La Corte di cassazione ammette il cumulo delle domande di separazione e di divorzio anche nel procedimento su domanda congiunta (art. 473 bis. 51 c.p.c.).
Un nuovo colpo alla sopravvivenza della separazione giudiziale ed un’illuminata apertura ai patti della crisi coniugale.
di Arnaldo Morace Pinelli
Sommario: 1.La possibilità del cumulo delle domande di separazione e di divorzio in un unico procedimento inficia la funzione dell’istituto della separazione personale dei coniugi - 2. Separazione e divorzio, storicamente, hanno costituito un rimedio alternativo alla crisi coniugale - 3. Necessità di abrogare la separazione giudiziale e di mantenere la separazione consensuale, quale rimedio alternativo al divorzio - 4. Il cumulo delle domande congiunte di separazione e di divorzio consente la conclusione di un accordo complessivo della crisi coniugale, intesa quale fenomeno unitario - 5. Il problema del cumulo delle domande di separazione e di divorzio nel procedimento di negoziazione assistita.
1. La possibilità del cumulo delle domande di separazione e di divorzio in un unico procedimento inficia la funzione dell’istituto della separazione personale dei coniugi
La riforma del processo in materia di famiglia, tra le tante novità, ha introdotto una norma, l’art. 473 bis.49 c.p.c., che consente il cumulo delle domande di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. Negli atti introduttivi del procedimento per separazione personale (il ricorso o la comparsa di risposta) le parti (il ricorrente o il resistente) possono proporre anche domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. La norma specifica tuttavia che «le domande così proposte sono procedibili decorso il termine a tal fine previsto dalla legge e previo passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia la separazione personale». La Corte di Cassazione, nell’illuminata pronuncia che si annota, sciogliendo la questione di diritto di cui è stata investita ai sensi del nuovo art. 363 bis c.p.c., ha chiarito che il cumulo delle domande di separazione e di divorzio può operare anche nell’ambito del procedimento su domanda congiunta di cui all’art. 473 bis.51 c.p.c.[1]
Si tratta dell’ennesimo intervento del legislatore volto ad accelerare la conversione della separazione in divorzio, nella consapevolezza che, secondo il costume sociale, con la separazione cessa definitivamente il rapporto coniugale e deve essere facilitato il recupero del libero stato. Siffatto intervento, tuttavia, è più pervasivo dei precedenti andando ad intaccare la stessa funzione della separazione personale dei coniugi.
Questa è la prima questione che la riforma del 2022 pone all’interprete, amplificata dalla sentenza che si annota. Se il passaggio dalla separazione al divorzio costituisce un automatismo,[2] sfuma totalmente il senso, già effimero, dell’istituto della separazione dei coniugi nel nostro ordinamento, intesa quale momento di riflessione funzionale ad un’ipotetica riconciliazione, ed appare quanto mai ragionevole ed attuale la proposta della dottrina di abrogare la separazione giudiziale.[3]
2. Separazione e divorzio, storicamente, hanno costituito un rimedio alternativo alla crisi coniugale
In effetti, separazione e divorzio, storicamente, hanno costituito risposte alternative ad un medesimo problema, ossia quello di fornire una risposta alla crisi coniugale, e la loro contestuale presenza nell’ordinamento è motivo di rilevante criticità. Se viene meno il principio d’indissolubilità del matrimonio ed è introdotto il divorzio, quale rimedio alla crisi coniugale, a meno di vistose forzature logico-giuridiche, la separazione, che a presidio di quel principio è stata concepita e configurata,[4] ragionevolmente deve essere abrogata.
Notoriamente, questo peculiare istituto che, in definitiva, consente la sopravvivenza di un matrimonio svuotato della sua essenza (la convivenza tra i coniugi), origina dalle nozze cristiane, caratterizzate dalla loro natura sacramentale che ne implica l’indissolubilità: «Quod Deus coniunxit, homo non separet».[5] Non potendosi più ammettere il divorzio, essendosi trasformato il matrimonio in un sacramento indissolubile, i Padri della Chiesa e la Scolastica teorizzarono la separazione dei coniugi quale nuovo rimedio alla crisi coniugale, che consente, appunto, di interrompere la convivenza nel rispetto dell’indissolubile vincolo sacramentale. I decretisti e i decretalisti, nei secoli successivi, diedero veste giuridica all’istituto.
