Una premessa doverosa: quello che segue è un tentativo di raccontare parte di cosa è stato ed è - per me - essere una Sostituta Procuratrice della Repubblica[1], ruolo che sembra già dal titolo - che confesso di non utilizzare mai - qualcosa di meno interessante di un Sostituto Procuratore...almeno fino a qualche riflessione fa.
Nessuna pretesa che la mia esperienza sia la stessa di altre, perché siamo diverse, a volte diversissime, come diverse sono le vicende, i caratteri, le sensibilità e, di conseguenza, il modo di essere magistrate, ma credo che almeno alcune delle situazioni che ho vissuto e vivo possano essere comuni ad altre.
Insomma, come ho letto nella bella prefazione di un fumetto illuminante (ma con meno pretese), spero che per alcune di noi vedersi in queste righe possa essere in qualche modo liberatorio e per tutti - forse - un'opportunità: "diventare più consapevoli del dislivello per poterlo affrontare per quello che è, cioè un dato sociale storicizzato e modificabile"[2].
1. La Polizia Giudiziaria
Un collega autorevole e giudice di esperienza, una volta ha scritto in una chat "quello del Pubblico Ministero non è un lavoro per stupidi", ricordo di aver replicato che è una verità che si impara subito dalla Polizia Giudiziaria. Già, la P.G. Universo ancora molto al maschile, non immediato nella sua gestione e direzione per una giovane donna.
Ricordo uno dei primi turni esterni. Tentato omicidio con arresto. Un treno preso al volo per arrivare sul posto e interrogare l'arrestato. Arrivata in caserma ho l'esatto ricordo del "dica" di un capitano ("dica" non "comandi", quello è arrivato dopo, molto dopo). Dentro quel "dica"[3] c'era il concentrato di una messa alla prova, che sarebbe durata molto, molto di più che per un collega. L'arrestato rese un lungo interrogatorio. Il giorno dopo, ricordo lo stesso capitano che mi chiese "non si è sentita osservata ieri dottoressa in mezzo a tutti uomini?". No. Lavoravo. Lavoravo con e come loro. Ma ho imparato che ero stata e sarei stata osservata. Ho dovuto tenerlo in considerazione e dimenticarmene allo stesso tempo.
Difficile e pericoloso ricorrere alla scorciatoia del cameratismo per una donna. Difficile, eppure affascinante e bellissimo, costruire un senso di squadra, oltre il genere.
Difficile far comprendere, in un continuo esercizio di misure da prendere e farsi prendere, che apertura, dialogo e capacità di messa in discussione non significano perdere il senso del ruolo che ciascuno ha, così come la responsabilità della decisione finale, che sia condivisa o meno.
C'è, in fondo, quello che ho sentito dire una volta all'on. Emma Bonino "le donne devono fare qualunque cosa due volte meglio degli uomini per essere giudicate brave la metà"[4].
Troppo spesso è ancora vero[5].
2. Il rischio vigilessa e un po’ di ordinario sessismo
Tempo fa ho letto in un libro questa semplificazione.
"Il genere femminile sconta da secoli una cultura aliena al principio gerarchico, secoli di pregiudizio e di strangolanti incombenti familiari, quindi si trova, del tutto incolpevolmente, talvolta a disagio nella gestione di funzioni di tal tipo. Ciò comporta qualche caso di mammina giudiziaria e alcuni di vigilessa [...] del tipo vigilessa c'è poco da dire. Ognuno di noi, credo, si è imbattuto almeno una volta in tale maschera della commedia dell'arte: la necessità di superare uno strisciante pregiudizio induce talvolta degli atteggiamenti un poco rigidi"[6].
Vero, ma anche - in buona parte - frutto di un pregiudizio.
Ancora. Una donna, un Pubblico Ministero che è (magari a ragione!) in collera, è per definizione emotiva e irrazionale, magari - nella migliore delle interpretazioni - perché è in un periodo particolare del mese. Sarà "isterica"[7], mentre per un uomo il medesimo atteggiamento verrà percepito come autorevole, quella collera un modo per "affermare il suo carisma"[8].
Fino a che non ci penserà un po' di mestiere o di sano disinteresse per i commenti, ci si sentirà facilmente incastrate tra la spinta di essere grintose e attrezzate e le accuse di eccessiva aggressività, caratteristica non considerata in termini negativi per un uomo.
Equilibrio da trovare per tentativi ed errori.
