ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria (nota a Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136) di Michele Trimarchi
Sommario: 1. La vicenda e la ricostruzione del nesso di causalità. La prima questione sollevata – 2. La proposta di una rivisitazione del paradigma della responsabilità dell’amministrazione lungo due direttrici – 3. Prima direttrice. La riconduzione della responsabilità della pubblica amministrazione al modello della responsabilità contrattuale – 3.1. Il regime attualmente applicato dalla giurisprudenza e la sua sostanziale vicinanza a quello della responsabilità contrattuale – 3.2. Argomenti teorici a sostegno dell’adozione del modello della responsabilità contrattuale – 3.3. Conseguenze della piena applicazione del modello della responsabilità contrattuale – 4. Seconda direttrice. L’inquadramento della responsabilità contrattuale nell’ambito del rapporto di diritto pubblico – 4.1. Interesse legittimo e potere amministrativo nel rapporto di diritto pubblico – 4.2 Impatto dei caratteri del rapporto di diritto pubblico in punto di valutazione del danno evento e del danno conseguenza – 5. Le questioni sottoposte all’adunanza plenaria alla luce della proposta di revisione del paradigma della responsabilità civile della pubblica amministrazione – 6. Brevi considerazioni – 6.1. Sullo stile e la tecnica argomentativa – 6.2. Sull’inquadramento della proposta del C.g.a. nel perdurante dibattito sulla risarcibilità dell’interesse legittimo – 6.3. Sull’utilizzo di schemi privatistici per la ricostruzione della responsabilità della pubblica amministrazione.
1. La vicenda e la ricostruzione del nesso di causalità. La prima questione sollevata
Una impresa presenta istanza di autorizzazione unica ambientale per l’insediamento di un impianto fotovoltaico. Ottiene il rilascio della stessa solo in esecuzione di plurime sentenze che hanno accertato la formazione del silenzio-inadempimento sull’istanza e ordinato all’amministrazione di provvedere. La correlata richiesta di risarcimento del danno è dichiarata inammissibile dal T.a.r. Sicilia, ma la stessa è riproposta davanti al C.g.a. dal momento che, nelle more del rilascio dei provvedimenti autorizzatori, il legislatore ha sostanzialmente azzerato gli incentivi per gli impianti fotovoltaici, rendendo di fatto impossibile l’iniziativa imprenditoriale del ricorrente. Di qui la decisione di non provvedere con la realizzazione degli impianti e la conseguente richiesta risarcitoria in termini di danno emergente e soprattutto lucro cessante.
Osserva il C.g.a. che, applicando al caso di specie la teoria della c.d. condizionalità materiale – secondo la quale “la condotta umana è causa dell’evento se senza di essa (rectius, “con la condotta obbligatoria”) l’evento non si sarebbe verificato (formula positiva), mentre può ritenersi causalmente rilevante quando, senza di essa (con essa), l’evento si sarebbe verificato ugualmente (formula negativa)” –, l’amministrazione andrebbe considerata responsabile, in quanto senza la sua condotta omissiva (id est, con la condotta lecita) la lesione del bene della vita di cui la ricorrente è titolare non si sarebbe realizzata (essa avrebbe conseguito il finanziamento e avviato l’iniziativa imprenditoriale).
Nondimeno – rileva la sentenza in commento – la giurisprudenza è solita applicare correttivi al criterio della causalità materiale, al fine di evitare una incontrollata espansione dei risarcimenti a fattispecie nelle quali il danno è in realtà imputabile anche ad una c.d. concausa. A ciò mirano la teoria della causalità adeguata, la teoria della causalità umana e quella della imputazione obiettiva dell’evento[1].
Nel caso di specie, è vero che, se l’amministrazione avesse agito in tempo, l’aspettativa sostanziale dell’impresa sarebbe stata soddisfatta, ma è pur vero che, in concreto, quella aspettativa è frustrata non dalla inerzia degli uffici, ma dalla sopravvenienza normativa: se quest’ultima non fosse intervenuta, l’inerzia dell’amministrazione avrebbe potuto ledere soltanto il bene tempo, non l’aspettativa sostanziale (il c.d. bene della vita relativo all’an della iniziativa imprenditoriale)[2].
Da qui il dubbio del C.g.a. che la sopravvenienza, innescando un decorso causale atipico, sia da considerare interruttiva del nesso causale e quindi escluda la responsabilità dell’amministrazione. Ecco allora la prima questione sottoposta all’adunanza plenaria: “se il nesso di causalità della fattispecie risarcitoria di tipo omissivo sia interrotto o meno se, successivamente all’inerzia dell’Amministrazione su istanza pretensiva del privato, di per sé foriera di ledere il solo bene tempo, si verifica una sopravvenienza normativa che, impedendo al privato di realizzare il progetto al quale l’istanza era preordinata, determina la lesione dell’aspettativa sostanziale sottesa alla domanda presentata all’Amministrazione, che sarebbe stata comunque soddisfatta, nonostante l’intervenuta nuova disciplina, se l’Amministrazione avesse ottemperato per tempo”[3].
