ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Cassazione: è crollato il “glass ceiling” (ma non solo)
di Stefano G. Guizzi
La nomina di Margherita Cassano a Primo Presidente della Corte di Cassazione segna – anche sul piano dell’immaginario collettivo – un momento che, senza enfasi, può definirsi storico.
A sessanta anni esatti dalla legge n. 66, del 9 febbraio 1963, che – sulla spinta della sentenza n. 33 del 1960, della Corte costituzionale – aprì alle donne l’accesso alla carriera magistratuale, la designazione del Presidente Cassano rappresenta, idealmente, la chiusura di un cerchio. Essa si pone, infatti, come il simbolico epilogo di un lungo processo intergenerazionale, che ha visto – sull’esempio delle otto “pioniere”, prime vincitrici del corso in magistratura bandito il 3 maggio 1963 – una sempre più ampia (e ormai prevalente) presenza femminile all’interno dell’ordine giudiziario. Non sono mancate, specie nel recente passato, nomine di donne ai vertici di alcuni distretti di Corte di Appello (chi scrive vive a Genova e ricorda ancora, con piacere, la duplice, contestuale, designazione, pochi anni orsono, di due valorose colleghe alla guida della Corte ligure e della Procura Generale presso di essa), ma, finora, il più atto scranno di Piazza Cavour era sempre stato appannaggio di uomini. Quasi a volere confermare l’assunto – espresso, in passato, persino da chi avrebbe, poi, rivestito il ruolo di Capo dello Stato (a dimostrazione di quanto pervicace, oltre che radicato persino ai più alti livelli istituzionali, sia stato il pregiudizio sessista) – secondo cui, allorché si giunga in Cassazione, e dunque “alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde, per tradizione, a queste funzioni”.
Affermazioni che – a considerarle oggi, in una società che ha fatto dell’apporto femminile, in ogni ambito lavorativo, un dato irreversibile – destano stupore, più ancora che indurre al sorriso per il loro anacronismo. Eppure, esse non furono affatto isolate, nel dibattito svoltosi in Assemblea Costituente, circa l’assetto da conferire – nel nuovo ordinamento costituzionale – al potere giudiziario. “La donna deve rimanere la regina della casa, più si allontana dalla famiglia più questa si sgretola. Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche”. Ed ancora, di rincalzo: “Signorina, lei vuole ammettere le donne alla magistratura! Ma sa che in certi giorni del mese le donne non ragionano?”. Tanto da suscitare la tagliente risposta, rimasta celeberrima, dell’On. Teresa Mattei: “No, ma so che molti uomini come lei non ragionano tutti i giorni del mese”.
Ci sono voluti, dunque, tre quarti di secolo – e il superamento nella società italiana di un maschilismo, dapprima ostentato e poi, insidiosamente, occultato – perché anche in Cassazione potesse, finalmente, infrangersi “il soffitto di cristallo”.
Se, tuttavia, è innegabile il valore di “segno dei tempi” che anche la nomina di Margherita Cassano presenta (specie in una congiuntura storica che ha visto, nell’arco di pochi anni, delle donne assurgere al ruolo di Presidente della Corte costituzionale, alla seconda carica dello Stato e, infine, alla guida del Governo del Paese), sarebbe assai riduttivo interpretare tale evento solo come l’esito di un pluriennale processo di riequilibrio di genere, all’interno dell’ordine giudiziario. “Permettere alle donne di arrivare agli alti gradi della Magistratura non significa portarcele per forza”, era la saggia profezia di una tra le nostre madri Costituenti, l’On. Angela Gotelli, che soggiungeva come gli uomini “avranno sempre la possibilità di lasciarle indietro, qualora abbiano possibilità e meriti maggiori”.
Ma questo non è stato, appunto, il caso del nuovo Primo Presidente. La sua designazione è, infatti, la conclusione di percorso professionale, sotto più profili, esemplare. È quanto hanno inteso sottolineare, del resto, in occasione del “plenum” del CSM che ha deliberato la nomina del nuovo vertice della Suprema Corte, sia il Procuratore Generale presso di essa, sia, soprattutto, il Capo della Stato. La “eccezionalità” della figura di magistrato, incarnata da Margherita Cassano, è stata, infatti, rimarcata – a ragione – dal Presidente Mattarella.
Fiorentina di nascita, ma di origine lucana, figlia d’arte (il padre Pietro fu anch’egli magistrato, impegnato in delicatissimi processi a carico di esponenti di spicco delle “brigate rosse”), il nuovo Presidente della Cassazione ha compiuto un iter di carriera che testimonia – nell’alternanza, proficua, di funzioni requirenti e giudicanti – l’efficacia di un modello ordinamentale qual è quello vigente, caratterizzato dalla comune appartenenza alla “cultura della giurisdizione” di giudici e pubblici ministeri. Non è, dunque, un caso se in alcune interviste, rese in occasione della sua recentissima nomina, Margherita Cassano abbia inteso ribadire la sua contrarietà ad ogni proposta di riforma dell’ordinamento giudiziario basata sulla separazione delle carriere.
È impossibile, in queste poche righe, riassumere lo spessore delle esperienze professionali maturate da Margherita Cassano, a partire dal 1980, allorché entrò a far parte – venticinquenne – nell’ordine giudiziario. Sostituto Procuratore della Repubblica – per diciassette anni – presso il Tribunale di Firenze, inizialmente componente del gruppo specializzato nelle indagini in materia di stupefacenti e di criminalità organizzata (ma designata dal Capo del suo Ufficio anche a seguire tutto il settore riguardante la partecipazione del pubblico ministero agli affari civili), è poi stata assegnata, per sette anni, alla Direzione Distrettuale Antimafia istituita presso la Procura fiorentina. Componente, dal 1998 a 2002, del Consiglio Superiore della Magistratura, oltre a presiedere le commissioni consiliari sesta e nona, quest’ultima competente in materia di formazione professionale (esperienza condotta in ideale prosecuzione con quella maturata, pochi anni prima, quale componente del comitato scientifico del medesimo CSM), è stata membro delle commissioni terza e quarta. Ma è, soprattutto, la sua partecipazione – quale componente titolare – della Sezione Disciplinare ciò che piace, a chi qui scrive, ricordare. Perché Margherita Cassano fu l’estensore delle tre ordinanze del 18 febbraio 2000, con cui il giudice disciplinare diede origine all’incidente di costituzionalità che portò, poi, la Corte delle leggi (sentenza n. 497 del 2000) a dichiarare l’illegittimità costituzionale del divieto, per il magistrato incolpato, di farsi assistere da un avvocato del libero foro. Pronuncia che, oltre ad adeguare all’art. 24 della Carta fondamentale lo svolgimento di quel procedimento (e, sia consentito dire, a “secolarizzarne” la portata), ebbe ad enunciare il principio che ne impone lo svolgimento nel rispetto del canone della “massima espansione delle garanzie difensive” dell’incolpato.
Esaurito il mandato presso l’organo di governo autonomo della magistratura, Margherita Cassano è giunta in Cassazione, ove ha operato, dapprima, come magistrato applicato presso la stessa e poi come consigliere, divenendo, nel 2010, anche componente della Sezioni Unite penali. Degna di nota anche la sua esperienza come vicedirettore del Centro Elettronico di Documentazione della Suprema Corte. Nominata Presidente di Sezione della Cassazione, ha, infine, assunto l’incarico – dopo una parentesi alla guida della Corte di Appello di Firenze – di Presidente Aggiunto della Suprema Corte.
Altrettanto arduo, nel breve spazio di questo scritto, è illustrare l’importanza del suo contributo alla giurisprudenza di legittimata. Ma valga, tra gli innumerevoli provvedimenti di cui ella è stata l’estensore, la sentenza della Corte di cassazione n. 34244 del 2010, che ha rappresentato la puntuale concretizzazione dei principi enunciati – su un piano generale – dalla Corte costituzionale (sentenze n. 390 del 2007 e nn. 113 e 114 del 2010) nella delicata materia delle intercettazioni telefoniche coinvolgenti parlamentari. Una pronuncia che, al pari di molte altri redatte dal Presidente Cassano, testimonia, oltre che della sua raffinata cultura giuridica, della profonda adesione a quell’interpretazione costituzionalmente orientata del diritto penale (e sanzionatorio in genere), elaborata dalla migliore dottrina, successivamente all’avvento della Costituzione repubblicana.
Una vita, dunque, quella di Margherita Cassano dedicata – con costante passione e abnegazione – allo studio del diritto e all’esercizio dell’attività giudiziaria.
Sarebbe, tuttavia, errato immaginare il nuovo Presidente della Cassazione come un magistrato sordo alle istanze della società civile, rinchiuso in quella che – un tempo – si definiva come la “torre eburnea”.
Poco più di venticinque anni orsono, quando chi oggi scrive faceva il proprio ingresso nell’ordine giudiziario, Margherita Cassano – e con lei un altro magistrato di rilievo, Paolo Borgna – davano alle stampe un libro, significativamente intitolato “Il giudice e il principe”. Una riflessione, frutto anche di un’accurata analisi comparatistica, dei rapporti tra magistratura e potere politico. Perché il Presidente Cassano, da sempre, si interroga su quale debba essere la fonte di legittimazione del potere giudiziario e, soprattutto, la sua corretta interazione con le altre Istituzioni della Repubblica, specie quelle titolari della funzione di indirizzo politico. Come ella, infatti, ha inteso, nuovamente, sottolineare, pochi anni fa – in un convegno nel quale rievocava le ragioni del suo impegno nell’associazionismo giudiziario – i “valori di autonomia ed indipendenza della Magistratura non costituiscono una prerogativa di casta, bensì i presupposti per assicurare l’imparziale applicazione della legge e, quindi, l’uguaglianza dei cittadini dinanzi ad essa”. “L’azione giudiziaria” – ella proseguiva – “è presidio ineludibile dei diritti fondamentali della persona riconosciuti dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali e oggetto delle pronunzie della Corte Costituzionale e degli Organi di giustizia sovranazionale che costituiscono un vero e proprio diritto vivente”. Per infine concludere che il metodo giuridico, del quale il giudice è chiamato ad avvalersi, “deve essere esplicitato e controllato criticamente” dallo stesso, e ciò “soprattutto nelle materie in cui maggiore è la disomogeneità culturale all'interno della società ed in cui dunque più forte deve essere la consapevolezza del giudice circa i limiti che incontra, dovendo rimettere alle sedi in senso lato politiche le scelte che, per loro natura, esulano dal campo della giurisdizione”.
Un “modus operandi” al quale Margherita Cassano si è sempre attenuta e che costituirà – chi scrive ne è certo – il tratto distintivo del suo operato alla guida della Corte.
Ruolo di anzianità e teorica dei rapporti esauriti: un cortocircuito? (nota a Tar Sicilia, sez. III, 2 febbraio 2023, n. 294)
di Giuseppe Tropea
Sommario: 1. Premessa. – 2. La vicenda e i suoi presupposti. – 3. Il contenuto della pronuncia. – 4. La teorica dei rapporti esauriti. – 5. L’atto paritetico evapora, il rapporto si esaurisce: una sentenza “politica”?. – 6. Conclusioni.
1. Premessa
La sentenza che si annota dischiude una molteplicità di spunti interessanti e fa interrogare sulla persistente attualità della categoria pretoria dell’atto paritetico in giurisdizione esclusiva, quando si tratta di valutare gli effetti potenzialmente retroattivi di una pronuncia della Corte costituzionale su giudizi diversi da quello a quo[1]. Nel caso di specie, peraltro, si insinua un ulteriore fattore di complicazione rappresentato dalla sussistenza sul punto di un parere del Consiglio di Stato[2] richiesto dall’Amministrazione degli Interni, parte in causa nel giudizio dinanzi al Tar.
Ce n’è abbastanza per porsi una serie di domande sull’ubi consistam della giurisdizione esclusiva, come faceva Antonio Romano Tassone all’indomani dell’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo[3], aggiungendovi l’aggravante “istituzionale” dell’ombra del mancato rispetto dei cardini del giusto processo. Chi scrive ha in più occasioni difeso la persistente dignità della specialità del giudice amministrativo[4], sicché anche la critica vuole qui essere una costruttiva occasione di dialogo e confronto, non certo una ideologica e pregiudiziale presa di posizione a favore dell’unità della giurisdizione.
2. La vicenda e i suoi presupposti
Un poliziotto chiede l’accertamento del diritto alla retroazione giuridica della sua nomina a vice sovrintendente della Polizia di Stato richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 224/2020, che ha giudicato sussistente una disparità di trattamento tra il sistema di progressione ordinario e quello straordinario, dichiarando illegittimo l’art. 75 del D.P.R. 335/1982, in relazione agli art. 3 e 97 della Costituzione, nella parte in cui «non prevede l’allineamento della decorrenza giuridica della qualifica di vice sovrintendente promosso per merito straordinario a quella più favorevole riconosciuta al personale che ha conseguito la medesima qualifica all’esito della selezione o del concorso successivi alla data del verificarsi dei fatti».
Si consideri che fino al 2001, una volta conseguita la nomina nella qualifica di vice sovrintendente, non vi era alcuna significativa differenza, in punto di decorrenza giuridica, tra quanti avessero ottenuto la promozione mediante concorso e coloro i quali fossero stati promossi per merito straordinario. Infatti, l’art. 21 del d.P.R. n. 335 del 1982 prevedeva che i dipendenti che avessero superato il concorso per titolo ovvero per titoli ed esame erano immessi nel ruolo superiore solo alla data di conclusione con esito positivo del prescritto corso di formazione. L’art. 75, comma 1, d.P.R. 335/1982 prevedeva, a sua volta, che le promozioni per merito straordinario decorressero dalla data nella quale si fosse verificato il fatto che ha dato luogo al conferimento di tale qualifica. Sennonché, il comma 7 dell’art. 24-quater del d.lgs. n. 53 del 2001 ha modificato il termine di decorrenza della promozione ordinaria, retrodatandolo alla data del «1° gennaio dell’anno successivo a quello nel quale si sono verificate le vacanze (da intendersi come vacatio di posti) e con decorrenza economica dal giorno successivo alla data di conclusione del corso medesimo». Tale intervento normativo ha determinato una disparità di trattamento tra il sistema di progressione ordinario e quello straordinario, sulla quale è intervenuta la Consulta con la sentenza richiamata.
