ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Il diritto e il fine vita pensando ad Arturo Carlo Jemolo - 2. Il cammino della giurisprudenza e del legislatore sul fine vita - 3. Perché serve la legge. Il diritto di amarsi con dignità fino alla fine della vita.
1. Il diritto e il fine vita pensando ad Arturo Carlo Jemolo
Vorrei cominciare la mia riflessione partendo da un incipit che più volte è stato richiamato nel corso dei lavori rappresentato dalla oramai storica espressione di Arturo Carlo Jemolo a proposito dei rapporti fra famiglia e diritto – un’isola che il diritto può solo lambire, ma lambire soltanto – dalla stessa prospettiva prudenziale mutuando un’idea di sostanziale sfavore per un intervento del diritto sulla materia del fine vita. Disfavore che si esprime, oggi, rispetto ad un intervento regolativo da parte del legislatore ma che, implicitamente, direi soffusamente, si rivolge a tutti quegli operatori del diritto che hanno con le loro condotte imposto all’attenzione della società e del mondo politico il tema del fine vita. E sì, perché, affermare che l’intervento del legislatore, oggi, andrebbe a “lambire” qualcosa che non appartiene al diritto ma semmai all’etica ed agli ambiti filosofici, altro non vuol dire che se ci si fosse attenuti alla regola del Prof. Jemolo non si sarebbe nemmeno dovuti giungere alle “risposte” che la giustizia comune - ordinaria ed amministrativa- e quella costituzionale hanno nel tempo offerto sul tema del fine vita. E risalendo ancor di più a ritroso il pensiero che si aggancia all’isola non v’è che chi non veda la nemmeno malcelata insoddisfazione per le risposte rese dalla giurisdizione sul tema, insoddisfazione questa volta di sostanza, che si appuntano contro la “direzione” intrapresa, considerandola a sua volta espressiva di un fare giurisprudenza creativa, scollato dalla tradizione giuridica ma, ancor più gravemente dalle coordinate costituzionali intessute attorno alla netta separazione fra ambito legislativo e giurisdizionale.
Le riflessioni che seguono, tutto al contrario, cercheranno di mettere in luce gli aspetti positivi che il “cammino” intrapreso dalla giurisprudenza sul tema del fine vita ha prodotto rispetto alla tutela della persona, per giungere ad alcune conclusioni di sistema su alcuni dei nodi scoperti che ruotano attorno al ruolo del giudice, ad i suoi rapporti con il legislatore ed alla funzione che il sistema costituzionale gli attribuisce.
2. Il cammino della giurisprudenza e del legislatore sul fine vita
Chi scrive ha già provato a misurarsi sul tema del fine vita.
Sono quindi allora qui sufficienti poche battute sul cammino della giurisprudenza e del legislatore sul tema del fine vita, per il resto rinviandosi alle riflessioni in passato esposte, per quel nulla che possano ancora valere[1].
Cass. n.21748/2007, nel decidere il caso Englaro e nel riconoscere il diritto della persona non più capace di interrompere, attraverso l’ufficio del tutore chiamato ad operare nel suo interesse, le cure che in situazione di coscienza aveva espresso di non voler ricevere se fosse caduta in uno stato di incoscienza, ha rappresentato il punto di svolta del sistema di protezione giurisdizionale del diritto all’autodeterminazione del malato, realizzato attraverso la valorizzazione di principi di valore costituzionale[2]. Pronunzia che rappresenta un vero e proprio paradigma di un modo di argomentare del giudice che guarda al diritto, anche in chiave comparatistica, come espressione dell’uomo nella sua complessità e che riempie i vuoti e le lacune mettendo al centro della decisione la persona umana e la sua dignità.
La sentenza n.21748/2007 è stata da una parte della dottrina – ed in verità non solo dalla dottrina – additata, probabilmente per le implicazioni umane vissute con sofferenza – ed in modo diametralmente opposto –, come esempio di travalicamento, attraverso il canone dell’interpretazione costituzionalmente orientata, dei compiti del giudice interno e dell’obbligo sullo stesso ricadente di applicare e non “creare” la legge.
Il giudice comune avrebbe dato vita, attraverso il caso concreto, ad una vera e propria manipolazione, con l’arma dell’interpretazione, dei valori e dell’ordine di priorità in cui sono disposti saccheggiando orientamenti giurisprudenziali “altri” che poco o nulla avrebbero rilievo nell’ordinamento interno e giungendo a risultati frutto di preferenze soggettive e di intuizioni emozionali capaci, addirittura, di aggirare il comando legislativo ed il vincolo di soggezione alla legge, fino al punto di mortificare il significato proprio del controllo incidentale di legittimità costituzionale. Secondo questa prospettiva il valore della dignità umana sarebbe diventato una sorta di artificio, in assenza di una posizione espressa dal legislatore in ordine alla possibilità di intervento sulla vita altrui da parte di soggetti pur legati da vincoli di parentela, oltre che sulla natura stessa dello stato vegetativo permanente e dell'alimentazione forzata. Sotto tale profilo la decisione dei giudici (di legittimità e di quelli di merito in sede di rinvio), conclamava un vero e proprio (grave) straripamento del (potere) giudiziario, mistificando le regole della "scienza", proiettate nel senso di riconoscere una pur limitata attività cerebrale anche nei soggetti che si trovano in tale sventurata condizione.
Ciò renderebbe l'attuale sistema antidemocratico, in balia della “tirannia dei valori”[3] e della giurisdizione allorché il giudice offre, spogliando i cittadini e chi li rappresenta, del potere di decidere ciò che è giusto e ciò che non è giusto o degno per un essere umano, modificando il modello costituzionale della tutela dei diritti, che riconosce al legislatore il compito di confezionare i diritti ed al giudice soltanto di applicarli e tutelarli.
Su altro versante si è cercato di mostrare, al contrario, le virtù della sentenza Englaro, stigmatizzando le critiche, a volte con toni peraltro inaccettabili, espresse contro i contenuti della decisione ed il modo di giudicare che essa rappresenta[4].
Qui è sufficiente ribadire che Cass. n. 21748/2007 si inscrive in quel movimento giurisprudenziale secondo il quale il giudice, di fronte al "silenzio" del legislatore, non può rimanere inerte rispetto ad una domanda di giustizia, ove questa sia giustificata e tutelata dal quadro dei principî scolpiti all'interno del sistema – integrato nel senso appena descritto – non essendogli consentito un non liquet. Rispetto all'assenza di un humus comune e condiviso, il giudice non deve né può indietreggiare o deflettere dal ruolo e dalla funzione che questi svolge allorché emergano, in termini sufficientemente chiari e prevedibili, dei principî di base che trovano la loro naturale collocazione all'interno delle Carte dei diritti fondamentali, per come vivificate dai rispettivi diritti viventi.
Comunque la si pensi rispetto alla sentenza Englaro, non si può negare che la legge n.219/2017, dedicata al tema della relazione di cura fra medico e paziente e alle dichiarazioni anticipate di trattamento, si muova sul binario tracciato dalla stessa pronunzia Englaro, ponendo al centro proprio quelle coordinate di base fondate sui canoni della dignità, dell’autodeterminazione e del consenso che la sentenza già evocata aveva valorizzato, diffondendosi con una disciplina, questa volta destinata ad operare in via generale e che si basa sull’alleanza del medico con il paziente, finalmente valorizzando anche sfere di interessi rimaste spesso poco considerate in passato (parenti, minori). Il tutto in una prospettiva tesa a salvaguardare la dignità del malato – e di chi si trova in condizioni di particolare vulnerabilità - secondo canoni di efficienza ed effettività sempre perfettibili e magari passibili di ulteriori e più ampie forme di tutela allorché il contesto sociale e le sensibilità che in esso maturano ne richiedano ulteriori approfondimenti.
La legge n.219/2017 appena ricordata aveva tuttavia un limite intrinseco, rappresentato dal combinato disposto dell’art. 1, c.5, e del comma uno dell’art. 2, laddove prende in considerazione la posizione del malato che decide di rinunziare o rifiutare i trattamenti sanitari necessari per la propria sopravvivenza e che, per tale scelta, si trova esposto alle sofferenze fisiche e psicologiche che si presenteranno in esito a tale scelta. Il legislatore ha previsto, anche in questi casi, un intervento attivo del medico, questa volta non orientato a salvaguardare il prolungamento della vita del malato, ma a garantire l’apprestamento di condotte di sostegno anche sanitario - legge 15 marzo 2010 n.38 - a beneficio del medesimo.
Ci si chiedeva, dunque, fino a che punto si potesse spingere l’attività di sostegno in favore di chi decide, in fase terminale, di non volere più vivere, ritenendo che un’esistenza martoriata dal dolore e dalla sofferenza equivalga ad una ‘non vita’ e sia contraria alla propria dignità. Poteva il malato chiedere l’aiuto a porre fine alla propria esistenza quando non è in condizioni di autonomamente realizzare il proprio proposito? Quali conseguenze derivavano a carico di chi, esercente o meno la professione medica, offriva il proprio contributo attivo al fine di realizzare siffatto proposito? Il sistema sanitario doveva farsi carico di venire incontro a tale esigenza e fino a che punto poteva essere preteso un intervento in tale direzione da parte del medico?
A questi e ad altri interrogativi non forniva risposte complete la legge n.219/2017, essa limitandosi ad escludere che il paziente non potesse pretendere dal sanitario trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali. Rispetto a tali richieste, dunque, il medico, afferma il comma 6 dell’art. 1 della l. n.219/2017, “non ha obblighi professionali”.
Non si dubitava, peraltro, che la legislazione in vigore non consentisse al medico che ne fosse richiesto, di mettere a disposizione del paziente che versi nelle condizioni sopra descritte, trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. – cfr. Corte cost. n.207/2018[5] e Corte cost.n.242/2019[6] –.
È dunque questo il contesto nel quale intervengono le due pronunzie della Corte costituzionale sulla triste vicenda del dj Fabo, che sono state scandagliate dagli altri relatori e, per parte di chi scrive, già oggetto di separata riflessione, mostrando apertis verbis il vuoto di tutela in atto esistente nell’ordinamento.
E ciò perchè è proprio l’esame congiunto delle due pronunzie a confermare come le stesse, nate in un ambito prettamente penalistico, nel quale dunque i giudici costituzionali erano stati chiamati a verificare gli effetti di una condotta agevolativa dell’accelerazione al fine vita del dj Fabo, hanno poi visto i giudici costituzionali offrire una risposta, o se si vuole un progetto di risposta, che ha ampliato enormemente il tema di indagine e non ha guardato soltanto al problema dei riflessi penalistici della condotta, ma ha tentato di scrutare il tema generale. Una risposta che ha coinvolto il diritto, si è detto prospettato prima ed accertato con l’ultima pronunzia, di ogni persona in condizioni di malattia irreversibile ad accelerare la fine della vita nella ricorrenza di determinati – e, per i più, tassativi – presupposti fissati dalla stessa Corte costituzionale.
I seguiti che la giurisprudenza costituzionale ha prodotto nella giurisprudenza comune, dopo avere certificato l’impossibilità di ovviare alla lacuna normativa esistente, con il proposto referendum, rendono plasticamente urgente ed ineludibile un intervento “di cornice” del legislatore.
Le poche riflessioni che seguono saranno dunque orientate a rendere palese le ragioni di tale duplice esigenza.
3. Perché serve la legge. Il diritto di amarsi con dignità fino alla fine della vita
Stefano Rodotà ci ha consegnato un testo molto interessante e delicato, dedicato al tema “amore e diritto”.
In esso non manca, ancora una volta, un attento richiamo alla frase di Jemolo già ricordata. Richiamo che, per l’un verso, è riconoscimento tangibile della centralità, nel pensiero di Jemolo, del tema degli affetti e (ma) per altro verso, si presta ad un’analisi in qualche modo critica sull’idea che il ritirarsi del diritto di fronte a ciò che è amore ed a lasciare che esso sia "isola" non lasci davvero irrisolti alcuni nodi che riguardano, appunto, il tema del rapporto fra amore e diritto[7]. Si trattava, allora, di un’analisi incentrata su tratti apparentemente diversi da quelli che qui oggi esaminiamo, destinati ad incollarsi con una scelta (tragica) di morte che sembra istintivamente collocarsi in un campo “altro” rispetto a quello dell’amore. Ambiti nei quali, al momento in cui il libro venne alla luce (2015, ma in realtà pensato ancor prima come l’Autore attesta nel ringraziamento finale) non solo non vi era una legislazione interna sulle unioni civili ma nemmeno era stata emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo la sentenza Oleari c. Italia.
Insomma, un’epoca nella quale l’assenza di una legislazione sul tema delle unioni omosessuali era avvertita da Rodotà come lesiva del diritto d’amare e, dunque, della dignità dell’uomo. L’assenza di legislazione nella materia anzidetta aveva il senso di una privazione di garanzia all’amore nella sua pienezza (p.19).
Ed è qui che l’analisi di Rodotà intercetta il tema dell’autodeterminazione, ragionando attorno alla tutela del diritto alla salute. Un principio fondativo, scolpito da Corte cost. n.438/2008 prima e dalla giurisprudenza della Corte edu – in particolare (Corte edu, Pretty c. Regno Unito) e di legittimità, poi[8].
È proprio questa analisi a tornare utile quando ci si interroga sull’opportunità o meno di una legislazione in materia di fine vita.
A sommesso avviso di chi scrive, vi è la necessità di offrire una tutela effettiva al diritto di ogni persona di liberamente autodeterminarsi rispetto alla propria esistenza, purché questo si concili con altre imperiose esigenze correlate alla fragilità delle persone coinvolte, alla piena libertà e capacità di esprimere validamente il consenso verso una scelta irrimediabile, dopo che essa si manifesta ed è posta in esecuzione.
Il che conferma che in materia esistono diritti fondamentali da tutelare e, fra questi, quello di amarsi fino alla fine con dignità del malato terminale che decide, secondo il proprio convincimento, di volere cessare di vivere. Senza tuttavia dimenticare che questo diritto fondamentale non può essere considerato assoluto e tiranno, ma deve convivere con altre esigenze parimenti fondamentali che attengono alla stessa persona ed al suo essere parte di una comunità.
Questo sembra essere, in definitiva l’insegnamento da trarre dal composito esame delle giurisprudenze delle Corti nazionali e sovranazionali che si sono espresse sul tema.
Se il diritto alla cura e al rifiuto alle cure è già oggi da considerare meritevole di piena tutela, ove espresso e procedimentalizzato secondo i canoni fissati dalla l. n.219/2017, è proprio la necessità di offrire parimenti tutela, nelle forme che il legislatore intenderà fissare sulla base della griglia di indicazioni offerte dalla Corte costituzionale, al diritto a porre fine alla propria esistenza con dignità, a reclamare con forza una disciplina normativa che consenta a quel diritto fondamentale, scolpito attorno ai canoni di dignità-autodeterminazione-fragilità, di realizzarsi pienamente ed in modo effettivo.
Ed infatti, il varco aperto nella legislazione penale dalla Corte costituzionale ma, ancora di più, l’avere concretizzato - o inventato, per usare la felice (ed al tempo stesso solo apparentemente provocatoria) espressione dell’indimenticato Paolo Grossi – il diritto al suicidio assistito, secondo paradigmi e contenuti che il giudice delle leggi ha fissato, per giungere alla caducazione parziale dell’art. 580 c.p., ha inevitabilmente calamitato nel sistema in una situazione di incertezza sul quomodo con il quale questo diritto a por fine alla propria esistenza debba essere declinato, su quale debba essere il ruolo del servizio sanitario nazionale e dei comitati etici nell’attuazione dello stesso, sulle modalità operative, sull’obiezione di coscienza da eventualmente riconoscere al sanitario.
Insomma, un fascio di questioni alle quali non possono non aggiungersi quelle imposte dall’interpretazione che le Corti di merito hanno offerto delle condizioni legittimanti il c.d. suicidio assistito, confrontandosi con “casi della vita” in parte diversi da quello preso in esame dal giudice costituzionale.
Ora, chi scrive è dell’avviso che l’attuale situazione sia al tempo stesso fisiologica e patologica. Lo è nel primo senso laddove si considera che il giudice nazionale al quale sono posti casi della vita da risolvere originati dalle sentenze della Corte costituzionale già ricordate è responsabile delle decisioni che gli sono sollecitate, alle stesse non potendo opporsi con una semplice presa d’atto che manca una legge. Posizione che non lo renderebbe fedele alla Costituzione (art.54) ed agli obblighi che nascono dalla funzione giurisdizionale che lo stesso esercita. E nella stessa prospettiva non si può nascondere l’utilità della formazione progressiva di un diritto vivente che, proprio in relazione alla mutevolazza dei casi della vita, offra soluzioni concrete nello stigma fissato dalla Corte costituzionale[9].
Come ci è capitato altre volte di osservare, gli operatori di giustizia non possono nascondersi dietro un dito e non considerare che le coordinate di un sistema nel quale la produzione del diritto è sempre più plurale, promanando da centri di imputazione che la democrazia, le sue regole, e in particolare quelle che la Costituzione ha fissato, individuano come “motori propulsori” dei diritti al servizio della società. E tra questi sono proprio i casi della vita a dimostrarsi spesso difficili, onerosi, complessi per chi è chiamato a giudicare, esponendolo a ruoli e modi di essere che non gli sono congeniali, egli essendo ontologicamente chiamato a condannare o assolvere, più che ad essere arbitro delle esistenze altrui.
