ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato
Intervista di Marcello Basilico a Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli
L’arrivo del primo vaccino anti-Covid ha suscitato, com’era prevedibile, molti interrogativi anche in ordine al suo impatto nelle dinamiche del mondo lavorativo. Da alcune settimane l’evidenza di una diffusa “obiezione di coscienza” ha fatto emergere il dibattito sulla possibile obbligatorietà del vaccino, almeno in alcuni contesti, e sulle conseguenze del rifiuto del lavoratore, almeno di quello dipendente, nelle relazioni col datore pubblico o privato. Le soluzioni ipotizzate sono disparate, suggerite spesso dalle visioni soggettive del quadro dei principi e delle regole fondamentali dell’ordinamento, ma imposte d’altronde dall’assenza di una norma positiva.
La realtà è che, in una materia tanto delicata e complessa, che involge tematiche multidisciplinari e non tutte squisitamente giuridiche, sembra difficile per una volta identificare due schieramenti nettamente contrapposti (pro o contro la licenziabilità del lavoratore renitente). Per lo più le divergenze tra i commentatori appaiono più sfumate.
Giustizia Insieme ha coinvolto nel dibattito quattro illustri studiosi e operatori del diritto del lavoro, di estrazione e attività diverse, secondo la propria radicata vocazione pluralista e in un’ottica di allargamento massimo dello scenario giuridico-sociale.
Qual è la sua opinione sulla possibilità per il datore di lavoro d’imporre al proprio dipendente, soprattutto se addetto a taluni servizi, di sottoporsi al vaccino anti-Covid?
Arturo Maresca: «Si deve muovere dalla considerazione che il legislatore (art. 1, co. 457 ss., l. 178/2020) ha varato “il piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2” escludendone consapevolmente l’obbligatorietà sia per la generalità dei cittadini sia per specifiche categorie di lavoratori.
Prendendo atto della posizione così assunta dal legislatore – significativamente diversa da quella adottata per altri vaccini (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit) – è ben difficile desumere un obbligo da norme (artt. 2087 c.c. e 20 e 279, d. lgs. n. 81/2020) che riguardano le misure generali di sicurezza del datore di lavoro e la necessaria cooperazione del dipendente. Anche perché il legislatore ha ritenuto di rimettere il presidio dei rischi specifici derivanti dal contagio ai protocolli di cui all’art. 29-bis, dl 40/2020 ed alla loro capacità mirata e dinamica di adattamento.
Quindi, seppure con la finalità di contrastare il rischio di contagio nei luoghi di lavoro, il datore, che non può somministrare direttamente il vaccino di cui non ha la disponibilità, non può neppure ordinare al lavoratore di vaccinarsi presso le competenti strutture sanitarie. Infatti questo ordine violerebbe l’art. 32, co. 2, Cost., perché finirebbe per costringere il lavoratore a sottoporsi “a un determinato trattamento sanitario”.
Pertanto l’eventuale rifiuto del lavoratore non costituirebbe infrazione disciplinare sanzionabile dal datore di lavoro che ha, però, diritto di essere informato se la vaccinazione sia avvenuta o meno, perché si tratta di un dato necessario alla gestione della prevenzione del contagio».
Roberto Riverso:» «Occorre chiedersi anzitutto se possa esistere che in nome della libertà di cura si metta a repentaglio la salute collettiva, dei colleghi e dei terzi presenti nell’ambiente di lavoro. Questo è il punto di caduta dinanzi alla drammatica epidemia in corso, da cui non si può prescindere. Si afferma per solito che senza una legge specifica ex art. 32 Cost. il lavoratore sia libero di non vaccinarsi. In realtà, nel rapporto di lavoro, bisognerebbe muovere dal “principio di prevenzione”, dal TU 81/08 (artt. 279, 42), dall’art. 2087 c.c., dall’art.3 Cost. Se, come penso, in presenza di rischio Covid qualificato (laboratori, ospedali, r.s.a., ambienti assimilabili per livello di rischio), il datore sia già obbligato, in base alle norme cit., a chiedere la vaccinazione quale misura di protezione della salute nell’ambiente di lavoro (salvo risponderne in tutte le sedi); anche il lavoratore sarà parimenti obbligato, in base alla legge (art. 20 TU) a prestare la propria collaborazione, vaccinandosi. Non può esserci scarto tra gli obblighi del datore e quelli del lavoratore in materia di sicurezza, né alcuna discrezionalità rispetto a misure da ritenere tutte necessarie; salvo ipotizzare l’incostituzionalità (ex artt. 32 e 3 Cost.) del TU e dell’art. 2087 c.c., come si evince dalle note sentenze della Corte Cost. 218/92 e 258/94 (con cui ha dichiarato come obbligatori gli accertamenti sulla sieropositività HIV per l’espletamento di attività che comportano rischi per la salute dei terzi) ».
Paolo Sordi: «Non mi pare che nell’ordinamento sia rinvenibile una disposizione che consenta al datore di lavoro di imporre al dipendente di vaccinarsi, norma che, tra l’altro, dovrebbe soddisfare le condizioni richieste dalla riserva di legge prevista dal secondo comma dell’art. 32 Cost. . Tale non è, riterrei, l’art. 2087 c.c., norma che necessita di essere integrata da fonti extranormative (e ciò pur senza contare che, mi sembra, sia tuttora vigente l’art. 29-bis d.l. n. 23/2020 secondo il quale i datori di lavoro adempiono all’obbligo di cui alla predetta norma codicistica mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nei vari protocolli condivisi succedutisi nel corso del tempo), e neppure lo sono le disposizioni in tema di vaccini contenute nel d.lgs. n. 81/2008 dalle quali si può desumere l’obbligo per il datore di lavoro – in presenza di un rischio specifico – di porre a disposizione dei dipendenti i vaccini, non quello dei lavoratori di vaccinarsi».
Lorenzo Zoppoli: «Il datore di lavoro, in linea generale, non ha il potere di imporre a un proprio dipendente un trattamento sanitario personale come il vaccino anti-Covid. Però può esigere tale comportamento in due ipotesi in cui il lavoratore, ricorrendo determinati presupposti, è obbligato a vaccinarsi in base a regole vincolanti che integrano le obbligazioni contrattuali, sempreché le condizioni di salute del lavoratore consentano la somministrazione del vaccino. La prima è quando l’obbligo di vaccinarsi può essere ricondotto al codice deontologico del lavoratore (esempio medico o infermiere in situazioni ad elevatissimo rischio di contagio); la seconda quando il vaccino può essere necessario per garantire la sicurezza negli ambienti di lavoro».
In ogni caso, quali sono gli effetti possibili, per il suo rapporto lavorativo, del rifiuto del dipendente di vaccinarsi?
Arturo Maresca: «Il datore di lavoro può trarre dalla scelta del dipendente di non vaccinarsi tutte le conseguenze che ne derivano sul piano giuridico, verificando se l’esecuzione della prestazione sia oggettivamente e temporaneamente impossibile con la liberazione dall’obbligo retributivo (art. 1256, co. 2, c.c.). Una verifica da effettuare non in astratto, ma in concreto avendo riguardo alla prevenzione del rischio di contagio e tenendo conto della compresenza con altri lavoratori (vaccinati e non) o di eventuali contatti che il lavoratore deve intrattenere con utenti/clienti.
Un g.m.o. di licenziamento sarebbe ipotizzabile soltanto se la perdurante impossibilità di utilizzo del dipendente dovesse impedire il funzionamento dell’attività produttiva».
Roberto Riverso: «Tutti coloro che si occupano della questione, anche quando escludono obblighi per le parti del contratto di lavoro, ammettono comunque il licenziamento oggettivo per inidoneità professionale, salvo le alternative praticabili, decorso un periodo di sospensione. Propendo, invece, per un’ interpretazione costituzionalmente orientata che miri a responsabilizzare al massimo le parti del rapporto, a fronte della drammatica pandemia. Anche perché mi pare elusivo, sul piano sistematico, far scadere il rifiuto di una misura di sicurezza come il vaccino – pregnante questione contrattuale, imputabile alla volontà di una parte – a mera inidoneità professionale: come se il lavoratore fosse malato, o incapace a svolgere le mansioni, mentre è renitente agli obblighi di protezione citati. E’ una tesi che, a ben vedere, indebolisce anche le tutele, conservative e retributive, modulabili meglio sul piano soggettivo, col principio di proporzionalità, piuttosto che attraverso la fattispecie dell’impossibilità sopravvenuta fondata esclusivamente sulla valutazione del residuo interesse alla prestazione del creditore».
Paolo Sordi: «Forse l’istituto del diritto dei contratti nell’ambito del quale le conseguenze dell’emergenza epidemiologica sul rapporto di lavoro subordinato potrebbero essere attendibilmente ricavate è quello della sopravvenuta impossibilità ad adempiere. Quest’ultima potrebbe essere ritenuta, in concreto, ricorrente solamente negli specifici casi in cui, per le particolari caratteristiche dell’attività dell’azienda e/o della prestazione lavorativa, le misure di sicurezza (diverse dal vaccino) già individuate e sperimentate (dispositivi di protezione delle vie respiratorie, distanziamento, ecc.) non siano tali da assicurare tanto lo svolgimento dell’attività lavorativa in sicurezza, quanto la conservazione dell’utilità della prestazione lavorativa per il datore. In queste ipotesi potrebbe configurarsi un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, la cui legittima adozione richiederebbe comunque, la ricorrenza di tutte le altre condizioni richieste dalla disciplina generale dell’istituto (ad esempio, l’impossibilità di adibizione ad altre mansioni per il cui svolgimento non sia necessario vaccinarsi). Nessuna impossibilità ad adempiere – e, conseguentemente, nessun giustificato motivo oggettivo di licenziamento – potrebbero invece essere configurati, neppure in simili casi, rispetto a quei lavoratori che si sottoponessero (per loro scelta) alla vaccinazione».
Lorenzo Zoppoli: «Nella prima ipotesi sopra ricordata vengono meno i requisiti di idoneità professionale, il lavoratore non è più abilitato a svolgere la propria attività e può essere persino licenziato. Nel secondo caso molto dipende da quanto è indispensabile il vaccino al fine di garantire la sicurezza negli ambienti di lavoro. Nell’effettuare questa valutazione rilevanza prioritaria devono avere le condizioni oggettive in cui viene resa la prestazione e la effettiva disponibilità di un vaccino efficace».
Ritiene auspicabile un intervento del legislatore al riguardo? Quali potrebbero essere la collocazione sistematica e il contenuto d’una norma siffatta?
Arturo Maresca: «Ritengo opportuno che il legislatore preveda un obbligo di vaccinazione (fatti salvi i casi di impedimenti per motivi di salute) per gli addetti alle attività essenziali, quelle che continuarono ad operare nel primo lockdown (marzo/maggio 2020) e, più in generale, quelle riconducibili nell’ambito applicativo della l. 146/1990.
Il legislatore dovrebbe formulare nell’ambito della legislazione emergenziale di contrasto al Covid-19 una norma ad hoc ispirata ai principi enunciati dalla Corte costituzionale (2.6.1994, n. 218; 23.6.1994, n. 258) quanto all’obbligatorietà degli accertamenti sanitari per chi espleta attività che comportano rischi per la salute dei terzi, nonché al bilanciamento ed alla “salvaguardia del valore della salute collettiva, alla cui tutela…sono finalizzate le prescrizioni di legge relative alle vaccinazioni obbligatorie” ».
Roberto Riverso: «Il tema vaccini, oltre a quello di prevenzione, interseca il “principio di solidarietà” inteso come aspirazione ad una idea più alta di comunità e di avanzamento sociale; principio rispetto a cui non rileva se il vaccino sia obbligatorio o raccomandato (C. Cost. 107/2012). Distinzione, questa, che non ha ovviamente pregio neppure sul piano scientifico (C. Cost. 118/2020), posto che i vaccini raccomandati non sono meno necessari, né più pericolosi, di quelli obbligatori. Nell’ottica dei menzionati principi, servirebbe una prova di maturità collettiva con un’adesione massiccia e spontanea al vaccino da parte di tutti (lavoratori in primis), senza costrizione alcuna. Servirebbe invece una massiccia campagna di informazione e sensibilizzazione che fino ad ora è mancata, anche da parte sindacale».
Paolo Sordi: «Poiché la vicenda coinvolge diritti di sicuro rilievo costituzionale (diritto alla salute, libertà nella sottoposizione a trattamenti sanitari, libertà di impresa) mi sembrerebbe che quella delle Assemblee legislative sia l’unica sede idonea a realizzare un contemperamento tra i vari interessi in gioco e a far emergere in maniera chiara le diverse possibili soluzioni con le rispettive motivazioni.
L’eventuale disciplina, a mio avviso, dovrebbe essere inserita nel settore dell’ordinamento relativo alla sanità pubblica, più che in quello relativo al contratto di lavoro, perché è la tutela della salute collettiva che dovrebbe costituire il quadro generale di riferimento delle scelte operate dal legislatore concernenti un obbligo di vaccinazione, le sue modalità di attuazione, gli eventuali suoi limiti e le sanzioni in caso di inosservanza».
Lorenzo Zoppoli: «Il legislatore potrebbe intervenire essenzialmente per meglio definire quando l’obbligo del vaccino anti Covid entri nel codice deontologico di talune professioni, garantendo ovviamente il diritto ad essere vaccinati. Per quanto riguarda l’obbligo di vaccinarsi correlato al dovere datoriale di garantire la sicurezza sul lavoro - correlato in quanto il lavoratore è tenuto a collaborare alla sua realizzazione- ritengo che nel d.lgs. 81/08 ci siano già tutte le regole necessarie a modulare anche l’obbligo di vaccinarsi al fine di garantire le misure di sicurezza più efficaci. Le sanzioni potrebbero essere eventualmente previste in modo specifico dalla contrattazione collettiva senza necessità di ulteriori norme di legge».
Il dovere di astensione dei componenti dei Consigli Giudiziari. Le linee guida del CSM
di Chiara Gallo
Sommario: 1. L’istituto dell’astensione nei regolamenti dei consigli giudiziari - 2. L’obbligo di astensione dei consiglieri che abbiano adottato provvedimenti in valutazione. La posizione del componenti di diritto - 3. Le situazioni di potenziale conflitto di interesse - 4. Le soluzioni proposte nella delibera del CSM dell’11.3.2020 - 5. L’astensione dei componenti di diritto del Consiglio Direttivo della Corte di Cassazione - 6. Considerazioni finali.
1. L’istituto dell’astensione nei regolamenti dei consigli giudiziari
Chi è stato o è tuttora componente dei consigli giudiziari si è trovato ad affrontare il tema dell’astensione dei consiglieri nei casi di pratiche in cui poteva profilarsi una situazione di conflitto di interesse.
Se si mettono a confronto le previsioni contenute nei regolamenti di tali organi ci si accorge che la materia dell’astensione è generalmente regolata seguendo i principi dettati dalla giurisprudenza amministrativa in materia di conflitto di interesse dei componenti di un collegio amministrativo, ossia ritenendo sussistente un dovere di astensione nei casi in cui i componenti del consiglio giudiziario siano portatori di un interesse personale divergente da quello affidato alle cure dell’organo di cui fanno parte.
Il tema presenta risvolti differenti a seconda che il conflitto di interesse rilevi nelle pratiche che vedono il consigliere come soggetto personalmente destinatario degli effetti del provvedimento rimesso all’organo di appartenenza - è il caso dei pareri per le valutazioni di professionalità o dei pareri di idoneità, delle pratiche di incompatibilità, di collocamento fuori ruolo o di autorizzazione ad incarichi extragiudiziari, di variazioni tabellari incidenti sulla posizione del singolo, quali ad esempio quelle relative ai trasferimenti interni, esoneri o riequilibrio dei carichi di lavoro - o nelle pratiche che interessano il consigliere come componente di un ufficio destinatario nel suo complesso del provvedimento in valutazione, come nel caso dei provvedimenti in materia tabellare, o, ancora, nelle pratiche relative a provvedimenti emessi da componenti del consiglio giudiziario in qualità di dirigenti degli uffici.
Le previsioni regolamentari non forniscono soluzioni certe ed omogenee in relazione ai tre profili sopra indicati ed anzi spesso vedono una sovrapposizione di norme in materia di astensione e norme in materia di assegnazione degli affari, materia quest’ultima che risponde ad un’esigenza differente da quella di evitare situazioni di conflitto di interesse e che attiene alla tutela del principio di imparzialità dell’azione amministrativa attraverso l’adozione criteri di assegnazione trasparenti, predeterminati e tendenzialmente automatici.
Troviamo quindi nei regolamenti norme che vietano l’assegnazione ai consiglieri di pratiche relative a loro stessi o a magistrati legati da rapporti familiari secondo le regole previste dagli artt. 18 e 19 O.G. in materia di incompatibilità o attraverso richiami alle norme in materia di astensione previste dall’art. 51 cpc, ma anche norme che vietano l’assegnazione ai consiglieri di affari che riguardano magistrati che svolgono le funzioni nello stesso settore. Nei primi casi, di regola, al divieto di assegnazione si affianca anche il divieto di partecipare alla discussione e alla deliberazione del parere.
Nella prassi, inoltre, si assiste generalmente all’astensione dalla discussione e dalla deliberazione dei consiglieri che hanno partecipato a concorsi per incarichi direttivi o semidirettivi nelle pratiche relative ai pareri di idoneità di magistrati che hanno partecipato al medesimo concorso.
In alcuni regolamenti si prevedono divieti di assegnazione di pratiche relative a provvedimenti che riguardano gli uffici di cui faccia parte il consigliere, quali proposte tabellari, progetti organizzativi, variazioni tabellari, provvedimenti di modifiche dei progetti organizzativi. In tali situazioni, essendo la situazione di conflitto di interesse indiretta e meramente eventuale non può tecnicamente configurarsi un obbligo di astensione. Ed infatti il divieto di assegnazione previsto dai regolamenti non è, in tali casi, seguito da previsioni di obblighi di astensione dalla discussione e dalla deliberazione del parere. In alcuni regolamenti si prevede comunque espressamente la facoltà di astensione.