Come imparare a reagire con aplomb ai numerosi "signorina", di testimoni, indagati, imputati, non sempre frutto di ingenuità, né sempre adeguatamente stigmatizzati da chi dovrebbe farlo.
Sessismo che si impara a fronteggiare, anche quando – e si tratta di aneddoto reale – si scopre che le magistrate di una Procura che vede una netta prevalenza di giovani donne sono comunemente definite “le Procurine”, appellativo che molto ha fatto ridere…non solo coloro che si riconoscono apertamente sessisti.
Tutto sommato poca cosa, dato che leggere il tanto discusso libro di Boccassini mi ha aperto prospettive ben peggiori. Si legge, in particolare, in un passaggio de La stanza numero 30, testualmente, “non ho dubbi che l’accanimento nei miei confronti sia stato acuito dal mio essere donna. Solo così si spiegano gli attacchi alla mia femminilità, le critiche all’abbigliamento, alle collane e agli orecchini che indossavo, l’insistenza sul colore dei capelli […] le tante lettere anonime in cui venivo definita troia o zoccola, oppure l’invio di ritagli di giornale pornografici, nei quali avevano sostituito il mio volto a quello della pornostar, o di fazzoletti di carta inequivocabilmente imbrattati di sperma”[9] o, peggio, “penso che le faremo quest’anno il servizietto già riservato alla Franca Rame. PS attenzione ai Ducato”[10].
Leggere queste forme di aggressione mi ha fatto rabbrividire e realizzare che essere un funzionario pubblico, che svolge il suo lavoro con professionalità e rigore, non mette al riparo da attacchi vili, che nulla hanno a che fare con il merito.
Mi ha sorpreso ritrovare le stesse considerazioni in una sentenza della Corte di Cassazione, che in un passaggio evidenzia “qualunque sia il ceto sociale di appartenenza, qualunque sia il grado di istruzione, qualunque sia la natura della discussione, l’uomo di norma non accusa la sua avversaria donna di dire il falso, di essere una imbrogliona, di sopravvalutarsi – tutte accuse nella specie più pertinenti all’oggetto della discussione – ma di essere una puttana, una zoccola – offese del tutto inconferenti rispetto alla contesa verbale. Con ciò non solo offendendo gravemente la reputazione della donna, ma cercando di porla in una condizione di marginalità e minorità”[11].
Purtroppo, peraltro, una quota di misoginia e sessismo non è estranea alle stesse donne, che non così di rado cadono nel rischio della “pick me girl”[12].
Come si legge nella quarta di copertina di un interessante libro sul tema del linguaggio sessista, il rimedio a queste (purtroppo ordinarie) forme di aggressione - anche e oggi soprattutto “social” - non è “il galateo, ma una pratica quotidiana del dissenso e un recupero dell’uso consapevole della lingua come portatrice di significati”[13]… e così si torna alla Sostituta Procuratrice, che forse prima o poi imparerò ad utilizzare.
3. La scoperta di un pregiudizio (che siamo tutti convinti di non avere)
In una delle mailing list di magistrati, in risposta ad una bella e-mail di Paola di Nicola Travaglini, ho letto colleghi ribellarsi all'idea di una perdurante esistenza, nella magistratura, di stereotipi di genere.
Sono in molti ad essere convinti che nel 2023, in magistratura, tra persone istruite e umanisti non ci sia spazio per stereotipi.
E invece sì. Devo a una sorella autenticamente femminista, a qualche lettura e ad un bel progetto di formazione[14] la scoperta degli stereotipi di genere che mi appartenevano, la presa di consapevolezza di una discreta quota di misoginia interiorizzata[15]. Affinando lo sguardo, mi sono resa conto di quanto la visione di genere (o, sarebbe meglio dire, patriarcale) permei ancora tanto il nostro stesso ambiente.
Quella della magistratura, in breve, non è affatto una “torre d’avorio egualitaria”[16], permanendo anche nel nostro ambiente significative differenziazioni, sia orizzontali (per settori) che verticali (per ruoli).
Stranamente, appunto, il settore penale e quello della Procura in particolare, sembra subire più del civile questa distorsione[17], come se - per qualche ragione - per fare bene il Pubblico Ministero fossero necessarie doti tipicamente maschili, che solo eccezionalmente alcune donne possiedono[18].
Siamo talmente immerse in una concezione maschiocentrica, che essere definite - come di recente mi è capitato - un "Pubblico Ministero con barba e baffi" - diventa motivo di orgoglio.