Il Giudice delle leggi, infatti, pronunciandosi su un’ordinanza di rimessione del Tar Sicilia, ha affermato che: «La reductio ad legitimitatem della disposizione censurata può farsi – con riferimento alla fattispecie in esame – escludendo lo “scavalcamento” nella decorrenza giuridica della qualifica di vice sovrintendente da parte di coloro che l’abbiano conseguita con procedura concorsuale o selettiva (e quindi dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello nel quale si sono verificate le vacanze) in un momento successivo rispetto alla nomina di quelli che la stessa qualifica abbiano in precedenza già ottenuto per merito straordinario (e quindi con decorrenza «dalla data del verificarsi dei fatti» posti a fondamento della nomina stessa). Ciò può realizzarsi mediante il necessario riallineamento della decorrenza giuridica della nomina di questi ultimi a quella dei primi nell’ipotesi in cui, in concreto, tale evenienza si verifichi, senza peraltro che ciò incida sulla decorrenza economica che – come già rilevato – non soffre la differenziazione qui censurata».
3. Il contenuto della pronuncia
Il ricorrente, quindi, chiedeva l’accertamento del diritto alla retrodatazione sulla base di tale presupposto, attraverso il rito del silenzio perché nel caso di specie l’amministrazione non aveva risposto a una sua diffida volta appunto alla retrodatazione e alla connessa ricostruzione di carriera, mentre l’amministrazione eccepiva l’incompetenza territoriale, l’inammissibilità del ricorso poiché la posizione vantata è di diritto soggettivo, la sua infondatezza nel merito perché la declaratoria di incostituzionalità non può applicarsi ai rapporti esauriti.
Il Tar respinge l’eccezione di incompetenza, mentre, per quanto riguarda quella di inammissibilità del ricorso, dopo aver ricordato che per giurisprudenza costante il ricorso avverso il silenzio non è consentito in caso di diritti soggettivi, anche quando si operi in giurisdizione esclusiva, dispone il mutamento del rito convertendolo in giudizio ordinario di accertamento su diritti soggettivi.
Ciononostante, dopo aver richiamato il già citato parere del Consiglio di Stato, il Tar configura il ruolo di anzianità del personale di una pubblica amministrazione come provvedimento amministrativo, e quindi ritiene che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare nei termini – si badi, prima della sentenza della Consulta – il suo scavalcamento nel ruolo di anzianità, e così respinge il ricorso.
4. La teorica dei rapporti esauriti
Il richiamato parere del Consiglio di Stato, al netto per ora della questione relativa alla sua ammissibilità, ricostruisce nel dettaglio la problematica questione degli effetti della sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale nel diritto amministrativo, distinguendo il caso del giudizio a quo da quello dei giudizi ancora pendenti innanzi al giudice amministrativo.
Si afferma che anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha nel tempo ritenuto che le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall'origine la validità e la efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudicato[5], l'atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza.
Si dice, inoltre, che l’indagine sulla c.d. fase discendente del giudizio di costituzionalità, ossia sul seguito nei giudizi amministrativi ancora pendenti, diversi da quello a quo, della dichiarazione di incostituzionalità di una norma sulla genesi o sull’esercizio del potere amministrativo, si traduce in un’indagine sulla sorte del provvedimento amministrativo adottato sulla base della disposizione incostituzionale, se cioè questo debba essere considerato inesistente, nullo o annullabile.
Dopo aver aderito alla consolidata[6] teoria dell’invalidità derivata, il Consiglio di Stato si pone il problema del rilievo ex officio della questione, e sembra risolverlo positivamente: la disciplina del processo amministrativo sarebbe stata sottoposta ad una interpretazione di adeguamento alle dinamiche del controllo di costituzionalità in via incidentale, con l’unico limite della pendenza della controversia e della rilevanza della questione ai fini della decisione del giudice amministrativo. Per vero, questa impostazione è (forse impropriamente) combinata a quell’altra che distingue tra le norme sul quomodo di esercizio del potere e quelle sulla genesi del potere, aggiungendosi che il rilievo d’ufficio dell’incostituzionalità della norma non incontra il limite dei motivi del ricorso quando la Corte costituzionale dichiari illegittima una norma sulla “genesi” del potere.
In ogni caso, ciò che più conta in questa sede è che il Consiglio di Stato, con passaggi pedissequamente ripresi dal Tar Sicilia, insiste sulla teorica dei rapporti esauriti, la quale già di suo meriterebbe forse più attenta riconsiderazione, nella misura in cui finisce per frustrare esigenze di legalità costituzionale e di effettività della tutela, specie nel caso in cui la stabilità del rapporto si acquisisce prima e a prescindere dalla pronuncia di incostituzionalità. La sensazione, in altre parole, è che la nozione di rapporto esaurito sia sfruttata per eludere un problema delicato e tuttora alquanto inesplorato, ossia l’individuazione del corretto punto di bilanciamento tra la necessità di assicurare l’affermazione della legalità costituzionale e quella di scongiurare il rischio di una perenne esposizione dei rapporti all’instabilità derivante dal potenziale contenzioso. Il tema, per l’appunto, non è stato al centro del dibattito, quantomeno di quello animato dagli amministrativisti, ma a ben vedere meriterebbe di essere coltivato, coinvolgendo, tra le tesi sul punto circolanti, anche qualche riflessione sull’annoso tema del dies a quo del termine di impugnazione[7], senza escludere a priori che tale termine iniziale possa coincidere con la pronuncia di illegittimità costituzionale della norma attuata dal provvedimento sub judice[8].
Al netto di tali problematiche più ampie, che riguardano anche il giudizio generale di legittimità, a mio avviso la teorica dei rapporti esauriti risulta comunque inconferente nel caso di specie.
5. L’atto paritetico evapora, il rapporto si esaurisce: una sentenza di “politica” giurisprudenziale?
Il problema è quindi generale e di sistema e rileva anche nell’ambito della giurisdizione di mera legittimità, impattando sulla delicata questione del dies a quo.
Nella residua giurisdizione esclusiva sul pubblico impiego solleva un’altra questione, legata all’incerta ampiezza della categoria degli atti paritetici[9].
Come è ben noto, fra i grandi meriti del giudice amministrativo “pretore”, subito dopo forse solo alla “bruta normazione giurisprudenziale” sul giudizio di ottemperanza e sul giudizio sul silenzio, vi è la sentenza “Fagiolari” che, alla fine degli anni ’30, supera l’equivalenza fra ricorso al giudice amministrativo e impugnazione di un provvedimento nel caso vi sia in discussione un diritto soggettivo del cittadino e l’atto dell’amministrazione non costituisca esercizio di un potere.
Non è un caso che ciò avvenga proprio nell’ambito del pubblico impiego. È stato in questo cruciale settore che «la giurisprudenza del Consiglio di Stato prima (attraverso la ben nota sentenza “Fagiolari”), il legislatore del 1971 dopo, e la Corte costituzionale ancora più tardi (attraverso le sentenze additive degli anni ’80), [hanno abbandonato] quella che pure la Relazione al Re che accompagnava il decreto istitutivo del 1923 indicava come la ragione fondamentale della creazione della giurisdizione esclusiva: assoggettare i diritti soggettivi al medesimo trattamento processuale degli interessi legittimi, là dove fossero più̀ marcate le esigenze di pubblico interesse alla definizione della controversia»[10].
Questo passaggio può essere sottovalutato, da parte ad esempio di chi osserva: «Si prenda il caso emblematico del pubblico impiego, sulla cui natura giuridica (pubblicistica, privatistica o mista) da decenni si disquisiva: non solo il titolo, ma anche gli atti di gestione del rapporto di lavoro divengono atti “amministrativi”. Il punto di equilibrio con l’origine privatistica, al fine di evitare che il mutamento della qualificazione potesse importare una diminuzione della tutela, ha soltanto bisogno di un piccolo accorgimento, ossia l’invenzione degli atti amministrativi “paritetici”, la cui impugnazione è sottratta al breve termine decadenziale. Niente di più»[11].
Ma non può comunque essere del tutto eluso.
E a me francamente pare che è proprio questo che fa nella sentenza che si considera il Tar Sicilia, il quale uno “spartito” chiaro l’aveva (parafrasando il titolo del recente libro di Fabio Saitta)[12], con la consapevolezza che nel caso in esame si trattava di diritti soggettivi in giurisdizione esclusiva (consapevolezza che emerge nella parte in cui il rito sul silenzio viene convertito); ciononostante, conclude per l’applicazione della regola della decadenza e non della prescrizione del diritto, valutando un atto di gestione del rapporto di impiego come il ruolo di anzianità del personale di polizia alla stregua di un provvedimento amministrativo non impugnato su cui opera il limite dei rapporti esauriti.
Si badi: si è consapevoli che la giurisprudenza in questi casi ritiene che la pretesa del ricorrente ai fini dell’accertamento del diritto all’anzianità comprensiva del servizio svolto presso altri comparti delle forze armate si traduce in un migliore inquadramento, che però è consacrato in un apposito atto dell’amministrazione di appartenenza, cosicché i sospirati effetti sulla carriera del dipendente non possono prodursi senza l’eliminazione di tale sbarramento formale[13].
Si tratta di una impostazione che non convince fino in fondo, anche perché sin dagli anni ’70[14], come è noto, la nozione di atto paritetico si estende al di là delle questioni strettamente patrimoniali, cui peraltro quella in esame a rigore va annoverata. E comunque non vi è dubbio nella giurisprudenza del giudice del lavoro che, per i rapporti contrattualizzati, l’atto del datore di lavoro incidente sulla prestazione lavorativa è un atto paritetico, ancorché espressione del potere di supremazia gerarchica, privo dell’efficacia autoritativa propria del provvedimento amministrativo, per cui una diversa disciplina sul punto rischia di rinnovare quelle disparità di trattamento tra lavoratori sulle quali la Consulta negli anni ’80 si è più volte pronunciata.
Si aggiunga, infine, la patente contraddizione nel nostro caso con il mutamento del rito in giudizio ordinario di accertamento su diritti soggettivi.
6. Conclusioni
Si tratta, in conclusione, di una pronuncia che non convince sotto un profilo di stretto diritto processuale, poiché fa ingiustificatamente prevalere la teorica dei rapporti esauriti su quella dell’atto paritetico (categoria cui, a mio sommesso e minoritario avviso, andrebbero ricondotti gli atti in questione), combinando denegata tutela della parte e lacune negli effetti del giudizio di costituzionalità. Si badi: ove, comunque, il diritto sorto prima della sentenza della Consulta fosse prescritto, ciò continuerebbe a legittimare, per ovvie ragioni di certezza, la teorica dei rapporti esauriti. Per ovvie ragioni legate al carattere teorico del presente commento, non interessa qui andare a compiere una siffatta verifica.
Né può fungere di aiuto un breve passaggio della motivazione della sentenza, e qui si tocca il diritto sostanziale, ove si afferma che in regime di diritto pubblico il ruolo di anzianità andrebbe annoverato come provvedimento amministrativo. Non mi pare condivisibile tale – pur stringato – passaggio, poiché se il rapporto di impiego “non contrattualizzato” permane nella giurisdizione esclusiva, questo non può fa venir meno la teorica dell’atto paritetico nato proprio in quella sede, a meno di non voler ritenere che la contrattualizzazione del pubblico impiego abbia sottratto l’applicazione dell’atto paritetico a quei rapporti che sono rimesti affidati al giudice amministrativo. Il che, francamente, non convince, rivelandosi un’inaccettabile conseguenza della contrattualizzazione. Semmai ci si lamenta in sede teorica dei margini di sindacato del giudice del lavoro, ma non risulta a chi scrive che la mutazione di giurisdizione abbia alterato la teoria degli atti paritetici nelle materie di pubblico impiego non contrattualizzato che permangono nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Né (ulteriore subordinata, ma qui siamo proprio nel comodo mondo delle congiunture e del divertissement) è possibile ritenere che tale persistente caratura pubblicistica (che ci farebbe fare un balzo indietro nel tempo addirittura pre-sentenza “Fagiolari”) possa essere il prodotto dello speciale regime di impiego della Polizia, il cui assetto continua ad essere connotato da marcati tratti di complessità e verticalizzazione, ma che, grazie soprattutto alla legge n. 121/1981, si è evoluto sotto vari aspetti: unità funzionale dei ruoli, efficienza nel sistema di reclutamento, democraticità tramite la rivoluzionaria smilitarizzazione[15].
Infine, una chiosa “istituzionale”.
Il Consiglio di Stato, nel parere richiamato dal Tar Sicilia, insiste nell’affermare che per garantire il corretto equilibrio istituzionale, va esclusa la «possibilità di richiedere pareri facoltativi su materie o fattispecie per le quali già siano pendenti o in corso di attivazione controversie giurisdizionali», e in tal senso ritiene di potersi esprimere nel limitato ambito dell’individuazione dei «principi consolidati che reggono la materia; non sarà effettuata, né espressamente né implicitamente, qualsivoglia interpretazione della sentenza della Corte costituzionale in relazione al caso specifico». Il problema si è posto anche dinanzi al Tar Sicilia, che non a caso richiama in diversi punti tale parere.
Non è mia intenzione riprendere qui il tema delle criticità sul piano dei principi di imparzialità del giudice e parità fra parti che emergono in questa vicenda: certo, il richiamo alla teorica dei rapporti esauriti come limite alla retroattività delle sentenze della Corte costituzionale, specie quando siano in questione sentenze di “spesa” come quella qui in esame, desta in chi scrive qualche sospetto sulla “politicità” dell’opera di protezione dell’erario che si situa nell’asse Palazzo Spada-Viminale, nella misura in cui va ad incidere così profondamente sulla teorica dell’atto paritetico nella giurisdizione esclusiva.