2. L’obbligo di astensione dei consiglieri che abbiano adottato provvedimenti in valutazione. La posizione del componenti di diritto
Quasi totalmente assente nei regolamenti è la previsione di un obbligo di astensione dei consiglieri che abbiano adottato o concorso ad adottare gli atti sottoposti alla valutazione dei consigli giudiziari, sebbene si tratti di situazioni in cui la coincidenza tra chi valuta e chi è valutato pone senza dubbio un problema di conflitto di interesse.
Simili situazioni si verificano con grande frequenza soprattutto nei casi di provvedimenti organizzativi emessi dai membri di diritto del consiglio giudiziario, ossia il Presidente della Corte d’Appello e il Procuratore Generale, nella loro qualità di dirigenti dei rispettivi uffici. E può talvolta verificarsi anche nei casi di pratiche differenti, quali pareri di valutazioni di professionalità o pareri di idoneità nei quali i membri di diritti del consiglio giudiziario abbiano formulato i rapporti informativi previsti dalle norme di circolare.
In assenza di specifiche norme regolamentari si profila una realtà assai variegata.
Accade, in alcuni consigli giudiziari, che il Presidente della Corte d’Appello non partecipi alla trattazione di pratiche tabellari riguardanti il proprio ufficio in caso di osservazioni dei magistrati interessati, facendosi sostituire dal vicario, mentre in altri consigli giudiziari si registra la sistematica partecipazione dei membri di diritto alla discussione e alla votazione anche in relazione a pratiche che vedono in valutazione provvedimenti “problematici” da loro adottati in quanto dirigenti dei rispettivi uffici.
Fino ad oggi la decisione di partecipare o meno alla trattazione di tali pratiche è stata, nella maggior parte dei casi, rimessa alla unilaterale decisione dei membri di diritto.
In tutte le sedi di dibattito e confronto sul tema è costantemente emersa una forte resistenza da parte dei membri di diritto dei consigli giudiziari a teorizzare l’esistenza di un loro obbligo di astensione nei provvedimenti da loro adottati quali dirigenti dell’ufficio.
Assai timide sono state le proposte e le aperture verso una regolamentazione della materia anche da parte di chi ha partecipato ai consigli giudiziari e degli esperti di ordinamento giudiziario.
L’argomentazione più utilizzata a sostegno della tesi negativa è quella di carattere procedurale, che riguarda nello specifico i Presidenti di Corte d’Appello, e che si fonda sul contenuto delle norme in materia tabellare che attribuiscono al Presidente della Corte il potere di proposta tabellare per tutti gli uffici del distretto. Si osserva che ipotizzando un generale obbligo di astensione del Presidente in relazione a tali provvedimenti si paralizzerebbe di fatto l’attività dei consigli giudiziari escludendo la partecipazione del Presidente da una rilevante fetta di affari di competenza dell’organo, quali quelli rientranti nella la materia tabellare.
Da parte di alcuni è stata anche negata in linea generale la sussistenza di un conflitto di interesse dei membri di diritto nella valutazione dei provvedimenti organizzativi da loro adottati attesa la loro natura e l’assenza di un interesse personale al loro esito favorevole.
3. Le situazioni di potenziale conflitto di interesse
Il problema non può essere affrontato in astratto, senza tenere conto delle caratteristiche specifiche dei consigli giudiziari la cui composizione è stata disegnata dal legislatore prevedendo quali componenti necessari i due dirigenti degli uffici di secondo grado del distretto ai quali è anche affidato un potere di vigilanza sugli uffici di primo grado del medesimo distretto.
Tale peculiare caratteristica dell’organo appare incompatibile con un generale obbligo di astensione su tutte le pratiche relative a provvedimenti emessi dai membri di diritto quali dirigenti degli uffici, ma non esclude che tale obbligo debba essere previsto nei casi in cui in concreto possa profilarsi una situazione di conflitto di interesse.
L’esperienza concreta all’interno dei consigli giudiziari vede non di rado il profilarsi di situazioni in cui i provvedimenti adottati dai Presidenti di Corte o dei Procuratori Generali in qualità di dirigenti dei rispettivi uffici presentano profili controversi, a volte evidenziati nelle osservazioni nei magistrati dell’ufficio, altre volte rilevati dagli stessi componenti dei consigli giudiziari, che danno luogo ad ampie ed accese discussioni e che spesso richiedono lo svolgimento di attività istruttoria.
In tali casi la partecipazione alla discussione degli autori del provvedimento crea un evidente vulnus al corretto funzionamento dell’organo e all’immagine di imparzialità della sua azione, impedendo il dispiegarsi di una dialettica scevra da condizionamenti. Ciò si verifica in modo evidente nei casi in cui l’autore del provvedimento intervenga nella discussione per controbattere alle argomentazioni proposte nelle osservazioni dei magistrati dell’ufficio, creando un paradossale “contraddittorio ad una sola voce”.
Può inoltre accadere (ed è accaduto) che l’esercizio del diritto di voto del componente di diritto sia decisivo ai fini del parere positivo sul provvedimento o della decisione in merito all’attività istruttoria da espletarsi prima della delibera.
In tali casi non può negarsi l’esistenza di una situazione concreta di conflitto di interesse del componente di diritto (o del consigliere dirigente dell’ufficio autore del provvedimento) in quanto portatore di un interesse personale rispetto all’esito della procedura.
Interesse che non è solo quello generico a vedere confermata la bontà del proprio operato sotto il profilo dell’immagine pubblica di dirigente, ma è soprattutto quello specifico di evitare situazioni di potenziale criticità al momento della conferma quadriennale.
Il Testo Unico sulla Dirigenza prevede infatti espressamente che ai fini della conferma dei dirigenti degli uffici sono oggetto di valutazione da parte del Consiglio Giudiziario e del Consiglio Superiore tutti i provvedimenti tabellari e in materia di organizzazione redatti dagli stessi avuto riguardo agli esiti della loro approvazione da parte del Consiglio Superiore.
E’ dunque evidente l’interesse personale dei dirigenti che compongono il consiglio giudiziario ad un esito positivo delle procedure che interessano i provvedimenti organizzativi da loro adottati e di conseguenza deve ritenersi che, in tali casi, la loro partecipazione alla trattazione e alla decisione del consiglio giudiziario - che costituisce un importante tassello della procedura di approvazione - pregiudichi l’imparzialità dell’azione dell’organo.
Analoga situazione di conflitto non si verifica invece nei casi in cui i provvedimenti provengano solo formalmente dal Presidente della Corte d’Appello e dunque siano al di fuori del perimetro valutativo della sua attività di dirigente.
4. Le soluzioni proposte nella delibera del CSM dell’11.3.2020
L’intervento del Consiglio Superiore della Magistratura in materia di organizzazione dei consigli giudiziari del marzo 2020 ha consentito di stabilire alcuni importanti punti fermi in materia di astensione dei componenti di tali organi.
La delibera n. 55 dell’11.3.2020, seguita ad un’attività di ricognizione dei regolamenti dei consigli giudiziari di tutti i distretti, è intervenuta sul tema generale dell’astensione ed ha fornito indicazioni per i casi specifici di conflitto dei componenti di diritto o dei componenti dirigenti che abbiano adottato gli atti in valutazione.
La premessa da cui parte il Consiglio è che “pur in assenza di una normativa di settore, la giurisprudenza amministrativa ritiene pacificamente applicabili all’attività amministrativa gli istituiti dell’astensione e della ricusazione, che trovano un riconoscimento diretto nel dovere di imparzialità sancito nell’art. 97 Cost., recepito e sviluppato dalla L. n. 241/1990, dapprima nell’art. 1 e, successivamente, nell’art. 6 bis), nonché nelle norme settoriali, in particolare, negli artt. 51, co. I e II, e 52 c.p.c., che, sebbene valevoli in ambito processuale, costituiscono, comunque, espressione di principi generali”.
Partendo da tali principi è stato osservato che il principio di imparzialità dell’azione amministrativa deve essere declinato in termini diversi dalla terzietà o neutralità che rileva nell’ambito dell’esercizio della funzione giurisdizionale, con la conseguenza che l’obbligo di astensione viene in rilevo in caso di rapporti, posizioni o situazioni che potrebbero influire sulla regolarità delle pubbliche funzioni, per un potenziale o effettivo conflitto tra l’interesse personale e l’interesse pubblico, ovvero per il pericolo di coincidenza di interessi tra il componente e le persone unite allo stesso da vincoli di parentela, affinità. In tali situazioni opera la presunzione che il componente del Consiglio Giudiziario non si determini alla decisione con la dovuta serenità.
Sulla base di tali premesse viene auspicata l’introduzione in tutti i regolamenti di una disciplina specifica che individui i presupposti dell’obbligo di astensione sulla base dei principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa.
Vengono fornite inoltre indicazioni sulla procedura da adottare in caso di astensione - indicazioni generalmente non esplicitate nei regolamenti - ritenendosi preferibile la scelta di rimettere al Presidente del consiglio giudiziario la decisione sulle dichiarazioni dei componenti consiglio, per ragioni di simmetria con l’analoga competenza attribuita al dirigente dell’ufficio giudiziario in ordine alle astensioni dichiarate in ambito processuale.
Nella delibera vengono poi prese specificamente in considerazione le situazioni di potenziale conflitto di interessi che sussistono nell’ipotesi in cui il componente abbia adottato l’atto da valutare e/o sia destinatario della decisione, tra cui quelle in cui, con frequenza, versano i componenti del consiglio giudiziario che siano titolari di incarichi direttivi, nonché i capi di Corte e, particolarmente, il Presidente del Consiglio giudiziario.
Si premette che, poiché i regolamenti, generalmente, escludono che i capi di Corte siano relatori di pratiche, non si pone, in astratto, un problema di ‘incompatibilità’ nell’assegnazione degli affari. Nè ci sono dubbi sull’obbligo di astensione dei capi di Corte nei casi, numericamente contenuti, in cui gli stessi siano personalmente destinatari degli effetti della delibera del consiglio giudiziario (come, ad esempio, nel caso in cui chiedano l’autorizzazione allo svolgimento di un incarico extragiudiziario o debbano essere valutati), ricorrendo certamente una situazione di conflitto di interesse.
Quanto alle ipotesi in cui in cui i dirigenti componenti dei consiglio giudiziario o i capi di Corte abbiano adottato atti oggetto di diretta valutazione da parte del consiglio, come quelli incidenti sull’organizzazione dei loro uffici, o che confluiscono nella fase endoprocedimentale di competenza del consiglio giudiziario (ad esempio quelli riguardanti le valutazioni di professionalità dei magistrati appartenenti alla Corte di Appello o alla Procura Generale) il Consiglio Superiore ritiene che non vi sia, in linea generale un obbligo di astensione, ma che tale obbligo sussista solo nelle ipotesi in cui si profili una situazione, anche solo potenziale, di conflitto di interessi come, ad esempio, nel caso in cui siano presentate osservazioni, ovvero siano poste in votazione proposte contrapposte.
La soluzione che ad avviso del Consiglio Superiore realizza un giusto contemperamento tra l’esigenza di garantire la piena partecipazione alle attività del consiglio giudiziario e quella di evitare situazioni, reali o apparenti, di appannamento dell’imparzialità nelle decisioni, consiste nel prevedere norme regolamentari che delineino i presupposti per la configurazione di un obbligo di astensione collegati all’esistenza di un conflitto di interesse secondo lo schema che segue:
- nelle pratiche in cui siano in valutazione atti, in specie di carattere organizzativo, da essi direttamente adottati i dirigenti o i capi di Corte hanno il dovere di astenersi;
- nelle pratiche aventi ad oggetto atti da loro non direttamente adottati, ma rispetto ai quali hanno un potere di proposta, i dirigenti e capi di Corte non sono tenuti ad astenersi;
- nelle altre pratiche in cui abbiano adottato un atto della fase endoprocedimentale di competenza del Consiglio giudiziario, i dirigenti e capi di Corte devono astenersi solo nel caso in cui si profili una situazione, anche solo potenziale, di conflitto di interessi.
In sostanza il Consiglio ha ritenuto sussistente una presunzione assoluta di esistenza di conflitto di interesse nei casi di provvedimenti direttamente riferibili ai componenti di diritto o ai componenti dirigenti che sono suscettibili di valutazione nell’ambito delle procedure di conferma, e una presunzione relativa nei casi di altre pratiche, diverse da quelle oggetto di specifica valutazione per la loro conferma. E’ il caso, ad esempio, dei rapporti informativi redatti nell’ambito di procedure di valutazione di professionalità o di conferimento di incarichi direttivi o semidirettivi - dalla cui valutazione in consiglio giudiziario potrebbe discostarsi, esprimendo un parere di segno differente da quello del dirigente - che ad oggi non rientrano tra i provvedimenti previsti dal TU sulla Dirigenza tra quelli oggetto di valutazione in sede di conferma.
Il Consiglio Superiore ha anche fornito indicazioni per la sostituzione dei membri di diritto in caso di astensione. Anche l’assenza di una specifica disciplina sulla sostituzione dei membri di diritto astenuti è, infatti, uno degli argomenti spesi a favore della generale insussistenza di un obbligo di astensione dei capi di Corte.
La soluzione offerta dal Consiglio è aderente al dettato dell’art. 9, co. 3 ter, del D.Lgs. n. 25/2006 che prevede che, in caso di mancanza o di impedimento, “i membri di diritto del consiglio giudiziario sono sostituiti da chi ne esercita le funzioni”.
Pertanto il membro di diritto che non possa partecipare alla trattazione di una pratica in conseguenza dell’astensione dovrà essere necessariamente sostituito dal magistrato che, in base alla normativa ordinamentale, subentra nelle attività dell’ufficio quando sussiste un suo impedimento allo svolgimento delle funzioni dirigenziali che gli sono attribuite.
Si tratta di una soluzione idonea a preservare la funzionalità dell’organo e la regolarità della sua composizione evitando, al contempo, la partecipazione del componente portatore di un interesse personale all’esito della pratica.
Nella delibera viene inoltre specificato che non possono ritenersi conformi all’art. 9, co. 3 ter, del D.Lvo 25/06 eventuali prassi che prevedono la partecipazione, in sostituzione dei capi di corte assenti, perché astenutisi o impediti, di magistrati appartenenti al loro ufficio, designati o delegati di volta in volta. Tale ultima indicazione, non limitata alle ipotesi di astensione, ma prevista in linea generale in caso di assenza dei membri di diritto, fornisce indicazioni di carattere generale sulle sostituzioni dei membri di diritto che, nella prassi di molti consigli giudiziari, sono state spesso gestite con delega anche a magistrati che non rivestono tabellarmente funzioni vicarie.
5. L’astensione dei componenti di diritto del Consiglio Direttivo della Corte di Cassazione
Le linee guida del CSM si rivolgono espressamente ai Consigli Giudiziari e non anche al Consiglio Direttivo della Corte di Cassazione che presenta peculiarità rispetto agli altri organi di autogoverno locale, tra le quali l’assenza di un distretto di riferimento e la conseguente diretta riferibilità di tutti i provvedimenti organizzativi ai componenti di diritto dell’organo.
Cionondimeno, i principi delineati nella delibera, dato il loro carattere generale, dovrebbero trovare applicazione, con i dovuti adattamenti, anche all’attività del Consiglio Direttivo, ad esempio attraverso previsioni, nel regolamento, di un obbligo di astensione non esteso a tutti i provvedimenti organizzativi adottati dai componenti di diritto, ma limitato a quelli di carattere problematico o oggetto di osservazioni e\o contrasti interni al consiglio.
6. Considerazioni finali
Conclusivamente possiamo ritenere che le indicazioni contenute nella delibera del CSM costituiscano un importante punto di partenza per la discussione e la soluzione di problemi attuali e di forte incidenza sulla funzionalità e sulla credibilità del governo autonomo della magistratura.
Pur non vincolando i destinatari, dotati di autonomia regolamentare, le linee guida hanno il pregio di fornire una soluzione conforme ai principi generali in materia di diritto amministrativo auspicata da molti che, nel tempo, hanno lavorato nei consigli giudiziari ed hanno toccato con mano le criticità derivanti dall’assenza di una disciplina organica in materia di astensione.
Nei fatti la delibera di marzo 2020 è divenuta la base per una riflessione all’interno dei consigli giudiziari sulla conformità dei propri regolamenti a tali principi. Ad oggi alcuni consigli giudiziari hanno aggiornato le loro previsioni regolamentari, conformandosi alle indicazioni delle linee guida, altri hanno avviato un dibattito prima della scadenza del termine quadriennale e del rinnovo di ottobre 2020, predisponendo bozze di modifica da sottoporre come contributo al dibattito per i consiglieri neoeletti, altri ancora, invece, non hanno fino ad ora ritenuto di intervenire e di modificare le loro previsioni regolamentari.
L’auspicio è che il dibattito prosegua alla ricerca di soluzioni sempre più aderenti al rispetto del principio di imparzialità che deve informare l’attività degli organi di autogoverno.
Le questioni pregiudiziali (…o di costituzionalità), anche in tempo di COVID, non sono un passe-partout (a commento dell’ordinanza della Corte di giustizia del 10 dicembre 2020, causa C-220/20)*
di Vincenzo Sciarabba
Sommario: 1. Introduzione - 2. Precisazioni sulla “questione” posta - 3. Le ragioni dell’irricevibilità: alcuni principi generali… - 4. …e la loro applicazione al caso di specie - 5. Chiarimenti ulteriori - 6. A proposito dell’applicabilità della Carta dei diritti - 7. Profili di merito: cenni preliminari e rinvio - 8. Conclusioni.