Con la separazione, in ossequio ad un dogma religioso (l’indissolubilità delle nozze sacramentali), si pretende dunque la sopravvivenza di un matrimonio ridotto a mera «forma giuridica».[6]
Soltanto il superamento di questa peculiare visione delle nozze, fondata su elementi teologici e, dunque, metagiuridici, consentirà nei secoli successivi la ricomparsa del divorzio e la contestuale abrogazione della separazione. Il divorzio è riscoperto nei Paesi protestanti, quale unico rimedio alla crisi coniugale, contestualmente all’affacciarsi di una nuova concezione del matrimonio, di cui Martin Lutero aveva negato la natura sacramentale, e ritornerà più tardi nella Francia rivoluzionaria e anticlericale della fine del Settecento, che nel matrimonio vedeva soltanto uno dei tanti contratti, nella disponibilità dei privati.
L’alternatività tra gli istituti della separazione e del divorzio, strumenti diversi per risolvere il problema della crisi coniugale, è stata lucidamente colta da Napoleone Bonaparte. Nel Code civil, per le medesime cause tipizzate dal legislatore, il cittadino cattolico poteva separarsi e quello laico poteva ottenere lo scioglimento del matrimonio (art. 306 c.c.). Si trattava di due vie parallele che, in definitiva, perseguivano una medesima finalità: «Le divorce rompt le lien conjugal, la séparation laisse encore subsister ce lien; à cela près, les effets de l’un et de l’autre sont peu différents: cette union des personnes, cette communauté de la vie, qui forment si essentiellement le mariage, n’existent plus».[7]
La fisiologica alternatività tra i due istituti è rimasta anche quando, nell’Ottocento, il principio di indissolubilità del matrimonio, alla base della scelta della separazione, ha trovato un fondamento laico nella c.d. concezione pubblicistica del diritto di famiglia, radicata nel pensiero di Hegel e veicolata attraverso lo Storicismo tedesco, che, ravvisando nella famiglia la cellula primaria ed essenziale dello Stato, funzionalizzata al perseguimento dell’interesse collettivo, ne predicava la necessaria unità. Concezione pubblicistica che ha impregnato il nostro Codice civile del 1865 ed, ancor più, quello del 1942, che infatti si limitavano ad «ammettere» la separazione, concependola, oltretutto, come un rimedio eccezionale, accordato soltanto al coniuge incolpevole, nelle ipotesi tassativamente predeterminate dalla legge, per sanzionare macroscopiche violazioni dei doveri matrimoniali imputabili all’altro coniuge. Il disfavore verso l’istituto derivava dal fatto che esso comunque incrinava l’unità della famiglia.