Ma è pure vero che la funzione giurisdizionale è essa stessa figlia del suo tempo, della coscienza sociale, della cultura di un popolo, anche quando è chiamata a verificare la coerenza, attualità e capacità del sistema normativo vigente di rispondere alle esigenze avvertite da chi è parte della società[10].
Detto questo non si può non convenire con chi – R. Bin[11] e da ultimo, G.Luccioli, nel suo saggio, intenso, dedicato al tema del fine vita[12] – auspica un intervento del legislatore in materia. Non vi è alcuna contraddizione, almeno agli occhi di chi scrive, fra quanto fin qui detto e l’esigenza di un intervento normativo che “universalizzi” le indicazioni offerte dalla Corte costituzionale, affidando al legislatore il bilanciamento fra i valori che si fronteggiano in materia e dia veste normativa agli auspici espressi dalla Corte costituzionale a proposito della creazione di un processo medicalizzato, prevedendo eventualmente la riserva esclusiva al servizio sanitario nazionale, in uno all’obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto – p.10 Cons.in diritto sent.n242/2019 –.
Ora, sembra evidente che porsi dal lato di chi evoca, ancora una volta, per rispettabilissime ragioni di natura etica, l’idea dell’isola per rappresentare l’intendimento sfavorevole ad una regolamentazione in via normativa del fine vita avrebbe il senso di una regressione verso posizioni di “non diritto” che, per converso, contrastano con le indicazioni della Corte costituzionale.
Ovvia l’obiezione ad una simile conclusione di chi ha stigmatizzato il “suprematismo giudiziario” della Corte costituzionale proprio in questo ambito – Bin[13] per tutti – e contesta l’ortodossia costituzionale della posizione espressa in tema di suicidio c.d. assistito.
Ma a tale obiezione si può agevolmente opporre il solido aggancio del diritto al suicidio assistito ai valori costituzionali e, soprattutto, alla dignità della persona. Dacché la mancata regolamentazione dell’attuale assetto desumibile dal diritto vivente non può che generare una situazione di caos alla quale il legislatore può porre rimedio per offrire una cornice di principi che siano poi attuati in relazione ai singoli casi della vita dal giudice. E ciò anche in modo da offrire una regolamentazione essenziale sul ruolo dell’autodeterminazione, in relazione alla situazione di fragilità nella quale si trova coinvolto il paziente che decide di porre fine alla propria esistenza. Tema, quest’ultimo che richiede particolare attenzione quando sono coinvolti minori di età[14].
Quanto al quomodo dell’intervento normativo[15], altre volte abbiamo provato a rappresentare l’idea che la materia di cui si discute si presta ad una disciplina mite, nella quale la cornice dei principi che il legislatore deve fissare offra poi all’interprete la possibilità di attuarla in relazione alla molteplicità e diversità dei casi della vita, in modo da offrire una risposta alla domanda di giustizia, quanto più rispondente ai canoni ed ai valori che qui si è provato a sunteggiare.
Chi scrive crede davvero nel canone della fiducia che deve animare gli operatori che compongono il frastagliato pianeta giustizia. Una fiducia che, come ha di recente scritto Tommaso Greco[16] deve tendere a creare una stabile rete di collegamento fra i diversi protagonisti del diritto, animandoli a cooperare in vista di un diritto più flessibile, più mite o più duttile[17].
Occorre dunque adoperarsi, ad ogni livello, in una prospettiva di ricercata alleanza fra mondo politico ed operatori del diritto. Alleanza che consenta al legislatore di esaminare il diritto giurisprudenziale fin qui emerso per valutarne la congruenza rispetto agli obiettivi che esso intende perseguire, ma anche agli altri operatori del diritto di offrire indicazioni che potrebbero tornare utili allo stesso legislatore, senza con questo invadere competenze altrui, ma appunto mettendo a disposizione dell’organo legittimato a provvedere, la propria esperienza da giudice e da giurista al servizio delle istituzioni. Tutto ciò in vista di un obiettivo comune che vede nella “rete” l’idea migliore per cooperare insieme agli altri costruttori del diritto e che viene ormai indicato come paradigma sul quale il diritto non può che fondarsi a fronte della sua pluralità[18]. Il che, in definitiva, sembra essere una prospettiva sulla quale potere e dovere investire fruttuosamente.
Non resta, a questo punto, che dedicare a chi è giunto fino a questo punto della lettura le parole di Guido Calabresi sul tema del dialogo[19], nella speranza che esse possano essere fatte proprie da tutti gli operatori del diritto con coscienza, coraggio e responsabilità emarginando suggestioni pericolose che ventilano più o meno apertamente lo spettro di omicidi per sentenza.
Ora, in questo stato di cose, che cosa tiene legati i giudici al rispetto dei limiti? Che cosa impedisce loro di arrogarsi un potere eccessivo? Che cosa li aiuta a conservare qualcosa della metodicità e cautela dei loro omologhi del passato in un mondo tanto accelerato e proteiforme? Il metodo dialogico è la soluzione moderna affinché il giudice sia inserito in un contesto di costante confronto, conforto, ispirazione, influenza, scambio e limite con altre Corti, altre giurisdizioni, altri Stati, altri interlocutori istituzionali. Il dialogo attenua la ferocia repentina e drastica con cui il giudice assolverebbe il suo ruolo nel contesto giuridico moderno, raccostandolo alla prudenza mite, incessante ma graduale, che apparteneva ai suoi predecessori della common law al fine di aggiornare e migliorare il diritto.
[1] Sia consentito il rinvio a R.G.Conti, Scelte di vita e di morte. Il giudice è garante della dignità? Roma, Aracne, 2019.
[2] N. Lipari, Il diritto civile tra legge e giudizio, Milano, 2019., 91.
[3] Cfr., S. Staiano, Legiferare per dilemmi sulla fine della vita: funzione del diritto e moralità del legislatore, in il diritto alla fine della vita. Principi, decisioni, casi, a cura di A. D’Aloia, Napoli 2012, 391, che ricorda la lezione schmittiana sull’assolutezza della legge accompagnata da una Costituzione priva di norme di garanzia a presidio della persona.
[4] G. Ferrando, Diritto alla salute e autodeterminazione tra diritto europeo e Costituzione, in Pol. Dir., 2012,1, 3 ss.
[5] A. Ruggeri, Fraintendimenti concettuali e utilizzo improprio delle tecniche decisorie nel corso di una spinosa, inquietante e ad oggi non conclusa vicenda (a margine di Corte cost. ord.n.207 del 2018), in Consultaonline, n.1/2019.
[6] A. Ruggeri, La disciplina del suicidio assistito è “legge” (o, meglio, “sentenza legge”), frutto di libera invenzione della Consulta (a margine di Corte cost., n.242 del 2019), in Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti XXIV. Studi dell’anno 2020, Torino, 2021, 47 ss.
[7] S. Rodotà, Diritto d’amore, Roma-Bari, 2015, in particolare, 11,12 e 18.
[8] V. volendo, senza pretesa alcuna di esaustività per solo per comodità di chi scrive e vantaggio di sintesi in questa sede, R. Conti, I giudici e il biodiritto. Un esame concreto dei casi difficili e del ruolo del giudice di merito, della Cassazione e delle Corti europee, Roma, 2015, 122 ss.
[9] Sia consentito il rinvio a R. G. Conti, La giurisdizione del giudice ordinario e il diritto UE, in Le trasformazioni istituzionali a sessant’anni dai trattati di Roma, a cura di A. Ciancio, Torino, 2017, 99.
[10] Tornano alla mente le parole del Professore e Presidente emerito della Corte costituzionale Paolo Grossi che in questi giorni è mancato ai vivi, ormai da lustri orientate a descrivere il mondo del diritto sempre più votato e indirizzato verso la postmodernità proprio per il caos normativo che costituisce la regola dell’essere giuristi del nostro tempo. Ed è stato proprio Grossi che "...La Costituzione è còlta - ripetiamolo, perché sta qui una soluzione davvero appagante - come testo e come sostrato valoriale, quasi un continente che affiora solo parzialmente alla superficie, ma la cui consistenza maggiore è sommersa (anche se perfettamente vitale). Realtà, dunque, di radici, di valori che non si irrigidiscono nella secchezza di comandi, ma divengono plastici principii con la immediata concretizzazione in diritti fondamentali del cittadino. Radici, sì, ma già ad origine giuridiche, basamento del complesso diritto positivo della Repubblica…”. Ed aggiungeva, ancora, che “…Il vecchio giudice, condannato ad essere 'bocca della legge' dai riduzionismi strategici degli illuministi (dapprima) e dei giacobini (successivamente), non può che togliersi volentieri di dosso la veste opprimente dell'esegeta, ormai del tutto inadeguata, e indossare quella dell'interprete, dell'inventore, intendendo la sua operazione intellettuale irriducibile in deduzioni di semplice natura logica (come in una celebre pagina di Beccaria) e concretizzabile piuttosto in una ricerca, in un reperimento, con le conseguenti decifrazione e registrazione…”- P. Grossi, Il mestiere del giudice, Prefazione, in Il mestiere del giudice, a cura di R.G. Conti, Padova, 2020.-
[11] R. Bin, Il giudice tra Costituzione e biodiritto, in Scritti in onore di Antonio Ruggeri, Napoli, 2021, Vol.I, 460.
[12] Sul quale v., volendo, la recensione al volume di chi scrive R. Conti, Dignità della persona e fine della vita, Bari, 2022, in Giustiziainsieme, 4 settembre 2022.
[13] R. Bin, Cose e idee. Per un consolidamento della teoria delle fonti, in Diritto costituzionale, Rivista quadrimestrale, 2019, 20 ss.
[14] Tema sul quale in passato si è provato a riflettere in R.G.Conti, Il giudice e il biodiritto, in Trattato di diritto e bioetica, a cura di A. Cagnazzo, Napoli, 2017, 62.
[15] A. Ruggeri, Ancora su Cappato e la progettazione legislativa volta a dare seguito alle indicazioni della Consulta, in Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti XXIV. Studi dell’anno 2020, cit., 590, da tempo suggerisce l’utilizzazione di una legge costituzionale, in ragione della materia che si situa nel cuore della Costituzione, attenendo a vicende relative al fine della vita che coinvolgono beni di primario rilievo.
[16] T. Greco, La legge della fiducia. Alle radici del diritto, Roma, 2021.
[17] T. Greco, op.cit., 120.
[18]Cfr., ancora, B. Pastore, Interpreti e fonti, cit., 28 ss.
[19] G. Calabresi, Il mestiere del giudice. Pensieri di un accademico americano, Bologna, 2013, 76.
“Allora, se fai il direttore hai due strade davanti a te: convincerti che lo stato presente sia immodificabile – ‘manca il personale, le strutture, i soldi, e si sa che può succedere di tutto …’ – o ricordare quali sono i tuoi doveri, le tue responsabilità e agire di conseguenza”
(L. Pagano, Il Direttore)
L’evoluzione del quadro normativo in materia penitenziaria, nel nostro Paese, a partire dal 1975, ci restituisce lo scenario complesso e contraddittorio di un sistema dell’esecuzione penale che, dopo aver visto l’introduzione di un ordinamento tra i più avanzati al mondo, subisce, con la nota sentenza “pilota” Torreggiani e altri c/ Italia del gennaio 2013, una condanna della Corte EDU per violazione sistematica del divieto di tortura stabilito dall’art. 3 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo; ebbene, tra il 1975 e il 2018 - l’anno degli interventi legislativi di attuazione della legge 103 del 2017 che ben si può considerare, assieme agli Stati Generali dell’esecuzione penale che la precedettero, effetto propulsivo diretto di quella spinta riformistica generata proprio dalla condanna della Corte di Strasburgo - plurimi interventi legislativi, talvolta non lontani da una certa schizofrenia normativa, hanno inciso l’ordinamento penitenziario trasformandolo, spesso in modo svilente, nel terreno di un perenne ed acerrimo confronto tra le istanze e le esigenze che un certo populismo penale e una certa deriva demagogica vorrebbero antitetiche e contrapposte, quella rieducativa e risocializzante da una parte, e quella della sicurezza sociale dall’altra.
Volgendo lo sguardo all’indietro, il nostro percorso non può che iniziare dalla riforma attuata con la Legge n. 354 del 26 luglio 1975 recante “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà”: la Costituzione, e - significativamente - l’articolo 27, valica i cancelli degli Istituti di pena, alla fine di un’attesa protrattasi dal 1948, periodo durante il quale rimase comunque in vigore il Regolamento “custodialistico” per gli Istituti di prevenzione e pena varato da Alfredo Rocco (R.D. 18 giugno 1931).
Si tratta, come noto, di un corpus organico di norme orientato al finalismo rieducativo della pena, pervaso dal principio del trattamento individualizzato e informato al rispetto della dignità umana, il cui manifesto può ben essere individuato nell’art. 1, co. 1, della stessa Legge n. 354 che pone al centro dell’intero sistema penitenziario l’individuo, centro di doveri ma anche di diritti il cui esercizio non può trovare ulteriore contenimento oltre a quello già fisiologicamente connesso allo stato in vinculis ed alle esigenze di ordine e sicurezza, perché l’esecuzione della pena, conformemente al senso di umanità costituzionalmente richiamato e nel rispetto della dignità delle persone ristrette, non si risolva in un surplus di sofferenza rispetto a quella derivante dalla limitazione della libertà personale imposta dalla condizione detentiva e non incida sul quel residuo di libertà risultante dall’esecuzione uti captivi che, secondo un arresto della Consulta «… è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la personalità individuale [della persona detenuta].»(Corte Cost., sent. n. 349/1993).
Nell’ottobre del 1986 viene varata la L. n. 663, c.d. “Legge Gozzini”, che si atteggia a naturale completamento della riforma del 1975, ovvero a suo più che significativo punto di approdo.
Il legislatore del 1986 cerca di completare, integrandolo, l’impalcato normativo del 1975 cercando di mediare tra l’esigenza di sicurezza e quella di progressiva e graduale proiezione extramuraria del trattamento penitenziario mediante le misure alternative alla detenzione previste dal Capo VI dell’O.p..
Secondo alcuni addetti ai lavori, la Gozzini segnò l’inizio di una storia diversa di costruzione ed apertura del carcere alla speranza, una storia che non fu quella di un’intuizione romantica o di una concessione indulgenzialistica, bensì quella di una determinata strategia di contrasto alla criminalità proprio attraverso l’introduzione delle misure alternative.
Arriviamo così alle riforme degli anni 90, figlie delle sfide lanciate allo Stato della criminalità organizzata. È la stagione dell’introduzione del reticolato di preclusioni ostative al godimento di benefici e misure alternative del c.d. “doppio binario penitenziario” (art. 4-bis, O.p.) e del regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis, co. 2, O.p..
È a partire da questo periodo storico che sembrerà ancora più lapalissiana, nel nostro Paese, la scomposta fluttuazione degli indirizzi di politica penitenziaria tra spinte liberalizzanti e pressioni restrittive: questo stato di “perenne emergenza” avvilupperà, cannibalizzandoli, lo spirito dell’Ordinamento penitenziario del 1975 e la filosofia riformatrice del 1986, e si manifesterà in una spirale normativa segnata, a seconda delle circostanze di tempo, di spazio e di colore politico, da spinte progressiste e, al contempo, da spasmi di regresso culturale nel campo dell’esecuzione penale.
È il “carcere sottosopra”, quello che si converte nel “[…] contrario di quello che esigeva la Legge, di diritti e di doveri […]”, quello in cui agli operatori sembrava di essere guidati da un “[…] timoniere (il Direttore, NdR) di una nave il cui capitano ordinava di cambiare continuamente rotta e non aveva alcuna idea di quale porto andasse cercando.” [1]
Questo brevissimo excursus delle riforme dell’Ordinamento penitenziario non può non concludersi con il riferimento all’ultimo pacchetto di riforme introdotte, a seguito dell’esperienza degli Stati Generali dell’esecuzione penale, in attuazione della Legge n. 103/2017, dai D.lgs. 122, 123 e 124 del 2018.
Non può sottacersi che un filo conduttore pervade negativamente - ad avviso di chi scrive - i molteplici interventi legislativi intervenuti nel corso degli anni: l’inadeguatezza degli investimenti effettuati.
Si è infatti erroneamente ritenuto, come in tanti altri settori oggetto di normazione, che il semplice legiferare potesse costituire attività sufficiente ad imprimere una svolta riformatrice all’intero sistema.
Tale fallace considerazione è inevitabilmente sotto gli occhi di qualsiasi osservatore.
Il sistema è, infatti, al collasso per l’inadeguatezza degli strumenti imprescindibili per far funzionare il sistema penitenziario.
In particolare, vi è carenza di personale penitenziario (Direttori, Polizia penitenziaria ed operatori del trattamento), peraltro non adeguatamente formato.
Le insufficienti strutture penitenziarie versano in critiche condizioni edilizie e non risultano progettate in linea con le disposizioni normative (mancano spazi per le attività trattamentali).
Come invertire la rotta?
Ad avviso di chi scrive, occorre procedere ad un rapido e pragmatico cambio di passo adeguatamente supportato da consistenti investimenti, senza limitarsi ad effettuare continue analisi sulle cose da fare, che potrebbero sconfinare in un mero “accanimento diagnostico”, senza qualsivoglia ricaduta concreta e benefica sulla vita detentiva.
