, legata, nel panorama di contesto, ai processi di piacere e di ricompensa. Questo ribilanciamento sarebbe estremamente rilevante dal momento che i processi di razionalizzazione del pensiero contribuiscono in maniera essenziale all'acquisizione e al consolidamento di ciò che impariamo e lo fanno utilizzando l'attesa come strumento fondamentale, soprattutto nel caso di processi di lunga durata. In pratica, quando dobbiamo conservare memoria di elementi, ragionamenti, riflessioni che richiedono un impegno sia in termini di applicazione che di tempo necessario all'apprendimento, le pause di attesa predispongono alcune condizioni necessarie affinché i processi di assimilazione si svolgano correttamente e con successo.
La frenesia, la scarsa profondità e la bulimia informativa che caratterizzano molte delle nostre interazioni digitali quotidiane confliggono con questa architettura di processi e generano condizioni diverse alle quali le nostre menti provano ad adattarsi, portando come conseguenza una progressiva riduzione delle capacità di attenzione e concentrazione.
Appare evidente, oggi, una diffusa e pervasiva incapacità di affrontare l'attesa, sia essa quella relativa al caricamento di una pagina Web, sia quella per una coda inaspettata nello svolgimento di una commissione, sia, ancora, un allungamento del tempo di accesso per la fruizione di un contenuto.
In tutti questi casi, e in altri a essi assimilabili, è percepibile e palpabile un aumento diffuso del nervosismo, del disagio e del fastidio.
Se l'osservazione empirica ci permette di valutare gli impatti sociali di questi fenomeni, quel che ai più, probabilmente, sfugge è la conseguenza che ne deriva: se non siamo capaci di aspettare, non riusciamo a imparare.
E sempre nell'osservazione empirica della quotidianità, nei dialoghi e nelle interazioni relazionali emerge come, di pari passo con il progredire nella frequenza e rilevanza degli accessi al digitale, si diffonde la scarsa capacità di scatenare il meccanismo di ricompensa, il più efficace tra i driver dei nostri processi mentali, nel caso di elaborazioni che richiedano una quantità di tempo più consistente; a questo corrisponde una costante ricerca di ricompense a breve o a brevissimo termine, un esempio su tutti lo scrolling compulsivo di notizie o post sui social network, non in grado di fornirci il grado di benessere e di piacere di cui abbiamo bisogno.
L'osservazione correlata evidenzia come, se in passato la possibilità di utilizzare informazioni in maniera efficace era strettamente legata alla possibilità e alla capacità del singolo di riuscire a memorizzarle, oggi ci si sia socialmente affidati a una memoria "di accesso" e non di "di contenuto": non avendo più la necessità di memorizzare le informazioni in sé, conserviamo memoria dei percorsi da utilizzare per ricercarle, e ciò accade, nella maggior parte dei casi, attraverso un rapido utilizzo, e una conseguente rapida consultazione, degli strumenti digitali a nostra disposizione.
4. La delega ai sistemi digitali e la “consapevolezza” come strumento per affrontare il futuro
Possiamo condividere, quindi, la visione di una progressiva delega al contesto tecnologico di talune parti che hanno da sempre caratterizzato la natura del processo di acquisizione del sapere, delega che include il processo di ricerca delle fonti, spesso demandato alla elaborazione algoritmica dei motori di ricerca, e della memoria.
Possiamo persino spingerci a paventare una ridotta capacità di imparare che esuli dalle motivazioni sociali e si spinga a includere impatti fisiologici.
E proprio per l'esperienza che abbiamo accumulato negli ultimi cinque lustri, sebbene brevissima dal momento che in termini di evoluzione sociale venticinque anni possono essere considerati poco più di un battito di ciglia, è fondamentale che l'avvento dei nuovi Large Language Model sia accolto, sì, con entusiasmo e fiducia, ma anche con profonda consapevolezza.
È necessario comprenderne le caratteristiche, interrogarsi sui contesti in cui possano costituire valido supporto e, soprattutto, riflettere sui rischi di diversa natura che un loro utilizzo poco informato possa comportare. È necessario, oltre che auspicabile, inoltre, che una riflessione di questo tipo coinvolga anche le componenti legislativa e giudiziaria, dal momento che, mai come oggi, è urgente non rimanere indietro nella valutazione di impatto su entrambi i versanti, considerata la velocità estrema con cui le innovazioni digitali si impongono nella società contemporanea.