Parrebbe un’ennesima peculiare declinazione della tecnica modulazione nel tempo degli effetti della sentenza, tecnica ormai pienamente attecchita anche presso il nostro giudice amministrativo[16], a tutela di valori “alti” e “altri”, ma diversi da quelli propri di una giurisdizione di tipo soggettivo qual è la nostra sulla base dell’art. 24 Cost.
[1] Sul tema v. C. Padula, Gli effetti delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale sugli atti amministrativi applicativi della legge annullata, in AA. VV., Scritti in onore di Lorenza Carlassare, a cura di Brunelli – Pugiotto – Veronesi, Napoli, 2009, 1513 ss.; N. Pignatelli, Giudizio amministrativo e giudizio costituzionale in via incidentale tra fase ascendente e discendente, in Federalismi, fasc. 6/2021, 140 ss.
[2] Sez. I, n. 1984/2021.
[3] A. Romano Tassone, La giurisdizione esclusiva tra glorioso passato ed incerto futuro, in A. Cavallari-G. De Giorgi Cezzi-G.L. Pellegrino-P.L. Portaluri-E. Sticchi Damiani-A. Vantaggiato (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Atti del Convegno di Lecce del 12-13 novembre 2010, Napoli, 2011, 101 ss.
[4] Ad es.: G. Tropea, La specialità del giudice amministrativo, tra antiche criticità e persistenti insidie, in Dir. proc. amm., 2018, 889 ss.
[5] Sul punto occorre tuttavia dare atto che rispetto alla spinta verso l’affermazione della legalità (nel caso in esame si trattava della legalità europea) l’argine del giudicato sembra meno stabile. Il riferimento è alle note pronunce Cons. Stato, Ad. plen., 9 novembre 2021, n. 17 e 18, in cui si prospetta la cessazione di tutte le proroghe delle concessioni balneari illegittimamente disposte, indipendentemente dal fatto che esse siano state disposte per legge e che siano state oggetto di un giudicato favorevole (cioè di un giudicato interno che avesse, in ipotesi, riconosciuto la legittimità degli atti di proroga).
[6] Sin da Cons. Stato, Ad. plen., 8 aprile 1963, n. 8.
[7] Fortemente inciso dalla, pur discutibile, Cons. Stato, Ad. plen., 2 luglio 2020, n. 12, che teorizza come è noto una decorrenza “a gradi” del dies a quo.
[8] Devo questa riflessione ad Annalaura Giannelli.
[9] Giò autorevolmente segnalata, con molteplici riferimenti giurisprudenziali, da A.M. Sandulli, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato ed ai giudici sottordinati, Napoli, 1963, 148 ss.
[10] A. Romano Tassone, La giurisdizione esclusiva tra glorioso passato ed incerto futuro, cit.
[11] M. Mazzamuto, L’amministrazione agisce contro il privato di fronte al giudice amministrativo, nota a Cons. Stato, sez. II, n. 8546/2020), in www.giustiziainsieme.it, 1° marzo 2021.
[12] F. Saitta, Interprete senza spartito? Saggio critico sulla discrezionalità del giudice amministrativo, Napoli, 2023.
[13] Cons. Stato, sez. IV, 30 gennaio 2013, n. 607.
[14] Consiglio di Stato, Ad. plen., 26 ottobre 1979, n. 25
[15] Cfr. R. Ursi, La sicurezza pubblica, Bologna, 2022.
[16] Basti il riferimento, ancora, alle notissime Cons. Stato, Ad. plen., 9 novembre 2021, nn. 17 e 18.
In attesa delle riforme tra attivismo giudiziario e reticenze legislative*
di Stefano Fiore
«Si può partire da una semplice constatazione: basta frequentare qualsiasi aula di giustizia per rendersi immediatamente conto che la conoscenza del testo di legge non è più in alcun modo sufficiente a individuare tutti gli elementi produttivi di effetti giuridici, ma che in parte essi si traggono e trovano la loro fonte nella giurisprudenza […]»[1].
Sarebbe obiettivamente difficile, anche per chi non frequenta con assiduità le aule di giustizia, negare che questa semplice premessa sia sempre stata vera. Eppure, quando il ‘formante giurisprudenziale’ esercita la sua opera con-formatrice sul diritto penale, una sorta di riflesso condizionato induce (ancora?) in molti commentatori un atteggiamento di misurata diffidenza.
Le ragioni di questa cautela sono ovviamente riconducibili ai peculiari tratti di garanzia e alla spiccata connotazione formale che contraddistinguono il modo di manifestarsi e l’applicazione del diritto penale, differenziandolo da ogni altro strumento di regolazione e controllo sociale. Chiunque frequenti, oltre o insieme ai Tribunali, anche la discussione scientifica sulla evoluzione dei sistemi penali moderni è consapevole che non ci si può limitare ad una presa d’atto di quella pur ineludibile (e semplice) constatazione, ma che è necessario verificare limiti e le condizioni della compatibilità del «diritto giurisprudenziale» con la concatenata sequenza di principi sui quali si regge la legittimazione punitiva negli ordinamenti democratici.
La potenziale dismisura del discorso che si potrebbe sviluppare a partire da questo snodo critico, rende necessario ricondurlo entro argini che nel nostro caso sono segnati dalla innovativa forma che assume la trattazione, appunto, del diritto penale giurisprudenziale nel volume da cui le nostre riflessioni prendono spunto.
La suggestione simbolica - forse scontata ma anche per questo immediata - dalla quale intendo partire ci viene offerta dalla sede dove si svolge il nostro incontro, che abitualmente ospita le riunioni dei Gruppi parlamentari. Ci troviamo dunque nei ‘luoghi del legislatore’, a discutere i temi della riforma del sistema penale, il che dovrebbe essere naturale, ma lo facciamo leggendoli attraverso la lente di un’opera, originale e importante, che nasce invece dal rilievo che non è più il legislatore a gestire il cambiamento del sistema penale. Certamente non in via esclusiva e a volte neppure in via residuale.
Nihil sub sole novum, ovviamente. Le carte di questo gioco sono state distribuite e anche ‘scoperte’ già da un bel po’ di tempo, come d’altra parte proprio il volume che oggi presentiamo dimostra. Ma ora si tratta di giocare e di farlo con le carte che abbiamo a disposizione, provando ad andare al di là delle diffuse evidenze con le quali il diritto penale in action si confronta quotidianamente e ormai da tempo.
Sono evidenze che si aggregano attorno ad un ricorrente topos della discussione penalistica di questi anni, quello cioè che vede contrapporsi, da un lato, la tramontata mitologia della legalità penale, costruita sul paradigma legislativo (nazionale) e, dall’altro, le virtù con-formative di una giurisprudenza (non solo nazionale), che si fa demiurgo del sistema e plasma l’ordinamento, anche quello penale, secondo il senso di realtà (o almeno quello che la giurisprudenza ritiene essere tale).
Proporre in prima battuta e in funzione descrittiva una chiave di lettura che contrappone, con variabile tasso di enfatizzazione, legalità penale e diritto giurisprudenziale può forse essere una scelta storicamente comprensibile e può magari contribuire a mantenere viva l’attenzione e la sorveglianza su di un delicato passaggio di paradigma, ma rischia di condurre ad una interpretazione errata e pericolosa delle dinamiche evolutive in atto nei sistemi penali.
Ci troviamo infatti nella fase forse più confusa e convulsa di una difficile transizione e poiché non è ancora chiaro verso ‘che cosa’ stiamo transitando, inevitabilmente ciò che emerge con maggiore visibilità sono spesso le contraddizioni, i contrasti, le asperità, che precedono, speriamo, l’inizio di un percorso piano verso un obiettivo definito, con dinamiche assestate e gestibili.
Diversi spunti utili a fare un po’ di chiarezza sulla fase nella quale ci troviamo e sulla direzione verso la quale il sistema penale ha orientato la sua evoluzione possono invero essere tratti proprio dall’opera che ci fa da guida.
A partire dal suo titolo: «Argomenti di diritto penale giurisprudenziale». È un titolo interessante, che si muove - se così si può dire - tra cautela semantica e rottura degli indugi. Inizio dalla seconda. Colpisce infatti - o almeno la cosa ha colpito me - vedere l’espressione diritto penale giurisprudenziale senza le virgolette, come invece di solito o comunque di frequente accade. Utilizzare le virgolette nel titolo di un libro può risultare graficamente poco elegante e forse la ragione è solo questa, ma fatto sta che la loro assenza (simbolicamente) fissa per quella espressione un significato che corrisponde al senso delle parole, senza cioè l’uso di segni aggiuntivi ai quali assegnare la funzione di rendere quel senso più fluido. Nella quarta di copertina, nella presentazione, nel corpo del testo, le virgolette spesso ricompaiono e tornano ad attenuare la definitività descrittiva della formula «diritto penale giurisprudenziale». Eppure, anche in termini simbolici, il titolo scolpisce un oggetto ritenuto evidentemente ormai riconoscibile e al quale si intende assegnare univocità di senso e con essa anche legittimazione.
La cautela semantica è invece affidata all’intelligente scelta di definire l’impegno ricostruttivo profuso nel volume come un’argomentazione, quasi a sottolineare che, comunque, non si tratta di un dato auto-evidente, ma di qualcosa che ancora richiede di essere argomentato, come i curatori e gli autori invero si impegnano a fare.
Nonostante la consapevolezza che questo esercizio di lettura in filigrana, con relativa assegnazione di significati è oggettivamente un po’ arbitrario e forse anche segnato da qualche - spero perdonabile - forzatura, continuando a seguire le tracce disseminate lungo la trattazione degli «Argomenti di diritto giurisprudenziale» una direzione inizia a delinearsi e diventa più chiara guardando l’indice del volume. La sua struttura rimanda infatti con ogni evidenza agli indici dei manuali di diritto penale di parte generale e la cosa può anche risultare spiazzante per chi è abituato ad utilizzare strumenti dalle forme più tradizionali.
La dottrina penalistica, anche quella più diffidente verso il lavoro della giurisprudenza, si è sempre mostrata disponibile a confrontarsi, anche se spesso criticamente, con il diritto giurisprudenziale delle fattispecie incriminatrici, illudendosi forse che la fattispecie di volta in volta interessata segnasse una sorta di recinto al cui interno eventuali forzature, errori, slanci eccessivamente creativi potessero rimanere confinati senza trasferirsi al sistema.
Ovviamente le cose non stanno così e chi lo avesse davvero pensato avrebbe coltivato comunque una ingenua illusione, perché gli effetti dello ius dicere hanno sempre l’attitudine a (e forse anche la funzione di) propagarsi nel sistema, ben oltre i ristretti confini della norma o delle norme direttamente interessata dal provvedimento giudiziario.
La lettura dell’indice ci mostra invece come stanno realmente le cose e cioè che il diritto giurisprudenziale oggi viene innestato sulla sistematica elaborata dalla teoria generale del reato, entrando dentro le categorie e i concetti sui quali lavora la dogmatica, contribuendo così a (ri)definirli. Assistiamo, in altri termini, ad una incessante dinamica bidirezionale che vede la dogmatica offrire alla giurisprudenza uno strumento operativo (è questo il vero compito della dogmatica), vedendosi poi restituito, come oggetto di studio, quello stesso strumento modificato attraverso il suo utilizzo.
Non stiamo dunque parlando di una raccolta di massime giurisprudenziali e di orientamenti interpretativi per quanto sistematizzati, bensì di una fotografia, parziale ma molto nitida, del lavoro di (ri)scrittura da parte della giurisprudenza della grammatica comune necessaria per far dialogare le disposizioni normative con i fatti e dunque per l’applicazione del diritto penale, vale a dire quello che normalmente si intendeva e ancora si intende essere il compito della teoria generale.
Il mutamento di prospettiva che filtra attraverso l’insieme (anche soltanto) di questi primi segnali arbitrariamente evidenziati per ragioni di sintesi, è imponente, ma soprattutto ha una portata oggettivamente destruente dell’impianto, anche concettuale, sul quale per lungo tempo è stato costruito il discorso penale di derivazione liberale (perdonate anche qui l’eccesso di semplificazione).
Ora, ma non da ora, è però giunto il momento di ricostruire. Non fingendo che sia possibile e sensato invertire il corso della storia, ma provando a governare la transizione verso esiti, che forse non sappiamo ancora esattamente definire, ma che possiamo percepire come tappe fondamentali nella evoluzione del sistema penale.
Alcune cose tuttavia già le sappiamo. Sappiamo ad esempio che quegli esiti non dovranno rappresentare passi indietro dal punto di vista delle garanzie, anzi, dovranno aiutarci a recuperare un po’ del terreno che le garanzie ‘tradizionali’ hanno certamente perduto in questi anni, anche e proprio a causa del ‘ritardo di risposta’ di cui i paradigmi garantistici hanno sofferto nel loro percorso di adeguamento alla evoluzione dei modelli ordinamentali.
Perché, alla fine, con il diritto penale, la questione è innanzitutto (magari non solo, ma certo innanzitutto) quella di assicurare, pur nel mutare dei caratteri dell’ordinamento, un grado di approssimazione alla ‘sostanza’ delle garanzie che consenta di mantenere il sistema penale nel suo complesso entro l’alveo della democrazia.
La domanda non è allora se il diritto giurisprudenziale possa o debba essere considerato come una «fonte» legittima in materia penale. Formulata in questi termini la domanda risulterebbe parziale e imprecisa. Una risposta non superficiale richiederebbe quanto meno molte precisazioni che qui non è possibile sviluppare, ma sarebbe comunque il riflesso di una prospettiva che parte pur sempre dalla dimensione formale della legalità, identificata soltanto con la sua fonte.
La ‘nuova’ legalità penale con la quale ci confrontiamo riconosce all’attività interpretativa del giudice spazi non trascurabili nel definire i contenuti precettivi e allora la domanda che dobbiamo porci deve essere semmai un’altra e cioè: quale statuto di garanzia è applicabile al diritto penale giurisprudenziale, visto che proprio il suo affermarsi ha contribuito ad erodere l’edificio garantistico eretto con i mattoni dalla legalità tradizionale?