Pur costituendo l’alternatività tra i due istituti caratteristica comune degli ordinamenti di civil law europei, quando, nel 1970, il legislatore italiano introduce il divorzio, la separazione rimane. La paura dei divorzi facili spinse a mantenere in vita il vecchio istituto, riconoscendogli, con non celata ipocrisia, l’incerta funzione di anticamera del divorzio, ossia di pausa di riflessione in attesa di quello che fu definito il «felice evento» della futura riconciliazione,[8] destinato, peraltro, nella pratica, a non verificarsi mai. La soluzione adottata, per cui la separazione legale costituisce un passaggio necessario lungo la strada che conduce al divorzio, «si segnala alla stregua di una eccezione rispetto ai principi affermatisi in ambito continentale»[9] e ha connotato l’istituto di «una carica di ambiguità».[10]
Indipendentemente da ciò, la permanenza di entrambi gli istituti, regolati da leggi diverse (il Codice civile e la l. n. 898/1970), ha dato vita al c.d. doppio binario della crisi familiare, altamente contraddittorio e problematico, traducendosi in quella che è stata efficacemente definita una via Crucis, alla quale i coniugi devono sottoporsi per potere recuperare il libero stato: ipoteticamente, tre gradi di giudizio di separazione e tre gradi di giudizio di divorzio, in cui si discute, essenzialmente, delle medesime questioni, giacché il problema è lo stesso, ossia l’individuazione di un regolamento della crisi familiare, che è unitaria (determinazione di un assegno per il coniuge debole, affidamento dei figli minori e loro mantenimento, assegnazione della casa familiare). Nei casi più conflittuali, questo interminabile percorso condiziona la sana ed equilibrata crescita dei figli, strumentalizzati nel processo, e – a dispetto del dichiarato intento di tutelare la famiglia fondata sul matrimonio, cui questo contorto meccanismo dovrebbe presiedere, scongiurando divorzi poco meditati – proliferano nuove unioni di fatto, spesso non volute ma coatte, giustificandosi esclusivamente per il fatto che uno o entrambi i conviventi non hanno ancora potuto recuperare il libero stato.
Consapevole di tutto ciò la giurisprudenza, attraverso la sua attività ermeneutica, si è spinta ad anticipare già al momento della separazione, in cui il matrimonio è ridotto ad «una forma giuridica», gli effetti che dovrebbero invece prodursi con lo scioglimento del matrimonio, muovendo dall’esatto presupposto che i doveri matrimoniali, per effetto della separazione, non esistono più.[11] Conseguenziale, peraltro, a tale scelta, l’appiattimento della separazione sul divorzio.
Dal suo canto, il legislatore ha reagito accelerando la conversione della separazione in divorzio, rispondendo in tal modo anche al mutato costume sociale, nel tempo sempre più incline ad agevolare il recupero del libero stato, e dando attuazione al principio del favor libertatis, consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità.[12] La novella della legge sul divorzio del 1987 ha ridotto da cinque a tre anni il periodo minimo di separazione propedeutico alla presentazione della domanda di scioglimento del matrimonio e ha consentito la sentenza parziale sul divorzio, prevedendo che la stessa sia suscettibile soltanto di appello immediato (art. 4, comma XII l. div.), con il chiaro intento di accelerare il recupero del libero stato. Con la medesima finalità, l’art. 709 bis cod. proc. civ., introdotto nel 2005, ha riconosciuto la possibilità di pronunciare sentenza parziale sulla separazione, ammettendo avverso di essa solo l’appello immediato da decidersi in camera di consiglio. In seguito, il termine di durata della separazione, necessario per la proposizione della domanda di scioglimento del matrimonio, è stato ulteriormente ridotto ad un anno dalla comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale, in caso di separazione giudiziale, e a sei mesi in caso di separazione consensuale (l. 6 maggio 2015, n. 55, sul c.d. «divorzio breve»).
Soprattutto è stata riconosciuta la possibilità di una separazione e di un divorzio senza processo, rimettendo all’autonomia privata la cessazione dello status coniugale. La l. 10 novembre 2014 n. 162 ha introdotto due nuovi modelli di separazione e di divorzio, mediante negoziazione assistita e direttamente avanti al Sindaco (artt. 6 e 12). In tal modo «la separazione è stata sottratta al principio (che sino a quel momento rappresentava nell’ordinamento un dogma assoluto e irrefutabile) della tutela giurisdizionale costitutiva necessaria in materia di status, principio che rendeva imprescindibile nelle controversie in materia di famiglia l’intervento dell’autorità giudiziaria».[13]
La c.d. legge “Cirinnà” (n. 76/2016), infine, ha previsto che l’unione civile si sciolga senza passare attraverso la separazione, con una sentenza di divorzio immediato (ed, addirittura, per recesso unilaterale degli uniti civilmente: artt. 1, commi 23 e 24, l. 20 maggio 2016 n. 76), con ciò anticipandosi per l’unione civile, indipendentemente dalle ragioni della scelta legislativa, un’evoluzione auspicabile anche per il matrimonio.