Si deve quindi rapidamente passare all’attuazione concreta di ciò che l’Ordinamento penitenziario - da tempo - prevede, per non determinare un tradimento del dettato costituzionale e normativo.
A questo proposito è stato osservato come “Questo ‘tradimento’ ha determinato il permanere di quello stridente e dilatato iato sistematico tra individualizzazione e differenziazione trattamentale che oramai da circa un trentennio caratterizza l’impianto dell’esecuzione penale nel nostro Paese e che, nella attuale configurazione normativa, sigla il punto di maggiore frizione tra l’intervento penale e la tensione rieducativa delle pene costituzionalmente evocata. Un ‘doppio binario’ che, tramite l’erosione delle più vistose e irragionevoli deviazioni dal modello ordinario, la ‘riforma tradita aveva provato a ridurre ad Costitutionem.”[2].
È impossibile, per chi scrive, non richiamare il “bilancio” sulla Legge penitenziaria del 1975 che Franco Bricola, oggi possiamo dire profeticamente, fa già nel 1977 quando registrò, rispetto alla stessa L. 354 “un’effettività di tipo rinnegante rispetto alle decantate prospettive del nuovo ordinamento cui si accompagnano preoccupanti linee di tendenza per l’avvenire.”[3].
Ma è lo stesso Bricola ad affermare che “un’effettività di tipo ‘rinnegante’ è di per sé innegabilmente connessa ad un tipo di normativa come quella penitenziaria che riguarda uno dei settori più esposti alle varie pratiche nelle quali, nello Stato di diritto, si realizza l’illegalità ufficiale attraverso la non applicazione e la manipolazione amministrativa delle norme”, offrendoci così la sponda per introdurre la figura di chi, nei corridoi delle sezioni e dei reparti detentivi teatro della applicazione di questa produzione normativa a due facce, fatta dell’alternarsi tra riforme e controriforme, ha lavorato e lavora, perché “il carcere è il posto dove il diritto si fa carne e sangue”, secondo la celebre definizione di Valerio Onida: parliamo del Direttore di Istituto penitenziario.
Appare opportuno evidenziare che nell’Ordinamento penitenziario non esiste una norma che disciplini l’attività del Direttore penitenziario. Il più compiuto riferimento è l’art. 3 del Regolamento di esecuzione (D.P.R. 230/2000) ove si legge, altresì, al secondo comma, che il Direttore esercita i poteri di organizzazione, coordinamento e controllo delle attività dell’Istituto
È possibile distinguere sostanzialmente la sua attività in tre macro-settori: amministrazione del personale civile e di quello di Polizia penitenziaria, governo della popolazione detenuta o internata e gestione amministrativo-contabile dei servizi dell’Istituto; egli, oltre a essere il superiore gerarchico di tutto il personale d’Istituto, esercita un’essenziale funzione di dialogo col territorio di riferimento, di relazione e di apertura del carcere all’esterno, di propulsione dei progetti che coinvolgono la struttura ai fini dell’esercizio del proprio mandato istituzionale di recupero e risocializzazione della popolazione, ma anche di coordinamento e controllo di tutti gli operatori penitenziari, non solo di quelli direttamente dipendenti dall’Amministrazione penitenziaria ma anche di quelli esterni, per esempio volontari e professionisti esperti ex art. 80, O.p..
La dottrina ha fornito negli anni molteplici e suggestive rappresentazioni del Direttore d’Istituto.
Scorriamone una brevissima rassegna.
“La figura del direttore si chiarisce e si configura sostanzialmente e formalmente come quella di un sollecitatore di interessi, di interventi, di azioni e di attività molteplici.” (I. Sturniolo, Rassegna penitenziaria e criminologica, 1983).
“Il Direttore di Istituto penitenziario costituisce l’essenziale centro di guida e di governo nell’esecuzione delle sanzioni penali nonché nell’attuazione della custodia cautelare” (in Canepa–Merlo, “Manuale di Diritto Penitenziario”, Ed. Giuffrè, 2002).
“C’è un unico regista a cui è affidata la sceneggiatura della vita quotidiana del carcere: il Direttore. … Il Direttore è il vertice della piramide carceraria; da lui dipendono le risposte a tutte le domande possibili che salgono e scendono i gradini della scala gerarchica e basta una sua sigla a esentare chiunque da responsabilità. … potrebbe essere il motore del cambiamento. Invece è uno dei principali responsabili dell’immobilismo perpetuo.” (L. Castellano e D. Stasio, Diritti e Castighi, Ed. il Saggiatore, 2009).
“Qualche anno fa, in un dibattito pubblico mi capitò di essere definito un amministratore delle sofferenze … con il tempo ho riflettuto su quella frase, giungendo alla conclusione che descrivesse bene una delle percezioni, forse la prevalente, che da fuori si ha degli effetti dell’azione organizzativa portata avanti all’interno della struttura penitenziaria che, con le sue scelte, modalità, procedure, limiti e sinergie di vario genere, influenza la qualità e la sostanza della vita detentiva delle persone che le vengono affidate”. (P. Buffa, Prigioni. Amministrare la sofferenza, Ed. Gruppo Abele, 2013).
Ma chi è, oggi, il Direttore, come si muove nel complesso – e a tratti, come si è visto, estremamente contraddittorio – contesto normativo in cui opera ed esercita il suo ruolo?
Possiamo dire che il Direttore d’Istituto penitenziario sia chiamato, nell’attuale quadro istituzionale, ad esercitare una leadership che è essa stessa veicolo di quello che potrebbe essere, in potenza, un cambiamento talmente importante da mettere in discussione il rigido modello iper-razionale della vecchia burocrazia meccanica weberiana che tanto sembra aver permeato e permeare ancor oggi l’Amministrazione del sistema penitenziario italiano.
A questi “vecchi” schemi di pensiero e di azione, i nuovi Dirigenti, i Dirigenti “pluralisti”[4] della metafora organizzativa di Gareth Morgan, sostituiscono strumenti e modelli che non sono quelli tradizionali del ‘comando’ ma che si identificano con la capacità di dialogare, di mediare, di sanzionare ove occorra, di controllare e al tempo stesso di persuadere e ottenere consenso anche attraverso il riconoscimento della rappresentatività di interessi divergenti (che tanto caratterizzano la vita all’interno di un penitenziario, attraversandolo costantemente, e che si esaltano nei dualismi tipici del carcere), di dedicarsi alla difesa dell’integrità istituzionale ed alla composizione dei conflitti.
Ma, soprattutto, ad avviso di chi scrive, la centralità del Direttore d’Istituto va cercata nella sua fondamentale funzione di snodo tra il livello, il mondo, dei principi e quello delle regole[5]: è questo il campo in cui possiamo scegliere di scendere o che possiamo scegliere di guardare, immobili, dall’avamposto tetragono della nostra scrivania; è questa la sfida che possiamo – necessariamente negoziando – assumerci la responsabilità di portare avanti nei nostri Istituti e che consiste nel farsi interpreti del contesto e nell’elaborare un messaggio normativo diverso, appunto, da quello meccanico e binario delle ‘regole/norme’.
In un contesto organizzativo così peculiare come quello penitenziario, il cui livello di imprevedibilità è direttamente proporzionale alla varietà e imponderabilità del comportamento umano che quotidianamente la stessa istituzione deve gestire e governare, infatti, solo una reductio ai principi può consentire ai Direttori decisioni tempestive, scelte autonome e flessibili, adatte ad affrontare criticità improvvise con speditezza ed efficienza in cui questo processo ‘creativo’ posto in essere dal vertice organizzativo, ben lontano da una discrezionalità arbitraria e abusante, è intrinsecamente congiunto ad una legalità generale che è appunto quella della regole la somma delle quali è presupposto, giuridico e deontologico, per la realizzazione, nella attività quotidiana dei principi di cui parliamo.
È questo switch che ci consente di realizzare, nella misura più ampia possibile - compatibilmente con le possibilità giuridiche e di fatto offerte dalla materia e dal contesto, guardando agli elementi tecnici, economici, strutturali dei problemi che siamo chiamati a risolvere ed ai flussi di dati e informazioni a disposizione - nella nostra operatività quotidiana, nella pratica della vita di Istituto, il mandato che la Costituzione ha affidato all’Amministrazione penitenziaria; è principalmente attraverso questo nuovo modello decisionale che possiamo orientarci con una bussola che ci metta a disposizione dei criteri che ci consentano di comprendere quale comportamento adottare rispetto a determinate e specifiche problematiche
È qui, in questa funzione di snodo tra principi e regole che, con ogni probabilità, risiede la centralità del ruolo di Direttore di Istituto.
E la realizzazione più plasticamente compiuta e moderna di questa funzione appare, ad avviso di chi scrive, quella degli strumenti di programmazione che oggi consentono, a cascata, a tutte le strutture penitenziarie - a livello centrale/dipartimentale, territoriale/regionale e di singolo Istituto - di perseguire gli obiettivi in cui devono sostanziarsi gli indirizzi di politica giudiziaria e penitenziaria. Parliamo, rispettivamente, del Documento di progettazione generale, dei Documenti programmatici territoriali e del Progetto d’Istituto (il documento “politico” della Direzione, quello che traccia la sua rotta); è proprio nella capacità di progettare, infatti, che, con ogni probabilità, si esalta il nostro ruolo dirigenziale che, diversamente, rischierebbe di soffocare in meri tentativi di risoluzione di problemi particolari e contingenti - talvolta bagatellari - e di appiattirsi in una gestione del amministrativa del quotidiano senza afflato e senza ambizione.
È questa, forse, la più grande sfida che, confutando le rigidità di un sistema che vorremmo ormai superato e - finalmente! - contraddicendolo, ci attende.
[1] L. Pagano, Il Direttore, Milano, Zolfo, 2020, pagg. 198 e 201
[2] F. Siracusano, “Cronaca di una morte annunciata”: l’insopprimibile fascino degli automatismi preclusivi penitenziari e le linee portanti della “riforma tradita”, in Archivio Penale n. 3, settembre-ottobre 2019
[3] F. Bricola, Introduzione a Il carcere ‘riformato’, Bologna, Il Mulino, 1977, pagg. 9-10
[4] P. Buffa, Prigioni, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2013
[5] C. Sarzotti, Il campo giuridico del penitenziario: appunti per una ricostruzione, in Diritto come questione sociale, Torino, Giappichelli, 2010.
Back to the basics. Indisponibilità dei diritti fondamentali e principio di dignità umana dopo Sezioni Unite n. 38162/2022[1] di Valentina Calderai
Sommario: 1. Un caso difficile - 2. Significato metodologico - 3. Significato sostanziale - 4. Le questioni aperte.
1. Un caso difficile.
Interpellate, per la seconda volta in poco più di tre anni, in merito alla trascrizione del titolo dello stato filiale dei nati da maternità surrogata formato all’estero, le Sezioni Unite hanno ribadito che la garanzia del diritto «imprescindibile» del figlio alla costituzione dello stato nei confronti del genitore committente è adeguatamente soddisfatta, in assenza di un legame di discendenza genetica, dal procedimento di adozione in casi particolari, in ragione del rango di ordine pubblico costituzionale del divieto di surrogazione di maternità e della conseguente esigenza di trovare un ragionevole equilibrio tra il rifiuto di assecondare una pratica riprovata dall’ordinamento e l’apprezzamento in concreto del miglior interesse del bambino.
La Corte, peraltro, non si limita a consolidare e corroborare l’orientamento già in precedenza espresso da SU 12193/2019[1]. Nel solco di C. Cost. n. 79/2022[2], le Sezioni Unite aggiungono un tassello importante alla piena attuazione del principio dello stato unico filiale nei confronti delle bambine e dei bambini adottati nei modi degli artt. 44 ss. L. 183/184[3] e, soprattutto, propongono una lettura dell’ordine pubblico in relazione al principio della dignità umana — «nella sua dimensione oggettiva»[4] — che, forse per la prima volta nella giurisprudenza sul tema, supera la declinazione esclusivamente penalista dell’ordine pubblico per cogliere i profili di oggettivo contrasto della pratica con i diritti inviolabili delle madri surrogate e dei bambini. Anche per questo è una «decisione di sistema»[5], la cui portata trascende lo stesso thema decidendum. Senza immaginare neppure di esaurire il significato sistematico della sentenza, le brevi note che seguono cercano per un verso, di isolare alcuni profili metodologici e sostanziali a mio avviso cruciali, per altro verso di guardare (durch SU 38162/2022 über SU 38162/2022 hinaus) agli aspetti ancora problematici della tutela dei nati da madri surrogate, individuati dalla stessa Suprema Corte.
2. Significato sostanziale metodologico.
Tre anni sono un tempo breve anche per un organo storicamente insofferente alle rigide strettoie nomofilattiche, soprattutto se la prima decisione a Sezioni Unite è seguita (nell’ordine) da un Parere della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e da una sentenza della Consulta che ne hanno sostanzialmente confermato la portata. Tanto breve da giustificare pienamente le critiche rivolte alle due ordinanze interlocutorie della Prima Sezione civile[6] sotto il profilo del ragionevole rapporto tra interpretazione adeguatrice, giusto processo e nomofilachia, a tutela del principio di eguaglianza[7]. Ma è pur vero che i tre anni di assedio al principio di diritto affermato da SU 12193/2019 hanno suscitato un discorso pubblico, scientifico e giurisprudenziale, sulla (in)disponibilità dei diritti inviolabili, sul significato della genitorialità (indipendentemente dall’orientamento sessuale), sui limiti della legge sull’adozione, in breve: sui diritti civili, quale non si vedeva da tempo, con ricadute importantissime per la tutela dei bambini: penso in particolare a Corte Cost. n. 79/2022 e all’affermazione in via generale del principio dello stato filiale unico nel raggio di applicazione dell’adozione in casi particolari.
In questo contesto, il primo acquis di SU 38162/2022 è metodologico. La Corte ha respinto l’uso alternativo (o semplicemente disinvolto) del diritto (giurisprudenziale), per avallare pretesi contrasti «insuperabili» del diritto vivente italiano con la giurisprudenza convenzionale e costituzionale, declinando l’invito implicito a surrogare la legge: non per ossequio a un legislatore al di sotto di ogni possibile aspettativa sulle questioni cosiddette eticamente sensibili, ma per saldissime ragioni legate al principio di legalità, alla leale collaborazione tra istituzioni, alla consapevolezza della «complessità dell’esperienza e della connessione tra questa e il sistema»[8]. Al tempo stesso ha fatto quel che il Giudice di legittimità e di costituzionalità delle leggi deve saper fare: mobilitare tutte le risorse dell’interpretazione storico-evolutiva, sistematica, costituzionalmente orientata per rispondere a un problema di effettività della tutela. Il risultato è il superamento — in via generale — del secondo profilo di inidoneità dell’adozione speciale messo in luce (ma non risolto) da C. Cost. 33/2021[9]: il potere di interdizione attribuito ai «genitori esercenti la responsabilità genitoriale» (art. 46, comma 2 ̊, l. n. 183/1984).
3. Significato sostanziale.
Se i primi commenti sono un indice attendibile dell’orientamento generale, la giurisprudenza pratica e teorica tornerà a dividersi sull’interpretazione in chiave oggettiva della tutela della dignità umana quale ratio sottesa al contrasto delle leggi straniere che regolano la surrogazione di maternità con l’ordine pubblico costituzionale. Il principio di dignità è diventato un legal irritant (come «good faith» per i common lawyers) ed è bene che sia così, perché il confronto libero e pubblico delle idee serve a fare chiarezza sul tema del contendere: la (in)disponibilità dei diritti fondamentali e il tipo di comunità che vogliamo essere.
Tutela della dignità umana nella sua dimensione oggettiva, nel caso specifico, vuol dire che i diritti oggetto degli accordi di surrogazione, segnatamente i diritti connessi all’integrità personale, alla salute, all’intimità, allo stato, non sono disponibili, neppure a titolo gratuito. Qualcuno invoca l’etica kantiana, ma a sproposito: sia perché Kant, affermando nel modo più reciso il divieto di disporre di sé ha in mente un dovere che l’individuo ha verso se stesso e in nessun modo un principio del commercio giuridico; sia (appunto!) perché il corpo e l’intimità sono sempre stati in commercio. Il problema della (in)disponibilità dei diritti fondamentali interpella i giuristi come problema squisitamente giuridico, prima che etico, ed è un problema che nell’alveo della tradizione giuridica occidentale ha ricevuto e riceve risposte diverse.
Nella Costituzione italiana l’idea di dignità è richiamata tre volte: la prima nella definizione del concetto di eguaglianza formale (art. 3); la seconda, in modo più sostanziale, come diritto dei lavoratori a un’esistenza libera dal bisogno (art. 36); la terza, come limite all’iniziativa economica privata (art. 41). In modo indiretto, ma non meno certo, lo stesso divieto fatto alle leggi che impongono trattamenti sanitari di «violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» è un limite a salvaguardia della dignità umana[11]. Queste disposizioni non saprebbero giustificare un limite assoluto e fanatico al diritto di autodeterminazione individuale e tuttavia possono bene imporre la sottrazione al libero mercato di (alcune) delle utilità derivanti dall’uso del corpo e dell’intimità umana, in nome di valori ed esigenze che non sono paternaliste (non rispondono solo o necessariamente al best interest dei diretti interessati), né stataliste (non servono al Potere), né economiche (possono e devono, se necessario, essere attuate in perdita: incommerciabilità del sangue), ma civili: espressive dei valori della civitas. Il senso felicemente eversivo della posizione del principio di dignità umana nella Costituzione italiana e nel Grundgesetz, la ragione per cui non può essere assimilato «a un diritto fondamentale, né a una super-norma»[12], è nell’aver legato insieme libertà, eguaglianza, solidarietà: la pretesa incondizionata dei diritti umani di valere universalmente e il radicamento dei diritti fondamentali in una comunità, «a place in the world which makes opinion significant and actions effective»[13], e in una democrazia[14].