Se è vero, come è vero, che la consapevolezza nasce dalla conoscenza, dobbiamo, come primo passo, interrogarci su cosa siano davvero i Large Language Model e come quello che tra essi a oggi appare il più utilizzato ed efficiente, Chat GPT, abbia origine e funzionamento.
5. Cosa sono i LLM e come funzionano
Un Large Language Model è un tipo di modello di intelligenza artificiale addestrato per elaborare e generare testo in modo simile a come lo farebbe un essere umano. Semplificando, un Large Language Model è un sistema in grado di elaborare il linguaggio naturale e di produrre testo coerente e significativo.
Per addestrare un Large Language Model, si utilizzano enormi quantità di dati (articoli di giornale, libri, pagine Web, messaggi di social media, ecc.) in modo che, attraverso la loro analisi e una programmazione parallela, possa apprendere e progressivamente affinare le regole del linguaggio, la grammatica, le regole di costruzione delle frasi, le parole che si usano più frequentemente.
Per avere un’idea di cosa si intenda con “enormi quantità di dati”, basti pensare che, durante la fase di addestramento, al modello CHAT GPT sono stati dati in pasto una versione filtrata dell'intero Web, raccolta tra il 2011 e il 2021, e collezioni di libri in formato digitale composte da milioni di volumi differenti sugli argomenti più disparati.
Una volta addestrato, il modello può produrre nuovo testo in base a un input iniziale.
Se si pone una domanda al modello, esso può generare una risposta basata sulla elaborazione dei termini che compongono la domanda e del contesto di riferimento, il che rende gli Large Language Model utili in una vasta gamma di applicazioni: generazione di testo creativo, assistenza all'elaborazione del linguaggio naturale, traduzione automatica, sintesi del testo e molto altro ancora.
Quel che è importante sottolineare, però, è che questo processo di elaborazione non include una comprensione semantica del testo.
L'enorme capacità di calcolo di cui questi sistemi dispongono permette loro di eseguire una valutazione statistica sulla sequenza di parole e frasi legate ai termini presenti nella domanda. Nessun ragionamento, quindi, nessuna valutazione di merito, solo una ricerca, e in continua evoluzione, della probabilità che la parola successiva inserita nel testo sia la più appropriata e significativa rispetto alle parole che la precedevano.
6. Problemi effettivi e potenziali legati all’utilizzo dei LLM
Questa circostanza porta con sé due ordini di problemi.
Il primo è di natura fattuale. L'elaborazione statistica delle parole non garantisce alcuna attendibilità che vada oltre la costruzione di uno scritto verosimile nella forma. I meccanismi di risposta si basano sulle occorrenze, sui lemmi, sulle informazioni di cui parlavamo, e queste informazioni comprendono di tutto, elementi validi ed elementi che non lo sono. I Large Language Model sono sprovvisti di un qualsivoglia vaglio critico che permetta di approcciare in maniera razionale o semantica il testo progressivamente costruito e i comprensibili tentativi operati dai ricercatori per porre un filtro agli argomenti che appaiono più scomodi o rischiosi sono stati, fino a oggi, aggirati o elusi, a volte finanche dagli stessi Large Language Model.
Va da sé che un qualsiasi ausilio alla produzione di testo da parte di questi sistemi va ipotizzato tenendo sempre e comunque presente la necessità di una attenta e approfondita analisi ex post, e questo vale in particolar modo per i contesti in cui la parola scritta ha consistenti impatti sul piano pratico, andando a influenzare o intervenire su aspetti rilevanti della vita dei singoli.
Il secondo è di natura elaborativo\sociale e riguarda l'accesso alle informazioni e il riferimento alle fonti e, anche in questo caso, può essere utile ricordare quanto già accaduto in passato per dotarsi di una cornice d'esperienza in cui inquadrare gli eventi correnti e le prospettive future.