Intendiamoci, va benissimo che una donna si occupi come Pubblico Ministero di reati di codice rosso, anzi il fatto che se ne occupi una donna viene - non sempre a ragione - vissuto come garanzia di maggiore attenzione, sensibilità.
Diverso è, invece, l'ambito dei reati tecnici, come il penale dell'economia dove, almeno per la percezione che ne ho dal mio piccolo osservatorio, si vive ancora una sorta di predominio maschile.
Poche, pochissime le colleghe relatrici in corsi e convegni sulla materia, tanta fatica nel porsi come interlocutrici affidabili[19]. Difficile capire se questo dipenda (solo) da preclusioni mentali femminili[20] o da una sorta di "sindrome dell'impostore", che porta molte colleghe a dubitare delle proprie competenze. Il dato, tuttavia, rimane e rischia di essere scoraggiante.
In un libro interessante, a proposito della presenza femminile nella università italiana, ho letto di un esperimento, che riporto: “a parità di curriculum vitae, sia i docenti che le docenti tendevano a considerare il percorso scolastico degli uomini migliore rispetto a quello delle donne, a proporre loro più spesso una posizione lavorativa ed uno stipendio più alti perché la preparazione degli uomini (di fatto identica, veniva solo cambiato il nome sul curriculum da John a Jennifer) veniva percepita come superiore”[21].
Il sorriso che mi è capitato di incontrare nell'uditorio maschile in occasioni nelle quali non ho potuto o saputo fare a meno di espormi, mi ha, inoltre, a volte restituito la sensazione dello stesso sguardo che si ha su un bambino che ha un'uscita sorprendentemente più intelligente (o simpatica) di quanto non ci si aspettasse[22].
In questo percorso di consapevolezza ho dovuto, però, rendermi conto di come esprimere la percezione di questi permanenti disallineamenti spesso significhi perdere la solidarietà dei colleghi, quasi come se recuperare una visione femminile significasse perdere la loro complicità o quel poco di autorevolezza conquistata con lo studio, il lavoro, il confronto; come se affinare un (recuperato) sguardo "di genere" significasse perdere quel poco di "Pubblico Ministero" che ti veniva riconosciuto di essere.
Ho probabilmente estremizzato alcune percezioni e so di espormi a critiche, più o meno aspre, ma l'ho fatto perché credo fermamente che sia il momento di parlarne, di smettere di farne un tabù.
Il dibattito e la formazione interna su questi temi sarebbe bene fossero seriamente e autenticamente percepiti come una delle priorità, per coltivare consapevolezza, soprattutto nella prospettiva della sempre maggiore femminilizzazione della magistratura. Per noi magistrate - anche e soprattutto - per uscire da una visione individualista, di un "femminismo" che troppo spesso rivendica parità di "posizioni"[23] più che di ascolto, di ammirazione, più che di rispetto[24]. Per creare, tra l’altro, vere “role model”, magistrate, magari con posizioni direttive o semi-direttive, che sappiano segnare realmente una nuova strada per tutte e tutti.
4. La maternità
Torno ad una citazione: "mammina giudiziaria"[25]. Stesso testo, espressione sfortunata, ma ben nota a molti, almeno a tutti quelli che hanno dovuto far fronte alle assenze delle colleghe, magari protrattesi più di quanto si ritenesse necessario.
Eppure, come magistrata, c'è necessariamente un prima e un dopo. Il cosiddetto “maternal wall”[26].
C'è anche il prima del senso di colpa di lasciare il ruolo, le indagini, di far pesare ai colleghi la tua assenza. La smania di definire, organizzare, sistemare. C'è una maternità ancora vista male, perché più che essere vissuta come un serio tema organizzativo, che riguarda tutti e impone un rallentamento (alla società come all'Ufficio), spesso diventa un'occasione per gravare di turni, udienze, fascicoli - ancora una volta - chi non ha esigenze familiari da anteporre (o, semplicemente, non è una mamma, anche se è un papà!).
C'è l'indagine interessante che non "incameri" perché non potrai seguirla, perché "chissà quando rientri" o perché la maternità, almeno nei primissimi anni di vita di un figlio, si porta dietro una percezione di minore affidabilità professionale[27].
C'è il dopo del timore di dover ricominciare tutto da capo. Dei turni che ti mettono la stessa ansia dei primi.
Il disagio (che ho presto scelto di lasciare andare) del classico sottofondo "mammaaaaaaa" al professionale "pronto, sì, sono la dott.ssa Posa, mi dica".