3. Necessità di abrogare la separazione giudiziale e di mantenere la separazione consensuale, quale rimedio alternativo al divorzio.
Già la legge sul c.d. divorzio breve aveva chiaramente manifestato i limiti della “convivenza” dei due istituti all’interno del medesimo ordinamento,[14] aggiungendo ulteriori problemi a quelli già segnalati, in virtù della contemporanea pendenza dei giudizi di separazione e di divorzio, in dipendenza della riduzione del periodo di separazione propedeutico al divorzio, e, dunque, della sovrapposizione dei processi.
Autorevole dottrina aveva denunciato il «progressivo svuotamento del giudizio di separazione»,[15] ancor più marcato ove si consideri la possibilità della riunione dei due giudizi, contemporaneamente pendenti innanzi allo stesso giudice, oggi ammessa dalla riforma del processo di famiglia (art. 473 bis.49, comma 3, c.p.c.). Dal momento del deposito del ricorso di divorzio (o quanto meno dall’adozione dei provvedimenti presidenziali), il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni concernenti i figli (loro affidamento, mantenimento e assegnazione della casa familiare), avendo esclusiva potestas decidendi il giudice del divorzio. Lo stesso è a dirsi con riguardo agli effetti economici tra i coniugi. È, inoltre, controverso se sia giuridicamente possibile, dopo il passaggio in giudicato della sentenza parziale sul divorzio, continuare a discutere dell’addebito della separazione.[16]
La riforma Cartabia del processo civile, tuttavia, compromette la stessa residua funzione della separazione. La possibilità del cumulo delle domande di separazione e di divorzio e, dunque, l’automatismo della conversione della separazione in divorzio rende la separazione giudiziale priva di senso, mostrandola per quello che oggi è: un relitto storico. L’improbabile lieto evento della riconciliazione dei coniugi, in funzione del quale è loro imposta una pausa di riflessione, è negato dallo stesso legislatore.
La crisi coniugale costituisce un evento unitario e il rimedio, caduto il principio di indissolubilità, è il divorzio. Tra le righe lo dice anche la sentenza che si annota, laddove, allo scopo di ammettere il cumulo, discostandosi da una giurisprudenza tetragona,[17] afferma che le domande di separazione e di divorzio hanno la medesima causa petendi, «in quanto tese a regolare, in successione, la crisi matrimoniale che i coniugi avvertono come irreversibile».[18]
La domanda di separazione, nel difficile coordinamento con la domanda di divorzio, auspicato dalla riforma del 2022, costituisce soltanto un intralcio processuale al recupero del libero stato, cui le parti effettivamente aspirano.
Si impone, dunque, a nostro avviso, mai come oggi l’abrogazione della separazione giudiziale, consentendo ai coniugi il divorzio immediato. Come abbiamo già avuto modo di rilevare,[19] l’eliminazione dell’addebito, da tempo auspicata da parte della dottrina, non impedirebbe di attribuire rilevanza alle cause della crisi. Le gravi violazioni dei doveri matrimoniali, indipendentemente dal rimedio generale della responsabilità civile, possono, infatti, rilevare anche al momento del divorzio, rientrando tra i criteri determinativi dell’assegno divorzile, espressi dall’art. 5 l. div., anche quello risarcitorio (le c.d. “ragioni della decisione”).[20]
Deve invece essere consentita ai coniugi, nel rispetto della loro comune volontà e libertà di coscienza, la possibilità di richiedere la separazione consensuale che, una volta ammesso il divorzio diretto, si presenta, coerentemente, come un rimedio alternativo allo scioglimento del matrimonio.
4. Il cumulo delle domande congiunte di separazione e di divorzio consente la conclusione di un accordo complessivo della crisi coniugale, intesa quale fenomeno unitario.
La sentenza che si annota, animata da encomiabile concretezza, ha anche il merito di avere sdoganato i patti della crisi familiare.