1. Introduzione
Con ordinanza del 10 dicembre 2020, in causa C‑220/20, la Corte di giustizia ha dichiarato “manifestamente irricevibile” una questione pregiudiziale sottopostale da un Giudice di pace italiano (in specie di Lanciano, in Provincia di Chieti) con ordinanza del 18 maggio del 2020, pervenuta in cancelleria il 28 maggio 2020, nella quale si chiedeva «[s]e gli articoli 2, 4, comma 3, 6, comma 1, e 9 del Trattato dell’Unione, gli articoli 67, commi 1 e 4, 81 e 82 del Trattato per il funzionamento dell’Unione europea, in combinato disposto con gli articoli 1, 6, 20, 21, 31, 34, 45 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ost[i]no rispetto a disposizioni interne, quali gli articoli 42, 83 e 87 del decreto legge 17 marzo 2020 n. 18, la delibera del 31 gennaio 2020 del Consiglio dei Ministri che ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale sanitaria per sei mesi fino al 31 luglio 2020, gli articoli 14 e 263 del decreto legge 19 maggio 2020 n. 34, che hanno prorogato lo stato di emergenza nazionale per Covid-19 e la paralisi della giustizia civile e penale e dell’attività di lavoro amministrativo degli Uffici giudiziari italiani fino al 31 gennaio 2021, in combinato disposto, violando le predette norme nazionali l’indipendenza del giudice del rinvio e il principio del giusto processo, nonché i diritti ad essi connessi della dignità delle persone, della libertà e della sicurezza, dell’uguaglianza davanti alla legge, della non discriminazione, di condizioni di lavoro eque e giuste, dell’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale, della libertà di circolazione e di soggiorno». La decisione, e in generale la vicenda, sembrano meritevoli di una certa attenzione.
Le osservazioni che seguono ‒ e che verranno sviluppate in buona parte anche nelle note ‒ si concentreranno principalmente su alcune questioni procedurali di particolare pregnanza.
Alle questioni sostanziali si dedicherà invece, in questa sede, solo qualche cenno, con la premessa che ogni riflessione sui molti profili di merito toccati nell’ordinanza di rinvio è fortemente ostacolata da quello stesso motivo che in larga parte spiega, sul piano processuale, l’esito della vicenda: e cioè la circostanza che in tale ordinanza (così come in quella, di qualche giorno successiva, con la quale doglianze analoghe sono state sottoposte in parallelo all’esame, o forse meglio all’attenzione, della Corte costituzionale) più che essersi formulate e poste delle “questioni” in senso tecnico[1], si sono presentate una cornucopia di problemi, informazioni, osservazioni, riflessioni e domande non configurate come (e tendenzialmente nemmeno suscettibili di essere “tradotte”[2] in) quesiti risolvibili, nell’esercizio delle proprie competenze, attraverso i propri poteri d’intervento e nell’ambito del proprio ruolo istituzionale, dal giudice europeo (né, si ritiene, dal giudice delle leggi: e nel giro di poco tempo se ne avrà conferma o smentita), risultandone di conseguenza preclusa la possibilità di sviscerare ed affrontare organicamente e compiutamente, in sede scientifica, i vari profili[3].
2. Precisazioni sulla “questione” posta
A questo proposito, e addentrandoci con ciò maggiormente nella questione (…in senso molto lato, come si diceva) occorre subito precisare che, seppure sul sito della Corte di giustizia il file contenente la questione pregiudiziale si limiti significativamente a riportare il quesito richiamato nelle prime righe di questo lavoro, la “questione” posta dal giudice del rinvio includeva anche una “seconda parte”, ricavabile dall’ampia ordinanza del 18 maggio 2020 (di ben 34 pagine) ‒ ove essa risulta evidenziata in grassetto al pari del quesito racchiuso nella prima parte ‒ e citata pressoché integralmente al punto 19 dell’ordinanza della Corte di Lussemburgo (da cui è estrapolata la citazione che segue, con l’aggiunta dei corsivi nei passaggi iniziali).
In questa “seconda parte”, piuttosto singolare sotto diversi profili, si chiedeva «[i]n particolare […] alla Corte di giustizia se l’indipendenza del giudice del rinvio e il diritto al giusto processo delle parti della presente controversia e di tutte le cause pendenti davanti a [detto] giudice siano stati violati dal Governo italiano nel momento in cui si sono verificate le seguenti condizioni giuridiche e situazioni di fatto:
– in data 31 gennaio 2020 il Consiglio dei Ministri con una delibera adottata senza l’intesa obbligatoria con le Regioni e utilizzando una procedura non prevista dalla normativa interna per l’emergenza sanitaria, ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale per COVID-19 per la durata di sei mesi fino al 31 luglio 2020, avocando alla Presidenza del Consiglio […] la competenza di tutte le disposizioni per fronteggiare una situazione epidemiologica in quel momento inesistente sul territorio nazionale, senza stanziare risorse economiche adeguate per la dichiarata emergenza;
– il Governo italiano con decretazione d’urgenza ha sospeso per il periodo dal 9 marzo all’11 maggio 2020 l’attività giudiziaria nel settore civile e nel settore penale, ad eccezione di pochissime cause ritenute urgenti sul piano legislativo e non nella valutazione del giudice, che sono state trattate in udienza pubblica senza prevedere specifiche misure di contenimento per l’emergenza COVID-19, mentre l’attività [del giudice del rinvio] è stata sospesa integralmente, in mancanza della possibilità di effettuare cause urgenti della tipologia pretesa dal legislatore;
– il Governo italiano dal 9 marzo all’11 maggio 2020 non ha provveduto alla sanificazione e disinfestazione straordinaria degli uffici, degli ambienti e dei mezzi in uso alla amministrazione giudiziaria, all’acquisto di materiale igienico sanitario e di dispositivi di protezione individuale, nonché all’acquisto di apparecchiature informatiche e delle relative licenze di uso per informatizzare i settori giudiziari civili e penali anche degli Uffici del Giudice di pace, pur avendo a disposizione il Ministero della giustizia per le misure di contenimento del virus e la ripresa dell’ordinaria attività giudiziaria disponibilità finanziarie di importo molto elevato e da utilizzare immediatamente in deroga alle norme UE nazionali in materia di appalti pubblici, senza l’obbligo di rendicontazione contabile ed amministrativa e senza il controllo della Corte dei conti;
– per il periodo dal 12 maggio al 31 luglio 2020, il Governo italiano ha imposto con decretazione d’urgenza per il settore civile e per il settore penale, cioè per i settori di competenza del giudice [del rinvio], ad eccezione delle limitate tipologie di cause urgenti come quelle già trattate in udienza pubblica per il periodo dal 9 marzo all’11 maggio 2020, modalità organizzative delle pochissime udienze che avrebbero dovuto essere effettuate o di impossibile attuazione come il processo da remoto per carenza strutturale del sistema informatico e organizzativo di lavoro del Ministero della giustizia, o gravemente lesive dei diritti di difesa e del contraddittorio delle parti, come le udienze a sola trattazione scritta senza la presenza dei difensori e delle parti;
– per il periodo dal 12 maggio al 31 gennaio 2021, il Ministero della giustizia non ha consentito né consentirà per il settore civile e per il settore penale di poter effettuare udienze pubbliche anche a porte chiuse a causa della inutilizzabilità del personale amministrativo di cancelleria in lavoro agile senza collegamenti da remoto con gli Uffici giudiziari, della mancata sanificazione e disinfestazione straordinaria degli uffici, degli ambienti e dei mezzi in uso alla amministrazione giudiziaria, del mancato acquisto di materiale igienico sanitario e dispositivi di protezione individuale, della mancata individuazione di protocolli di misure di contenimento per lo svolgimento dell’attività giudiziaria, scaricando la responsabilità di effettuare (in rarissime occasioni) o non effettuare (nella generalità dei casi) le udienze pubbliche, in carenza delle condizioni di sicurezza sanitaria e senza tutele contro l’emergenza COVID-19, ai Capi degli Uffici giudiziari (Presidenti di Tribunale per i giudizi in 1° grado) o ai singoli Giudici;
– per il periodo dal 9 marzo 2020 al 31 gennaio 2021 il giudice [del rinvio] è stato messo nelle condizioni di non poter effettuare udienza con nessuna delle modalità organizzative previste dalla decretazione d’urgenza né con udienza pubblica né con il processo da remoto e l’aula virtuale né con trattazione scritta senza la presenza dei difensori e delle parti, e sarà costretto a rinviare tutte le cause rivenienti sui suoi ruoli del settore civile e del settore penale a data successiva al 31agosto 2020 e, con la pubblicazione del decreto legge [n. 34/2020], al 31 gennaio 2021;
– a causa della totale inattività giurisdizionale come udienze svolte e provvedimenti giudiziali prodotti nel periodo dal 9 marzo 2020 al 31 gennaio 2021 il giudice [del rinvio] non ha percepito e non percepirà alcuna indennità dal Ministero della giustizia, neanche a titolo di contributo economico per l’emergenza sanitaria;
– infine, il Governo italiano con decretazione d’urgenza ha prorogato per altri sei mesi fino al 31gennaio 2021 lo stato di emergenza nazionale e l’attuale paralisi della giustizia civile e penale, mentre dal 18 maggio 2020 sono state riaperte tutte le attività produttive ed economiche che si svolgono nell’ambito della competenza territoriale regionale, con ripresa della libera circolazione tra le Regioni e nei confronti degli Stati [membri] dell’Unione, senza obbligo di quarantena, dal 3 giugno 2020, con l’adozione di modeste misure igienico-sanitarie e di contenimento sociale».
A fronte di una prospettazione siffatta, non stupisce, per un verso, che nel pubblicare sul sito della Corte il quesito ad essa sottoposto dal giudice del rinvio ci si sia limitati, come si diceva, a riportarne la prima parte (quella qui richiamata inizialmente), omettendo la seconda, con ciò in sostanza escludendosi implicitamente, e “a monte” (pur sotto questo profilo se si vuole marginale, non decisivo, non ufficialmente riconducibile a una presa di posizione del collegio decidente, e tuttavia assai indicativo), che questo secondo “blocco testuale” (non si sa come meglio definirlo in breve)[4] potesse essere considerato tecnicamente parte della “domanda”; e, per l’altro verso, che la complessiva questione ‒ presa invece in considerazione nella sua interezza nella motivazione dell’ordinanza del giudice dell’Unione ‒ sia stata da questi dichiarata manifestamente irricevibile.
3. Le ragioni dell’irricevibilità: alcuni principi generali…
È precisamente nei passaggi in cui la Corte europea motiva la decisione di manifesta irricevibilità che si rinvengono, come anticipato, alcune indicazioni (che spesso rappresentano il “precipitato” di precedenti chiarimenti giurisprudenziali) di un certo interesse in vista della corretta e più precisa ricostruzione della natura e delle finalità del procedimento di cui all’art. 267 TFUE, e, da un’altra prospettiva, del rapporto che deve sussistere tra il giudizio della Corte dell’Unione e il giudizio a partire dal quale la questione è sollevata; e ancora, conseguentemente, delle caratteristiche che dovrà avere l’ordinanza di rinvio pregiudiziale quale atto che, se ben formulato, potrà consentire l’instaurazione del giudizio innanzi al collegio europeo esprimendo e definendo appunto il legame tra tale giudizio e il giudizio “principale” (usandosi non a caso, anche nella dottrina e nella giurisprudenza eurounitaria, la medesima formula utilizzata ‒ nell’ambito della giustizia costituzionale italiana ‒ per definire il giudizio da cui prende le mosse, e su cui dovrà avere ricadute, il “giudizio incidentale” innanzi alla Consulta).
Sembra dunque utile richiamare, pur con inevitabili tagli, e con l’aggiunta di alcuni corsivi, almeno alcune delle affermazioni contenute nei punti 23 e seguenti della decisione del 10 dicembre.
Anzitutto, dopo essersi ricordato che, «secondo una giurisprudenza costante della Corte, il procedimento istituito dall’articolo 267 TFUE costituisce uno strumento di cooperazione fra la Corte ed i giudici nazionali, per mezzo del quale la prima fornisce ai secondi gli elementi di interpretazione del diritto dell’Unione che sono loro necessari per la soluzione della controversia che sono chiamati a dirimere», si precisa, con dovizia di riferimenti a precedenti decisioni che qui si omettono per brevità, che «[l]a ratio del rinvio pregiudiziale non risiede tuttavia nell’esprimere pareri consultivi su questioni generiche o ipotetiche, bensì nella necessità di dirimere concretamente una controversia», dal momento che, come risulta «dalla formulazione stessa dell’articolo 267 TFUE, la decisione pregiudiziale richiesta deve essere “necessaria” al fine di consentire al giudice del rinvio di “emanare la sua sentenza” nella causa della quale è investito»; e «dal dettato e dall’impianto sistematico dell’articolo 267 TFUE emerge che il procedimento pregiudiziale presuppone, in particolare, che dinanzi ai giudici nazionali sia effettivamente pendente una controversia, nell’ambito della quale ad essi è richiesta una pronunzia che possa tener conto della sentenza pregiudiziale».
Ciò ribadito, la Corte aggiunge, rifacendosi ad altre proprie decisioni, che «[n]ell’ambito di siffatto procedimento, deve quindi esistere, tra la suddetta controversia [quella pendente dinanzi al giudice nazionale] e le disposizioni del diritto dell’Unione di cui è chiesta l’interpretazione, un collegamento tale per cui detta interpretazione risponde ad una necessità oggettiva ai fini della decisione che dev’essere adottata dal giudice del rinvio».
A questo punto, spingendosi oltre (e sempre ricollegandosi alla propria giurisprudenza pregressa), il giudice dell’Unione afferma che «l’esigenza di giungere ad un’interpretazione del diritto dell’Unione che sia utile per il giudice nazionale impone che quest’ultimo definisca il contesto di fatto e di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate, o almeno che esso spieghi le ipotesi di fatto su cui tali questioni sono fondate», dal momento che la Corte «può pronunciarsi unicamente sull’interpretazione di un testo dell’Unione a partire dai fatti che le sono presentati dal giudice nazionale».
E ancora, andando a toccare forse uno dei punti in riferimento ai quali l’ordinanza del Giudice di pace italiano risultava più vistosamente carente (nonostante la sua ampiezza, e forse per certi versi anche in ragione di una certa sua “dispersività” in qualche modo accentuata proprio dalla stessa ricchezza e varietà di riferimenti e doglianze, non sempre accompagnata da un analogo livello di chiarimento, approfondimento e, per così dire, pertinenza argomentativa sul piano logico-giuridico), la Corte si sofferma specificamente sulla «importanza dell’indicazione, ad opera del giudice nazionale, dei motivi precisi che l’hanno indotto ad interrogarsi sull’interpretazione del diritto dell’Unione e a ritenere necessario proporle questioni pregiudiziali»: e ciò in quanto, fungendo la decisione di rinvio «da fondamento del procedimento dinanzi alla Corte, è indispensabile che il giudice nazionale» non solo «chiarisca, nella [stessa], il contesto di fatto e di diritto della controversia principale», ma fornisca anche «un minimo di spiegazioni sulle ragioni della scelta delle disposizioni del diritto dell’Unione di cui chiede l’interpretazione, nonché [e qui le carenze sembrano massime] sul nesso a suo avviso intercorrente tra tali disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla controversia di cui è investito».
Si tratta, come la Corte non manca di sottolineare, di «requisiti concernenti il contenuto di una domanda di pronuncia pregiudiziale» che «figurano in modo esplicito all’articolo 94 del regolamento di procedura della Corte, che il giudice del rinvio, nell’ambito della cooperazione prevista all’articolo 267 TFUE, deve conoscere e osservare scrupolosamente»…[5].
4. …e la loro applicazione al caso di specie
Su tali basi, non sorprende la valutazione della Corte secondo cui la domanda di pronuncia pregiudiziale sottopostale non soddisfa i necessari requisiti di ammissibilità.
Tra le molte ragioni richiamabili a sostegno di tale conclusione, la Corte si concentra su alcune, verosimilmente perché più immediate e/o perché, per così dire, meno impegnative sotto il profilo motivazionale, forse anche allo scopo di non sbilanciarsi su aspetti più complessi e delicati, magari creando dei “precedenti” suscettibili di risultare in un futuro eccessivamente limitanti, o comunque “scomodi”.
Nondimeno, molti sono gli insegnamenti che ‒ soprattutto da parte dei giudici (in particolare, ma non solo, coloro che siano meno avvezzi ad addentrarsi in “questioni eurounitarie” e, soprattutto, a “dialogare” col giudice di Lussemburgo); nonché, per così dire “a cascata”, da parte degli avvocati ‒ possono trarsi dall’ordinanza in esame.
Ivi si osserva anzitutto che la questione sottopostale, pur consentendo di stabilire a grandi linee l’oggetto del procedimento principale ‒ ossia una «domanda di risarcimento dei danni che sarebbero stati provocati in un incidente stradale che ha coinvolto un autoveicolo» (…incidente asseritamente causato, può aggiungersi, da una buca presente in loco) ‒, «non contiene alcuna indicazione riguardo alle circostanze di tale incidente o all’eventuale ruolo che avrebbero avuto in esso le parti del procedimento pendente dinanzi al giudice del rinvio», e (circostanza forse ancor più problematica) «non precisa il fondamento giuridico di tale domanda né le disposizioni nazionali applicabili al fine di risolvere tale controversia, dato che il giudice del rinvio si limita a menzionare la natura civile del procedimento principale e a rilevare che la legislazione interna che esso dovrà applicare a detta controversia “deriva dal processo legislativo di recepimento del diritto dell’Unione”», senza che tale quanto mai generica affermazione sia in alcun modo corroborata da elementi concreti in grado di illuminare il nesso tra la vicenda, ed il suo contesto giuridico, e il diritto dell’Unione.
Sotto altro profilo, poi, «nei limiti in cui dalla domanda di pronuncia pregiudiziale risulta che il giudice del rinvio ha ritenuto necessario sottoporre alla Corte tale domanda a causa delle modalità organizzative in cui sostiene di essere tenuto ad esaminare il procedimento principale» (è su tali aspetti, di natura molto generale, che verte infatti, come vedremo, un’ampia e variegata parte della “questione”), la Corte, dopo aver ricordato che la domanda «verte sull’interpretazione dell’articolo 2, dell’articolo 4, paragrafo 3, dell’articolo 6, paragrafo 1, e dell’articolo 9 TUE nonché dell’articolo 67, paragrafi 1 e 4, e degli articoli 81 e 82 TFUE, in combinato disposto con gli articoli 1, 6, 20, 21, 31, 34, 45 e 47 della Carta», rileva come dall’ordinanza di rinvio «non risult[i] che la controversia principale presenti, quanto al merito o al regime processuale applicabile al suo esame, un collegamento con tali disposizioni del Trattato UE o del Trattato FUE o che il giudice del rinvio sia chiamato ad applicare una qualsiasi di tali disposizioni al fine di ricavarne la soluzione di merito da riservare a tale controversia», da tale ordinanza «non risulta[ndo] neppure che una risposta della Corte a tali questioni sia atta a fornire al giudice del rinvio un’interpretazione del diritto dell’Unione che gli consenta di dirimere questioni procedurali di diritto nazionale di cui sarebbe investito prima di poter statuire nel merito della controversia, non contenendo l’ordinanza di rinvio alcuna indicazione in tal senso».
