Suicidi in carcere: il ministro della giustizia corre ai ripari di Carlo Sudio
Sommario: 1. Il suicidio dei detenuti: un’emergenza e una vergogna nazionale. 2. I rimedi indicati dal Ministro: il sovraffollamento carcerario come antidoto alla solitudine. 3. La separazione delle carriere come risposta di sistema al suicidio in carcere.
1. Il suicidio dei detenuti: un’emergenza e una vergogna nazionale.
Nel corridoio principale del Tribunale di Roma, davanti all'ingresso della Camera Penale, campeggia un pannello su cui è riportato in tempo reale il numero dei detenuti italiani che si sono suicidati dal 1° gennaio del 2025.
Chiunque ha a che fare con il mondo della giustizia (magistrati, avvocati, personale amministrativo, imputati, pubblico) non può non guardare ogni giorno quel pannello e - con un brivido e un pizzico di senso di colpa - constatare quanto quel numero cambi con frequenza impressionante e cresca quasi quotidianamente.
Nel 2024 si sono suicidati 91 detenuti; nel 2025 (dato aggiornato a qualche giorno fa) già 42 persone si sono tolte la vita nelle celle del nostro paese, oltre a tre agenti penitenziari.
Il fenomeno ha assunto da tempo crisma di emergenza nazionale e rimorde nella coscienza di tutti.
L'ANM rimprovera da tempo il Governo e il Ministro della Giustizia di spendere soldi, energie e tempo in riforme dal chiaro - e ormai non più dissimulato - scopo punitivo e intimidatorio nei confronti dei magistrati, anziché dedicarsi ad affrontare emergenze come l'efficienza del processo penale e la drammatica situazione delle carceri.
Sarebbe un errore, peró, ritenere che il tema dei suicidi dei detenuti non sia ben presente nella mente del Guardasigilli.
Alcune sue recentissime dichiarazioni, apparentemente slegate tra loro, suggeriscono invece non solo che il Ministro ha ben presente la vastità e la gravità dell'emergenza, ma che ha già pensato ai rimedi per farvi fronte e alimentano la concreta speranza del prossimo arrivo di qualche provvedimento legislativo in grado di far uscire il Paese dalla tragica impasse.
Le indicazioni del Guardasigilli sono nette, se solo le si leggono con l’attenzione e il rispetto che meritano.
Dalle stesse emerge la volontà di far fronte al fenomeno secondo due direttive, da incoraggiare ed esaltare: il sovraffollamento carcerario e la separazione delle carriere.
Conviene esaminarle partitamente.
2. I rimedi indicati dal Ministro: il sovraffollamento carcerario come antidoto alla solitudine.
Il primo dei due rimedi è stato indicato dal Ministro Carlo Nordio in un’intervista al Corriere della Sera del luglio 2025.
Parlando di sovraffollamento delle carceri italiane e del numero dei suicidi dei detenuti, il Ministro ha affermato che si tratta di “due problemi gravi, ma non connessi. Anzi, paradossalmente, il sovraffollamento è una forma di controllo: alcuni tentativi di suicidio sono stati sventati proprio dai compagni di cella. E’ la solitudine che porta al suicidio. Ma soprattutto la mancanza di speranza e l’incertezza del domani. Molti si uccidono proprio quando è imminente la loro liberazione”.
Risultano dunque irrefutabilmente smentiti i dati di Antigone, che si occupa di tutelare i diritti delle persone che si trovano in carcere, che ha nei suoi rapporti annuali da sempre indicato una chiara relazione esistente tra i suicidi e gli istituti penitenziari più affollati.
E’ vero invece, secondo i dati sicuramente più attendibili del Ministro, il contrario: il sovraffollamento impedisce i suicidi attraverso il controllo che i detenuti esercitano gli uni sugli altri.
Solitudine e silenzio sono le cause indicate dal Ministro. Celle in cui lo spazio vitale è ridotto oltre gli standards di tollerabilità (tanto da costringere lo Stato a innumerevoli cause civili per violazione dei diritti umani) favoriscono invece il controllo reciproco e il tempestivo intervento nel caso che qualcuno dei numerosi compagni di cella tenti di togliersi la vita.
L’intervento degli altri, è evidente, risulta favorito dal ridotto spazio da percorrere prima di giungere al malcapitato e sventarne l’intento autosoppressivo.
Né va sottolineato l’inciso finale della dichiarazione: la vera causa del fenomeno è l’incertezza del domani, non le condizioni della detenzione.
Se molti detenuti si suicidano quando è imminente la liberazione, come risulta al Ministro sicuramente da studi ed indagini approfondite, il dato deve far riflettere: forse è proprio la prospettiva di tornare a vivere in libertà, in spazi privi di quel benefico sovraffollamento e della salvifica sensazione di essere controllati dagli altri a ingenerare nel detenuto la sensazione negativa e ingenerare il panico da liberazione (sul fenomeno della “fuga dalla libertà” la mente corre all’imperituro saggio di Erich Fromm).
Mantenere la situazione di sovraffollamento nelle carceri e procrastinare la liberazione di soggetti detenuti per garantire il controllo dei loro impulsi sono dunque le direttive che emergono da queste dichiarazioni.