Rimango brevemente, prima di orientare lo sguardo alle riforme, sul tema delle garanzie, perché il nuovo modello di legalità penale che si va definendo richiede ovviamente che i parametri di valutazione della effettività siano adattati ad uno scenario dove l’impronta del diritto giurisprudenziale è sempre più profonda.
Il rischio da scongiurare è che questa nuova complessità, questo intreccio non sempre ordinato di fonti, di Corti, di oggetti sovrapponibili e cangianti, diventi il luogo o sia l’occasione per consumare il tradimento dei diritti il cui effettivo esercizio definisce il perimetro entro il quale negli ordinamenti democratici si può fare legittimo uso della potestà punitiva.
Anzi, come accennavo, proprio in questa nuova complessità vanno cercate le leve per innalzare gli standard garantistici. Solo per fare un esempio noto a tutti, si pensi a quel che sta avvenendo grazie alla estensione delle garanzie penali ‘convenzionali’ all’intero diritto sanzionatorio definito attraverso il parametro della matière pénale.
Molte delle ‘nuove’ questioni afferenti all’area delle garanzie penali sono d’altra parte emerse concretamente proprio sul versante del diritto giurisprudenziale e pur essendo orami stabilmente presenti anche nel dibattito scientifico, ancora sembrano lontane dal trovare una soddisfacente stabilizzazione.
Una rassegna, anche non esaustiva, sarebbe comunque troppo lunga per il limitato spazio di questo intervento, ma comprenderebbe certamente, tra le altre, la questione dell’irretroattività dell’overruling sfavorevole, che sembra una strada ormai, almeno, intrapresa, ma non ancora percorsa fino in fondo. Si pensi, esemplificativamente, alla retroattiva e progressiva estensione interpretativa che la fattispecie di pornografia minorile ha subito ad opera di ben tre consecutive sentenze delle Sezioni Unite[2] .
Ancor meno facile da percorrere si presenta poi la strada per arrivare ad affermare il simmetrico principio della retroattività dell’overruling favorevole, il cui riconoscimento implicherebbe con maggiore nettezza l’accoglimento dell’idea del diritto giurisprudenziale come fonte ‘formale’ del diritto penale vigente.
Ancora, l’affollarsi e l’intrecciarsi delle fonti sul terreno del diritto penale (e di quello sanzionatorio più in generale) ha posto da tempo e con crescente frequenza nella prassi il tema cruciale del ne bis in idem, che oggi si propone anche in forme meno tradizionali rispetto a quelle - per così dire - originarie, come dimostra la recentissima e assai interessante sentenza della Corte Costituzionale 16 giugno 2022, n. 149 (Pres. Amato, Red. Viganò) in materia di diritto d’autore[3].
Non è ovviamente possibile affrontare nessuno di questi e degli altri temi correlati che richiederebbero un approfondimento non praticabile in questa sede, ma una brevissima parentesi vale la pena di essere aperta, nei limiti di ciò che è funzionale al prosieguo del discorso, su quello che appare essere uno snodo fondamentale della evoluzione in atto nel quadro delle garanzie costitutive della nuova legalità
L’ampliamento e la complicazione degli orizzonti garantistici prima delimitati dal riferimento ai corollari della legalità sono infatti proceduti di pari passo con la stabilizzazione teorica e la implementazione, anche ‘culturale’, del limite della prevedibilità, che sempre più si propone come concetto catalizzatore di una parte rilevante della rielaborazione delle garanzie tradizionali nello specchio del diritto penale in action.
Come credo sia chiaro a tutti, la prevedibilità è un giudizio che non si proietta certo sull’esito del processo penale, ma sul modo in cui si concretizzerà (o meno) la pretesa dell’ordinamento. La questione cioè, prima di riguardare appunto le sorti processuali di un determinato indagato o imputato, attiene alla definizione dei contenuti precettivi della regola di comportamento, la cui inosservanza è penalmente sanzionata.
Questa ovvia, ma necessaria precisazione conduce ad un punto a mio avviso essenziale, ma che rimane invece spesso un po’ sottotraccia nella discussione sul diritto penale giurisprudenziale, che per sua natura tende a spostare l’attenzione sul contenuto della decisione giudiziaria.
Alla legalità penale, vecchia o nuova che sia, è storicamente affidato in primo luogo il compito di fissare le regole di comportamento in funzione preventiva dei fatti socialmente indesiderati e ciò prima e a prescindere dalla loro eventuale e successiva ‘giustiziabilità’. È chiaro, peraltro, che i due livelli sono indissolubilmente collegati anche sul piano funzionale, perché il giudizio di prevedibilità riguarda la possibilità che astratte regole di condotta si traducano in una decisione giudiziaria necessariamente prodotta attraverso l’applicazione delle vigenti regole del processo, che contribuiscono dunque a fondare tale giudizio.
E anzi, ancor di più, in ambito penale la regola sostanziale esiste solo nella sua versione processuale, come norma sanzione non ha alcuna vita possibile fuori dal processo.
Quando però si dice che la decisione giudiziaria è concretizzazione della regola contenuta nella fattispecie astratta e che deve esserlo in maniera prevedibile, si sintetizza un fenomeno in realtà molto più complesso di quel che appare e nel quale i fatti concreti (ri)definiscono il significato delle disposizioni normative, con la loro carica di elementi etici, sociali e finanche emotivi. Niente di più lontano, apparentemente, dal paradigma tradizionale della legalità penale e in particolare dal corollario della determinatezza intesa come vincolo descrittivo e limite applicativo.
L’opera di concretizzazione svolta dalla giurisprudenza, proprio perché sottoposta a queste spinte non suscettibili di essere ricondotte a categorie formali, alimenta il rischio di applicazioni sperequate e anche, oggettivamente, quello di assecondare la tentazione della costruzione ex post della regola di comportamento sulla base delle caratteristiche del fatto concreto per come emerge in sede processuale, rinnegando così alla radice il canone della prevedibilità e il suo significato garantistico.
Tuttavia, come chiaramente ci ha mostrato la Corte Costituzionale in recenti sentenze (penso, tra le altre, alle sentenze n. 98/2021 in materia di maltrattamenti e n. 24/2019 in materia di misure di prevenzione) la determinatezza in ambito penale, oltre che un vincolo costituzionale e convenzionale per il legislatore, è anche un ‘dovere ermeneutico’, che ricade sull’interprete e dunque innanzitutto sul giudice.
Conveniamo tutti sul fatto che il più sicuro argine ad un diritto vivente ‘imprevedibile’ è ovviamente rappresentato dalla qualità della legislazione in termini di precisione e, ancor più in generale, di accuratezza descrittiva; ma quando a causa della inadeguatezza espressiva o degli inevitabili margini di imprecisione linguistica, si aprono varchi nelle norme, quando cioè a condizionare la scena interpretativa è la polisemia, la questione investe inevitabilmente il diritto vivente e chiama in causa la deontologia ermeneutica orientata all’attuazione delle garanzie.
Che cosa può e anzi cosa deve fare l’interprete chiamato a sciogliere i nodi applicativi che si generano dall’incontro di disposizioni astratte (e imperfette) e fatti concreti (e mai uguali)?
Nella necessaria opera di concretizzazione devono essere valorizzate le sole dimensioni di senso che possono effettivamente entrare nel fuoco della prevedibile comprensione dei destinatari della norma, innanzitutto perché ricavabili dalla lettera della legge. Tra i significati possibili devono cioè essere selezionati solo quelli che hanno l’attitudine ad orientare realmente i comportamenti dei destinatari e la cui violazione è dunque anche soggettivamente rimproverabile, valorizzando il punto di vista, spesso trascurato, del giudizio di ‘colpevolezza’.
Si può dire che questo avvenga nella maggior parte del diritto penale giurisprudenziale? In verità non credo. La deontologia ermeneutica orientata alle garanzie sembra a volte faticare un po’ a farsi largo tra altre pulsioni, molte delle quali venate anche da significati, più o meno espliciti, di ‘difesa sociale’ trasferita nella politica giudiziaria.
Ma a prescindere da ciò, l’aspetto che interessa sottolineare è che se noi vediamo nel diritto giurisprudenziale il luogo in cui avviene la fissazione della dimensione di senso accessibile ai destinatari delle norme, dove cioè la disposizione ‘si fa’ norma, allora stiamo parlando di una funzione certamente con-formativa del diritto e che dunque riguarda direttamente i contenuti precettivi.
Che la giurisprudenza svolga strutturalmente questa funzione è semplicemente indiscutibile, lo è sempre stato. Perché allora - anche al di là e al di fuori delle possibili distorsioni o degli eccessi - oggi ci poniamo di fronte a ciò come ad un problema?
Quale sia il problema lo rileva con la consueta lucidità Massimo Donini: «Questo è il problema del tempo presente: l’unificazione dei poteri in quello giudiziario. Il controllore-esecutore co-definisce le regole a ogni livello, le spiega e argomenta. Al vertice, poi, il “giudice delle leggi”. E in concorrenza con esso, altre Corti che interpretano fonti para-costituzionali o sovra-costituzionali. Pare perciò evidente che la giurisprudenza-fonte debba ormai essere salvata dal suo indiscutibile successo, che riempie il vuoto della crisi e dell’inadeguatezza del potere legislativo, ma rappresenta non solo per il penalista un ‘problema costituzionale’»[4].
A confermare lo squilibrio che «nel tempo presente» caratterizza il rapporto tra una legislazione troppo arrendevole e una giurisprudenza molto attiva, c’è, tra le altre cose, anche la rilevantissima attenzione che da qualche tempo viene riservata al tema della nomofilachia.
A scanso di equivoci - non potendo sviluppare in questa sede il mio pensiero - premetto di essere convinto che alla questione della nomofilachia, proprio in ragione degli scenari che il diritto giurisprudenziale sta ridisegnando, debbano essere riconosciuti una importanza ed un ruolo decisivi nell’economia reale del sistema penale e dunque appare particolarmente necessario che su di essa si continui a riflettere in maniera approfondita e vivace. Basterebbe pensare alla discussa questione delle possibili ricadute che la prevenzione/soluzione dei contrasti giurisprudenziali può avere sulla conoscibilità del precetto, inteso in un’accezione non astratta ma che già accoglie il lavoro interpretativo.
Detto ciò, tuttavia, nella discussione pubblica, sembra a volte di percepire che i magistrati siano più preoccupati dall’esistenza di contrasti tra le decisioni giudiziarie (questione, ribadisco, di grande rilievo nel quadro attuale e anche in prospettiva), che non invece dall’eventuale contrasto tra queste ultime o tra una delle interpretazioni configgenti e la legge, alla quale sembra quasi che venga assegnato un valore meramente orientativo.
Certamente ciò contribuisce a dimostrare la scarsa autorevolezza, per così dire, delle leggi penali attuali, però il mio timore è che finisca per essere percepito più nel primo caso che non nel secondo un vulnus alla parità ‘nell’applicazione’ della legge. Questo è forse comprensibile per coloro che si trovano occasionalmente sullo stesso piano dove avviene ‘contatto’ tra disposizione normativa e fatto, vale a dire il (singolo) processo; ma non può essere il principale parametro per misurare l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (sia pure mediata dal diritto vivente).
Uno sguardo alla realtà rende difficile smentire la fondatezza di questo timore e la serietà delle ragioni dalle quali si origina. Il problema si sposta ovviamente sulla definizione delle contromisure, sul ‘che cosa fare’.
In primo luogo, ca va sans dire, è necessario (e doveroso) che il legislatore torni a svolgere pienamente il ruolo che gli compete e l’utilità e il senso di questo sforzo si misurano con il metro delle riforme.
Arriviamo così al secondo polo della discussione per verificare come il tema delle riforme si innesta sugli scenari aperti dal diritto penale giurisprudenziale e perché le due dimensioni si condizionano reciprocamente, ma non devono contrapporsi o essere considerate alternative, bensì integrarsi.
Non credo sia particolarmente necessario descrivere, perché sotto gli occhi di tutti, il panorama abbastanza desolante che si offre a chi volge lo sguardo verso l’orizzonte delle riforme del sistema penale: l’ipotetico osservatore troverebbe riforme promesse e a volte ‘minacciate’, riforme parzialmente realizzate e magari presto rinnegate, riforme mancate, riforme rinviate e il cui carattere improcrastinabile ha assunto nel tempo un significato vagamente iettatorio, come già molti anni fa ironicamente notava Tullio Padovani.
Perché, invece, sono così necessarie? Non è solo una ovvia questione di funzionalità. Anche se la realtà rimanda esiti poco incoraggianti, si suppone che le riforme vengano progettate e poi realizzate per migliorare le performance dell’ordinamento, ma in realtà esse sono necessarie in un senso molto più ampio e profondo, che arriva fino alla radice di molti degli squilibri che abbiamo segnalato.
Le riforme, quelle vere, proprio nell’ottica del ripristino degli equilibri di sistema, rivestono infatti un significato simbolico poderoso ed essenziale. Sono il modo più chiaro con il quale il legislatore mostra di volersi riappropriare ed effettivamente si riappropria del ruolo costituzionale che gli spetta. L’obiettivo delle riforme può essere mancato da chi deve perseguirlo, ma non può in nessun caso essere realmente delegato.
I surrogati (giurisprudenziali) delle riforme penali restano surrogati.
Una delle cose che più spesso e con ragione si sente dire è che il protagonismo giudiziario svolge in molti settori una funzione di supplenza della cronica latitanza del legislatore; altrettanto spesso e con pari ragione si afferma che l’intraprendenza giurisprudenziale si spiega (e per molti si giustifica) con la necessità di porre in qualche modo rimedio ad interventi scomposti o inappropriati di legislatori ‘per caso’.