In tali circostanze ‒ conclude (sul punto) il giudice eurounitario ‒ «si deve constatare che dall’ordinanza di rinvio non risulta che tra le disposizioni del Trattato UE o del Trattato FUE su cui verte tale questione e la controversia di cui al procedimento principale esista un collegamento che sia idoneo a rendere necessaria l’interpretazione richiesta affinché il giudice del rinvio possa, in applicazione dei precetti derivanti da tale interpretazione, adottare una decisione che sia necessaria al fine di statuire su tale controversia» (corsivi aggiunti, qui come sempre ove non diversamente indicato).
«Appare invece manifestamente», chiosa la Corte, «che tale domanda non verta su un’interpretazione del diritto dell’Unione che risponde ad una necessità oggettiva per la soluzione di detta controversia, ma che essa abbia carattere generale».
Tanto basterebbe, probabilmente.
5. Chiarimenti ulteriori
Ma la Corte si spinge oltre, mettendo per così dire il dito nella piaga (o in alcune delle piaghe), con ciò fornendo ulteriori indicazioni preziose in vista di una miglior comprensione, e quindi di un miglior utilizzo, del meccanismo del rinvio pregiudiziale.
Si censura, in particolare, il fatto che l’ordinanza di rinvio non contenga «nessuna spiegazione quanto alla scelta delle disposizioni del diritto dell’Unione delle quali è richiesta l’interpretazione o quanto ai dubbi nutriti dal giudice del rinvio in proposito, limitandosi quest’ultimo a esporre considerazioni d’ordine generale».
Più precisamente, si rileva, in prima battuta, che «[d]al testo della questione pregiudiziale risulta […] che l’interpretazione richiesta del diritto dell’Unione dovrebbe consentir[e al giudice del rinvio], in sostanza, di valutare la validità delle modalità organizzative che regolano la tenuta delle udienze nelle cause dinanzi ad esso pendenti, in particolare nella controversia di cui al procedimento principale, riguardo alla quale esso nutre dubbi in quanto tali modalità, congiuntamente considerate, violerebbero “[la sua] indipendenza (...) e il principio del giusto processo, nonché i diritti ad essi connessi della dignità delle persone, della libertà e della sicurezza, dell’uguaglianza davanti alla legge, della non discriminazione, di condizioni di lavoro eque e giuste, dell’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale, della libertà di circolazione e di soggiorno”».
E, in seconda battuta, si osserva che, «nei limiti in cui il giudice del rinvio, con tale affermazione, o anche con la sua esposizione degli effetti concreti che deriverebbero dai provvedimenti urgenti relativi al funzionamento degli organi giurisdizionali adottati dal legislatore italiano per lo stato di emergenza sanitaria […] o con le considerazioni relative alla sua indipendenza e al diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva […] intenda giustificare la scelta delle disposizioni del Trattato UE e del Trattato FUE che menziona nella questione e la pertinenza di tale scelta, è sufficiente constatare che tali considerazioni d’ordine generale non contengono alcun riferimento preciso a dette disposizioni né alcuna chiara spiegazione quanto ai motivi per i quali nutre dubbi circa la loro interpretazione nel contesto dell’applicazione di tali provvedimenti di emergenza alla controversia di cui al procedimento principale», dovendosi altresì e conseguentemente «constatare che l’ordinanza di rinvio non contiene neppure la richiesta illustrazione dei motivi che hanno indotto il giudice del rinvio a interrogarsi sull’interpretazione di determinate disposizioni del diritto dell’Unione, e del collegamento che esso stabilisce tra dette disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla controversia nel procedimento principale».
6. A proposito dell’applicabilità della Carta dei diritti
Concentrandosi poi su un profilo più specifico e di assoluta importanza, la Corte rileva che, «nei limiti in cui si possa ritenere che la questione pregiudiziale verta anche sull’interpretazione degli articoli 1, 6, 20, 21, 31, 34, 45 e 47 della Carta relativi, rispettivamente, alla dignità umana, al diritto alla libertà e alla sicurezza, all’uguaglianza davanti alla legge, alla non discriminazione, alle condizioni di lavoro giuste ed eque, alla sicurezza sociale e all’assistenza sociale, alla libertà di circolazione e di soggiorno, nonché al diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, occorre constatare che detta mancanza di informazioni non consente del pari alla Corte di pronunciarsi sull’applicabilità di detti articoli».
E a tal proposito, dopo aver ricordato la circostanza ben nota (ma che non di rado si tende a dimenticare) che «[l]’articolo 51, paragrafo 1, della Carta prevede […] che le disposizioni di quest’ultima si applichino agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione», sicché «ove una situazione giuridica non rientri nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, la Corte non è competente al riguardo e le disposizioni della Carta eventualmente richiamate non possono giustificare, di per sé, tale competenza», il giudice europeo evidenzia che «la mera affermazione del giudice del rinvio, secondo cui la maggior parte delle disposizioni di diritto interno applicabili alle cause sottoposte al suo esame, compresa la controversia nell’ambito della quale egli adisce la Corte, risulta dalla trasposizione del diritto dell’Unione ad opera del legislatore italiano, è manifestamente insufficiente a consentire alla Corte di constatare una siffatta attuazione».
Sul punto la Corte si spinge ancora più avanti (forse perfino troppo?) nei chiarimenti, andando conclusivamente a precisare (con evidente apertura a delicate ricostruzioni più generali sul modo di far valere le varie fonti attraverso lo strumento del rinvio pregiudiziale) che «[l]’eventuale applicabilità degli articoli della Carta citati dal giudice del rinvio avrebbe potuto, se del caso, essere constatata solo laddove le altre disposizioni del diritto dell’Unione menzionate nella questione pregiudiziale fossero applicabili nel procedimento principale». Ma poiché, per le ragioni precedentemente indicate, la «questione è manifestamente irricevibile nella parte in cui riguarda tali altre disposizioni», «[l]a domanda di pronuncia pregiudiziale è, di conseguenza, del pari manifestamente irricevibile nei limiti in cui deve essere intesa come vertente su dette disposizioni della Carta»…
7. Profili di merito: cenni preliminari e rinvio
Resterebbe a questo punto da esaminare, o almeno da chiedersi, se nel merito, prescindendo dalle carenze dell’ordinanza di rinvio al giudice europeo, e prescindendo altresì da quella serie di illazioni, commenti, forzature, giudizi tranchant o valutazioni affrettate che, oltre a tradire un atteggiamento non sempre e del tutto sereno, distaccato ed equilibrato del giudice del rinvio[6], risultano per lo più di scarso valore ed utilità sul piano giuridico, vi fossero nelle pieghe dell’ampio ‒ e in molte altre parti più accurato e oggettivamente stimolante ‒ provvedimento del 18 maggio[7] elementi tali da poter astrattamente condurre, ove la questione fosse stata formulata in modo più congruo, a un esito differente, soprattutto in riferimento a quei profili più pianamente riconducibili all’ambito della tutela di diritti e principi fondamentali (vuoi in virtù di un diretto richiamo alla Carta, vuoi per altri motivi).
A tal fine, sorvolando su una serie di ostacoli ulteriori ‒ il primo dei quali rappresentato dal problema di fondo della possibilità di rinvenire nei profili di merito della vicenda (sul piano fattuale e giuridico) elementi tali da giustificare l’applicazione delle invocate norme europee[8] ‒ e ragionando, per intendersi, come se un idoneo collegamento con il diritto dell’Unione vi fosse ‒ si potrebbe anzitutto distinguere, all’interno dell’ordinanza del 18 maggio 2020, due ordini di questioni: quelle riferibili, in modo più o meno diretto, alla posizione del giudicante (sotto molti profili) e quelle ricollegabili, anche in questo caso in modo più o meno diretto, alla posizione delle parti, con la prevedibile precisazione che in alcuni casi un medesimo aspetto può ben assumere rilievo sotto entrambi i profili[9].
Ancora, vi sarebbe da precisare che, oltre ai rilievi più direttamente e specificamente ricollegabili alla posizione delle parti del procedimento principale, nell’ordinanza di rinvio vi sono una serie di passaggi rivelatori di (o comunque finalizzati a evidenziare) criticità sistemiche afferenti, più in generale, alla tutela dei diritti fondamentali e ai rischi, o comunque alle limitazioni, che (le possibilità effettive di ottenere) tale tutela, e conseguentemente i diritti stessi, hanno incontrato e, parrebbe, continuano a incontrare nel contesto della pandemia: non solo e non tanto (in questa particolare prospettiva di analisi e di riflessione, decisamente meno battuta) in modo diretto (secondo quella che, per intuitive ragioni, sembra invece essere, in modo più o meno fondato, la principale preoccupazione di non pochi giuristi e di molti cittadini, complici per la verità grossolane e dannosissime semplificazioni e strumentalizzazioni che tuttavia non oscurano la necessità di porsi molto seriamente anche questo problema, ed altri egualmente importanti[10]), cioè in quanto immediatamente e chiaramente colpiti dalle misure restrittive adottate per cercare di arginare il contagio e conseguentemente ridurre il numero di decessi ed aumentare le possibilità di cura; bensì in modo indiretto, meno evidente e verrebbe da dire “subdolo”, appunto in quanto privati, in tutto o in parte, della possibilità di essere tempestivamente ed efficacemente tutelati attraverso i consueti rimedi giurisdizionali (sulla cui centralità e imprescindibilità non dovrebbe essere necessario dilungarsi), giungendosi sotto questo profilo a ragionare, da parte del giudice a quo, di una attuale «crisi sistemica della tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento interno per la lesione del principio di indipendenza e di imparzialità del giudice, provocata dalla paralisi delle procedure di tutela e garanzia dei diritti dell’ordinamento dell’Unione a tempo indefinito, e comunque fino al 31 gennaio 2021 per la durata (e con la scusa [sic]) dello stato di emergenza nazionale per il Covid-19» (punto 94; ma v. anche, al riguardo, i punti 93, 100, 101 e 143 dell’ordinanza di rinvio).
Nell’impossibilità di sviluppare il discorso in questa sede, non si può che fare integralmente rinvio all’analisi e alle riflessioni svolte nel più ampio scritto inizialmente citato, ove si è tra l’altro tentato di gettare un po’ di luce, direttamente o indirettamente, sui profili di potenziale contrasto o tensione tra le molte misure e condotte (anche omissive) richiamate dal giudice del rinvio e alcuni diritti e principi fondamentali riconosciuti (anche) a livello europeo, e, più in generale, di trarre dalla complessiva vicenda e dai molti riferimenti e stimoli presenti nell’ordinanza del 18 maggio 2020 alcuni possibili insegnamenti e spunti di riflessione anche sul piano sostanziale.
8. Conclusioni
Per concludere, sembra invece potersi trarre da tale vicenda (e dall’ordinanza della Corte di giustizia in commento) un semplice ma fondamentale insegnamento sul piano “procedurale”, e più precisamente sul piano delle dinamiche dei rapporti tra Corti e, prima ancora, delle funzioni e più in generale del ruolo delle Corti e dei giudici tutti (dei loro compiti, dei loro poteri, dei loro limiti e, in relazione a ciò, dei loro modi di relazionarsi tra loro e con il potere politico); il tutto, naturalmente, con ricadute inevitabili, in verità di tipo biunivoco, sul (o a partire dal) ruolo delle fonti che tali giudici “maneggiano”.
Insegnamento che non dovrebbe suonare amaro né men che meno cinico, ma serenamente realistico e costruttivo (inducendo indirettamente a rivolgere nelle giuste direzioni e a concretizzare nei giusti modi il proprio impegno e le proprie sacrosante aspirazioni, così da aumentarne, per così dire, l’efficacia e al contempo evitare perdite di energie e di tempo prezioso ‒ non solo il proprio, ma anche, spesso, quello di altri ‒ che, appunto, potrebbero essere più proficuamente utilizzati).
Si tratta della circostanza, scontata ma talora dimenticata (forse non tanto per “eccesso di zelo”, come a volte un po’ equivocamente, e talora sinistramente, si afferma, quanto per non piena dimestichezza con alcuni principi di fondo e/o con una serie di “tecnicismi”, se così si vuol dire), che il richiamo a diritti e principi fondamentali sanciti (e tutelati, ma, appunto… nei modi previsti! V. subito oltre) nell’ambito dell’ordinamento eurounitario, come pure del nostro ordinamento costituzionale e, ancora, del “sistema CEDU” (ordinamenti e sistemi sulle cui peculiarità e sui cui tratti di integrazione o collegamento non ci si può ovviamente tornare a soffermare in questa sede) non può funzionare come un passe-partout buono per qualsiasi nobile finalità di giustizia, in senso lato; così come a maggior ragione (e ciò contribuisce in parte a giustificare la precedente affermazione, che tuttavia si giustifica anche per altri motivi “sostanziali”, largamente indipendenti da quanto si sta per dire) un passe-partout non possono essere ‒ per ragioni che vanno oltre la ovvia “non esaustività” (e il comunque limitato ruolo) dei parametri sostanziali di riferimento, e che si ricollegano invece specificamente alla funzione specifica di ciascun meccanismo e rimedio giurisdizionale, ed alla serie di regole e principi che ne discendono in ordine ai giusti modi di utilizzo e, quindi, ai criteri di ricevibilità/ammissibilità ‒ il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, l’incidente di legittimità costituzionale innanzi al giudice delle leggi o, ancora, il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo (e, in incerta prospettiva futura, la richiesta di parere consultivo ex protocollo 16)…
*Per una trattazione più ampia delle questioni toccate ‒ o sfiorate ma lasciate da parte ‒ nel presente scritto, e per ulteriori riflessioni che da tali questioni prendono le mosse, cfr. volendo V. Sciarabba, Riflessioni di inizio anno tra tutela della salute, organizzazione e funzionamento della giustizia e garanzia dei diritti e principi fondamentali, in Consulta OnLine, 1/2021.
[1] Vale a dire, a seconda dei casi ‒ ossia, rispettivamente: (a) questione pregiudiziale e (b) questione di costituzionalità ‒ ed a grandi linee (provando cioè a fornire “su due piedi” una bozza definitoria meramente indicativa, senz’altro suscettibile di notevoli perfezionamenti sulla base di una più puntuale ricognizione giurisprudenziale e dottrinale):
a)precise richieste di interpretazione di ben individuate disposizioni normative ai fini (della valutazione, riservata alla Corte di giustizia, della validità di atti imputabili all’Unione, o comunque) della soluzione di un altrettanto ben determinato dubbio, necessaria in vista del (meglio: quale condizione per) la corretta (nel senso di conforme ai vincoli discendenti dalle norme eurounitarie, primarie e derivate) decisione di una ‒ ancora una volta ben individuata e illustrata nei suoi profili fattuali e giuridici (su questo specifico aspetto si tornerà oltre) ‒ controversia giuridica di cui il giudice del rinvio è investito (si vedano al riguardo, in particolare, i punti 23 e ss. dell’ordinanza della Corte di giustizia, sui quali pure si tornerà proprio allo scopo di approfondire maggiormente l’importante tematica qui toccata);
b)richieste di valutazione della fondatezza di specificamente motivati dubbi di conformità a determinate norme costituzionali (o “interposte”) di determinate norme con forza di legge ‒ tra le quali, per dedicare un cenno esplicito all’ordinanza del 28 maggio 2020 con la quale il medesimo Giudice di pace si è rivolto alla Corte costituzionale, non sembrerebbe agevole, pur considerando alcune importanti peculiarità della situazione, annoverare semplici delibere del Consiglio dei ministri o ordinanze del Capo dipartimento della Protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri (atti in linea di principio aventi diversa natura e quindi soggiacenti, come si tornerà a dire, a differenti mezzi di impugnazione e in genere contestazione, a livello interno come pure, potenzialmente, a livello sovranazionale) ‒ anche in questo caso in funzione della corretta soluzione del giudizio principale (come può notarsi, la bozza di definizione è su questo versante ancor più sommaria, trascurandosi del tutto una serie di questioni e precisazioni che potrebbero aprirsi e dovrebbero farsi).
[2] Il punto sembra di un certo interesse, dovendosi al riguardo distinguere l’ipotesi di un’eventuale “traduzione”, almeno in parte, delle variegate doglianze del giudice del rinvio in vere e proprie “questioni” ad opera della stessa Corte interpellata, nell’esercizio dei propri fisiologici e più o meno ampi poteri, per l’appunto, di riconfigurazione della questione, dall’ipotesi di riformulazione di tali doglianze in termini diversi e più congrui ad opera di altro giudice ai fini di un nuovo rinvio pregiudiziale ‒ o, un po’ più verosimilmente, di un nuovo incidente di legittimità costituzionale ‒ o, ancora, ad opera della dottrina a fini di speculazione teorica sui profili di merito delle “questioni di fondo” comunque emergenti dalle pur per molti versi infelici ordinanze di rimessione/rinvio.
In quest’ultimo senso numerosi spunti possono probabilmente rinvenirsi ‒ oltre che in alcuni cenni contenuti nel presente scritto ‒ negli ultimi paragrafi del più ampio lavoro prima citato, ove si è cercato di “recuperare” e sottoporre all’attenzione (anzitutto) di studiosi, giudici e avvocati almeno qualcosa di ciò che di interessante e talora importante, dal punto di vista costituzionale in senso lato (e anche “europeo”), vi era nella questione dichiarata manifestamente irricevibile dalla Corte di giustizia.
[3] Ci si potrebbe poi arrivare a chiedere, nella logica di cui alla nota precedente (e avendo riguardo a determinati contenuti e caratteristiche dei provvedimenti con cui le “questioni” sono state sollevate), se qualcuno tra i molti profili sostanziali toccati (o almeno sfiorati) nelle ordinanze del Giudice di pace di Lanciano sia suscettibile di essere concettualmente e “processualmente” riconfigurato in modo da poter essere fatto giuridicamente valere, da parte dei diretti interessati, attraverso un ricorso innanzi alla Corte di Strasburgo, qualora si rinvenissero elementi tali da far emergere una compressione non giustificata di uno dei diritti tutelati dalla CEDU e dai suoi protocolli.
