ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Riforma Cartabia. Le modifiche al primo grado del processo di cognizione ordinario
di Fabio Cossignani
Giustizia Insieme propone ai suoi lettori una serie di contributi relativi alla riforma della procedura civile, per conoscere, approfondire e discutere. L’articolo presentato riguarda la riforma del processo di primo grado.
I precedenti articoli:
1. La trattazione scritta. La codificazione (art. 127-ter c.p.c.)
2. La riforma del processo civile in Cassazione. Note a prima lettura
3. La riforma del processo civile in appello. Le disposizioni innovate dal D. Lgs n. 149/2022
4. La riforma dell’esecuzione forzata: le novità del D. Lgs n. 149/2022
5. Le nuove disposizioni in materia di processo del lavoro
6. Le nuove norme processuali in materia di persone, minorenni e famiglia (d.lgs. n. 149/2022)
Sommario: 1. Introduzione. - 2. La modifica della fase introduttiva. Generalità. - 2.1 Chiarezza, specificità e sinteticità degli atti introduttivi. - 2.2. Ulteriori novità nel contenuto della citazione. - 2.3. I termini a comparire e i termini di costituzione delle parti. - 2.4. I controlli da parte del giudice. - 2.5. Le memorie integrative. - 3. L’udienza di prima comparizione e trattazione. - 4. La contumacia. - 5. Le ordinanze provvisorie. - 5.1. L’ordinanza di accoglimento della domanda. - 5.2. L’ordinanza di rigetto della domanda. - 6. Maggiore effettività del diritto alla prova (ispezione, esibizione e richiesta di informazione alla p.a.). - 7. La fase decisoria. - 7.1. Decisione collegiale. - 7.2. Decisione monocratica. - 8. La riduzione della competenza del collegio e i rapporti tra collegio e giudice monocratico.
1. Introduzione.
Sulla utilità e sull’inutilità delle riforme processuali è stato già detto molto dai più autorevoli autori. Ribadire le perplessità sul metodo scelto per combattere la lentezza dei processuali sarebbe a sua volta poco proficuo.
In vista della imminente applicabilità della riforma Cartabia (dal 28 febbraio 2023), appare più opportuno concentrarsi sul testo di legge.
Quelle che seguono sono riflessioni a prima lettura che, in quanto tali, non pretendono di essere complete, e forse neppure precise. Il processo è un mosaico delicato, in cui la variazione di una tessera rischia di modificare l’intero disegno. Spesso l’osservatore, anche quando ha davanti agli occhi la tessera sostituita, difficilmente è in grado di comprenderne ogni caratteristica e di apprezzarne da subito tutte le implicazioni.
L’obiettivo di queste pagine è dunque quello di non tacere nessuna delle considerazioni svolte durante la lettura delle nuove disposizioni, nella speranza che, quand’anche incomplete o imprecise, esse possano in ogni caso aiutare il lettore ad avvicinarsi alle questioni pratiche più importanti e, di lì, alle soluzioni interpretative più soddisfacenti.
2. La modifica della fase introduttiva. Generalità.
Con riferimento al primo grado del processo ordinario di cognizione, la principale novità introdotta dalla riforma Cartabia (d.lgs. 149/2022) è rappresentata dalla modifica della fase introduttiva.
L’obiettivo del legislatore delegante (l. 206/2021) era quello di spostare le preclusioni a carico delle parti, collocandole in un momento anteriore all’udienza, mediante una redistribuzione temporale della sequenza degli atti già previsti nel sistema precedente.
In questa maniera, la causa diviene astrattamente matura per la decisione già in prima udienza.
Infatti, nel precedente modello, la costante e quasi automatica richiesta di concessione dei termini ex art. 183, co. 6, c.p.c. conduceva inesorabilmente allo svolgimento di una seconda udienza, con l’effetto che la prima si rivelava nella maggior parte dei casi un’udienza volta sì ai controlli preliminari, ma di fatto ridotta a una tappa intermedia priva di sostanza dialettica.
Come si ha già modo di intuire da queste prime considerazioni, la riforma opera principalmente sul piano della scomposizione delle attività processuali per ricomporle secondo un diverso disegno. Il rischio è che, cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambi in alcun modo ovvero non cambi di molto. Anzi, il rischio è che le nuove disposizioni portino con sé nuove questioni interpretative, che, a consuntivo, potrebbero pesare più dei benefici prodotti.
2.1. Chiarezza, specificità e sinteticità degli atti introduttivi.
L’atto introduttivo resta la citazione, ma, per effetto della novella, i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda devono essere «esposti in modo chiaro e specifico» (art. 164, n. 4). Analogamente, per la comparsa di risposta, si prescrive che il convenuto «proponga tutte le sue difese e prenda posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda in modo chiaro e specifico» (art. 167, co. 1).
Le due disposizioni vanno coordinate, in primo luogo, con la norma generale contenuta nel nuovo ultimo periodo del co. 1 dell’art. 121 c.p.c., a mente del quale «Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico». In secondo luogo, vanno coordinate col nuovo art. 46, co. 5, disp. att. c.p.c. in forza del quale, «Il Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense, definisce con decreto … i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti»[1].
Ne consegue che gli atti introduttivi dovranno essere sintetici, come tutti gli atti e i provvedimenti, ma anche chiari e specifici.
Il difetto di sinteticità, ai sensi del co. 6 dell’art. 46 disp. att. c.p.c., non determina la nullità dell’atto «ma può essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo».
Si può ritenere che il giudice sia maggiormente legittimato a trarre conseguenze in punto di spese là dove l’atto si caratterizzi per un alto grado di pedanteria e, ancora di più, qualora la pedanteria tracimi, come talvolta accade nei testi prolissi, in argomentazioni inutilmente arzigogolate, se non addirittura contraddittorie, ovvero in narrazione di fatti irrilevanti. Viceversa, il semplice sviluppo di una pluralità di argomentazioni concorrenti e/o l’allegazione di una lunga serie di fatti secondari utili a rafforzare le proprie tesi rappresentano manifestazioni del legittimo esercizio del diritto di azione e difesa, salvo che l’uno e l’altra non siano espresse con palese spreco di energie narrative o argomentative. Dovendosi valutare caso per caso, lascia alquanto perplessi la delega al Ministro della Giustizia per la predeterminazione dei “limiti” dimensionali degli atti.
Quanto invece al difetto di chiarezza e specificità, questo non è espressamente sanzionato. Se la mancanza di chiarezza o di specificità si riferisce all’atto di citazione, traducendosi in una nullità dell’atto introduttivo, si applica la relativa disciplina dell’art. 164 c.p.c. e la vicenda potrebbe dar luogo a un’ordinanza di rigetto ai sensi del nuovo art. 183 quater c.p.c. (su cui infra).
Se invece il difetto di chiarezza e di specificità non si traduce in una nullità dell’atto di citazione o si riferisce alla comparsa di risposta (priva di domande riconvenzionali), il vizio incide solo sulla qualità del dibattito processuale. Chiarezza e specificità, in tale evenienza, assolvono dunque alla stessa funzione della sinteticità: data l’eadem ratio, anche atti oscuri e aspecifici dovrebbero legittimare il giudice a trarne conseguenze in punto di spese.
Sia consentita una riflessione di ordine generale sul tema: è singolare e significativo che il legislatore imponga testualmente sintesi, chiarezza e specificità. In un mondo ideale queste rappresentano naturali aspirazioni dei protagonisti del processo. Messi da parte i casi anomali in cui l’atto viene redatto in maniera oscura e non sintetica per precisa scelta strategica della parte, è evidente che il problema è dovuto in prevalenza all’involuzione del linguaggio scritto forense, patologia di cui andrebbero indagate le origini, verso cui il legislatore non prescrive alcuna cura effettiva, e di cui il legislatore rappresenta forse la più autorevole vittima, dato che negli ultimi decenni i testi normativi non brillano di certo per chiarezza e sinteticità.
I rimedi generali andrebbero praticati nella formazione degli avvocati, dei magistrati e degli studiosi del diritto e, ancor prima, nella promozione di una cultura giuridica di base.
Invece, per quanto riguarda i rimedi particolari e interni al processo, sarebbe opportuno standardizzare in parte la formulazione degli atti introduttivi. Potrebbe ad esempio sperimentarsi l’uso obbligatorio di moduli o formulari caratterizzati da campi fissi[2], separati e di dimensione limitata, idonei a favorire la sintesi e a permettere al giudice e alla controparte di individuare da subito e in tempi rapidi l’oggetto della domanda, lasciando poi a una seconda parte dell’atto, libera e discorsiva, lo sviluppo, sempre chiaramente articolato, delle argomentazioni in fatto e diritto. Mutatis mutandis, stesso discorso può estendersi alla comparsa di risposta e a tutti gli altri atti del processo. A ciò dovrebbe poi unirsi una effettiva (e non solo nominale) direzione del processo da parte del giudice.
2.2. Ulteriori novità nel contenuto della citazione.
Il contenuto dell’atto di citazione si arricchisce anche per l’effetto delle integrazioni operate ai nn. 3-bis e 7 dell’art. 163.
Con il nuovo n. 3-bis è richiesta «l’indicazione, nei casi in cui la domanda è soggetta a condizione di procedibilità, dell’assolvimento degli oneri previsti per il suo superamento».
È di certo interesse dello stesso attore dare subito chiara dimostrazione dell’assolvimento della condizione di procedibilità e, difatti, è quello che normalmente già accade nella prassi. Peraltro, il legislatore dimentica che l’aspetto più importante non è l’«indicazione» (ossia l’affermazione) dell’assolvimento della condizione, quanto piuttosto la «prova» di tale assolvimento.
Ad ogni buon conto, il nuovo requisito formale non comporta di fatto alcuna novità di rilievo. Prendendo ad esempio la mediazione obbligatoria, come in passato, l’improcedibilità per mancato esperimento del procedimento di mediazione deve essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio entro la prima udienza (v. nuovo art. 5, co. 2, d.lgs. 28/2010, non dissimile sul punto da quanto previsto dall’art. 5, co. 1, ante riforma). Poiché la prima udienza è differita rispetto all’attività di integrazione definitiva della domanda e delle difese delle parti, l’introduzione della mediazione verrà disposta in un momento in cui le parti hanno già compiuto diversi atti processuali, con notevole spreco di energie. Sarebbe stato dunque preferibile anticipare il controllo (cfr. art. 171 bis) e, soprattutto, l’adozione dei provvedimenti conseguenti.
Le altre novità riguardano il n. 7 dell’art. 163.
Innanzitutto, il convenuto deve essere invitato a costituirsi 70 giorni prima (non più 20 giorni prima) dell’udienza indicata nell’atto di citazione. Inoltre, scompare il riferimento alla costituzione almeno 10 giorni prima in caso di abbreviazione dei termini a comparire, in quanto è la stessa abbreviazione ad essere esclusa (il co. 2 dell’art. 163 bis viene infatti abrogato).
Vengono infine aggiunti altri due avvertimenti. Il primo è l’avvertimento che «la difesa tecnica mediante avvocato è obbligatoria in tutti i giudizi davanti al tribunale, fatta eccezione per i casi previsti dall’articolo 86 o da leggi speciali». Il secondo è l’avvertimento «che la parte, sussistendone i presupposti di legge, può presentare istanza per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato».
I nuovi avvertimenti, seppur concettualmente distinti, vanno ad integrare l’avvertimento sulle decadenze (ex artt. 38 e 167) e, testualmente, compongono un tutt’uno con questo. Pertanto, dovrebbero soggiacere alla medesima disciplina già prevista per l’avvertimento sulle decadenze ai sensi dell’art. 164, co. 2 e 3.
Dunque, in caso di mancanza di uno dei nuovi avvertimenti e di mancata costituzione del convenuto, deve essere disposta la rinnovazione della citazione (art. 164, co. 2). Se invece il convenuto, costituitosi in giudizio, deduce la mancanza di uno degli avvertimenti, il giudice fissa una nuova udienza (art. 164, co. 3).
Il diritto al patrocinio a spese dello Stato e l’obbligo di difesa tecnica non rappresentano diritti od obblighi introdotti dalla riforma Cartabia. La sensazione, allora, è che la previsione dei nuovi avvertimenti assolva in primis una funzione promozionale e divulgativa.
Anzi, con riferimento al diritto al gratuito patrocinio, neppure può parlarsi di avvertimento in senso stretto. Si tratta piuttosto di una informazione circa i diritti che la parte convenuta può in astratto vantare verso lo Stato, la cui assenza non intacca in via diretta il diritto di difesa della parte nella causa incardinata. Indipendentemente dall’avvertimento relativo al gratuito patrocinio, il convenuto è in ogni caso sollecitato a una reazione. Consultato un avvocato, graverà su questo informare il cliente della possibilità di accedere al patrocinio a spese dello Stato (cfr. art. 21, co. 4, cod. deont. forense). Per giustificare l’applicazione dell’art. 164, co. 2, occorre ritenere – con presunzione iuris et de iure - che la mancata costituzione sia stata in qualche modo condizionata dall’ignoranza del convenuto sui presupposti per accedere al gratuito patrocinio. Ma si tratterebbe di un ragionamento apodittico, non di un ragionamento induttivo basato su una massima di esperienza. Esso poi si rivelerebbe del tutto erroneo se applicato per tutelare una parte che, in concreto, non ha diritto al patrocinio a spese dello Stato. Che l’omesso avvertimento possa dar luogo a conseguenze processuali sembra dunque poco razionale.
Queste considerazioni valgono a fortiori nell’ipotesi in cui, mancando l’avvertimento, il convenuto si sia comunque costituito senza previa ammissione al gratuito patrocinio, deducendo la mancanza dell’avvertimento e lucrando il differimento dell’udienza.
Il discorso si complica con riferimento all’avvertimento circa l’onere di difesa tecnica.
Qui uno scopo interno al processo può essere individuato, benché fino ad oggi non si sia avvertita l’esigenza di tale previsione. Lo scopo sembrerebbe quello di impedire alla parte di difendersi personalmente nelle ipotesi in cui la legge non lo consente. Se questo è lo scopo, la mancanza dell’avvertimento dovrebbe condurre alla rinnovazione degli atti introduttivi tutte le volte che la parte si sia costituita personalmente nelle ipotesi in cui tale difesa non è concessa[3]. Ma si può dire altrettanto là dove la parte non si sia costituita e la difesa tecnica sia parimenti obbligatoria? In fondo, si potrebbe ritenere che la parte che abbia deciso di non costituirsi, neppure personalmente, abbia di fatto dimostrato disinteresse per la causa, rendendo irrilevante l’assenza dell’avvertimento. Ancora una volta, per cercare di giustificare l’applicazione dell’art. 164, co. 2, occorre ritenere – con presunzione iuris et de iure – che la mancata costituzione sia stata in qualche modo condizionata dall’ignoranza del convenuto sulle modalità di difesa a sua disposizione e che quindi lo scopo dell’atto non sia stato raggiunto. Ma, come detto, si tratterebbe di un ragionamento la cui logicità è solo apparente. Nelle ipotesi in cui la parte si sia costituita correttamente (a mezzo di un avvocato o personalmente, secondo i casi), ammettere un rinvio, a mera richiesta del convenuto, e per il solo fatto che la citazione difetti dell’avvertimento, significa mettere a disposizione del convenuto uno strumento di dilazione piuttosto che un mezzo per ripristinare il pieno e paritario contraddittorio.
I dubbi peraltro aumentano ribaltando le ipotesi concrete. Sebbene la disposizione sembri rivolta a ricordare al convenuto l’obbligo di difesa tecnica, in verità, essa rappresenta, per effetto di una specie di eterogenesi dei fini, un promemoria del suo diritto di difendersi personalmente nei casi previsti dall’art. 86 e dalle leggi speciali. Dunque, se la parte non si costituisce in alcun modo nei casi in cui è ammessa la difesa personale, la mancanza dell’avvertimento comporta la nullità dell’atto, perché la parte potrebbe aver abdicato alla difesa ignorando la facoltà di difesa personale che la legge gli riserva[4]. Nel caso in cui si costituisca tempestivamente a mezzo di un avvocato quando avrebbe potuto costituirsi anche personalmente, il mancato avvertimento non incide in alcun modo sul pieno dispiegamento del diritto di difesa e quindi non ha alcuna rilevanza per il processo. Ne consegue che il rinvio dell’udienza a mera richiesta (a mera “deduzione”) è irragionevole. Se invece, nella stessa ipotesi, il convenuto si costituisce tardivamente e personalmente, non credo che si possa imputare questa tardività alla mancata conoscenza della facoltà di difendersi in proprio, salvo voler reiterare ancora una volta quel (illogico) ragionamento presuntivo già prospettato in precedenza.
La disamina appena compiuta offe spunti per delle considerazioni critiche. I nuovi avvertimenti previsti al n. 7, benché a prima vista appaiano ragionevoli e opportuni, perché volti a promuovere l’effettiva conoscenza dei diritti e dei doveri delle parti, si rivelano prescrizioni fuori contesto. La loro previsione male si concilia in un sistema in cui la forma/contenuto dell’atto è correlata col suo scopo (art. 156). Valgono quindi le obiezioni già rivolte ad altre analoghe disposizioni, tra cui l’avvertimento della facoltà di ricorrere alla procedura di sovraindebitamento che deve essere contenuto nel precetto (art. 480, co. 2, ult. periodo). Gli atti processuali non sono i mezzi adeguati a promuovere la conoscenza di diritti/doveri o la diffusione di un nuovo istituto tra i cittadini. Per questi scopi occorrono altri veicoli, esterni al processo, di cui è lo Stato che deve farsi carico, non l’attore del processo. D’altro canto: chi avverte l’attore dell’esistenza degli stessi diritti e doveri?
2.3. I termini a comparire e i termini di costituzione delle parti.
Come già anticipato, la fase introduttiva del giudizio viene rimodulata, per far sì che le allegazioni e le istanze istruttorie delle parti siano chiarite e completate prima dell’udienza.
Si possono individuare tre snodi anteriori all’udienza: un primo snodo corrisponde alla fase introduttiva del precedente modello, ossia alla citazione e alla comparsa di risposta; un secondo snodo è dato dalle verifiche preliminari di cui è incaricato il giudice (art. 171 bis); un terzo snodo consiste invece nell’attività di integrazione degli atti introduttivi (art. 171 ter).
Per far spazio (recte, per dar tempo) a tutte queste attività, i termini per comparire - ossia i termini devono intercorrere tra la data della notificazione della citazione e la data dell’udienza di comparizione indicata nello stesso atto – vengono ampliati e passano da 90 a 120 (art. 163 bis, co. 1).
Il secondo comma dell’art. 163 bis è abrogato, sicché i termini minimi non possono più essere abbreviati con decreto del Presidente, neppure ove la causa necessiti di pronta spedizione. Resta invece la possibilità di ridurre i termini eccedenti il minimo ai sensi dell’art. 163 bis, co. 3, con l’effetto che, in caso di riduzione, i termini a ritroso che decorrono dall’udienza, saranno computati dalla nuova udienza fissata dal Presidente (id est i termini per il deposito delle memorie integrative ex art. 171 ter) [5].
Poiché la citazione è a udienza fissa, stabilita dall’attore, resta possibile che nel giorno indicato il giudice istruttore designato non tenga udienza, con necessario differimento a un’udienza successiva. Tale differimento d’ufficio, come in passato (art. 168 bis, co. 4), non modifica i termini che decorrono a ritroso dall’udienza, i quali dunque continuano a computarsi dall’udienza indicata in citazione e non da quella effettiva e differita. In precedenza, uno slittamento dei termini si poteva verificare nell’ipotesi in cui il differimento dell’udienza fosse disposto ex art. 168 bis, co. 5, su iniziativa discrezionale del giudice istruttore, ma questa previsione è stata abrogata con la riforma, o meglio, come si vedrà, ha trovato una nuova collocazione (art. 171 bis, co. 3, su cui infra).
E veniamo così all’analisi del primo snodo della fase introduttiva.
Per quanto concerne la costituzione dell’attore e del convenuto le modifiche apportate agli artt. 165 e 166 non sono particolarmente significative se riferite alle modalità di costituzione in giudizio e al contenuto degli atti introduttivi (fatta eccezione per la chiarezza e specificità, di cui supra, § precedente), mentre assume senz’altro rilievo la modifica del termine di costituzione del convenuto.
Innanzitutto, non essendo possibile la riduzione dei termini minimi a comparire, scompare la corrispondente riduzione dei termini di costituzione delle parti.
Per l’attore, il termine di costituzione è dunque sempre di 10 giorni dalla notificazione della citazione, mentre per il convenuto, il termine di costituzione passa da 20 a 70 giorni prima dell’udienza indicata nella citazione e, al pari di quello concesso all’attore, non è suscettibile di riduzione.
Ne consegue che il termine entro cui il convenuto deve organizzare le proprie difese passa da un minimo di 70 giorni (90 meno 20) a un minimo di 50 giorni (120 meno 70). Decorso il termine di 70 giorni prima dall’udienza di comparizione, maturano le solite decadenze di cui agli artt. 38 e 167, co. 2 e 3: eccezione di incompetenza ex art. 38, eccezioni non rilevabili d’ufficio, domande riconvenzionali, dichiarazione della intenzione di chiamare in causa un terzo.
Il legislatore delegato non ha inteso anticipare ai primi atti delle parti la barriera preclusiva per le istanze istruttorie e per la produzione dei documenti (cfr. rito lavoro), nonostante la legge delega sembrasse lasciare uno spiraglio in tal senso. Questa barriera maturerà con la seconda memoria integrativa (infra), mentre in precedenza maturava in udienza o, in caso di appendice scritta, col secondo termine ex art. 183, co. 6.
2.4. I controlli da parte del giudice.
Sebbene l’udienza sia differita a un momento successivo, il legislatore avverte la necessità di un intervento anticipato da parte del giudice.
In primo luogo, in base al nuovo art. 171 bis, scaduto il termine di costituzione del convenuto (70 giorni prima dell’udienza), il giudice è chiamato a compiere i controlli preliminari e ad adottare fuori udienza, entro 15 giorni, i provvedimenti che in passato erano individuati dagli articoli 183, co. 1, 171, co. 3, e 269, co. 2, ossia:
- controllare la regolarità del contraddittorio e, in caso di mancata costituzione del convenuto e nullità della notificazione della citazione, ordinare la rinnovazione della citazione ex art. 291 c.p.c.;
- dichiarare la contumacia dell’attore o del convenuto ai sensi dell’art. 171, co. 3;
- ordinare che al contumace siano notificati gli atti e i provvedimenti indicati dall’art. 292[6];
- ordinare l’integrazione del litisconsorzio ai sensi dell’art. 102;
- ordinare la chiamata di un terzo iussu iudicis ex art. 107;
- emettere, ai sensi dell’art. 164, co. 2, 3, 5 e 6, i provvedimenti volti a sanare la nullità della citazione;
- fissare, ai sensi dell’art. 182, un termine per rimediare alla mancanza[7] o ai vizi della procura o per ovviare a un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione;
- disporre, ai sensi dell’art. 269, co. 2, lo spostamento dell’udienza per consentire la citazione del terzo richiesta dal convenuto;
- indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio di cui ritiene opportuna la trattazione, anche con riguardo alle condizioni di procedibilità della domanda e la sussistenza dei presupposti per procedere col rito semplificato.
Emettendo uno dei provvedimenti di cui all’elenco, il giudice di regola fisserà una nuova udienza (art. 171 bis, co. 2) nel rispetto dei termini a comparire (120 giorni) e da tale nuova udienza si computeranno i termini a ritroso per le memorie integrative (su cui infra).
Di regola, inoltre, fissata una nuova udienza, il giudice sarà chiamato a svolgere di nuovo le verifiche preliminari: si pensi alla rinnovazione della citazione per vizio della vocatio in ius o per vizio della notificazione, che porta con sé tutta una serie di controlli sulla successiva costituzione del convenuto e sulla validità delle domande formulate; alla stessa maniera, lo spostamento per consentire la citazione del terzo imporrà di compiere nuove verifiche, quantomeno, sulla costituzione del terzo.