Il costituzionalismo italiano e europeo non sottoscrive al paradigma di autodeterminazione come «absolutist, libertarian right»[15] sul corpo, l’intimità, gli status. Al contrario, l’insindacabilità della scelta (anche) nella sfera dell’intimità è un valore strumentale alla realizzazione dei diritti individuali e può essere limitata – come sperimentiamo del resto ogni giorno – in ragione del principio di solidarietà, per la tutela di interessi generali e la protezione dei diritti di singoli e gruppi. La contraria opinione presuppone una cornice etico-politica prossima al costituzionalismo statunitense, che in effetti ammette la disponibilità dei diritti fondamentali in modo molto più generoso di quanto non avvenga in Europa e, soprattutto, non ha sviluppato una teoria elaborata della Drittwirkung.
S.U. 38162/2022 si inserisce in questo quadro in modo sorprendente per una giurisprudenza assuefatta alla logica del fait accompli. Dalle primissime battute, invece di recitare il mantra dell’impotenza del diritto interno di fronte alla violazione dei diritti umani e della priorità della cura dei minori hic et nunc (pace per quelli che verranno) squarcia il velo, per la prima volta in un consesso di massima istanza, su quel che un Rapporto del 2019 del Consiglio per i diritti umani delle nazioni unite ha definito le «systemic abusive practices»[16] (spoiler: California inclusa) del mercato della discendenza: «Nella gestazione per altri non ci sono soltanto i desideri di genitorialità, le aspirazioni e i progetti della coppia committente. Ci sono persone concrete. Ci sono donne usate come strumento per funzioni riproduttive, con i loro diritti inalienabili annullati o sospesi dentro procedure contrattuali. Ci sono bambini esposti a una pratica che determina incertezze sul loro status e, quindi, sulla loro identità nella società»[17].
Si obietta: ma questa è la surrogazione commerciale, leggi: dove la gestante riceve riceve un compenso (orrore!), non la surrogazione gratuita, leggi: dove solo la gestante non riceve un compenso (applausi!). Una «goccia d’olio» giusrealista consiglia un atteggiamento più critico. Si dovrebbe considerare se sia sufficiente un’analisi delle black letter rules che attesti la formale assenza di un corrispettivo o non sia opportuno allargare l’orizzonte della ricerca al contesto normativo e ambientale dell’esecuzione del contratto, sotto il profilo dell’elusione del divieto e della vulnerabilità particolarmente di donne giovani, in determinati contesti, alle pressioni dei familiari. L’analisi comparatistica mostra come in occidente la combinazione di gratuità e revocabilità del consenso esista in purezza, ma per lo più sulla carta, solo nel Regno Unito, nei Paesi Bassi e, appunto, nella British Columbia. I risultati di questi esperimenti — tra incertezze applicative, mancanza di effettività, revisioni continue, proposte di riforma nel segno del controllo giudiziale preventivo e della vincolatività degli accordi a titolo oneroso — suggeriscono peraltro che la surrogazione altruistica tra estranei è un esempio plateale di fallimento della regolamentazione. In tutto il mondo il modello altruistico arretra di fronte all’avanzata della surrogazione commerciale, sulle ali della competizione regolatoria. Le ragioni di questo scacco si annidano nei costi di transazione insostenibili di un modello autenticamente ispirato al principio della extra-patrimonialità del corpo e degli status: senza incentivi economici adeguati, non ci sono abbastanza donne disposte a farsi carico dell’onere fisico e psicologico di una gravidanza; senza efficaci garanzie ex ante in merito all’esecuzione di accordi esposti a un gran numero di sopravvenienze, troppi aspiranti genitori scelgono di andare all’estero, piuttosto che sottostare alla discrezionalità di una sconosciuta e a pervasivi controlli giurisdizionali e amministrativi[18].
Più radicalmente, si dovrebbe indagare fino a che punto il nesso tra ordine pubblico e gratuità non sia il retaggio di un’analogia spuria con la prostituzione e di stereotipi inconsapevolmente ma francamente sessisti sulla maternità come abnegazione e dono di sé. Soprattutto, nel quadro di un ordinamento che non reprime penalmente la surrogazione di maternità in quanto tale, ma l’intermediazione, è di capitale importanza valutare se l’assenza di corrispettivo per la gestante sia una risposta adeguata all’istanza di non mercificazione, ove l’accordo (asseritamente a titolo gratuito) tra la madre surrogata e i committenti sia preparato, programmato, eseguito, nella cornice dell’attività imprenditoriale di organizzazioni che operano a fini di lucro, attraverso la conclusione di una pluralità di contratti, tutti — beninteso — a titolo oneroso.
In questo contesto caotico e frammentario la determinazione dei presupposti per una pratica della surrogazione di maternità in qualche modo compatibile con i principi fondamentali del’ordinamento, esige un patrimonio di conoscenza empirica e un livello di elaborazione teorica che non possediamo ancora. Non è chiaro, infatti, quali predicati dovrebbero qualificare l’accordo di surrogazione di maternità per ricondurre l’imprevedibilità dei casi concreti alla riconoscibilità della fattispecie generale e astratta né, soprattutto, quale metodo e quali argomenti dovrebbero sostenere la selezione degli elementi normativi qualificanti.
In questo contesto, il richiamo al significato oggettivo della principio-dignità da parte di S.U. 38162/2022 è insieme un esercizio di umiltà e una professione di fiducia nella forza del diritto: «il nostro sistema vieta qualunque forma di surrogazione di maternità, sul presupposto che solo un divieto così ampio è in grado, in via precauzionale, di evitare forme di abuso e sfruttamento di condizioni di fragilità»[19].
4. Le questioni aperte.
Quid iuris se il genitore puramente intenzionale, al ritorno in patria, rinuncia a costituire il rapporto di filiazione, omettendo di instaurare la procedura di adozione?
La questione[20] irrompe come un accordo dissonante in una motivazione improntata alla ricerca dell’armonia tra le ragioni della tutela ex ante dei soggetti messi a rischio dalla pratica della surrogazione di maternità e tutela dell’interesse del minore. E si deve pure aggiungere che i casi di «pentimento» saranno verosimilmente assai rari, sicché bene ha fatto la Suprema Corte a escludere che una «evenienza particolare» giustifichi l’automatismo in via generale della trascrizione.
Ma è pur vero che una risposta al problema va data e può essere imbastita riflettendo sui limiti all’esercizio del diritto in contrasto con una precedente condotta, generatrice del legittimo affidamento di un terzo: nemo contra factum proprium venire potest. Separando la procreazione dal concepimento, le tecnologie della riproduzione hanno dischiuso un orizzonte di libera scelta in un dominio già governato da istituzioni sedicenti naturali, ma al tempo stesso hanno moltiplicato i rischi e le responsabilità connessi all’uso malaccorto, opportunistico o abusivo della libertà. Non a caso una delle rare concretizzazioni pretorie del cosiddetto divieto di venire contra factum proprium fu autorevolmente ravvisata nella preclusione all’azione il disconoscimento[21], imposta a mo’ di estoppel dalla Suprema Corte al coniuge consenziente alla fecondazione eterologa, in connessione con i «canoni generali dell’ordinamento sul dovere di lealtà nei rapporti intersoggettivi», presa a modello dall’art. 9 l. 40/2004. Anche in quell’occasione, peraltro, la Consulta aveva dissodato il terreno per l’intervento supplendi causa della giurisprudenza di legittimità, autorizzando «nell’attuale situazione di carenza legislativa» il giudice a cercare nell’interpretazione costituzionalmente adeguata del sistema nel suo complesso gli strumenti di tutela dei diritti del nato «nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità»[22].
L’eco di queste parole risuona distintamente nel passaggio della decisione in commento, che invita l’interprete a ricercare «ove si presenti il caso […] nel sistema gli strumenti affinché siano riconosciuti al minore, in una logica rimediale, tutti i diritti connessi allo status di figlio anche nei confronti del committente privo di legame biologico, subordinatamente ad una verifica in concreto di conformità al superiore interesse del minore. Difatti, chi con il proprio comportamento, sia esso un atto procreativo o un contratto, quest’ultimo lecito o illecito, determina la nascita di un bambino, se ne deve assumere la piena responsabilità […]»[23].
Nella «logica rimediale» auspicata dalla Corte, l’esigenza di tutela non cambia a seconda che l’impegno tradito si sia concretizzato in una fattispecie regolata dal diritto interno (consenso alla fecondazione eterologa), ovvero nelle forme e nei modi previsti da una legge straniera in contrasto con l’ordine pubblico costituzionale (partecipazione in veste di committente alla conclusione e alla esecuzione di un accordo di surrogazione di maternità). In entrambi i casi, si tratta di garantire ai bambini nati da procreazione assistita quantomeno la tutela giurisdizionale effettiva dei diritti che l’art. 30, comma primo, Cost. riconosce a tutti i figli, indipendentemente dall’esistenza di uno stato di filiazione formalmente costituito. La differenza sussiste bensì sul piano degli strumenti della tutela, laddove non si tratta di proteggere uno stato già formalmente accertato dall’esercizio abusivo dell’azione di disconoscimento, ma di ottenere un provvedimento che realizzi gli effetti dello stato, a fronte del rifiuto contrario a buona fede di dar corso al procedimento di adozione.
L’allusione a un «contratto […] illecito» invita a una lettura in chiave, per così dire, jheringhiana della questione. Dal primo contratto con l’intermediario all’esecuzione dell’accordo concluso con la gestante, fino al provvedimento (certificato di nascita ovvero ordine giurisdizionale) ottenuto in conformità alla lex loci, passando per una serie articolata e coordinata di contratti stipulati con varie figure professionali e di atti di natura amministrativa: più di ogni altra modalità di riproduzione assistita, la surrogazione di maternità si realizza nel compimento di una complessa attività giuridica, che vede i committenti impegnati nella veste di parte unitaria e inscindibile, al fine di conseguire un titolo dello stato, riconosciuto peraltro solo in parte dal diritto italiano. A seconda che si adotti il punto di vista dell’ordinamento straniero o dell’ordinamento nazionale, quel provvedimento apparirà di conseguenza come il fondamento giustificativo dell’intera operazione o un passaggio obbligato, ma interinale, di un progetto più ampio, volto al definitivo accertamento dello stato di genitori: in ogni caso, non è semplicemente la manifestazione ostensibile dei reciproci affidamenti, ma il risultato di un programma negoziale comune, dunque un rapporto giuridico, che vincola i «genitori» secondo il titolo parzialmente inefficace ottenuto all’estero a compiere tutto quanto è necessario per ottenere un titolo pienamente efficace nell’ordinamento interno, nell’interesse del figlio.
Ciò posto, dopo tre sentenze della Consulta e due decisioni a Sezioni Unite, inframmezzate da un Parere della Corte europea dei diritti dell’uomo, non c’è ragione di dubitare che l’adozione sia oggi per il diritto vivente italiano il modo di costituzione dello stato nei confronti del genitore puramente intenzionale dei figli nati da madri surrogate. Segue da questa premessa che la cooperazione al relativo procedimento rappresenta, nel rapporto tra i committenti, l’oggetto di un legittimo affidamento, se non anche di una aspettativa tutelata, come si addice del resto a una fattispecie a formazione progressiva («qualcosa di più di un mero potere di fatto e non […] ancora il pieno diritto soggettivo»[24]), laddove nel rapporto tra i genitori committenti e il figlio assume il significato di un vero e proprio dovere giuridico, riferito all’esercizio conforme a correttezza di un potere discrezionale.
L’interpretazione funzionale del consenso ex art. 46 l. n. 184/1983 alla tutela dell’adottato proposta dalle Sezioni Unite corrobora questa ipotesi di lavoro[25]. Se nel rapporto tra i committenti l’irrilevanza del dissenso manifestato dal titolare della responsabilità parentale in contrasto con l’interesse del figlio segnala il riconoscimento di una aspettativa tutelata dell’adottante a che la costituzione dello stato non sia ostacolata da iniziative emulative o pretestuose, nel rapporto tra il genitore e il figlio essa s’intende invece agevolmente nel quadro della responsabilità genitoriale modernamente intesa, là dove l’esercizio discrezionale delle corrispondenti facoltà è limitato dal dovere di tener conto dell’interesse (legittimo, di diritto privato) dell’adottando[26].
Si tratta a questo punto di considerare se la categoria del rapporto giuridico possa in qualche modo contribuire a far luce anche sull’ipotesi, speculare, della rinuncia a instaurare il procedimento di adozione. Nella misura in cui il titolo dello stato straniero è l’effetto perseguito dai committenti nel quadro di un programma negoziale condiviso, espressione di solidarietà familiare, non c’è ragione di negare l’interesse giuridicamente tutelato del genitore biologico a che il genitore puramente intenzionale dia corso all’adozione. La causa del riconoscimento di un tale interesse si identificherebbe nella protezione di un affidamento qualificato — «the plaintiff has in reliance on the promise of the defendant changed his position», nella classica definizione di Lon Fuller[27] — e il suo oggetto sarebbe la richiesta di condanna a un risarcimento calibrato sulla condivisione dei costi del mantenimento, istruzione, educazione del figlio. Va aggiunto che un affidamento tutelabile non potrebbe essere escluso dall’illiceità della surrogazione di maternità, sia perché l'ordinamento italiano non vieta ai cittadini di recarsi nei paesi dove la pratica è lecita, sia perché il provvedimento straniero è a ben vedere doppiamente efficace e rilevante per il diritto interno: come atto parzialmente trascrivibile nei confronti del genitore biologico e, soprattutto, come presupposto necessario per l’instaurazione del procedimento adozione nei confronti del genitore puramente intenzionale.
Indipendentemente dalle conseguenze della lesione dell’affidamento nel rapporto tra i committenti, è incontestabile che il figlio vanti una più forte pretesa, dell’ordine dei diritti soggettivi, nei confronti del committente che ricusi l’adozione. Non è chiaro però di quali «strumenti» dispongano i figli per concretizzare una tale pretesa: un sistema di tutela civile dei diritti improntato alla tipicità e tassatività delle azioni costitutive (art. 2908 c.c.)[28] non dispone prima facie di un rimedio, una sorta di promissory estoppel di diritto familiare, che consenta di considerare vincolanti e coercibili gli atti necessari per attribuire piena efficacia nel diritto interno al titolo dello stato straniero.
Esclusa un’azione modellata analogicamente sull’art. 269, primo comma, c.c., per la dipendenza della dichiarazione giudiziale dai presupposti del riconoscimento, che distruggerebbe le condivisibili ragioni alla base della scelta delle Sezioni Unite di ricusare la genitorialità meramente intenzionale, l’esigenza di tutela potrebbe far leva sull’applicazione analogica, alternativamente, della disposizione che attribuisce al matrimonio (nel nostro caso: il provvedimento straniero) nullo gli stessi effetti del matrimonio valido nei confronti dei figli (art. 128, comma secondo, c.c.) o dell’azione di «responsabilità per il mantenimento e l’educazione», esperibile «in ogni caso in cui non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità» (art. 279, primo comma, c.c.), valorizzando la vocazione di norma di chiusura del sistema della disposizione. Otterremmo così in questa particolare ipotesi il risultato, prospettato in via generale da una parte della dottrina, di pervenire alla costituzione ex uno latere dello stato, nel primo caso, o di riconoscere al figlio i diritti derivanti dallo stato senza costituire lo stato, nel secondo caso[29].
Queste soluzioni non rappresentano a mio avviso strumenti appropriati per il governo complessivo degli effetti del cosiddetto turismo procreativo nel diritto interno, in ragione dello stigma gettato su rapporti familiari di cura e di affetto. Il problema posto dalla maternità surrogata in un ordinamento pluralista e radicato nella tradizione del costituzionalismo europeo, non è la repressione dei modelli familiari comunque eccentrici rispetto alla famiglia eterosessuale e naturaliter fertile. È invece il problema dell’impatto delle forze di mercato e dei poteri privati sui diritti inviolabili di individui e di gruppi vulnerabili[30]. Limitatamente al caso di specie, tuttavia, l’applicazione di queste norme avrebbe il vantaggio evidente di permettere al figlio di declinare la costituzione dello stato nei confronti di chi, avendo condiviso la responsabilità della sua nascita, lo ha poi rifiutato. La soluzione modellata sull’art. 279, primo comma, c.c., d’altro canto, non consentirebbe al figlio di instaurare i legami di parentela connessi allo status e sul piano successorio avrebbe i limitati effetti previsti dagli artt. 580 e 594 c.c., laddove l’ipotesi tratta dall’art. 128, secondo comma, c.c., garantirebbe ai figli la pienezza dei diritti, sotto il profilo della responsabilità genitoriale, della costituzione dei rapporti di parentela, degli effetti successori.