C'è la penna che spesso deve cadere molto prima di quanto non facessi, di quanto non vorresti. Le cose che restano a metà anche quando eri in piena trance agonistica (come la chiama qualcuno che mi conosce molto bene). C'è l'uscire prima, senza lavorare meno[28], anche se in fondo senti di fare mezza giornata quando chiudi la porta dell'ufficio e saluti il collega o rispondi "già" dall'auto[29] alla P.G.
C'è il "ma la mamma non può mai venirlo a prendere questo bimbo?" delle maestre o il "ma non sarebbe meglio che facessi il giudice, così lavoreresti da casa?", di parenti o conoscenti.
C'è il dover conciliare l'aspirazione a crescere professionalmente con le esigenze familiari e di crescita di un figlio - che è una responsabilità sociale[30], prima che individuale - e una sede che resta la stessa più di quanto non avresti immaginato e voluto.
C'è il senso di colpa di non esserci abbastanza, né a casa, né in ufficio. Senso di colpa in gran parte legato al “mito della maternità” che pone sulle spalle delle donne “non solo la cura, ma anche la pressione della perfezione”[31].
Anche quello da imparare a lasciare andare. Ed è un lavoro...l'ennesimo, ma da affrontare con fatica, entusiasmo e passione, come tutti gli altri. Perché, come scriveva Oriana Fallaci, essere donna "È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai"[32].
[1] Così “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” estratto da “Il sessismo nella lingua italiana” a cura di Alma Sabatini per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, 1987 e Accademia della Crusca, “Risposta al quesito sulla scrittura rispettosa della parità di genere negli atti giudiziari posto all’Accademia della Crusca dal Comitato Pari Opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione”.
[2] Dalla prefazione di Michela Murgia al libro Bastava Chiedere! 10 storie di femminismo quotidiano, Emma, Laterza, 2020.
[3] Lo dice benissimo Niccolò Fabi nella sua “dica”: “Ma dire "Dica", è un po' una cortesia detta senza umiltà Non sarà mica il solito problema della formalità; "Dica", e non si dice mai dica senza un perché; "Dica", e chi ti dice dica non si fida di te”.
[4] Citazione che, stando al web, sarebbe riferibile a Charlotte Whitton.
[5] Percezione non solo mia - ho scoperto - dato che una collega con un profilo di personalità, esperienza e competenza decisamente non comparabile al mio ha di recente scritto “Essere donna mi ha portato spesso a fare più del necessario, per reggere il confronto con colleghi uomini cui invece nessuno chiedeva di dimostrare nulla. E questo è un dato di fatto”, Ilda Bocassini, La Stanza numero 30, Feltrinelli, Milano 2021. Se si legge la bellissima descrizione che di Ilda Bocassini fornisce l’allora Capitano Ultimo nel libro di Maurizio Torrealta (“perché pur essendo una donna, per noi e come se fosse un soldato”), si fa decisamente fatica a bollare questa percezione come proveniente dalla “solita femmina lamentosa e vittimista”.
[6] A. Marcheselli, Magistrati dietro le sbarre, farsa e tragedia nella giustizia penale italiana, Melampo, Milano 2009, p. 46.
[7] Non serve ne spieghi l’etimologia.
[8] Bastava Chiedere! 10 storie di femminismo quotidiano, Emma, Laterza, 2020.
[9] La Stanza numero 30, Feltrinelli, Milano 2021 p. 194-195.
[10] Ibidem p. 231.
[11] Cass. Penale, sez. V, 5070/2013.
[12] Ovverosia colei che ricade in atteggiamenti misogini al fine di ottenere l’approvazione maschile. Con un respiro più ampio nel testo La volontà di cambiare bell hooks scrive “È necessario evidenziare il ruolo che le donne svolgono nel perpetuare la cultura patriarcale per poter riconoscere il patriarcato come un sistema che uomini e donne sostengono allo stesso modo, anche se per gli uomini è più gratificante” p. 42 e, ancora, “attribuendo la colpa della perpetuazione del sessismo esclusivamente agli uomini, quelle donne [le femministe riformiste] potevano mantenere la loro fedeltà al patriarcato, la loro stessa brama di potere. Mascheravano il loro desiderio di dominare fingendosi vittime”, p. 43.
[13] G. Priulla, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Settenove, Milano 2014.