Vale peraltro la pena segnalare, avendo la cosa una certa attinenza con una simile prospettiva, che con decisione del 5 novembre 2020 pubblicata il 3 dicembre 2020 la Corte EDU ha dichiarato irricevibile un ricorso (n. 18108/20, Renaud Le Mailloux contre la France), presentato il 16 aprile 2020 da un cittadino francese, in cui si poneva sotto accusa uno Stato per l’inadeguatezza delle misure di contenimento e di soccorso clinico adottate (o non adottate) per combattere la pandemia, configurando la condotta di tale Stato come inosservanza degli obblighi positivi derivanti dagli articoli 2, 3, 8 e 10 della Convenzione; la Corte, come si diceva, ha dichiarato il ricorso irricevibile e ha colto l’occasione per rimarcare, in particolare, l’inammissibilità dell’“actio popularis” nel sistema della CEDU e la necessità, affinché un ricorso possa essere esaminato nel merito, di lamentare e dimostrare un pregiudizio concreto e individualizzato tale da poter determinare l’assunzione della qualità di “vittima” in capo al ricorrente, in conseguenza di una diretta e specifica violazione di diritti garantiti dalla Convenzione e non di generici pregiudizi di interessi diffusi; da notare che la Corte, nella stessa occasione, ha ribadito anche la necessità di rivolgersi anzitutto alle autorità giurisdizionali interne, conformemente al principio di sussidiarietà che impronta il “sistema CEDU” (per la segnalazione del caso, con efficace sintesi alla quale ci si è qui ampiamente appoggiati, si ringrazia l’Avv. Federico Di Salvo).
[4] In effetti, si tratta (come lo stesso giudice del rinvio dichiara) di un insieme di «condizioni giuridiche e situazioni di fatto» riportate allo scopo, se non proprio di rappresentare l’oggetto indiretto del giudizio richiesto (come a tratti e per più versi parrebbe), almeno “supportare” ‒ in forme e modi alquanto variegati e verosimilmente affidandosi, nelle intenzioni, a un’autonoma opera di estrapolazione degli elementi di eventuale rilievo effettivo da parte del giudice europeo ‒ la (invero piuttosto apoditticamente) lamentata violazione da parte del Governo italiano del principio di indipendenza del giudice e del diritto al giusto processo delle parti, nonché dei «diritti ad essi connessi della dignità delle persone, della libertà e della sicurezza, dell’uguaglianza davanti alla legge, della non discriminazione, di condizioni di lavoro eque e giuste, dell’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale, della libertà di circolazione e di soggiorno».
È anche alla luce di ciò ‒ e in particolare alla luce di questo tentativo, che sembra potersi intravedere, di abbozzare una sorta di “processo storico” contro il Governo italiano per il modo in cui sono state gestite l’organizzazione e il funzionamento della giustizia (già prima, per qualche aspetto; ma soprattutto) durante il periodo, non ancora concluso, dell’emergenza sanitaria, se non anche per il modo in cui più in generale è stata gestita l’emergenza sanitaria tout court (in questa prospettiva sembrano doversi leggere molti passaggi della lunga ordinanza del 18 maggio, come pure di quella appena successiva con cui lo stesso Giudice di pace si è rivolto alla Corte costituzionale) ‒ che è sembrato di poter scorgere nell’impianto complessivo dei provvedimenti in discussione un approccio più in linea, semmai (con gli innumerevoli aggiustamenti e “scremature” del caso), con la logica tipica di un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ipoteticamente presentabile dalle parti private se non addirittura, sotto certi profili che più direttamente lo riguarderebbero, da parte del giudice. Il tutto naturalmente previo esaurimento di ogni possibile rimedio interno, essendo in ultima analisi a questi ordinari rimedi domestici che probabilmente, come si tornerà a dire, sarebbe stato e sarebbe più opportuno rivolgere anzitutto l’attenzione, specie in riferimento a quei molti atti amministrativi o normativi (almeno formalmente) secondari richiamati nelle ordinanze del giudice di Lanciano che sarebbero stati e sarebbero più correttamente e utilmente “aggredibili”, sempre che ve ne fossero o ve ne siano davvero necessità, presupposti e ragioni, innanzi al TAR Lazio o ad altro giudice comune, amministrativo e non… con tale ultima precisazione volendosi alludere soprattutto all’eventualità di un coinvolgimento, in casi estremi, del giudice penale, secondo quanto le cronache di questi mesi, del resto, già purtroppo mostrano ampiamente.
Quanto infine al possibile ruolo della Corte costituzionale a fronte di eventuali violazioni di norme della Costituzione (e/o di altri parametri interposti invocabili, tra cui la stessa CEDU e, secondo la giurisprudenza più recente, pure la Carta dei diritti fondamentali: sul punto cfr. volendo, anche per ulteriori riferimenti, V. Sciarabba, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la Corte costituzionale, in corso di pubblicazione negli Scritti in onore di Antonio Ruggeri e già in Consulta OnLine, 3/2019), basti qui ricordare la basilare e notissima circostanza che un intervento del giudice costituzionale potrà essere richiesto ‒ da parte dei soggetti legittimati (in via incidentale, i giudici, d’ufficio o su istanza di parte nell’ambito di un giudizio pendente; in via principale, lo Stato e le Regioni), alle condizioni e nei modi previsti ‒ soltanto nel caso di abusi compiuti dal legislatore (statale o regionale) o dal Governo mediante atti con forza di legge; oppure anche avverso atti non legislativi ‒ e, ancora, avverso comportamenti di varia natura, al limite anche omissiva ‒ nel (solo) caso di usurpazione o lesione di attribuzioni costituzionali, tanto nell’ipotesi di conflitto tra organi dello Stato (ma si ricordi nuovamente, a questo riguardo, che contro gli atti dell’esecutivo il rimedio principe resta il ricorso innanzi al giudice amministrativo; salva poi l’intricata questione, nella quale non ci si può qui addentrare, delle possibili sovrapposizioni tra i due rimedi), quanto ‒ con differenze sulle quali pure si deve sorvolare ‒ nell’ipotesi di conflitto tra Stato e Regioni (anche in questo caso non senza possibili interferenze tra giustizia costituzionale e giustizia amministrativa).
[5] Oltre all’art. 94 del regolamento di procedura, la Corte menziona le “Raccomandazioni della Corte di giustizia dell’Unione europea all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale” (GU 2019, C 380, pag. 1), riferendosi in particolare al punto 15.
La Corte non richiama invece, seppure le circostanze della vicenda (e in specie il parallelo e pressoché contestuale rinvio alla Corte costituzionale, di cui tuttavia la Corte di giustizia potrebbe anche, almeno in teoria, non aver avuto notizia) avrebbero potuto offrire ragioni per farlo, i punti 12 e 13 di tali Raccomandazioni, relativi a un aspetto specifico di notevole importanza, e cioè quello del «momento opportuno per effettuare un rinvio pregiudiziale».
In effetti, come si è avuto occasione di evidenziare in altra sede (La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la Corte costituzionale, cit.; e, più ampiamente, Il ruolo della CEDU tra Corte costituzionale, giudici comuni e Corte europea, Milano, Key Editore, 2019), le indicazioni contenute nei punti 12 e 13 delle Raccomandazioni sembrano offrire interessanti elementi a sostegno non solo della possibilità ma anche dell’opportunità, almeno in determinate circostanze, di assegnare la priorità sul piano temporale all’incidente di costituzionalità innanzi al giudice delle leggi (anziché al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia), e, per motivi analoghi, parrebbero suscettibili di essere presi in considerazione, almeno in casi come quello alla base del presente scritto, per riflettere criticamente ‒ senza pregiudizi, ma, appunto, con molta attenzione e spirito critico ‒ sulla stessa possibilità e opportunità di un doppio rinvio in parallelo.
In tali previsioni infatti, dopo essersi affermato, in linea generale, che il giudice nazionale è «nella posizione migliore per valutare in quale fase del procedimento occorra formulare tale domanda», si precisa che siccome, «tuttavia, tale domanda servirà da base per il procedimento che si svolgerà dinanzi alla Corte e che quest’ultima deve poter disporre di tutti gli elementi che le consentano sia di verificare la propria competenza a rispondere alle questioni poste, sia di fornire, in caso affermativo, una risposta utile a tali questioni, è necessario che la decisione di effettuare un rinvio pregiudiziale venga presa in una fase del procedimento nella quale il giudice del rinvio sia in grado di definire con sufficiente precisione il contesto di fatto e di diritto del procedimento principale, nonché le questioni giuridiche che esso solleva. Nell’interesse di una corretta amministrazione della giustizia può anche risultare auspicabile che il rinvio venga effettuato in esito a un contraddittorio tra le parti» (corsivi significativamente originali, nell’ultima versione pubblicata e a differenza che nelle precedenti).
Le indicazioni, e in specie il riferimento addirittura alla necessità che la decisione di effettuare un rinvio pregiudiziale venga presa in una fase del procedimento nella quale sia definito con sufficiente precisione il contesto di fatto e di diritto del procedimento principale, nonché le questioni giuridiche che esso solleva, risultano di ancor maggiore interesse alla luce della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, nella quale si rinvengono prese di posizione nel senso che, ferma restando la circostanza che «gli organi giurisdizionali nazionali godono della più ampia facoltà di adire la Corte», nondimeno «potrebbe essere vantaggioso, secondo le circostanze, che i fatti di causa siano acclarati e che i problemi di puro diritto nazionale siano risolti al momento del rinvio» (punto 35 della sentenza 11 settembre 2014, causa C-112/13, A contro B e altri).
Tali affermazioni paiono assai indicative non solo perché, come si anticipava, esse confermano (insieme ad altre più esplicite statuizioni contenute in altri punti della motivazione e nello stesso dispositivo della sentenza da ultimo citata, e di altre) il riconoscimento della possibilità di considerare prioritaria la questione di costituzionalità rispetto al rinvio pregiudiziale, ma anche perché, come pure si è anticipato, forniscono importanti elementi per ragionare sul momento in cui la Corte di giustizia, in linea di massima, preferirebbe essere interpellata: laddove il riferimento, da una parte, alla “necessità” che sia già adeguatamente “definito” il contesto anche “di diritto” del procedimento principale, “nonché le questioni giuridiche che esso solleva”, e, dall’altra, all’opportunità (“vantaggiosità”) che “i problemi di puro diritto nazionale” – tra cui chiaramente non possono non inserirsi in primis quelli relativi alla legittimità “interna” delle norme che dovrebbero applicarsi – siano già “risolti” al momento del rinvio a Lussemburgo sembrerebbe proprio deporre (contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare, e limitatamente almeno a determinati tipi di questioni) nel senso della preferenza (dal punto di vista europeo) per la priorità... della questione di costituzionalità!
E ciò allo scopo, parrebbe, di riservarsi (da parte del giudice eurounitario, e almeno, come si diceva, secondo il proprio “punto di vista”) “l’ultima parola” sulla questione; e, al contempo, di economizzare le proprie risorse di tempo nonché, per così dire, il proprio “impegno” (in più sensi, includenti il rischio di esporsi oltremodo sul piano latamente politico in conseguenza delle questioni poste), astenendosi in ipotesi dall’intervenire in tutti quei casi in cui l’applicabilità di un atto legislativo nazionale in potenziale contrasto con diritti o principi fondamentali possa già essere esclusa per altra via, in specie attraverso il riconoscimento della sua illegittimità ad opera del giudice costituzionale.
[6] Si possono richiamare in questo senso, in particolare, il punto 48; il punto 73; il punto 74; il punto 82; il punto 94; il punto 96; i punti 117 e 128; il punto 125; nonché, in parte (essendo in questo caso la “provocazione” un po’ più sottile e maggiormente agganciata a elementi oggettivi), il punto 141.
[7] Il discorso si potrebbe teoricamente allargare espressamente, in vista della decisione che dovrà adottare il nostro giudice delle leggi, al provvedimento del 28 maggio 2020 con cui il medesimo Giudice di pace ha sollevato, come si è già ricordato, una questione di legittimità costituzionale formulata in una logica e con riferimenti per molti versi analoghi.
[8] Al riguardo, come si è ricordato, la Corte ha censurato l’assenza di concrete indicazioni idonee a chiarire e supportare l’estremamente generico, e non circostanziato, assunto del giudice del rinvio, osservando che la “mera affermazione” secondo cui «la maggior parte delle disposizioni di diritto interno applicabili alle cause sottoposte al suo esame, compresa la controversia nell’ambito della quale egli adisce la Corte, risulta dalla trasposizione del diritto dell’Unione ad opera del legislatore italiano», risulta «manifestamente insufficiente a consentire alla Corte di constatare una siffatta attuazione».
[9] La distinzione, per quanto in alcuni casi forzata (e salva in ogni caso la possibilità, come si diceva, di considerare determinate doglianze “ambivalenti”), risulta importante per vari motivi, tra cui anzitutto le sue ricadute sulla legittimazione soggettiva a contestare eventualmente in diverse sedi i provvedimenti e le condotte cui si fa riferimento.
[10] Sulle varie problematiche costituzionali legate alle misure emergenziali (e anche, specificamente, alle loro modalità di adozione), v., tra le analisi più severe (con la consueta acutezza, profondità, efficacia e ampiezza d’analisi), G. Silvestri, Covid-19 e Costituzione, in www.unicost.eu, 4 ottobre 2020; ma anche, quantomeno (e con accenti in parte diversi), F. Sorrentino, A proposito dell’emergenza coronavirus, in Il diritto pubblico della pandemia, in Liber Amicorum per Pasquale Costanzo, II, Genova, 2020, p. 1 ss.; M. Luciani, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, ibidem e in Rivista AIC, 2/2020, pp. 109 ss.; Id., Avvisi ai naviganti del Mar pandemico, in Questione Giustizia, www.questionegiustizia.it, 2/2020; R. Romboli, L’incidenza della pandemia da Coronavirus nel sistema costituzionale italiano, in Consulta OnLine, 3/2020; P. Costanzo, Conte e Pinochet, ibidem, 23 marzo 2020; A. Ruggeri, Il coronavirus contagia anche le categorie costituzionali e ne mette a dura prova la capacità di tenuta, in Diritti Regionali, 1/2020; Id., Scelte tragiche e Covid-19 (intervista a cura di R.G. Conti), in questa Rivista, 24 marzo 2020; Id., Il coronavirus, la sofferta tenuta dell’assetto istituzionale e la crisi palese, ormai endemica, del sistema delle fonti, Consulta OnLine, 1/2020; V. Onida, Costituzione e coronavirus. La democrazia nel tempo dell’emergenza, Milano, 2020; M. Bignami, Le fonti del diritto tra legalità e legittimità nell’emergenza sanitaria, in Questione Giustizia, www.questionegiustizia.it, 2/2020, e Id., Chiacchiericcio sulle libertà costituzionali al tempo del coronavirus, ibidem, 7 aprile 2020.
Diritto d’uso esclusivo di parti comuni dell’edificio in ambito condominiale: la volontà dei privati alla luce del principio del numero chiuso dei diritti reali (nota a Cass., sez. un, n. 28972 del 17/12/2020)
di Francesco Taglialavoro
Natura, limiti e opponibilità del diritto di uso esclusivo su beni comuni: il passo indietro delle Sezioni Unite tra prassi negoziale e rispetto della dogmatica civilistica.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Astrazione dal caso concreto: dalla vicenda all’esame della Corte alle vicende della prassi negoziale - 3. I precedenti giurisprudenziali - 4. La decisione delle Sezioni unite - 4.1.Riconducibilità dell’uso esclusivo a un diritto reale tipico - 4.2.La compatibilità dell’uso esclusivo con la regola dettata dall’art. 1102 cod. civ. - 4.3 L’uso esclusivo quale diritto reale atipico - 4.4 La natura del diritto d’uso esclusivo - 5. Corollari applicativi e conclusioni.
1.Introduzione
È valida la convenzione con la quale si attribuisce a un condòmino l’uso esclusivo di un bene presuntivamente comune? Tale diritto può essere trasferito a titolo particolare ed è opponibile anche ai terzi?
In una assai articolata decisione, le Sezioni unite passano in rassegna oltre cinquant’anni di precedenti giurisprudenziali, concludendo per l’inconfigurabilità del diritto reale di uso esclusivo.
La sentenza in commento si lascia apprezzare per la estrema completezza dei richiami giurisprudenziali, nonché per il rigore col quale misura la prassi contrattuale alla luce delle fondamentali categorie dogmatiche in tema di diritti reali c.d. minori.
La Suprema Corte, tuttavia, è fin troppo sintetica nel delineare le conseguenze applicative della propria – in apparenza dirompente – decisione: da un lato, infatti, gli orientamenti esposti sono offerti in lettura in modo torrentizio, col risultato di “spiazzare” il lettore e condurlo, in modo poco consapevole, in un percorso di contrapposizioni non del tutto chiare; dall’altro, la sentenza dedica 33 pagine alla demolizione del “diritto reale” di uso esclusivo, riservandone soltanto due alla “sorte del titolo negoziale che, invece, tale costituzione abbia contemplato”.
Il ruolo dell’interprete appare quindi particolarmente importante: si tenterà, quindi, una ricostruzione schematica della principale giurisprudenza richiamata, distinguendo tra orientamenti complementari ed essenziali, questi ultimi organizzati in ragione delle reciproche contrapposizioni.
2. Astrazione dal caso concreto: dalla vicenda all’esame della Corte alle vicende della prassi negoziale
Tre soggetti sono comproprietari di un immobile costituito da sei unità (tre a uso commerciale e tre a uso residenziale) oltre che da un cortile retrostante e da un’area antistante ai locali commerciali.
La comunione ordinaria viene sciolta e, in base all’atto di divisione, uno dei tre soggetti diviene proprietario (fra l’altro) di uno dei locali commerciali “con l’uso esclusivo della porzione di corte antistante”; costui, in seguito, aliena il locale ad un altro soggetto, specificando nell’atto di vendita che l’alienazione comprende “l’uso esclusivo della porzione di corte antistante”.