Con l’introduzione della negoziazione assistita in ambito familiare e la legge sul c.d. divorzio breve, che ha accelerato al massimo la conversione della separazione in divorzio, si è fatta tangibile la frustrazione del ceto forense, impossibilitato a definire la crisi coniugale mediante un accordo globale, nonostante l’accessibilità dello strumento negoziale. La possibilità di rivedere tutto al momento del divorzio era d’ostacolo al raggiungimento di un accordo onnicomprensivo e finale, da stipularsi necessariamente al momento della separazione. Vi ostava l’affermazione giurisprudenziale della nullità, per illiceità della causa, degli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico-patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale di cui all'art. 160 c.c. Principio, questo, tetragono presso il giudice di legittimità, benché la dottrina da tempo abbia proceduto a dimostrarne l’evanescenza.
In effetti, il richiamo all’art. 160 c.c. non appare pertinente, trattandosi di norma dettata nel vigore del principio di indissolubilità delle nozze e presupponendo, per la sua applicazione, l’effettività del matrimonio,[21] mentre la separazione – come abbiamo visto - sospende (rectius: estingue) i doveri matrimoniali. Se le parti possono richiedere il divorzio, a maggior ragione devono poter regolamentare il regime patrimoniale in vista del recupero libero stato.[22] L’accordo, del resto, non concerne lo status, che effettivamente è indisponibile, ma i rapporti patrimoniali riguardanti quello status. E se pacificamente si ritengono lecite le attribuzioni effettuate nell’ambito della separazione e del divorzio su domanda congiunta, non essendovi in tal caso commercio di status, appare logico ritenere lecite anche le pattuizioni patrimoniali effettuate in funzione del futuro divorzio, con il limite, ovviamente, del rispetto dei diritti indisponibili dei figli minori, rispetto ai quali la riforma Cartabia ha mantenuto il più ampio spettro delle tutele:[23] il giudice, nel procedimento innanzi al tribunale, e gli avvocati e il procuratore della Repubblica, in quello di negoziazione assistita, devono verificare che l’accordo non sia lesivo dell’interesse della prole.
A ben vedere, la giurisprudenza che reputa nulli gli accordi in vista del divorzio opera «un’indebita commistione tra la regolamentazione dell’assetto economico concordato tra i coniugi in vista del futuro status e la volontà di determinare lo status»,[24] mentre le due questioni devono rimanere del tutto separate.
Alla luce di siffatti rilievi perde di consistenza la critica alla possibilità del cumulo delle domande congiunte di separazione e di divorzio incentrata sulla natura indisponibile dei diritti in gioco e sull’invalidità degli accordi in vista del divorzio, cui il cumulo delle domande congiunte sarebbe riconducibile.
La sentenza annotata muove dalla obiettiva considerazione che il ruolo dell’autonomia privata nella definizione delle conseguenze economiche della crisi coniugale si è notevolmente incrementato a seguito degli interventi legislativi in materia di negoziazione assistita, di divorzio breve e di riforma del processo di famiglia, andando ad incidere sul dogma della disponibilità degli status. Con ammirabile concretezza, ravvisa proprio nella possibilità di concludere un accordo definitivo sugli aspetti economici e personali della crisi matrimoniale una delle ragioni giustificanti il cumulo delle domande congiunte di separazione e di divorzio: «trovare per le parti, a fronte della irreversibilità della crisi matrimoniale, in un’unica sede, un accordo complessivo sia sulle condizioni di separazione che sulle condizioni di divorzio, concentrando in un unico ricorso l’esito della negoziazione delle modalità di gestione complessiva di tale crisi, disciplinando una volta per tutte i rapporti economici e patrimoniali tra loro e i rapporti tra ciascuno di essi e i figli minorenni o maggiorenni non ancora autosufficienti, realizza indubbiamente un “risparmio di energie processuali” che può indurre le stesse a far ricorso al predetto cumulo di domande congiunte».[25] In effetti, la crisi coniugale impone, anche sul piano solidaristico, la più rapida soluzione delle questioni economiche che rischiano di alimentarla.