Una terza via, non alternativa a quelle testé prospettate, potrebbe far leva sulla straordinaria forza espansiva e promozionale dell’ordine pubblico costituzionale nei rapporti familiari. L’art. 30, terzo comma, Cost. invita — anzi «incita», scrisse Michele Giorgianni in un saggio memorabile[31] — il legislatore ad assicurare ai figli illegittimi «ogni tutela giuridica e sociale». Astrazion fatta dal contesto e dalla ratio originaria, diretta a estirpare dal diritto e dai costumi la discriminazione dei figli nati fuori del matrimonio, resta intatta la necessità di garantire «ogni tutela giuridica» alle bambine e ai bambini, comunque venuti al mondo, e ben potrebbe rappresentare la base legale per una tutela costitutiva. A fronte dell’obbligo disatteso dal genitore puramente intenzionale, avremmo così un intervento del giudice costitutivo dello stato, fondato sulla drittwirkung mediata della Costituzione e modellato quoad effectum sulla dichiarazione giudiziale di paternità e maternità. Questa soluzione, esperibile in alternativa all’applicazione dell’art. 128, secondo comma, c.c., consentirebbe ai figli nati da maternità surrogata di instaurare il rapporto di filiazione a condizioni di reciprocità col genitore puramente intenzionale, se lo desiderano, nonostante il rifiuto di quest’ultimo. Ma il suo significato di politica del diritto è potenzialmente più ampio, rivolto a chi intende il diritto civile semplicemente come un modo per regolare affari privati o coltiva l’illusione neoliberale dell’illimitata espansione dei diritti individuali, una volta che siano ridotti ad assets proprietari. Il fondamento costituzionale della tutela costitutiva dei bambini nati dalle tecnologie riproduttive guarda all’impatto devastante sui diritti individuali e sociali di alcune applicazioni tecnologiche avanzate, nel quadro di economie globalizzate e della competizione regolatoria: penso in particolare allo human enhancement. L’ordinamento italiano non rinuncia a valutare dal punto di vista dei fondamenti costituzionali del sistema quel che l’industria della discendenza ha da offrire, ma, in adesione alle linee portanti dell’ordine pubblico europeo in tema di filiazione che si va disegnando[32], «non volta le spalle al nato»[33].
E anche questo, naturalmente, ha che fare con le radici della tutela della dignità umana nell'idea di eguaglianza.
[1] Cass., sez. un., 8.5.2019, n. 12193, in NGCC, 2019, I, 737 ss., con nota di Salanitro, e in Foro it. 2019, I, 4027, con nota di Luccioli.
[2] Su cui M. Bianca, La corte costituzionale e il figlio di coppia omoaffettiva. Riflessioni sull'evoluzione dei modelli di adozione, in Familia, 2022, 364 e ss
[3] Sul punto, in dottrina: M. Cinque, Quale statuto per il ‘genitore sociale’?, in Riv. dir. civ., 2017, 1475, ss.; N. Chiricallo, Maternità surrogata e adozione in casi particolari: il doppio “non liquet” della Consulta, in Familia, 2021, 405 ss.; C. Favilli, Stato filiale e genitorialità sociale: dal fatto al rapporto, in Giur. it., 2022, 312 ss.; V. Calderai, Ordine pubblico internazionale e Drittwirkung dei diritti dell’infanzia, in Riv. dir. civ., 3/2022, 478 ss.
[4] Corte di Cassazione, S.U., 30 dicembre 2022, n. 38162, p. 18 della motivazione in diritto.
[5] M. Bianca, Le Sezioni Unite e i figli nati da maternità surrogata: una decisione di sistema. Ancora qualche riflessione sul principio di effettività nel diritto di famiglia, in questa Rivista.
[6] Rispettivamente: Cass. civ., ord. 29 aprile 2020, n. 8325 (alla Corte Costituzionale) e Cass. civ., ord. 21 gennaio 2022, alle Sezioni Unite.
[7] Sul punto: G. Luccioli, La maternità surrogata di nuovo all’esame delle Sezioni Unite. Le ragioni del dissenso, in questa Rivista, nonché, se si vuole, V. Calderai, La tela strappata di Ercole. A proposito dello stato dei nati da maternità surrogata, in Nuova giur. civ. com., 5/2020, 1109 ss.
[8] S.U., 38162/2022, §§ 6 e 7 della motivazione in diritto.
[9] Su cui criticamente: A. Morace Pinelli, La tutela del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata, in Familia, 2021, p. 405.
[10] Ivi, § 11.
[11] Per tutti: Rodotà, Antropologia dell’homo dignus, in Riv. crit. dir. priv., 2010, 547 ss. (ora in Critica del diritto privato. Editoriali e saggi della Rivista critica del diritto privato, Napoli, 345 ss.).
[12] Ibidem.
[13] H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, New York, 1976 [19481], 296 s.
[14] E. Navarretta, Diritto civile e diritto costituzionale, in Riv. dir. civ., 1/2012, 643, 672 ss., che riprende e sviluppa un tema di L. Mengoni, Proprietà e libertà, in Riv. crit. dir. priv., 1988, 428 ss.
[15] G. Calabresi, Law and the Allocation of Body Parts, in 55 Stanford L. Rev., 2003, p. 2113, 2136.
[16] Dove il Consiglio esorta tra l’altro gli Stati «proibizionisti» a evitare i dispositivi di recezione automatica degli atti stranieri di costituzione dello stato, senza distinguere in base alla natura (giurisdizionale o amministrativa) del titolo e senza avallare aree di immunità e di privilegio a favore del club delle democrazie liberali dove la surrogazione di maternità è permessa: cfr. Human Rights Council, A/HRC/37/60, para. 15 e 70. Adde: A/74/162, cit., para 101, sub g). Https://www.ohchr.org/EN/Issues/Children/Pages/Surrogacy.aspx.
[17] S.U. 38162/2022, § 2 motivazione in diritto.
[18] Questi aspetti non sono abbastanza considerati nella pur documentata e generosa indagine di A. Grasso, Maternità surrogata altruistica e tecniche di costituzione dello status, Torino, 2022.
[19] S.U. 38162/2022, § 18 motivazione in diritto.
[20] Sollevata in passato da autori ai poli opposti dello spettro ideologico sulla maternità surrogata: U. Salanitro, L’ordine pubblico dopo le Sezioni Unite: la Prima Sezione si smarca... e apre alla maternità surrogata, in Corr. giur., 2020, 916; E. Bilotti, La tutela dei nati a seguito di violazione dei divieti previsti dalla l. n. 40/ 2004. Il compito del legislatore dopo il giudizio della Corte costituzionale, in Nuova giur. civ. comm., 2/2021, p. 919; F. Azzarr, L’inviolabilità dello status e la filiazione dei nati all’estero da gestazione per altri, in Familia, 2020, 784 ss.
[21] S. Patti, Inseminazione eterologa e venire contra factum proprium, in Quad. dir. pol. eccl., 1999, 3, 625-635, nel solco di un presciente intervento di A. Trabucchi, Fecondazione artificiale e legittimità dei figli, in Giur. it., 1957, I, 2, 217. Il tema è stato oggetto di due studi monografici: F. Astone, Venire contra factum proprium (divieto di contraddizione e dovere di coerenza nei rapporti tra privati), Napoli, 2006 e F. Festi, Il divieto di “venire cotro il fatto proprio”, Milano, 2007.
[22] Corte Cost., 26 settembre 1998, n. 347, in Foro it., 1998, 1, c. 3042 ss.
[23] S.U. 38162/2022, § 12.
[24] P. Rescigno, Condizione, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 797.
[25] S.U. 38162/2022, § 11 .
[26] Sull’interesse legittimo nel diritto privato, come situazione soggettiva di vantaggio inattiva «ancorata a un metro di valutazione eminentemente oggettivo»: L. Bigliazzi Geri, Contributo a una teoria dell’interesse legittimo nel diritto privato, Milano, 1967, 182.
[27] L. Fuller and W. Perdue, The Reliance Interest in Contract Damages, 46 Yale L. J. 52 1936-1937.
[28] Per tutti: Ferri, Profili dell'accertamento costitutivo, Padova, 1970, 4, 261; Id., sub art. 2908, in Comm. Cendon, VI, Torino, 1991, 583.
[29] Rispettivamente: A. Nicolussi, Famiglia e biodiritto civile, in Europ. e d. priv., 2019, p. 713 ss.
E. Bilotti, La tutela, p. 923
[30] A. Morace Pinelli, Le persistenti ragioni del divieto della maternità surrogata e il problema della tutela di colui che nasce dalla pratica illecita. In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite, in Fam. dir., 2022, 1175, con rinvio alla persistente attualità dell’insegnamento di C.M. Bianca, Le autorità private, Napoli, 1977.
[31] M. Giorgianni, Problemi attuali di diritto familiare, in Studi giuridici in memoria di Filippo Vassalli, II, Torino, 1960, 859 ss.
[32] Cfr. Regolamento del Consiglio relativo alla competenza, alla legge applicabile e al riconoscimento delle decisioni e all'accettazione degli atti pubblici in materia di filiazione e alla creazione di un certificato europeo di filiazione COM (2022) 569.
[33] SU 38162/2022, para 26.
Ergastolo per reati c.d. ostativi e benefici penitenziari per i detenuti non collaboranti.
Requisitoria dell’Avvocato generale Piero Gaeta e del sostituto Procuratore generale Giuseppe Riccardi
In tema di accesso ai benefici penitenziari per i detenuti non collaboranti con condanna all’ergastolo per reati cd. ostativi alla luce della disciplina introdotta con il d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv. con modificazioni con la l. 30 dicembre 2022, n. 199, si segnala la decisione della Prima sezione penale dell'8 marzo 2023 che ha annullato con rinvio la decisione del Tribunale di Sorveglianza di L'Aquila.
Questo il breve comunicato della Cassazione: "Nella giornata odierna la Prima sezione penale ha deciso il ricorso di Salvatore Francesco Pezzino contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di L’Aquila, con il quale gli era stata negata la liberazione condizionale in ragione della mancata collaborazione con la giustizia (e preso atto dell’assenza della cd. collaborazione impossibile). La decisione segue alla restituzione degli atti alla Corte di cassazione che era stata disposta dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 227 del 10 novembre 2022, alla quale era stata rimessa la questione di legittimità costituzionale delle norme del cd. ergastolo ostativo, perché era sopraggiunta una nuova disciplina per l’accesso ai benefici penitenziari per i detenuti non collaboranti con condanna all’ergastolo per reati cd. ostativi (d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv. con modificazioni con la l. 30 dicembre 2022, n. 199).
Il Collegio odierno ha annullato l’ordinanza impugnata, così come richiesto anche dalla Procura Generale. L’annullamento è stato disposto con rinvio al Tribunale di sorveglianza di L’Aquila affinché, alla luce della nuova disciplina, valuti con accertamenti di merito preclusi al giudice di legittimità la sussistenza o meno dei presupposti ora richiesti dalla legge per la concessione dei benefici penitenziari ai detenuti per reati cd. ostativi non collaboranti."
In attesa del deposito della motivazione della sentenza riteniamo utile la lettura delle motivate conclusioni della Procura generale, accolte dalla Prima sezione penale.
La pre-definizione dei criteri della decisione: un succedaneo della motivazione? Appunti su punteggio numerico e motivazione dei provvedimenti tecnico-discrezionali (nota a Consiglio di Stato, sez. VII, 29 dicembre 2022, n. 11693)
di Marco Ragusa
Sommario: 1. La fattispecie - 2. Obbligo di motivazione, punteggio numerico e pre-definizione dei criteri - 3. L’accesso diretto al fatto nel giudizio amministrativo: una conquista illusoria? - 4. Brevi conclusioni.
1. La fattispecie
La sentenza che si annota ha confermato una decisione con cui il Tar Lazio[1] aveva respinto il ricorso presentato da un’associazione culturale avverso il decreto della Direzione generale Spettacolo del MIBACT, recante l’approvazione dei progetti artistici a cui destinare il Fondo unico dello spettacolo per il triennio 2015-2017: provvedimento che aveva escluso dal novero dei beneficiari la ricorrente a causa della insufficiente “qualità artistica” del progetto da questa presentato.
Siffatto giudizio era stato espresso della Commissione consultiva competente – in applicazione dei criteri di valutazione indicati dalle tabelle di cui all’allegato B del d.m. 1 luglio 2014[2] – mediante l’attribuzione di un punteggio numerico al progetto stesso[3] e su tale aspetto della decisione amministrativa erano imperniati i primi due motivi di appello (sostanzialmente corrispondenti ai primi due motivi di ricorso in primo grado)[4].
Secondo la tesi dell’appellante, il provvedimento avrebbe dovuto essere annullato, innanzitutto, perché il punteggio attribuito dall’amministrazione, a monte, non trovava un’idonea giustificazione nei (troppo generici) criteri definiti dal d.m. del 2014 e, a valle, esso non era assistito da una motivazione che esplicitasse le ragioni poste a fondamento della decisione (primo motivo di appello). D’altronde, anche in considerazione del difetto di una adeguata griglia di criteri predeterminati e di una specifica motivazione, la decisione del MIBACT si palesava illogica, ignorando le qualità che il progetto, invece, possedeva e che avrebbero dovuto condurre alla sua ammissione a finanziamento (secondo motivo di appello). Da qui la dedotta erroneità della sentenza di primo grado che, discostandosi da tale ricostruzione, aveva respinto entrambi i motivi di ricorso.
Il primo motivo di gravame è stato ritenuto infondato dal Consiglio di Stato con argomenti idonei a sorreggere una statuizione di inammissibilità[5]: “l’appellante”, afferma la sentenza, “contesta il metodo dell’attribuzione del punteggio numerico in assoluto, ma senza superare gli argomenti contenuti nella motivazione della sentenza impugnata, che invece hanno riconosciuto la legittimità di tale metodo in relazione all’adeguata predeterminazione dei criteri di attribuzione”[6].
Il rigetto del secondo motivo è stato giustificato, invece, sulla base dell’inidoneità degli argomenti dell’appellante a confutare la statuizione (di inammissibilità) con cui il Tar aveva respinto le censure mosse in primo grado in punto di ragionevolezza (nel metodo e nell’esito) della valutazione effettuata dall’amministrazione con riferimento alla qualità artistica del progetto. Il punto nodale della motivazione della sentenza impugnata è integralmente riprodotto da quella d’appello, che lo fa proprio: “[se] è vero che la commissione che deve esaminare le domande e i progetti […] gode di ampia discrezionalità [e che] i relativi giudizi sono insindacabili in sede giurisdizionale a meno che non vengano in rilevo manifeste illogicità o erroneità nella valutazione […], non rinvenendosi alcuna manifesta arbitrarietà nel giudizio della commissione e non potendo questo giudice approfondire ulteriormente lo scrutinio tecnico […], non possono accogliersi le censure […] aventi quale bersaglio la valutazione del progetto operata dalla commissione per il criterio della qualità artistica” [7].
La pronuncia offre lo spunto per alcune brevi riflessioni concernenti sia la problematica della motivazione del provvedimento amministrativo resa mediante un voto o un punteggio numerico (§ 2), sia quella della sindacabilità della discrezionalità tecnica, con specifico riferimento alle ipotesi in cui questa sia esercitata dall’amministrazione per mezzo di provvedimenti motivati, appunto, mediante la ‘quantificazione’ di un voto o di un punteggio (§ 3).
2. Obbligo di motivazione, punteggio numerico e pre-definizione dei criteri
Si è già detto che la sentenza in commento non si sofferma molto sulla censura dell’appellante avente a oggetto l’inidoneità del punteggio numerico a costituire una motivazione conforme al paradigma di cui all’art. 3 l. n. 241/1990. Se è vero che, in materia di erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere, la motivazione del provvedimento ha la precipua funzione di dimostrare la “effettiva osservanza dei criteri e delle modalità” che l’amministrazione è tenuta a predeterminare (art. 12, c. 2, l. n. 241/1990), è altrettanto vero, secondo il Consiglio di Stato, che tale funzione possa essere assolta dall’indicazione, nel provvedimento, di un valore numerico che faccia applicazione di quei criteri e di quelle modalità, a condizione che questi ultimi risultino definiti in modo adeguato. E poiché tale condizione era stata accertata, con riferimento ai criteri di cui all’allegato B del d.m. 1 luglio 2014, dalla sentenza di primo grado, l’appellante non avrebbe potuto ottenere la riforma di quest’ultima limitandosi a reiterare una opposta lettura dei fatti (l’inadeguatezza dei criteri) e la contestazione, in termini astratti e assoluti, della idoneità di un numero a tenere luogo della indicazione dei “presupposti di fatto” e delle “ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria” (art. 3, c. 1, l. n. 241/1990).
Nulla di sorprendente: così argomentando, il giudice d’appello si è conformato all’indirizzo di massima che può ormai dirsi consolidato nella giurisprudenza amministrativa in materia di motivazione per punteggio numerico; indirizzo secondo il quale, ove il procedimento che conduce alla ‘quantificazione’ della decisione si conformi a criteri di accertamento stabiliti anteriormente all’istruttoria, il provvedimento finale non deve contenere una motivazione intesa come “discorso giustificativo”[8], poiché è il numero a esprimere e sintetizzare “in modo adeguato il giudizio tecnico-discrezionale […], contenendo in sé la sua motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti”[9].