Quando non deve emettere nessuno dei provvedimenti sopra elencati ovvero quando, pur adottandone uno, non è necessaria la fissazione di una nuova udienza (ad esempio, in caso di dichiarazione immediata di contumacia del convenuto o dell’attore, ovvero in caso di mera indicazione di questioni rilevabili d’ufficio), il giudice può, alternativamente (art. 171 bis, co. 3):
- confermare l’udienza originariamente fissata dall’attore[8];
- differire la data della prima udienza fino a un massimo di 45 giorni, con conseguente slittamento dei termini per il deposito delle memorie integrative (viene così recuperato quel potere officioso in precedenza previsto dall’abrogato art. 168 bis, co. 5).
Sebbene la legge non richiami nel co. 3 il termine indicato nel co. 1, è essenziale che il giudice emetta anche questo provvedimento entro 15 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto. Anzi, se intende confermare l’udienza fissata dall’attore, sarebbe opportuna una più rapida adozione del provvedimento, per assicurare alle parti il maggior tempo possibile per redigere e depositare la prima memoria integrativa. Infatti, tra la scadenza del termine di 15 giorni assegnato al giudice e la scadenza del termine per il deposito della prima memoria integrativa (40 giorni prima dell’udienza) è garantito un termine minimo di soli 15 giorni (su cui anche infra, § successivo), che può dunque essere ampliato fino a 29 a seconda della solerzia del giudice nel compimento delle verifiche preliminari. Nel caso in cui giudice violi il termine di 15 giorni che la legge gli assegna, non potrà in nessun caso confermare la prima udienza, ma sarà costretto quantomeno a differire la prima udienza con slittamento dei termini per il deposito delle memorie, perché altrimenti verrebbe ingiustamente eroso il termine minimo di 15 giorni che la legge sembra garantire alla parte per il deposito della prima memoria. Ma non solo: sarebbe opportuno che il giudice differisse la prima udienza anche là dove, pur rispettando il termine di 15 giorni assegnatogli dalla legge, alle parti non riesca comunque ad essere garantito un termine minimo di 15 giorni per il deposito della prima memoria integrativa: ciò può accedere, ad esempio, quando il provvedimento del giudice sia adottato il 15° giorno e il termine per la prima memoria integrativa vada a scadere di domenica, con anticipazione al primo giorno feriale precedente (venerdì)[9].
L’ultimo comma dell’art. 171 bis stabilisce che «il decreto è comunicato alle parti costituite a cura della cancelleria». La disposizione dovrebbe riferirsi al decreto con cui il giudice, non avendo ritenuto di emettere uno dei provvedimenti di cui al co. 1, si sia limitato a confermare o differire l’udienza ai sensi del co. 3. Viceversa, ove adotti uno dei provvedimenti previsti dal co. 1, il provvedimento assume la forma consona al suo contenuto: ad esempio, se deve (anche) pronunciare la contumacia di una parte, la forma è quella dell’ordinanza ex art. 171.
Comincia così a delinearsi il quadro della nuova fase introduttiva. Parte della vecchia prima udienza viene sostituita da controlli solipsistici del giudice, compiuti fuori udienza.
Al netto di quanto si dirà in seguito, la soluzione è assai discutibile per vari motivi.
Innanzitutto, le questioni che sono al fondo dei provvedimenti menzionati all’art. 171 bis, co. 1, rappresentano questioni di notevole importanza e non è detto che esse siano state precedentemente sollevate dalle parti. E se anche qualcuna di esse venisse sollevata da una parte (verosimilmente dal convenuto) e non dal giudice, l’idea che questo possa adottare i provvedimenti necessari alla loro soluzione senza instaurare il previo contraddittorio con tutte le parti del giudizio rappresenta un arretramento sul piano delle garanzie. È dunque possibile che i giudici più sensibili alla salvaguardia del contraddittorio optino per la concessione alle parti di un termine difensivo ad hoc per interloquire sulla questione, con un effetto moltiplicatore degli atti scritti e un necessario ulteriore rinvio della prima udienza.
Inoltre, la prassi dimostra che tali questioni emergono più spesso per iniziativa delle parti che non all’esito di un controllo spontaneo del giudice: ne consegue che, in assenza di un’udienza dedicata, le questioni rischieranno di restare sottotraccia per emergere forse in seguito, con l’effetto di rivelare l’inutilità dell’attività medio tempore compiuta[10].
D’altro canto, il giudice, nell’effettuare i controlli, non è invitato dal legislatore a chiedere immediatamente alle parti i chiarimenti necessari sulla base dei fatti allegati (art. 183, co. 4, vecchio testo; cfr. art. 183, co. 3, nuovo testo, in cui la richiesta di chiarimenti sembra collegata all’esperimento dell’interrogatorio libero durante la prima udienza, che è di là da venire rispetto alle verifiche preliminari).
Non si comprende perché il giudice, all’esito delle verifiche, sia sollecitato a indicare le questioni rilevabili d’ufficio e non invece a chiedere i chiarimenti, tenuto conto di quanto questi siano importanti per meglio indirizzare anche l’attività integrativa demandata alle successive memorie integrative. La separazione cronologica tra rilievo officioso e richiesta di chiarimenti è forse il frutto di una leggera svista, prodottasi nella (ri)composizione del nuovo puzzle processuale, ma ha anche il sapore di un lapsus freudiano.
Purtroppo, trova almeno parziale conferma un sospetto già maturato durante la lettura della legge delega[11]. Sembra infatti che il legislatore abbia abbandonato l’idea di un processo effettivamente diretto dal giudice (cfr. art. 175) ossia di un processo in cui il giudice si dedica, sin da principio – anzi, soprattutto in principio - a setacciare gli atti di parte per farne emergere le questioni centrali e per delimitare in maniera chiara la quaestio facti e la quaestio iuris, separandole dal materiale irrilevante. La stessa previsione di un’attività assertiva tutta rimessa alle parti in una fase anteriore all’udienza, con formazione di preclusioni non superabili dopo di essa, è (purtroppo) coerente con una visione rigida e poco moderna del processo[12].
Né valga obiettare, in senso contrario, che la soluzione individuata dal legislatore ha quantomeno il pregio del pragmatismo, a fronte di numerose prime udienze che fino a ieri si svolgevano senza che il giudice conoscesse nel dettaglio gli atti del fascicolo. Ammesso che sia questa la realtà dei fatti, in ogni caso sarebbe stato preferibile uno sforzo organizzativo volto a replicare ed imporre le prassi virtuose (o anche solo le prassi normali), piuttosto che l’istituzionalizzazione normativa di un malcostume.
2.5. Le memorie integrative.
Dopo i controlli preliminari del giudice, si colloca il terzo snodo della fase introduttiva, dedicato all’attività integrativa delle parti e regolato dall’art. 171 ter.
Lo schema è caratterizzato da tre memorie integrative - anch’esse anteriori alla prima di udienza di comparizione - che ricalcano in parte il modello dell’art. 183, co. 6[13].
Per l’esattezza, l’integrazione di cui all’art. 171 ter si estende a iniziative che, in precedenza, erano ammesse solo se svolte verbalmente all’udienza ex art. 183, co. 5, e che non erano invece richiamate tra le attività ammesse in sede di appendice scritta ex art. 183, co. 6.
Infatti, con la prima memoria, da depositarsi a pena di decadenza almeno 40 giorni prima dell’udienza, all’attore è concesso «proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto o dal terzo» e «chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo, se l’esigenza è sorta a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta». Si tratta di attività che, in precedenza, erano previste solo dall’art. 183, co. 5. Inoltre, con la stessa memoria, entrambe le parti possono «precisare e modificare le domande, eccezioni e conclusioni già proposte» ossia l’attività di emendatio libelli che, in precedenza, era ammessa sia all’udienza ex art. 183, co. 5, sia con la prima memoria ex art. 183, co. 6.
In definitiva, con nella stessa prima memoria, si possono formulare vere e proprie domande nuove (specialmente, la reconventio reconventionis), ma si può anche compiere la mera emendatio delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già formulate, là dove nella prima memoria ex art. 183, co. 6, vecchio rito solo la seconda era concessa[14].
L’aver tradotto nella prima memoria scritta anche il potere di formulare domande nuove porta con sé il necessario ampliamento contenutistico delle memorie successive. Non a caso, nella seconda memoria, da depositarsi a pena di decadenza almeno 20 giorni prima dell’udienza, le parti possono – anzi, devono - compiere tutte le attività già previste dalla seconda memoria ex art. 183, co. 6, n. 2, tra cui, in particolare, indicare i mezzi di prova ed effettuare le produzioni documentali (barriera preclusiva istruttoria), ma il convenuto deve anche contraddire alle eventuali domande nuove formulate dall’attore con la prima memoria integrativa («proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande nuove formulate nella memoria di cui al n. 1»).
Analogamente, la terza memoria integrativa, da depositarsi almeno 10 giorni prima dell’udienza, non è riservata, come la terza memoria ex art. 183, co. 6, vecchio rito, alla sola prova contraria, ma è concesso alle parti veicolare, per il suo tramite, la replica alle eccezioni nuove formulate nella memoria precedente (e sembrerebbe trattarsi della replica alle eccezioni che il convenuto può aver sollevato nella seconda memoria per contraddire alla domanda nuova in senso stretto formulata dall’attore con la prima memoria).
Le memorie integrative devono poi essere utilizzate dalle parti per contraddire sulle questioni eventualmente rilevate d’ufficio dal giudice con le verifiche preliminari di cui all’art. 171 bis, ivi comprese quelle riguardanti l’assolvimento delle condizioni di procedibilità o la sussistenza dei presupposti per procedere col rito semplificato ex art. 281 decies ss. La legge dispone che «tali questioni sono trattate dalle parti nelle memorie integrative di cui all’articolo 171 ter» (art. 171 bis, co. 1, ult. periodo), ma non specifica in quale di esse. La soluzione non è predeterminabile e dipende dal tipo di reazione cui la questione dà luogo. Ad esempio, se, per effetto della questione rilevata d’ufficio, l’attore maturi un interesse a modificare la domanda nei limiti dell’emendatio libelli ovvero il convenuto avverta l’esigenza di specificare meglio una sua eccezione, dovrà necessariamente compiere tale attività con la prima memoria. Viceversa, se la questione rilevata d’ufficio fa sorgere un mero interesse a contraddire in punto di diritto, le argomentazioni potranno essere svolte senz’altro con la prima memoria, probabilmente anche con la seconda, data la sua funzione di replica, e forse, mediante una lettura estensiva favorita dal testo di legge, anche con la terza memoria, dedicata come visto alla replica delle eccezioni nuove. D’altronde, se si tratta di pura argomentazione in diritto, la parte potrà prendere posizione sulla questione, anche per la prima volta, durante discussione finale o con gli scritti concessi alle parti nella fase decisionale. Se la questione ha ad oggetto l’assolvimento della condizione di procedibilità, ogni memoria appare utile per dimostrare che la condizione è stata assolta ovvero per argomentare sulle questioni giuridiche che la concernono. Se la questione ha ad oggetto la sussistenza dei presupposti per procedere col rito semplificato, verosimilmente sarà la terza memoria quella più adatta per argomentare compiutamente sul tema, atteso che solo dopo la precisazione definitiva delle domande e delle eccezioni e solo dopo la compiuta indicazione di tutte le prove è possibile verificare con cognizione di causa se la controversia rientri tra quelle indicate nell’art. 281 decies, co. 1.
La nuova strutturazione della sequenza degli atti integrativi suscita alcuni problemi.
In primo luogo, è evidente che i controlli preliminari svolti dal giudice non sono definitivi, perché dopo di essi possono sopravvenire nuove domande, che necessitano del medesimo vaglio preliminare già compiuto per quelle formulate in precedenza.
Inoltre, nell’ipotesi in cui sia richiesta la chiamata del terzo da parte dell’attore, l’eventuale autorizzazione giungerà solo alla prima udienza (art. 183, co. 2 nuovo testo), dopo che le memorie integrative sono state già depositate dalle parti. Vi sarà dunque la fissazione di una nuova udienza e tutto l’iter dovrà ripetersi, con nuove verifiche preliminari e con notevole moltiplicazione di atti scritti (v. art. 269, co. 5 riformato).
Infine, i termini per il deposito delle memorie sono da computare “a ritroso”, ossia dall’udienza indicata nell’atto di citazione (salvo eccezioni: rinvio all’esito dei controlli ex art. 171 bis, rinvio ex art. 171 ter, co. 1 o co. 3; rinvio per citare un terzo ecc.). La prima memoria deve essere depositata almeno 40 giorni prima dell’udienza. Considerando che il provvedimento del giudice sui controlli preliminari deve essere adottato entro 15 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto, ossia almeno 55 giorni prima dell’udienza, di fatto il termine minimo che la legge concede tra il provvedimento del giudice e la prima memoria integrativa è di (soli) 15 giorni[15].
Peraltro, i termini a ritroso che scadono il sabato o la domenica, per consolidata giurisprudenza della Cassazione[16], vengono anticipati al venerdì precedente. Si rischia quindi un’erosione dei termini a difesa. Se, ad esempio, il termine per la seconda memoria scade di giovedì e quello della terza scade la domenica della settimana successiva (ossia dopo 10 giorni), quest’ultimo scadrà in verità il venerdì precedente e quindi il termine per la terza memoria non sarà, come immaginato dal legislatore, di 10 giorni, ma solo di 8. La scelta dei termini a ritroso è quindi foriera di notevoli inconvenienti, inconvenienti che appaiono francamente anacronistici in un’epoca in cui la calendarizzazione potrebbe essere realizzata attraverso ausili elettronici, con maggiore certezza dei termini per tutti i soggetti del giudizio. Viene il sospetto che dietro i proclami sul processo telematico si nasconda una scarsa consapevolezza delle reali potenzialità dell’informatica applicata al processo.
Alla luce delle precedenti osservazioni, si può quantomeno dubitare che la nuova fase introduttiva sia più razionale della precedente. Sarebbe stato preferibile potenziare l’udienza in funzione maieutica, piuttosto che rinunciarvi definitivamente in favore di un confronto scritto che le parti svolgeranno, ieri come oggi, senza alcuna rassicurazione di un confronto attivo con il giudice e, quindi, con l’incentivo a dilungarsi in plurime e precauzionali argomentazioni all’interno di una pluralità di atti scritti, con buona pace del principio di sinteticità, chiarezza e specificità.
3. L’udienza di prima comparizione e trattazione.
L’udienza di prima comparizione delle parti di trattazione della causa (art. 183) non si svolgerà, come visto, prima di 120 giorni dalla notificazione della citazione e le parti vi si presenteranno dopo aver completato definitivamente le proprie allegazioni e istanze istruttorie.
La dilatazione dei tempi della prima udienza non preoccupa di per sé, neppure ove la parte abbia interesse ad anticiparla, ad esempio, per ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva del decreto ingiuntivo opposto (art. 649) o la sospensione del provvedimento impugnato. In tal caso dovrebbe farsi ricorso alla fissazione di un’udienza ad hoc, data la natura cautelare diffusamente riconosciuta a questi provvedimenti (cfr. anche art. 5 d.lgs. 150/2011).
Si prescrive la necessaria comparizione personale delle parti (co. 1), il loro interrogatorio libero e il tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 185 (co. 3). Con l’occasione, sulla base dei fatti allegati, il giudice può chiedere alle parti i chiarimenti necessari (co. 3).
La mancata comparizione personale senza giustificati motivi – salva la facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale ai sensi dell’art. 185, co. 1 - è valutabile dal giudice come argomento di prova ex art. 116, co. 2 (co. 1).
Si passa così da un tentativo di conciliazione per richiesta congiunta ovvero per iniziativa non obbligatoria del giudice (art. 185, co. 1, vecchio testo) a un tentativo necessario di conciliazione analogo, anche nelle conseguenze, a quello già previsto dall’art. 420, co. 2, c.p.c. nel rito del lavoro.
Poiché l’art. 185 è rimasto sostanzialmente invariato, fatta eccezione per il suo coordinamento con il calendario del processo, un (ulteriore) tentativo di conciliazione per richiesta congiunta o per iniziativa del giudice ai sensi dell’art. 117 resta comunque possibile dopo la prima udienza, nel corso della fase istruttoria.
Inoltre, ai sensi del nuovo art. 185 bis, il giudice può formulare d’ufficio una proposta conciliativa «fino al momento in cui fissa l’udienza di rimessione della causa in decisione» (in precedenza: «alla prima udienza, ovvero sino a quando non è esaurita l’istruzione»). Benché la legge si premuri di precisare che la proposta conciliativa non costituisce motivo di ricusazione, essa, se formulata in una fase avanzata del giudizio, rischia di trasformarsi in un mezzo di coartazione, in quanto la parte insoddisfatta dalla proposta viene di fatto stretta in una morsa: o accetta obtorto collo la proposta, oppure rischia un provvedimento negativo (o comunque non soddisfacente), cui verosimilmente si assocerà anche un provvedimento particolarmente severo in punto di spese. Si auspica che i giudici facciano un uso prudente di questo potere.
Sempre alla prima udienza, il giudice, se ritiene di autorizzare la chiamata del terzo a istanza dell’attore (art. 171 bis, co. 1), fissa una nuova udienza ai sensi dell’art. 269, co. 3 (art. 183, co. 2). L’art. 183, co. 2, prevede peraltro che la fissazione della nuova udienza sia disposta «salva l’applicazione dell’articolo 187» ossia salvo che la causa sia già matura per la decisione. Non è chiaro cosa intenda esprimere la clausola di salvezza. Probabilmente, si suggerisce al giudice di negare l’autorizzazione alla chiamata del terzo da parte dell’attore là dove, pur sussistendo i presupposti per la chiamata, ragioni di opportunità, nella specie la immediata decidibilità della causa nel merito, suggeriscano di velocizzare la definizione della controversia, anche se ciò significa negare l’ingresso alla domanda verso il terzo. Sembra quindi che venga esteso alla chiamata del terzo da parte dell’attore quel (discutibilissimo) potere discrezionale e insindacabile, basato su ragioni di opportunità ovvero sul principio di ragionevole durata del processo, che la Cassazione già riconosce al giudice in sede di autorizzazione della chiamata del terzo da parte del convenuto[17].
A mente dell’art. 183, ultimo comma, se non deve procedersi alla fissazione di una nuova udienza per la chiamata del terzo e se il tentativo di conciliazione non riesce, il giudice decide sulle istanze istruttorie e predispone il calendario delle successive udienze sino a quella di rimessione in decisione, specificando gli incombenti che verranno esplicati in ciascuna di esse.
Lo stesso comma precisa poi che, se l’ordinanza di ammissione dei mezzi istruttori avviene fuori udienza, essa deve comunque essere pronunciata entro 30 giorni. Inoltre, si impone la fissazione dell’udienza per l’assunzione dei mezzi di prova entro 90 giorni (verosimilmente, in caso di ordinanza istruttoria fuori udienza, il termine decorrerà dal provvedimento). Si tratta all’evidenza di un termine ordinatorio, sicché risulta ozioso domandarsi se entro 90 giorni debbano svolgersi tutte le udienze istruttorie o solo la prima, qualora una soltanto non sia sufficiente.
Il calendario del processo, in verità, è stato introdotto all’art. 81-bis disp. att. c.p.c. dalla l. 69/2009 e non risulta che abbia sortito effetti miracolosi sui tempi del processo. D’altronde, l’organizzazione dell’ufficio non è qualcosa che può essere governato dalle norme processuali. Inoltre, la concentrazione del processo deve riguardare tutto il suo svolgimento. Diversamente, il giudice si trova costretto a ristudiare più volte la causa, con inevitabile spreco di energie. Pertanto, se è vero, come si suole dire, che il vero collo di bottiglia della giustizia è rappresentato dalla fase decisoria, è del tutto inutile fissare un termine per lo svolgimento dell’istruttoria se un analogo e concentrato termine non viene fissato per l’emissione della sentenza.
4. La contumacia.
Mutando la fase introduttiva, varia anche la disciplina della contumacia.
Viene in primo luogo modificato il co. 2 dell’art. 171 eliminando le parole «fino alla prima udienza»: per l’effetto, l’attore deve necessariamente costituirsi entro 10 giorni dalla notificazione della citazione e il convenuto deve costituirsi entro 70 giorni dall’udienza. Se una parte si è costituita nel termine assegnatole dalla legge, l’altra potrà costituirsi successivamente, salve le decadenze maturate. Se nessuna delle due parti si è costituita nei termini assegnati dalla legge, si applicano le disposizioni dei co. 1 e 2 dell’art. 307, a mente dell’art. 171, co. 1, rimasto invariato. Se invece alla scadenza del termine di 70 giorni prima dell’udienza (termine per la costituzione del convenuto ex art. 166) una parte risulta ritualmente costituita e l’altra no, quest’ultima, ai sensi del modificato co. 3 dell’art. 171, è dichiarata contumace, con provvedimento emesso all’esito dei controlli preliminari ex art. 171 bis, co. 1, che infatti richiama l’art. 171, co. 3, salvo che il giudice non rilevi un vizio della notificazione, nel qual caso verrà in prima battuta ordinata la rinnovazione della citazione ai sensi dell’art. 291, co. 1, con fissazione di una nuova udienza.
In verità, non si fa luogo alla dichiarazione della contumacia se la parte si costituisce dopo la scadenza del termine ex art. 166, ma comunque prima dell’emissione del provvedimento con cui dovrebbe essere dichiarata, ossia il provvedimento emesso all’esito delle verifiche preliminari ex art. 171 bis. Lo si evince dalla modifica del co. 2 dell’art. 291, che, in caso di rinnovazione della citazione per vizi della notificazione, dispone che la contumacia venga dichiarata se la parte non si costituisce prima della pronuncia del decreto ex art. 171 bis, co. 2 (id est, prima della conclusione delle seconde verifiche preliminari rese necessarie dalla rinnovazione della citazione).
5. Le ordinanze provvisorie.
Una delle novità più significative della riforma è senz’altro l’introduzione di due ordinanze, una di accoglimento (art. 183 ter) l’altra di rigetto (art. 183 quater), inidonee al giudicato e che aspirano, almeno in teoria, a fornire un’anticipazione di tutela e a favorire una definizione più rapida della controversia.
Tali ordinanze mirano a sostituirsi alla sentenza e a definire l’intero processo là dove la domanda appaia, rispettivamente, manifestamente fondata o manifestamente infondata.
A differenza di quanto era stato proposto dalla Commissione Luiso, la riforma non ha optato per un procedimento autonomo sulla scia del référé provision francese, ma ha inglobato l’istituto all’interno del normale giudizio di cognizione, quale esito alternativo alla sentenza. Tuttavia, la pronuncia di queste ordinanze è subordinata a presupposti che di fatto ne limitano l’applicazione, rendendole istituti di scarsa appetibilità e praticabilità.
5.1. L’ordinanza di accoglimento della domanda.
I presupposti per l’emissione dell’ordinanza di accoglimento sono: i) l’istanza di parte; ii) la competenza del tribunale (anche collegiale, mancando una specificazione in proposito); iii) la controversia su diritti indisponibili (il che limita l’applicazione nelle controversie di competenza collegiale); iv) il raggiungimento della prova dei fatti costitutivi della domanda; v) la manifesta infondatezza delle difese della controparte; vi) in caso di processo cumulato, che i precedenti requisiti siano comuni a tutte le cause.