E il cumulo – precisa la sentenza «non incide sul c.d. carattere indisponibile dei patti futuri, trattandosi di un accordo, unitario, dei coniugi sull’intero assetto delle condizioni, che regolamenteranno oltre alla crisi la loro vita futura, pur sempre sottoposto al complessivo vaglio del Tribunale». In effetti, il carattere unitario della crisi coniugale – confermato, nel procedimento su domanda congiunta e in caso di cumulo, da una separazione di brevissima durata (sei mesi) destinata a convertirsi automaticamente in divorzio – garantisce l’attualità dei diritti patrimoniali di cui i coniugi dispongono e, dunque, la loro negoziabilità, nel rispetto del superiore interesse della prole.
In conclusione, secondo la Corte di cassazione, «sia nei procedimenti contenziosi, di separazione e divorzio, che in quelli congiunti le parti propongono le proprie domande all’organo giudiziario e formulano le relative conclusioni e quindi non dispongono anticipatamente degli status». Il tribunale può intervenire sui sottostanti accordi nel caso in cui essi risultino contrari all’interesse dei figli e a norme inderogabili.[26]
Un’ulteriore critica mossa alla possibilità del cumulo delle domande di separazione e divorzio nel procedimento su domanda congiunta era rappresentata dall’assenza di una disposizione destinata a gestire le “sopravvenienze” di fatto, in grado di incidere sulla regolamentazione del divorzio, analoga all’art. 473 bis.19, comma 2, c.p.c. È stato poi osservato che il cumulo impedirebbe la revoca unilaterale del consenso al divorzio.
La sentenza annotata, peraltro, ha facile gioco nel confutare siffatti argomenti, sia richiamando principi giurisprudenziali consolidati (la giurisprudenza di legittimità reputa inefficace la revoca unilaterale del consenso alla domanda di divorzio[27] ed attribuisce natura negoziale all’accordo ad essa sotteso, concernente la prole e i rapporti economici, ritenendolo intangibile se non per violazione di norme inderogabili e dell’interesse della prole[28]), sia disposizioni normative specifiche introdotte dalla riforma Cartabia, quali l’art. 473 bis.51 c.p.c, che consente il rigetto «allo stato» della domanda congiunta «se gli accordi sono in contrasto con gli interessi dei figli», e l’art. 473 bis.19 c.p.c., che, per il procedimento contenzioso, condiziona l’ammissibilità della modifica delle domande, nel corso del procedimento avviato, a «mutamenti nelle circostanze».
In definitiva, secondo la sentenza che si annota, attraverso il cumulo delle domande congiunte di separazione e di divorzio è possibile concludere un valido accordo complessivo regolante gli effetti economici e personali della crisi familiare, in grado di estendersi anche al periodo successivo allo scioglimento del matrimonio, purché nel rispetto delle norme inderogabili e del superiore interesse della prole. L’accordo è dotato di una certa stabilità, non essendo unilateralmente revocabile il consenso prestato al divorzio. Tuttavia il mutamento delle circostanze fattuali, intervenuto nelle more della pronuncia del divorzio, può incidere sulla valutazione da parte del giudice della rispondenza dell’accordo stesso all’interesse della prole.
5. Il problema del cumulo delle domande di separazione e di divorzio nel procedimento di negoziazione assistita
Vi è da chiedersi, infine, se il cumulo delle domande di separazione e di divorzio congiunte possa essere proposto anche in sede di negoziazione assistita.
In via generale, la riforma Cartabia ha ampliato l’operatività della negoziazione assistita in ambito familiare nell’ottica di favore e di impulso allo sviluppo dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie. È, peraltro, vero che non tutto si può fare in sede di negoziazione assistita. Ad esempio, i trasferimenti immobiliari con efficacia reale possono operarsi in sede di separazione o divorzio su domanda congiunta[29] ma non all’interno di una procedura di negoziazione assistita, dove è ammessa soltanto la stipulazione di patti di trasferimento immobiliare con effetti obbligatori (art. 6 l n. 162/2014 novellato).