Pur essendo ovviamente vere entrambe le affermazioni, la loro riproposizione in forma di slogan rischia di tradursi ancora una volta in letture riduttive, non tanto della dimensione del fenomeno, spesso colto in tutta la sua vasta estensione, quanto del suo significato e della sua articolazione
Per provare ad andare oltre le formule, torniamo allora all’opera dalla quale le nostre riflessioni traggono non solo spunto ma anche ‘materia’. Se guardiamo quali sono gli «Argomenti di diritto penale giurisprudenziale» ivi trattati, vediamo che in realtà solo parzialmente essi hanno a che vedere direttamente con una reale funzione di supplenza delle latitanze legislative. Prevalentemente si tratta di questioni che restano tangenziali al tema delle riforme del sistema penale e che, percorrendo diverse direttrici, ci conducono semmai ad esplorare gli assestamenti con-formativi del sistema in fase applicativa.
In alcuni casi però, attraverso la forma che quegli «argomenti» assumono nella realtà è invece possibile vedere chiaramente l’attitudine distorsiva di un rapporto non equilibrato tra interventi di riforma e percorsi di concretizzazione. Ad esempio - anche se non possiamo aprire questo fronte - si pensi al tema della responsabilità sanitaria, dove gli approdi giurisprudenziali si sostanziano nella riscrittura (peraltro assai discutibile) per via giudiziaria di una disciplina certo largamente imperfetta. L’operazione ermeneutica condotta dalle Sezioni Unite (22 febbraio 2018, n. 8770) sull’art. 590 sexies c.p. non corrisponde al compito con-formativo che abbiamo descritto come connaturato alla dimensione giurisprudenziale: nella sentenza del Supremo Collegio non si cercano significati descrittivi collocandosi in quello che i tedeschi - che hanno una parola per tutto - forse definirebbero il dazwischen (quel che c’è tra due dimensioni, in questo caso tra la teoria e la prassi o tra disposizione e fatto). La sentenza Mariotti si dedica letteralmente alla riscrittura della norma, adottando tra l’altro basi casistiche, che le stesse Sezioni Unite selezionano, ponendosi dunque sul piano della previsione astratta e non su quello della sua concretizzazione.
Ma cosa dovrebbe - allora ed invece - fare il legislatore, oltre ovviamente a scrivere meglio le norme?
Il compito del legislatore non è certo quello di impedire o ingabbiare le dinamiche di interazione concretizzatrice che si sviluppano nella realtà attraverso l’applicazione delle disposizioni normative o inseguire il mito illuministico del giudice bocca della legge.
La dialettica tra legislatore e giurisprudenza non deve però neppure essere un ‘tiro alla fune’ nel quale i contendenti oppongono forze contrarie per conquistare o difendere territorio o riconquistare quello perduto. Esemplari, in negativo, da questo punto di vista sono le vicende che negli ultimi 30 anni hanno riguardato l’abuso d’ufficio, oggetto di inesausta contesa tra spinte restrittive del legislatore e pulsioni estensive della giurisprudenza, destinata, a quanto pare, a proseguire.
Tra i doveri (trascurati) del legislatore vi è invece certamente quello di evitare che i processi diventino il veicolo per alimentare la diseguaglianza applicativa oppure il modo per raccogliere ‘sul campo’ le istanze di difesa sociale, facendole poi gestire alla politica giudiziaria. Uno degli antidoti più efficaci per contrastare la tossicità di queste degenerazioni sistemiche sono appunto le riforme, ma quelle vere, le sole in grado di conferire autorevolezza alla legislazione.
Ma cosa vuol dire riformare davvero? Troppo spesso però le riforme sono state intese in un senso eccessivamente letterale, vale a dire come occasione per modificare la forma di qualcosa, rimodellarla, rimaneggiarla. Per andare oltre operazione di maquillage legislativo dal corto respiro sono necessarie condizioni - innanzitutto ma non solo politiche - che nella recente esperienza non si sono manifestate e neppure sembrano entrare nell’orizzonte di quel che sta avvenendo o a breve avverrà nel campo legislazione penale.
Le riforme, quelle vere, richiedono una base empirica solida, mettono a frutto competenze integrate, si propongono di rispondere tempestivamente e adeguatamente ai cambiamenti di scenario o addirittura anticiparli e non limitarsi a spostare l’inseguimento della realtà in sede giudiziaria, quando si materializza in un processo.
Riforme efficaci, in grado di stabilizzare il sistema anche dal punto di vista degli equilibri costituzionali, presuppongono la volontà di abbandonare le calcolate timidezze e l’ipocrita reticenza che determinano lo stallo, a volte davvero indecente, su temi definiti ‘sensibili’, la cui soluzione, quando la realtà presenta il conto, viene tacitamente delegata ai giudici: perché è troppo complicato, perché politicamente non prendere posizione argomenti ‘divisivi’ è ritenuto più conveniente, perché quel che interessa ai cittadini è «ben altro».
Ma chi, se non il legislatore, dovrebbe occuparsi dei temi del fine vita?
Ancora, per disegnare un vero orizzonte di riforma del sistema penale è necessaria una rinuncia chiara, definitiva e tangibile alla illusione panpenalizzante e alle sue appendici demagogiche. Anche qui un esempio per tutti: la irresponsabile panpenalizzazione dell’area della responsabilità colposa, che strutturalmente richiede una inevitabile, profonda e continua opera di concretizzazione giudiziaria, che rende totalmente imprevedibile e assai disomogenei gli esiti processuali, anche perché comporta la necessità di confrontarsi con un universo valoriale assai composito, la cui gestione in funzione punitiva non può essere un compito da affidare alla magistratura.
Abbiamo già citato prima, sempre nell’area della colpa, la responsabilità sanitaria, ma si pensi anche al delicatissimo e drammatico tema della sicurezza del lavoro e al suo bilanciamento con le esigenze della produzione. È una questione che il legislatore che deve risolvere ‘prima e fuori’ dal penale, ‘prima e fuori’ dal processo.
Per fare vere riforme bisogna però avere un disegno, operare in base ad una visione, la cui attuazione va poi affidata a strategie politico criminali univoche, non alla schizofrenia delle decisioni prese sulla base della spinta prevalente nella contingenza o assecondando il panico morale e lasciando poi le castagne sul fuoco della giurisprudenza.
La palese assenza di una visione di sistema impedisce allora di guardare alle recenti modifiche della prescrizione/improcedibilità come ad una riforma: si tratta al massimo di una vistosa toppa applicata sul tessuto lacerato di un sistema inefficiente. Quale sarebbe la visione che la anima? La presa d’atto che i processi non possono durare all’infinito e ad un certo punto bisogna tracciare una linea? Ci mancherebbe altro.
Lo stesso vale, su scala sistematica più ampia e con effetti molto diretti e concreti sulla esistenza delle persone, per il sistema sanzionatorio e l’ordinamento penitenziario. Entrambi sono stati e continuano ad essere oggetto di una incessante opera di rimaneggiamento legislativo, che ha tuttavia solo scalfito (a voler essere ottimisti) la loro granitica essenza segregante. D’altra parte, molte modifiche sono state l'effetto diretto delle condanne subite dall’Italia in sede europea o di interventi della Corte Costituzionale e molte altre ancora sono derivate dalla necessità di fronteggiare o almeno attenuare le drammatiche conseguenze del sovraffollamento carcerario.
A confermare l’assenza di un disegno relativo al sistema delle sanzioni c’è d’altra parte il periodico contrappunto di improvvisi raptus di schizofrenia sistematica, come quelli contenuti nella legge n. 3/2019, la c.d. spazzacorrotti, ispirati ad una filosofia punitiva radicalmente opposta alle linee di riforma dell’ordinamento penitenziario che, sia pur faticosamente e in maniera un po’ disorganica, il nostro riluttante legislatore stava progressivamente implementando.
Solo l’effettivo e inequivoco abbandono della logica carcero-centrica e della identificazione della certezza della pena con la certezza della esecuzione detentiva, segnalerebbe l’avvento di una vera riforma del sistema sanzionatorio. Qualche timido segnale in questo senso è rinvenibile nella ispirazione complessiva e in alcuni contenuti della c.d. riforma Cartabia, nonostante i numerosi compromessi al ribasso che caratterizzano molte delle sue scelte qualificanti. Vedremo.
Non sono infine vere riforme tutte le innumerevoli normative penali (sostanziali e processuali) figlie del simbolismo efficientista, che non produce norme in grado di dialogare con la realtà e incidere su di essa, ma sforna simulacri legislativi senza effettività, che rispondono solo ad esigenze autorappresentative o addirittura si limita alla proterva trasposizione legislativa di uno slogan politico, come ad esempio avvenuto nel caso delle sciagurate modifiche alla disciplina della legittima difesa.
L’assenza nel panorama legislativo di vere riforme è un atto di abdicazione, certifica la rinuncia del legislatore a svolgere il ruolo costituzionale che gli spetta e che non si esaurisce nella produzione di disposizioni normative (purchessia), tanto più che il formante legislativo, lo abbiamo visto, non è più monopolista del settore, ma è parte di una complessa e integrata rete di fonti con le quali la disposizione interagisce per farsi norma nella realtà applicativa.
Anche per questo il legislatore ha bisogno di trovare ispirazione in un reale spirito riformista in grado di conferire autorevolezza non solo alle disposizioni nelle quali esse si sostanziano, ma anche alla fonte che le produce, il che tuttavia avviene - per dirla con Louis Brandeis - solo se si fanno «leggi rispettabili»[5], in tutti i sensi che è possibile attribuire a questa espressione.
Anche le migliori leggi e a maggior ragione le riforme di sistema devono tuttavia poter contare su condizioni di contesto in grado di attivare nella realtà il cambiamento che attraverso di esse si intende realizzare. Tra le condizioni essenziali perché ciò avvenga c’è anche un’alleanza da sancire nel tempo a venire: quella tra un legislatore che intende recuperare la sua autorevolezza e una giurisprudenza consapevole del suo ruolo con-formativo e per questo custode e artefice della cultura delle garanzie e dei diritti. Un’alleanza alla quale deve partecipare anche la scienza giuridica, chiamata a mettere a disposizione, senza pregiudizi, competenze e strumenti per migliorare le performances di entrambe le funzioni, quella legislativa e quella giudiziaria, e favorire la loro integrazione.
* Il testo riproduce, con minime variazioni, struttura e contenuti della relazione svolta all’incontro di studio su «Le sfide del diritto penale tra giurisprudenza e istanze di riforma», in occasione della presentazione del volume E. Rosi - T. Epidendio (a cura di), Argomenti di diritto penale giurisprudenziale, Milano 2022 - Camera dei Deputati Roma 1° luglio 2022.
[1] La citazione è tratta dalle pagine di presentazione del volume da parte dei Curatori.
[2] Sezioni Unite n. 13/2000, n. 51815/2018 e n. 4616/2022
[3] La Consulta ha dichiarato dell’art. 649 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice pronunci sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsti dall’art. 171-ter della legge 22 aprile 1941, n. 633 (Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio), che, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, definitivamente conclusosi, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174-bis della medesima legge.
[4] Il diritto giurisprudenziale penale. Collisioni vere e apparenti con la legalità e sanzioni dell’illecito interpretativo, in DPC 3/2016, 26)
[5] «If we desire respect for the law, we must first make the law respectable». Louise Dembitz Brandeis è stato uno dei più influenti ed autorevoli giuristi statunitensi della prima metà del secolo scorso. Esponente di spicco del liberalismo americano, nel 1916 fu nominato giudice della Corte suprema dal Presidente Wilson.
1. L’anno 2022 appena chiuso è stato, ragionevolmente parlano, un vero e proprio annus horribilis per il sistema penitenziario italiano posto che ben ottantaquattro detenuti hanno deciso di porre fine alla loro esistenza mediante suicidio.
Un numero tanto alto non si registrava dal 2000, anno in cui, per la prima volta, si è deciso di rendere pubblici i dati statistici su questo tragico fenomeno.[1]
Già solo questa circostanza non può non indurre l’operatore del diritto (specie coloro che operano a diretto contatto con la realtà penitenziaria) ad interrogarsi sulle cause del fenomeno e sui possibili rimedi.
Per discutere di suicidio in carcere non si può, peraltro, che prendere le mosse da considerazioni che ineriscono al suicidio come fenomeno generale e sociale.
2. Il suicidio è un evento plurideterminato, multifattoriale, legato a cause non soltanto psicologiche, ma, addirittura, anche a fattori biologici. Come tale, uno solo dei fattori predetti potrebbe, ad una analisi poco approfondita, essere individuato come causa dell’evento fatale, ma, in realtà, non si può mai parlare di stretta causalità in senso deterministico. Al più, il fattore maggiormente evidente rivestirà la natura di concausa.
Quel che accomuna tutti i gesti suicidari, ad una analisi, comunque, non approfondita, è lo psychache. il suicidio rientra nella molteplicità delle possibilità ontologiche dell’agire umano: trattasi di azione “intenzionale” paradossale, posto che il processo di significazione dell’atto a posteriori è negato dall’annullamento del proprio divenire. Il padre della branca della psichiatria che studia il fenomeno (suicidologia), E. S. Shneidman, descriveva il suicidio come un atto consapevole di autoannientamento derivante da uno stato di malessere generalizzato, lo psychache summenzionato, che sovrasta l’individuo, il quale, dinnanzi alla sofferenza in cui è imprigionato, considera il suicidio come la migliore, ove non l’unica soluzione. Lo psychache, per dirla in parole estremamente povere, è il dolore mentale o dell’anima che prova il suicida, che, giunto al termine di un processo di elevata sofferenza, decide di sopprimere proprio e soltanto quel dolore nell’unico modo che riesce ad intravvedere, vale a dire togliendosi la vita. Il suicidio, cioè, viene individuato come l’ultima risorsa a disposizione per far “tacere” il dolore dell’anima.