Sebbene la disposizione sembri ammettere la pronuncia «nel corso del giudizio di primo grado», si può ritenere che l’ordinanza non possa essere adottata né prima della prima udienza, né dopo la rimessione della causa in decisione. “Non prima della prima udienza” perché, oltre alla collocazione numerica della disposizione (dopo l’art. 183), le parti devono necessariamente aver esaurito i poteri di allegazione e prova e, stando al tentativo di conciliazione obbligatorio in prima udienza (v. supra), la definizione bonaria resta la via privilegiata. E, d’altro canto, è senz’altro opportuno scongiurare provvedimenti di tale portata prima ancora che si sia svolta la prima udienza di comparizione delle parti, con l’effetto di ridurre l’intero processo di cognizione a un processo puramente cartolare. “Non oltre la rimessione in decisione” perché da lì in poi cessano gli effetti benefici della definizione anticipata del giudizio, mentre torna a prevalere l’utilità della definizione della controversia con sentenza.
L’ordinanza è provvisoriamente esecutiva, contiene la regolamentazione delle spese di lite, ma non è idonea ad acquistare efficacia di giudicato, né la sua efficacia può essere invocata in altri processi.
La forma dell’ordinanza presuppone poi la previa instaurazione del contraddittorio sull’istanza avanzata dalla parte.
Inoltre, essa è reclamabile ai sensi dell’art. 669 terdecies – mezzo di impugnazioni che si conferma versatile - e dal reclamo dipende anche la sorte del processo: a) se il reclamo è accolto, il giudizio prosegue dinanzi a un magistrato diverso da quello che ha pronunciato l’ordinanza; b) se il reclamo non è proposto o viene rigettato, l’ordinanza definisce il giudizio e non è altrimenti impugnabile, ma, difettando di efficacia di giudicato, la controparte potrà agire in accertamento negativo, anche in sede di opposizione all’esecuzione.
Benché la legge nulla dica al riguardo, ove il giudice non ritenga di accogliere l’istanza della parte, dovrebbe rigettarla con provvedimento avente ancora una volta la forma dell’ordinanza (stante il previo contraddittorio)[18], ma questa volta senza pronuncia sulle spese[19] e senza possibilità di reclamo. Infatti, l’ordinanza di rigetto dell’istanza – che non va confusa con l’ordinanza di rigetto ex art. 183 quater (infra, § successivo) - non costituisce accertamento negativo del diritto, dal momento che la non manifesta infondatezza delle difese del convenuto non equivale alla loro fondatezza[20]. In assenza di un mezzo di impugnazione, l’istanza sarà liberamente riproponibile, salvo il potere del giudice di tener conto della reiterazione in sede di regolazione finale delle spese.
Lo statuto giuridico dell’istituto limita o quantomeno scoraggia la sua applicabilità concreta.
In particolare:
- non è chiaro se l’istituto possa applicarsi nei riti speciali, ad esempio nel rito del lavoro, nel rito locatizio, nel procedimento semplificato di cognizione ecc.[21];
- la domanda deve essere accolta integralmente[22] altrimenti non si comprende come possano considerarsi manifestamente infondate le difese avversarie (ci si potrebbe interrogare se la parte possa richiedere un accoglimento parziale dell’originaria domanda e se tale istanza rischi di essere intesa come rinuncia parziale alla domanda nel caso la controversia non venga definita in via abbreviata; o se la parte possa chiedere l’accoglimento con ordinanza della sola domanda subordinata);
- se risultano provati tutti i fatti costitutivi e le difese della controparte appaiono manifestamente infondate, allora l’anticipazione è tutto sommato relativa e anche alquanto inutile, perché la causa è già matura per la decisione e sarebbe preferibile la sua definizione con sentenza;
- se vi sono più cause cumulate dall’attore, i requisiti devono sussistere per tutte, il che appare statisticamente poco probabile, specie nelle fasi iniziali del procedimento;
- se il cumulo è effetto della proposizione di domande riconvenzionali, l’applicazione dell’istituto diviene difficile, perché, nel contempo, devono sussistere i presupposti per tutte le domande e l’istanza deve provenire da entrambe le parti contrapposte;
- potrebbe difettare l’interesse della parte, perché l’ordinanza non è titolo per iscrizione dell’ipoteca giudiziale o perché la parte ha l’esigenza di ottenere un provvedimento idoneo al giudicato, ad esempio ai fini della trascrizione del provvedimento[23].
Le parti e i loro avvocati avranno dunque più di qualche remora a formulare l’istanza[24].
A ciò si aggiunga anche la possibile resistenza da parte del giudice. In primo luogo, poiché l’ordinanza di rigetto non è reclamabile (v. supra), potrebbe esservi una inclinazione psicologica del giudice a prediligere tale esito, anche per sottrarre la decisione a un sindacato interno allo stesso ufficio. Inoltre, è verosimile attendersi ordinanze di rigetto succintamente motivate, di agevole scrittura, sia perché la laconicità maschera meglio il convincimento del giudice sul fondo della controversia, sia perché la non reclamabilità rende incensurabile il provvedimento anche sotto tale profilo.
L’istituto pone poi ulteriori questioni interpretative e operative.
Innanzitutto, la previsione del passaggio del fascicolo ad altro magistrato in caso di accoglimento del reclamo, oltre ad essere poco razionale per l’esagerato numero di magistrati che la vicenda può coinvolgere, è foriera di difficoltà organizzative negli uffici di piccole dimensioni.
Inoltre, come l’accoglimento deve essere integrale, anche il reclamo deve essere rigettato integralmente per poter dar luogo alla definizione del processo (salvo quando si dirà appresso per le spese). Pertanto, non vi è margine per un accoglimento parziale: anche là dove il giudice del reclamo dovesse dissentire solo parzialmente dalla decisione (ad esempio perché non ritiene provata una delle domande cumulate o dubita semplicemente del quantum liquidato), dovrà comunque accertare l’insussistenza dei presupposti per l’emissione dell’originaria ordinanza e accogliere così integralmente il reclamo, disponendo la prosecuzione davanti a un altro magistrato. Anche in tal caso si evidenzia uno spreco di energie da parte dell’ufficio.
In tema di spese, come visto, non vi è luogo per la loro regolamentazione in caso di rigetto dell’istanza. Neppure vi dovrebbe essere pronuncia sulle spese in caso di accoglimento del reclamo: con tale ordinanza, il collegio dovrebbe annullare l’intera ordinanza reclamata, rimettendo la statuizione sulle spese alla sentenza finale. Viceversa, in caso di rigetto del reclamo, il collegio si pronuncerà senz’altro sulle spese.
Muovendo dall’inidoneità al giudicato dell’ordinanza di accoglimento, anche ove confermata in sede di reclamo, si pone il problema della contestabilità dei capi sulle spese, dei quali si potrebbe in teoria predicare la stabilità e quindi l’impugnabilità con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.[25].
Innanzitutto, occorre precisare che il reclamo è idoneo a veicolare anche le doglianze circa le modalità con cui sono state liquidate le spese, e questa è forse l’unica ipotesi di possibile accoglimento parziale del reclamo.
I capi sulle spese per i quali si pone la questione della loro modalità di contestazione sono dunque:
a) il capo sulle spese contenuto nell’ordinanza di accoglimento non reclamata;
b) il capo sulle spese contenuto nell’ordinanza di accoglimento confermata in sede di reclamo;
c) il capo sulle spese pronunciato erroneamente con l’ordinanza di rigetto dell’istanza;
d) il capo sulle spese contenuto nell’ordinanza collegiale di rigetto del reclamo;
e) il capo sulle spese pronunciato erroneamente dal collegio in caso di accoglimento del reclamo.
Nel caso sub c, essendo l’ordinanza di rigetto dell’istanza non reclamabile, il giudice può revocarla re melius perpensa, eventualmente anche con la sentenza di merito.
In tutti i casi (compreso quello sub c, ove non sia stata disposta la revoca e non sia intervenuta la sentenza ad assorbire la statuizione), richiamando gli insegnamenti della Cassazione maturati in materia cautelare[26], il capo sulle spese avrà un’efficacia meramente esecutiva, ossia un’efficacia in tutto identica al capo di merito dell’ordinanza. Il capo condannatorio sarà dunque contestabile – anche di per sé solo[27] - in un autonomo giudizio ovvero in sede di opposizione all’esecuzione, escluso invece il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. Per ragioni di simmetria, anche la parte vincitrice nel merito dell’ordinanza dovrebbe aver diritto ad instaurare un autonomo giudizio per contestare la pronuncia di compensazione delle spese eventualmente pronunciata dal giudice di prima istanza e/o dal collegio, salvo che non sia praticabile la via della correzione dell’errore materiale[28].
5.2. L’ordinanza di rigetto della domanda.
L’art. 183 quater disciplina invece l’ordinanza di rigetto della domanda.
Alcuni presupposti sono comuni all’ordinanza di accoglimento, in particolare quelli enumerati supra sub i), ii), iii) e vi), ossia: i) l’istanza di parte; ii) la competenza del tribunale; iii) la controversia su diritti indisponibili; … iv) in caso di processo cumulato, che i precedenti requisiti siano comuni a tutte le cause.
Mutano invece gli altri presupposti, che possono ricorrere in via alternativa: a) domanda manifestamente infondata; b) nullità della citazione per omessa o incerta indicazione del petitum (n. 3 dell’art. 163), se «la nullità non è stata sanata»; c) nullità della citazione per mancanza dell’esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda (art. 163, n. 4) se non sono state compiute la rinnovazione o l’integrazione della domanda ritualmente disposte dal giudice.
Al pari dell’ordinanza di accoglimento:
- non acquista efficacia di giudicato;
- con essa il giudice regola le spese di lite;
- è reclamabile ex art. 669 terdecies;
- se il reclamo non è proposto o è rigettato, l’ordinanza definisce il giudizio e non è ulteriormente impugnabile;
- se il reclamo è accolto il processo prosegue dinanzi a un diverso magistrato.
Mutatis mutandis, quanto alle fattispecie non espressamente regolate dalla legge, si possono richiamare le considerazioni svolte per l’ordinanza di accoglimento (instaurazione del contraddittorio, disciplina del rigetto dell’istanza, regime delle spese ecc.).
Anche questa ordinanza rischia di essere poco praticata.
Innanzitutto, se sono omessi o risultano assolutamente incerti il petitum (art. 163, comma 3, n. 3) o la causa petendi (art. 163, comma 3, n. 4), si configurano nullità che ostano alla decisione, se non sanate secondo l’iter previsto dall’art. 164, co. 5. Il co. 5 dell’art. 164, tuttavia, non sanziona espressamente con l’estinzione né la mancata rinnovazione della citazione (a differenza del co. 2, relativo alla mancata rinnovazione per vizi della vocatio in ius) né la mancata integrazione della stessa, rendendo apparentemente irrilevante l’avvenuta costituzione della parte. Il silenzio della legge ha dato luogo a diverse soluzioni interpretative: a) vi è chi ritiene che, sia in caso di mancata rinnovazione, sia in caso di mancata integrazione, si determini una fattispecie di estinzione ex art. 307 c.p.c.; b) chi invece ritiene che la fattispecie dia sempre luogo a un rigetto con sentenza in rito, attestante la mera nullità della citazione; c) chi infine distingue tra mancata rinnovazione, che darebbe luogo all’estinzione ex art. 307 (che infatti menziona la sola mancata integrazione), e mancata integrazione, che viceversa, non essendo contemplata come fattispecie estintiva né dall’art. 164 né dall’art. 307, darebbe luogo a una pronuncia con sentenza e alla conseguente regolamentazione delle spese, così compensando la difesa attiva svolta dal convenuto[29].
In questo quadro si colloca il nuovo art. 183 quater.
Dando per presupposto che il legislatore abbia voluto integrare razionalmente la nuova diposizione nel contesto del codice, dobbiamo ritenere che non abbia inteso porre in conflitto l’ordinanza di estinzione, pronunciabile d’ufficio, con l’ordinanza di rigetto ex art. 183 quater, pronunciabile a istanza di parte e pensata dalla riforma come decisione alternativa alla sentenza. Se così è, allora il legislatore ha preso implicitamente posizione a favore della soluzione interpretativa sub b)[30]. Infatti, là dove menziona la nullità genericamente «non … sanata» della citazione per omissione o incertezza del petitum e là dove fa riferimento sia alla mancata rinnovazione che alla mancata integrazione della citazione per omissione dei fatti costituenti la causa petendi, dà per assodato che, in queste ipotesi, la controversia dovrebbe, di regola, essere definita con sentenza, rispetto alla quale la nuova ordinanza ex art. 183 quater si pone in rapporto di alternatività.
Sotto questo profilo, quindi, la disposizione fornisce una sorta di indiretto chiarimento di ordine sistematico in merito alle conseguenze della nullità per vizi dell’editio actionis (petitum e causa petendi) non sanate.
Tuttavia, la nuova disposizione genera a sua volta qualche anomalia: ad esempio, se la nullità non è stata sanata perché non è stato rispettato l’ordine di rinnovazione, il quale presuppone la mancata costituzione della parte, non si comprende come possa esservi un’istanza di parte, dato che la parte non ha assunto un ruolo attivo nel processo[31]. La disposizione acquista un senso solo nella remota ipotesi in cui il convenuto si sia costituito spontaneamente dopo che il giudice ha già disposto la rinnovazione della citazione, chiedendo la pronuncia dell’ordinanza ex art. 183 quater per persistente nullità della citazione dovuta a mancato rispetto del termine fissato dal giudice.
Al di là delle elucubrazioni teoriche, occorre ammettere che, nella pratica, i vizi della citazione relativi al petitum e alla causa petendi sono molto rari e quelli non sanati lo sono ancora di più: dunque, la portata applicativa dell’ordinanza di rigetto basata su tali vizi è prossima allo zero.
Quanto invece all’ordinanza di rigetto per “manifesta infondatezza”, possono ripetersi le considerazioni già svolte per quella di accoglimento. Essa appare poco utile all’interno di un processo di cognizione in cui le parti hanno già redatto almeno 4 atti scritti ciascuna. Anche in tal caso, sarebbe più ragionevole favorire la rimessione immediata della causa in decisione secondo il modello della discussione orale con pronuncia di una sentenza di merito idonea al giudicato.
Circa il tempo della pronuncia dell’ordinanza di rigetto, la legge precisa – e allo stesso tempo confonde il lettore - stabilendo che l’ordinanza è emessa «nel corso del giudizio di primo, all’esito dell’udienza di cui all’articolo 183». A differenza di quella di accoglimento, qui si precisa a chiare lettere che non può essere pronunciata prima dell’udienza di prima comparizione e prima del tentativo di conciliazione. Tuttavia, sebbene la formula sia leggermente diversa, il precetto normativo appare identico.
6. Maggiore effettività del diritto alla prova (ispezione, esibizione e richiesta di informazione alla p.a.).
La riforma mira anche rafforzare il diritto alla prova. L’obiettivo viene perseguito accentuando l’effettività delle ordinanze di ispezione ex art 218, di esibizione ex art. 210 e di richiesta di informazioni alla p.a. ex art. 213.
In particolare, la parte che rifiuta senza giustificato motivo di eseguire l’ordine di ispezione (art. 118, co. 2) senza giustificato motivo è condannata a una pena pecuniaria da 500 a 3.000 euro, fermo in ogni caso il potere del giudice di trarre argomenti di prova dal rifiuto (art. 116, co. 2). Quando l’inadempimento dell’ordine di ispezione riguarda un terzo, il co. 3 dell’art. 118, continua a prevedere la condanna a una pena pecuniaria da 250 a 1.500 euro. Resta invece irrisolto il problema del rifiuto della parte in sede di ispezione corporale preventiva ex art. 696, in quanto nella disposizione appena menzionata il consenso della parte condiziona l’emissione del provvedimento di istruzione preventiva e non la fase di esecuzione: l’ostruzione della parte, impedendo l’emissione dell’ordine, non lascia margine per l’applicazione della pena pecuniaria e rende assai arduo per il giudice del merito desumere argomenti di prova da un dissenso che, seppur non giustificato, sembra comunque configurato nella disposizione come un agere licere[32].
La stessa condanna prevista per l’inadempimento dell’ordine di ispezione è poi estesa all’inadempimento dell’ordine di esibizione. In questa maniera la disciplina dei due istituti viene allineata: se è la parte a essere inadempiente, la pena pecuniaria è compresa tra 500 e 3.000 euro; se è il terzo ad essere inadempiente, la pena pecuniaria è compresa tra 250 e 1.500 euro. Resta fermo il potere del giudice di trarre argomenti di prova dal rifiuto della parte[33].
Queste modifiche, seppur migliorative, rivelano una scarsa efficacia coercitiva, specie se il valore della causa è alto o se il soggetto sanzionato dispone di un cospicuo patrimonio.
Quanto alla richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione viene aggiunto un secondo comma all’art. 213 c.p.c., col quale si fissa un termine di 60 alla p.a. per trasmettere le informazioni ovvero per comunicare le ragioni del diniego.
7. La fase decisoria.
Viene innovata anche la fase decisoria allineando in parte gli schemi procedimentali dinanzi al tribunale collegiale e monocratico, mediante la modifica o l’introduzione degli artt. 189, 275, 275 bis (per il rito collegiale), 281 quinquies e 281 sexies (per il rito monocratico) e l’abrogazione dell’art. 190.
Il punto comune e centrale è la scomparsa dell’udienza di precisazione delle conclusioni, che, peraltro, è una udienza di matrice pretoria, non essendo prevista dal codice come udienza autonoma all’interno dell’iter processuale.
Compare tuttavia l’«udienza di rimessione della causa al collegio» ovvero l’«udienza di rimessione in decisione» (monocratica), che, nel modello di decisione a seguito di trattazione scritta, risulta inutile tanto quanto la precedente udienza di precisazione delle conclusioni[34].
Ad ogni modo, nel nuovo rito, si prevede che, di regola, la precisazione delle conclusioni sia compiuta con il deposito di note scritte, limitate alla formulazione definitiva a puntale delle richieste rivolte al giudice (art. 189, co. 1, n. 1).
7.1. Decisione collegiale.
Nel rito collegiale, spetta innanzitutto al giudice istruttore la scelta dell’iter che segue al deposito delle note di precisazione delle conclusioni. In particolare, il g.i.:
- se ritiene che la causa possa essere decisa a seguito di discussione orale (rectius, trattazione mista) (art. 275 bis), fissa l’udienza di discussione orale dinanzi al collegio e assegna alle parti due termini anteriori all’udienza: uno non superiore a 30 giorni per il deposito delle sole note di precisazione delle conclusioni; uno non superiore a 15 giorni prima dell’udienza per il deposito delle sole comparse conclusionali. All’udienza di discussione, il g.i. fa la relazione della causa e il presidente ammette le parti alla discussione orale. La decisione può poi avvenire in due modi: o all’udienza mediante lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni della decisione, nel qual caso la sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione del presidente; oppure mediante deposito nei successivi 60 giorni.
- se il g.i. non ritiene che la causa possa essere decisa con discussione orale, si applica l’art. 189. Quindi, fissa dinanzi a sé l’udienza di rimessione della causa al collegio e assegna 3 termini: il primo, non superiore a 60 giorni prima dell’udienza di rimessione al collegio, per il deposito delle note di sola precisazione delle conclusioni; il secondo, non superiore a 30 giorni prima dell’udienza, per il deposito delle comparse conclusionali; il terzo, non superiore a 15 giorni prima dell’udienza, per il deposito delle memorie di replica; la sentenza è poi depositata entro 60 giorni dall’udienza (art. 275, co. 1). Come anticipato, l’udienza di rimessione in decisione è, nell’ottica delle parti, del tutto inutile.
- la decisione a seguito di trattazione scritta di cui al punto precedente può tuttavia subire una deviazione per iniziativa anche di una sola parte (art. 275, co. 2 ss.). Con la nota di precisazione delle conclusioni, ciascuna parte può chiedere al presidente che la causa sia discussa oralmente. Resta fermo il termine per il deposito delle comparse conclusionali, mentre viene meno il termine per il deposito delle repliche, perché le argomentazioni a queste riservate potranno essere svolte oralmente in udienza. Dunque, il presidente - sembra in maniera necessitata - provvede alla revoca dell’udienza di rimessione al collegio e fissa l’udienza di discussione orale. Svolta la relazione del g.i. e la discussione orale, la sentenza è depositata entro 60 giorni, mentre non è testualmente prevista la possibilità della pronuncia in udienza mediante lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni della decisione.
Poiché il terzo iter non fa altro che consentire alla parte di ricondurre l’iter decisorio con trattazione scritta al modello misto già previsto dal primo modello (precisazione delle conclusioni, conclusionali e discussione orale), sarebbe stato più razionale riassumere le varianti a due soltanto (scritta e mista) imponendo alle parti di manifestare in anticipo (al più tardi entro la conclusione dell’istruzione) la loro (prevalente) volontà per il modello misto, così da prevenire l’improvviso cambio di binario.
L’art. 189, co. 1, nel regolare la rimessione in decisione a seguito di trattazione scritta (secondo iter sopra descritto) concede alle parti la facoltà di rinunciare ai termini per il deposito dei tre atti scritti (note di precisazione delle conclusioni[35], conclusionali e repliche). Non è chiara la logica di tale rinuncia, che si presuppone comune ad attore e convenuto, dal momento che la parte che non intende depositare il proprio atto è libera di farlo. L’unica spiegazione è che la rinuncia comporti necessariamente la fissazione dell’udienza di rimessione in un termine significativamente più breve di quanto l’iter normale comporterebbe. Tuttavia, le parti non sembrano avere alcuno strumento per imporre al giudice e più in generale all’ufficio questa riduzione di tempi, sicché vien da credere che la rinuncia non sarà frequente nella pratica, neppure quando in principio condivisa dalle parti.
7.2. Decisione monocratica.
La decisione nel rito monocratico è analoga a quella collegiale, salve alcune variazioni.
È il giudice che in primis indirizza la decisione o secondo il modello orale (art. 281 sexies) o secondo il modello scritto o misto (art. 281 quinquies).
Se opta per la decisione a seguito di discussione orale, l’iter è lo stesso del vecchio art. 281 sexies, con la sola differenza che il giudice può pronunciare la sentenza in udienza con la lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni della decisione ma, in alternativa, può, in virtù del nuovo co. 3, depositare la sentenza entro 30 giorni[36]. Dunque, a differenza di quanto previsto dall’art. 275 bis, davanti al giudice monocratico:
- sembrerebbe permanere la precisazione delle conclusioni in udienza (e, dunque, l’abituale udienza di precisazione delle conclusioni), in quanto il co. 1 dell’art. 281 quinquies continua ancora a prevedere che l’udienza di discussione sia fissata dal giudice «fatte precisare le conclusioni». Nulla però impedisce al giudice di fissare un termine per il deposito di note scritte di precisazione delle conclusioni (cfr. art. 189 e 275 bis), così evitando lo svolgimento di un’udienza francamente evitabile;
- l’art. 281 sexies non menziona alcun atto scritto per le argomentazioni conclusive, neppure le memorie conclusionali, il cui deposito è viceversa previsto prima della discussione orale dinanzi al collegio (275 bis). Seguendo la prassi spesso praticata, il giudice resta libero di concedere alle parti un termine anteriore all’udienza per il deposito di brevi note conclusive.
Se invece non opta per la discussione orale, si segue il modello scritto o misto di cui all’art. 281 quinquies.
Il modello di decisione a seguito di trattazione scritta (co. 1) è identico a quello collegiale ex art. 189 (v. supra). E quindi: il giudice fissa l’udienza di rimessione in decisione; fissa un termine non superiore a 60 giorni prima dell’udienza per il deposito delle note di precisazione delle conclusioni; fissa un secondo termine non superiore a 30 prima dell’udienza per il deposito delle comparse conclusionali; fissa infine un terzo termine non superiore a 15 giorni prima dell’udienza per il deposito delle memorie di replica. Scompare quindi l’udienza per la precisazione delle conclusioni perché la relativa attività viene demandata alle note di cui al primo termine ex art. 171 ter, ma compare l’altrettanto inutile udienza di rimessione in decisione. Il termine per il deposito della sentenza è di 30 giorni dall’udienza.