Come scrivevamo in precedenza, la promessa della prima era Internet di fornire un'informazione libera da vincoli e condizionamenti è stata parzialmente disattesa. Se è vero, da un lato, che in Rete è possibile trovare ogni tipo di notizia, opinione, orientamento, è altrettanto vero che, oggi, gli utenti dedicano, mediamente, poco tempo e ancor meno attenzione alla valutazione di quanto gli viene proposto. Nella maggior parte dei casi, si affida il proprio quesito a un motore di ricerca o a un'applicazione social lasciando che siano i sistemi algoritmici a indicarci le fonti che è più utile proporci.
L'utilità cui ci riferiamo è duplice perché comprende, sì, l'interesse dell'utente alla esplorazione del risultato, dal momento che questo è uno dei passi fondamentali per la sua fidelizzazione, ma, sull'altro versante, persegue l'interesse economico del motore stesso che non chiede alcun pagamento monetario agli utilizzatori e utilizza la pubblicità mirata come fonte di guadagno.
Questo sistema si è trasformato, progressivamente, nella concretizzazione pratica, come scrivevamo, di una delega agli algoritmi da parte degli utenti, delega avente ad oggetto la scelta delle fonti attraverso cui informarsi, con le conseguenti distorsioni che un affidamento totale della dieta informativa a un soggetto terzo, non super partes, può portare con sé.
Eppure, con i Large Language Model, nell'attuale forma di interazione dialogica, si fa un passo verso una delega ancora più forte.
A oggi, nelle risposte previste da Chat GPT, ad esempio, non è presente alcuna indicazione sull'origine dei dati cui la produzione della risposta o del testo fa riferimento; la limitata possibilità di scelta della fonte offerta dai motori di ricerca è completamente sparita.
Utilizzando i Large Language Model non solo ci affidiamo a loro nella scelta sul tipo di informazioni da reperire e sul dove recuperarle, gli stiamo affidando anche la loro analisi, elaborazione e presentazione.
7. Conoscere per comprendere: predisporsi ai futuri impatti nel mondo del dritto
Le conseguenze e i temi che questo cambiamento epocale può lasciar presagire sono molteplici e riguardano sia il versante teorico che l'applicazione pratica del diritto.
Sul piano civile, ad esempio, si pongono questioni riguardanti la responsabilità civile dei proprietari dei modelli nel caso di eventuali danni causati dal loro utilizzo da parte di terzi, come potrebbe accadere, ad esempio, nelle circostanze tutelate dal diritto d'autore.
Sul piano penale, invece, i Large Language Model possono essere utilizzati per commettere crimini, come la diffusione di contenuti illegali o pericolosi, il furto di dati sensibili o la frode. In questi casi, il legislatore e i giudici sono chiamati a considerare la questione della responsabilità penale dei proprietari dei modelli di linguaggio, nonché quella degli utenti che li utilizzano per commettere crimini.
Un aspetto particolarmente delicato, inoltre, è quello che riguarda l'impatto sulla privacy degli utilizzatori o di soggetti terzi.
Abbiamo scritto di come l'uso dei Large Language Model richieda la disponibilità di grandi quantità di informazioni per l'addestramento del modello e ciò comprende anche la raccolta e l’elaborazione di dati personali. Questi, possono essere raccolti tramite diversi canali, ad esempio social media, siti Web, e-mail e chat.
Appare chiaro, a tal proposito, che sia quanto meno da sollevare la questione relativa al consenso sulla loro raccolta ed elaborazione in un contesto che potrebbe andare ben oltre i termini di utilizzo sottoscritti dagli utenti delle diverse piattaforme di riferimento. Si consideri, ad esempio, la profilazione automatizzata, che si traduce nell'elaborazione delle informazioni personali per ottenere informazioni sul comportamento, le preferenze o le caratteristiche dell'utente.
Oggi, è difficile immaginare tutti gli impatti e le conseguenze sostanziali che queste nuovissime tecnologie potranno avere nel futuro prossimo e in quello più remoto.
Quel che, però, sappiamo di certo è che andranno ben oltre questi scenari, esemplificativi e non certo esaustivi; abbiamo, tuttavia, più di due decadi di esperienza alle spalle su come innovazioni digitali di questa portata abbiano avuto un impatto rilevante sul nostro modo di vivere la quotidianità e, di conseguenza, sul nostro sviluppo personale e sociale.