Il C.g.a. non manca di far trasparire la sua opinione: se si vuol evitare di pervenire alla conclusione, altrimenti ineluttabile, che la sopravvenienza normativa interrompe il nesso causale, l’unica soluzione possibile consiste nell’applicare la teoria dello scopo della norma violata (una variante della teoria della imputazione obiettiva dell’evento), alla cui stregua la condotta può considerarsi causa dell’evento “quando determina un evento che costituisca concretizzazione dello specifico rischio che la norma […] mira a prevenire”[4]. A questo proposito il C.g.a. osserva che l’obbligo di concludere il procedimento entro il termine previsto dall’art. 2 della l. n. 241/1990 non rappresenta un “mero canone generale dell’attività amministrativa”, bensì una precetto nel cui scopo rientra “la finalità di evitare le vicende normative che intervengono sul bene della vita finale nel periodo di inottemperanza dell’amministrazione”. Su queste premesse, il mancato rispetto dei termini di conclusione del procedimento può essere considerato causa del danno lamentato dalla ricorrente, in quanto col suo ritardo l’amministrazione ha esposto il privato al rischio che la norma violata intendeva scongiurare[5].
2. La proposta di una rivisitazione del paradigma della responsabilità dell’amministrazione lungo due direttrici.
Individuata la prima questione da sottoporre all’adunanza plenaria, il C.g.a. propone una ricostruzione alternativa del sistema della responsabilità civile della pubblica amministrazione, largamente sovrabbondante rispetto alla decisione del caso di specie, ma comunque rilevante per la stessa in quanto nell’ambito di tale ricostruzione alternativa anche la questione della sopravvenienza riceve una sistemazione diversa da quella sin qui presa in considerazione.
La ricostruzione alternativa che il C.g.a. sottopone alla adunanza plenaria si articola lungo due direttrici: la qualificazione della responsabilità dell’amministrazione come responsabilità contrattuale e il riconoscimento di un ruolo decisivo nella fattispecie risarcitoria ai caratteri del rapporto giuridico di diritto pubblico.
Più esattamente, secondo il C.g.a. la responsabilità della pubblica amministrazione per l’esercizio, o il mancato esercizio, dei poteri autoritativi alla medesima intestati è assimilabile alla responsabilità contrattuale, e gli effetti di tale inquadramento si devono apprezzare “in relazione al rapporto di diritto pubblico sotteso alla nascita della obbligazione risarcitoria”[6].
3. Prima direttrice. La riconduzione della responsabilità della pubblica amministrazione al modello della responsabilità contrattuale.
3.1. Il regime attualmente applicato dalla giurisprudenza e la sua sostanziale vicinanza a quello della responsabilità contrattuale
Quanto alla qualificazione della responsabilità della pubblica amministrazione come responsabilità contrattuale, il C.g.a., dopo aver richiamato i noti orientamenti della Corte di Cassazione in questa direzione[7], osserva che la giurisprudenza amministrativa, malgrado si attenga sul piano teorico al modello della responsabilità extra contrattuale, ha ormai delineato un regime derogatorio rispetto a quel modello, tanto che “le modalità pratiche attraverso le quali vengono scrutinati i requisiti della fattispecie risarcitoria avvicinano la suddetta responsabilità alla categoria della responsabilità contrattuale, prima e senza che tale assimilazione venga sancita a livello teorico”[8].
Ed infatti:
a) gli oneri di allegazione e di prova a carico del cittadino non differiscono, “quanto a portata e a difficoltà integrativa”, dagli oneri del contraente che si assume leso dall’inadempimento della controparte. In entrambe le fattispecie, fatti salvi casi particolari, è sufficiente la dimostrazione dell’inadempimento (contrattuale o alle regole procedurali) e la prova della esistenza della situazione giuridica soggettiva (credito o interesse legittimo);
b) quanto alla dimostrazione dell’elemento soggettivo, essa è fornita con la semplice allegazione della illegittimità del provvedimento amministrativo, la quale integra una presunzione semplice in ordine alla colpa dell’amministrazione; mentre, nella materia degli appalti, la prova dell’elemento soggettivo non è proprio richiesta. Tutto ciò “imprime un connotato oggettivo ad un requisito per definizione soggettivo quale quello della colpa”. La responsabilità è ascritta all’amministrazione secondo un criterio oggettivo, tipico del regime della responsabilità contrattuale;
c) quanto ai rapporti tra tutela per equivalente ed in forma specifica, il C.g.a. osserva che, a fronte del danno arrecato dall’esercizio o dal mancato esercizio del potere pubblico, “la giurisprudenza accorda prevalenza allo svolgimento e alla rinnovazione dell’attività amministrativa rispetto al risarcimento per equivalente”, nel senso che la sentenza del giudice (di condanna o di annullamento, in questo caso attraverso l’effetto conformativo) impone all’amministrazione di provvedere, quindi di soddisfare “l’interesse specifico di cui è portatore il privato e, solo in seguito all’accertata impossibilità di provvedere in tal senso, è accordata la tutela risarcitoria per equivalente”. Pertanto, nella responsabilità dell’amministrazione non si riscontra quella sorta di preferenza per il risarcimento per equivalente rispetto al risarcimento in forma specifica che è tipica della responsabilità extracontrattuale, laddove la soddisfazione in forma specifica del danneggiato è subordinata alla valutazione di eccessiva onerosità per il debitore;
d) sul piano della funzione, la responsabilità della amministrazione risponde ad una logica meramente compensativa, analogamente alla responsabilità contrattuale. Alla responsabilità dell’amministrazione non è possibile riconoscere anche funzioni di deterrenza e sanzionatorie, che invece si riscontrano nella responsabilità extracontrattuale, in quanto ciò comporterebbe aggravi aggiuntivi di spesa pubblica[9]. “D’altro canto, la funzione afflittiva e di deterrenza è presidiata nei confronti dei dipendenti pubblici che concretamente agiscono”.