Il modello misto (co. 2), invece, si applica su richiesta di almeno una delle parti. Il giudice fissa solo i primi due termini di cui all’art. 189 (note di precisazione delle conclusioni e memorie conclusionali) e l’udienza di discussione orale. A differenza di quanto previsto nell’art. 275, qui la richiesta non deve essere fatta con le note di precisazione delle conclusioni. Anzi, poiché il giudice da subito dovrebbe incanalare la decisione secondo il modello di trattazione mista, la richiesta delle parti dovrebbe pervenire prima che il giudice fissi l’udienza di rimessione in decisione, di fatto impedendola in favore della fissazione dell’udienza di discussione. Poiché però oggi non c’è più la preliminare udienza di precisazione delle conclusioni, idonea in passato a veicolare una simile richiesta, occorre ammettere che la parte possa manifestare, in ogni momento, anche con largo anticipo (con gli atti introduttivi o comunque fino alla conclusione dell’istruzione) la volontà di procedere con decisione a seguito di trattazione mista. Non è chiaro invece se possa manifestare tale volontà anche dopo che il giudice abbia già fissato l’udienza di rimessione in decisione secondo il modello scritto, ad esempio servendosi delle note di precisazione delle conclusioni come peraltro previsto nel rito collegiale (cfr. art. 275, co. 2). Nulla vi osta. Peraltro, a differenza del rito collegiale, la deviazione dal binario della trattazione scritta sarebbe qui più modesta: il giudice, preso atto della volontà della parte, può limitarsi a revocare il termine per il deposito delle repliche e a trasformare l’udienza di rimessione in decisione in un’udienza di discussione orale[37].
8. La riduzione della competenza del collegio e i rapporti tra collegio e giudice monocratico.
Qualche novità è prevista anche per il processo di cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione collegiale.
La legge delega consentiva di «ridurre» le controversie riservate al collegio, in ragione della loro oggettiva complessità giuridica e rilevanza economico-sociale (art. 1, comma 6, lett. a).
La delega è stata attuata abrogando i n. 5 e 6 del comma 1 dell’art. 50-bis, così sottraendo alla competenza del collegio le «cause di impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea e del consiglio di amministrazione, nonché nelle cause di responsabilità da chiunque promosse contro gli organi amministrativi e di controllo, i direttori generali e i liquidatori delle società, delle mutue assicuratrici e società cooperative, delle associazioni in partecipazione e dei consorzi» e le «cause di impugnazione dei testamenti e di riduzione per lesione della legittima».
Inoltre, è attribuita al giudice monocratico anche la competenza a decidere sulla querela di falso (v. artt. 225 e 226).
La riforma innova poi anche la disciplina delle conseguenze dell’errata rimessione della causa al collegio anziché al giudice monocratico e viceversa.
L’assetto normativo ante riforma imponeva una rinnovazione della fase conclusiva del processo in ossequio alle forme prescritte per il rito corretto. Infatti, il giudice monocratico, se la causa era stata erroneamente riservata per la decisione davanti a sé, doveva provvedere ai sensi degli art. 187, 188 e 189 c.p.c. (art. 281 octies, vecchio testo). Specularmente, il collegio, in caso di errore uguale e contrario, rimetteva la causa al giudice monocratico perché provvedesse ai sensi degli artt. 281 quater, 281 quinquies e 281 sexies (art. 281 septies, vecchio testo).
La riforma, invece, tende a eliminare la rinnovazione degli atti conclusivi delle parti, specialmente di quelli scritti.
In particolare, se è il collegio a rilevare l’errore, rimette la causa al giudice monocratico con ordinanza non impugnabile, affinché decida senza fissazione di ulteriori udienze (art. 281 septies). Il che è ragionevole: poiché nel giudizio collegiale la rimessione in decisione è avvenuta secondo il modello scritto o misto (artt. 189, 275 e 275 bis) – che sono sostanzialmente identici a quelli previsti anche per il rito monocratico (art. 281 quinquies) - non vi è ragione di rinnovare gli atti scritti già redatti e le udienze già svolte. La sentenza è depositata entro i successivi 30 giorni dall’ordinanza.
Se è il giudice monocratico a rilevare l’errore, rimette la causa al collegio con ordinanza comunicata alle parti. Il collegio decide direttamente la causa, salvo che entro dieci giorni dalla comunicazione almeno una delle parti non richieda la fissazione dell’udienza di discussione orale davanti al collegio, nel qual caso il giudice istruttore avvierà la causa secondo il modello di decisione a seguito di trattazione mista ex art. 275 bis (art. 281 octies). Una nuova trattazione mista è forse ragionevole nel caso in cui davanti al giudice monocratico si sia svolta una discussione puramente orale e, anzi, in tale evenienza, la trattazione scritta dovrebbe imporsi anche a prescindere dalla richiesta di una delle parti. La richiesta di parte produce viceversa una duplicazione di attività se davanti al giudice monocratico si è già svolta una rimessione in decisione nelle forme della trattazione mista o scritta. In tali casi, sarebbe stato più ragionevole consentire alla parte di chiedere esclusivamente la fissazione dell’udienza di discussione orale, senza ulteriori depositi di atti scritti.
Viene infine aggiunto un secondo comma all’art. 281 novies, che disciplina la connessione tra cause che devono essere decise dal tribunale in composizione monocratica e cause che devono essere decise dal tribunale in composizione collegiale. Dopo il primo comma, che sancisce la competenza del collegio a decidere le diverse cause cumulate, salva la separazione, si dispone che «Alle cause riunite si applica il rito previsto per la causa in cui il tribunale giudica in composizione collegiale e restano ferme le decadenze e le preclusioni già maturate in ciascun procedimento prima della riunione».
La disposizione sembra riferirsi a un’ipotesi di riunione successiva di cause (artt. 40 e 274), una (o alcune) di competenza monocratica e l’altra (o le altre) di competenza collegiale. In tal caso, si fa prevalere il rito previsto per la causa di competenza del collegio. Ovviamente, la norma presuppone che almeno una delle due cause sia stata trattata con un rito speciale (se fossero tutte trattate col rito ordinario, il problema sarebbe molto limitato, stanti le poche differenze tra il rito ordinario monocratico e il rito ordinario collegiale). La disposizione pone un importante limite: effettuata la riunione, se il rito applicato a una delle cause, in ragione della sua struttura (ad esempio rito camerale) o in ragione del suo stato di avanzamento (fase introduttiva), risulta al momento della riunione ancora “aperto” a nuove domande, a nuove allegazioni o a nuove istanze istruttorie o produzioni documentali, ciò non consente di usare tale apertura per superare le preclusioni già maturate secondo il rito praticato nell’altra causa oggetto di riunione.
La norma esprime un rigore e una geometria invidiabili. In via un poco provocatoria[38], ci si domanda, tuttavia, se sia poi una così grande eresia ammettere che delle preclusioni maturate possano essere superate, ad esempio per effetto di una riunione tra cause, specie ove non abusivamente architettata. Occorre tenere presente che le preclusioni non sono un dogma, ma un compromesso tra un processo a porte spalancate ma (presumibilmente) lento e un processo a cadenze rigide ma pieno di insidie per la stessa tutela del diritto che ne è oggetto. Poiché l’esperienza di 30 anni di processo ordinario caratterizzato da rigide preclusioni non ha dimostrato alcuna significativa accelerazione dei processi, la riforma avrebbe forse fatto meglio a rinegoziare quel compromesso piuttosto che a convalidarlo anche nelle sue più marginali rappresentazioni.
[1] Per riflessioni critiche sul testo dell’art. 46 disp. att. c.p.c., v. in particolare Scarselli, I punti salienti dell’attuazione della riforma del processo civile di cui al decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 149, in questa Rivista e Id., Mala tempora currunt, in Judicium.
[2] Campi fissi diversi rispetto a quelli previsti dalla riforma, utili solo per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo (art. 1, comma 17, lett. d, della legge delega e art. 46, co. 5, disp. att.).
[3] Peraltro, si pone l’esigenza di coordinamento con il modificato art. 182 e con la giurisprudenza della Cassazione. Infatti, ammettendo che il nuovo art. 182 consenta la sanatoria ex tunc anche in caso inesistenza della procura, facendo rientrare nel suo ambito di applicazione anche l’ipotesi in cui la parte si è costituita personalmente al di fuori dei casi previsti dalla legge, basterebbe tale disposizione a tutelare la parte, indipendentemente dalla sussistenza dell’avvertimento. Nel caso invece si dia al nuovo art. 182 una lettura restrittiva alla luce delle considerazioni di Cass. SU 37343/2022 (v. infra nt. 7) oppure si ritenga che la sanatoria ex art 182 può essere applicata in caso di inesistenza della procura ma a condizione che il soggetto costituito sia comunque munito di ius postulandi (cfr. Cass. SU 27 aprile 2017, n. 10414), allora non sarebbe invocabile nella specie l’art. 181 e la sanatoria dell’erronea costituzione del convenuto potrebbe essere raggiunta solo in caso di mancanza dell’avvertimento. In tale evenienza, si evidenzierebbe anche una disparità di trattamento rispetto all’attore che abbia agito personalmente al di fuori delle previsioni di legge, non potendo questi né invocare l’art. 182 né la tutela riservata al convenuto dal nuovo avvertimento.
[4] Fattispecie assai singolare sarebbe quella della parte-avvocato che, potendo difendersi personalmente ai sensi dell’art. 86, non si costituisca e, per l’effetto della mancanza dell’avvertimento, benefici del rinvio di udienza presumendosi che egli – professionista forense - non sapesse della facoltà di difesa personale concessa dall’art. 86.
[5] Considerando il nuovo sistema di memorie integrative anteriori all’udienza, il convenuto che voglia ottenere l’anticipazione dell’udienza dovrà costituirsi molto prima della scadenza del termine che in astratto l’art. 163 bis gli concede per avanzare la richiesta, ossia il termine minimo a comparire. Infatti, in precedenza, ipotizzando un’udienza fissata a 180 giorni dalla notificazione della citazione (90 giorni oltre il termine minimo), il convenuto poteva chiedere l’anticipazione dell’udienza costituendosi comunque entro il termine minimo, ossia entro 90 giorni dalla notificazione, ed era tutto sommato possibile che, pur costituendosi il 90° giorno, il presidente anticipasse l’udienza, ad esempio, di almeno 50-60 giorni (ripristinando l’udienza a 120-130 giorni dalla citazione). Ipotizzando la stessa situazione oggi, ossia un’udienza fissata a 210 giorni dalla notificazione della citazione, il convenuto, per chiedere l’anticipazione, dovrebbe in teoria costituirsi entro 120 giorni dalla notificazione. Ma, se si costituisse il 120° giorno, non riuscirebbe ad ottenere materialmente l’anticipazione, perché la nuova data di udienza dovrebbe essere fissata in modo da consentire comunque al giudice di svolgere le verifiche preliminari ex art. 171 bis (e non sarebbe nemmeno facile stabilire il termine: 15 giorni dal decreto del Presidente?) e alle parti di beneficiare di un congruo termine per redigere e depositare la prima memoria integrativa, che ai sensi dell’art. 171 ter, deve essere depositata almeno 40 giorni prima dell’udienza. In questa prospettiva, è ipotizzabile un’anticipazione di 10-20 giorni al massimo, con effetto quasi impercettibile rispetto all’udienza fissata dall’attore a 210 giorni dalla notificazione. Ecco dunque confermato che l’attore, che voglia ottenere una sostanziale anticipazione dell’udienza, dovrà costituirsi con notevole anticipo rispetto alla scadenza del termine concesso dall’art. 163 bis.
[6] Ossia, ipotizzando la contumacia dell’attore o di uno dei più convenuti (o chiamati): la produzione di scrittura privata ex C. cost. 6 giugno 1989, n. 317 e le domande nuove eventualmente proposte dal convenuto.
[7] La riforma precisa che anche la mancanza di procura è sanabile ex tunc al pari della procura viziata: il nuovo art. 182, co. 2, primo periodo, recita infatti «Quando rileva la mancanza della procura al difensore oppure un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione che ne determina la nullità, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l'assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa». La novità sembrerebbe dunque superare l’orientamento restrittivo avallato anche dalle Sezioni Unite sul vecchio art. 182, secondo cui è esclusa la sanatoria ex tunc della procura inesistente (Cass. SU 21 dicembre 2022, 37434). Sennonché le stesse Sezioni Unite, confrontandosi obiter con il nuovo testo dell’art. 182 riformato, evidenziano che il nuovo termine «mancanza» possa intendersi, in maniera più aderente al contesto normativo (artt. 125, co. 2, 165,166 e 168 c.p.c. e art. 72 disp. att.), come mero «mancato inserimento fra le carte processuali della procura esistente» e non come espressione di una vera e propria inesistenza della procura. Pertanto, nonostante l’intervento delle Sezioni Unite e nonostante una esplicita modifica dell’art. 182, è facile pronosticare che le vecchie questioni verranno a riproporsi in maniera pressoché identica. In rpecedenza si è peraltro evidenziato come sulla questione si rifletta anche la previsione del nuovo avvertimento di cui al n. 7 dell’art. 163 (v. supra nt. 3).
[8] Il che non significa che debba tenere udienza in quella data, ma semplicemente che quella data resterà ferma per il computo dei termini a ritroso.
[9] V. Cass. 26 novembre 2020, n. 26900; Cass. 14 settembre 2017, n. 21335.
[10] Cfr. anche Giordano, Più ombre che luci nel nuovo processo civile di primo grado, in Giustizia civile.com, 19 ottobre 2022.
[11] Si rinvia a F. Cossignani, Gli interventi sul processo di cognizione (di primo grado), in AA.VV. Il nuovo processo civile, Bari, 2023, 78 ss.
[12] Condivisibili sono dunque le considerazioni svolte da M. Gattuso, La riforma governativa del primo grado: le ragioni di un ragionevole scetticismo e alcune proposte organizzative ancora possibili, in Questione Giustizia, 2021, fasc. 3, 55 ss., spec.60 s.
[13] In base al testo della legge delega, in verità, ci si poteva attendere una diversa costruzione della fase integrativa (F. Cossignani, op. cit., 81 ss.), rispetto a quella poi delineata in concreto dal legislatore delegato. Infatti, dalla lettura della legge delega, sembrava che non vi dovesse essere più contestualità tra la memoria integrativa dell’attore e quella del convenuto, in quanto quella di quest’ultimo veniva legata a un «successivo termine». Quindi, un primo termine sembrava concesso al solo attore per il deposito della sua memoria integrativa; un secondo termine sembrava concesso al solo convenuto per il deposito della corrispettiva memoria integrativa; e un terzo termine sembrava infine concesso ad entrambi per «replicare alle domande ed eccezioni formulate nelle memorie integrative e indicare la prova contraria». La legge delega, quindi, prospettava due memorie per ciascuna e non tre (v. infra nel testo).
[14] La giurisprudenza, pur avendo allargato la nozione di emendatio (cfr. Cass., sez. un., 15 giugno 2015, n. 12310), ha sempre tenuto distinte le vere e proprie domande nuove, ammissibili nei limiti di legge solo se formulate all’udienza, dalla modifica delle domande già formulate, concessa anche nella prima memoria ex art. 183, co. 6: v. Cass., 26 novembre 2019, n. 30745, in Giur. it., 2020, 1106, con nota di C. Perrone. Il principio è pacifico e di recente è stato ribadito anche da Cass, 3 febbraio 2022, n. 3298.
[15] Come già osservato al § precedente, se il giudice viola il termine di 15 giorni per confermare l’udienza o se la sua osservanza non consente comunque di garantire alla parte un termine di 15 giorni per il deposito della prima memoria – per effetto della scadenza anticipata del termine a ritroso che scade il sabato o la domenica – il giudice dovrà necessariamente differire la prima udienza esercitando il potere concessogli dall’art. 171 bis, co. 3 (che diviene dunque un dovere). Il termine minimo di 15 giorni potrebbe poi dilatarsi fino a un massimo di 29 giorni nel caso il giudice emetta il provvedimento di conclusione delle verifiche già il giorno successivo alla scadenza del termine di costituzione del convenuto e, infine, potrebbe dilatarsi ulteriormente fino a un massimo di 74 giorni, ove, oltre alla massima solerzia del giudice in sede di verifica, sia disposto anche il rinvio dell’udienza di 45 giorni ai sensi del co. 3 dell’art. 171 bis.
[16] V. supra nt. 9.
[17] V. Cass. SU, 23 febbraio 2010, n. 4309, che argomenta in ragione della ragionevole durata del processo e, più di recente, Cass. 28 marzo 2014, n. 7406, Cass. 12 maggio 2015, n. 9570 e Cass. 13 febbraio 2020, n. 3692, le quali invocano generiche “ragioni di opportunità”. L’orientamento è discutibile perché la chiamata del terzo da parte del convenuto è uno strumento di difesa il cui esercizio non è sottoposto dalla legge ad alcun vaglio da parte del giudice (Chiarloni, Prima udienza di trattazione, in Le riforme del processo civile, a cura di S. Chiarloni, Bologna, 1992, 189, parla di «manifestazione ‘originaria’ del suo diritto di difesa»), fatta eccezione per la sussistenza della connessione con la domanda attorea (comunanza di causa e rapporto di garanzia). Peraltro, risulta che i giudici di merito abbiano fatto applicazione del potere discrezionale riconosciuto dalla Cassazione anche in controversie che non erano mature per la decisione alla prima udienza o che comunque non si sono rivelate tali all’udienza di prima comparizione (ad esempio, Trib. Fermo, 29 aprile 2022, inedita), quindi intendendo le ragioni di opportunità e la ragionevole durata del processo in maniera piuttosto arbitraria. Si potrebbe dunque ritenere che la clausola di salvezza di cui al nuovo art. 183, co. 2, richiamando la causa matura per la decisione, da un lato implicitamente confermi il potere del giudice di escludere la chiamata del terzo, ma che, dall’altro, valga a limitarne la discrezionalità, pretendendo che la negazione della legittima facoltà attribuita alla parte sia ammissibile solo a condizione che la controversia possa essere subito avviata alla sua finale definizione.
[18] Si può però anche ipotizzare un rigetto de plano con decreto, senza previa instaurazione del contraddittorio.
[19] Il rigetto dell’istanza non porta con sé la pronuncia sulle spese, potendo queste essere regolate con la sentenza finale (cfr., in materia cautelare, l’art. 669 septies, co. 2)
[20] La scelta non pone alcun problema di uguaglianza ex art. 3 Cost. o di garanzia del diritto di azione e difesa ex art. 24 Cost.. Non si tratta di istanza cautelare (cfr. C. cost., 23 giugno 1994, n. 253 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 669 terdecies nella parte in cui, al tempo, non prevedeva il reclamo anche avverso l’ordinanza di rigetto). Inoltre, qui la concessione del reclamo si giustifica in virtù della idoneità dell’ordinanza a definire il giudizio, seppur senza efficacia di giudicato, solo nel caso di accoglimento dell’istanza, idoneità che manca in caso di suo rigetto (il che spiega anche la non impugnabilità anche delle ordinanze anticipatorie di condanna ex art. 183 bis, ter e quater).
[21] Cfr. Metafora, Le nuove ordinanze di manifesta fondatezza e infondatezza introdotte dalla Riforma del processo civile, in Giustizia civile.com, 13 gennaio 2023 e Pezzella, Riforma processo civile: le ordinanze provvisorie di accoglimento e di rigetto della domanda, in ilprocessocivile.it, 15 novembre 2022. Si discute peraltro anche dell’applicabilità in caso di controversie di competenza collegiale, attesa la reclamabilità dinanzi al collegio: cfr. opp. ultt. citt.
[22] In senso contrario, Masoni, Le nuove ordinanze definitorie introdotte dalla Riforma del processo civile, Giustizia civile.com, 9 gennaio 2023.
[23] Sebbene le legge non limiti il campo di applicazione dell’ordinanza ai provvedimenti di condanna, è facile supporre che la parte che ha agito con domanda di mero accertamento o costitutiva di regola non avrà interesse a ottenere una definizione del giudizio con ordinanza priva di giudicato.
[24] Sospetto sollevato già da Scarselli, I punti salienti dell’attuazione della riforma, cit.
[25] Prima della riforma del 2009 (l. 69/2009) il provvedimento cautelare di rigetto ante causam – inidoneo al giudicato al pari dell’ordinanza ex art. 183 ter, seppur di diversa natura - era soggetto, quanto alle spese, all’opposizione ex art. 645 nel termine di 20 giorni dalla pronuncia o dalla comunicazione, presupponendone così la stabilità in caso di mancata opposizione. La l. 69/2009 ha abrogato il co. 3, lasciando impregiudicata la sorte del capo sulle spese (anche in caso di emissione di provvedimento cautelare di natura anticipatoria ex art. 669 octies, co. 7).
[26] In materia cautelare, v. Cass. 24 maggio 2011, n. 11370 e, più di recente, Cass. 1° marzo 2019, n. 6180; Cass. 15 febbraio 2022, n. 4748.
[27] Va da sé che se la parte soccombente decidesse di agire in un autonomo giudizio (o in sede di opposizione all’esecuzione) per l’accertamento negativo del diritto soggettivo oggetto dall’ordinanza, con un’unica iniziativa potrà contestare anche la condanna alle spese, non solo per la sua dipendenza dal capo di merito, ma eventualmente anche per vizi suoi propri.
[28] Cfr. Cass. SU 21 giugno 2018, n. 16415.
[29] Per il dibattito, si rinvia a Mandrioli-Carratta, Diritto processuale civile, I, Torino, 2022, 25 s., testo e note.
[30] Cfr. Costantino, Il processo di cognizione in primo grado, in Costantino (a cura di), La riforma della giustizia civile, Bari, 2021, 184.
[31] In virtù dell’anomalia riscontrata, dunque, si potrebbe ritenere che il legislatore abbia in realtà sposato soluzione sub c), così rendendo necessaria la sentenza di rigetto solo in caso di costituzione della parte, potendosi viceversa risolversi con l’estinzione il giudizio in cui la parte convenuta non si è costituita. Detto in altri termini: se la parte non è costituita, l’esito con ordinanza ex art. 183 quater è escluso così come è escluso l’esito con sentenza (soluzione sub c), cui l’ordinanza infatti è alternativa.
[32] Sulla genesi della disposizione, modificata al riguardo dal d.l. 35/2005 per recepire la declaratoria di incostituzionalità pronunciata da C. cost. 19 luglio 1996, n. 257, e sulle questioni interpretative cui dà luogo, sia concesso rinviare a Cossignani, I provvedimenti di istruzione preventiva, in Carratta (a cura di), I procedimenti cautelari, Bologna, 2013.
[33] L’art. 210 non menziona gli argomenti di prova, ma si applica per analogia l’art. 118 (Cass., 10 dicembre 2003, n. 18833).
[34] L’unica funzione dell’udienza di sola rimessione in decisione (e in precedenza di quella di precisazione delle conclusioni) è quella di consentire al giudice di gestire il proprio carico di lavoro, perché da questa udienza decorre il termine per il deposito della sentenza.
[35] In caso di mancato deposito delle note di precisazione delle conclusioni, si intenderanno richiamate le ultime conclusioni formulate (con l’atto introduttivo o con le memorie ex art. 171 ter).
[36] La novità, che si rinviene come visto anche nella decisione collegiale a seguito di trattazione mista, è dovuta al fatto che la discussione di cui all’art. 281-sexies con pronuncia della sentenza in udienza si era rivelata nella prassi una finzione piuttosto che l’esaltazione del principio di oralità. Infatti, il giudice giungeva all’udienza di discussione con la sentenza già scritta, con la conseguenza che le dichiarazioni orali delle parti difficilmente riuscivano a incidere sull’esito del processo. Ci si augura che la novità porti con sé il ripristino di vere e proficue discussioni.
[37] Nel rito collegiale, invece, la richiesta comporta anche la revoca dell’udienza di rimessione al collegio, che si svolge comunque davanti al g.i., perché essa va sostituita con un’udienza di discussione davanti al collegio.