Partendo proprio da questa esperienza, sarà fondamentale utilizzare il, probabilmente breve, tempo che ci separa dal momento in cui l’adozione dei sistemi di intelligenza Artificiale di questo tipo sarà diffusa su larga scala, perché gli operatori del diritto imparino a conoscerli quanto più a fondo possibile. In questo modo potranno predisporsi, se non a prevedere tutti gli impatti sul piano giuridico e normativo, quantomeno a normare, sul versante legislativo, e a trattare, sul versante giudiziario, scenari che includano la presenza di queste e altre modalità di utilizzo delle intelligenze artificiali. Avremo la possibilità, così, di far tesoro di quanto osservava Randy Pausch, celebre informatico e professore all’University of Virginia, che ricordava come l'esperienza è ciò che otteniamo quando non otteniamo ciò che vogliamo.
[1] copernicana [Tagliagambe S., 1998, Rete, paradigma della conoscenza, Repubblica.it, online, https://www.repubblica.it/online/internet/mediamente/tagliagambe/tagliagambe.html, 14 febbraio 2023]
[2] [AA.VV., 1997, The Father of the WEB, Wired.com, online, https://www.wired.com/1997/03/ff-father/, 14 febbraio 2023]
[3] [Leonardi G., 2021, L’attesa nella neuropsicologia: uno sguardo ai processi cognitivi sottostanti nell’era delle nuove tecnologie in DNA - Di Nulla Academia Rivista di studi camporesiani, vol. 2, n.1, pagg 249-260]
Il contributo si inserisce nell'approfondimento del tema Accesso in magistratura, precedenti contributi Accesso alla magistratura -, Riflessioni sul concorso in magistratura di Mario Cigna Il tirocinio formativo ex art. 73 d.l. n. 69/2013 di Ernesto Aghina, Il procedimento per la nomina e selezione dei giudici e pubblici ministeri nella Repubblica Federale Tedesca di Cristiano Valle, Percorsi di accesso alla magistratura in Ungheria di Anna Madarasi, L’accesso alla magistratura francese di Antonio Musella[*] sotto la voce della rivista Ordinamento giudiziario.
Accesso alla magistratura - 1. Pensieri sparsi sul concorso in magistratura di Giacomo Fumu
È sempre complesso parlare del concorso in magistratura, selezione di quella parte della classe dirigente impegnata nella giurisdizione, funzione istituzionale propria di uno dei poteri dello Stato; e prova che, per questo, richiede al candidato solida preparazione, capacità espositiva, equilibrio, resistenza all’emozione e contemporaneamente pretende dall’amministrazione efficienza e progettualità, perché le attività concorsuali non vengano alterate da inconvenienti e disagi tali da limitare la possibilità dell’aspirante magistrato di esprimere al meglio le proprie potenzialità o da rendere difficoltoso alla commissione esaminatrice lo svolgimento del proprio compito con regolarità e serenità.
La recente modifica legislativa della normativa sull’ingresso in magistratura apportata con il decreto-legge 23 settembre 2022, n. 144 (art. 33), non a caso in tema di realizzazione del PNRR e quindi necessariamente collegata al perseguimento dell’obiettivo di riduzione del contenzioso pendente «anche tramite la celere assunzione di nuovi magistrati», ha abbreviato i tempi del percorso per sostenere l’esame; ormai non si può più ritenere che l’accesso in magistratura sia governato (e garantito quanto a specializzazione degli aspiranti) da un concorso di secondo grado: venute meno le referenze consistenti nell’avvenuto conseguimento del diploma della scuola per le professioni legali, nell’abilitazione alla professione forense, nel dottorato di ricerca o nello svolgimento con successo del tirocinio presso gli uffici giudiziari, a far data dal concorso bandito con il decreto ministeriale del 18 ottobre 2022 si può accedere a sostenere la prova avendo come titolo esclusivamente la laurea in giurisprudenza.
Si è molto discusso sulla opportunità di simile riforma: l’intenzione del legislatore del 2006 (d.lgs. n. 160/06) era chiaramente quella di operare una preselezione in ammissione fondata sui titoli e quindi sul merito, nell’ambito di una complessiva rivisitazione dell’ordinamento giudiziario nella quale si prevedeva per i magistrati una periodica valutazione di professionalità ed, ai fini del conferimento degli uffici, era attribuito un limitato rilievo al criterio dell’anzianità.