3.2. Argomenti teorici a sostegno dell’adozione del modello della responsabilità contrattuale
Per quanto sin qui visto, la riconduzione delle responsabilità della amministrazione. allo schema della responsabilità contrattuale, secondo il C.g.a., è già nelle cose. Ma il Collegio di questo non si accontenta e passa quindi a enucleare le ragioni teoriche che, a suo avviso, rendono preferibile la adesione al modello della responsabilità contrattuale[10].
La premessa è che la responsabilità contrattuale interviene nell’ambito di un rapporto (il rapporto obbligatorio) in cui gli “interessi in gioco hanno già trovato una loro regolamentazione quanto a misura e modalità di soddisfazione. Di conseguenza, l’inadempimento del debitore integra al contempo il non iure, essendo violativo della regola contrattuale, e il contra ius, essendo lesivo dell’interesse sotteso alla obbligazione”[11]. È per questo che è il danneggiato non ha altro onere che quello di allegare l’inadempimento.
Viceversa, la responsabilità extracontrattuale “interviene in ambiti dove la regolamentazione dell’interesse non è precedente al fatto dannoso”[12]. Di conseguenza, per configurare la responsabilità non basta che la condotta sia in spregio alla regola del neminem laedere (il che integra il requisito nel non iure), ma occorre verificare anche la meritevolezza dell’interesse e l’offesa arrecata a quest’ultimo (contra ius), nonché il relativo nesso di causalità.
Ora, la responsabilità dell’amministrazione presenta le caratteristiche della responsabilità contrattuale, in quanto sorge nell’ambito di un rapporto giuridico (di diritto pubblico) nel quale “sono indicate le norme di condotta che l’Ente deve osservare”: sicché, “violando le regole dell’azione amministrativa e del provvedimento, la parte pubblica ignora norme ben più precise e circostanziate del generico dovere di neminem laedere”[13].
La violazione di queste regole “integra […] il requisito del non iure senza soluzione di continuità” e, dando luogo ad un uso illecito del potere, si traduce automaticamente nell’offesa della situazione giuridica del privato, poiché il potere pubblico costituisce lo strumento a disposizione del titolare dell’interesse legittimo per soddisfare il bene della vita a cui aspira.
In sostanza, nella responsabilità dell’amministrazione non iure e contra ius coincidono esattamente come nell’inadempimento del debitore nell’ambito del rapporto obbligatorio; coincidono, nel senso che entrambi i requisiti sono soddisfatti nel momento in cui l’amministrazione viola una regola di condotta, protettiva dell’interesse legittimo[14].
3.3. Conseguenze della piena applicazione del modello della responsabilità contrattuale
Le novità che questo inquadramento comporta rispetto all’assetto consolidato della giurisprudenza, che per molti versi è già assimilabile al regime della responsabilità contrattuale, sono essenzialmente due, e il C.g.a. è interessato soprattutto alla seconda[15].
La prima è che, per ottenere il risarcimento, si impone la previa costituzione in mora dell’amministrazione, che cessa di essere ex re, come è nella responsabilità extracontrattuale.
La seconda è “l’applicabilità del canone della prevedibilità del danno (art. 1225 c.c.), nel senso che, in caso di colpa, è risarcibile solo il danno prevedibile al momento in cui è sorta l’obbligazione”.
Nei rapporti interprivati questa limitazione ha la funzione di mettere le parti in condizione di predefinire il rischio connesso alle reciproche prestazioni e quindi di calcolare il valore delle stesse soppesando le conseguenze di un eventuale inadempimento.
La prevedibilità del danno come criterio limitativo della responsabilità è strumento congeniale anche alla amministrazione, in considerazione del principio per cui essa essa deve attendere agli interessi pubblici con una efficiente organizzazione delle risorse a sua disposizione. Ed infatti, la circostanza di non poter essere chiamata a rispondere dei danni imprevedibili la mette nelle condizioni di soppesare le conseguenze delle proprie azioni, comprensive anche di eventuali esborsi conseguenti a responsabilità[16].
4. Seconda direttrice. L’inquadramento della responsabilità contrattuale nell’ambito del rapporto di diritto pubblico
4.1. Interesse legittimo e potere amministrativo nel rapporto di diritto pubblico
L’altra direttrice su cui si articola lo sforzo teorico del C.g.a. consiste nell’inquadramento della responsabilità dell’amministrazione, come responsabilità contrattuale, nell’ambito del rapporto di diritto pubblico sotteso alla obbligazione risarcitoria[17].
Qui il C.g.a. offre una puntuale ricostruzione dell’interesse legittimo, definito come la “pretesa del privato a che l’Amministrazione faccia quanto l’ordinamento giuridico le consente per soddisfare le esigenze sostanziali, meritevoli di tutela, di cui è portatore (il c.d. bene della vita)”[18].
Esso è la risultante della “imposizione di limiti agli ambiti di intervento pubblico e di regole finalizzate a considerare la posizione e l’esigenza dei destinatari dell’azione pubblica”; regole, comprensive di obblighi comportamentali, che peraltro sono poste anche a presidio dell’amministrazione.
Secondo la definizione che ne è data, l’interesse legittimo è strumentale alla soddisfazione di una situazione sottostante, detta situazione di base, che può avere consistenza di diritto costituzionalmente protetto, diritto soggettivo, diritto potestativo, aspettativa, situazione di fatto meritevole di tutela[19].