[38] Il tema infatti è ben più complesso di quanto sia possibile evidenziare in questa sede, sia per l’ampiezza della nozione di continenza a scapito di quella di mera connessione, sia perché è innegabile che la proposizione di una seconda causa connessa alla prima possa costituire in astratto un veicolo per aggirare, tramite la riunione, le preclusioni maturate nella prima: sul tema, di recente, Cass. 2 luglio 2021, n. 18808.
“Nelle scienze sociali si usa pesare, contare e misurare, per non dover pensare”
Nicolàs Gòmez Davila, Escolios a un texto implicito, I, trad. it., pag. 88.
Sommario: 1. La mesiteiafilia ovvero la “passione per il compromesso” - 2. Bilanciamento dei diritti fondamentali? - 3. Una giurisprudenza strabica - 4. Dignità della persona e originaria unitarietà dei diritti fondamentali.
1. La mesiteiafilia ovvero la “passione per il compromesso”.
Non si dice nulla di nuovo affermando che la nostra sembra lasciarsi cogliere – oltre diversi paradigmi possibili - come l’epoca del compromesso, della mediazione e, in definitiva, della vocazione insopprimibile al bilanciamento degli interessi in gioco, esteso perfino ai principi fondamentali.
Basti por mente non solo alle vicende politiche, in realtà da sempre e per loro natura luogo di emergenza di tutti i compromessi possibili; ma anche, in sede giuridica, agli istituti della negoziazione assistita o della mediazione, intesa quale specifico assetto giuridico processualcivilistico oggi capillarmente diffuso e il cui mancato esperimento conduce addirittura all’improcedibilità dell’azione; o, ancora, alla giustizia riparativa, come si va diffondendo nell’esperienza e nella riflessione penalistica degli ultimi anni, quale alternativa alla prospettiva tradizionalmente retributiva.
Ma il settore ove la prospettiva che potrei definire - con un termine aulico ma di indubbia efficacia - di autentica mesiteiafilia[1] (letteralmente, “passione per il compromesso”, perchè mesiteia in greco antico vale “mediazione”, “compromesso”) risulta particolarmente presente, soprattutto negli ultimi anni, è di certo quello dell’esperienza giurisdizionale riferita ai giudizi di legittimità sulle leggi.
In questa prospettiva, territorio particolarmente fertile per far attecchire questo paradigma interpretativo è stato poi il fiorire e l’intensificarsi delle decisioni di “incostituzionalità differita”: sono i casi, ben noti, in cui la Consulta – quasi fosse una terza Camera[2] - si è arrogata il potere – sprovvisto invero di qualsivoglia fondamento normativo – di “bilanciare” gli effetti di una immediata pronuncia caducatrice con quelli derivanti dal mantenimento in vita della norma, benché dichiarata illegittima, dando la preferenza ai secondi, attraverso un differimento ad tempus della abrogazione della norma e subordinandola ad un intervento del legislatore che si muova nel solco indicato dalla Consulta stessa.
Chiunque abbia a che fare con l’esperienza giuridica sa bene insomma come e quanto la Corte Costituzionale, seguita poi a ruota dalla Cassazione e infine dai giudici di merito, abbia avuto cura, da parecchi anni a questa parte, di leggere i principi consacrati nella Carta in modo da combinarne gli effetti operando un ormai noto “bilanciamento” fra quelli che sembravano porsi in una sorta di reciproca contraddizione.
Gli esempi sono talmente numerosi e noti che mi considero qui esentato dal compito di riproporli sia pure in parte.
Ebbene, se il bilanciamento – termine invero poco felice visto che evoca per assonanza la pesatura di formaggi e salami o, nella migliore delle ipotesi, quella messa in opera dall’orefice ( perché invece non parlare di “armonizzazione” ?) – non sembra porre particolari problemi, allorché ad esso si voglia ricorrere quando i “beni della vita” da bilanciare appartengano al regno del disponibile, al contrario, esso solleva molti e gravi interrogativi quando lo si voglia applicare alle dimensioni caratterizzate da una piena indisponibilità.
Quanto appena osservato gode già di buone ragioni quando si tratti in sede giuridica di “principi”, dal momento che il “principio” – ogni “principio” – come già notava Aristotele nella Metafisica[3], è ciò che dà forma all’essere, è ciò da cui scaturisce l’essere delle cose e del mondo e non si vede proprio come si possa bilanciare ciò che non appartiene a questo mondo, perché viene prima e abita altrove - perché delle cose del mondo è la scaturigine - con altro elemento identico quanto alla propria sostanza: sarebbe come pretendere l’assurdo, una cosa oggettivamente non fattibile e illusoria, al modo di chi volesse bagnare l’acqua: certo, costui potrà effondere acqua sull’acqua di un recipiente, ma di certo non potrà mai bagnarla, perché pensare di poterlo fare sarebbe ridicolo.
E dunque come l’acqua è già bagnata di suo perché la sua essenza consiste proprio nell’esserlo, senza che possa bagnarsi “di nuovo”, ogni “principio” è tale di suo, senza che possa mescolarsi con altri “principi” né per nutrirsene né per bilanciarsi con qualcuno di essi.
Insomma - e chiedendo venia per l’insistito paragone - così come l’acqua non può esser bagnata perché è essa stessa a bagnare le cose del mondo, allo stesso modo il principio non può esser bilanciato perché è esso stesso a bilanciare i beni della vita.
Ciò accade propriamente perché ogni principio si lascia cogliere come un “assoluto”, vale a dire – è cosa ben nota - come una dimensione sciolta da qualunque condizionamento, del tutto priva di vincoli di sorta, pena un destino di dissoluzione.
Orbene, i nostri testi di legge, le disposizioni costituzionali e anche quelle dei trattati internazionali adoperano in realtà un lessico diverso, in quanto l’aggettivo in uso è quello di “fondamentale”, declinato di solito al plurale allorché si chiamano in causa i “diritti fondamentali”.
Tuttavia, pare di tutta evidenza che con tale locuzione si voglia fare riferimento proprio alla “assolutezza” di tali diritti, al fatto che essi, in quanto svincolati da qualunque sorta di condizionamento e di compromissione possibile, sono posti a “fondamento” di tutti gli altri e dell’intero sistema dello Stato di diritto.
Prova ne sia che i diritti umani – l’affermazione indiscussa dei quali in tutte le sedi nazionali e internazionali può considerarsi il tratto caratterizzante dell’epoca contemporanea a partire dal secondo dopoguerra – vengono abitualmente qualificati come “fondamentali”, proprio allo scopo dichiarato di sottrarli ad ogni possibile compromissione, decretandone una inviolabilità di sapore addirittura sacrale[4].
Eppure, ciononostante, sbarazzandosi in modo tutto sommato abbastanza disinvolto di una pur necessaria cautela teoretica e giuridica, la giurisprudenza costituzionale, quella di legittimità e quella di merito da circa un ventennio hanno individuato, utilizzandolo come criterio ermeneutico privilegiato, l’ormai celeberrimo “bilanciamento dei diritti fondamentali”.
Ma questa opzione interpretativa così spesso e così spregiudicatamente messa in opera è giuridicamente ammissibile? In che senso i diritti fondamentali si possono impunemente bilanciare?
2. Bilanciamento dei diritti fondamentali?
Non essendo certamente questa le sede per censire le varie posizioni che si sono evidenziate nella nutrita riflessione che nel tempo si è affaticata nel tentativo di rispondere a questi interrogativi[5], mi limito ad osservare come meritevole di particolare attenzione sia la conclusione offerta per un verso da Luigi Ferrajoli[6] e per altro verso da Riccardo Guastini, il quale giunge, non senza ragione, ad affermare che il termine “bilanciamento” sarebbe soltanto un sinonimo di “soppressione”, in quanto produrrebbe semplicemente, in relazione al caso concreto, la scomparsa di un diritto (fondamentale) a vantaggio di un altro ( parimenti fondamentale).[7]
Entrambi questi studiosi, sia pure attraverso un diverso itinerario logico-giuridico, mettono dunque radicalmente in dubbio che fra diritti fondamentali possano esistere autentici conflitti da sciogliere attraverso un appropriato bilanciamento.
E in effetti, il punto da problematizzare pare proprio questo, dal momento che ogni bilanciamento suppone logicamente un conflitto fra diritti fondamentali e, implicitamente, la possibilità di individuare una sorta di gerarchia mobile – in quanto da adattare di volta in volta alle esigenze del caso concreto – capace di risolvere ogni contrapposizione.
Alla domanda se perciò possa ipotizzarsi un simile conflitto, mi pare tuttavia si debba rispondere in modo risolutivamente negativo: no, fra diritti fondamentali non è possibile ipotizzare alcuna forma di conflitto né, di conseguenza, rapporti di gerarchia che facciano prevalere l’uno a scapito dell’altro (neppure parzialmente), quale esito di un possibile bilanciamento.
Si tratta ovviamente di spiegare perché.
Il conflitto – ogni conflitto – suppone infatti che gli elementi che confliggono siano fra di loro separati in punto di fatto o almeno separabili concettualmente, in modo tale da contrapporli l’uno all’altro in chiave antagonista, delegando poi alla capacità di chi ne operi il bilanciamento il potere di sancire la priorità del primo o del secondo.
Nulla di più accattivante per la mentalità – anche giuridica – contemporanea, avvezza ormai da tempo ad assumere quale paradigma epistemologico tendenzialmente esclusivo quello proprio della conoscenza scientifica, a scapito di una prospettiva genuinamente filosofica, abbandonata e stigmatizzata, anche dai giuristi, quale inutile relitto metafisico di un passato ormai superato.
Infatti, dal momento che la scienza, per conoscere, seziona e suddivide l’oggetto della propria indagine – ed è bene che così faccia (si pensi all’anatomia o alla biologia) – anche i giuristi, sulla scorta di tale insegnamento e forse mossi dal desiderio di reperire una irraggiungibile certezza del diritto attraverso il paradigma scientifico, si sono avviati sullo stesso sentiero in tema di diritti fondamentali (e non solo).
Per questa ragione, li hanno considerati – seguendo il solco tracciato dalla Corte Costituzionale – come monadi isolate e irrelate, l’una all’altra contrapposta o comunque contrapponibile, in modo che la prima si possa espandere a patto soltanto di comprimere la seconda e viceversa: si pensi per esempio al diritto di riunione contrapposto al diritto alla sicurezza pubblica; oppure, per citare un caso a noi ancora molto vicino, al diritto a non subire trattamenti terapeutici contro la propria volontà contrapposto al diritto alla salute della collettività.
In simili casi, i giuristi hanno messo in opera un “bilanciamento” fra i contrapposti diritti fondamentali, finendo naturalmente col farsi orientare vistosamente dalle emergenze politiche del contesto sociale nel cui ambito si evidenziasse il problema da risolvere.
Così, dopo l’attacco terroristico alle “torri gemelle”, seguito da altri attentati a Londra e a Madrid, per un certo tempo il diritto alla sicurezza pubblica ebbe la meglio – negli Stati Uniti - su quello di riunione, che subì per questo una notevole compressione[8].
Allo stesso modo, a causa del diffondersi del virus, l’emergenza pandemica ha indotto il legislatore italiano e spesso anche i giudici di merito a far “pesare” il diritto alla salute della collettività assai di più del diritto a non subire trattamenti terapeutici contro la propria volontà, sancendo addirittura un obbligo vaccinale esteso indiscriminatamente a tutti, senza distinzione alcuna e assistito da apposite forme sanzionatorie[9].
Tutto ciò è stato possibile proprio in quanto i diritti fondamentali sopra menzionati sono divenuti oggetto di un “bilanciamento” - che in definitiva ne elude la fondamentalità – il quale si basa sulla loro contrapposizione, sulla irreale separatezza di ciascuno di essi rispetto a tutti gli altri: qui potenziarne uno significa comprimerne un altro e viceversa.
Ma davvero i diritti fondamentali sono correttamente pensabili in questa prospettiva di irrelata solitudine? Davvero il giurista può seriamente maneggiarli come fossero tessere di un domino che assegni la vittoria e la sconfitta a seconda di quella che di volta in volta venga deposta sul tavolo da gioco?
3. Una giurisprudenza strabica.
Nutro molti dubbi in proposito.
A ben guardare, infatti, i diritti fondamentali non possono in alcun modo essere considerati quali autosufficienti e separati ciascuno dall’altro, se non a patto di operare un pericoloso riduzionismo che, non rendendo affatto ragione della loro reale sostanza umana e giuridica, apre la strada a gravi equivoci esiziali per la tutela dei diritti delle persone.
Errore, questo, in cui purtroppo ormai cade spesso la giurisprudenza non solo ordinaria ma anche amministrativa.
Si veda per tutte quelle della giurisdizione amministrativa (ex uno disce omnes) la recente sentenza del Consiglio di Stato (sez. III, 28/2/2022, n. 1381), secondo la quale (pag. 8 della sentenza) “In disparte quanto già osservato sul tema della sicurezza dei vaccini, dette censure si svolgono su una linea di ragionamento che manca di considerare la peculiare posizione dei sanitari e, quindi, la specifica ratio dell'obbligo vaccinale loro imposto, la quale a sua volta rende ragione del punto di equilibrio che il legislatore ha individuato nel bilanciamento tra la libertà di autodeterminazione del singolo e le esigenze di interesse pubblico e tra queste, in primis, quelle concernenti la "tenuta" dei presìdi ospedalieri e la garanzia, per chi necessita di cura ed assistenza, di poterle ricevere in condizioni di massima sicurezza e di minor rischio di contagio possibile (v. par. 31.2 -31.9 della sentenza n. 7045/2021)”.
Ora, tacendo l’uso sgangherato – ma evidentemente frutto di un subdolo refuso - della locuzione avverbiale “in disparte”[10], foriero di un possibile equivoco semantico, siamo in presenza del paradigma qui criticato, in forza del quale si tenta ( senza riuscirvi) di legittimare un bilanciamento fra libertà di autodeterminazione terapeutica del singolo, da un lato – destinata a cedere - e interesse pubblico a ricevere le cure necessarie in condizioni di sicurezza e di ridotto rischio di contagio, dall’altro – destinato a prevalere.
Nulla di più errato, in quanto, così opinando, ci si basa su di una visione astratta delle cose, frutto compiuto ma irrisolto di un intellettualismo post-illuminista tanto autoreferenziale, quanto distante dalla realtà e perciò privo di ragione: eppure, è proprio questo che Tribunali e Corti hanno spesso fatto nel caso in esame, qui assunto come paradigma ermeneutico di riferimento.
Pochi giorni fa è incorsa nel medesimo errore la Consulta, la quale in due recentissime sentenze circa la legittimità dell’obbligo vaccinale, afferma:
“È costante, nella giurisprudenza costituzionale, l’affermazione della centralità di tale principio ( quello del bilanciamento: n.d.r.), soprattutto in ambito sanitario, in considerazione del «rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività» (sentenza n. 307 del 1990): «in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno può essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico» (ancora sentenza n. 307 del 1990, richiamata anche dalla sentenza n. 107 del 2012)” (sentenza n. 14 del 2023).
E ancora:
“Il bilanciamento dei principi sottesi agli artt. 4, 32 e 35 Cost., realizzato dal legislatore nella individuazione dei tempi e dei modi della vaccinazione, risulta perciò esercitato negli artt. 4, comma 7, e 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, in modo non irragionevole” ( sentenza n. 15 del 2023).
In sostanza, sia il Consiglio di Stato che la Corte Costituzionale hanno adottato una prospettiva strabica che si è conformata al modello epistemologico della scienza, la quale, per conoscere – come ho già notato – ha bisogno di segmentare le cose del mondo, di parcellizzarle allo scopo di analizzarle una per una, mentre poi soltanto raramente e con fatica esse saranno riunificate in una visione d’insieme, che tuttavia sarà compito di un'altra scienza o di una sensibilità genuinamente filosofica e insieme giuridica inaugurare[11].
L’errore epistemico di quella giurisprudenza appare in tutta la sua evidenza sol che si ponga mente ad una celeberrima riflessione di Hegel, qui assunta non quale riferimento filosofico universale, ma come semplice paradigma conoscitivo di carattere non strettamente scientifico.
Ebbene, il pensatore di Stoccarda, in una pagina assai nota, scrive: “Il boccio dispare nella fioritura, e si potrebbe dire che quello viene confutato da questa; similmente, all’apparire del frutto, il fiore vien dichiarato una falsa esistenza della pianta e il frutto subentra al posto del fiore come sua verità. Tali forme non solo si distinguono, ma ciascuna di esse dilegua sotto la spinta dell’altra, perché esse sono reciprocamente incompatibili. Ma in pari tempo la loro fluida natura ne fa momenti dell’unità organica, nella quale esse non solo non si respingono, ma sono anzi necessarie l’una non meno dell’altra; e questa eguale necessità costituisce ora la vita dell’intero”[12].
Sicché Hegel può concludere che “Il vero è l’intero”[13].
Cosa vuole dirci con queste dense considerazioni il filosofo tedesco?
Egli intende rimarcare evidentemente come ogni verità umanamente rilevante ( e quella del diritto lo è per definizione ) non possa che lasciarsi cogliere nella necessaria dialettica di tutti gli elementi che contribuiscono a costituirla, perché, mancandone uno soltanto, essa si dissolve in una astratta parcellizzazione che, della verità, non è che la sterile controfigura, il controcanto stonato e nullificante.
Ne viene che, nell’esempio qui adottato, ritenere che l’interesse della collettività alla tutela della pubblica salute, da un lato, sia cosa diversa del diritto della singola persona a non ricevere trattamenti sanitari contrari alla sua volontà, dall’altro, al punto da ipotizzare un conflitto fra le due dimensioni, risolvibile soltanto tramite l’espediente tecnico del bilanciamento, significa oltrepassare la soglia del reale, per perdersi nelle nebbie dell’indeterminato, del non rappresentabile[14].
Infatti, come senza il fiore non ci potrà mai essere il frutto, allo stesso modo, senza la tutela reale e specifica della salute del singolo (anche nella forma indiretta del diritto a non subire trattamenti obbligatori) non ci potrà mai essere quella della collettività; e come il fiore è contenuto nel frutto, allo stesso modo, la salute del singolo è insita in quella della collettività.
Operare come se così non fosse, simulando una opposizione fra le due dimensioni da risolvere tramite un ipotetico bilanciamento, significa ripudiare la verità dei rapporti umani e giuridici per seguire il loro fantasma[15], al modo di chi si ostinasse ingenuamente ad affermare – contro ogni evidenza della realtà – che la verità della pianta risieda tutta e soltanto nel frutto, mentre il fiore le sarebbe del tutto estraneo ed anzi sarebbe da contrapporre al frutto: conclusione, questa, tanto irreale quanto botanicamente insostenibile.
Eppure, è proprio questo che è accaduto, come in modo esauriente dimostrano non solo la sentenza del Consiglio di Stato e quelle della Consulta sopra richiamate ma anche numerose altre, sia della giurisdizione amministrativa che di quella ordinaria, che si pongono sulla stessa linea e che qui si danno per conosciute.
In altri termini, tali decisioni hanno uniformemente affermato, sia pure con qualche lieve distinzione, che il diritto fondamentale del singolo deve cedere – in sede di bilanciamento – rispetto a quello della collettività, perché questo va riconosciuto essere, per varie ragioni, “più fondamentale” di quello ( il che induce al sorriso).
Ora, pure a prescindere dalle suggestioni che in via sub-liminale può aver prodotto La fattoria degli animali di Orwell - nella quale, come è noto, alcuni animali sono “più eguali” degli altri[16]- solo immaginare possibile una gerarchia fra diritti fondamentali da individuare e far valere in sede giuridica, tramite il meccanismo del bilanciamento, stupisce per la fragilità teoretica che vi è sottesa[17].
E ciò perché, come sopra si è argomentato, i diritti fondamentali sono consustanziali l’uno all’altro, al punto che chi ne nomina uno li contempla indistintamente tutti: libertà in tutte le sue declinazioni ( di pensiero, di culto, di espressione, di movimento ecc.), eguaglianza, lavoro, salute ecc. simul stabunt, simul cadent.
Del resto, non potrebbe essere altrimenti, dal momento che tutti i diritti fondamentali, senza eccezione alcuna, trovano la loro scaturigine, e ne sono ciascuno la compiuta espressione, nella dignità della persona umana. Ciascuno di essi, in modo diverso, dice totalmente quella dignità: per questa ragione - e non per altra – si appellano come fondamentali, che vale assoluti, cioè insopprimibili, incomprimibili, non negoziabili e perciò non gerarchizzabili[18].
Non essendo qui possibile scandagliare il tema abissale della dignità personale quale origine dei diritti fondamentali, basterà limitarsi ad alcune considerazioni critiche.
Innanzitutto, è indubbio che la nostra Costituzione si radichi sul principio personalista come origine e fonte indiscussa dei diritti fondamentali in essa consacrati, principio disseminato in molte previsioni normative della Carta tanto numerose quanto conosciute.
Ciò si traduce nella necessità di considerare la singola persona umana – e non una sua astratta ipostasi – come fine ultimo e sovrano della organizzazione statuale in tutte le sue articolazioni.
In altre parole, nell’ambito della cornice dello Stato di diritto costituzionale, lo Stato è in funzione della persona e non la persona in funzione dello Stato.
Naturalmente, queste sono ovvietà consacrate da molto tempo in dottrina e in giurisprudenza, ma occorre ribadirle senza infingimenti perché a volte sono proprio le porte dell’ovvio che vanno tenute ben aperte, per evitare di intraprendere sentieri che – al modo degli Holzwege di Heidegger – non conducono da nessuna parte.
4. Dignità della persona e originaria unitarietà dei diritti fondamentali.
Se dunque è sempre lo Stato che deve porsi l’obiettivo di tutelare la persona umana, in quanto questa è naturalmente connotata da una intangibile dignità, principio e origine di tutti i diritti fondamentali della persona, conviene mettere brevemente in chiaro, di questa, le caratteristiche essenziali.
Sia che si voglia considerare la dignità come il portato della comune creaturalità, propria di tutti gli esseri umani, in quanto ciascuno di noi è imago Dei[19], sia che la si voglia vedere come il proprium dell’uomo in quanto ente morale[20], essa è infatti connotata da precise caratteristiche che qui mi limito ad accennare.
La dignità umana si lascia cogliere quale originaria, indisponibile, irrinunciabile, inviolabile, imperdibile.
Originaria, perché connota, fin dalla sua origine, ogni essere umano in quanto tale.
Indisponibile, perché nessuno può disporne, neppure il suo portatore, sia pure per fini eticamente o socialmente rilevanti.
Irrinunciabile, perché chi ne sia il portatore non può in alcun modo dismetterla.
Inviolabile, perché nessuno e per nessuna ragione, pur offendendola, può eliminarla.
Imperdibile, perché nessuna evenienza, di nessun tipo e di nessuna gravità, può cagionarne la perdita[21].
Quanto precede basta a comprendere come la dignità umana si lasci cogliere quale un assoluto e come di questa assolutezza partecipino in modo pieno e completo tutti i diritti fondamentali che ne siano espressione, al punto che, come già accennato, chi ne nomini uno li contempla tutti[22], in quanto tutti e ciascuno sono appunto elementi costitutivi di quella medesima dignità.
Prova ne sia che Kant – per ribadire tale assolutezza – annotava che ciò che ha un prezzo non ha dignità, mentre ciò che ha dignità non ha prezzo[23].
Ne viene che, in questa prospettiva, soltanto immaginare un bilanciamento fra tali diritti si presenta come operazione oggettivamente impossibile e destinata al fallimento ancor prima di aver inizio[24].
Ecco perché pensare si possa ampliare la sfera di uno dei quei diritti comprimendone un altro in misura corrispondente – che in sostanza è ciò che la dottrina e la giurisprudenza qui criticate hanno fatto e continuano a fare – manifesta soltanto un disagio del pensiero.