I successivi acquirenti degli altri appartamenti citano in giudizio il proprietario del locale commerciale, sostenendo che quest’ultimo si fosse indebitamente appropriato dell’area comune condominialeantistante al negozio; il convenuto resiste in giudizio, richiamando a supporto la pattuizione con la quale gli era stato trasferito non solo il diritto di proprietà sul negozio ma anche l’uso esclusivo della corte a esso antistante.
Quid iuris?
La difesa del convenuto risulterebbe fondata ove si potesse qualificare l’invocata pattuizione e, prima di essa, l’originaria pattuizione di cui all’atto di divisione: i) o come in realtà traslativa del diritto di proprietà sull’area in questione; ii) o come costitutiva di un diritto reale atipico di uso esclusivo; iii) oppure quale particolare modalità di disciplina dell’uso delle cose comuni.
Al contrario, ove si interpretassero quelle pattuizioni come costitutive del diritto reale d’uso, la seconda alienazione sarebbe in parte nulla per contrarietà ai limiti di durata imposti dall’articolo 1024 cod. civ.
Il caso che si è appena sintetizzato ha costituito, per la Suprema Corte, l’occasione per una riflessione di portata generale: per rinuncia accettata al ricorso, infatti, il processo si era estinto e il giudizio è proseguito nell’interesse della legge.
L’interprete noterà, nel caso che si è appena sintetizzato, la ricorrenza di diversi elementi frequentemente posti alle attenzioni dei giudici del merito[1]; astraendo, si può quindi ritenere che il problema giuridico da risolvere sia il seguente: qual è la natura della clausola attributiva dell’uso esclusivo di una parte “comune”? L’uso esclusivo può essere ceduto? Anche disgiuntamente rispetto all’immobile cui accede? Si può usucapire?
3. I precedenti giurisprudenziali
La questione circa la natura, i limiti e l’opponibilità del diritto di uso esclusivoè stata diffusamente trattata dalla giurisprudenza.
Alcuni orientamenti, richiamati dalla sentenza annotata, si limitano a considerare l’esistenza della clausola in commento, senza però approfondirne limiti e ammissibilità[2].
Altri orientamenti, più esaustivi, propongono due tesi opposte: una “obbligatoria”, l’altra “reale”.
Secondo un primo orientamento, l’uso esclusivo costituirebbe una particolare modalità di godimento del bene comune che, in deroga agli articoli 1102 e 1117 cod. civ., spetterebbe soltanto a uno dei comunisti (o condomini), senza incidere sul profilo della proprietà.
Secondo le Sezioni unite la capostipite di tale orientamento sarebbe costituito da Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301[3], poi seguita da Cass. 10 ottobre 2018, n. 24958[4]; Cass. 31 maggio 2019, n. 15021[5]; Cass. 4 luglio 2019, n. 18024[6]; Cass. 3 settembre 2019, n. 22059[7].
Tale affermazione potrebbe generare nell’interprete qualche perplessità: se è vero, infatti, che la decisione del 2017 è la prima ad avere compiutamente analizzato la non riconducibilità della clausola in questione al diritto reale d’uso di cui agli artt. 1021 e segg. cod. civ., si ritiene che tale orientamento, nella parte in cui ritiene che l’uso esclusivo costituirebbe una particolare modalità di godimento del bene comune, sia noto alla giurisprudenza di legittimità sin da Cass., 27 giugno 1978 , n. 3169[8], secondo la quale: “il regolamento convenzionale di condominio può sottoporre a limitazioni l’esercizio dei poteri e delle facoltà che normalmente caratterizzano il contenuto del diritto di proprietà dei singoli condomini sulle cose comuni e può giungere ad attribuire ad uno o più condomini l’uso esclusivo di determinate parti comuni del fabbricato”.
In base all’orientamento appena analizzato, quindi, “non trattandosi (...) di figure di asservimento o di pertinenza (...), deve riconoscersi in generale nella parte comune, anche se sottoposta ad uso esclusivo, il permanere della sua qualità - appunto - comune, derogandosi soltanto da parte dell'autonomia privata al disposto dell'art. 1102 cod. civ., altrimenti applicabile anche al condominio, che consente ai partecipanti di fare uso della cosa comune "secondo il loro diritto"”.
L’insegnamento appena esposto non appare del tutto condivisibile o, meglio, pare porsi in contrasto con larga parte della giurisprudenza di legittimità secondo la quale l’uso della cosa comune può essere più intenso[9],frazionato[10],turnario[11], ma mai del tutto vietato[12].
In base all’orientamento analizzato, peraltro, l’uso esclusivo non sarebbe usucapibile (in quanto non diritto reale) e potrebbe essere opposto ai terzi nei limiti in cui, in linea generale, lo può essere il regolamento condominiale[13]. Resta, infine, aperto il problema della ripartizione delle spese (il bene, infatti, resta formalmente comune).
Un secondo orientamento fa invece leva sul concetto di estensione del diritto di proprietà o sul vincolo di pertinenzialità.
É stato infatti affermato che la presunzione di proprietà comune di cui all’art. 1117 cod. civ. può essere vinta non soltanto quando il contrario risulti in modo espresso dal titolo, ma anche quando il bene sia asservito in modo esclusivo, per le sue proprie caratteristiche o per la destinazione impressa dall’originario proprietario dell'intero immobile, all’uso o al godimento di una sola parte dello stesso[14]: in casi simili, dunque, non si sarebbe al cospetto di un bene comune il cui uso sia riservato a un solo condòmino, ma di un bene in proprietà esclusiva dello stesso.
Secondo altre decisioni[15],la previsione [nel regolamento contrattuale contestuale alla costituzione del condominio] dell’uso esclusivo di una parte dell’edificio a favore di una frazione di proprietà esclusiva costituirebbe sui beni il vincolo di pertinenzialità di cui all’art. 817 cod. civ.: tale ricostruzione appare coerente con la norma di cui al comma secondo dell’art. 817 cod. civ. e permetterebbe la circolazione del relativo diritto ai sensi dell’art. 818. È opinione comune che il rapporto pertinenziale, la cui nozione si rinviene nel citato art. 817, primo comma, cod. civ., richieda due elementi: uno soggettivo, che consiste nell’atto di destinazione e va propriamente inquadrato negli atti giuridici in senso stretto; l’altro oggettivo, vale a dire la durevole funzione di ornamento o servizio. Quanto al requisito soggettivo, in ambito condominiale, nessun problema sorge nel caso in cui la destinazione sia stata impressa dall’originario proprietario dell’edificio; secondo parte della dottrina, peraltro, la destinazione potrebbe anche essere successiva e richiederebbe, in questo caso, soltanto la maggioranza qualificata, “trattandosi di innovazione volta al maggior rendimento della cosa comune[16]”.
4. La decisione delle Sezioni unite
Le Sezioni unite vengono chiamate a decidere sulla questione di massima di particolare importanza circa la natura, i limiti e la opponibilità del diritto di uso esclusivo su beni comuni.
La Suprema Corte ravvisa anche un contrasto giurisprudenziale, dando tuttavia l’impressione di non averlo messo correttamente a fuoco: secondo la sentenza annotata, infatti, tale contrasto si porrebbe tra Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301 e Cass. 9 gennaio 2020, n. 193 secondo la quale: “in base agli artt. 1026 e 979 c.c., il diritto reale di uso, istituito a favore di una persona giuridica, non può superare il trentennio; né può ipotizzarsi la costituzione di un uso reale atipico, esclusivo e perpetuo, che priverebbe del tutto di utilità la proprietà e darebbe vita a un diritto reale incompatibile con l'ordinamento vigente”.
A chi scrive i due precedenti non sembrano però porsi in contrasto; non solo: non pare corretto neppure affermare che la decisione n. 24301 del 2017, più che porsi in diretto contrasto con un formato indirizzo giurisprudenziale precedente, avrebbe prospettato una “ricostruzione nuova”. Si ritiene, invece, che tale sentenza si sia posta in contrasto con l’orientamento fatto proprio, da ultimo, da Cass. 20712 del 2017, analizzata supra: ciò è tanto più evidente in considerazione del fatto che la soluzione offerta dalle Sezioni unite finisce per dare continuità proprio a quest’ultimo orientamento.
Ma procediamo con ordine.
Al § 5.2 della decisione in esame, le Sezioni unite mettono a fuoco il tema della configurabilità del diritto d’uso esclusivo chiedendosi:
1) se l’attribuzione ad un condomino di un diritto di uso esclusivo altro non sia, almeno in taluni casi, che una formula da intendersi come equivalente dell'attribuzione a lui della proprietà solitaria sulla porzione in discorso;
2) se e come il diritto di uso esclusivo di una parte comune possa armonizzarsi con la regola basilare dettata dall'art. 1102 cod. civ.;
3) se il diritto di uso esclusivo abbia natura di diritto reale atipico o sia riconducibile ad una delle figure tipiche di diritto reale di godimento;
4) se abbia, al contrario, natura non di diritto reale, bensì di diritto di credito.
Il Supremo consesso procede dunque, ma in ordine sparso, alla soluzione di tutti i quesiti sopra schematizzati. Si seguirà, in questa sede, l’ordine di trattazione proposto in sentenza.
4.1.Riconducibilità dell’uso esclusivo a un diritto reale tipico
Le Sezioni unite escludono, anzitutto, che la clausola di cui si discute possa ricondursi al diritto reale di servitù: le ragioni sono spiegate – spiazzando il lettore – nei paragrafi 5.3 e (dopo varie considerazioni su altri argomenti) 6.8.
Questa la sintesi: a differenza del diritto reale di cui agli articoli 1027 e ss. cod. civ., il diritto di uso esclusivo consiste non già nella semplice creazione di un peso sulle cose comuni, ma nel sostanziale svuotamento del diritto di proprietà sulle stesse[17]. Non solo: la servitù, per la sua stessa conformazione, non può tradursi in un diritto di godimento generale del fondo servente, dovendo essere sempre specificato il carattere del peso e l’utilità del rapporto di dipendenza tra i due fondi.
Secondo le Sezioni unite, dunque: “se ad un condomino spettasse a titolo di servitù l’“uso esclusivo” di una porzione di parte comune, agli altri condomini non rimarrebbe nulla, se non un vuoto simulacro”.
L’uso esclusivo non può neppure ricondursi al diritto reale di uso(paragrafi 5.4 e – anche in questo caso dopo varie altre considerazioni – 5.4.6) perché l’istituto di cui agli articoli 1021 consente al suo titolare di servirsi della cosa per quanto occorra ai bisogni suoi e della sua famiglia, non è cedibile né può esser concesso in locazione e non è perpetuo (art. 1026 cod. civ.).
Le differenze tra i due istituti, quindi, attengono al contenuto del diritto, alla durata, alla trasferibilità e alle modalità di estinzione.
4.2.La compatibilità dell’uso esclusivo con la regola dettata dall’art. 1102 cod. civ.
Il rapporto fra uso esclusivo di un bene comune e contenuto del diritto di comproprietà è decisivo per la soluzione dei quesiti posti dalla sentenza in commento.
Il punto di partenza del complesso ragionamento delle Sezioni unite è costituito dall’art. 1102 cod. civ., in base al quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.
Secondo il supremo consesso, la facoltà d’uso costituisce parte essenziale del contenuto intrinseco, caratterizzante, del diritto di comproprietà, tanto è vero che, nel caso della comunione, si è ritenuto ammissibile un uso più intenso a vantaggio di alcuni comunisti, frazionato, turnario, ma mai del tutto vietato (cfr. supra, par. 3); nell’uso esclusivo, invece, “proprio perché esclusivo, si elide (...) il collegamento tra il diritto ed il suo contenuto, concentrandosi l’uso in capo ad uno o alcuni condomini soltanto: tant'è che si è parlato in proposito, come già accennato, di uso quasi uti dominus”.
Tale elisione, è questo un passaggio assai importante, è ammissibile soltanto in presenza di un diritto reale minore. E poiché, come visto, il diritto d’uso esclusivo non può inquadrarsi in alcuno dei diritti reali minori previsti dal codice, resta da chiedersi se tale elisione possa essere il frutto dell’autonomia privata[18].
Se i privati, in altre parole, possano costituire per contratto un diritto reale minore atipico.
4.3 L’uso esclusivo quale diritto reale atipico
Le Sezioni unite escludono categoricamente che l’istituto in commento possa ricondursi a un diritto reale atipico del quale, in radice, negano la configurabilità.
La sentenza annotata si lascia apprezzare per una assai esaustiva disamina sul tema della tipicità dei diritti reali, distinta, peraltro, dal concetto (in apparenza simile) del numero chiuso degli stessi[19]: nella parte più convincente della motivazione (paragrafi da 6.9 a 6.10), la Suprema Corte dà continuità all’indirizzo giurisprudenziale che nega, ai privati, la possibilità di costituire nuovi diritti reali o di alterare il contenuto di quelli tipicamente previsti.
Le Sezioni unite analizzano, anzitutto, le ragioni che deporrebbero a favore del superamento dell’anzidetto limite: nella prospettiva del rispetto dell’autonomia privata non si vedrebbero ragioni per differenziare diritti di credito e diritti reali, coi soli limiti della contrarietà all’ordine pubblico, dell’illiceità del contratto e della meritevolezza dell’interesse perseguito; i privati, del resto, sarebbero in grado di rispondere, tempestivamente e meglio del legislatore, alle mutevoli esigenze del traffico giuridico; il principio del numero chiuso, poi, si radicherebbe nella tradizione ma non sarebbe disposto da alcuna norma positivamente codificata. La Suprema Corte, aprendo il ventaglio della propria analisi, cita anche riflessioni proprie di altri orientamenti, riferendosi, in particolare, all’arrêt Maison de Poesie, vale a dire – anche se la decisione non lo specifica – alla sentenza resa dalla Corte di Cassazione francese il 31 ottobre 2012[20], nella quale “la Cour de cassation inaspettatamente riforma la sentenza dei giudici di merito e afferma il principio secondo cui il proprietario, nel rispetto delle regole dell’ordine pubblico, può costituire in favore dell’altra parte un diritto reale che attribuisce il beneficio di un godimento speciale del proprio bene[21]”.
A tali considerazioni, la Suprema Corte replica col solido argomento fondato sull’art. 1372 cod. civ.: “creare diritti reali atipici per contratto vorrebbe dire perciò incidere non solo sulle parti, ma, al di fuori dei casi in cui la legge lo consente, anche sugli acquirenti della cosa: ed in definitiva, paradossalmente, vincolare terzi estranei, in nome dell'autonomia contrattuale, ad un regolamento eteronimo”.
Un divieto esplicito sarebbe peraltro del tutto superfluo in un sistema che, dopo aver minuziosamente tipizzato e regolato gli iura in re aliena(cosa già di per sè scarsamente comprensibile, ove potessero crearsene di atipici in numero infinito), pone al centro della disciplina del contratto, come la dottrina ha da assai lungo tempo evidenziato, l'art. 1372 c.c., che limita gli effetti di esso alle parti, con la precisazione che solo la legge può contemplare la produzione di effetti rispetto ai terzi: escludendo così in radice che il contratto, se non sia la legge a stabilirlo, possa produrre effetti destinati a riflettersi nella sfera di soggetti estranei alla negoziazione.
Tali considerazioni di carattere generale trovano peraltro conferma: nell’art. 42 della Costituzione, lì dove è prevista una riserva di legge in ordine ai modi di acquisto, di godimento e ai limiti della proprietà privata; nel generale disfavore che l’ordinamento mostra nei confronti delle limitazioni incisive al diritto di proprietà, come dimostrato dai limiti imposti dall’art. 1379 cod. civ. al divieto convenzionale di alienare[22]; nella tassatività dei diritti reali soggetti a trascrizione di cui all’art. 2643 cod. civ.; nella assolutamente costante giurisprudenza di legittimità, anche in materia di tipicità di obbligazioni propter reme oneri reali.
In definitiva, secondo la sentenza annotata: “la pattuizione avente ad oggetto la creazione del c.d. "diritto reale di uso esclusivo" su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell'edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall'art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus claususdei diritti reali e della tipicità di essi”.
4.4 La natura del diritto d’uso esclusivo
Mettendo a sistema le conclusioni raggiunte è possibile ritenere: i) che il godimento è parte essenziale e strutturale del diritto di (com)proprietà; ii) che è possibile limitare il godimento su un bene comune, a vantaggio di un solo comunista, soltanto tramite la costituzione di un diritto reale tipico; iii) che l’uso esclusivo non corrisponde ad alcun diritto reale previsto dalla legge.
Quid iuris?
Anche se non viene espressamente affermato, le Sezioni unite danno continuità all’orientamento formatosi a partire da Cass. 29 marzo 1982, n. 1947, presentato, nel presente lavoro, come espressione di una ricostruzione in chiave reale che fa leva sul vincolo di pertinenzialità (cfr. supra, § 3): dovrà essere compito del giudice, innanzi alla clausola fin ora commentata, verificare anzitutto se le parti abbiano effettivamente inteso limitarsi alla attribuzione dell’uso esclusivo, riservando la proprietà all’alienante o non abbiano invece voluto trasferire la proprietà: in questo secondo caso il rapporto avrebbe natura pertinenziale, come affermato dalla già citata sentenza del 4 settembre 2017 n. 20712.
Nel caso in cui la verifica desse esito negativo, l’interprete, prima di giungere alla declaratoria di nullità della pattuizione, dovrà verificare se sussistano i presupposti per la qualificazione della stessa quale costitutiva del tipico diritto reale d’uso. Resterà aperta, ove anche questa verifica desse esito negativo, la possibile conversione del negozio in contratto obbligatorio avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e perpetuo, ma solo inter partes.
5. Corollari applicativi e conclusioni
Alla luce della decisione annotata la posizione del condòmino che intenda utilizzare in via esclusiva un bene presuntivamente comune appare certamente indebolita: se prima era sufficiente richiamare la clausola attributiva del diritto d’uso esclusivo, contenuta nel proprio titolo di provenienza, adesso sarà necessario un ulteriore sforzo argomentativo.