Il suicidio è, in sostanza, la maniera di por fine ad una esistenza divenuta intollerabile ed angosciante; peraltro, occorre sottolineare che la soglia di intollerabilità muta da soggetto a soggetto. Non va sottaciuto che, in molti casi, il suicidio giunge al termine di una esistenza connotata da altri “tentativi di fuga”, quali, solo a titolo esemplificativo, il ricorso all’uso smodato di alcool ovvero l’uso di sostanze stupefacenti.
3. Come si è detto nell’incipit di questa esposizione, nel 2022 ben 84 persone detenute si sono suicidate in carcere. Commisurando questi dati con quelli inerenti alla popolazione detenuta in generale, così come monitorata dal Ministero di Giustizia, si ha modo di verificare che nel 2022 ci sono stati circa 15,2 suicidi per 10.000 detenuti. Fuori dal carcere, nell’ambito della società libera, nel 2019 (ultimo anno per cui ci sono statistiche) in Italia i suicidi sono stati 0,71 ogni 10.000 abitanti: in altre parole, i suicidi sono circa 20 volte più diffusi in carcere rispetto alla popolazione generale.[2]
Ove il tasso della mortalità da suicidio della popolazione detenuta sia calcolato in maniera “grezza”, cioè in riferimento ad una popolazione “aperta”, si dovrebbe, a giudizio di chi scrive, tener conto della maggiore esposizione a rischio del detenuto.
È noto, infatti, sin dagli anni ’40 del secolo scorso, che l’inserimento nella comunità detentiva provoca un “processo di erosione dell’individualità” a vantaggio di un progressivo adattamento alla comunità carceraria. La prisonizzazione, in altri termini, si identifica nell’assunzione delle abitudini, degli usi e dei costumi dell’esperienza carceraria da parte dell’individuo, attraverso un processo di assimilazione da parte del detenuto delle norme e dei valori che governano ogni aspetto della vita interna al penitenziario. Il soggetto abbandona il suo modo di essere, le sue cose, il suo stile di pensiero e comportamentale: abbandona, cioè, il modo di rappresentarsi a sé stesso ed agli altri e dovrà ridefinirsi, non solo rispetto a sé stesso, ma anche verso i nuovi compagni, lasciando spazio alla “discultura” (perdita dei valori che il soggetto aveva prima dell’internamento). Accanto allo sviluppo di nuovi modi di mangiare, di vestirsi, di parlare, di lavorare, si assiste alla divulgazione ed all’assunzione di ideologie diverse, spesso di tipo malavitoso e criminale.[3] La spersonalizzazione interviene quando si assimilano valori che governano ogni aspetto della vita dell'istituzione, abbandonando in tal modo la propria identità, in quanto è operato un vero e proprio inghiottimento del singolo in una realtà talmente forte e totalizzante, che non lascia scampo.[4][ Non bisogna dimenticare, infatti, che il carcere è tipicamente una istituzione totale, vale a dire il luogo in cui gruppi di persone risiedono e convivono per un significativo periodo di tempo. Le caratteristiche distintive dell’istituzione totale sono:
- l’allontanamento e l’esclusione dal resto della società dei soggetti istituzionalizzati;
- l’organizzazione formale e centralmente amministrata del luogo e delle sue dinamiche interne;
- il controllo operato dall’alto sui soggetti – membri.
Le modalità di accesso ad una istituzione totale sono fondamentalmente due:
a) la piena identificazione di un soggetto con le intenzioni e le finalità espresse dalla situazione comune, come nel caso dei luoghi di convivenza continua come i conventi e le caserme, in cui lo status di persona istituzionalizzata è dovuto a una scelta;
b) la costrizione derivante dall'essere considerato un soggetto pericoloso per la società, come nel caso delle carceri e dei manicomi, in cui lo status di persona istituzionalizzata è di fatto imposto.
“Il carcere è un momento di vertigine. Tutto si proietta lontano: le persone, i volti, le aspirazioni, i sentimenti, le abitudini, che prima rappresentavano la vita, schizzano all’improvviso da un passato che appare subito remoto, lontanissimo, quasi estraneo”[5]
Con l’ingresso in carcere il soggetto perde il ruolo sociale che prima aveva, viene privato dei suoi effetti personali, di uno spazio personale, della capacità di decidere autonomamente; perde il contatto quotidiano con la famiglia e con gli amici ed inizia a pensare a cosa accade loro mentre lui è lì.
E la spersonalizzazione che è la maggiore tra le sindromi da prisonizzazione porta con sé un cascame psicopatologico di notevole rilievo. Gli esperti del settore, infatti, individuano altre sindromi da prisonizzazione. Cecilia Pecchioli scrive: “…Sindrome da Innocenza: che consiste nella negazione totale o parziale della propria responsabilità rispetto al reato e/o nella percezione della pena come troppo grave in relazione al reato stesso; in genere compaiono minimizzazione, razionalizzazione, proiezione.
- Sindrome dell’Amnistia o della Grazia: consistente nella convinzione, inadeguata rispetto alla situazione reale, di ottenere una riduzione del periodo di detenzione o addirittura una cancellazione della pena.
- Sindrome del Guerriero e del Giustiziere: che si verifica allorché la speranza di uscire viene sostituita con un’affermazione narcisistica di sé attraverso il controllo violento sugli altri o identificandosi con la giustizia, diventando il detenuto stesso giudice ed esecutore delle pene.
- Sindrome Persecutoria: le particolari condizioni della vita penitenziaria possono essere facilitatrici rispetto ad un atteggiamento di sospetto e/o senso di persecuzione da parte di altri detenuti, di agenti della Polizia penitenziaria o del sistema “giustiziario” in generale.”.
Il percorso degenerativo conseguente alla prisonizzazione può sinanco giungere alla acquisizione della Sindrome di Ganser. Sempre Pecchioli spiega: “…Questa patologia è la più tipica, anche se non così frequente ed esclusiva, del regime detentivo. Si tratta di una forma dissociativa caratterizzata da amnesia per il periodo nel quale si manifestano i sintomi. Si verifica una produzione volontaria di sintomi psicologici che tende al peggioramento quando il paziente è consapevole di essere osservato. Questi sintomi sono:
- risposte approssimative, alla rovescia o di traverso;
- alterazione degli stati di coscienza, stati sognanti o crepuscolari;
- sintomi somatici o di conversione;
- allucinazioni;
- amnesia dell’episodio;
- febbre tifoide o grave trauma emotivo.”.[6]
Non è chi non veda, dunque, come, solo per tali aspetti, la popolazione detenuta sia connotata dalla presenza di soggetti maggiormente esposti a rischio rispetto alla percentuale media di quelli della popolazione libera, il che induce a porre maggiore attenzione al dato statistico, che potrebbe non risultare pienamente rispondente a realtà, ed alla necessità assolutamente incombente dell’adozione di prassi che prevengano il fenomeno dei suicidi in carcere.
4. Rimandando a quanto osservato nell’incipit di questo scritto, il suicidio potrebbe essere prevenuto (le ragioni del corsivo saranno meglio esposte nel prosieguo) soltanto ponendo in essere una politica intesa a captare i “segnali di allarme” che il potenziale suicida lancia ai suoi interlocutori (cambio di abitudini di vita, aggressività, volontà di sistemare i propri affari non ancora chiusi, sbalzi di umore, attenzione focalizzata su temi come la morte ed, in particolare, il suicidio). I segnali predittivi di rischio, peraltro, sono indici deboli, che producono molti “falsi positivi”. Tanto è vero che, secondo quanto osservato dagli esperti di settore, più basso è considerato il rischio di suicidio per determinati soggetti o per certe categorie di soggetti, più elevata è l’effettiva possibilità che a suicidarsi siano proprio quei soggetti.
La verità è che, purtroppo, il suicidio è fenomeno che, ancora oggi, non si può prevedere con certezza, né prevenire in maniera altrettanto sicura.
Vero è che, per ciò che concerne lo specifico tema dei suicidi in carcere, appare assolutamente necessario e preminente preparare il personale penitenziario tutto a riconoscere i segnali di rischio predittivo di cui si è detto, tenendo conto delle situazioni maggiormente stressanti (quali, a titolo meramente esemplificativo ma non esaustivo, il momento dell’ingresso in carcere, la ricezione di notizie cattive provenienti dalla famiglia, gli sviluppi negativi delle vicende processuali cui sono soggetti i detenuti, ma, anche, il momento della dimissione dal carcere). Tutto ciò servirà, come detto, non tanto a prevedere con certezza il rischio suicidario, quanto ad intravvedere lo stesso, ma tale capacità di forseeability, in alcuni casi, può risultare decisiva.
5. Ricercare le possibili cause dei suicidi in carcere non può prescindere dalla disamina dei dati del terribile 2022. In questo anno si sono uccisi in carcere 84 detenuti, di cui 33 erano persone con fragilità sociali o personali ovvero affette da disagi psichici o senza fissa dimora; 49 di loro si sono uccisi nei primi sei mesi di detenzione, 21 nei primi tre mesi, 15 nei primi dieci giorni, 9 nelle prime 24 ore, 5 sarebbero stati scarcerati per fine pena entro un anno, 39 avevano pena residua da espiare inferiore ai tre anni, solo 4 di loro avevano una pena residua superiore ai tre anni ed uno doveva scontare 10 anni di reclusione. Le donne che si sono suicidate sono state 5 (le donne detenute rappresentano circa il 5% della popolazione penitenziaria, o cifra leggermente inferiore, e, pertanto, il dato appena menzionato deve indurre a riflessioni amare, posto che il totale delle detenute suicidatesi nel 2022 è pari a circa il 6% dei suicidi).
Tante le cause che possono essere individuate alla base di una scelta così totalizzante e definitiva.
Cecilia Pecchioli le elenca nella maniera che segue:
- Fuga: il soggetto, attentando alla propria vita, cerca di fuggire da una situazione percepita come insopportabile;
- Lutto: il soggetto attenta alla propria vita in conseguenza della perdita (reale o immaginaria) di un effettivo elemento della sua personalità o dell’ambiente circostante;
- Castigo: il soggetto attenta alla propria vita per espiare un errore o una colpa, reale o immaginaria;
- Delitto: il soggetto attenta alla propria vita per trascinare con sé, nella morte, un’altra persona;
- Vendetta: il soggetto attenta alla propria vita sia per provocare il rimorso altrui, sia per infliggere all’altro l’infamia della comunità;
- Richiesta e ricatto: il soggetto attenta alla propria vita per far pressione sull’altro, ricattandolo;
- Sacrificio e passaggio: il soggetto attenta alla propria vita per raggiungere un valore o una condizione percepita come superiore;
- Ordalia e gioco: il soggetto attenta alla propria vita per mettere in gioco sé stesso, e organizza una sorta di “sfida” al destino, in modo tale da rimettere la scelta tra la propria vita e la morte ad un’entità metafisica.[7]
La studiosa è molto attenta nella descrizione del significato del fenomeno suicidario, delineando anche le possibili cause alla base dello stesso sottese.
Quel che è certo, a parere di chi scrive, è che, pur avendo ben presente la multifattorialità del fenomeno, quel che sembra accomunare i vari casi verificatisi, per lo meno attingendo alle fonti costituite dalle cronache locali e, pertanto, conservando un margine di dubbio sulla attendibilità delle stesse, è la disperazione per il sentirsi inghiottito in un gorgo dal quale non si vede uscita, anche quando il cosiddetto fine pena è vicino. Chi scrive ha avuto modo di prendere personale cognizione del caso di suicidio di una ragazza poco più che ventisettenne, detenuta in espiazione di condanna definitiva, che si era trovata a fare nuovo ingresso in carcere dopo essere stata affidata ad una comunità terapeutica per un programma di disintossicazione e riabilitazione sociale. La ragazza si era sottratta volontariamente al programma concordato, fuggendo dalla comunità, e la misura alternativa era stata revocata. Poco tempo prima della scarcerazione per fine pena, nel periodo prenatalizio (ed anche questo dato, a giudizio di chi scrive, è elemento assai significativo) la ragazza aveva avuto un colloquio telefonico con la madre, che le aveva comunicato la sua intenzione di non avere più rapporti con lei. Poche ore dopo la telefonata, la ragazza ha posto prematuramente fine alla sua vita.
Il tempo trascorso in carcere viene vissuto come tempo vuoto, sottratto ad ogni iniziativa che possa riempire di significato anche quella porzione di vita da trascorrere nella limitazione della libertà personale. Il lavoro cosiddetto domestico, alle dipendenze, cioè, della Amministrazione penitenziaria (addetto alle pulizie di sezione, addetto alla M. O. F., addetto alla cucina, addetto alla distribuzione del vitto) non è qualificante e viene vissuto solo come mezzo per procurarsi denaro da inviare, nella migliore delle ipotesi, ai familiari in difficoltà economiche.
La limitazione degli spazi per vivere l’affettività incide in maniera molto negativa sul dolore psichico che prova la persona detenuta (non a caso, da più parti, dopo la terribile estate del 2022, che ha fatto registrare un’accelerazione dei suicidi in carcere, si è invocata la possibilità di interventi, normativi od anche soltanto rimessi alla discrezionalità della Amministrazione penitenziaria, come previsto dai vigenti regolamenti, volti ad aumentare il numero delle telefonate che i detenuti possono fare ai loro familiari).
E, ultimo ma non ultimo, sembra possa incidere positivamente sul piano della prevenzione del fenomeno in esame l’adozione, da parte del personale penitenziario, ed in special modo della Polizia penitenziaria, di un approccio diverso, che ponga l’accento sulla necessità di una comunicazione basata su un linguaggio meno “assertivo” e più “empatico”, il che consentirebbe, a parere di chi scrive, alla Polizia penitenziaria di creare un diverso spazio di ascolto e di svolgere appieno quel ruolo di partecipazione all’opera di rieducazione del condannato, che, in una al dovere di mantenere l’ordine e la sicurezza all’interno degli istituti di pena, il secondo comma dell’art. 5 della legge 15 novembre 1990, n. 395, attribuisce al Corpo.