La situazione di base è dunque una situazione esterna, diversa dall’interesse legittimo; ma il collegamento di strumentalità di quest’ultimo alla prima è elemento costitutivo dell’interesse legittimo medesimo, in quanto “non vi è riconoscimento di interesse legittimo se non in quanto il titolare abbia, in base all’ordinamento giuridico, la chance di ottenere la soddisfazione della pretesa sostanziale”[20].
Di conseguenza, non può ritenersi che l’interesse legittimo abbia quale unico contenuto le prerogative procedimentali di partecipazione al procedimento in quanto esse, neppure ”in potenza” sono idonee a offrire soddisfazione all’esigenza del privato”; esigenza che può invece trovare soddisfazione soltanto attraverso l’esercizio del potere pubblico, il quale pertanto costituisce il contenuto dell’interesse legittimo, in quanto “unica risorsa a disposizione del privato per ottenere soddisfazione piena in forma specifica”[21].
Se il collegamento con la situazione di base è requisito dell’interesse legittimo, l’interesse legittimo d’altra parte non assicura la soddisfazione della pretesa sostanziale, poiché essa potrebbe rimanere insoddisfatta pur nel rispetto dei doveri di comportamento del soggetto pubblico. Ciò dipende dal fatto che “l’interesse sostanziale al bene della vita del privato è tutelato compatibilmente con gli altri interessi, pubblici e privati, che l’Amministrazione è tenuta a considerare”. Infatti “la persona giuridica pubblica è connotata proprio dal fatto che il suo statuto soggettivo è fisiologicamente permeato dalla pluralità di interessi da perseguire e bilanciare e financo, in caso di interesse pubblico, da individuare nella loro compiuta conformazione”[22].
4.2. Impatto dei caratteri del rapporto di diritto pubblico in punto di valutazione del danno evento e del danno conseguenza
Rispetto al tema della responsabilità, il C.g.a. sottolinea che il rapporto di diritto pubblico è caratterizzato da un “coacervo di interessi” privati e pubblici, all’interno del quale l’amministrazione occupa una “difficile posizione”, essendo “per natura […] esposta a un rischio elevato di volare situazioni giuridiche soggettive”[23].
Questa caratteristica del rapporto comporta che nel giudizio di accertamento del danno evento debbano trovare applicazione i principi di tolleranza e solidarietà, alla stregua dei quali la lesione dell’interesse legittimo, che scaturisce automaticamente dalla condotta illecita dell’amministrazione (come abbiamo visto, non iure e contra ius coincidono e sono integrati dalla violazione della regola di condotta), può dar luogo a risarcimento solo se la posizione complessiva del privato sia stata “incisa, al pari di quanto accade per il danno non patrimoniale, oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio”[24].
“Ne deriva che difficilmente può ottenere tutela, già nella fase dello scrutinio del danno evento, la violazione di meri canoni procedurali che non corrispondono, attraverso l’interesse legittimo, a una violazione della situazione di base”. Al contrario, il danno evento si configura solo ove la condotta dell’amministrazione “colpisca in modo serio l’interesse legittimo, intersecando la situazione di base”, il che “si verifica quando la fondatezza della pretesa sostanziale è accertata da un provvedimento amministrativo (come nel caso di specie) o da una pronuncia giurisdizionale”; per quanto non si escluda che, “in determinate situazioni di particolare gravità dell’offesa, possano trovare tutela situazione di base non meritevoli di essere soddisfatte dal potere pubblico”[25].
Sotto il profilo del danno conseguenza, le caratteristica del rapporto – ovvero la presenza di un “composito insieme di interessi coinvolti dall’attività amministrativa” – comporta che nel giudizio di responsabilità si debba tenere presente non soltanto la posizione della vittima, ma anche quella delle “ulteriori soggettività coinvolte nell’azione di amministrazione attiva e della stessa Amministrazione, in quanto portatori di interessi meritevoli di tutela”. In particolare, per quanto riguarda la posizione dell’amministrazione, va tenuto presente che, in ragione della scarsità delle risorse dell’erario, “l’uso dei mezzi finanziari per risarcire il danneggiato drena denaro pubblico dalle funzioni che deve perseguire per legge” e che il giudizio di ottemperanza è capace di assicurare un livello di tutela maggiore a tutti gli interessi coinvolti, a fronte di un minor dispendio di risorse.
Occorre considerare “in ultima analisi, gli interessi pubblici intestati all’Amministrazione, già offesi dalla condotta illecita congiuntamente all’interesse privato di cui si chiede la riparazione, subiscono un ulteriore conseguenza sfavorevole dall’adempimento dell’obbligo risarcitorio, specie allorquando lo Stato, inteso in senso complessivo, è fortemente indebitato e il costo del debito è superiore al tasso di crescita del PIL”[26].
Conclusivamente, se le novità derivanti dalla applicazione piena del regime della responsabilità contrattuale consistono nella applicazione del criterio della prevedibilità del danno, nei termini visti, “le novità giurisprudenziali che derivano dalla considerazione attribuita al rapporto di diritto pubblico nell’ambito della nascita dell’obbligazione risarcitoria attengono al rigoroso scrutinio richiesto al fine di valutare il danno evento e il danno conseguenza”[27].
5. Le questioni sottoposte all’adunanza plenaria alla luce della proposta di revisione del paradigma della responsabilità civile della pubblica amministrazione.
La seconda questione che il C.g.a. sottopone alla plenaria è se il paradigma proposto (incentrato sulla natura contrattuale della responsabilità e sulla teoria del rapporto di diritto pubblico) sia da accogliere, con le conseguenze illustrate in punto di applicazione del criterio di prevedibilità e quantificazione del danno[28].