Ma la delimitazione della platea dei concorrenti così perseguita era funzionale non solo all’ingresso in magistratura di elementi già in possesso di una formazione giuridica propria, bensì anche a ragioni di carattere organizzativo: eliminata la preselezione informatica che era stata introdotta con il d.lgs. n. 398/97, si intendeva contenere il numero degli ammessi alle prove allo scopo di renderle materialmente gestibili anche con un contenimento della spesa (si tenga conto che per il concorso bandito con il D.M. 29 ottobre 2019, appena concluso, erano state presentate 13.283 domande di partecipazione, mentre per il primo concorso post-riforma le domande sono state 21.768).
La diversa opzione legislativa ha comunque certamente avuto il pregio di eliminare quella che appariva essere un’inaccettabile disparità fra aspiranti magistrati fondata sul censo, poiché i tempi non brevi per l’acquisizione del titolo abilitante alla partecipazione al concorso, uniti ai fisiologici ritardi del suo svolgimento, di fatto favorivano chi si trovasse in possesso di un’indipendenza economica che potesse consentire di dedicarsi esclusivamente e senza impedimenti alla preparazione della prova ed attendere l’esito del suo svolgimento.
Ed è invero possibile tuttavia che il neolaureato abbia maggiore vivacità e freschezza intellettuale di chi ha lasciato da anni gli studi universitari e possa quindi affrontare la necessaria preparazione e la prova di esame con brillantezza e migliori possibilità di successo, fresco di studi ma soprattutto di metodo, facendo ingresso in magistratura in un’età ancora giovane magari portatrice di quell’ entusiasmo per la funzione che va sempre più scemando.
Viene qui in rilievo, immediatamente, la questione centrale della preparazione al concorso: che tuttavia non muta a seconda di quali requisiti di ammissione siano richiesti, perché per gli uni (titolati) e per gli altri (semplicemente laureati) la prova da superare è la medesima.
L’esperienza concreta ha dimostrato una assai limitata utilità, a tal fine, delle scuole di specializzazione per le professioni legali, sostanzialmente ripetitive dei corsi universitari. L’iniziativa della preparazione è rimasta dunque essenzialmente in mano al singolo ed alla sua capacità di autorganizzazione.
La scelta operata dagli aspiranti magistrati appare essere regolarmente quella di frequentare una scuola di preparazione a gestione privata (anche se spesso legittimamente facente capo a magistrati non ordinari).
È noto che intorno alla preparazione del concorso è sorta una fitta rete didattica, di regola collegata anche a specifiche iniziative editoriali concernenti codici e manuali, nella quale di regola all’insegnamento si affianca l’esperienza concreta della scrittura di elaborati con relativa correzione e, a volte, un’analisi precisa sia dello storico degli argomenti già oggetto delle tracce nei concorsi passati sia della produzione giurisprudenziale o scientifica dei componenti della commissione per riuscire a cogliere quali argomenti potranno essere oggetto del tema assegnando.
L’esperienza di presidente della commissione del concorso, ruolo che ho svolto in due diverse occasioni, mi ha indotto a meditare su quali possano essere individuati come i limiti dell’attuale metodo di preparazione.
L’impressione che ho globalmente tratto è che non si induca più lo “studente”, o che questi a ciò non sia in grado di provvedere in autonomia, a conoscere e comprendere il sistema ed a ragionare per principi.
Lo studio dei principi e delle dottrine generali del diritto civile, del diritto penale e del diritto amministrativo consente invero al candidato, qualsiasi argomento venga individuato dalla commissione, di ragionare - con l’aiuto delle norme - sull’istituto intorno al quale è chiamato a discutere: e la mancanza di una preparazione sistematica si mostra palesemente quando, consistendo di regola la traccia nell’indicazione di una parte generale e di una parte più specifica a questa collegata, il candidato sia in grado di argomentare, eventualmente anche con compiutezza, sulla prima e si dimostri invece non più all’altezza sulla seconda, sì da cadere nel giudizio di inidoneità per incompletezza (parlo di incompletezza in quanto nessuna commissione ha mai dichiarato inidoneo un elaborato nel quale il candidato, pur non esponendo teorie rientranti nell’ ”ortodossia”, abbia mostrato conoscenza della materia e capacità di argomentazione giuridica).