Quindi, dopo ogni evento suicidario occorre porre in essere tutta una serie di comportamenti definibili come azioni di postvention, intesi, cioè, ad evitare fenomeni di contagio psicotico. In fondo, i compagni di detenzione del suicida sono, spesso, legati allo stesso da sentimenti di comunanza, il che fa di loro dei survivors nei confronti dei quali debbono sperimentarsi appositi interventi di psicoterapia per meglio consentire “l’elaborazione del lutto”. Il suicidio induce alla contemplazione della dimensione personale e sociale del dolore. Il fenomeno, inoltre, ha anche una dimensione sociale ed il “lutto” non può che essere collettivo.
6. In conclusione, tutto l’apparato statuale impegnato nell’esecuzione della pena detentiva, in diversi ruoli e con diversi compiti, ha l’obbligo morale, prima ancora che giuridico, di impedire che il tragico record dell’anno 2022 non venga superato, dovendosi, anzi, ognuno per ciò che gli compete attivarsi per impedire, nei limiti del possibile, il ripetersi di tragici fatti come quelli dell’anno appena passato.
L’Amministrazione penitenziaria, specificamente il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha emanato apposita circolare, datata 8 agosto 2022, diretta a delineare le nuove linee della policy per la prevenzione del fenomeno dei suicidi in carcere, con particolare attenzione alla individuazione dei soggetti a rischio e degli interventi di sostegno nei confronti degli stessi.
Val la pena, peraltro, di sottolineare come un quadro operativo realmente efficace non può che prevedere anche (e soprattutto) un adeguamento dell’organico del personale, specie di quello delle Aree Giuridico – Pedagogiche degli istituti di pena, ed intese con le U. L. S. S. competenti per l’aumento del monte ore di psicologi e psichiatri che operano in istituto di pena.
Ma anche altri organi debbono intervenire, Magistratura, specie quella di Sorveglianza, ed Avvocatura.
Ed anche le amministrazioni locali giocano un ruolo fondamentale, posto che le stesse possono fornire occasioni di lavoro all’esterno, sicuramente più qualificante di quello domestico e tale da meglio riempire di contenuto il tempo dell’esecuzione della pena, ed anche di sistemazioni logistico – abitative per coloro che, pur meritevoli di misura alternativa alla detenzione, della stessa non possono fruire perché privi di stabile dimora.
Occorre, poi, che vengano istituiti i Consigli di Aiuto Sociale, organismi previsti dall’articolo 74 dell’ordinamento penitenziario con compiti precipui e fondamentali nell’assistenza penitenziaria e post – penitenziaria.
Il sistema dell’esecuzione penale deve essere informato alla rieducazione del condannato, come insegna l’art. 27, secondo comma, della Costituzione. Rieducazione non può che significare restituzione alla società di un individuo consapevole di sé, dei propri doveri, nei confronti delle istituzioni e dei consociati, e dei propri diritti. È in questa consapevolezza che matura la personalità nel “nuovo” cui deve tendere l’esecuzione della pena o, più correttamente, delle pene. Non sembra dubbio, pertanto, che ogni volta che un detenuto si suicida (i motivi che conducono all’estremo gesto sono i più numerosi, come già detto) un soggetto che poteva e doveva essere restituito alla società ed ai suoi affetti “rieducato” viene meno; con esso viene meno, in tutta evidenza, lo scopo della pena, se non altro in quel singolo caso. E, dunque, il sistema, che dovrebbe reinserire, fallisce in maniera eclatante.
È per questo motivo che chi scrive si è preso la licenza di citare, nel sottotitolo di questo testo, parafrasandole, le parole della Canzone del Maggio. Ogni volta che un detenuto muore suicida, anche se noi ci crediamo assolti siamo lo stesso coinvolti.
[1] “Il 2022 è stato l’anno con il maggior tasso di suicidi nelle carceri italiane” v. https://servicematica.com/il-2022-e-stato-lanno-con-il-maggior-tasso-di-suicidi-nelle-carceri-italiane/
[2] Occorre, poi, tener conto della circostanza che non è dato sapere, con precisione, se la percentuale di mortalità da suicidio sia calcolata in maniera “grezza” od in altro modo. Infatti, ove il tasso percentuale di mortalità da suicidio sia un tasso “grezzo” dovrebbe essere calcolato, se rapportato ad una popolazione “aperta” (con ricambio frequente di membri che la compongono, così come il carcere), tenendo conto della media dei soggetti esposti a fattori di rischio, numero che aumenta in maniera esponenziale rispetto a quello della popolazione libera.
[3] Donald Clemmer, La comunità carceraria, in Carcere e società liberale, Giappichelli, 1997
[4] Sindrome di prisonizzazione, su scirokko.it URL
[5] Francesco Ceraudo, La sessualità in carcere: aspetti psicologici, comportamentali ed ambientali su http://www.ristretti.it/areestudio/affetti/documenti/ceraudo.htm URL
[6] Cecilia Pecchioli, La sindrome del carcerato in https://ceciliapecchioli.it/giuridica/la-sindrome-del-carcerato/ URL
[7] Cecilia Pecchioli, La sindrome del carcerato, cit.
Storia delle donne in magistratura*
di Gabriella Luccioli
1. Celebrare i 60 anni della legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì alle donne l’accesso alle funzioni giurisdizionali, impone di ripercorrere un cammino lungo, complesso e pieno di ostacoli.
Come è noto, la posizione delle donne nei confronti della giurisdizione era segnata dall’art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176. Tale legge, che pure costituì una tappa importante nel cammino verso il riconoscimento dei diritti delle donne, tra l’altro abrogando l’istituto dell’autorizzazione maritale e riconoscendo loro piena capacità giuridica, le escluse, salva diversa espressa previsione normativa, dalle professioni e dagli impieghi implicanti poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato, secondo la specificazione da effettuare con apposito regolamento. Il regolamento di attuazione 4 gennaio 1920, n. 39 ridusse enormemente gli spazi delineati dalla legge n. 1176, indicando una lunga serie di importanti pubblici uffici preclusi alle donne, tra i quali quelli di prefetto, diplomatico, direttore generale presso ogni dicastero, ministro, ufficiale giudiziario, cancelliere, magistrato, sia della giurisdizione ordinaria che amministrativa e contabile, e conferendo alle amministrazioni statali la facoltà di prevedere ulteriori eccezioni.
Nonostante la dottrina più illuminata avesse percepito nella legge n. 1176 del 1919 l’inizio di un processo inarrestabile che avrebbe permesso alle donne di accedere a tutti gli impieghi pubblici, compresa la magistratura, avendo esse già ottenuto di poter esercitare la professione forense, l’avvento del fascismo, con la sua ossessiva esaltazione del ruolo essenziale della donna all’interno della famiglia e la parallela marginalizzazione della sua funzione nel settore pubblico, impresse una brusca direzione in senso contrario a tale percorso.
Coerentemente con il disposto dell’art. 7 della citata legge del 1919, la disciplina sull’ordinamento giudiziario di cui al r. d. 30 gennaio 1941, n. 12, all’art. 8, n. 1, poneva tra i requisiti per l’ammissione alle funzioni giudiziarie l’essere cittadino italiano, di razza italiana, di sesso maschile, ed iscritto al P.N.F. Quindi la non appartenenza alla categoria del maschio italico e fascista precludeva inesorabilmente la possibilità di essere magistrato.
In questo quadro di riferimento, ma in un contesto sul piano politico e sociale profondamente cambiato dopo la caduta del regime, l’Assemblea Costituente affrontò la questione cruciale della possibilità per le donne di accedere a tutti gli uffici pubblici, ed in particolare alla magistratura, ed alle cariche elettive.
La lettura dei resoconti delle sedute di detto consesso offre un quadro desolante, in quanto da quei documenti emerge con evidenza l’atteggiamento di sufficienza, talvolta di insofferenza e di arroganza, della grande maggioranza dei Padri Costituenti nei confronti della possibilità di accesso delle donne agli uffici pubblici ancora preclusi, e in particolare alle funzioni giurisdizionali. Le opinioni sostenute da molti di essi appaiono impregnate di pregiudizi, stereotipi e triti luoghi comuni fortemente ancorati alla cultura del passato, con i quali dovette confrontarsi lo straordinario impegno profuso dalle poche donne presenti nella Costituente nel tentativo di scalfire quella tenace barriera oppositiva (soltanto 21 su 566 erano state elette e soltanto 5 fecero parte della Commissione dei 75 incaricata di predisporre il testo della Carta; nessuna fu chiamata a comporre il “ Comitato di redazione”, che aveva il compito di elaborare il testo votato dalla Commissione).
Dalla piena concordanza di tanti interventi di segno negativo si intuisce che non si trattò di voci isolate, ma di posizioni ampiamente condivise che riflettevano orientamenti e preconcetti profondamente radicati nella classe politica, tra gli operatori del diritto e nella società.
Rinvio chi ne fosse interessato alla diretta lettura dei resoconti ufficiali, che con drammatica chiarezza fanno emergere la miopia e la limitatezza di molte delle opinioni espresse in quel consesso e consente di riscontrare come i principi di democrazia, di eguaglianza, di pluralismo pur reiteratamente evocati dagli stessi Costituenti non riuscissero ad intaccare l’ ideologia dominante nei confronti delle donne e ad indurre quegli insigni giuristi a guardare lontano, piuttosto che appiattirsi su un’ asfittica conservazione dell’esistente.
Giustamente Maria Federici nella fase finale della discussione sull’art. 98 (poi divenuto art. 106) si chiedeva come fosse possibile che quegli stessi Costituenti che in una confluenza di idealità e di visioni avevano sancito nell’art. 3 la pari dignità sociale e l’eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge potessero assumere posizioni così pesantemente discriminatorie nei confronti della metà della popolazione.
Ed è sorprendente constatare che personalità così illuminate non percepirono la gravità dei pregiudizi che annebbiavano il loro pensiero, impedendo di vedere che proprio quei principi di eguaglianza, pari dignità e solidarietà solennemente sanciti nei primi articoli della Carta erano stati offesi in passato in infiniti modi da una legislazione che aveva relegato le donne ai margini della vita sociale, del mondo del lavoro e all’ interno della famiglia e che la sede costituente offriva un’occasione storica irrinunciabile perché quei valori e quei principi si traducessero finalmente nel riconoscimento dei diritti delle donne.
All’ esito di un lungo dibattito, segnato dagli accorati e inascoltati interventi delle Madri Costituenti on. Federici, Mattei e Rossi, si giunse all’ approvazione dell’art. 51, che nel suo primo comma dispone che tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge: una formulazione di compromesso accettata nel diffuso e non dichiarato convincimento che la mancanza di un disposto specifico avrebbe consentito ad ogni interprete di far prevalere la propria opzione ermeneutica.
In effetti l’ auspicio che l’art. 51 Cost., nonostante la sua ambigua formulazione, potesse dare soluzione positiva al problema delle donne in magistratura fu purtroppo vanificato dalla posizione successivamente assunta da vari accademici e dalla giurisprudenza prevalente sul significato da attribuire all’ inciso secondo i requisiti stabiliti dalla legge, e quindi sul rapporto tra detto art. 51 e l’ art. 3 Cost.
Il tenore letterale della norma fornì infatti argomento alla posizione di coloro che optavano per il riconoscimento al legislatore ordinario del potere di prevedere il genere maschile tra i requisiti attitudinali per l’accesso a determinati uffici pubblici e cariche elettive, nell’assunto che quella formula autorizzasse a derogare per via normativa al principio generale di cui all’ art. 3, primo comma. Si richiamavano al riguardo gli artt. 37, primo comma, e 97, primo (ora secondo) comma, Cost., lì dove il primo prescriveva che le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della essenziale funzione familiare delle donne, mentre il secondo sembrava dare spazio alla possibilità che il buon andamento della pubblica amministrazione prevedesse la possibilità di esclusione di personale di sesso femminile.
La dottrina più illuminata mise in evidenza l’inaccettabilità di tale opzione ermeneutica, sul rilievo che l’art. 51 era chiaramente diretto a garantire l’eguaglianza dei cittadini e a negare ogni rilevanza al criterio del sesso nell’accesso ai pubblici impieghi e alle cariche elettive - come peraltro era immediatamente desumibile dalle parole di apertura Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso…-, così ponendo un preciso limite al potere discrezionale del legislatore. Si sottolineava altresì al riguardo l’inconferenza del richiamo all’ art. 37, primo comma, non potendo trarsi da una disposizione posta a tutela della donna lavoratrice, cui venivano riconosciuti gli stessi diritti del lavoratore, argomenti a sfavore del suo accesso a determinati uffici. Ed anche il riferimento al principio di buon andamento della pubblica amministrazione garantito dall’art. 97 risultava fuorviante, in quanto fondato su una arbitraria presunzione assoluta di inadeguatezza, per ragioni fisiologiche, del genere femminile alle pubbliche funzioni.
Alla posizione più retriva si allinearono i vertici della magistratura, nella loro implacabile contrarietà alla presenza delle donne nell’ordine giudiziario e nell’anacronistica difesa del mito della superiorità maschile, ribadendo il loro convincimento che la parificazione dei sessi prevista nella Costituzione non poteva considerarsi assoluta, in quanto era la stessa Carta a consentire al legislatore ordinario di introdurre, se del caso, eccezioni a tale principio.
Ne derivò che l’accesso delle donne alle carriere elencate nel richiamato regolamento del 1920 rimase per lungo tempo interdetto.
Con la sentenza n. 33 del 1960 la Corte Costituzionale, accogliendo l’eccezione di incostituzionalità sollevata dal Consiglio di Stato, dichiarò l’illegittimità dell’art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicassero l’ esercizio di diritti e di potestà politiche, in riferimento all’ art. 51, primo comma, Cost., per l’irrimediabile contrasto in cui detta norma si poneva con l’ enunciato costituzionale. In tale pronuncia il giudice delle leggi interpretò la formula ellittica contenuta nel primo comma dell’art. 51 Cost. nell’unico modo consentito dall’art. 3, ossia intendendo l’art. 51 come una specificazione, e prima ancora una conferma, dell’art. 3.