[14] https://www.vittimizzazionesecondaria.it/
[15] Leggere esempi sul web mi ha squarciato un velo: “giudichi la vita sessuale o il modo in cui le altre si vestono; tendi ad evitare amicizie con le donne perché credi che tutte siano false e/o cattive; provi piacere nello sminuire una donna al fine di avere approvazione maschile; utilizzi slur misogini per insultare: tr*ia, putt*na ecc.… (ricordiamoci che non sono sinonimi di “stronza”; consideri superficiale ogni cosa che sia associata stereotipicamente alla femminilità (passioni, abbigliamento, colore preferito)” – profilo twitter @artemisiait.
[16] Espressione utilizzata in relazione all’ambiente accademico da A. Minello, Non è un paese per madri, Laterza, Bari 2022, p. 101.
[17] Non so quanto simile visione sia connaturata al punitivismo, né ho adeguati strumenti culturali per sostenerlo. Riporto a tale riguardo un passaggio del libro Femminismo giuridico. Teorie e Problemi di A. Simone, I. Boiano, A. Condello, Mondadori 2019, nel quale si legge, a proposito del diritto penale, che sarebbe “un diritto patriarcale per eccellenza, un potere pastorale che ammonisce, disciplina e limita” p. 70.
[18] Interessante come alcune forme di femminismo rischino di accrescere questa visione, proponendo una immagine di donna “di potere” in fondo non lontana dal modello patriarcale, si legge in proposito nel libro di bell hooks, La volontà di cambiare, il Saggiatore, Milano 2022, che “le femministe riformiste […] erano un gruppo di donne (per lo più bianche e privilegiate) le quali sostenevano che tutti gli uomini erano potenti. Per queste donne la liberazione femminista consisteva più nel prendersi una fetta del potere maschile” e, ancora “è stato sbagliato da parte delle femministe riformiste vedere la libertà semplicemente come il diritto delle donne di essere potenti quanto gli uomini patriarcali”.
[19] Per fortuna la PG sembra paradossalmente più egualitaria e, una volta superato lo scoglio di genere, sufficientemente libera nel valutare le competenze: nella loro prospettiva conta il risultato e un magistrato che garantisce loro il risultato è un buon interlocutore, uomo o donna che sia.
[20] Interessante l’ottica proposta da A. Minello nel libro Non è un paese per madri, Laterza, Bari 2022, ove si legge che “Le donne tendono ad essere maggiormente presenti nelle discipline umanistiche e in quelle legate alla cura, mentre gli uomini sono la maggioranza nei corsi cosiddetti Stem (scienza, tecnologia, ingegneria, informatica). Gli stereotipi di genere giocano un ruolo cruciale nella scelta del percorso universitario: per gli uomini come per le donne, contano molto i pregiudizi culturali. A frenare le ragazze nella scelta delle Stem è la percezione che gli studi scientifici siano più difficili, meno adatti a loro”.
[21] A. Minello, ibidem, p. 111. Aneddoto personale anche su questo. Da giovanissimo avvocata in uno studio legale, mi fu chiesto dal socio di riferimento (uomo) di valutare alcuni curricula per nuove candidature, la frase fu testualmente questa “dacci uno sguardo, anche se sono tutte ragazze”. Confesso che all’epoca fu un enorme motivo di orgoglio – quasi come espressione di reale egalitarismo - essere considerata fuori dal genere, ragionevolmente del tutto asessuata.
[22] Lo dico con una buona quota di ironia, che sono consapevole rappresenti una enorme risorsa, anche per evitare il rischio vigilessa… sia mai!
[23] Cfr. nota 19. Interessante anche la considerazione che si trova nel testo La trama alternativa di G. Palombra, minimum fax, Roma 2023, ove l’autrice osserva che “L’ambizione di questo femminismo è l’empowerment, nella sua accezione più individualista, legata a doppio filo al successo economico: la realizzazione sta nella carriera che permette l’accesso agli spazi di privilegio che prima erano negati. Ma questo accesso non è garantito a chiunque. E’ di sicuro più facile a chi si fa portavoce di un femminismo addomesticato, per sempre giovane, sensibile alle ricompense del mercato, avvezzo a smussare gli spigoli e a non avanzare mai critiche troppo scomode” e, poco prima “non importa quali idee incarnino, quali cambiamenti metteranno in atto, non importa se saranno portatrici delle stesse dinamiche oppressive: la sola rappresentazione delle donne di potere nello spazio pubblico è considerata emancipazione”, p.99 e 100.