A mio avviso questa è il segnale di una preparazione che ormai si consuma “per compartimenti stagni”: si affronta un argomento, si studia un istituto, ma senza inquadrarlo nel sistema e coglierne i collegamenti e tutte le implicazioni, pur sempre teoriche, che dai principi generali derivano nella sua applicazione ovvero nella sua “vita” nell’ordinamento.
È così tali limiti si sono palesati per esempio quando, dovendo il candidato esaminare la problematica del contratto preliminare ad effetti anticipati, non è stato poi in grado di affrontare adeguatamente le connesse questioni, al cui esame pur era chiamato dalla traccia, concernenti la tutela del promissario acquirente immesso nel godimento anticipato del bene; ovvero quando, richiesto di parlare della natura della responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato, con riferimento in particolare ai delitti colposi, ha trascurato di affrontare la questione dirimente della compatibilità fra un reato per definizione “contro l’intenzione” e il presupposto di detta responsabilità consistente in una condotta posta in essere nell’interesse o a vantaggio dell’ente.
Questo è momento centrale del contenuto della preparazione del concorso in magistratura: occorre conoscere i principi generali per inquadrare nel sistema che lo comprende l’istituto sul quale si è chiamati a discutere nonché mostrare nell’elaborato di essere in grado di ricostruirlo ed illustrarne caratteristiche ed applicazione, lasciando da parte qualsiasi argomentazione di contorno estranea alla traccia.
La circostanza che dopo la parentesi dovuta alla pandemia sia (ri)entrata in vigore la normativa ordinaria, la quale non opera alcun riferimento alla consegna di un “sintetico elaborato teorico” (come si leggeva nei decreti-legge n. 44/21 e 118/21), non significa certo che non debba perseguirsi l’essenzialità e che la preparazione del candidato non debba essere finalizzata anche ad affinare la capacità di esporre il proprio ragionamento con sintesi e chiarezza, così mostrando conoscenza, consapevolezza ed insieme capacità di espressione (auspicabilmente con grafia non ostile).
Né, tanto meno, può concludersi nel senso che possa essere proposto ai concorrenti, anziché un elaborato teorico, un compito con risoluzione di un caso pratico: la storia stessa del concorso e delle tracce succedutesi negli anni esclude questa eventualità e mi conferma nella considerazione, che già ho avuto modo di esternare (Migliorare il CSM nella cornice costituzionale, atti del convegno di Giustizia Insieme, Padova 2020, 59), per cui il concorso in magistratura debba continuare ad avere la natura di selezione di giovani giuristi; non vale ricercare che l’aspirante magistrato sappia ben confezionare un decreto ingiuntivo o un decreto di sequestro preventivo per equivalente: la prova di selezione dei magistrati deve tendere ad individuare coloro che conoscono l’ordinamento, che si orientano nel sistema, che sanno ragionare e trarre le conclusioni dai principi generali nonché discutere con linguaggio tecnico e comprensibile la questione racchiusa nella traccia del tema da svolgere.
A questo deve tendere la preparazione e questi devono prospettarsi come criteri di selezione anche nella discussione orale, in cui la varietà dei temi (diciassette materie, alcune raggruppate nel voto) consente di cogliere e valutare la cultura generale del candidato.
Tornando rapidamente alle questioni nell’ordine in cui sono state più su esposte è opportuno soffermarsi sullo svolgimento delle prove scritte, che costituiscono un momento topico non solo per il concorrente ma anche per il ministero della Giustizia e per la commissione esaminatrice.
Con il prossimo concorso bandito per 400 posti (DM 18 ottobre 2022) si rivede l’antico: superata l’emergenza pandemica non operano più le regole derogatrici del regime ordinario che prevedevano una contrazione del tempo a disposizione per la consegna degli elaborati (rispettivamente quattro e cinque ore nelle prove scritte tenutesi rispettivamente nel 2021 nel 2022) e la redazione, come si è detto, di un “ sintetico elaborato teorico” da parte dei candidati: si torna così alle canoniche otto ore a disposizione per lo svolgimento del tema.
Si prospettano tuttavia alcune novità con riferimento alla selezione dei testi di legge consultabili durante la prova scritta, poiché il legislatore ha ritenuto di semplificare e rendere omogenea e per tanti versi più sicura un’operazione che da un lato impegna per più giorni la commissione esaminatrice ed il personale amministrativo e da un altro si mostra come possibile fonte di disparità di trattamento e comunque oggetto di controversie con le case editrici.