In caso di risposta positiva, con la terza questione il C.g.a. chiede se la sopravvenienza normativa vada presa in considerazione a proposito della prevedibilità del danno o della quantificazione dello stesso. Nel primo caso, la sopravvenienza normativa escluderebbe la responsabilità della pubblica amministrazione in quanto essa non è imputabile all’amministrazione[29].
Nel secondo caso, cioè ove la sopravvenienza andasse presa in considerazione a proposito della quantificazione del danno, si dovrebbe tener conto di quanto visto a proposito del particolare rigore con cui i danni devono essere apprezzati nell’ambito del rapporto di diritto pubblico.
In particolare, andrebbe considerato che il ritardo dell’amministrazione nel provvedere, sia pur integrando una condotta illecita, “si è risolto nel soddisfacimento in massimo grado dell’interesse (nuovo) fatto proprio dal Legislatore e sfociato nella norma primaria preclusiva alla incentivazione”. Stando così le cose, il ristoro de danno lamentato della ricorrente non può che arrestarsi “al momento in cui fa ingresso il factum principis”, altrimenti “verrebbe tutelata una […] posizione contrastante con l’interesse primario come determinato dall’assetto di interessi rinnovato dal Legislatore, specie in ragione della scarsità delle risorse pubbliche (che quindi verrebbero indirizzate verso un interesse non più attuale a discapito di esigenze attuali”[30].
In altre parole, i danni “verificatesi dopo che l’ordinamento nel suo complesso non ha ritenuto più meritevole di tutela l’interesse leso” non andrebbero risarciti in quanto “costituirebbe inspiegabile antinomia” quella per cui l’amministrazione “debba rispondere di danni cagionati al privato istante per avere (con la propria colposa inerzia) cagionato l’evento “voluto” – seppure ex post rispetto al momento in cui la stessa avrebbe dovuto deliberare – dal legislatore”[31].
In ogni caso, con la formulazione della quarta questione (“se debba o meno essere riconosciuta la responsabilità della Regione per il danno da mancata vendita dell’energia nei termini, anche probatori sopra illustrati”) il C.g.a. propone di distinguere tra il danno da mancata percezione dell’incentivo, che sarebbe liquidabile, dal danno da mancata vendita dell’energia. Di quest’ultimo l’amministrazione non potrebbe essere ritenuta responsabile poiché la particolare natura dell’interesse legittimo “impedisce il risarcimento del danno afferente alle libere scelte imprenditoriali, anche se è provato che le conseguenze dannose prodotte sul versante imprenditoriale abbiano quale fonte la condotta dell’ente, in quanto la lesione dell’interesse legittimo da parte dell’amministrazione col provvedimento tardivo “interviene soltanto sulla portata pubblicistica dell’interesse del privato”[32].
Secondo il C.g.a. la teoria del rapporto di diritto pubblico ha riflessi sul regime della responsabilità dell’amministrazione, e in particolare sulla quantificazione del danno anche se non si accogliesse la tesi della natura contrattuale della responsabilità. Da qui le ulteriori questioni sollevate, la quinta e la sesta, presentati in via subordinata per il caso che l’adunanza plenaria non condividesse la qualificazione della responsabilità come r. contrattuale[33].
Con la quinta questione sollevata si chiede se, malgrado l’applicazione del regime della responsabilità aquiliana, si possa sollevare l’amministrazione dalla responsabilità per i danni derivanti dalla sopravvenienza normativa in quanto trattasi di fatto imprevedibile. In caso di risposta negativa, si domanda se ciò non sia incompatibile con l’art. 81 comma 3, Cost., atteso che un’azione risarcitoria svincolata dal parametro del danno prevedibile “comporterebbe un aggrazio ed una imprevedibilità di costi, impedendo una corretta programmazione della spesa pubblica”.
6. Brevi considerazioni
6.1. Sullo stile e la tecnica argomentativa
Un primo ordine di considerazioni che la lettura della sentenza suscita attiene allo stile e alla tecnica argomentativa utilizzata.
Si deve al riguardo premettere che, per precise ragioni storiche, nel nostro ordinamento “non esiste un autentico stylus sententiae”, per cui in linea di massima la tecnica argomentativa è rimessa “alla prudenza dell’estensore”[34]. Detto questo, non si può non rilevare che la sentenza in commento integra a tutti gli effetti il modello della sentenza-trattato dottrinale additato da Gorla. Essa testimonia l’estesa cultura giuridica dell’estensore, mostra l’apertura del giudice amministrativo alle esperienze degli altri settori dell’ordinamento, denota una spiccata sensibilità al confronto con le impostazioni della dottrina. Nondimeno, la motivazione è prolissa e sovrabbondante nelle argomentazioni e nelle dissertazioni in diritto, contiene numerosi obiter dicta, spesso indugia su considerazioni di carattere generale, talora inconferenti rispetto alle stesse pretese di rifondazione dogmatica dell’istituto che muovono il C.g.a.. In breve, non sembra sia stata tenuta a mente “la regola aurea che la chiarezza e l’incisività espositiva è data anzitutto dall’economia espositiva”, tanto che il lettore è chiamato a un notevole impegno per ricostruire “l’ordine degli argomenti, la loro coesione”[35].