È noto che tale orientamento si è formato principalmente nell’ambito di controversie in materia di concorsi e di esami pubblici e che, con riferimento alle modalità di valutazione delle prove previste per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, esso si è consolidato al punto da essere considerato (in difetto di un espresso supporto normativo) come “diritto vivente” dalla Corte costituzionale[10], che nel 2011 ne ha peraltro avallato i presupposti sistematici e le conclusioni[11].
Gli argomenti posti dalla giurisprudenza amministrativa a fondamento di questa posizione interpretativa sono stati principalmente tre.
Il primo, più risalente e radicale, concerne il tipo di decisione che il voto numerico è destinato a motivare, tipo che non sarebbe tout court riconducibile alla nozione di provvedimento accolta dall’art. 3 della l. n. 241/1990: “l’obbligo di motivazione […] riguarda espressamente la vera e propria attività provvedimentale della Pubblica Amministrazione, e non può essere quindi esteso ai semplici giudizi e alle valutazioni amministrative”[12].
Se non è più consueto ritrovare tale impostazione tra gli argomenti addotti a fondamento delle decisioni della giurisprudenza più recente – nella quale è rinvenibile, più di frequente, una sua formulazione attenuata[13] – ciò è probabilmente dovuto al fatto che essa si pone in troppo stridente contrasto con la lettera dell’art. 3 della legge sul procedimento, che espressamente assoggetta all’obbligo di motivazione anche i provvedimenti concernenti “lo svolgimento dei pubblici concorsi”. La nozione di provvedimento accolta dall’art. 3 cit., si è peraltro osservato, non può in ogni caso che essere riferita a ogni atto amministrativo che sia conclusivo di un procedimento o che sia comunque idoneo a produrre effetti costitutivi sulla sfera giuridica del destinatario[14].
L’argomento della natura non-provvedimentale di valutazioni e giudizi, del resto, pur sollevato dalla difesa erariale come eccezione alla questione di costituzionalità delle norme integrative e di attuazione del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, non è fra quelli che la Corte ha posto a fondamento della citata pronuncia di rigetto del 2011, la quale ha invece sposato altre due ragioni che a tutt’oggi sorreggono l’indirizzo della prevalente giurisprudenza amministrativa in materia di motivazione resa mediante voto o punteggio numerico.
La prima di tali ragioni, che maggiormente rileva in questa sede, è quella richiamata dalla sentenza in commento nei passi sopra riportati. Essa è fondata sull’idea che il voto rappresenti una metodologia di motivare conforme al paradigma formalmente definito dall’art. 3 della legge sul procedimento, nella misura in cui esso costituisce applicazione di “specifici parametri di riferimento”[15] pre-definiti dalla legge, da atti amministrativi generali o dall’attività endoprocedimentale delle commissioni giudicatrici: conformandosi a tali criteri, il voto “rivela una valutazione che, attraverso la graduazione del dato numerico, conduce ad un giudizio di sufficienza o di insufficienza […] e, nell’ambito di tale giudizio, rende palese l’apprezzamento più o meno elevato che la commissione esaminatrice ha attribuito […]”[16].
La seconda ragione, anch’essa condivisa dalla Corte costituzionale e posta a fondamento della statuizione di rigetto del 2011, muove da un’interpretazione sistematica che mitiga la rigidità che dovrebbe invece essere riferita all’art. 3 l. n. 241/1990 sulla scorta del suo dato letterale: “il citato art. 3 […] va coordinato con l’art. 1, comma 1, della medesima legge n. 241 del 1990, in forza del quale l’attività amministrativa è retta (tra gli altri) da criteri di economicità e di efficacia, che giustificano la scelta del modulo valutativo”[17] espresso mediante voti o punteggi numerici.
Non è superfluo ricordare come, nell’ambito del giudizio di costituzionalità definito nel 2011, il giudice rimettente non avesse sollevato la questione di legittimità, oltre che delle disposizioni in materia di motivazione dei giudizi dettate dalla legislazione speciale, anche dell’art. 3 della legge sul procedimento[18]: aveva piuttosto invocato tale norma alla stregua di un sostanziale parametro di costituzionalità. Ciononostante la Corte – che pure avrebbe potuto rigettare le questioni con argomenti idonei a giustificare la deroga disposta dalla normativa in materia di esami di abilitazione rispetto al principio di cui all’art. 3 cit., ovvero non riconoscere affatto a quest’ultimo una valenza para-costituzionale tanto estesa e assorbente – ha preferito condividere l’impostazione del giudice a quo, negando però, in radice, che la motivazione imposta dalla legge sul procedimento debba sempre essere intesa come una indicazione dei “presupposti di fatto e [delle] ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”. La Corte ha insomma considerato il punteggio numerico come species della motivazione imposta dall’art. 3 l. n. 241/1990.
In tal modo, gli argomenti della pronuncia del 2011, sebbene dotati di una autorevolezza nomofilattica di dubbio fondamento[19], possono con facilità proiettarsi su una classe di fattispecie ben più ampia di quella a cui era direttamente ascrivibile lo specifico oggetto del giudizio.
Tra le applicazioni dell’indirizzo interpretativo avallato dalla Corte costituzionale oltre l’ambito dei concorsi e degli esami pubblici, un posto di primario interesse è occupato dalle pronunce del giudice amministrativo in materia di contratti pubblici, le quali ammettono che la valutazione delle offerte tecniche effettuata da una commissione di gara possa essere motivata con la mera attribuzione di un punteggio numerico, a condizione che “l’apparato delle voci e sottovoci fornito dalla disciplina della procedura, con i relativi punteggi, [sia] sufficientemente chiaro, analitico e articolato, sì da delimitare adeguatamente il giudizio della Commissione nell’ambito di un minimo e di un massimo, e da rendere con ciò comprensibile l’iter logico seguito in concreto nel valutare i singoli progetti in applicazione di puntuali criteri predeterminati, permettendo così di controllarne la logicità e la congruità, con la conseguenza che solo in difetto di questa condizione si rende necessaria una motivazione dei punteggi numerici”[20].
Uno dei principali elementi che hanno consentito alla Corte costituzionale di escludere la illegittimità della normativa in materia di esami di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato (vale a dire la predeterminazione di “specifici parametri di riferimento” da parte dei criteri di valutazione, ex art. 22, c. 9, r.d.l. n. 1578/1933 cit.) trova il proprio omologo, in queste diverse fattispecie, negli adempimenti imposti alle stazioni appaltanti dall’art. 95, c. 8, del Codice dei contratti pubblici, a mente del quale i documenti di gara “elencano i criteri di valutazione e la ponderazione relativa attribuita a ciascuno di essi, anche prevedendo una forcella in cui lo scarto tra il minimo e il massimo deve essere adeguato. Per ciascun criterio di valutazione prescelto possono essere previsti, ove necessario, sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi”[21].
L’indirizzo interpretativo in esame ha pressoché identica fortuna anche nella materia a cui è ascrivibile il caso risolto dalla pronuncia in commento: è la pre-definizione dei criteri, imposta dall’art. 12, c. 1, l. n. 241/1990[22], che consente di escludere la sussistenza di un puntuale obbligo di motivazione in sede di valutazione delle richieste di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere, a condizione che tali criteri siano “chiari, analitici e articolati” [23].
In concreto, l’applicazione del citato orientamento viene a dipendere dal metro alla stregua del quale il giudice ritenga soddisfatti, dalla disciplina di una specifica procedura, i requisiti della “chiarezza”, della “analiticità” e della “articolazione”.
“Articolati” sono i criteri che consentono di disaggregare il giudizio della commissione attraverso una pluralità di sotto-criteri, dotati di autonoma pesatura: il punteggio complessivo, in altri termini, deve rappresentare la somma di una pluralità di sotto-punteggi attribuiti a singoli elementi di ciascuna offerta o istanza.
In proposito, è significativa la posizione assunta dalla giurisprudenza con riferimento all’art. 95, c. 8 cit., la quale è concorde nell’escludere che la norma imponga in ogni caso alle commissioni di procedere a una puntuale disarticolazione dei criteri dettati dai documenti di gara: la scelta di provvedere in tal senso è tendenzialmente considerata il frutto di una valutazione tecnico-discrezionale dell’amministrazione[24], fermo restando che, nel caso in cui i criteri siano “troppo generici per poter ricostruire le ragioni della valutazione espressa sulla singola offerta”, il mancato esercizio, da parte della commissione, del potere di “individuare sub-criteri più stringenti” comporterà l’obbligo di affiancare ai “punteggi numerici attribuiti […] una motivazione idonea sulle valutazioni svolte, per rendere trasparente il percorso logico seguito nell’assegnazione”[25].
Da ciò è agevole dedurre che il requisito della (maggiore o minore) “articolazione” di criteri e sub-criteri non è altro che un dato quantitativo: esso indica, cioè, il numero di parametri la cui ponderazione è oggetto di valutazione e non dovrebbe consentire pertanto, ex se, di distinguere le ipotesi in cui sussiste o non sussiste l’obbligo di una motivazione espressa.
Ciò che conta, a tal fine, è piuttosto la “chiarezza” e la “analiticità” dei criteri (indipendentemente da quanti essi siano), qualità di cui la “articolazione” può al più costituire un indice indiretto: a rigore, argomentando a contrario, anche l’avvenuta definizione di una pluralità di “sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi” non sufficientemente chiari e analitici dovrebbe ritenersi inidonea a dispensare le commissioni di gara dall’obbligo di rendere una motivazione espressa.
D’altronde, nella misura in cui ogni istruttoria procedimentale è, essenzialmente, un accertamento di fatti, “chiarezza” e “analiticità” non possono essere considerate qualità perfettamente distinguibili.
Riferita a un criterio di valutazione o di giudizio, infatti, la “chiarezza” (vale a dire la sua intellegibilità e univocità) non può che derivare dalla possibilità di eseguire operazioni di sussunzione di singole fattispecie concrete in quella astratta, definita dal criterio stesso. Quest’ultimo può dirsi chiaro, in altri termini, allorché consenta di identificare e distinguere gli elementi strutturali della fattispecie astratta dallo stesso visualizzata e di verificarne la presenza o l’assenza in una fattispecie concreta (costituita dall’offerta, dal progetto o dalla domanda di partecipazione). E questa idoneità del criterio altro non è, appunto, se non la sua “analiticità”.
Sebbene la giurisprudenza non chiarisca con troppo scrupolo la ragione che pone la chiarezza e l’analiticità dei criteri quale discrimine tra le fattispecie che esigono o non esigono una motivazione espressa a complemento del punteggio numerico, tale ragione sembra agevolmente individuabile, almeno sul piano teorico. Ove dotato di un adeguato grado di chiarezza e dettaglio, infatti, ogni criterio rappresenta in qualche modo un marker del processo decisionale, evidenzia cioè gli snodi essenziali dell’accertamento compiuto: snodi che, in quanto predeterminati, dovrebbero rappresentare precipui vincoli imposti a una valutazione che è, nel suo complesso, manifestazione di un potere discrezionale[26].
I criteri (se chiari e analitici) consentono insomma di scomporre la valutazione discrezionale dell’amministrazione in una pluralità di accertamenti vincolati (o, quantomeno, dotati di un minore margine di discrezionalità): la sottrazione del giudizio finale all’obbligo di motivazione viene in questo modo a spiegarsi grosso modo negli stessi termini in cui la giurisprudenza giustifica tradizionalmente l’esenzione dei provvedimenti vincolati dal (o la loro solo parziale soggezione al) medesimo obbligo[27].
Schematica e coerente nella sua astratta formulazione di massima, una siffatta impostazione solleva tuttavia non poche perplessità: in primis, quelle stesse perplessità che consentono di dubitare della correttezza dell’assunto secondo il quale i provvedimenti vincolati non necessitano di una motivazione espressa ma, al più, di una ‘giustificazione’[28].
È possibile, infatti, ritenere che, poiché “il provvedimento (art. 3 comma 1, primo periodo) viene identificato con la «decisione amministrativa» (art. 3 comma 1, secondo periodo), […] gli atti vincolati, non comportando decisione alcuna, in senso vero e proprio (scelta tra più alternative), siano sottratti […] all’obbligo di motivazione”[29]. Ma non può escludersi che, anche nei casi in cui la norma attributiva del potere non rimetta all’amministrazione una “scelta tra più alternative”, essa imponga comunque di assumere una “decisione”: basti pensare ai casi in cui l’adozione del provvedimento presuppone la soluzione di un problema complesso in sede di interpretazione di norme giuridiche, casi in cui il rapporto che si instaura tra la legge e il provvedimento è, sul piano strutturale, identico a quello che corre tra la legge e l’atto giurisdizionale (a cui nessuno negherebbe la qualificazione di “decisione” in senso stretto).[30]
Allo stesso modo, non sembra possibile aderire incondizionatamente alla tesi secondo cui la scomposizione di una valutazione discrezionale in una pluralità di accertamenti, rispondenti a criteri chiari e analitici, equivale a una motivazione (e dispensa l’amministrazione dall’obbligo di motivare): occorrerebbe piuttosto, a tal fine, comprendere quale sia il metodo che il giudice è tenuto a seguire per accertare in concreto il carattere chiaro e analitico di ciascun criterio.
Non soccorre, a tal fine, l’indicazione rinvenibile nella quasi totalità delle pronunce in materia, secondo la quale il grado appropriato di specificazione dei criteri è quello che consente di “rappresentare in modo adeguato l’iter logico” seguito dall’amministrazione nel processo di valutazione[31]: è sufficiente un sommario esame delle sentenze che coralmente la ribadiscono, infatti, per accorgersi di quanto disomogenea possa essere l’applicazione di questa regola.
Alcune di tali pronunce, infatti, giudicano adeguato un criterio limitandosi, sostanzialmente, all’esame della sua formulazione letterale e pertanto rigettano ogni censura di difetto (o di insufficienza) della motivazione qualora il criterio stesso (o i sotto-criteri in cui esso talora si articola) fornisca una sufficiente indicazione di senso. È questo filone giurisprudenziale quello che valorizza maggiormente il requisito della “articolazione” per dedurne la idoneità del punteggio numerico a tenere luogo di una motivazione espressa[32].
In altre decisioni, invece, il giudice amministrativo procede a una verifica ‘sul campo’: non si limita ad appurare se, in astratto (per la sua formulazione letterale o per la sua disarticolazione), il criterio consenta di “rappresentare in modo adeguato l’iterlogico” seguito dall’amministrazione ai fini dell’attribuzione del voto o del punteggio, ma ripercorre effettivamente, in sede istruttoria, quell’iter (e dell’esito di questa emulazione dà conto nella motivazione della sentenza)[33].
3. L’accesso diretto al fatto nel giudizio amministrativo: una conquista illusoria?
Al primo dei due filoni giurisprudenziali or ora sinteticamente descritti – i quali non possono propriamente definirsi “orientamenti”, giusto il carattere implicito degli elementi che li distinguono – è riconducibile la pronuncia in commento, la quale si accontenta di accertare, sposando le conclusioni della sentenza di primo grado, la ‘plausibile’ corrispondenza del punteggio ai criteri di cui al d.m. 1 luglio 2014: non proiettando questi ultimi sulle concrete caratteristiche del progetto non ammesso a finanziamento, il giudice omette infatti una effettiva verifica del loro grado di chiarezza e di analiticità.
Il Consiglio di Stato, si è visto, ha rigettato il primo motivo di gravame in quanto privo di specifiche censure avverso la motivazione della sentenza impugnata, la quale, lungi dall’essere affetta dal vizio di omessa pronuncia denunciato dall’appellante, avrebbe “analiticamente operato una ricognizione delle caratteristiche disciplinari della procedura in esame, per concludere nel senso della sussistenza, nel caso di specie, delle garanzie di predeterminazione dei criteri tali da legittimare il ricorso ad un simile meccanismo di espressione del giudizio”[34].
Le “articolate ed approfondite conclusioni […] in relazione all’adeguata predeterminazione dei criteri […] che il Collegio condivide ed alle quali per brevità rinvia”[35] sono, in realtà, contenute in meno di 3 delle 26 pagine in cui si articola la motivazione della sentenza di primo grado[36].
Ivi, il Tar si è limitato a elencare gli indicatori definiti dall’All. B (tabella 19) del D.M. 1 luglio 2014 per la valutazione della “qualità artistica” dei progetti (macro-criterio in relazione al quale l’appellante ha conseguito un punteggio insufficiente) e a riportare il punteggio massimo attribuibile a ciascuno di essi. Nessuno di tali indicatori (di cui la sentenza di primo grado valorizza, essenzialmente, l’articolazione) presenta un grado di chiarezza e analiticità idoneo a “rappresentare l’iter logico” seguito in concreto dall’amministrazione per l’adozione della decisione impugnata: basti dire che tra i due indicatori ai quali è associato il sub-punteggio massimo più elevato, il primo costituisce una tautologica ripetizione del macro-criterio (“qualità artistica del progetto”) e il secondo non è meno vago (“innovatività” e “sostegno al rischio culturale”); tutti gli indicatori, inoltre, sono all’evidenza privi di caratteri che consentano una diretta e univoca misurabilità dei progetti in termini assoluti e, talora, anche in termini comparativi (“strategia di comunicazione”, “qualità della direzione artistica”).
Né il Consiglio di Stato, né il Tar danno dunque conto di avere almeno provato a ipotizzare le ragioni di fatto che hanno condotto l’amministrazione ad attribuire al progetto un punteggio insufficiente sulla base dei descritti parametri.