Si pensi ai seguenti casi, molto frequenti nella prassi: Tizio è proprietario di un locale commerciale posto al pian terreno dell’immobile condominiale e utilizza, in via esclusiva, lo spazio a esso antistante. Oppure: Tizio è proprietario di un immobile posto all’ultimo piano dell’edificio condominiale e ha accesso diretto, tramite una scala privata, al lastrico solare: egli, nel tempo, realizza sul lastrico alcune opere (quali fioriere, tende, ombrelloni e simili) e pretende di goderne in via esclusiva.
In entrambi i casi, l’amministratore, su mandato dell’assemblea, contesta tali utilizzi, definendoli indebiti e intimando il rilascio del bene (verosimilmente definendolo comune).
A questo punto il condòmino potrebbe: i) richiamare il proprio titolo di provenienza, sostenendo di avere il diritto di utilizzare il bene in via esclusiva; ii) sostenere di avere utilizzato in via esclusiva il bene per più di vent’anni.
Si analizzi, anzitutto, la prima ipotesi.
La prima valutazione da compiere è sempre quella sul titolo di provenienza: occorrerà accertare se in esso sia presente una clausola attributiva o del diritto di proprietà sul bene presuntivamente comune, oppure il diritto di uso esclusivo sullo stesso; nell’uno e nell’altro caso occorrerà risalire la catena delle alienazioni fino a giungere all’atto di costituzione del condomìnio (la clausola dovrà essere presente in ogni atto traslativo).
Questa verifica potrebbe dare esito negativo: Tizio acquista da Caio il locale commerciale unitamente alla proprietà o all’uso esclusivo dell’area allo stesso antistante, ma Caio aveva a sua volta acquistato soltanto la proprietà dell’immobile “principale”. In questo caso, per il principio nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet, si ricadrà nella ipotesi sub ii) della quale si dirà infra.
La verifica potrebbe avere (come spesso accade) esito positivo: occorrerà quindi distinguere il caso in cui il titolo trasferisca la proprietà del bene presuntivamente comune e il caso in cui lo stesso preveda (soltanto) l’uso esclusivo sso.
Nel primo caso nulla quaestio: la presunzione di cui all’art. 1117 cod. civ. è vinta e il bene è di esclusiva spettanza del condòmino. Tutte le parti presuntivamente comuni possono essere attribuite in proprietà esclusiva a un singolo condòmino? Secondo parte della dottrina[23]occorrerebbe distinguere tra parti strutturali (come fondazioni e muri maestri), indivisibili per natura o destinazione, che sarebbero necessariamente comuni e parti non indispensabili, per le quali opererebbe la presunzione semplice di cui all’art. 1117 cod. civ.; di diverso avviso la prevalente giurisprudenza, secondo la quale, comunque, il proprietario esclusivo è tenuto a rispettare la destinazione obiettiva della cosa, determinata dalle sue intrinseche caratteristiche strutturali e funzionali[24].
Nel secondo caso la clausola non è sufficiente, di per sé sola, a fondare il diritto del condòmino, perché non è possibile eliminare un requisito essenziale della comproprietà (l’uso del bene) se non con la costituzione di un diritto reale minore: tale diritto non può essere quello di uso esclusivo, categoricamente escluso dalle Sezioni unite. Ma potrebbe essere il diritto d’uso (non cedibile e non perpetuo). Oppure, ed è questa la strada che presumibilmente si tenterà di percorrere, occorrerà dimostrare che le parti, pur riferendosi alla cessione dell’uso comune, abbiano in realtà voluto cedere la proprietà del bene: in questo caso, avvertono le Sezioni unite, il rapporto tra bene “principale” e bene presuntivamente comune, avrà natura pertinenziale.
Occorrerà, in altri termini, provare che l’originario atto di disposizione fosse in realtà costitutivo di un vincolo di pertinenzialità, istituito dall’originario proprietario e successivamente mantenuto, nelle varie alienazioni, circolando in conformità con quanto disposto all’art. 818 cod. civ.
Si analizzi, adesso, la seconda ipotesi(il condòmino fonda il suo uso esclusivo sulla base del possesso continuato ultra ventennale).
Occorre premettere che non tutte le parti comuni sono suscettibili di essere possedute uti dominus(e non uti condominus) in ragione delle proprie peculiari caratteristiche per le quali residua, comunque, una utilità anche indiretta da parte del condòminio (si pensi ai lastrici solari che, comunque, coprono l’edificio): in questo caso non potrà usucapirsi la proprietà, residuando soltanto la possibilità di usucapire, eventualmente, un diritto reale minore come il “calpestio” (cfr. nota 18).
In tutti gli altri casi, non potrà comunque essere usucapito “l’uso esclusivo” perché, come chiarito, non è un diritto reale.
Resta quindi, soltanto, la possibilità di usucapire la proprietà (ove il condòmino fornisca la rigorosa prova del possesso ad escludendum); il diritto d’uso (con i limiti della non perpetuità e della non trasferibilità) o, infine, un diritto reale minore come la servitù.
In conclusione: la sentenza annotata si apprezza per la completezza dei richiami giurisprudenziali ed è facile prevederne larghi richiami nella prassi applicativa; pecca, però, in sistematicità, e (soprattutto), nella sua parte conclusiva, lì dove il contributo offerto all’interprete appare fin troppo esiguo. Non si comprende fino in fondo, infine, cosa intenda la Suprema Corte per perpetuità inter partes, concetto, questo si, dalla forte caratterizzazione di ossimoro.
[1]“La clausola mediante la quale si concede ad una singola unità immobiliare l'uso esclusivo di un'area”, notano le Sezioni unite nella sentenza annotata, è ricorrente nella prassi: si tratta, in effetti, di un chiaro esempio di “tipicità negoziale” che spesso precede, comprensibilmente, la “tipicità giurisprudenziale”. “Di fronte a nuove esigenze, indotte dai progressi della tecnologia e della economia, può infatti accadere che nessun tipo legale offra risposte soddisfacenti (...) spesso ne nascono liti, che vengono portate davanti ai giudici; e altrettanto spesso i giudici decidono su diritti e obblighi che il contratto crea per le parti, secondo regole che, consolidandosi, danno luogo alla disciplina” (V. Roppo, Il contratto, Milano, 2001, p. 422: l’Autore si riferisce al leasing, che, nel tempo, ha acquisito una tipicità definita “social-giurisprudenziale”).
[2]Ci si riferisce a Cass. 20 febbraio 1984, n. 1209 in Giust. civ. Mass. 1984, fasc. 2, per la quale: “in un edificio in condominio la funzione naturale di un cortile, di fornire aria e luce alle unità abitative che vi prospettano, non è incompatibile con l’appartenenza o la destinazione di esso all’uso esclusivo di uno o più condomini, nè l'obbligo da parte di costoro di rispettare quella funzione comporta il sorgere di diritti particolari in favore degli altri partecipanti al condominio”; Cass. 27 luglio 1984, n. 4451 in Riv. giur. edilizia, 1985, I, 16, per la quale: “nel condominio degli edifici i singoli condomini hanno il diritto di usare la cosa comune nel modo soggettivamente più soddisfacente, con il limite di non mutarne la destinazione e di non sopprimere o limitare la pari possibilità di essa da parte degli altri partecipanti alla comunione secondo il rispettivo diritto”; Cass.25 ottobre 1991, n. 11392 inGiust. civ. Mass., 1991, fasc.10, per cui: “nel caso di installazione di una tenda e delle relative intelaiature metalliche su di uno spazio di proprietà comune, da parte del condomino del piano terreno che lo abbia in uso esclusivo e destinato a ristorante, per la sussistenza della violazione dell'art. 1102 c.c. con riguardo al mutamento della struttura e della funzione del detto bene comune ed in particolare al diritto di veduta in "appiombo" dei condomini dei piani superiori, deve accertarsi sia l'"utilitas" (specifica o socialmente rilevante) derivante da quel diritto che in concreto la sua menomazione, tenendo conto in ispecie del distacco (in altezza) della tenda dalle vedute dei piani superiori, delle caratteristiche dei luoghi e dell'uso normale, nonché, in relazione alla specifica destinazione dello spazio comune, delle consuetudini e del normale comportamento degli esercenti di attività consimili”.
[3]In Rivista del Notariato2018, 6, II, 1191.
[4]In Diritto & Giustizia 2018, 11 ottobre.
[5]In Condominioelocazione.it, 18 settembre 2019 con nota di A. Nicoletti.
[6]In dejure Giuffre.
[7]In dejure Giuffre.
[8]In Riv. giur. edilizia1979, I, 550.
[9]Cfr. Cass. 30 maggio 2003, n. 8808 in Giust. civ. Mass. 2003, 5; Cass. 21 ottobre 2009 n. 22341 in Giust. civ. Mass. 2009, 10, 1476.
[10]Cfr. Cass. 14 luglio 2015, n. 14694 in Giust. civ. Mass. 2015; Cass. 11 aprile 2006 n. 8429 in Arch. locazioni 2007, 3, 300.
[11]Cfr. Cass. 12 dicembre 2017, n.29747 in Giust. civ. Mass. 2018; Cass. 19 luglio 2012, n.12485 in Guida al diritto2012, 37, 63.
[12]Cfr. in particolare Cass. 29 gennaio 2018, n.2114 in Giust. civ. Mass. 2018 per la quale: “l’art 1102 c.c., nel prescrivere che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non pone una norma inderogabile. Ne consegue che i suddetti limiti possono essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale, o da delibere assembleari adottate con il quorum prescritto dalla legge, fermo restando che non è consentita l'introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni”. Secondo la sentenza annotata, in tal senso, “il godimento concreta una facoltà intrinseca del diritto di comunione, sicchè la modifica del contenuto essenziale della comproprietà, consistente nella negazione della facoltà di uso del bene comune ad alcuni condomini, può discendere soltanto dalla costituzione di un diritto reale in favore dell'usuario, il che però appare precluso dall'osservazione che il nostro ordinamento tuttora non consente all'autonomia privata di scavalcare il principio del numero chiuso dei diritti reali”.
[13]Cfr. in particolare Cass. 25 ottobre 2001, n.13164 in Arch. locazioni ,2002, 292, per la quale: “il regolamento di condominio predisposto dall'originario unico proprietario dell'intero edificio, ove sia accettato dagli iniziali acquirenti dei singoli appartamenti e regolarmente trascritto nei registri immobiliari, assume carattere convenzionale e vincola lutti i successivi acquirenti, non solo per le clausole che disciplinano l'uso o il godimento dei servizi o delle parti comuni, ma anche per quelle che restringono i poteri e le facoltà dei singoli condomini sulle loro proprietà esclusive venendo a costituire su queste ultime una servitù reciproca; ne consegue che tale regolamento convenzionale, anche se non materialmente inserito nel testo del successivo contratto di compravendita dei singoli appartamenti dell'edificio, fa corpo con esso quando sia stato regolarmente trascritto nei registri immobiliari, rientrando le sue clausole, "per relationem", nel contenuto dei singoli contratti”.
[14]Ci si riferisce a Cass. 28 aprile 2004, n.8119 in Dir. e giust. 2004, 24, 12: in questo precedente si controverteva sulla attività di un condòmino che, per ampliare l’immobile di propria esclusiva spettanza, aveva realizzato una escavazione nel sottosuolo condominiale di fatto appropriandosene: la Corte, premessa la natura presuntivamente comune del sottosuolo, ha affermato che “per l’esclusione della presunzione di proprietà comune, di cui al citato art. 1117 c.c., non é necessario che il contrario risulti in modo espresso dal titolo, essendo sufficiente che da questo emergano elementi univoci che siano in contrasto con la reale esistenza di un diritto di comunione, dovendo la citata presunzione fondarsi sempre su elementi obiettivi che rivelino l'attitudine funzionale del bene al servizio o al godimento collettivo, con la conseguenza che quando il bene, per le sue obiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all'uso o al godimento di una sola parte dell'immobile, che forma oggetto di un autonomo diritto di proprietà ovvero risulti comunque essere stato a suo tempo destinato dall'originario proprietario dell'intero immobile ad un uso esclusivo, in guisa da rilevare - sempre in base ad elementi obiettivamente rilevabili, secondo l'incensurabile apprezzamento dei giudici di merito - che si tratta di un bene avente una propria autonomia e indipendenza, non legato da una destinazione di servizio rispetto all'edificio condominiale, viene meno il presupposto dell'accennata presunzione”.
[15]Cfr., da ultimo, Cass. 04 settembre 2017, n. 20712 in Guida al diritto, 2018, 4, 27, che decide su un caso assai frequente nella prassi: l’Amministratore conviene in giudizio un condòmino per il rilascio dell’area antistante all’immobile di esclusiva proprietà dello stesso; resiste in giudizio il condòmino, rivendicando la proprietà esclusiva dell’area in contesa poiché, a suo dire, il regolamento condominiale ne attribuirebbe l’uso esclusivo ai proprietari delle attività commerciali.
[16]Cfr. C.M. BIANCA, Diritto Civile, La proprietà, Milano, Giuffrè 1999, 67 in nota 50.
[17]Come avviene nell’enfiteusi: in quel caso, però, sono sussistenti obblighi per l’enfiteuta naturalmente incompatibili col diritto di cui si discute.
[18]Indicazioni di senso contrario non possono esser tratte né dall’art. 1126 cod. civ., né dalla riforma del condominio, né dal D.Lgs. 20 maggio 2005, n. 122, art. 6, comma 2, lett. b), che obbliga il costruttore a indicare nel contratto relativo a futura costruzione le parti condominiali e le pertinenze esclusive.
Quanto all’art. 1126, unica norma in cui si fa esplicito riferimento all’uso esclusivo di una parte comune dell’edificio, lo stesso è dettato in materia di lastrici solari, beni che, per la loro specifica natura, non possono essere usucapiti (per lo meno per quanto attiene al diritto di proprietà: sulla usucapione del diritto di calpestio, autonomo rispetto al diritto di proprietà e qualificabile come una servitù, si veda Cass. 17 aprile 1973, n. 1103 in MGI, 1973, 396): da questa norma, anzi, potrebbe desumersi a contrario che “non sono configurabili ulteriori ipotesi di uso esclusivo, le quali (...) sottraggano a taluni condomini il diritto di godimento della cosa comune loro spettante”.
Quanto alla riforma del Condomìnio, che ha introdotto talune forme di concessioni ai singoli condomini di un godimento apparentemente non paritario, è da ritenere che “tali previsioni, per la loro eccezionalità, non possono concorrere alla costruzione di un principio generale”, essendo peraltroda escludere “che esse comportino modificazioni strutturali alla comproprietà delle parti comuni in favore del titolare dell'uso”.
Quanto, infine, al D.Lgs. 20 maggio 2005, n. 122, “è già risolutivo osservare che si tratta di una norma eccezionale, dalla quale non potrebbe in ogni caso desumersi l'istituzione di un generale "diritto reale di uso esclusivo". Ma, al di là di questo, la norma parla di pertinenze, e dunque ancora una volta di attribuzione in proprietà, secondo quanto si è già visto compatibile con l'assetto condominiale”.
[19]Nella decisione annotata si legge, in effetti, che numero chiuso e tipicità dei diritti reali, in larga parte sovrapponibili, sarebbero tenuti distinti dalla dottrina, secondo la quale: “in forza del primo solo la legge può istituire figure di diritti reali; per effetto del secondo i privati non possono incidere sul contenuto, snaturandolo, dei diritti reali che la legge ha istituito”.
[20]Consultabile al seguente indirizzo: https://www.revuegeneraledudroit.eu/blog/decisions/cour-de-cassation-troisieme-chambre-civile-31-octobre-2012-pourvoi-numero-11-16-304/
[21]Cfr. E. Calzolaio, La tipicità dei diritti reali: spunti per una comparazionein Rivista di diritto civile, 2016, n. 4, pagg. 1080 e ss.
[22]Si aggiunga la norma di cui all’art. 713 cod. civ., comma tre, per la quale il testatore può disporre che la divisione dell'eredità o di alcuni beni di essa non abbia luogo prima che sia trascorso dalla sua morte un termine non eccedente il quinquennio.
[23]Cfr.. P.B. Peresutti in Commentario breve al codice civile, Padova, 2020, p.1114 subart. 1117, IV.
[24]Cfr. Cass. 2 maggio 1996, n. 4023 in Arch. locazioni1996, 729, per la quale: nel caso in cui una parte di un edificio condominiale, necessaria all'uso comune, spetti in proprietà esclusiva ad uno solo dei condomini, questi è tenuto, nell'esercizio delle sue facoltà di godimento, a rispettare la destinazione obbiettiva della suddetta parte all'utilità generale dell'intero condominio, poiché i concetti di uso e di destinazione prescindono da quello di appartenenza, attenendo piuttosto alla funzione che la parte dell'edificio ha assunto, per volontà dei condomini o per la sua propria natura, nel quadro dell'utilizzazione dell'edificio da parte dei singoli proprietari.
Interdittiva antimafia e questioni di legittimità costituzionale (nota a ord.za TAR - Reggio Calabria, 11 dicembre 2020, n. 732) di Renato Rolli e Martina Maggiolini
Sommario: 1. Premessa: la vicenda contenziosa e la questione di legittimità costituzionale - 2.Sugli effetti del provvedimento interdittivo, sui contrasti con norme costituzionali e sul controllo giudiziario - 3. Il diritto di difesa limitato dall’interdittiva o limite della stessa?
1. Premessa: la vicenda contenziosa e la questione di legittimità
L’affermarsi della normativa antimafia nel tessuto giuspubblicistico ha posto diversi problemi. In primis bisogna considerare la propensione a massimizzare l’interesse pubblico sotteso alla normativa antimafia che ha comportato un progresso unilaterale, senza cioè un’adeguata e preventiva considerazione degli interessi concorrenti. In secundis va evidenziato che il sistema della normativa antimafia risulta compromesso dalla finalità preventiva che spinge in avanti la tutela conducendo all’ingovernabile risultato di una “indefinita” pervasività [1].
È in tale contesto che si colloca l’accurata ordinanza, che qui si annota, del TAR di Reggio Calabria del 11 dicembre 2020, n. 732.
In tale sede il giudice amministrativo è stato chiamato a decidere sull’annullamento del provvedimento prefettizio [2] fondato per un verso, sui precedenti e sulle parentele del marito della ricorrente [3] e per altro verso, sui rapporti, anche economici, della stessa.