È dubbio quanto una siffatta motivazione sia conforme all’art. 3 del codice del processo amministrativo, per il quale (comma secondo) “Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica, secondo quanto disposto dalle norme di attuazione”[36]: come è stato osservato, il fatto che tale precetto abbia trovato specificazione in un Decreto del Presidente del Consiglio di Stato solo per i “ricorsi e […]gli altri atti difensivi”, cioè solo per le parti[37], “non degrada per il giudice il precetto a suggerimento e non lo esime dal dovere di sinteticità, pur in assenza di quelle regole analitiche: come al rispetto, insieme a quello, del parallelo e complementare dovere di chiarezza […]”[38].
Del resto, le sentenze-trattato suscitano perplessità anche alla luce di considerazioni più profonde, di cui la stessa dottrina togata, nelle sue massime espressioni, si è fatta raffinato interprete. Il punto essenziale è che la sentenza-trattato “tende a perdere la sua configurazione come tale”[39] in quanto si preoccupa “di argomentare e di divagare, invece che adempiere al compito proprio del giudice, che è quello di decidere”[40]. È stato ricordato in proposito che “La sentenza è la sede formale ove la legge viene portata a compimento, cioè, ove la regola è attuata e la disposizione diviene norma. La chiarezza della sentenza è essenziale, quindi, sia per la sua funzione endoprocessuale, cioè per la comprensione delle parti della soluzione del caso, sia per quella extraprocessuale di precedente giurisprudenziale che indica come la fonte normativa si attua. La tendenziale uniformità di interpretazione della legge, nelle sue funzioni di certezza del diritto (prevedibilità delle conseguenze di un comportamento), eguaglianza dei soggetti di fronte alla legge (eguale applicazione della legge in eguale situazione), unità del diritto dello Stato (eguale applicazione della legge da parte dei giudici), ha un suo presupposto necessario nella chiarezza e comprensibilità della sentenza. Chiarezza e comprensibilità della sentenza sono anche indici della qualità della democrazia dell’ordinamento”[41].
A fronte di tutto ciò è vero che “lo spostamento del sindacato giudiziario dall'atto al rapporto, la complessità e l'apertura degli ordinamenti giuridici, la trasparenza nei rapporti tra cittadino e amministrazione in una rinnovata visione del procedimento sono tutti fattori che tendono a rendere più complessa, e quindi anche più “lunga” la sentenza amministrativa, rispetto a un rigido e semplice modello impugnatorio del relativo giudizio”[42]. Nella valutazione del caso di specie si deve anche considerare che, per definizione, le sentenze di rimessione alla adunanza plenaria ai sensi dell’art. 99 c.p.a. non risolvono una controversia, ma sollevano questioni di diritto; e che presupposti di queste pronunce sono la complessità e l’incertezza del quadro giuridico di riferimento, nonché la presenza di indirizzi giurisprudenziali contrastanti. Per queste ragioni si può certamente comprendere l’esigenza della sezione rimettente di approfondire i profili in diritto della motivazione – il che, del resto, è utile agli operatori del diritto per “cogliere gli orientamenti culturali del giudice in un dato momento storico”[43] –, ma non perciò avallare uno scostamento significativo dal modello letterario di riferimento per gli atti del potere giudiziario, considerato che “Lo stile espositivo della motivazione è intrinseco alla connotazione giuridica della sentenza e la sentenza si imputa tutta allo Stato, con cui il magistrato è in rapporto di servizio e non di mandato. Lo stile pertanto deve corrispondere alle esigenze proprie dell’atto. Non è appannaggio autonomo e indefinito della poietikè téchne dell’estensore. Il tema della motivazione della sentenza e dell’inerente tecnica di redazione si inserisce così nel tema generale della qualità della risposta di giustizia”[44].
Per esser chiari, al C.g.a. sarebbero probabilmente bastate meno parole per sollevare la questione in ordine alla riconducibilità della responsabilità della pubblica amministrazione al modello della responsabilità contrattuale, in considerazione della relazione procedimentale che sussiste tra amministrazione e privato e che non consente di qualificare il secondo come semplice “passante”. Anche le implicazioni di questo inquadramento – o quelle che il C.g.a. ritiene esser tali – avrebbero potuto essere individuate con maggiore sintesi, ad esempio tramite il riferimento puntuale ai diversi elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria. Quanto infine alle esigenze di tutela della casse pubbliche, che pervadono l’intero apparato argomentativo della sentenza, forse sarebbe stato preferibile limitarsi a segnalarne la serietà, senza spingersi nel tentativo di ammantarle di argomenti giuridici che introducono elementi spuri nell’ambito dell’istituto della responsabilità civile dell’amministrazione.
6.2. Sull’inquadramento della proposta del C.g.a. nel perdurante dibattito sulla risarcibilità dell’interesse legittimo
In secondo luogo, possiamo domandarci come la posizione del C.G.A. si collochi nell’ambito dell’attuale dibattito giurisprudenziale e dottrinale sul risarcimento dei danni per lesione dell’interesse legittimo.
Nell’argomentare la natura contrattuale della responsabilità dell’amministrazione, il C.g.a. sostiene con chiarezza che la violazione di una norma procedimentale (regola di condotta) integra contestualmente, come è proprio di quel modello di responsabilità, il requisito del non iure e del contra ius. Per il C.g.a., quindi, la violazione della regola di condotta è di per sé lesiva dell’interesse legittimo ed è sufficiente a determinare la responsabilità dell’amministrazione.