In questa sua capacità di riconoscere la natura inviolabile ed il valore supremo del principio di eguaglianza vanno colti la carica innovativa e lo spessore culturale, oltre che il valore tecnico, di detta decisione, pronunciata in un tempo in cui erano ancora forti nella società e nel mondo giuridico le diffidenze ed i pregiudizi che avevano animato il dibattito in seno all’ Assemblea Costituente.
Attesa la portata limitata della dichiarazione di incostituzionalità, si dovette introdurre una specifica legge, la n. 66 del 1963, che consentì l’accesso a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, ed abrogò espressamente la legge n. 1176 del 1919 ed il successivo regolamento. Come è stato correttamente osservato in dottrina, il fatto che si fosse resa necessaria una legge ordinaria per ribadire principi già sanciti in Costituzione costituisce chiara conferma della persistente arretratezza culturale degli apparati chiamati ad applicare i principi della Carta.
Al momento dell’approvazione della legge n. 66 del 1963 erano trascorsi tre anni da quella fondamentale sentenza della Consulta; dall’entrata in vigore della Costituzione erano trascorsi quindici anni e si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. E non può fondatamente contestarsi che il grave ritardo nell’ingresso delle donne in magistratura sia stato almeno in parte determinato dall’ambiguità della formula adottata nell’art. 51, che fornì un facile appiglio alle tesi più reazionarie.
La nuova disciplina sull’accesso rese necessario riaprire i termini di un concorso già bandito nell’agosto del 1962, ma nessuna donna superò quella prova.
Con d.m. del 3 maggio 1963 fu bandito un nuovo concorso aperto alla partecipazione delle donne; con d.m. del 5 aprile 1965 le prime otto donne vincitrici dell’esame entrarono a far parte dell’ordine giudiziario. Io ero una di loro.
2. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4-5 % per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10-20 % dopo gli anni settanta, al 30-40% negli anni ottanta e registrare un’ impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo la metà dei vincitori. Attualmente le donne in servizio hanno raggiunto la percentuale del 56% ed è facile previsione che diventeranno sempre di più, tenuto conto che il numero di donne vincitrici di ogni concorso è dal 1987 di gran lunga più elevato di quello degli uomini.
A fronte di tali evidenze mi sovvengono le incaute riflessioni dell’on. Conti nella seduta dell’Assemblea Costituente del 15 novembre 1947, quando affermò che le donne potranno entrare in Magistratura, ma non ci entreranno: questa è la mia convinzione… Se potranno entrare ed entreranno, bene saranno applicate alla Magistratura dei Minorenni . Credo che questa sarebbe un’applicazione utilissima. Si può pensare ad un’ altra applicazione utile: ai servizi di cancelleria.
Alla plateale mancanza di lungimiranza di tale previsione si contrappone una realtà che potrebbe presto portare ad affrontare i problemi di pari rappresentanza al contrario, a seguito di una eccessiva femminilizzazione della magistratura.
Le donne oggi entrano a far parte dell’ordine giudiziario in un contesto sociale e culturale del tutto diverso da quello del 1965 e degli anni immediatamente successivi: in effetti non fu facile per le magistrate negli anni sessanta e settanta ottenere il rispetto dei colleghi, in quanto in molti ambienti anche autorevoli si continuava a porre la domanda se le donne, con le loro specificità fisiche e psichiche, fossero idonee ad esercitare le funzioni giurisdizionali. Si trattava di far fronte non tanto a discriminazioni dirette, quanto a latenti pregiudizi, a malcelate diffidenze, spesso mascherate da inopportuni atteggiamenti paternalistici, chiaramente stridenti con il modello paritario.
La lunga esclusione subita e la percentuale così esigua di vincitrici dei primi concorsi rese inevitabile assumere una posizione di totale omologazione al modello maschile, unico modello di riferimento ed unico strumento per superare pregiudizi e diffidenze ed ottenere piena legittimazione. La completa imitazione ed introiezione di quel modello comportava da un lato la necessità di vivere in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’ attività professionale, dall’altra la rinuncia a tracciare per se stesse uno stile, un approccio al lavoro, un linguaggio, delle regole comportamentali sui quali costruire una figura professionale autonoma di magistrata. Si poneva inoltre l’esigenza aggiuntiva di dimostrare in ogni momento ed in ogni contesto lavorativo che la nostra ammissione all’ esercizio della giurisdizione era meritata, con la consapevolezza che il minimo errore avrebbe fatto riemergere una montagna di pregiudizi non totalmente rimossi e avrebbe ricacciato tutte le donne all’ indietro, condannandole ad un giudizio irrevocabile di incapacità. Questo richiedeva di mostrarsi sempre preparatissime, di non sbagliare mai, di non mancare mai alle aspettative dei colleghi, di essere disponibili ad ogni esigenza dell’ufficio: e tale richiesta aggiuntiva si risolveva in una forma di discriminazione indiretta.
Ben presto tuttavia, con la progressiva acquisizione di esperienza e sicurezza, l’appiattimento su quell’unico canone di riferimento cominciò per molte di noi a non essere più appagante, in quanto consentiva di diventare dei buoni giudici, ma finiva con il soffocare, fino a renderla invisibile, l’autonoma significazione di essere donne.
La grande stagione delle riforme degli anni settanta, segnata dall’approvazione di leggi importanti che avrebbero inciso profondamente nella cultura, nel costume, nelle relazioni personali e nel tessuto sociale e l’ emergere anche in Italia del movimento femminista, con tutta la sua carica innovativa in direzione della autonomia e della libertà delle donne, contribuirono certamente a far maturare il convincimento che l’essere donna non era un ostacolo da superare, ma un modo specifico di essere magistrato e che la presenza femminile nell’ordine giudiziario integrava la risorsa di sensibilità e prospettive differenziate nelle questioni da giudicare, e quindi un arricchimento della giurisdizione.
Si trattava allora di coniugare il rigore scientifico del giurista con la specificità dell’essere donna, rivendicando il diritto di interpretare le norme nel rispetto dei canoni della differenza.
In questa direzione è stato forte l’impegno ad assumere un modello di magistrato che non negasse, ma riflettesse la nostra appartenenza di genere e si desse carico di portare nelle camere di consiglio, nelle sentenze e nelle requisitorie lo sguardo, la cultura, la sensibilità e il linguaggio delle donne, ponendo tali profili a confronto con i valori espressi dal mondo maschile, in termini di positiva dialettica.
Nella mia lunga esperienza di giudice ho tante volte avuto occasione di riscontrare, e non solo nella materia del diritto di famiglia e dei diritti fondamentali, come il fatto di essere donna potesse influenzare la valutazione dei fatti e delle prove e portasse a soluzioni giurisprudenziali difformi rispetto ad orientamenti consolidati e più vicine alle esigenze dei soggetti deboli, a valutare da una diversa prospettiva situazioni ed interessi coinvolti nel processo, ad utilizzare diversi topoi argomentativi, a sollevare con particolare convinzione questioni di costituzionalità di norme discriminatorie ancora presenti nel nostro ordinamento.
Guardare le vicende processuali da una prospettiva di genere vuol dire far emergere tutte le forme di discriminazione, da quella che trae origine dall’uso spesso inconsapevole degli stereotipi a quella che trova espressione nell’uso corrente della lingua italiana fino a tutti i segnali di sessismo che attraversano le relazioni umane e i mezzi di informazione e che molti non vedono.
3. Le donne oggi esercitano la giurisdizione in tutti gli uffici giudiziari e svolgono ogni tipo di funzione, ma la loro consistenza numerica non esclude che all’ interno dell’ordine giudiziario si ponga un problema di pari opportunità: le percentuali di donne che ricoprono incarichi direttivi, pur in netta crescita rispetto al passato ( mi limito in questa sede a ricordare che nel 1996, a più di 30 anni dall’ingresso in magistratura, solo 10 incarichi direttivi sui 725 in pianta organica erano ricoperti da donne ), sono ancora ben lontane, specie nell’ambito degli uffici requirenti ( dove raggiungono la percentuale del 23,1%), dal riflettere la composizione per genere della magistratura, come i dati forniti nella nota di presentazione di questo incontro mettono in luce. Ed anche la recentissima nomina di Margherita Cassano a Primo Presidente della Corte di Cassazione, la prima volta per una donna, pur costituendo un passo fondamentale nel cammino verso la parità e pur rivestendo un forte valore simbolico, è solo la tappa di un percorso, perché altri tabù restano da abbattere e soprattutto perché questa nomina non scalfisce il dato della insufficiente presenza femminile ai vertici degli uffici.
Quanto alla partecipazione delle donne all’ organo di autogoverno, si tratta di una storia di gravissima sottorappresentanza. Basti considerare che per la prima volta è stata eletta una togata, Elena Paciotti, nel 1986, a oltre 20 anni dall’ingresso delle donne in magistratura; negli anni successivisi si sono succedute consiliature contrassegnate dall’assenza totale di magistrate o da sparute presenze, sino ad arrivare all’ elezione di una sola donna nella tornata del 2014. Ed anche il risultato dell’ultimo appuntamento elettorale, che ha visto elette 6 donne togate su 20, non può considerarsi appagante e vale a dimostrare l’inadeguatezza delle misure previste nella recente riforma Cartabia a garantire un effettivo riequilibrio della rappresentanza.
Dobbiamo pertanto prendere atto che esiste tuttora in magistratura un glass ceiling da sfondare ed uno sticky floor da rimuovere. E dobbiamo contrastare la posizione di molti colleghi, anche tra i più progressisti, ed anche di molte colleghe, che minimizzano il problema e si trincerano dietro il mantra dell’eguaglianza formale, che ovviamente non è in discussione, ricordando loro che arroccarsi sul principio di eguaglianza formale, e quindi su un malinteso concetto di parità che non conosce differenze, vuol dire non solo negare la specificità dell’apporto delle donne alla giurisdizione, ma anche non comprendere che ciò che viene in gioco è l’eguaglianza sostanziale, la quale si realizza soltanto con la partecipazione effettiva e paritaria di donne e di uomini ad ogni livello di responsabilità, e che tale partecipazione paritaria è una necessità democratica, e non un optional.
Ed è qui che si trova risposta alla domanda sul perché sia così importante che la presenza femminile sia una componente ordinaria, e non eccezionale, della giurisdizione a tutti i livelli.
A quelle posizioni ferme all’ astrattezza ideologica dell’eguaglianza formale è necessario opporre la rivendicazione del valore della differenza, cercando di dimostrare che al di là del simulacro dell’eguaglianza formale va riconosciuta l’ iniquità della sottorappresentanza delle donne, così come va apprezzata, e non negata, la ricchezza di uno scambio fecondo di punti di vista e di sensibilità diverse, che possono illuminare aspetti di realtà che altrimenti rischierebbero di rimanere nascosti. La battaglia contro la discriminazione si combatte nel nome della rivendicazione della differenza, non della sua negazione.
Deve essere pertanto contrastato il diffuso convincimento che sia del tutto indifferente il genere di appartenenza del magistrato chiamato a giudicare una controversia civile o a comminare una condanna penale o a condurre un’indagine o a dirigere un ufficio giudiziario.
So bene che la necessità di ricercare diversi modelli professionali non è da tutte le donne condivisa, perché non tutte le donne sono eguali e non tutte fanno e faranno la differenza: è sempre forte in alcune la tentazione di farsi ammettere o di rimanere nel club maschile come uomini onorari, mascherando la propria femminilità e quindi l’appartenenza ad un genere ritenuto inferiore. Si tratta a mio avviso di atteggiamenti miopi e autolimitanti, atteso che tanto più la presenza delle magistrate sarà importante quanto più esse sapranno rivendicare la loro specificità e autonomia di pensiero liberando gli organi giurisdizionali dai molti stereotipi che ancora li condizionano e così elaborando una visione più alta, più complessa e più equa del sistema di valori tutelati dall’ordinamento.
Non posso al riguardo non ricordare che sempre più numerose sono le sentenze di condanna dell’Italia da parte della Corte EDU per i molti pregiudizi sessisti e i molti stereotipi sulle donne e sul loro ruolo sociale che inficiano il ragionamento giuridico nella valutazione delle prove e nella decisione finale in relazione a processi per violenza sessuale e di genere.
Va inoltre purtroppo riscontrato che in Italia non si è operato abbastanza in questa direzione: i c.p.o. non sempre sono riusciti a mio avviso ad alimentare un rinnovamento culturale nella magistratura, limitandosi spesso ad assumere iniziative meramente sollecitatorie o organizzative a livello locale e non impegnandosi a promuovere e monitorare l ‘ integrazione della dimensione di genere nell’esercizio della giurisdizione.
Concludo ricordando che l’unico modo per superare gli ostacoli che rendono più difficile il percorso professionale delle donne consiste nel dotarsi di una professionalità elevatissima, di un impegno straordinario e costante, senza il minimo cedimento, di una preparazione di eccezionale livello, nutrita da un lavoro incessante di aggiornamento. Perché è ancora purtroppo vero che le donne devono fare di più per essere percepite come uguali.
Il cammino da compiere per vincere archetipi culturali resistenti al cambiamento è ancora lungo e deve tendere ad una sintesi tra eguaglianza, che è concetto tecnico-giuridico, e differenza, che invece attinge alla filosofia, alla psicologia, alla sociologia e alla cultura in generale e che non si oppone all’ eguaglianza, ma ne arricchisce il contenuto. E mentre sull’ eguaglianza il dibattito, in un ordinamento democratico, non dovrebbe neppure aver ragione di essere posto, la differenza è tema affidato alla nostra riflessione e alla nostra elaborazione teorica.
E dobbiamo tutti tener presente che quelle di cui oggi discutiamo sono questioni che non riguardano le donne, ma la magistratura di oggi e quella del futuro e sono dirette a segnare il tasso di democrazia dell’istituzione.
*Testo rielaborato dell’intervento svolto al convegno sul tema 1963-2023, 60 anni di donne in magistratura organizzato dalla sezione milanese dell’ANM presso l’ Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Milano l’ 8 marzo 2023.
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