La pronuncia in commento nega addirittura ogni rilevanza alla circostanza che, in fase cautelare, il Tar avesse imposto alla P.A. di produrre una relazione tecnica integrativa per far luce sulle concrete modalità di assegnazione di punteggi e sub-punteggi e che, in sede di decisione, avesse invece omesso di verificare se i dati così acquisiti fossero completi e chiarificatori: “appare comunque dirimente […] che la valutazione del giudicante […] in relazione al superamento della soglia di sindacabilità giurisdizionale delle valutazioni di merito, assorbe quella relativa alle conseguenze dell’inadempimento dell’incombente istruttorio, dal momento che la qualificazione [fornita dalla sentenza] delle censure come esorbitanti la ridetta soglia rende del tutto superfluo l’esame della documentazione di cui il precedente Collegio aveva, in fase cautelare, ordinato l’esibizione”[37].
L’omissione di una verifica in concreto della qualità e del grado di dettaglio di criteri e indicatori, da parte della sentenza annotata, è dunque pienamente consapevole: la motivazione di tale omissione la si rinviene, tuttavia, non nel capo in cui essa rigetta il primo motivo di impugnazione (contenente, appunto, la doglianza relativa alla genericità dei criteri stessi), ma in quello relativo al secondo motivo, con cui l’appellante aveva dedotto specifiche censure relative alle modalità di svolgimento dell’istruttoria e al suo esito conseguentemente illogico, irragionevole e incongruo (anche in questo caso, denunciando la violazione degli artt. 3 e 12 l. n. 241/1990). Ripercorrere l’iter decisionale seguito dall’amministrazione, per il Consiglio di Stato (come per il giudice di primo grado), equivarrebbe a “tracimare nel merito amministrativo, territorio che, come è noto, fatta esclusione per le materie tassativamente ed esaustivamente indicate nell’art. 134 c.p.a., non è percorribile dal giudice amministrativo in ossequio allo storico ed attuale principio della tripartizione dei poteri”[38].
A ben guardare, è solo con riferimento all’analisi di quest’ultima (teorica e generale) tematica – non al giudizio (concreto e specifico) sull’adeguatezza dei criteri applicati nel caso di specie dall’amministrazione – che la motivazione offerta dal giudice di primo grado può dirsi “articolata e approfondita”: vi si rinviene infatti una lunghissima trattazione dell’istituto della discrezionalità tecnica[39], in appendice alla quale è più sinteticamente analizzato (anch’esso in termini astratti e generalissimi) il problema della sufficienza della motivazione resa mediante voto o punteggio numerico[40].
Sia il giudice di primo grado, sia quello di appello (che ne sposa appieno le conclusioni) intendono in questo modo esporre, richiamando i più recenti approdi giurisprudenziali, gli sviluppi della nota lezione gianniniana sulla “dequotazione” dell’obbligo di motivazione[41]: la legittimità di un provvedimento motivato esclusivamente mediante un valore numerico, in tale prospettiva, sarebbe oggi giustificata dalla maggiore intensità che connota il potere del giudice di accedere alla cognizione del fatto amministrativo in via diretta (al di là della indicazione dei “presupposti di fatto” fornita dalla motivazione) per giudicare del corretto esercizio del potere tecnico-discrezionale.
La ricostruzione del Tar, richiamata dal giudice d’appello, non dimostra, tuttavia, un effettivo incremento dei poteri di accertamento del giudice amministrativo rispetto all’epoca in cui si è affermata “l’impostazione dottrinaria tradizionale [che] ha per lungo tempo assimilato la discrezionalità tecnica alla discrezionalità pura, ammettendo un sindacato del giudice amministrativo su di essa solo rispetto al profilo dell’eccesso di potere”[42]: anche oggi, secondo la sentenza di primo grado, il giudice può esclusivamente, “verificare la logicità, la congruità, la ragionevolezza e l’adeguatezza del provvedimento e della sua motivazione, la regolarità del procedimento e la completezza dell’istruttoria, l’esistenza e l’esattezza dei presupposti di fatto posti a fondamento della deliberazione”[43].
I limiti attuali dell’accertamento giudiziale sembrano insomma, già per come descritti in motivazione, del tutto sovrapponibili a quelli del “tradizionale” sindacato sull’esercizio della discrezionalità ‘pura’[44]. Oggi come allora, pertanto, il punto nodale – sia nell’impostazione del problema in termini teorici, sia per la soluzione del caso concreto – sembra essere un altro, vale a dire il filtro che il giudice amministrativo impiega per dar corso a un siffatto sindacato.
Il Consiglio di Stato afferma in proposito che, per stimolare i poteri istruttori dell’autorità giudiziaria, il ricorrente dovrebbe dimostrare “la manifesta irrazionalità od illogicità delle valutazioni contestate”[45]: qualora questa “soglia di sindacabilità” non sia superata, l’accertamento giudiziale risulta precluso, poiché “la censurabilità della discrezionalità tecnica non deve mai arrivare alla sostituzione del giudice all’amministrazione nell’effettuazione di valutazioni opinabili, ma deve consistere nel controllo, ab externo, dell’esattezza e correttezza dei parametri della scienza utilizzata nel giudizio”[46].
Così impostato il problema, risulta difficilmente comprensibile quando il potere di accertamento del giudice possa essere effettivamente provocato dalla parte (e debba essere esercitato) nell’ambito di fattispecie come quella in esame. Infatti, se, da un lato, le censure che lo attivano devono necessariamente riguardare elementi “manifesti”, ciò significa che il loro riscontro non necessita di una vera istruzione probatoria; d’altro canto (e soprattutto), questo carattere “manifesto” è riferito alla “irrazionalità” e alla “illogicità”, vizi da cui solo un ragionamento può essere affetto. E un ragionamento, per definizione, difetta nei provvedimenti motivati esclusivamente mediante un voto o un punteggio.
È indubbio, insomma, che, secondo l’impostazione accolta in sentenza, il privato possa direttamente dedurre l’incongruenza tra il voto o il punteggio, da un lato, e i criteri sulla base dei quali esso è stato quantificato, dall’altro. Tale possibilità è data, tuttavia, soltanto a fronte di criteri che, già prima facie, consentano (altrettanto direttamente) un siffatto esame, quando cioè, per giudicare della legittimità del provvedimento, sia sufficiente un raffronto tra il voto e il criterio, senza alcuna necessità di ripercorrere “l’iter logico” seguito dall’amministrazione per addivenire alla decisione. L’indagine sui fatti da parte del giudice, in questi casi, si atteggia negli stessi termini che sono propri del più elementare accertamento della violazione di legge in un provvedimento vincolato.
Ma quando i criteri non presentino tale idoneità (e l’attribuzione del punteggio non sia dunque passibile di una censura diretta), l’impostazione del Consiglio di Stato conduce a ritenere sostanzialmente non tutelabili gli interessi del cittadino. Non solo, infatti, questi non potrà chiedere al giudice di sostituire il suo apprezzamento a quello della P.A., ma non potrà nemmeno lamentare l’insufficiente “chiarezza” e “analiticità” dei criteri al fine di ottenere un annullamento per vizio di motivazione del provvedimento: anche l’esame di questa censura, infatti, richiederebbe l’esercizio del potere di accertamento che la sentenza in commento ritiene precluso al giudice, in difetto di “manifesta irrazionalità od illogicità delle valutazioni contestate”.
4. Brevi conclusioni
I rilievi svolti nei paragrafi che precedono mirano a evidenziare il corto-circuito argomentativo a cui può condurre, nella sua concreta applicazione da parte del giudice amministrativo, la tesi della fungibilità tra il prototipo di motivazione definito dall’art. 3 l. n. 241/1990 e un voto o un punteggio numerico che faccia applicazione di criteri di decisione predeterminati: nella convinzione di operare una giustificata “dequotazione” dell’obbligo di motivazione, il giudice perviene infatti a un effettivo “depotenziamento”[47] di quest’ultimo.
Non si tratta di un corto-circuito innescato dalle peculiarità del caso affrontato dalla sentenza in commento. La possibilità di impiegare un valore numerico quale sintesi della decisione è infatti riconosciuta assai frequentemente all’amministrazione proprio nelle fattispecie in cui la stessa è titolare di un potere tecnico-discrezionale[48]: ove la tesi della ‘sufficienza del numero’ non sia affiancata da una prudente impostazione del tema della discrezionalità tecnica – e, più in generale, di quello relativo al sindacato del giudice amministrativo sulle questioni di fatto sottese a una controversia – il corto-circuito è pressoché inevitabile.
La sentenza qui annotata afferma essenzialmente che (i) il punteggio numerico costituisce una motivazione sufficiente qualora faccia applicazione di criteri di decisione adeguatamente predeterminati, anche in considerazione del fatto che (ii) il giudice amministrativo può e deve verificare tale adeguatezza, ma (iii) questa verifica non può consistere nella ri-edizione, in sede di istruttoria processuale, degli accertamenti che la legge demanda all’amministrazione, pena l’invasione da parte del potere giudiziario di un ambito riservato al merito amministrativo.
Il corto-circuito sta nel fatto che, nella gran parte dei casi, (iii) lo svolgimento di un’istruttoria processuale idonea a replicare l’iter valutativo seguito dall’amministrazione è imprescindibile (ii) per attestare l’adeguatezza (o l’inadeguatezza) dei criteri e la loro logica (o illogica) applicazione al caso concreto, di modo che, ritenendo precluso al giudice un siffatto sindacato, (i) l’equivalenza tra il punteggio numerico e il paradigma di motivazione definito dall’art. 3 l. n. 241/1990 resta indimostrata.
Non sembra del resto che, valutando in concreto le qualità dei criteri che la giurisprudenza è solita indicare con “chiarezza” e “analiticità”, il giudice amministrativo possa invadere in alcun modo l’ambito del merito amministrativo e ancor meno che possa attentare al principio di separazione dei poteri: questo timore, troppo spesso esternato dalla giurisprudenza, sembra infatti fondato su un’erronea confusione tra i limiti dei poteri cognitori e i limiti dei poteri decisori esercitabili nella giurisdizione di legittimità.
Emulare in sede giudiziale il procedimento amministrativo di valutazione, infatti, non dà di per sé luogo ad alcuna “sostituzione del giudice all’amministrazione”. Ciò potrebbe dirsi qualora la replica dell’accertamento in sede di istruttoria processuale fosse strumentale a verificare la correttezza delle conclusioni raggiunte dal provvedimento impugnato: l’effetto conformativo della sentenza, in questo caso, potrebbe infatti dar luogo, pro futuro, a una “sostituzione” della valutazione giudiziale a quella (discrezionale) dell’amministrazione.
Allorché (come nelle fattispecie qui in esame) la pretesa ‘intrusione’ del giudice nell’ambito delle valutazioni discrezionali abbia, invece, il limitato fine di accertare il razionale fondamento del provvedimento (l’adeguatezza dei criteri) e la sua logica tenuta rispetto ai fatti per cui è causa (il voto o punteggio assegnato), non pare profilarsi alcun rischio di “sostituzione” di una valutazione del giudicante alle scelte dell’amministratore. Ferma restando l’esclusiva pertinenza della “opinabilità” della decisione alla sfera di attribuzione della P.A., infatti, non v’è dubbio che anche le opinioni debbano essere logiche, razionali e pertanto giustificabili mediante un’argomentazione: e la possibilità di argomentare in modo univoco una (sia pure opinabile) decisione amministrativa carente di una motivazione espressa costituisce, almeno in questi casi, il precipuo e unico fine di un accesso del giudice alla piena cognizione del fatto controverso, senza sbarramenti derivanti da pretese (e inesistenti) “soglie di sindacabilità”.
Questa conclusione non è di certo appagante, poiché non risolve – e anzi apre la strada a – una teoria di spinosi e insoluti problemi (a partire da quello relativo al rilievo degli eventuali apporti istruttori forniti in giudizio dall’amministrazione per chiarire il fondamento della decisione ‘numerica’ impugnata) e suscita timori senz’altro fondati (in primis, appunto, quello di ammettere senza riserve la c.d. motivazione postuma in corso di causa)[49].
È poi evidente che – in disparte problemi e timori – la stessa conclusione relega in secondo piano quelle esigenze di economicità che non è troppo malizioso considerare il principale fondamento dell’orientamento del giudice amministrativo e della Corte costituzionale in materia di ‘motivazione numerica’: essa finisce con il trasferire sull’attività giurisdizionale (e probabilmente in grado più elevato) l’antieconomicità da cui lo stesso orientamento intende porre al riparo l’azione amministrativa. La scarsa attenzione per tali esigenze (del resto figlie di una lettura quantomeno opinabile del principio di buon andamento[50]) è tuttavia inevitabile una volta assodato che, in una molteplicità di fattispecie concrete, l’obbligo di esternare una motivazione (o almeno di fornire gli elementi sufficienti e necessari per la sua concreta ricostruzione in sede processuale) si rivela indispensabile per consentire l’accesso del cittadino alla tutela giurisdizionale ed è, pertanto, indubbiamente diretto “a presidiare l'adeguatezza degli strumenti processuali posti a disposizione dall'ordinamento per la tutela in giudizio” [51].
[1] Tar Lazio, Roma, 4 luglio 2017, n. 7699.
[2] Decreto del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, 1 luglio 2014 (in G.U.R.I., serie gen. 19 agosto 2014, n. 191, suppl. ord. n. 71), recante “Nuovi criteri per l’erogazione e modalità per la liquidazione e l’anticipazione di contributi allo spettacolo dal vivo, a valere sul Fondo unico per lo spettacolo, di cui alla legge 30 aprile 1985, n. 163”, ai sensi dell’articolo 9 del d.l. 8 agosto 2013, n. 91 (convertito in legge 7 ottobre 2013, n. 112), sostitutivi dei criteri precedentemente fissati dai decreti ministeriali 8 novembre 2007, 9 novembre 2007, 12 novembre 2007 e 20 novembre 2007, e successive modificazioni, per l’erogazione dei contributi in favore, rispettivamente, delle attività di danza, musicali, teatrali, circensi e dello spettacolo viaggiante (art. 1).
[3] Ai sensi dell’art. 5, c. 2, d.m. 1 luglio 2014, “Le domande di contributo […] sono valutate […] attribuendo ai relativi progetti un punteggio numerico, fino ad un massimo di punti cento, articolato secondo le seguenti categorie e relative quote: a) qualità artistica, fino ad un massimo di punti trenta, attribuiti dalle Commissioni consultive competenti per materia, secondo i parametri previsti per ogni settore di cui all’Allegato B del presente decreto, che ne costituisce parte integrante, e le modalità di cui al comma 3 del presente articolo; b) qualità indicizzata […]; c) dimensione quantitativa […].
[4] Non si terrà qui conto del capo della sentenza con cui è stato respinto il terzo motivo di appello, concernente il mancato esame, da parte del Tar, della censura di cui al terzo motivo di ricorso in primo grado, con il quale si lamentava un difetto di istruttoria derivante dall’omesso controllo, da parte dell’amministrazione, sul contenuto delle dichiarazioni sostitutive presentate dagli altri partecipanti a corredo delle rispettive istanze (cfr. il par. 9 della sentenza in commento).
[5] Sulla inammissibilità del motivo di appello che si limiti a reiterare le censure mosse in primo grado, senza esprimere specifiche critiche alla sentenza impugnata, cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 21 marzo 2019, n. 1873; sez. IV, 27 dicembre 2018, n. 7234; sez. V, 16 novembre 2018, n. 6464; sez. V, 13 settembre 2018, n. 5369.
[6] Così la sentenza in commento, al par. 3.
[7] Cfr. il par. 5 della pronuncia annotata e il punto 15 di Tar Lazio n. 7699/2017 cit.
[8] Per la nozione di motivazione intesa come discorso giustificativo v. per tutti A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato giurisdizionale, Milano 1987, 18.
[9] Così la sentenza di primo grado (par. 13), che richiama il principio di diritto riportato nella gran parte delle pronunce del giudice amministrativo in materia (cfr., da ultimo, Tar Lazio, Roma, 27 gennaio 2023, n. 1456 e 16 dicembre 2022, n. 16977; Consiglio di Stato, sez. III, 29 dicembre 2022, n. 11547, sez. VII, 21 novembre 2022, n. 10260 e sez. V, 10 novembre 2022, n. 9845) e di cui fa menzione anche la giurisprudenza costituzionale di cui subito si dirà.
[10] Corte costituzionale, sentenza 30 gennaio 2009, n. 20, sulla quale v. R. Basile, La querelle sulla motivazione delle prove dell'esame per l'abilitazione alla professione di avvocato e l'assenza di un dialogo fecondo tra la Corte costituzionale e i giudici amministrativi, in Il Foro amministrativo (T.a.r), 12/2010, 4083 ss.; M. Didonna, È “diritto vivente” il voto alfanumerico. La Consulta finalmente ammette, ma respinge: a un passo dal pronunciamento di merito, in Il Corriere Giuridico, 6/2009, 766 ss.; Id., Il voto numerico dell'esame di avvocato torna alla Consulta: "fuochino" del T.A.R. Lombardia, ibid., 6/2010, 794.