La ricostruzione così proposta si discosta da quella operata dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza n. 500 del 1999, secondo cui la condotta non iure non è sufficiente a esporre l’amministrazione alla responsabilità (extracontrattuale), occorrendo in aggiunta la c.d. lesione del bene della vita, che sussiste quando l’amministrazione abbia illegittimamente sottratto un bene della vita già appartenente al patrimonio giuridico del danneggiato (interesse oppositivo), oppure quando sia accertato tramite il giudizio prognostico che al privato spettasse il provvedimento richiesto (interessi pretensivi). Il distacco dallo schema prospettato dalla sentenza 500 si coglie proprio nel fatto che il C.g.a. non fa menzione del giudizio prognostico sulla spettanza del bene finale come requisito della fattispecie, quasi a dire che l’obbligazione risarcitoria dell’amministrazione si perfeziona a prescindere da una valutazione di questo tipo.
Ora, si deve considerare che, secondo autorevole dottrina, la sentenza n. 500 del 1999 finiva per negare ciò che programmaticamente affermava, ovvero la risarcibilità dell’interesse legittimo: ammettere il risarcimento del danno solo quando la violazione della regola di condotta comporta il pregiudizio al c.d. bene della vita significa, infatti, considerare risarcibile non l’interesse legittimo in sé, bensì il diritto estinto dal provvedimento negativo, ed eventualmente riemerso dopo l’annullamento (si dice eventualmente, stante la proponibilità anche in via autonoma dell’azione risarcitoria, caduta la pregiudizialità amministrativa)[45], o la aspettativa del cittadino preesistente al provvedimento di diniego (se non, addirittura, il diritto al provvedimento favorevole)[46]. La vera e propria responsabilità per lesione dell’interesse legittimo, secondo questa diversa impostazione, che ha trovato qualche eco nella giurisprudenza[47], trae origine nel contatto tra amministrazione e privato all’interno del procedimento e scaturisce dalla violazione della regola di condotta da parte dell’amministrazione. Essa prescinde dalla c.d. spettanza del bene finale e si aggiunge alla responsabilità derivante dalla lesione del diritto soggettivo o della aspettativa ingiustamente sacrificati dall’esercizio dell’azione amministrativa[48]. Non mancano peraltro voci autorevoli secondo cui la situazione giuridica che beneficerebbe del risarcimento in ragione della violazione della regola procedimentale da parte dell’amministrazione sarebbe non l’interesse legittimo, bensì una situazione diversa, denominata interesse procedimentale[49] o diritto procedimentale[50].
La ricostruzione proposta dal C.g.a. riecheggia questo modello di responsabilità – che potremmo qui definire responsabilità da violazione della regola procedimentale, senza indugiare sul dibattito in ordine alla natura di diritto soggettivo o interesse legittimo della situazione protetta dalla regola procedimentale[51] -, ma sostanzialmente se ne discosta. Lo riecheggia perché, come si è visto, la violazione della regola di condotta è ritenuta sufficiente ad integrare la fattispecie della responsabilità contrattuale, dove non iure e contra ius coincidono senza soluzione di continuità. Se ne discosta, tuttavia, perché secondo il C.g.a. la quantificazione del danno da risarcire deve essere comunque condotta in relazione alla situazione di base, alla quale l’interesse legittimo è strumentale: al punto che se la lesione della prima non è seria, il risarcimento può essere azzerato.
In altre parole, nella logica proposta dalla sentenza in commento, la responsabilità dell’amministrazione deriva dalla semplice violazione procedimentale (che integra lesione dell’interesse legittimo), ma in pratica il risarcimento può essere riconosciuto solo se sia stata lesa dall’amministrazione anche la situazione sottostante (alla quale l’interesse legittimo è strumentale)[52]. Per la giurisprudenza amministrativa, la violazione della regola procedimentale rimane non sufficiente a generare la responsabilità dell’amministrazione: a ben guardare, il risarcimento continua a riguardare soltanto quella che il C.G.A. denomina situazione di base, diritto soggettivo o aspettativa.
Il distacco dal modello di responsabilità tracciato dalla sentenza 500 sotto questo importante profilo è più apparente che reale; ed anzi si può registrare un passo indietro, perché se quella sentenza applicava un criterio di selezione normativa dei danni risarcibili ben preciso, ancorché criticabile quanto si voglia, rappresentato dal giudizio prognostico[53], la pronuncia in commento sembra rimettere al prudente e soggettivo apprezzamento del giudice se il danno inferto all’interesse legittimo sia serio, tale essendo quando interseca la situazione di base, o non sia serio, tale essendo quando esaurisce la sua rilevanza sul piano procedimentale.
Quel che invece sembra doversi riscontrare è la distanza che attualmente intercorre tra l’orientamento del giudice amministrativo, sostanzialmente confermato dalla sentenza in commento, e quello della Corte di cassazione. Il primo collega la fattispecie risarcitoria alla lesione dell’interesse al bene della vita: e tendenzialmente esclude la responsabilità da mero comportamento, fatta eccezione per significative aperture nell’ambito della fase terminale delle procedure di scelta del contraente, in virtù della assimilazione di questa fase alle trattative pre-negoziali[54], La Corte di Cassazione invece ammette la responsabilità da mero comportamento, cioè una responsabilità che si configura a prescindere dalla lesione del bene della vita, e che deriva dalla violazione del principio di correttezza nell’ambito del procedimento[55]. Si può certamente discutere, e molto si discute, se sia esatto qualificare come diritto soggettivo la situazione giuridica fatta valere nei confronti del comportamento procedimentale scorretto, e dunque la sussistenza della giurisdizione amministrativa su questo tipo di vertenze[56]. Ma si deve riconoscere che la responsabilità dell’amministrazione da mero comportamento illecito, riconosciuta dalla giurisprudenza civile, dà luogo ad una tutela risarcitoria allo stato non pienamente attingibile davanti al giudice amministrativo.