È noto che in base ad una risalente disposizione contenuta nell’art. 7 del regio decreto n. 1860 del 15 ottobre 1925 è consentito ai candidati di consultare durante la prova i semplici testi dei codici, delle leggi e dei decreti dello Stato da essi «preventivamente comunicati» alla commissione e da questa posti a loro disposizione «previa verifica».
Tutto ciò implica evidentemente un notevole dispendio di energie ed è fonte di disagio per gli stessi concorrenti, i quali si devono recare anche alcuni giorni prima della prova presso la sede del concorso onde eseguire detto deposito atteso che la “preventiva comunicazione” si sostanzia nella materiale presentazione alla commissione esaminatrice, da parte di ciascun candidato, dei codici e dei testi di legge dei quali egli intende servirsi per la stesura del tema; e che la “previa verifica” consiste nel controllo da parte dei commissari dei testi depositati, non potendo avere ingresso codici illustrati, annotati e/o commentati con dottrina e giurisprudenza.
Ma tale “verifica” ha assunto livelli di difficoltà - e qui si è posto il delicato problema che il legislatore si è orientato a risolvere – per la valutazione di ammissibilità di quei codici i quali, pur non dimostrando all’evidenza i caratteri vietati di illustrazione e annotazione delle norme, sono dotati di indici così diffusi e particolareggiati tali da suggerire percorsi argomentativi e dunque fornire al candidato un aiuto non consentito.
La questione ha assunto aspetti problematici sotto un duplice profilo. Innanzitutto, considerato il numero sempre elevato dei concorrenti che depositano i testi e la necessaria distribuzione dei commissari in più sottocommissioni addette alla ricezione e al controllo (pluralità che ha raggiunto livelli elevati nello svolgimento delle prove degli ultimi due concorsi, tenutesi in varie sedi) si è evidenziata la difficoltà di rendere omogenei tra le diverse commissioni, magari allocate in città diverse, i criteri di valutazione dell’atipicità o anomalia degli indici come su descritta, tenendo conto dell’ormai rilevante numero di case editrici specializzate nella pubblicazione di codici destinati essenzialmente alle prove di concorso.
Appare evidente come in siffatta situazione possa avvenire che, nonostante le sempre utili previe intese e le indicazioni tese all’uniformità provenienti dal presidente della commissione, possa essere ammessa o rifiutata da una sottocommissione l’utilizzazione di un codice che è stata invece rispettivamente rifiutata o ammessa da un’altra, con il rischio concreto di non frequenti e non volute ma pur sempre deprecabili disparità di trattamento.
Peraltro il giudizio di incompatibilità con le regole legge disciplinanti l’ingresso dei testi normativi nelle aule di concorso non riguarda solamente il singolo candidato: sono particolarmente interessante a questa valutazione le case editrici, per le quali un giudizio di esclusione ha evidenti conseguenze sul piano dell’immagine e su quello economico. Da ciò un contenzioso amministrativo che ormai da tempo accompagna le decisioni delle commissioni sulla ammissibilità dei testi.
Il legislatore, come si è detto, ha inteso risolvere la questione con una disposizione che, interpolando l’art. 7 del regio decreto n. 1860 del 1925, ha previsto come alternativa alla ordinaria procedura di deposito e controllo dei codici la possibilità che il decreto ministeriale di adozione del diario delle prove scritte (il quale, per il concorso in atto, sarà pubblicato il 31 marzo 2023) consenta la consultazione dei testi normativi «mediante modalità informatiche», da individuarsi con decreto del Ministero della giustizia da adottarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge 21 ottobre 2021, n. 147, di conversione del decreto legge n. 118/2021.
Della emanazione del predetto decreto attuativo tuttavia non si hanno ad oggi notizie: si comprende quale difficoltà sia insita non solo nella predisposizione di circa 22.000 adeguate postazioni informatiche, equivalenti al numero dei candidati che hanno presentata la domanda di partecipazione e che teoricamente potrebbero presentarsi a sostenere la prova scritta, ma anche nella individuazione di quale criterio di selezione delle norme da porre a disposizione dei candidati debba essere seguito.