[11] Corte costituzionale, 8 giugno 2011, n. 175, su cui v. i commenti di F.G. Scoca, Punteggio numerico e principio di buon andamento, in Giurisprudenza costituzionale, 3/2011, 2279 ss; M. Didonna, “Il voto alfanumerico è motivazione": la Consulta chiude la partita degli avvocati, in Il Corriere giuridico, 12/2011, 1669 ss.; I. Sigismondi, La Corte costituzionale salva il "diritto vivente", in Giurisprudenza italiana, 6/2012, 1267 ss.
[12] Così Tar Lazio, Roma, 8 luglio 2013, n. 6672, che riferisce l’indirizzo alla giurisprudenza prevalente richiamando Consiglio di Stato, sez. IV, 19 ottobre 2007, n. 5468; 20 novembre 2000, n. 6160; 1 febbraio 2001, n. 367; sez. VI, 13 gennaio 1999, n. 14 e 27 maggio 1996, n. 747. Più di recente fa proprio l’argomento il parere su ricorso straordinario espresso da Consiglio di Stato, sez. II, 26 settembre 2016, n. 1979.
[13] Cfr. da ultimo Tar Lazio, Roma, 21 luglio 2022, n. 10428, ove si richiama il “consolidato assunto [sulla] natura delle decisioni delle commissioni esaminatrici, che sono atti di natura mista, e cioè di natura provvedimentale e di natura di “giudizio””: in termini v. già Consiglio di Stato, Sez. IV, 2 novembre 2012, n. 5581 e 6 giugno 2011, n. 3402. Ambigua, sul punto, anche la posizione espressa dal Tar Lazio nella pronuncia confermata dalla sentenza in commento, ove l’attenuazione dell’obbligo di motivazione è giustificata mediante il richiamo della nozione di discrezionalità tecnica (par. 13, lett. a): “allorquando si procede con l'attribuzione di un giudizio di valore, non si è nel campo della discrezionalità amministrativa, ma in quello della discrezionalità tecnica, nell'ambito della quale, non sussistendo una scelta fra opposti interessi, non vi è luogo ad una motivazione, che è invece l’espressione tipica della spiegazione di una scelta amministrativa (cfr, in termini, Cons. Stato, Sez. IV, 19 febbraio 2007 n. 5468)”
[14] Cfr. G. Corso, Motivazione dell’atto amministrativo, in Enciclopedia del diritto, Milano 2001, ad vocem, 782, ove efficacemente si rileva che, se la propugnata distinzione tra i concetti di giudizio e di provvedimento fosse fondata, “ne dovremmo dedurre che neppure i pareri del Consiglio di Stato (anch’essi non provvedimenti) devono essere motivati”.
[15] C. cost. n. 175/2011 cit., par. 3.
[16] Ibid.., par. 3.1.
[17] Ibid., loc. cit.. Il riferimento all’anti-economicità della motivazione espressa è pressoché costante nella giurisprudenza amministrativa in materia, sebbene, nella gran parte dei casi, nella forma di un argomento ad colorandum: v. ad es. Tar Lazio 7699/2017 cit. (non espressamente richiamata sul punto dalla pronuncia annotata), secondo la quale “il voto numerico […] esprime e sintetizza in modo adeguato il giudizio tecnico-discrezionale espresso da una commissione di valutazione, contenendo in sé la sua motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti, atteso che la motivazione espressa numericamente, oltre a rispondere al principio di economicità e proporzionalità dell'azione amministrativa di valutazione, consente la necessaria spiegazione delle valutazioni di merito compiute dalla commissione e il sindacato sul potere amministrativo esercitato” (par. 13, lett. b). La sentenza richiama Consiglio di Stato, sez. VI, 4 novembre 2013, n. 5288, 21 ottobre 2013, n. 5075; sez. IV, 21 ottobre 2013, n. 5107; sez. V, 11 giugno 2013, n. 3219, 13 febbraio 2013, n. 866; sez. VI, 11ottobre 2007, n. 5347, TAR Lazio, Roma, 15 ottobre 2013 n. 8860 e 18 ottobre 2012 n. 8633.
[18] Questa era stata, invece, l’impostazione delle questioni di legittimità costituzionale respinte da Corte Costituzionale, ord. 3 novembre 2000, n. 466, in Il Corriere giuridico, 12/2000, con nota di A.L. Tarasco, Diritto vivente e obbligo di motivazione nei concorsi pubblici: la Corte costituzionale “si astiene” (1571 ss.)
[19] Non sembra, infatti, che alle decisioni della Corte costituzionale possa essere riconosciuta la funzione di garantire l’uniforme interpretazione della legge ordinaria (al di fuori ovviamente, delle ipotesi in cui tale effetto derivi da una pronuncia interpretativa di rigetto e nella stretta misura in cui questa abbia lo scopo di impedire letture della norma di legge contrarie al dettato costituzionale): la Corte avrebbe potuto a pieno titolo escludere, insomma, che le garanzie del giusto procedimento imposte dalla Carta fondamentale includano un obbligo di motivazione corrispondente al modello definito dell’art. 3 l. proc., non offrire una lettura della stessa norma che, senza alcuno scopo di garantirne un’interpretazione conforme a Costituzione, ne depotenzia la portata precettiva.
[20] Per questa formulazione del principio, pacifico in giurisprudenza, cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 12 marzo 2021, n. 2118. L’indirizzo si era già consolidato sotto la vigenza dell’art. 83, c. 4, del vecchio Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163/2006): cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 14 gennaio 2019, n. 291; Consiglio di Stato, sez. V, 8 ottobre 2010, n. 7346.
[21] In argomento v. F. Cardarelli, Criteri di aggiudicazione, in M.A. Sandulli, R. De Nictolis, Trattato sui contratti pubblici, III, Milano 2019, 560 ss.
[22] Nel caso qui in esame, operata dal d.m. 1 luglio 2014.
[23] Cfr. in questo senso Tar Lazio, Roma, 8 novembre 2021, n.11421: “Quando l'insieme dei criteri o dei sub-criteri fornito dalla disciplina della procedura, con i relativi punteggi e i sub-punteggi, è sufficientemente chiaro, analitico e articolato, sì da delimitare adeguatamente il giudizio della Commissione nell'ambito di un minimo e di un massimo e da rendere con ciò comprensibile l’iter logico seguito in concreto nel valutare i singoli progetti in applicazione di puntuali criteri predeterminati, permettendo così di controllarne la logicità e la congruità, la motivazione con i punteggi numerici è sufficiente. Nell'ambito di procedimenti valutativi di offerte o progetti per l’attribuzione di un contributo pubblico, come quello di specie, deve ritenersi che rientra nell'ambito della discrezionalità dell'amministrazione l'individuazione e la conformazione dei criteri di valutazione delle offerte o dei progetti stessi. Questa scelta è passibile di sindacato giudiziale solo qualora tali criteri siano manifestamente irragionevoli, illogici o abnormi”. V. anche Consiglio di Stato, sez. II, 24 luglio 2020, n. 4733.
[24] Tar Campania, Napoli, 29 luglio 2020, n. 3413.
[25] Il virgolettato nel testo è tratto da Tar Calabria, Catanzaro, 10 luglio 2019, n. 1410; nello stesso senso v. Tar Lombardia, Milano, 13 maggio 2022, n. 1113; Tar Liguria, 30 novembre 2018, n. 935.
[26] Sul tema v. ampiamente A. Police, La predeterminazione delle decisioni amministrative. Gradualità e trasparenza nell'esercizio del potere discrezionale, Napoli 1999.
[27] In questo senso, da ultimo, v. di recente Consiglio di Stato, sez. VI, 30 luglio 2019, n. 5388; contra sez. VI, 7 novembre 2019, n. 7603.
[28] M.S. Giannini, Motivazione. III Motivazione dell’atto amministrativo, in Enciclopedia del diritto, Milano 1977, ad vocem, 258 ss. e 262 ss.. La giustificazione è qui intesa come semplice enunciazione dei presupposti normativi e fattuali del provvedimento e, in questa misura, può comunque essere distinta dalla motivazione in senso stretto, anche depurando quest’ultima nozione dai connotati soggettivo-psicologici che le attribuiva la dottrina più risalente (C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione con particolare riguardo agli atti amministrativi, Roma, 1933). A differenza di una giustificazione, infatti, la motivazione consiste sempre nella formulazione di un ragionamento in grado di collegare in modo logico i presupposti normativi e i dati fattuali acquisiti in sede istruttoria con il contenuto dispositivo della decisione. Cfr. G. Corso, Motivazione degli atti amministrativi e legittimazione del potere negli scritti di Antonio Romano Tassone, in Diritto amministrativo, 3/2014, 463 ss.
[29] G. Corso, Motivazione dell’atto amministrativo, cit., 780.
[30] La complessità dell’attività interpretativa può, peraltro, avere a oggetto i presupposti fattuali identificati dalla norma e dunque tradursi in complessità dell’accertamento di fatto anche nell’ambito dei provvedimenti vincolati. La distinzione tra questioni di fatto e di diritto – da sempre dibattuta (e talvolta negata: cfr. A. Nasi, Fatto (giudizio di), in Enciclopedia del diritto, Milano 1967, 981) con riferimento alla funzione (e ai limiti) dell’accertamento processuale (v. per tutti S. Satta, Commentario al Codice di procedura civile, Milano, 1959/62, II, pt. II, 190 ss. e F. Mazzarella, Analisi del giudizio civile di Cassazione, Padova, 2003, 83 ss.) – assume fisionomia peculiare nell’ambito del diritto amministrativo allorché il “fatto” sia oggetto di una valutazione discrezionale dell’amministrazione. La difficoltà di tracciare una netta linea di confine tra il sindacato che il giudice è chiamato a svolgere sugli accertamenti di fatto, sulla qualificazione giuridica dei fatti o sulla valutazione discrezionale dei presupposti fattuali accomuna per molti aspetti gli ordinamenti di civil e common law (cfr. P. Craig, Eu Administrative Law, Oxford 2018, 436 ss.), ma nel sistema italiano rappresenta, notoriamente, un tema di cruciale importanza per definire la fisionomia e i limiti della giurisdizione amministrativa di legittimità: in argomento cfr. V. Berlingò, Fatto e giudizio. Parità delle parti e obbligo di chiarificazione nel processo amministrativo, Napoli 2020, 143 ss.
[31] Per la giurisprudenza più recente (oltre alle già citate C.d.S. n. 2118/2021, Tar Lazio n. 11421/2021, Tar Campania n. 3413/2020, Tar Lombardia n. 1113/2022), cfr. ex multis Tar Lazio, Roma, 21 febbraio 2022, n. 2016; Consiglio di Stato, sez. V, 14 gennaio 2019, n. 291 e sez. III, 29 ottobre 2020, n. 6618.
[32] Tale approccio, ampiamente rappresentato dalla giurisprudenza dei Tar (v. ad es. Tar Marche, 14 luglio 2022, n. 415; Tar Lazio, Roma, 25 giugno 2022, n. 8627; Tar Friuli-Venezia Giulia, 10 maggio 2022, n. 224) non è estraneo alle decisioni del Consiglio di Stato (v. ad es., di recente, Consiglio di Stato sez. I, 1 agosto 2022, n. 1332; sez. V, 14 gennaio 2019, n. 291) specialmente ove oggetto del giudizio siano le valutazioni rese all’esito di selezioni, concorsi o esami pubblici: cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 10 maggio 2021, n. 3677; Consiglio di Stato sez. II, 12 febbraio 2021, n. 1290 (la quale conferma la decisione di primo grado – Tar Lazio, Roma, 24 aprile 2013, n. 4180 – riformandone però la motivazione, nella misura in cui essa dava conto di un “approccio cognitivo” che il giudice di appello ritiene invece precluso al giudice amministrativo, vale a dire la “verifica della correttezza del giudizio negativamente espresso dalla commissione concorsuale”); Consiglio di Stato, sez. IV, 15 ottobre 2020, n. 6258.
[33] In questo senso, da ultimo, C.d.S. n. 9845/2022 cit. e n. 2118/2021 cit.; v. anche Tar Lombardia, Milano, n. 1113/2022 cit.. Di notevole interesse anche C.d.S. n. 6618/2020 cit., che annulla la sentenza di primo grado (T.A.R. Sardegna, 14 aprile 2020, n. 218) pur condividendo il principio di diritto dalla stessa enunciato, secondo cui “il punteggio numerico espresso sui singoli oggetti di valutazione opera alla stregua di una sufficiente motivazione solo allorquando l'apparato delle voci e sottovoci fornito dalla disciplina della procedura, con i relativi punteggi, è sufficientemente chiaro, analitico e articolato, sì da delimitare adeguatamente il giudizio della Commissione nell'ambito di un minimo e di un massimo e da rendere con ciò comprensibile, e controllabile nella sua congruità, l'iter logico seguito in concreto nel valutare le proposte in gara”: l’errore del Tar, secondo il giudice d’appello, consiste nell’avere richiamato la consolidata massima senza procedere a una verifica in concreto della possibilità di ricostruire il percorso logico seguito dall’amministrazione e di avere così reputanto legittimo l’operato di quest’ultima con una motivazione “del tutto apodittica ed elusiva”.
[34] Cfr. la sentenza in commento, par. 3.
[35] Ibid., loc. cit.
[36] Tar Lazio n. 7699/2017 cit., par. 15.
[37] Par. 6.
[38] Così la sentenza in commento al par. 5, mutuato integralmente dalla pronuncia di primo grado (par. 15).
[39] Tar Lazio n. 7699/2017 cit., parr. 11 e 12.
[40] Ibid., par. 13.
[41] Com’è noto, secondo la ricostruzione dell’A., l’obbligo di motivazione, originariamente unico strumento impiegabile dal giudice per esercitare un controllo che andasse oltre la legalità formale del provvedimento, avrebbe in parte ceduto il passo, in progresso di tempo, a più incisive forme di indagine sul cuore dell’agire amministrativo: il correlato storico dell’ampliamento del sindacato sull’eccesso di potere è, insomma, l’emersione di ipotesi in cui l’esistenza sostanziale del motivo ‘salva’ dall’annullamento il provvedimento lacunoso in punto di motivazione: M.S. Giannini, Motivazione, cit., 265 s.
[42] Così l’incipit del par. 11 di Tar Lazio n. 7699/2017 cit.
[43] Ibid., par. 12.
[44] Diversamente dalla “analitica e approfondita” ricostruzione di Tar Lazio n. 7699/2017 cit., buona parte della giurisprudenza non mette in dubbio, nell’approdare alle medesime conclusioni in relazione all’ampiezza del sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica, la sua assimilabilità al sindacato sulla discrezionalità pura: cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. II, 23 febbraio 2021, n. 1568.
[45] Così la sentenza in commento al citato par. 5 e al par. 8.
[46] Così Tar Lazio n. 7699/2017 cit., par. 12.
[47] M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, in Diritto processuale amministrativo, 3/2017, 896.
[48] È il caso di avvertire che l’analisi svolta nel testo prescinde per scelta da un’indagine sulla nozione di discrezionalità tecnica (su cui v. per tutti D. De Pretis, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova 1995), dall’esame degli argomenti che ne evidenziano la “intima contraddittorietà” (F.G. Scoca, Punteggio numerico e principio di buon andamento, cit., 2282) e che sottolineano come la sua “insindacabilità piena ed effettiva” rappresenti un “mito” della giurisprudenza amministrativa (così Id., Sulla effettività della tutela dell’interesse legittimo nel processo, in G. Corso, F.G. Scoca, A. Ruggeri, G. Verde (a cura di), Scritti in onore di Maria Immordino, Vol. IV, Napoli 2022, 3367 ss.), mito per buona parte smentito dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. sent. 7 settembre 2020, n. 18592). Né, con specifico riferimento al caso esaminato, si intende sottoporre a specifica critica la (pur poco convincente) tesi secondo cui sarebbero le nozioni della scienza e della tecnica a consentire la valutazione della “qualità artistica” di un progetto: le riflessioni qui proposte intendono piuttosto assumere la nozione di discrezionalità tecnica in termini puramente stipulativi, identificandone la fisionomia e l’ampiezza così come descritte dalla pronuncia di appello, da quella di primo grado che essa conferma e dalla giurisprudenza ivi richiamata. Sembra, infatti, che la prospettiva metodologica in cui si inscrive la decisione annotata riveli i propri punti di debolezza e contraddittorietà pur dando per buona tale ricostruzione.
[49] In tema v. F.A Bella, Limiti alla convalida del vizio di motivazione in corso di giudizio (nota a Cons. Stato, sez. VI, n. 3385/2021), in questa Rivista, 10 novembre 2021. Cfr. anche G. Tropea, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto: derive e approdi, in Diritto processuale amministrativo, 4/2017, 1235 ss.
[50] F.G. Scoca, Punteggio numerico e principio di buon andamento, cit. 2281 ss.
[51] Ciò è, invece, quanto la Corte costituzionale ha negato con le citate pronunce n. 20/2009 e 175/2011 (dal cui par. 3.2. è tratto il virgolettato nel testo). È noto, peraltro, come il giudice delle leggi abbia adottato in altre (e altrettanto recenti) occasioni una posizione opposta, affermando espressamente che l’obbligo di motivazione ha proprio la funzione di consentire “al destinatario del provvedimento, che ritenga lesa una propria situazione giuridica, di far valere la relativa tutela giurisdizionale” e ha pertanto dichiarato l’illegittimità di norme di legge che non ne garantivano il rispetto per violazione dell’art. 24 Cost. (cfr. Corte costituzionale, 5 novembre 2010, n. 310).
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