Per meglio intendere un tale disagio, rendendolo immediatamente comprensibile, possiamo fare riferimento alle tre virtù teologali – Fede, Speranza e Carità – come predicate dalla tradizione teologica patristica a partire da San Paolo[25].
Ebbene, seguendo la teoria del possibile bilanciamento dei diritti fondamentali, qualcuno ( sprovveduto) potrebbe affermare in sede teologica – per similitudine argomentativa – che ampliando e fortificando la dimensione della Fede, quella della Speranza e quella della Carità ne verrebbero ridimensionate e viceversa.
Ovviamente, nulla di più falso e grottesco: il vero è invece che a misura che si fortifica la Fede, si alimentano Speranza e Carità e viceversa.
Infatti, la Fede alimenta la Speranza e la Carità; la Speranza sostiene la Fede e la Carità; la Carità conferma la Fede e la Speranza: il crescere di ciascuna propizia e implica immancabilmente lo sviluppo delle altre due e giammai un loro grottesco e irreale depotenziamento[26].
E ciò perché le tre virtù teologali – in quanto elargite da Dio - sono dimensioni assolute, sottratte alla disponibilità di chicchessia, così come assoluti, pro modo suo, sono i diritti fondamentali costitutivi della dignità di ogni essere umano, che ne rappresentano l’originaria e inscindibile unitarietà: l’assoluto non tollera alcun tipo di bilanciamento.
Sicché occorre concludere – oltre ogni forma di sofisma argomentativo in cui certa giurisprudenza eccelle - che vista la impossibilità radicale di ogni bilanciamento giuridicamente fondato per le ragioni sopra esposte, sia pure in modo rapido e a volte approssimativo, una tale operazione non fa altro che propiziare la nascita di una sorta di alibi interpretativo, utile a far valere un diritto fondamentale – quello che la casualità dell’emergenza politica mette in luce di volta in volta come più bisognoso di tutela – a scapito di un altro, che al primo viene più o meno arbitrariamente sacrificato, ma senza apertamente ammetterlo (neanche a se stessi).
In questo modo, al pari del medico che, soddisfatto dell’intervento operatorio, perfettamente riuscito, deve però constatare il decesso del paziente, il giurista, soddisfatto della decisione sul bilanciamento, politicamente funzionale, deve constatare l’estinzione dello Stato di diritto, piegato alla ragion politica ( in attesa della successiva, forse urgente ma giuridicamente esiziale, emergenza collettiva)[27] e, con esso, della persona umana, anche in tal modo avviata verso il trans-umanesimo[28], cioè verso il suo definitivo tramonto.
Il fatto è che entrambi hanno visto una parte, ma hanno tragicamente trascurato l’insieme: persuasi di attingere il tutto, son naufragati nel nulla. E, quel ch’é peggio, noi con loro.
[1] Cfr. J. Urbanik, Compromesso o processo? Alternativa risoluzione dei conflitti e tutela dei diritti nella prassi della tarda antichità, in E. Cantarella - J. Mélèze Modrzejewski - G. Thur, Symposion 2005. Vortrage zur griechischen und ellenistischen Rechtsgeschichte , Wien, 2007, pp. 377-400.
[2] E per di più “Alta” o “Altissima” rispetto alle altre due, in quanto queste vengono vincolate a seguire le indicazioni di quella, sotto pena della caducazione di una norma già dichiarata illegittima, ma che, assurdamente lasciata in vita anche per uno o due anni, circola liberamente nell’Ordinamento in qualità di Zombie giuridico, cioè quale entità insieme morta ( perché incostituzionale) e viva ( perché lasciata sopravvivere). A questo orizzonte spettrale siamo ormai giunti, nel silenzio quasi unanime dei giuristi, avvezzi senza rimedio al progressivo smantellamento dello Stato di diritto. Sulla rischiosa espansività della funzione normogenetica della Consulta, mi permetto di rinviare ad un mio studio certo datato, ma ancora significativo, anche perché allora ampiamente discusso con Vezio Crisafulli e pubblicato sulla rivista da lui diretta: Natura e legittimità del giuramento nel processo penale, in “Giur. Costituzionale”, 1981, pp. 2123 – 2161.
[3] IV, 16-19.
[4] Cfr. V. Mathieu, Valori fondamentali del diritto tra protezione e promozione, in Luci ed ombre del giusnaturalismo, Torino, Giappichelli, 1989, pag. 95 ss..
[5] Per una esauriente panoramica sul punto, rinvio a G. Pino, Conflitto e bilanciamento tra diritti fondamentali. Una mappa dei problemi, in “Etica & politica / Ethics & Politcs”, 2006, 1, pp. 1-57.
[6] Cfr. I fondamenti dei diritti fondamentali, in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari, 2001, pp. 277-369.
[7] Cfr. L’interpretazione dei documenti normativi, Giuffrè, Milano, 2004, pag. 219.
[8] Cfr. C. Bassu, La legislazione antiterrorismo e la limitazione della libertà personale in Canada e negli Stati Uniti, in Democrazia e terrorismo. Diritti fondamentali e sicurezza dopo l’11 settembre 2001, a cura di Tania Groppi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2006.
[9] Cfr. Aldo Rocco Vitale, All’ombra del Covid-19. Guida critica e biogiuridica alla tragedia della pandemia, Il Cerchio, Rimini, 2022, soprattutto i capitoli VI e XI.
[10] Il refuso – probabilmente dovuto ad un correttore automatico - è davvero maligno perché propone questa locuzione avverbiale (come sono per esempio: “in ritardo”, “da sempre” ecc.), che significa “isolatamente”, “in modo isolato”, come fosse una preposizione destinata ad introdurre i termini successivi (“…quanto già osservato…” ), cosa che grammaticalmente non è e non può essere. Probabilmente, si intendeva scrivere “A parte quanto già osservato…”. Ne viene che il correttore automatico – come spesso accade - è incorso non in un uso linguistico innovativo, ma in un solenne strafalcione. Sulla nefanda pervasività degli errori, amo ricordare un delizioso aforisma di Goethe, per il quale “Chi sbaglia la prima asola, non si corregge abbottonandosi”.
[11] Per meglio spiegare quanto affermo, si pensi per esempio al caso delle specializzazioni del sapere medico contemporaneo, nel cui ambito l’una ignora tendenzialmente le emergenze dell’altra, sicché, per armonizzarne gli esiti in chiave terapeutica, occorre l’intervento di un sapere di rango superiore destinato a fare ciò che esse non sono in grado di fare: cfr. sul punto le illuminanti pagine di H.G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, tr. It., Milano, 1994, soprattutto il saggio dal titolo Apologia dell’arte medica (anche perché, detto per inciso, la medicina ha dimenticato come suo compito specifico sia curare il malato e non debellare la malattia).
[12] Fenomenologia dello Spirito, tr. It., Firenze, 1988, vol. I, pag. 2.
[13] Op. cit., pag. 15.
[14] Non è da escludere che proprio a questa indeterminatezza, a questa non rappresentabilità siano da ascrivere le molte polemiche nate in epoca pandemica fra diversi schieramenti dell’opinione pubblica, l’uno favorevole ad una vaccinazione di massa ed obbligatoria, l’altro nettamente contrario.
[15] Intendo dire che qualsivoglia sia la determinazione che si voglia dare al diritto a non ricevere trattamenti sanitari non voluti, a seconda del punto di vista da cui lo si osservi – diritto di libertà, diritto alla salute o altro – il succo del discorso non cambia: la tutela del diritto fondamentale della singola persona umana era e rimane il luogo archimedeo dal quale prendere le mosse per giungere, alla fine del percorso, alla tutela della collettività. Invece, le norme varate e le sentenze che le hanno avallate, tramite il ricorso al bilanciamento, hanno seguito il percorso inverso, dimenticando – ed ecco la pura e perniciosa astrazione – che senza le persone la collettività non esiste, perché questa è composta da quelle e non viceversa.
[16] Il che condurrà poi, alla conclusione del racconto – pour cause - alla completa indifferenziazione fra uomini e animali.
[17] Coglie la seria problematicità della questione, ma senza individuarne in pieno la matrice teoretica, F. Rescigno, La gestione del coronavirus e l’impianto costituzionale. Il fine non giustifica ogni mezzo, in “Osservatorio costituzionale”, 2020, n. 3, pag. 1 ss..
[18] Prevengo una scontata obiezione. Si potrebbe infatti ritenere che spesso, contrariamente a quanto affermato nel testo, i diritti di libertà, pur essendo fondamentali, vengono compressi o limitati da norme di legge perfettamente legittime. Si pensi, a titolo esemplificativo, al caso assai frequente in cui il diritto alla manifestazione del pensiero venga limitato dalle norme che puniscono la diffamazione a mezzo stampa. In casi del genere, a ben guardare e per quanto essi siano socialmente frequenti, nessun diritto fondamentale viene tuttavia limitato o compresso. Infatti, prevedere la punizione della diffamazione non significa in alcun modo comprimere la libertà di manifestazione del pensiero, dal momento che diffamare altri non esprime alcun pensiero autentico e degno di questo nome: esprime, al contrario, il nulla del pensiero e perciò non residua alcunché di fondamentale da limitare o da comprimere. Anzi, può dirsi di più. E cioè che i limiti che l’Ordinamento giuridico pone, non essendo destinati alla manifestazione del pensiero, ma al suo contrario – vale a dire al tralignare in altro da se, appunto in diffamazione – risultano assai utili allo scopo di individuare con maggiore chiarezza come e quanto il vero pensiero sia intangibile da chicchessia: essi perimetrano il pensiero autentico versus quello fasullo, difendendo il primo con l’arginare il secondo.
Quanto qui precisato ovviamente vale, mutatis mutandis, per ogni altro diritto fondamentale.
[19] Si tratta della prospettiva teologicamente tralatizia e sviluppata, fra gli altri, da Wilfried Harle, Dignità. Pensare in grande dell’essere umano, trad. it., Brescia, 2013.
[20] Dotato cioè di libertà e responsabilità. Cfr. qui la la nota interpretazione di F. Schiller, nel delizioso saggio - che va ben oltre un confronto con Kant - dal titolo Grazia e dignità, trad. it, 2010, Milano, pag. 59, per il quale “ Dominio degli istinti attraverso la forza morale è libertà dello spirito, e dignità si chiama la sua espressione nel fenomeno” ( corsivi non miei).
[21] Seguo la linea interpretativa di R. Spaemann, Tre lezioni sulla dignità della vita umana, trad. it., Torino, 2011. In esito a queste caratteristiche, va notato come sia ingenuo predicare – come oggi si suol fare con una disinvoltura pari all’insipienza - l’estinzione della dignità in capo a chi sia rimasto disoccupato, a chi si trovi in situazione di precarietà sociale o economica, a chi abbia subito violenza morale o materiale: tutti costoro conservano infatti indistintamente la pienezza della dignità umana loro consustanziale, mentre invece eventualmente a causare un vulnus alla propria dignità saranno stati i comportamenti – appunto indegni - di coloro che siano responsabili di quelle situazioni di particolare fragilità umana e sociale. La vittima non perde mai la propria dignità: indegni sono invece gli atti del suo carnefice (e non il carnefice).
[22] Cfr. V. Mathieu, Privacy e dignità dell’uomo. Una teoria della persona, Torino, 2004, pag. 103 e ss..
[23] Nella Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it., Roma-Bari, 2005.
[24] Ancor più della riflessione filosofico giuridica, come spesso accade, è la pagina della grande letteratura a dischiuderci in modo inequivocabile la percezione certa della inconsistenza teoretica, morale e giuridica di ogni possibile bilanciamento fra i diritti di un solo essere umano, da un lato, e quelli dell’umanità intera, dall’altro. Cfr. F Dostojevskij, I fratelli Karamazov, tr. It., vol. I, Milano, 1964, pag. 314:
“Disse Ivan…:
- Supponi che fossi tu stesso a innalzar l’edificio del destino umano, con la meta suprema di render felici gli uomini, di dar loro, alla fine, la pace e la tranquillità: ma, per conseguire questo, si presentasse come necessario e inevitabile far soffrire per lo meno una sola minuscola creatura, per esempio proprio quella bambinetta che si batteva col piccolo pugno sul petto, e sulle sue invendicate povere lacrime fondare questo edificio: consentiresti tu a esserne l’architetto a queste condizioni? Parla senza mentire.
- No, non consentirei, disse piano Alioscia”.
Con il che abbiamo posto una pietra tombale su ogni possibile bilanciamento. Tuttavia, si lasci ovviamente alla bravura dei nostri architetti del diritto la soluzione del dilemma del bilanciamento dei diritti fondamentali di un solo essere umano, da un lato, e della umanità intera, dall’altro, dal momento che – posti sui piatti di una bilancia – i primi pesano ben più dei secondi: almeno, nello Stato di diritto. Negli Stati totalitari, no. E comunque costoro dovranno prima vedersela non certo con me, ma con… Dostojevskij ( cosa, questa, teoreticamente abbastanza complicata).
[25] Corinzi, I.
[26] Cfr. D. Mongillo, voce Virtù teologali, in “Nuovo Dizionario di Teologia Morale”, Cinisello Balsamo, 1990, pag. 1474 ss..
[27] A null’altro che alla estinzione dello Stato di diritto conducono le recenti sentenze della Consulta citate nel testo in tema di obbligo vaccinale, semplicemente perché adottano il principio che le narrazioni evangeliche riconducono a Caifa: “ E’ meglio che muoia un uomo solo, anziché perisca tutto il popolo” ( Gv., 11, 45-56); mentre il principio assoluto che regge l’intera impalcatura dello Stato di diritto è proprio l’opposto, come sopra letterariamente rappresentato dal grande scrittore russo : “mai è lecito sacrificare o mettere a rischio un solo essere umano, sia pure allo scopo di salvare l’intera umanità”. E ciò perché dentro ogni essere umano, nessuno escluso, viene custodito l’infinito e a nessuno, per nessuna ragione, è lecito disconoscerlo o vulnerarlo. Aggiungo che la Consulta sembra aver pericolosamente dimenticato l’insegnamento che essa stessa aveva impartito con diverse sentenze degli ultimi decenni e soprattutto con la sentenza 19 Aprile 1996, n. 118, secondo la quale “nessuno può essere chiamato a sacrificare la propria salute a quella degli altri, fossero pure tutti gli altri”. In altre sentenze – la n. 218 del 1994 e la n. 5 del 2018 - la Corte Costituzionale, in applicazione del principio di precauzione, afferma che il necessario rispetto dovuto alla persona umana non identifica un valore da bilanciare con altro valore, ma un criterio che presiede al bilanciamento tra l’interesse collettivo alla salute e il diritto personale alla stessa, segnando il limite oltre il quale il legislatore non può comprimere la libertà individuale, fosse anche in funzione dell’interesse collettivo. Oggi purtroppo dobbiamo contemplare una Consulta immemore di se medesima, al punto da smentire le proprie sentenze. Ne viene che per agire in conformità ai precedenti insegnamenti della Corte, l’opera di vaccinazione avrebbe dovuto essere affidata ai medici di base, i soli a poter discernere in scienza e coscienza, tenendo conto della storia clinica di ciascuno, quali soggetti vaccinare e quali no. In tal modo, sarebbe stata assicurata la salute delle persone in prima battuta e, alla fine e concretamente, della collettività intera. Invece, si è fatto il contrario, vaccinando decine di migliaia di persone al giorno, condotte presso gli hub vaccinali, come greggi al pascolo: una massa informe di soggetti – senza nome e senza volto – vaccinati da medici che, al riparo di un apposito scudo penale, nulla sapevano di loro. In tal modo, non solo si è rinnegata la scienza – inorridita da tale procedimento antiscientifico - ma si pretendeva, illudendosi, di giungere alle persone, muovendo dalle masse. In realtà, per ragioni ideologiche, spezzando l’originaria unità fra persone e legame sociale, si è spregiata la dignità umana, per privilegiare l’anonimia astratta delle masse. Un effetto inumano, oggi antigiuridicamente benedetto dalla Consulta, che, lo si sappia o no, ci avvia verso il trans-umanesimo, cioè verso la progressiva irrilevanza, fino alla scomparsa, della persona umana, come già preconizzato nelle pagine di Camus, di Chesterton, di Heidegger, di Anders e di molti altri pensatori contemporanei. Inascoltati.
[28] Vedi nota precedente.
Focus sui programmi di scambio internazionale tra magistrati - 3. La magistratura rumena tra recente passato e immediato futuro
di Andrea Apollonio
[L’articolo segue a Focus sui programmi di scambio internazionale tra magistrati - 2. Il tirocinio presso il desk italiano di Eurojust “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”, I programmi di scambio internazionali tra le Autorità Giudiziarie di Marco Alma e all’Editoriale dedicato all'iniziativa]
Se è vero che la magistratura è lo specchio della società, questo vale sopratutto per quei Paesi che hanno vissuto fino a non pochi anni fa una dittatura, di qualsiasi colore essa sia stata. È vero però che, storicamente, i regimi autoritari che da ultimo sono caduti in Europa sono quelli socialisti: volendone citare i più significativi esempi, nella Germania dell'Est, in Polonia, in Bulgaria, in Romania. Proprio questo è forse il caso più interessante, essendo stato l'ultimo Paese in ordine di tempo ad approdare finalmente ad una pur embrionale democrazia, ed essendo stato l'unico ad avere bagnato nel sangue la transizione, con una rivoluzione (che è stata quasi una guerra civile) scoppiata nel dicembre del 1989 dal bilancio di oltre mille morti. Tra questi, vanno conteggiati anche Nicolae Ceausescu e sua moglie Elena, monarchi assoluti di un popolo da loro stessi ridotto alla fame, fucilati dopo un processo-farsa durato appena qualche ora, con cui è stato calato il sipario su uno dei regimi più aspri e sanguinari della galassia socialista.
Come tutti gli altri corpi sociali, anche la magistratura rumena ha dovuto ben presto fare i conti con un passato ignominioso. Essa era infatti completamente soggiogata al regime, sotto il tallone di un costante ricatto: la famigerata Securitate, il corpo speciale "di sicurezza" che rispondeva direttamente a Ceausescu e spiava sistematicamente buona parte della società rumena, non esitava a rapire, torturare e far sparire tutti coloro che esprimevano un dissenso, giudici compresi. Dissenso che, in ogni caso, nella magistratura era quasi del tutto inesistente; la dobbiamo infatti immaginare come un grigio corpo burocratico parte integrante del regime, chiamato ad applicare lo spirito (socialista) della legge, più che la legge stessa; ed era notorio che la pubblica accusa fosse espressione diretta del Partito, e che tramite i pubblici ministeri si esprimesse la volontà degli oligarchi, e da ultimo dello stesso Ceausescu (una dinamica molto ben descritta, rispetto al periodo fascista, nel romanzo di Sciascia "Porte aperte" e ancor di più nel rispettivo film di Gianni Amelio). Ma questo, in Romania, accadeva fino a ieri l'altro.
Oggi, nel 2022, tra le fila del potere giudiziario non sono più annoverati i magistrati che hanno esercitato le loro funzioni nell'ultimo scorcio del regime. In Romania si può andare in pensione dopo 25 anni di servizio (e molti lo fanno, perché pare convenga), mentre dopo i 60 anni occorrono speciali permessi concessi dal Consiglio Superiore della Magistratura per prolungare, di anno in anno, la loro attività. Oggi, a conti fatti, non rimangono nella magistratura rumena né testimonianze né scomode eredità, direttamente scaturenti da quel periodo. Anche anagraficamente, essa ha chiuso col suo passato, ed appare una magistratura europea a tutti gli effetti, forse anche "più europea" di quella dei Paesi c.d. "occidentali" o comunque fondatori della Comunità. Con poche eccezioni, le toghe conoscono approfonditamente la giurisprudenza sovranazionale (CEDU e UE), la praticano consapevolmente, e quasi a riprova vengono attivati con frequenza i rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia.
Oltre il Danubio si avverte, tuttavia, una certa distanza tra le diverse generazioni che compongono il potere giudiziario. Sopratutto la "nuova" magistratura, composta dalla classe degli Ottanta, da coloro cioè che il regime non l'hanno mai davvero conosciuto e non si trascinano le zavorre culturali di un vissuto gramo e privo di aperture all'esterno, da quei giovani che praticano le lingue, che hanno fatto l'Erasmus nelle capitali europee, che conoscono bene la storia di Falcone e Borsellino, che aderiscono in massa agli scambi promossi dall'EJTN e hanno appuntato sul bavero della giacca, molti di loro, la spilla delle bandiere europea e rumena accostate: sopratutto questa magistratura difende con tenacia la propria indipendenza da un potere politico che non esita a legiferare in senso opposto.
Sotto questo profilo, molte toghe criticano aspramente (ed apertamente) una legge del 2018 che accumula un eccessivo potere sui procuratori generali della Corte d'Appello nei meccanismi di avanzamento verso i più alti livelli della magistratura. È infatti principalmente tramite le valutazioni fornite da costoro che può essere dato corso all'avanzamento in carriera. Secondo alcuni si tratterebbe di un ritorno alla procedura con cui i "superiori gerarchici" fissano i punteggi per ciascun percorso professionale, procedura antecedente all'ingresso della Romania nell'Unione Europea. Del pari, si critica la possibilità di intervento del procuratore generale nazionale sui singoli casi investigativi.
È nel confronto su questi punti (cruciali, per un potere giudiziario inquirente) che si scorge una profonda differenza - culturale, diremmo - tra "vecchia" e "nuova" magistratura. Una spaccatura tra giovani e meno giovani, che come detto si spiega anche anagraficamente e sempre attraverso la cifratura di un buio passato socialista (di per sé estremamente conservatore), che alcuni hanno vissuto, altri no.
La stessa dinamica (lo stesso confronto, lo stesso scontro tra "alta" e "bassa" magistratura: distinzione che in Italia suona anacronistica ma che in Romania, invece, esiste e si avverte) si registra rispetto ad una previsione disciplinare certamente anomala nel contesto europeo, quella cioè che consente al Consiglio Superiore della Magistura di sanzionare una decisione presa da un organo giurisdizionale in difformità alle statuizioni della Corte Costituzionale. Su questo aspetto è intervenuta, censurandola come sostanziale limitazione all'indipendenza dei giudici, tanto la Commissione Europea quanto la Corte di Giustizia, cui è seguita una pronuncia - evidentemente autoreferenziale - della stessa Corte Costituzionale, che rispediva al mittente quei rilievi e coglieva l'occasione per mettere in discussione il primato della legge europea su quella nazionale di rango costituzionale. Un dejà vu, è vero; in molti altri ordinamenti europei (compreso quello italiano) il Giudice delle Leggi - pur con varie sfumature e diversi toni - si è soffermato sulla problematica coesistenza delle Carte, nazionali e comunitarie. Solo che in questo caso il corto circuito involge l'universale principio di indipendenza della magistratura, dal potere politico e dalle sue indirette espressioni. Perché in questo modo, senza troppi giri di parole, è vista, sopratutto dai magistrati più giovani, la Corte Costituzionale di Bucarest (i cui nove membri sono eletti dal Parlamento per due terzi e nominati dal Presidente della Repubblica per il restante terzo): una sorta di moderna evoluzione dell'incestuoso rapporto tra politica e giurisdizione che affonda le sue venefiche radici nella tormentata storia del socialismo rumeno.
Rende l'idea una immagine certamente suggestiva: sia l'intero Parlamento (Camera e Senato), sia la Corte Costituzionale, coabitano la mastodontica Casa Poporului, il mastodontico edificio (il secondo più grande al mondo per estensione, dopo il Pentagono americano) fatto elevare da Ceausescu a sua immagine e somiglianza, per dare sfogo al culto della propria persona, sulle macerie del centro storico di Bucarest.