E per di più il provvedimento gravato evidenzia il contesto parentale fortemente compromesso della stessa ricorrente, atteso che il padre risulta contiguo alla cosca -OMISSIS- mentre il fratello dipendente dell’impresa, già destinataria di interdittiva antimafia nell’ agosto 2013, è stato raggiunto da diversi provvedimenti penali. Ed infine la sorella risulta attinta da provvedimenti penali relativi ad attività di gestione rifiuti non autorizzata, violazione di leggi ambientali ed in materia di edilizia.
Detto provvedimento viene impugnato adducendo molteplici censure, con le quali la ricorrente si duole dell’insanabile violazione di legge del provvedimento gravato che sarebbe stato adottato in assenza dei prescritti presupposti di legge. In più la ricorrente allega plurimi profili di illegittimità costituzionale e non conformità alla normativa EDU di alcune disposizioni del Codice antimafia, ed in particolare gli artt. 67, 89 bis, 92 e 94.
Il Collegio accoglie la domanda cautelare e successivamente, con sentenza non definitiva, respinge, ritenendoli non fondati, i motivi di ricorso dedotti dalla parte ricorrente, ivi comprese le diverse eccezioni di legittimità costituzionale e non conformità alla normativa EDU, ad eccezione della prospettata illegittimità costituzionale dell’art. 92 del D.lgs 159/2011 [4].
Con l’illegittimità de qua, viene evidenziata la disparità di trattamento tra i soggetti destinatari di una misura di prevenzione e quelli attinti da informazione antimafia interdittiva, che deriverebbe dal fatto che, soltanto per i primi, il comma 5 dell’art. 67 del Dlgs 159/2011 prevede che "le decadenze e i divieti previsti dal presente articolo possono essere esclusi dal giudice nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all'interessato e alla famiglia".
Invero, tale misura non è prevista in materia di interdittiva antimafia. La circostanza per la quale sia preclusa la possibilità di escludere le decadenze ed i divieti previsti, nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all'interessato ed alla sua famiglia, concretizzerebbe un’evidente ed irragionevole disparità di trattamento.
Dunque il Collegio reputa la questione dedotta rilevante considerando che l’attività aziendale costituisce l’unica fonte di reddito della famiglia della ricorrente e che, in mancanza di essa, non avrebbe la possibilità di mantenere quattro figli conviventi, di cui solo uno maggiorenne. Ulteriormente, per effetto del gravato provvedimento, si porrebbe la indifferibile necessità di licenziare otto dipendenti assunti con contratto a tempo pieno ed indeterminato i quali, considerato il periodo emergenziale, non troverebbero facilmente una nuova collocazione lavorativa.
Come detto, alla luce della normativa vigente, non possono essere presi in esame gli effetti che scaturirebbero dal provvedimento interdittivo, dal che consegue la rilevanza della prospettata questione di costituzionalità.
Difatti, laddove venisse accolta la questione di legittimità costituzionale sinteticamente prospettata, il giudizio si dovrebbe concludere con un esito opposto, in quanto la riconosciuta incostituzionalità della norma de qua determinerebbe, l’annullamento dell’informazione antimafia interdittiva adottata a carico della ricorrente dall’autorità prefettizia.
Sulla scorta di ciò, il Tribunale adito ritiene che la norma, per come formulata, non lasci margini per una sua eventuale lettura costituzionalmente orientata. Difatti essa non contempla affatto l’attribuzione all’autorità prefettizia del potere di valutazione discrezionale relativamente agli effetti del provvedimento emesso.
Per tali ragioni il il TAR di Reggio Calabria dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, del D.lgs. n. 159 del 2011, in relazione agli artt. 3, secondo comma, 4 e 24 della Costituzione, disponendo dunque la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
2. Sugli effetti del provvedimento interdittivo, sui contrasti con norme costituzionali e sul controllo giudiziario
Ordunque il Collegio, richiamando la natura «cautelare e preventiva» [5] delle interdittive antimafia [6], rileva che l’impossibilità per il Prefetto di esercitare i poteri previsti nel caso di adozione delle misure di prevenzione di cui all’art. 67 co 5 del D.lgs. n. 159 del 2011, possa concretizzare un’irragionevole violazione del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 co. 2 della Costituzione.
Difatti se si tiene in considerazione che le interdittive antimafia e le misure di prevenzione siano accomunate della medesima natura di provvedimenti idonei ad assicurare un’anticipata difesa della legalità e che sono altresì tenute al rispetto delle medesime conseguenze decadenziali previste dall’art. 67 del D.lgs. n. 159/2011 appare concreta la lamentata disparità di trattamento. Invero la mancata previsione del potere/dovere del Prefetto di vagliare gli eventuali effetti del provvedimento determina un vizio non giustificato data la natura univoca del provvedimento interdittivo e delle misure di prevenzione. Bisogna rilevare, a questo punto, che la prevenzione antimafia si muove ai confini dello Stato di diritto contenendo degli aspetti strutturali fortemente indeterminati. Seppur la mancanza di confini stringenti sia giustificata dalla ratio stessa dell’istituto, vi sono diversi profili che necessitano di una puntuale tipizzazione essendo doveroso garantire un bilanciamento degli interessi generali con gli interessi dei singoli e delle imprese, specialmente tenendo in considerazione la gravità delle conseguenze che incombono sui destinatari dei provvedimenti prefettizi [7].
È lo stesso Collegio a rammentare, in tale sede, che una questione simile posta all’attenzione dalla Corte Costituzionale [8] non fu oggetto di una pronuncia specifica poiché, contrariamente alla vicenda per cui è causa, l’argomento non veniva dedotto in modo autonomo lasciando spazio ad una eventuale determinazione positiva circa la questione di legittimità che prende forma in misura tale da rideterminare i confini del potere/dovere riconosciuto all’autorità prefettizia [9].
Ed altresì, secondo il Collegio giudicante, non rileva la temporaneità del provvedimento interdittivo come fattispecie idonea a legittimare la disparità di trattamento tra i destinatari di interdittiva antimafia e di misure di prevenzione [10], atteso che i conseguenti dodici mesi [11] di inattività appaiono un periodo ampiamente sufficiente a pregiudicare in modo definitivo qualsiasi attività di impresa, cagionando un vulnus evidente a chi da quell’attività trae i mezzi di sostentamento suoi e della sua famiglia. È chiara dunque la necessità, de iure concedendo, di ampliare lo spettro di attività del prefetto, chiamato non solo a tutelare l’interesse generale, ma anche l’interesse del destinatario del provvedimento prefettizio il quale non solo subirebbe il danno a livello personale ed imprenditoriale, ma andrebbe ad inficiare anche l’ambito familiare, che in particolare, nel caso de quo, coinvolgerebbe tre soggetti minori.
Per di più non può intendersi causa escludente della disparità lamentata il fatto che ai sensi dell’art. 34 bis comma 6 del D.lgs n. 159 del 2011, “Le imprese destinatarie di informazione antimafia interdittiva ai sensi dell'articolo 84, comma 4, che abbiano proposto l'impugnazione del relativo provvedimento del prefetto, possono richiedere al tribunale competente per le misure di prevenzione l'applicazione del controllo giudiziario di cui alla lettera b) del comma 2 del presente articolo…”. Difatti il controllo giudiziario sospende, medio tempore, gli effetti dell’interdittiva senza eliminarli e la sua applicazione è condizionata dall’impugnazione del provvedimento interdittivo. Tale intervento, dunque, non produce una eliminazione degli effetti conseguenti all’emissione del provvedimento prefettizio ma sospende gli stessi lasciando incerta la possibilità per il destinatario di trovarsi di lì a poco senza un effettivo mezzo di sostentamento per se e per la propria famiglia [12].
Difatti, il controllo giudiziario interviene quando il provvedimento interdittivo ha già, almeno in parte, dispiegato i suoi effetti e non riabilita l’impresa ma, al contrario, presuppone la sussistenza e la permanenza del detto provvedimento interdittivo [13]. E dunque, in nessun momento viene preso in considerazione il necessario bilanciamento degli interessi in gioco. La compressione dell’interesse individuale è certamente il sacrificio necessario al funzionamento dell’istituto ma la questione in oggetto valicando non solo l’interesse del singolo destinatario ma anche quello dei suoi familiari e dei soggetti terzi merita la doverosa attenzione del Giudice di legittimità.
Inoltre, per quanto attiene al profilo della lamentata violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione pare opportuno ricordare che la ragionevolezza delle leggi è corollario del principio di uguaglianza ed esige che le disposizioni normative contenute in atti aventi valore di legge siano congruenti al fine perseguito dal legislatore, con la conseguenza che sussiste la violazione di tale principio laddove, come nel caso di specie, pare possibile riscontrare una contraddizione tra disposizioni legislative ispirate alla tutela dell’interesse pubblico.
Altresì il Collegio adito ritiene che la questione di legittimità costituzionale va posta anche in relazione all’art. 4 della Costituzione. È evidente infatti che le conseguenze derivanti dall'adozione dell’informativa interdittiva [14], incidono in maniera pervasiva sull’attività svolta dai soggetti che ne sono colpiti, inibiti non solo ai rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione ma anche ad attività private, sottoposte a regime autorizzatorio, che possono essere intraprese su segnalazione certificata di inizio attività da parte del privato alla Pubblica amministrazione [15].
Dunque le conseguenze relative all’emissione del provvedimento interdittivo sono cospicue e si manifestano anche nei confronti di terzi, colpendo finanche i soggetti che lavorano presso l’impresa attinta dall’interdittiva ripercuotendosi dunque sull’esercizio di un diritto fondamentale quale il diritto al lavoro. Sul punto va evidenziato che tale diritto costituisce il fondamento della nostra Carta costituzionale.
In particolare non si rinviene la ragione per cui si debba garantire l’attività lavorativa ai detenuti, considerandola altresì come una componente essenziale del trattamento rieducativo [16], mentre non viene riconosciuta e dunque garantita allo stesso modo per i soggetti destinatari di un provvedimento di natura cautelare e preventiva, finalizzato, appunto, a prevenire un evento che non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, emesso da un’autorità amministrativa sulla base della regola causale del "più probabile che non"[17], e alla cui discrezionalità è rimessa l’attivazione dell’eventuale contraddittorio [18]. Dunque è innegabile che nell’adottare il provvedimento in questione, si debba considerare l’effettiva eventualità che esso vada a depauperare i mezzi di sostentamento derivanti dall’attività lavorativa che conseguentemente ed inevitabilmente viene meno [19].
3. Il diritto di difesa limitato dall’interdittiva o limite della stessa?
Orbene, la compiuta valutazione dei fatti posti alla base del giudizio circa l’annullamento del provvedimento interdittivo gravato, viene completata mediante l’audizione della parte interessata che solo nella fase giudiziaria ha la facoltà di presentare le proprie ragioni, integrando così il contradditorio. Ai fini di completezza anche in sede procedimentale, dovrebbe essere riconosciuto il diritto per i destinatari dell’interdittiva di una valutazione prefettizia preventiva circa gli effetti del provvedimento stesso. Difatti, la mancanza di una visione completa, o meglio ad ampio raggio, comporta, come nel caso in oggetto, una limitazione stringente di un diritto costituzionalmente garantito che pregiudica irrimediabilmente la sfera personale e familiare dei destinatari [20].
Per di più, si arriva a dubitare della compatibilità della disposizione in commento con il diritto della difesa di cui all’art. 24 Cost.. Difatti va rilevato preliminarmente che il procedimento finalizzato all’emissione dell’informazione antimafia alla luce della normativa vigente conosce soltanto l’interlocuzione eventuale, prevista dall’art. 93, comma 7, del D.lgs. n. 159 del 2011. Infatti il Prefetto competente al rilascio del provvedimento, solo ove lo ritenga necessario, sulla base della documentazione e delle informazioni acquisite, può invitare in sede di audizione personale i soggetti interessati a produrre ogni informazione utile [21]. Dunque anche questo aspetto è sottoposto, sic et simpliciter, alla piena discrezionalità del prefetto non prevedendo così un vero e proprio diritto dell’interessato ad intervenire in tale sede ma lasciando l’autorità competente libera di emettere il provvedimento senza un previo intervento del destinatario [22].
Da tanto considerato, bisogna concludere che se per un verso è evidente che, in alcune circostanze, “la discovery anticipata, già in sede procedimentale, di elementi o notizie contenuti in atti di indagine coperti da segreto investigativo o in informazioni riservate delle forze di polizia, spesso connessi ad inchieste della magistratura inquirente contro la criminalità organizzata e agli atti delle indagini preliminari, potrebbe frustrare la finalità preventiva perseguita dalla legislazione antimafia”[23], è anche vero, alla luce delle disparate conseguenze che gravano sugli operatori economici raggiunti dall’interdittiva, che precludere ai destinatari di detto provvedimento la possibilità di sottoporre all’autorità prefettizia le possibili conseguenze dello stesso, in termini di depauperamento dei mezzi di sostentamento suoi e della sua famiglia, si integra una violazione anche dell’art. 24 della Costituzione.
In conclusione va però rilevato che la Corte Costituzionale non è propensa all’applicazione del diritto di difesa al di fuori dei confini giurisdizionali non estendendo il pieno contenuto del dettato normativo al procedimento contenzioso di natura amministrativa. Ciò posto, non si devono escludere però gli eventuali riflessi, anche in altri ambiti, di detto diritto, rappresentando un valore inerente ai diritti inviolabili della persona [24].
Dunque l’interessante questione di legittimità posta all’attenzione del TAR Reggio Calabria è stata rimessa alla Corte Costituzionale. Quest’ultima avrà la possibilità di vagliare i motivi addotti ed intervenire garantendo, nel caso in cui riscontrasse effettivamente un vizio di legittimità della norma in oggetto, la tutela di diritti costituzionalmente garantiti che si trovano sul “piatto della bilancia” insieme all’interesse pubblico del contrasto alla Mafia.
[1] si rinvia per un’esaustiva quanto interessante disamina a M. Mazzamuto, Lo scettro alla prefettocrazia: l’infinita pervasività del sistema antimafia delle grandi opere ed il caso emblematico delle “filiere”, in Diritto dell’economia, 3-2013, pp.619
[2] si consenta il rinvio su diverse questioni relative ai provvedimenti prefettizi a R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’8 giugno 2020), in Questa rivista, 3 luglio 2020; C. Filicetti, Self cleaning e interdittiva antimafia (nota a Cons. St., Sez. III, 19 giugno 2020, n. 3945)
[3] imputato e detenuto per reati di mafia, accusato di svolgere il ruolo di capo-promotore-organizzatore della cosca operante in Catona - Arghillà - Villa San Giuseppe - Rosalì – Spontone.
[4] In tale sede appare necessario accennare un confronto tra la materia in oggetto e il sindacato del giudice amministrativo sulle ordinanze di sgombero connesse ai procedimenti di confisca. Anche in quest’ultima sede infatti è possibile rinvenire questioni di legittimità appartenenti allo stesso filone de quo. Riservandoci la possibilità di trattare accuratamente tale confronto si consiglia la complessa analisi di M. Mazzamuto, L’agenzia nazionale per l’amministrazione e la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalita’ organizzata, Diritto penale contemporaneo, 2015
[5] Consiglio di Stato sez. III, 09/09/2020, n.5416
[6] Cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 6 aprile 2018, n. 3
[7] si veda M. Mazzamuto, Pagamento di imprese colpite da interdittive antimafia e obbligatorietà delle misure anticorruzione, in Giurisprudenza Italiana, 2019
[8] Cfr. sentenza n. 57/2020
[9] M. Mazzamuto, Interdittive prefettizie: rapporti tra privati, contagi e giusto procedimento, in Giurisprudenza italiana, 2020
[10] Cfr. Corte Costituzionale con la sentenza n. 57/2020
[11] v. F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in giustamm, 6, 2018
[12] si consiglia per un approfondimento sull’interdittiva nel contesto costituzionale M. Mazzamuto, Profili di documentazione amministrativa antimafia, in giustamm, 2017
[13] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3268/2018
[14] v. A. M. Speciale, Interdittive antimafia tra vecchi confini e nuovi scenari, in giustizia-amministrativa, 2020.
[15] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 20 gennaio 2020 n. 452
[16] Cfr. Corte Costituzionale 532/2002
[17] M. A. Sandulli, Osservatorio sulla Giustizia Amministrativa, in Foro Amministrativo (Il), fasc.9, 1 settembre 2019, p. 1377
[18] si consenta il rinvio a R. Rolli M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979)
[19] v. M. Mazzamuto, Misure giurisdizionali di salvataggio delle imprese versus misure amministrative di completamento dell’appalto: brevi note sulle modifiche in itinere al codice antimafia, in diritto penale contemporaneo, 2016; ed ancora M. Mazzamuto, Il salvataggio delle imprese tra controllo giudiziario volontario, interdittive prefettizie e giustizia amministrativa, Sistema penale, fascicolo III, 2020
[20] sulla posizione dell’impresa raggiunta da interdittiva si consiglia M. Mazzamuto, Pagamento di imprese colpite da interdittiva antimafia e obbligatorietà delle misure antimafia, in Giurisprudenza italiana, 2019; di grande interesse anche M. Mazzamuto, Le interdittive prefettizie tra prevenzione antimafia e salvataggio delle imprese, Giurisprudenza italiana, 2018
[21] R. RUPERTI, Sul contraddittorio procedimentale in materia di informazioni antimafia, in Giur. it., 2020, 3
[22] comportando non solo “l’insuscettività (…) ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive che determinano (sul proprio cd. lato esterno) rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione” (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 6 aprile 2018, n. 3) ma anche come stabilito dal CdS: "ai sensi dell'art. 67, co. 1, lett. g) del d.lgs. n. 159/2011, è preclusa al soggetto colpito dall'interdittiva antimafia ogni possibilità di ottenere 'contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali', stante l'esigenza di evitare ogni esborso di matrice pubblicistica in favore di imprese soggette ad infiltrazioni criminali" (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. III, 4 marzo 2019, n. 1500; Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 6 aprile 2018, n. 3).
[23] Consiglio di Stato, sezione III, 31 gennaio 2020 n. 820
[24] Corte Costituzionale sentenza n. 128/1995
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