3. La separazione delle carriere come risposta di sistema al suicidio in carcere.
Ma v’è dell’altro.
Nelle ultime ore il Ministro è tornato a parlare di suicidi in carcere, fornendo ulteriori importanti spunti di riflessione.
Ancora una volta, a dare il la alle sue esternazioni è stata un'iniziativa dell'Anm, che ha pubblicato un vecchio documento della sottosezione veneta risalente al 1994.
Si tratta, come è noto, di una dichiarazione con cui alcuni magistrati veneti hanno ritenuto di esprimere pubblicamente la loro contrarietà alla separazione delle carriere, vera e propria ossessione del potere politico, come si vede, da oltre trenta anni.
Nulla di strano, si potrebbe osservare: la stragrande maggioranza dei giudici e pm italiani è da sempre di questa opinione, ritenendo che un organo dell'accusa formato alla cultura della giurisdizione e della prova (e non alla filosofia dell'accusare a tutti i costi e incarcerare e condannare più gente possibile) sia un bene per tutto il paese, che ne guadagna in democrazia.
L'anomalia è che tra i firmatari del documento del 1994 vi è il magistrato Carlo Nordio, in aperto contrasto con il Ministro della Giustizia omonimo che della separazione delle carriere ha fatto la bandiera della sua riforma in discussione (oddio, discussione è una parola grossa visto l'iter parlamentare portato avanti a salti di canguro e tappe forzate).
Per spiegare il clamoroso contrasto tra il magistrato e il politico, il Ministro ha rivendicato il diritto di cambiare idea (e questo è sacrosanto) ed ha giustificato il cambiamento con le riflessioni in lui scaturite dopo il suicidio in carcere di un suo indagato.
Alcuni hanno obiettato che il caso evocato è del 1993, quindi precedente il comunicato, per cui sarebbe impossibile che abbia cambiato idea per un fatto di anni prima, ma questa affermazione non coglie il punto.
La dichiarazione è invece importante perché indica una precisa direzione per il problema oggetto di questo articolo.
Se infatti il suicidio di un detenuto ha convinto il Ministro a diventare sostenitore della separazione delle carriere fino al punto da stravolgere la Costituzione per realizzare la sua riforma, questo non può che voler dire che la causa del suicidio deve essere imputata al fatto che il pubblico ministero ha fatto lo stesso concorso dei giudici e ne condivide lo stesso CSM, per di più eletto dai magistrati e non sorteggiato come si usa in tutti i concorsi di bellezza e nelle giurie delle sagre dei paesi seri.
Il punto merita approfondimento.
I sostenitori della riforma sostengono che il processo penale non è giusto in quanto i giudici tenderebbero a dare sempre ragione ai Pubblici ministeri perché condividono con loro carriera e aspirazioni: le loro sentenze e le loro ordinanze sarebbero sbilanciate in favore dell’accusa perché a chiedere condanne e misure cautelari sono loro amici e compagni di corrente.
Diamo per scontato che questo assunto sia vero…. anche se non lo è, perché smentito dalle statistiche che dimostrano che assoluzioni e rigetti, cioè i casi in cui i giudici danno torto al PM, sono pari a quelli di tutti gli altri paesi. Ma non importa, tutti sanno che non è vero e che la riforma serve ad altro. Lo ha detto chiaramente il senatore della maggioranza Marcello Pera due giorni fa: la riforma di per sé non serve se i PM non saranno responsabili verso “qualcun altro”.
Dunque non “giudici indipendenti dai PM” ma “PM dipendenti” (indovinate da chi?). Questo è il senso della riforma.
Ma non divaghiamo e torniamo al sillogismo del nostro Ministro.
Se la ragione della separazione delle carriere è motivata dall’esigenza di sottrarre i giudici dall’influenza nefasta dei Pubblici Ministeri, e se Nordio si è convinto della bontà della separazione dopo il suicidio di un indagato detenuto, questo vuol dire che – seguendo il suo ragionamento – l’indagato si è suicidato a causa dell’influenza nefasta del PM di allora sul giudice, dovuta all’unicità delle due carriere.
Dunque, la causa del suicidio è stata addebitata dal Ministro Nordio all’influenze nefasta del Pubblico Ministero omonimo sul giudice che ne ha accolto la richiesta di misura cautelare.
Separando le carriere, si impediranno eventi tragici come quello accaduto, impedendo ai futuri PM veneti (ma non solo) di fare danni irreparabili.
Né può essere trascurato l’impatto della riforma sulla mente dei detenuti.
Se è vero, come pure è stato detto da Pera nell’intervista menzionata, che la separazione delle carriere porterà ad un corpo di pubblici ministeri assetati di condanne e di misure cautelari, la conseguenza immediata sarà un aumento delle misure cautelari e delle pene richieste e irrogate.
Più detenuti, e ristretti per un periodo più lungo.
Si allontanerà in questo modo quella situazione di incertezza sul futuro e diminuiranno i momenti in cui il detenuto, prossimo alla scarcerazione, è preda della depressione tanto funesta secondo la ricostruzione del Ministro.
Anche in questo modo dunque la separazione delle carriere porterà alla drastica diminuzione dei suicidi dei detenuti.