[24] Citazione di Thomas Bernhard in Antichi Maestri che devo alla lettura della bellissima lettera della giornalista Maria Luisa Busi, all’atto di lasciare il TG1 “scrive decine di volte una parola che amo molto: rispetto. Non di ammirazione viviamo, dice, ma è di rispetto che abbiamo bisogno". Lo stesso concetto viene ripreso da bell hooks, la quale afferma “in un mondo in cui la disuguaglianza di genere è una norma accettata da tutti, gli uomini negano alle donne il loro rispetto. La radice della parola rispetto è il verbo latino respicere che significa guardare” p. 188.
[25] A. Marcheselli, in Magistrati dietro le sbarre, che si esprime testualmente così “La collega del primo tipo è quella che, comprensibilmente e legittimamente, oppone a qualsiasi tentativo di razionalizzazione del calendario giudiziario una batteria di visite pediatriche, ecografie, gravidanze a rischio, otiti, parotiti, febbri di origine non accertata, orari dell’asilo nido e festicciole di compleanno”, p. 46.
[26] Letteralmente "muro della maternità". Un concetto proposto per la prima volta da Faye J. Crosby e colleghi nel 2004 (Journal of Social Issues, 60, 2004, pp. 675-682.
[27] “Ciò avviene alla luce dello stereotipo secondo cui una madre non ha lo stesso tempo e la stessa capacità di dedicarsi al lavoro di un parigrado donna senza figli, o di un parigrado uomo con o senza figli” con messa in discussione dell’affidabilità della donna-madre. Ora se è vero che la categoria delle madri è “più soggetta ad imprevisti”, soprattutto nei primi anni di vita di un figlio, è vero perché il lavoro di cura è spesso (socialmente se anche non a livello familiare) appannaggio delle madri. Una ridefinizione dei carichi, un maggiore coinvolgimento dei padri (anche magistrati!) tramite incentivazione e sensibilizzazione in merito a tutte le forme di co-tutela e gestione dei figli, sarebbero una buona strada per una seria politica di pari opportunità (virgolettato tratto da A. Minello, Non è un paese per madri, Laterza, 2022).
[28] Con una progressiva rinuncia ad ogni spazio di decompressione, compresa la pausa pranzo (come evidenziato con pungente ironia nel fumetto “Bastava chiedere!” già citato).
[29] Causa pendolarismo, tanto per non rispondere al senso di colpa.
[30] Mettere al mondo un figlio non è un affare che riguarda solo i genitori, il desiderio di maternità della donna, ma è azione che riguarda il futuro stesso di una società, sia in termini demografici che di educazione, se di questo acquisissimo una consapevolezza lucida forse smetteremmo di considerare le maternità (e le paternità!) come meri ostacoli ad una buona organizzazione degli uffici, in un’ottica di corresponsabilità e leale collaborazione tra la magistrata madre, il magistrato padre e l’Ufficio.
[31] La citazione è del testo Non è un paese per madri, dove si legge anche “è quindi evidente che qualunque sia la direzione presa, che sia quella dell’abbandonare il lavoro [o ambizioni di carriera in genere n.d.r.] … o che sia invece quella di cercare di avere ne contempo maternità e carriera, in una strada affastellata i fatica e sensi di colpa, sono entrambe frutto di pressioni culturali che vanno in una direzione differente e che sarebbero scelte libere se e solo se i servizi fossero universalmente disponibili, la cura si ricadesse paritariamente sulle spalle di uomini e donne e nessuna delle due portasse con sé il peso del giudizio sociale” (p. 51). Senso di colpa legato al “mito della maternità” cui non sono estranee neppure magistrate di indiscussa professionalità e capacità di lavoro. Nel suo libro La Stanza numero 30 Ilda Bocassini scrive “Mi sono assegnata compiti difficili. E sicuramente uno dei prezzi che ho pagato è stato essere una madre imperfetta, troppo giovane per la prima maternità e con momenti di presenza troppo risicati nella vita di Antonio e di Alice. A volte mi è sembrato impossibile recuperare il tempo che avevo sottratto ai miei figli” e, ancora, “è più giusto dire che mi sono sentita un verme […] fu una delle occasioni in cui mi sembrò che la vita mi stesse sfuggendo di mano. Non sopportavo più il peso delle responsabilità, quell’eterno trovarmi a un bivio, il dover decidere quale direzione prendere: se quella del lavoro, del ruolo pubblico, o quella della sfera privata. Una scelta quotidiana, sofferta, lacerante”.
[32] Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, BUR, 2007, p. 13.