Si deve riconoscere che la realizzazione di simile obiettivo risolverebbe in radice entrambi i problemi di cui si è detto, perché la banca dati sarebbe la medesima per tutti i concorrenti, così eliminando qualsiasi disparità sull’accesso alla conoscenza dei testi, e perché non si porrebbe più la questione di un’editoria privata borderline che offre strumenti elusivi dei divieti di legge; tuttavia sembra di comprendere che per ora l’amministrazione ministeriale non sia ancora in grado di dotarsi degli strumenti adeguati, per cui continuano a valere tutte le considerazioni sull’argomento che sono state finora svolte.
Altro momento di particolare delicatezza nelle cadenze iniziali del concorso è quello della riunione plenaria della commissione, da tenersi prima dell’inizio delle correzioni, per la fissazione dei criteri di valutazione degli elaborati.
Si deve riconoscere che la formula descrittiva dei criteri utilizzata e trascritta nei verbali è, risalendo nel tempo, sostanzialmente la medesima. Tuttavia tale riunione è un’occasione fornita ai commissari per riflettere ancora sugli argomenti proposti con le tracce, per approfondire ulteriormente i temi da svolgere rispetto a quanto già meditato in “camera di consiglio” al momento della scelta, per individuare quali possano considerarsi i punti chiave che indefettibilmente devono essere trattati dal candidato per raggiungere la valutazione di idoneità
Proprio per favorire la miglior conoscenza reciproca ed il maggior approfondimento delle questioni da parte di tutti i commissari, la riunione plenaria di cui si parla è stata nei miei concorsi l’occasione per ascoltare le relazioni, svolte dai componenti professori universitari e magistrati esperti della materia, sugli argomenti oggetto delle tracce e ricevere da loro indicazione sul materiale di studio rilevante, distribuito anche in copia per la consultazione. È invero attraverso la condivisione delle problematiche da affrontarsi che i criteri astrattamente definiti cominciano a prendere forma reale, e la messa alla prova dell’importanza ed efficacia dello studio comune si presenta immediatamente dopo, cioè quando, come prevede la legge, si procede alla correzione in assemblea plenaria dei compiti di almeno 20 candidati.
È in questo momento che gli astratti criteri cominciano a concretizzarsi ed a rendersi attuali di fronte alle evidenze degli elaborati.
Sono personalmente convinto che per ottenere il miglior risultato delle prime operazioni, che cinicamente si potrebbero definire “di prova”, sia opportuno procedere ad una correzione comune di un “pacchetto” che vada ben al di là degli elaborati di 20 candidati; per questo motivo le mie commissioni hanno superato abbondantemente questo numero, con un esito realmente significativo di una raggiunta condivisione dei criteri di valutazione che ha portato in entrambi i concorsi a mantenere costante, fin dal primo mese dei lavori, la media delle idoneità.
La medesima esperienza vale per le prove orali e per la determinazione dei relativi criteri di apprezzamento. Anche qui le formule si ripetono da tempo ma anche qui la preventiva riunione plenaria dei commissari, lo scambio franco delle opinioni e degli intendimenti, la capacità di lavorare in gruppo trovano la sintesi che può consentire lo svolgimento di una prova orale in cui siano condivise ed applicate con costante equità non solo le regole di valutazione ma anche e soprattutto le modalità di espletamento della prova, che rivestono un ruolo rilevante per la tenuta psicologica del candidato in un momento di particolare impegno ed emozione.
Tutto ciò con l’auspicio che il Ministero e, per la sua parte, il Consiglio superiore della magistratura, consentano che le commissioni di esame possano operare in condizioni logistiche che favoriscano l’efficienza dell’azione e quindi la bontà dei risultati anche sotto il profilo della tempestività degli esiti: l’esperienza di chi scrive è stata sotto questo aspetto perfetta nel primo concorso, per il quale alla commissione vennero dedicati gli uffici di un intero piano in un edificio ministeriale allocato in uno dei più bei quartieri di Roma, e disastrosa nella seconda occasione, in cui i commissari sono stati costretti ad operare nonostante il virus in locali di via Arenula angusti e malsani.
E che su ventinove commissari solo undici siano stati contagiati dal Covid è stato veramente un gran risultato.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.