Qui, peraltro, manca una norma che detti una differente disciplina tra le due procedure, quella giudiziale e quella stragiudiziale.
A noi sembra che il cumulo debba ammettersi nell’ambito della negoziazione assistita, che costituisce la sede più consona in cui le parti, supportate dai legali, possono concludere un accordo con cui venga definitivamente regolamentata la loro crisi coniugale, caratterizzata da un’unitarietà correttamente colta dalla sentenza che si annota. Decorsi sei mesi dal nullaosta o dall’autorizzazione del procuratore della Repubblica, le parti ricompariranno innanzi ai legali per confermare di non volersi riconciliare e le condizioni già formulate con riferimento allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, implicitamente dando atto della mancanza di sopravvenienze rilevanti. Inevitabile un secondo passaggio innanzi al procuratore della Repubblica.
[1] Cass., 16 ottobre 2023, n. 28727.
[2] I coniugi, nel ricorso, possono anche dichiarare di non volersi riconciliare, rinunciando all’udienza di comparizione delle parti in cui il giudice tentava la conciliazione: art. 423 bis. 51, comma 2, c.p.c.).
[3] Cfr. il nostro La crisi coniugale tra separazione e divorzio, Milano, 2001, passim.
[4] A. MORACE PINELLI, L’irragionevole compresenza nell’ordinamento della separazione giudiziale e del divorzio, in Divorzio 1970-2020. Una riflessione collettiva, a cura di V. CUFFARO, Milano, 2021, 519 e ss.
[5] Matteo, 19, 6.
[6] S. SATTA, Commentario al Codice di procedura civile, Libro Quarto, Procedimenti speciali, I, Vallardi, 1968, 304.
[7] Così Trehilard (Esposizione dei motivi, Sessione 21 marzo 1803, in J.G. LOCRÈ, Legislazione civile commerciale e criminale, ossia commentario e compimento dei codici francesi, trad. da G. CIOFFI, II, Napoli, 1840, 760).
[8] C. GRASSETTI, La separazione personale dei coniugi. Problemi di diritto sostanziale e processuale. Diritto civile, in Giust. civ., 1964, IV, 4.
[9] E. AL MUREDEN, La separazione personale dei coniugi, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 2015, 17.
[10] M. FORTINO, La separazione personale tra coniugi, nel Trattato dir. fam., diretto da P. ZATTI, I, 2, cit., 1266; E. QUADRI, Crisi della coppia: a cinquant’anni dalla legge sul divorzio, in Foro it., 2020, V, 175, secondo il quale la separazione è divenuta un istituto «nel semisecolare rapporto con quello del divorzio, a dir poco di perplessa definizione funzionale e di incerta collocazione sistematica».
[11] Cfr. Cass., 19 settembre 1997, n. 9317, in Fam. e dir., 1998, 14; Cass., 7 dicembre 1994, n. 10512, in Foro it., 1995, I, 1202. Secondo Cass., 20 agosto 2014, n. 18078, in Foro it., 2014, I, 3481, «la separazione non è più un momento di riflessione e ripensamento prima di riprendere la vita di coppia, e nemmeno solo l'anticamera del futuro divorzio, ma rappresenta il momento della "sostanziale esautorazione dei principali effetti del vincolo matrimoniale"».
[12] Cass., ord., 22 giugno 2012, n. 10484; Cass., 8 aprile 2011, n. 8050; Cass., 29 settembre 1999, n. 13312, in Foro it., 2000, I, 445.
In dottrina, cfr. F. DANOVI, I rapporti tra il processo di separazione e il processo di divorzio alla luce della l. n. 55/2015, in Fam. e dir., 2016, 1093 e ss.
[13] DANOVI, I presupposti della separazione, ovvero quando il diritto “cede il passo” alla libertà del singolo (e per il divorzio?), in Fam. e dir., 2019, 73 e ss.
[14] Noi avevamo ribadito la necessità di abrogare la separazione giudiziale. Cfr. il nostro I provvedimenti concernenti i figli in caso di crisi del matrimonio o dell’unione civile, in La riforma della filiazione, a cura di C.M. BIANCA, Padova, 2015, 682 e ss.