Ma la legislazione rumena presenta anche aspetti molto evoluti. Colpisce, in particolare, il modo in cui sono stati impostati i principi di trasparenza e comunicazione delle notizie di pubblico interesse negli uffici giudiziari. Come per ogni soggetto pubblico, anche per questi è richiesta la nomina di un portavoce per garantire ai media l'accesso alle informazioni; e nella prassi si organizzano periodicamente conferenze stampa con le quali vengono presentate informazioni sui procedimenti giudiziari più rilevanti. Così, in molti uffici possono trovarsi degli angoli dedicati alla comunicazione, attrezzati in tutto e per tutto: con i podi, i microfoni e i pannelli istituzionali sullo sfondo (su cui campeggia il principio costituzionale di indipendenza: "judecātori sunt independenti si se supun numai legii"). E sempre in ossequio alla trasparenza, in tutti gli uffici pubblici vengono distribuiti all'ingresso depliant e vademecum che spiegano al cittadino il modo con cui egli può accedere alle informazioni di interesse: e la giurisdizione non fa eccezione, al punto che nelle sedi giudiziarie più grandi (es. nelle Corti d'Appello) vi sono dei totem touchscreen che forniscono con estrema facilità le informazioni di tutti i procedimenti pendenti (penali, civili, amministrativi e fiscali, questi ultimi assegnati a sezioni specializzate ma sempre coltivati dalla magistratura ordinaria), ad eccezione dei procedimenti che presentano dati sensibili (es. relativi a violenze di genere o alla sicurezza dello Stato); informazioni che pure possono essere acquisite comodamente da casa, soltanto accedendo al portale dell'ufficio giudiziario (tutti hanno il loro sito web).
Queste conquiste volte ad edificare una casa di vetro in cui il potere giudiziario possa esplicarsi nel solo interesse collettivo sono il risultato, a ben vedere, della fortemente perseguita adesione all'Europa avvenuta nel 2007, punto di arrivo (e relativo punto di partenza) di un progressivo avvicinamento agli ideali democratici che l'Occidente - anche grazie agli esempi dei numi tutelari della giustizia italiana - ha espresso nel tempo. Si è fatto cenno a Falcone e Borsellino, ebbene: nei documenti istituzionali della DIICOT (Direcția de Investigare a Infracțiunilor de Criminalitate Organizată și Terorism), ufficio inquirente specializzato nel contrasto al crimine organizzato e nella cooperazione internazionale, modellato sulla scorta dell'italiana Direzione Nazionale Antimafia ed istituito proprio al fine di rendere più concreto l'obiettivo di aderire all'Unione, si celebrano apertamente i due magistrati italiani quali "eroi" della seconda metà del ventesimo secolo. Non è, la loro, una inutile enfasi, ma la scoperta (dopo il lungo sonno di regime) di un senso di giustizia che, se contrapposto ai poteri criminali d'ogni genere e specie, può e deve essere portato avanti; condotto finanche alle sue estreme conseguenze. D'altronde, non è un mistero che i rumeni da sempre guardino all'Italia come Paese dalle comuni pietre miliari, e con una (talvolta ingiustificata) ammirazione. E dal 2007 questo sguardo si è fatto molto più ampio.
Come l'Europa ha cambiato la vita dei rumeni, essa parimenti ha forgiato, quasi ex novo, un sistema giuridico, che proprio per le sue origini ed il suo sviluppo può essere analizzato come una cartina di tornasole: quale direzione indica la modernità al diritto e ai suoi operatori? Una direzione che, comunque la si giudichi, passa attraverso le più recenti pulsioni della Storia e delle sue complessità: del rapporto tra politica e magistratura da un lato, e tra magistratura e società dall'altro.
Non è e non può essere, ovviamente, la Romania, un luogo di pellegrinaggio per i dogmatici alla ricerca dei grandi edifici concettuali (come può essere l'Italia o la Germania), né dei filosofi del diritto che ricercano il "naturale" spirito della legge (come può essere la Spagna o la Germania), né, ancora, dei pragmatici devoti al parametro aziendalista ed efficientista delle indagini e del processo (come possono essere i Paesi scandinavi): ma da tutti questi Paesi della "vecchia" o comunque dell' "attempata" Europa partono direttrici che confluiscono, oggi, nella grande centrifuga dell'Est: la nuova e più fragile frontiera europea, che da oggi assume come noto il significato di barriera nei confronti delle autocrazie, delle dittature. E il mondo del diritto, come anche l'esperienza rumena dimostra, non è certo chiamato fuori da questa sfida epocale.
*Andrea Apollonio ha frequentato, dal 7 al 18 novembre 2022, un general exchange EJTN in Romania, organizzato dagli uffici del pubblico ministero presso l'Alta Corte di Cassazione e Giustizia di Bucarest e presso la Corte d'Appello di Brasov.
Riforma della giustizia tributaria tra giudici professionali e giudici supplenti
di Alessia Vignoli
La riforma della giustizia tributaria, e la scelta di un giudice professionale, hanno lasciato immutati i termini del problema su quale debba essere il ruolo del giudice rispetto ai vizi degli atti dell’amministrazione finanziaria. Anche con un giudice professionale resterà quindi l’ambigua collocazione della giurisdizione tributaria in una zona grigia tra quella civile e amministrativa, secondo l’equivoca formula dell’impugnazione merito, peraltro superabile anche a legislazione vigente.
Sommario: 1. Giudice professionale e giudice supplente: spunti di riflessione dalla riforma della giustizia tributaria - 2. Dal contenzioso tributario al processo amministrativo, oltre l’impugnazione-merito - 3. I vantaggi di una giurisdizione non sostitutiva sul modello amministrativo.
1. Giudice professionale e giudice supplente: spunti di riflessione dalla riforma della giustizia tributaria
Dopo che con la riforma della giustizia tributaria si è deciso di introdurre la figura del giudice professionale, emerge con maggior evidenza il vero tema trascurato dalla legge n.130/2022, ossia quale debba veramente essere il ruolo del giudice tributario.
L’opzione in favore del giudice professionale è stata netta e anche se troverà ostacoli lungo la sua strada[1], prima o poi troverà attuazione; tuttavia nell’individuare i tratti caratteristici del ruolo del giudice tributario, quello che va tenuto presente, al di là delle indicazioni procedurali che continuano a ricalcare il modello del processo civile, è che, comunque, si tratta di un giudice che valuta l’esercizio di una funzione pubblica (quella impositiva) e ciò dovrebbe condurre a volgere di più lo sguardo verso il modello del giudice amministrativo.
La creazione della nuova magistratura tributaria potrebbe rappresentare l’occasione per rimeditare il tema dell’impugnazione – merito, in cui il giudice tributario ha finito per assumere il ruolo di supplente dell’ufficio fiscale, sostituendosi a quest’ultimo nella rideterminazione della pretesa impositiva. Numerose sono le decisioni della Corte di Cassazione che esprimono e danno attuazione a questo principio; si consideri a mero titolo esemplificativo l’ordinanza n.39660/2021 in cui si legge che: … “In ragione della natura di impugnazione-merito del processo tributario, e del rispetto dei principi del giusto processo diretti a contenere i tempi della giustizia di cui agli artt.111 Cost., 47 CDFUE e 6 CEDU, il giudice, adito in una causa di impugnazione di cartella di pagamento, ove sia accertata l'esistenza di un titolo giudiziale definitivo che abbia ridotto la pretesa impositiva originariamente contenuta nell'avviso di accertamento presupposto, con conseguente insussistenza parziale, rispetto alle originarie pretese, del suo presupposto legittimante, non può invalidare "in toto" la cartella, ma è tenuto a ricondurre la stessa nella misura corretta, annullandola solo nella parte non avente più titolo nell'accertamento originario (Fattispecie avente ad oggetto anche riprese per tributi armonizzati)”.
Certamente nel caso di specie, riferendosi all’impugnazione della cartella di pagamento e dunque ad un atto successivo alla formazione della pretesa impositiva, la decisione è in sé condivisibile; tuttavia il riconoscimento di un ruolo “supplente” del giudice, se applicato in tutte le ipotesi in cui si deve rideterminare una pretesa in contestazione sulla base delle richieste delle parti, rischia di alterare completamente i compiti delle parti nell’attuazione della pretesa impositiva e, soprattutto, di deresponsabilizzare gli uffici fiscali.
L’approdo indiscriminato all’impugnazione-merito si è probabilmente autoprodotto per una serie di concause, a partire dalla tradizione storica del contenzioso amministrativo, riguardante la determinazione dell’imposta, e dalla sua giurisdizionalizzazione avendo riferimento al giudice civile, che forniva rispetto ad esse maggiori garanzie di indipendenza e di terzietà.
Sotto il primo profilo, la remota tradizione amministrativa delle commissioni tributarie consentiva loro la rideterminazione della base imponibile (si parlava infatti di questioni estimative), senza necessità di tornare all’ufficio fiscale; anche le commissioni erano infatti portatrici di un pubblico interesse, e non avevano alcun bisogno di rinviare la vicenda controversa ad un altro organo; ben poteva infatti l’organo amministrativo contenzioso, sovraordinato, sostituirsi al precedente, proprio grazie alla funzione che è chiamato ad esercitare con imparzialità.
Del resto l’evoluzione e le oscillazioni che la giustizia tributaria ha incontrato nel suo lungo cammino sono state messe in evidenza già in altra occasione su questa rivista[2] dove, guardando alle origini del problema, si parla del binomio giudice ordinario-organi del contenzioso, con l’autorità giudiziaria ordinaria che ad esempio nelle prime leggi post Unità d’Italia ha competenza in materia di imposte indirette (salva la possibilità di ricorrere in via amministrativa prima di proporre l’azione giudiziaria), mentre le imposte dirette sono restano riservate agli organi speciali, di natura amministrativa.
Progressivamente, spinti dall’esigenza di chiedere tutela ad un organo indipendente, e terzo e di far riconoscere natura giurisdizionale alle originarie Commissioni tributarie per ovviare alle censure di cui all’art.102 Cost., non è restato che rivolgersi al modello consolidato che consentiva di confrontarsi con la prima autorità indipendente di riferimento, individuata nel giudice civile; si è così realizzato quello che in altra sede e con altra finalità è stato definito il passaggio dal contenzioso al processo[3].
Sarebbe stato più ragionevole il passaggio dal contenzioso amministrativo al processo amministrativo, anziché al processo civile; il giudice, nella determinazione dei presupposti economici d’imposta, ha infatti assunto il suddetto ruolo sostitutivo dell’ufficio mentre, invece, detta ri-determinazione dovrebbe restare riservata all’ambito amministrativo, con le precisazioni che seguono.
2. Dal contenzioso tributario al processo amministrativo, oltre l’impugnazione-merito
È evidente come il modello dell’impugnazione-merito rischia commistioni tra funzione sostanziale e funzione giurisdizionale che nel diritto amministrativo sono ben distinte.
Come rilevato da Lupi[4], il modello più efficiente quando la controparte è un soggetto che esercita una pubblica funzione è la forma del reclamo all’autorità politica, da cui ha preso le mosse la giurisdizione amministrativa; essa infatti individua errori, senza sostituirsi alle conoscenze e alle esperienze multiformi dei diversissimi sottostanti uffici pubblici.
Nel lavoro di F.G. Scoca sull’interesse legittimo[5], la “separazione” tra il ruolo del giudice e quello dell’amministrazione mi pare ben evidenziata nella formula secondo cui: …I giudici non curano interessi; li tutelano, se ingiustamente lesi. Questo perché la cura dell’interesse pubblico spetta all’amministrazione che ne è responsabile, nel nostro caso agli uffici tributari nella determinazione dei presupposti economici d’imposta.
Sempre in ambito amministrativo la “confusione” (intendendo per tale il concentrarsi in un unico soggetto delle due suddette funzioni), quella sostanziale e quella giurisdizionale, è una ipotesi assolutamente eccezionale, come confermato dal codice del processo amministrativo; quest’ultimo all’art.7, comma 6, del D.lgs. n. 104/2010 stabilisce infatti, espressamente, che: “Il giudice amministrativo esercita giurisdizione con cognizione estesa al merito nelle controversie indicate dalla legge e dall’articolo 134. Nell’esercizio di tale giurisdizione il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione”. Si tratta di ipotesi molto limitate come ad esempio in materia di contenzioso elettorale, dove vi sono delle esigenze di celerità e necessità di particolare indipendenza che rendono più opportuna tale soluzione[6].
Esiste, dunque, come autorevolmente messo in evidenza[7], una specifica disposizione che legittima, in via del tutto eccezionale, la giurisdizione di merito ossia quella in cui il giudice si sostituisce all’amministrazione.
In ambito tributario il legislatore non si è soffermato sul punto, ma questo non può essere certo interpretato come l’indiscriminata eventualità che, nel silenzio della legge, il giudice possa sostituirsi all’ufficio fiscale.
Certo la recente riforma della giustizia tributaria avrebbe potuto cogliere l’occasione per affrontare anche il tema della sostituzione del potere giurisdizionale a quello impositivo, invece di soffermarsi prevalentemente sulla figura e sull’inquadramento di carriera del giudice. Si sarebbe potuto riflettere non solo su chi deve essere il giudice tributario, ma soprattutto cosa deve fare. Tuttavia non è affatto imprescindibile un intervento del legislatore, che spesso anzi porta più danni che vantaggi, come si vede a proposito delle modifiche all’art.7 del D.lgs. n.546/1992 con l’inserimento del comma 5 bis[8]. sull’onere della prova[9].
L’inadeguatezza a sostituirsi agli uffici tributari non non è tanto questione di attitudine o professionalità del giudice, che riesce a districarsi agevolmente con questioni di liquidazione dei dati dichiarati (come ad esempio il mancato versamento di imposte dichiarate, deducibilità di oneri e spese personali, detrazioni varie, redditi non dichiarati da contratti registrati, o segnalati dai sostituti) oppure nelle controversie su “tributi minori” o con la determinazione delle rendite catastali o con le c.d. questioni di rito (ad esempio riguardanti la corretta notifica degli atti impositivi)
Spesso si tratta di pratiche di importi di ammontare non elevato, ma che sono le più numerose in materia tributaria o che comunque possono essere agevolmente risolvibili attraverso riscontri documentali o basandosi su una formazione giuridica di base per ovvie ragioni richieste a chi ricopre una carica giurisdizionale. Anche se ad onor del vero la maggior parte di queste cause non dovrebbero neanche arrivare ad impegnare la funzione giurisdizionale, potendo benissimo essere affrontare nella sede più opportuna ossia quella amministrativa in fase di riesame.
La mediazione ai sensi dell’art. 17 bis del D.lgs. n.546/1992 ha cercato di rimediare a tale fenomeno di “ingolfamento” della giustizia tributaria, ma ancora una volta non ha fatto altro che testimoniare la necessità di un intervento legislativo, anche quando le cose potrebbero essere gestite, proprio perché vi è coinvolto un soggetto pubblico, attraverso il corretto esercizio di una funzione, con il giudice che interviene solo in via residuale come clausola di salvaguardia.
Considerare l’intervento del giudice come una tappa obbligata, può andare bene nel caso della risoluzione delle controversie privatistiche, comprese quelle che coinvolgono amministrazioni pubbliche nella loro attività contrattuale. L’intervento del giudice rappresenta invece un appesantimento nel momento in cui il privato si confronta con una pubblica funzione, nel nostro caso quella impositiva.
La necessità di distinguere la funzione giurisdizionale da quella sostanziale impositiva è più evidente nelle controversie in cui si tratta di stimare l’evasione per le piccole attività di commercio e servizi al consumo finale o quando si tratta di affrontare le questioni interpretative specialistiche delle grandi aziende. E sono proprio questi gli ambiti in cui il giudice incontra le maggiori difficoltà, finendo per orientarsi in favore del fisco (che comunque è e resta la parte “pubblica” della vicenda).
Infatti, se il giudice in un processo sbrigativo come quello tributario (che ricordiamolo si esaurisce spesso in un’unica udienza) per giudicare deve sostituirsi all’ufficio che dalla sua magari avrà effettuato le indagini come riportate nel PVC, sarà naturalmente e comprensibilmente orientato a dare ragione alla parte pubblica se il contribuente non riesce ad evidenziare un vizio “forte” dell’atto impositivo.
Trovo evocativa un’espressione frequentemente contenuta nei testi di Lupi secondo cui: giudice frastornato ricorso rigettato; perché nell’impugnazione-merito se il giudice non è in grado di sostituirsi agli uffici fiscali nella determinazione dell’imposta, finirà per avallare l’atto impositivo.
Non è un caso se le controversie specialistiche o in cui si tratta di compiere valutazioni siano quelle con un alto tasso di vittoria del fisco e questo accade anche dinanzi alla Corte di Cassazione, circostanza che sta a testimoniare il giudice a tempo pieno non sia una variabile determinante quando il giudice è sotto una pressione quantitativa senza che gli sia chiaro il retroterra della causa.
Questo stato di cose non viene minimamente scalfito da espressioni come la parità delle parti, la nuova concezione dell’onere della prova ecc, in quanto si tratta di condizionamenti ambientali comprensibili, evitabili solo rimeditando il pregiudizio dell’impugnazione-merito.
3. I vantaggi di una giurisdizione non sostitutiva sul modello amministrativo
Gli inconvenienti di cui al termine del punto precedente sarebbero molti di meno se la giurisdizione tributaria si limitasse al controllo della determinazione dell’imposta, senza la suddetta sostituzione dei giudici agli uffici; sarebbe una soluzione in linea col resto della giurisdizione sulle altre funzioni pubbliche, laddove è doveroso, emettere un nuovo atto, tenendo conto delle indicazioni della sentenza di annullamento[10]. I pratici del diritto tributario a questo punto obiettano che il potere dell’ufficio fiscale deve essere esercitato entro un termine stabilito a pena di decadenza, tuttavia se l’atto (sebbene annullato) sia provvisto degli elementi essenziali, compresa la motivazione, non vi è nessuna disposizione che ne vieti la riemissione.
Questa soluzione consentirebbe anche di dare attuazione concreta a tutte quelle norme procedurali (ad esempio diritto al contraddittorio, rispetto di termini procedurali, l’obbligo di valutazione delle osservazioni al PVC) che finiscono per restare lettera morta perché altrimenti rischierebbero di travolgere un accertamento fondato nel merito. Questi passaggi “procedurali”, di cui il contribuente lamenta la mancanza, potrebbero avvenire anche a posteriori, con una rideterminazione dell’imposta nei limiti della motivazione del primo atto.
L’impugnazione merito impone, invece, all’interno dell’atto impugnato, rielaborazioni troppo articolate e fuori dalla portata del giudice sia come competenze che come tempi. Per questa ragione sarebbe auspicabile che il giudice, resosi conto dei vizi, annulli l’atto, e l’ufficio tributario proceda a una rideterminazione dell’imposta dovuta nei limiti nella materia del contendere così come determinata dalla parti (con motivazione e motivi di ricorso).
La giurisdizione sulle funzioni non giurisdizionali, come quella tributaria, deve in sostanza correggere ed orientare l’azione amministrativa, in funzione di efficienza e correttezza. Annullando gli atti, o comunque rispedendoli al mittente suggerendogli la strada corretta da seguire il giudice tributario porrebbe le basi per una amministrazione finanziaria migliore.
[1] Si pensi ad esempio all’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale della CGT di Venezia n. 408/2022 con la quale sono stati sollevati diversi profili di legittimità costituzionale della riforma tributaria (primo fra tutti la dipendenza amministrativa e strutturale dal MEF).
[2] Cfr. D. Pellegrini, La giustizia tributaria tra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali: le oscillanti scelte di politica giudiziaria e i motivi della diffidenza verso la giurisdizione ordinaria, in Giust.insieme del 17/12/2020. Ad esempio è stato evidenziato che la legge sull’imposta di ricchezza mobile del 14 luglio 1864, n. 1830 ha istituito il doppio ordine di commissioni tributarie. Tali organi, anche se esteriormente assomigliano alle odierne commissioni tributarie, sono indubitabilmente organi amministrativi per di più preposti all’accertamento delle imposte piuttosto che alla risoluzione del contenzioso. E contro i loro provvedimenti non era possibile il ricorso all’autorità giudiziaria (possibilità di ricorso che verrà introdotta un anno dopo, e per la prima volta, solo nella legge sui fabbricati del 26 gennaio 1865, n. 2136).
[3] C. Consolo, Dal contenzioso al processo tributario. Studi e casi, Milano, 1992.
[5] Mi riferisco a F.G. Scoca, L’interesse legittimo: storia e teoria, Torino, Giappichelli, 2017, 185.
[6] Per i profili essenziali del contenzioso elettorale cfr. P. Sandulli, Il contenzioso elettorale (regolato dal Codice del processo amministrativo) in Judicium del 9/12/2020.
[7] Sul carattere eccezionale della giurisdizione di merito e i suoi contenuti salienti cfr. per tutti A. Police, Le forme della giurisdizione in F. G. Scoca (a cura di), Giustizia Amministrativa, Torino, 2020, 110 ss.
[8] Sul tema si veda G. Moschetti, Il comma 5 bis dell’art.7 D.lgs. n.546/1992: un quadro istruttorio per ora solo abbozzato, tra riaffermato principio dispositivo e diritto pretorio acquisitivo, Riv. Dir. trib. – supplemento telematico 28 gennaio 2023.
[9] Sul tema, senza pretesa di esaustivitá e per i richiami ad altra dottrina, si rinvia a F. Tesauro, L’onere della prova nel processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, I, p. 81, ora in Scritti scelti di diritto tributario, vol. II, Torino, 2022, 272 e S. Muleo, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2021, 603ss.
[10] È il caso ad esempio della rivalutazione nei concorsi pubblici.
Gli approfondimenti della riforma Cartabia - 9. L’imputato del giusto processo (ovvero degli articoli 581, commi 1-ter e 1-quater, cod. proc. pen.) di Carlo Citterio
Il presente articolo si inserisce nella serie di approfondimenti dedicati da Giustizia Insieme (v. Editoriale) alle novità introdotte dalla riforma Cartabia nella materia penale. Di seguito i precedenti contributi:
1. Le nuove indagini preliminari fra obiettivi deflattivi ed esigenze di legalità
3. Pensieri sparsi sul nuovo giudizio penale di appello (ex d.lgs. 150/2022)
6. Riforma Cartabia e pene sostitutive: la rottura “definitiva” della sequenza cognizione-esecuzione
8. Prime riflessioni sulla nuova “revisione europea”
Sommario: 1. I ‘tipi’ dei soggetti del procedimento secondo il giusto processo: qual è il tipo/imputato del giusto processo. - 2. La dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio. - 3.1. Lo specifico mandato per l’impugnazione della sentenza contumaciale (art. 571, comma 3, seconda parte, testo originario). - 3.2. La grande dimenticata: la procura speciale per l’impugnazione (571, comma 1). - 3.3. Le conseguenze del contrasto SU/Corte costituzionale sulla consumazione del diritto dell’imputato ad impugnare. - 4. Obbligo deontologico, responsabilità professionale e impugnazione in favore dell’imputato inconsapevole. Il ‘colloquio’ tra giudice e difensore sui contatti con l’imputato? - 5. L’imputato consapevolmente disinteressato e il giusto processo.
1. I ‘tipi’ dei soggetti del procedimento secondo il giusto processo: qual è il tipo/imputato del giusto processo.
Quando parliamo di giusto processo (art.111.1 Cost.) il pensiero corre subito alle norme del procedimento e del processo.
Credo utile anche una riflessione sui ruoli: imputato, pubblico ministero, difensore, giudice, persona offesa.
In particolare: esiste per ciascuno di questi ruoli un ‘tipo’ considerabile alla luce del giusto processo o, in termini diversi, quando enuncia i propri principi il giusto processo si parametra ad un determinato ‘tipo’ di imputato, pubblico ministero, difensore, giudice, persona offesa?
Ed allora, qual è l’imputato del giusto processo, in altre parole l’imputato/parametro che i principi del giusto processo presuppongono? Quali le sue caratteristiche ‘normali’? (e sarebbe interessante domandarsi poi quale sia il parametro/tipo di pubblico ministero, difensore, giudice, che i principi del giusto processo presuppongono).