[15] Così F. DANOVI, I rapporti, cit., 1093 e ss.
[16] Contra F. CIPRIANI, Sulle domande di separazione, di addebito e di divorzio, in Foro it., 2002, I, 385.
[17] Cfr., ad esempio, Cass. S.U., 20 luglio 2001, n. 9884. La giurisprudenza ha sempre affermato l’autonomia dei giudizi di separazione e di divorzio, rivendicando il potere del giudice del divorzio di decidere in assoluta autonomia rispetto a quanto stabilito in sede di separazione. Cfr., Cass., 9 aprile 1983, n. 2514; Cass., 2 giugno 1981, n. 3549, in Giur. it., 1982, I, 1, 43.
[18] § 7 della sentenza.
[19] A. MORACE PINELLI, L’irragionevole compresenza nell’ordinamento, cit., 534 e ss.
[20] Cfr. Cass., sez. un., 11 luglio 2018, n. 18287, in Foro it., 2018, I, 2671 e 3615, con nota di A. MORACE PINELLI, L’assegno divorzile dopo l’intervento delle Sezioni Unite.
[21] Sul punto cfr. il nostro Interesse della famiglia e tutela dei creditori, Milano, 2003, 180 e ss.
[22] G. DORIA, Autonomia privata e causa familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano, 1996, 184 e ss.
[23] L’art. 473 bis. 19 c.p.c. consente alle parti di introdurre sempre nuove domande e nuovi mezzi di prova relativi all’affidamento e al mantenimento dei figli minori. Inoltre l’art. 473 bis. 51 c.p.c. consente il rigetto della domanda congiunta di separazione e divorzio soltanto nel caso in cui gli accordi siano in contrasto con l’interesse dei figli. Rientrano, invece, nell’alveo dei diritti disponibili le domande relative al mantenimento del coniuge (M.A. LUPOI, Commento all’art. 473 bis.19 c.p.c., in La riforma Cartabia del processo civile, a cura di R. TISCINI, 2023, Pacini Editore, 811). Del resto, come abbiamo appena rilevato, soltanto la violazione del superiore interesse della prole consente il rigetto della domanda congiunta di separazione o di divorzio. È dunque a nostro avviso irrilevante, ai fini dell’ammissione degli accordi sulla crisi coniugale, la questione circa la natura dell’assegno divorzile. Cfr. invece C. RIMINI, Funzione compensativa e disponibilità del diritto all’assegno divorzile. Una proposta per definire i limiti di efficacia dei patti in vista del divorzio, in Fam. e dir. 2018, 1041, secondo il quale l’ammissibilità dei patti in vista del divorzio dipenderebbe dall’asserita funzione compensativa dell’assegno divorzile. Sulla natura dell’assegno divorzile, cfr. C.M. BIANCA, Le sezioni unite sull’assegno divorzile: una nuova luce sulla solidarietà postconiugale, in Fam. e dir., 2018, 955 e ss., il quale ribadisce la natura esclusivamente assistenziale di siffatto emolumento anche dopo Cass. S.U. n. 18287/2018; A. MORACE PINELLI, Diritto all’assegno divorzile e convivenza more uxorio, in Nuova giu. civ. comm., 2021, 1158 e ss.
[24] M. COMPORTI, Autonomia privata e convenzioni preventive di separazione, di divorzio e di annullamento del matrimonio, in Foro it., 1995, V, 113.
[25] § 5 della sentenza.
[26] § 8 della sentenza.
[27] Secondo Cass., ord., 7 luglio 2021, n. 19348; Cass., 24 luglio 2018, n. 19540; Cass., 2 maggio 2018, n 10463.
[28] Cass., S.U., 29 luglio 2021, n. 21761, in Giur. it., 2022, 873.
[29] Cfr. Cass., S.U. 29 luglio 2021, n. 21761, cit.
(Immagine: fotogramma del film Divorzio all'italiana di Pietro Germi, 1961)