2. La dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio.
Uno dei punti della riforma Cartabia che ha suscitato le maggiori reazioni dell’Avvocatura è quello di due delle condizioni che i nuovi commi 1-ter e 1-quater dell’art. 581 pongono per l’ammissibilità dell’atto di impugnazione (appello e ricorso per cassazione). Con l’atto di impugnazione delle parti private e dei loro difensori deve essere depositata la dichiarazione o l’elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio. Quando nel grado precedente del processo si è proceduto nei confronti dell’imputato ‘assente’ l’atto di impugnazione del difensore deve essere accompagnato sia dalla dichiarazione/elezione di domicilio che da un mandato specifico ad impugnare rilasciato dopo la pronuncia della sentenza (per tale dovendosi intendere ovviamente già la mera pubblicazione del dispositivo).
Per la dichiarazione/elezione di domicilio la norma non prevede invece che il rilascio sia successivo alla pronuncia della sentenza.
Le due norme dispongono quindi il deposito contemporaneo dei due documenti atto di impugnazione e dichiarazione o elezione di domicilio/mandato speciale ad impugnare), con la conseguenza che, in ogni caso, solo se il secondo documento sarà depositato entro la scadenza del termine per impugnare l’impugnazione sarà (quanto a questo aspetto) ammissibile.
Va preso atto che, condivisibilmente, la scelta del legislatore è stata quella di evitare alcun automatismo con una imposta/presunta elezione di domicilio presso il difensore che assiste l’imputato, quantomeno se di fiducia, dopo la proposizione dell’impugnazione, perché comunque foriero di potenziali problematiche sull’effettiva conoscenza della successiva citazione per quanto attiene all’evoluzione possibile del rapporto e ad un efficace contatto tra difensore (pur diligente) ed assistito.
Si è già ricordato che per la dichiarazione o elezione di domicilio (che appunto va depositata anche quando l’atto sia materialmente redatto e depositato dal difensore) non è prevista l’acquisizione dopo la pronuncia della sentenza. In realtà, per logica sistematica, essa dovrebbe essere successiva alla deliberazione della sentenza impugnata o, comunque, essere rilasciata da imputato consapevole della sua destinazione alla trattazione del processo di appello : infatti è appunto finalizzata a consentire la efficace e tempestiva citazione per quel giudizio di appello che proprio dall’imputato e nel suo interesse è espressamente richiesto.
È stato detto che nelle indagini preliminari e nel giudizio di primo grado è lo Stato che deve cercare la persona nei cui confronti si procede e informarlo dei passaggi essenziali in particolare della fase processuale, ma quando appellante è la parte privata, che è pertanto il soggetto processuale che attiva il secondo grado di giudizio, che era e rimarrebbe, ovviamente su tale piano sistematico, francamente poco comprensibile che l’ ‘attore’ possa discrezionalmente sottrarsi al tempestivo rintraccio per atti che sono indispensabili per giungere a quel giudizio rivisitante che proprio, ed eventualmente solo, lui ha chiesto. Si è risposto con il principio che difendendosi comunque da un esercizio di azione penale, anche nel giudizio di appello, sarebbe improprio richiedere la ‘collaborazione’ dell’imputato pur solo per la trattazione del secondo grado di giudizio.
Pare opportuno in proposito osservare che, depurata la questione da approcci sostanzialmente ideologici, qui il tema dell’imputato/tipo considerato dal giusto processo mostra tutta la sua attualità ed autonomia: la domanda infatti diviene se pretendere che chi propone appello o ricorso [i] indichi dove può essere trovato per la necessaria convocazione sia norma davvero incoerente, o addirittura ostile, ai principi del giusto processo nella prospettiva anche dei canoni e della giurisprudenza europei.
In realtà, la complessiva disciplina della citazione al e della trattazione del giudizio di appello rende palese che l’onere per chi chiede il giudizio di impugnazione di indicare il suo recapito effettivo ed efficace per l’ulteriore corso, oltre che pretesa certo non palesemente illogica è la precondizione del funzionamento del complesso del nuovo articolato sistema. Si pensi infatti al deposito solo informatico dell’atto di impugnazione o sua presentazione cartacea a cura della parte o suo incaricato presso l’ufficio che ha pronunciato la sentenza che si impugna [ii]; all’aumento di quindici giorni dei termini per impugnare nel caso di imputato assente; ai quaranta giorni quale termine per comparire; ai due anni o all’anno – a regime – entro i quali tendenzialmente deve intervenire la definizione; al fatto che l’inizio del decorso di tale termine di durata massima del giudizio di impugnazione probabilmente avverrà spesso quando il fascicolo non è ancora pervenuto al giudice di appello o di cassazione. Sono tutte norme e previsioni che presuppongono la possibilità di immediato contatto dell’appellante.
È noto che sul tavolo del ministro Nordio pende già un’articolata richiesta di modifica di tale disciplina. Sul punto quindi quanto mai attuali degli approfondimenti.
3.1. Lo specifico mandato per l’impugnazione della sentenza contumaciale (art. 571, comma 3, seconda parte, testo originario).
È utile ricordare che il codice Vassalli prevedeva, già dal testo originario, proprio lo specifico mandato per l’impugnazione della sentenza contumaciale [571, comma 3, seconda parte: “Tuttavia, contro una sentenza contumaciale, il difensore può proporre impugnazione solo se munito di specifico mandato, rilasciato con la nomina o anche successivamente nelle forme per questa previste]. Si tratta quindi di esigenza già sentita e condivisa fin dall’impostazione di quello che avrebbe dovuto essere il nuovo avanzato processo di parti, il processo accusatorio: nell’impostazione teorico sistematica di quel processo accusatorio quindi si era considerato pienamente coerente l’onere per l’imputato di conferire il mandato speciale per l’impugnazione che apriva un nuovo grado del giudizio su sua richiesta.
È significativo che la ragione dell’introduzione del mandato speciale ad impugnare, nel caso di impugnazione in favore dell’imputato contumace, era stata indicata nella relazione accompagnatoria, e da alcuna dottrina, nell’intento di evitare effetti preclusivi in danno dell’imputato per la sua volontà di impugnare autonomamente la sentenza (Commento al nuovo codice di procedura penale, Utet, 1991, sub 571, p.46).
La necessità del mandato speciale venne esclusa dopo dieci anni, dall’art. 49 della legge 479/1999.
È interessante rilevare che la ragione addotta nei lavori parlamentari dalla Relazione non fu un ripensamento della correttezza sistematica dell’istituto ma, solo, di consentire la possibilità dell’impugnazione della sentenza contumaciale anche al difensore d’ufficio, oltre che al difensore di fiducia, operando la soppressione dell’ultima parte del comma 3 dell’articolo 571 del codice di procedura penale, in base alla quale il difensore può proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale solo se munito di apposito mandato. Quindi non venne affatto messa in discussione la coerenza sistematica del principio che il difensore di fiducia per impugnare le sentenze contumaciali dovesse munirsi di un mandato speciale ma, pare evincersi, si ritenne che ciò finisse per discriminare potenzialmente i difensori di ufficio, per i quali l’acquisizione di un mandato speciale, sia pure limitato alla legittimazione ad uno specifico atto di impugnazione altrimenti inibito (mandato che, pertanto, poteva non modificare la natura ufficiosa dell’assistenza legale limitandosi a legittimare il difensore al singolo atto), appariva almeno potenzialmente difficoltosa. Da qui l’eliminazione del mandato per tutti i difensori, anche nominati di fiducia [iii].
3.2. La grande dimenticata: la procura speciale per l’impugnazione (571, comma 1).
Credo davvero utile che il confronto sul tema si apra anche a considerare l’impatto, su di esso, della procura speciale tuttora prevista dall’art. 571, primo comma.
Tale norma, riprendendo del resto la disciplina dell’art. 192, primo comma, del codice di procedura penale del 1930, stabilisce che l’imputato possa proporre impugnazione anche per mezzo di un procuratore speciale, nominato anche prima della emissione del provvedimento.
Quindi, oggi, l’appello, nel caso di imputato presente, può essere proposto dall’imputato personalmente o dall’imputato a mezzo procuratore speciale o dal difensore. Nel di imputato nei cui confronti si è proceduto in assenza, dall’imputato personalmente o dall’imputato a mezzo procuratore speciale nonché dal difensore se munito di mandato speciale [iv].
Già nel 1995 la Corte di cassazione aveva evidenziato la differenza tra mandato speciale a proporre impugnazione, rilasciato al difensore, e procura speciale per proporre (in proprio) impugnazione.
Sez. 6, Sentenza n. 2320 del 07/06/1995 Cc. (dep. 17/08/1995), imp. Pirani, aveva infatti precisato che “Mentre il mandato speciale a proporre impugnazione non può essere rilasciato dall'imputato al difensore con riferimento all'eventuale mandato di contumace in un momento anteriore all'emissione della sentenza, analogo limite non sussiste per la procura speciale, la quale può essere rilasciata in via preventiva, in epoca anteriore alla pronuncia del provvedimento e per l'eventualità che si verifichino le condizioni per l'espletamento dell'atto che della procura medesima costituisce l'oggetto”.
È importante evidenziare che mai si è dubitato che la procura speciale ad impugnare, diversa dal mandato specifico ad impugnare, potesse essere rilasciata anche al difensore [v].
Evidenti le implicazioni, se la ricostruzione proposta è condivisibile: oggi in favore dell’assente in realtà il difensore, di fiducia o anche d’ufficio, può proporre appello o in ragione del mandato specifico ad impugnare rilasciato dopo la pronuncia del pur solo dispositivo ovvero perché nominato procuratore speciale ai sensi dell’art. 571, comma 1, con atto anche precedente tale pronuncia purchè indicante specificamente l’ambito impugnatorio della procura.
Ciò significa, in concreto, che il difensore, anche d’ufficio, che dubiti della possibilità di farsi rilasciare dall’assistito lo specifico mandato ad impugnare del comma 3 dell’art. 571, dopo la pronuncia della sentenza, o anche solo per cautela organizzativa, può proporre all’assistito di essere destinatario di una procura speciale rilasciata prima della deliberazione del primo grado per l’eventualità che, sulla base di criteri spiegati e concordati sia opportuno o necessario impugnare la pronuncia di primo grado.
Si tratta di riflessione che appare avere una rilevanza tutt’altro che secondaria quando si vanno ad esaminare le ragioni della contrarietà alla disciplina dell’art. 571, comma 3, che vengono dedotte.
3.3. Le conseguenze del contrasto SU/Corte costituzionale sulla consumazione del diritto dell’imputato ad impugnare.
L’appello proposto dal difensore quale procuratore speciale ai sensi dell’art. 571, comma 1 (quindi esercitando il potere proprio dell’imputato) avrebbe questa peculiarità importante: impedirebbe la vanificazione dei gradi del giudizio che si produce invece con la sua nuovamente sollecitata e richiesta possibilità di una sua impugnazione autonoma anche nel caso in cui l’assistito nulla sappia della presentazione dell’impugnazione, quindi impugnazione proposta quale difensore senza procura e senza mandato speciale di imputato che ignori la pendenza dei giudizi di appello e di cassazione.
La previsione del mandato speciale ad impugnare introdotto per l’imputato processato in assenza dall’art. 581, comma 1-quater, è stata determinata anche dalle ancora attuali conseguenze cui ha condotto il contrasto Sezioni Unite/Corte costituzionale: la sistematica sostanziale vanificazione dei gradi di giudizio di impugnazione attivati per iniziativa autonoma dei difensori, quando questi apparentemente non avevano avuto, e non hanno, previo contatto con gli assistiti in favore dei quali propongono l’atto di impugnazione.
Come noto il contrasto è intervenuto sul tema dell’unicità del diritto di impugnazione e quindi sulla sua possibile definitiva consumazione da parte del difensore (di fiducia o di ufficio). Le Sezioni Unite (sentenza 6026/2008) avevano affermato che l’impugnazione proposta dal difensore nell’interesse dell’imputato contumace (o latitante) precludeva alcuna restituzione in termini dell’imputato per (ri)proporre l’impugnazione già proposta e deliberata. Corte costituzionale sent. 317/2009 prende atto di tale diritto vivente e giudica la soluzione contraria alle regole costituzionali, concludendo che “è costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 24, 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost., l'art. 175, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non consente la restituzione dell'imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato”.
Orbene, nel caso di impugnazione proposta dal difensore quale procuratore speciale ai sensi dell’art. 571, comma 1, la giurisprudenza di legittimità ha già insegnato che con tale procura speciale l’imputato consuma il proprio diritto ad impugnare (L'imputato che, dopo una sentenza emessa in contumacia nei suoi confronti, conferisce al proprio difensore procura speciale per proporre impugnazione, è privo di legittimazione a chiedere o a far chiedere dal suo fiduciario di essere rimesso in termini per impugnare autonomamente la decisione, nonostante la mancata notifica dell'estratto contumaciale, essendosi spogliato, mediante il rilascio della delega, del proprio diritto all'impugnazione: Sez.6, sent. 10537/2017).
Quindi, la soluzione della procura speciale rilasciata per l’impugnazione ai sensi dell’art. 571, comma 1, impedisce che i successivi giudizi di impugnazione attivati per iniziativa (delegata e nei termini di una discrezionalità di azione concordata al momento del rilascio di tale procura) possano essere messi poi nel nulla.
4. Obbligo deontologico, responsabilità professionale e impugnazione in favore dell’imputato inconsapevole. Il ‘colloquio’ tra giudice e difensore sui contatti con l’imputato?
Obbligo deontologico/etico avverso la sentenza ritenuta comunque ingiusta e timore di responsabilità professionale indifendibile sono sostanzialmente i nuclei essenziali delle ragioni del forte dissenso.
4.1.1. È certo apprezzabile l’impostazione deontologica che la classe forense richiama per sostenere una propria anche esclusiva competenza a contestare una sentenza ritenuta ‘ingiusta’, nell’interesse obiettivo pure dell’assistito non reperito e non consapevole.
Ma occorre tuttavia prendere atto quantomeno:
- della già commentata potenziale inutilità del complesso dell’attività giurisdizionale e amministrativa cui si dà in tal modo seguito ogni qualvolta le impugnazioni non siano state giudicate fondate (la casistica è ricca di vanificazione di entrambi i gradi di impugnazione, merito e legittimità, con il conseguente ripetuto mero impiego a vuoto delle non adeguate risorse, di uomini e mezzi, disponibili; né francamente si potrebbero richiedere maggior risorse per giustificare processi che poi evaporano per quelle che sono le norme vigenti);
- della ulteriore importante stretta che la disciplina dell’assenza riceve sia per il primo grado [nuovi 420-bis, 420-ter.1, 420-quater, 604.5-bis] che per il giudizio di appello [604.5-ter e 604.5-quater]. Proprio tale articolata disciplina, volta ad aumentare esponenzialmente l’aspettativa che alla regolarità formale della citazione al giudizio di primo grado corrisponda l’effettiva consapevolezza dell’interessato relativa alla trattazione processuale, contribuisce a creare le premesse fattuali per sollecitare l’attivazione dei difensori ad un contatto personale con l’assistito, che sia caratterizzato dall’articolata spiegazione del seguito procedimentale e della necessità di una non sostituibile responsabilizzazione dello stesso interessato;
- del fatto che la rivisitazione della disciplina in primo grado ha un’immediata ricaduta in quella delle questioni di nullità nel giudizio di appello [vi];
- dell’incisività della giurisprudenza di legittimità sull’effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario d’ufficio e l’indagata o imputato (SU sent. 23948/2020, così massimata: Ai fini della dichiarazione di assenza non può considerarsi presupposto idoneo la sola elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio, da parte dell'indagato, dovendo il giudice, in ogni caso, verificare, anche in presenza di altri elementi, che vi sia stata l'effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l'indagato, tale da fargli ritenere con certezza che quest'ultimo abbia avuto conoscenza del procedimento ovvero si sia sottratto volontariamente alla stessa(Principio affermato in relazione a fattispecie precedente all'introduzione dell'art. 162, comma 4-bis, cod. proc. pen. ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103));
- dell’introduzione dell’art. 162, comma 4-bis (con la necessità dell’assenso alla domiciliazione).
In realtà, va riconosciuto che nel giudizio di primo grado occorre ormai e quindi un’accurata conoscenza e valutazione di cosa è accaduto nel corso del procedimento e dall’epoca delle notificazioni della citazione a imputato e difensore/i e al loro rapporto. Perché non penso sia sbagliato, o eccessivo, affermare che è difficile che il giudizio di primo grado si possa dopo il d. lgs. 150/2022 ritualmente celebrare se il difensore, anche d’ufficio, non ha mai potuto avere un contatto con l’assistito, salvo forse il caso della notifica all’imputato a mani proprie e del rifiuto di costui ad avere contatto alcuno con il difensore.
Ma, in tal caso, ritorna la centralità del tema di quale sia l’imputato/tipo considerato dai principi del giusto processo: il rifiuto al contatto con il difensore che conduca all’impossibilità di impugnare una sentenza sfavorevole è condotta che, avuto riguardo all’imputato/tipo del giusto processo impone tutela anche quando conduca alla trattazione di processi di impugnazione poi vanificabili? Il rifiuto ad ogni responsabilizzazione pur nella consapevolezza delle conseguenze dannose possibili, merita o addirittura impone tutela? Si consideri che già ora il tema della colpevole mancata conoscenza è oggetto di specifiche previsioni normative (629-bis, primo comma ultima parte ed è stato oggetto della giurisprudenza di legittimità per l’applicazione dell’art. 175).
4.1.2. Le considerazioni che precedono rendono ineludibile confrontarsi con una tematica peculiare. Infatti l’esigenza di accertare l’effettiva instaurazione di un rapporto professionale biunivoco, o le ragioni della sua mancanza, pone o accentua un problema che presenta profili delicati.
Il giudice di primo grado [e quello di appello che deve valutare se sussista questa sorta di condizione ostativa alla possibilità di eccepire o rilevare la nullità] non ha né può consultare il fascicolo del pubblico ministero, per cui diviene onere del rappresentante della parte pubblica, nei due gradi, acquisire e rappresentare i fatti di possibile pertinente rilievo procedimentale che si sono verificati nella fase delle indagini preliminari e fino all’eventuale udienza preliminare. Ma, e a me pare soprattutto, nel nuovo sistema diviene nevralgica la comprensione di quale sia stato il rapporto tra l’imputato ed il suo difensore, di fiducia o di ufficio che sia, in particolare dal momento della ricezione dell’avviso di fissazione dell’udienza da parte dello stesso difensore.
E questo aspetto, essenziale nell’economia della disciplina al fine di poter affermare o escludere anche la conoscenza della pendenza del processo, è nella conoscenza del solo difensore, quando l’imputato non sia presente ovvero manchino gli elementi documentali (una nomina, un’istanza, la presentazione di un certificato medico, ecc.) dal cui contenuto si possa evincere esaustivamente, anche solo sul piano logico, il dato della conoscenza della pendenza del processo (e non già del solo procedimento), se non specificamente della data dell’udienza.
Ed allora diviene fisiologia della relazione tra giudice e parti, con la nuova disciplina, che il primo nelle situazioni di incertezza possa, o debba in realtà, interpellare il difensore su quali siano stati i suoi contatti con l’imputato dalle notifiche, per applicare correttamente la norma? Ovvero che debba essere riconosciuto uno speculare obbligo del difensore, di fiducia o di ufficio, di rappresentare al giudice di primo grado (e dedurre specificamente e analiticamente nell’eventuale motivo di appello) l’assenza di ogni rapporto e le ragioni che la hanno determinata? [vii].
Si obietta che si tratterebbe di violazione della sacralità della segretezza del rapporto tra difensore ed assistito. Ma, si dovrebbe osservare, la ‘pretesa’ non sarebbe quella di informazioni sul contenuto del rapporto, bensì solo sul fatto procedimentale dell’effettivo contatto.
Si tratta comunque e appunto di tema delicato, meritevole di approfondimento davvero ineludibile [viii], nel quale ancora una volta emerge la nuova centralità del tema del ‘tipo’ di soggetti del processo che i principi del giusto processo orientato ai principi costituzionali e di norme e giurisprudenza Cedu considerano come presupposto della loro applicazione e del loro ambito di operatività.
4.2. Da ultimo, quale responsabilità professionale potrebbe mai configurarsi quando l’imputato informato da autorità giudiziaria e polizia giudiziaria degli oneri informativi specifici che ha nei confronti del difensore (157.8-ter ultima parte e 161.01 ultimo periodo), informato specificamente dal difensore in ordine alle tematiche del processo e della sua possibile evoluzione e degli oneri per impugnare (tutto documentabile agevolmente), si sia disinteressato al proprio processo e si sia comunque e in concreto sottratto al contatto del difensore? La previsione dell’art. 157, comma 8.quater lo conferma pienamente (“L'omessa o ritardata comunicazione da parte del difensore dell'atto notificato all'assistito, ove imputabile al fatto di quest'ultimo, non costituisce inadempimento degli obblighi derivanti dal mandato professionale”).
5. L’imputato consapevolmente disinteressato e il giusto processo Torniamo alla domanda iniziale. No, l’imputato che consapevolmente si disinteressa del proprio procedimento dopo essere stato informato di contenuto e prospettive e dell’obbligo di mantenere contatto e reperibilità non è l’imputato/tipo parametro su cui il giusto processo tara i propri principi. E lo scostamento “a lui imputabile” (157.8-quater) rimane a suo danno.
[i] Va ricordato che nel caso di difensore d’ufficio anche in Corte di cassazione si procede con le notifiche personali all’imputato (613, comma 4).
[ii] Si noti, unica soluzione per evitare l’ingovernabile ‘limbo’ della spedizione per posta o dell’invio, per posta sempre, da altro ufficio, e così acquisire all’effettiva scadenza del termine per impugnare la tempestiva informazione se la sentenza è stata impugnata o è divenuta irrevocabile.
[iii] Fin d’ora è opportuno ricordare, ci si ritornerà, quanto sia cambiata da allora la disciplina e la legislazione della difesa d’ufficio e della sua relazione con l’imputato.
[iv] Per il ricorso per cassazione, stante l’esclusione del ricorso personale dell’imputato, l’impugnazione può essere proposta solo dal difensore munito di mandato speciale, se l’imputato nel giudizio di appello era assente (e quindi per tutti i giudizi celebrati con rito a contraddittorio scritto), o autonomamente se l’imputato era presente.
[v] Commento al nuovo codice di procedura penale, Utet, 1991, sub 571, p.41, 42 e giurisprudenza lì richiamata.
[vi] La dichiarazione di assenza quando mancavano le condizioni dei primi tre commi dell’art. 420-bis determina la nullità della sentenza di primo grado, che però deve essere eccepita con specifico motivo di appello altrimenti è sanata [604, nuovo 5-bis]: non può pertanto essere rilevata d’ufficio. Quando dichiara la nullità il giudice di appello dispone la trasmissione degli atti al giudice che procedeva quando la nullità si è verificata. Non sussiste comunque nullità [604, nuovo 5-bis, ultima parte] se risulta che l’imputato era a conoscenza della pendenza del processo ed era nelle condizioni di comparire in giudizio prima della pronuncia della sentenza impugnata.
[vii] In proposito potrebbe rilevare anche il peculiare dovere di verità indicato dal n. 5 dell’art. 50 del codice deontologico forense: 5. L’avvocato, nel procedimento, non deve rendere false dichiarazioni sull’esistenza o inesistenza di fatti di cui abbia diretta conoscenza e suscettibili di essere assunti come presupposto di un provvedimento del magistrato. In altri termini, il tema del contatto informativo con l’assistito in relazione alla fissazione e trattazione del processo costituisce “fatto di cui si ha diretta conoscenza e presupposto di un provvedimento del magistrato”?
[viii] Così come quello del contenuto della discussione nel giudizio d’appello in presenza e della possibilità che il giudice indichi al difensore appellante punti e aspetti dell’impugnazione da chiarire o approfondire senza rischiare ricusazioni, ma questo è un altro tema.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.