6.3. Sull’utilizzo di schemi privatistici per la ricostruzione della responsabilità della pubblica amministrazione
Le ultime brevi considerazioni concernono l’utilizzo di schemi privatistici nell’ambito diritto amministrativo, con particolare riferimento all’istituto della responsabilità.
La riconduzione della responsabilità dell’amministrazione al modello della responsabilità contrattuale e il continuo riferimento a categorie privatistiche da parte del C.g.a. sono testimonianza dello sforzo di costruire un regime unitario della responsabilità dell’amministrazione, unitario nel senso di applicabile indipendentemente dal giudice munito di giurisdizione sulla singola controversia[57].
Tuttavia nelle argomentazioni del C.g.a. si possono riscontrare alcune forzature.
Ad esempio, non corrisponde allo stato delle cose che gli oneri di allegazione e prova del danno a carico del cittadino siano uguali a quello del creditore che subisce l’inadempimento nell’ambito del rapporto obbligatorio. Sotto questo profilo è una forzatura affermare che il regime attualmente applicato alla responsabilità dell’amministrazione sia quello della responsabilità contrattuale.
Parimenti, l’osservazione che la giurisprudenza amministrativa accorda il risarcimento per equivalente solo quando è materialmente impossibile la tutela dell’interesse in forma specifica tramite la riedizione del potere, pur in sé esatta, non dimostra affatto la generale preferenza per la tutela in forma specifica nell’ambito della responsabilità dell’amministrazione – il che, secondo il C.g.a. sarebbe un motivo di assimilazione alla responsabilità contrattuale – , poiché delle due l’una: o tale affermazione viene riferita ai rapporti tra le azioni (e quindi tra la tutela costitutiva e quella risarcitoria), cioè a un tema più esteso e comunque diverso da quello rappresentato dall’alternativa tra risarcimento in forma specifica o per equivalente[58]; oppure viene riportata all’ambito proprio della responsabilità, riferendosi in questo caso ad una ipotesi specifica, quella della monetizzazione dell’obbligo di esecuzione[59], dalla quale, per quanto significativa[60], non si possono trarre indicazioni sull’assetto generale della responsabilità civile dell’amministrazione e sui rapporti tra tutela risarcitoria per equivalente e in forma specifica.
Ancora più perplessi lascia l’interpretazione molto lata del requisito della prevedibilità del danno; nonché la tesi secondo cui la limitazione della responsabilità al danno prevedibile, e il particolare rigore nella quantificazione del pregiudizio risarcibile, troverebbero una sponda nello statuto costituzionale dell’amministrazione e in particolare nel principio dell’equilibrio di bilancio (art. 81 Cost): molto discutibilmente convertito da regola di garanzia per le generazioni future in regola a presidio di un debitore speciale[61].
Ma al di là di questi e ulteriori aspetti particolari, sui quali non si può qui indugiare, all’osservatore non può sfuggire un dato di carattere generale, ovvero che la qualificazione della responsabilità dell’amministrazione come responsabilità contrattuale e l’insistenza sulla dimensione relazionale dell’attività procedimentale si risolvono entrambe in una limitazione ulteriore delle già oltremodo ristrette vie del risarcimento dei danni nei rapporti di diritto pubblico: conseguenza del carattere contrattuale della responsabilità è infatti che l’amministrazione non risponde dei danni imprevedibili; mentre conseguenza dell’applicazione di questi schemi nel rapporto di diritto pubblico è una quantificazione oltremodo stringente del danno risarcibile, che spesso ne giustifica l’azzeramento.
In prospettiva emerge quindi la pressante esigenza di evitare forzature degli istituti privatistici in danno al cittadino, esigenza che si aggiunge a quella di evitare il consolidamento in punto di responsabilità della pubblica amministrazione di “due costruzioni del sistema tra loro divergenti, dovute rispettivamente alla Cassazione e al Consiglio di Stato, a seconda che il danno lamentato sia o meno riconducibile all’esercizio di un potere”[62].
Se il giudice amministrativo intende incamminarsi con convinzione nella costruzione di un regime della responsabilità dell’amministrazione improntato agli schemi civilistici, regime che coesiste con gli ambiti attualmente riconosciuti alla giurisdizione civile in questa materia, appare arduo non prendere in considerazione la proposta di affidare alla Corte di cassazione la funzione nomofilattica sulle questioni risarcitorie, quale presidio dell’effettiva unitarietà del regime della responsabilità a fronte della dualità delle giurisdizioni che si occupano della materia.
Una soluzione di questo tipo, del resto, consentirebbe di rispondere alla domanda, che altrimenti soffia nel vento, se il riscontrato effetto di limitazione della tutela risarcitoria derivante dall’applicazione di dogmatiche di estrazione civilistica nel diritto amministrativo sia ineluttabile[63]; o se piuttosto, quantomeno nell’ambito della responsabilità, esso non consegua ad un certo e strumentale impiego che delle stesse fa la giurisprudenza amministrativa; in altre parole, di dissipare il dubbio che sia una certa interpretazione distorta delle categorie privatistiche da parte del giudice amministrativo, più che le categorie medesime, a sbarrare la strada verso una amministrazione responsabile.
Non si tratta però dell’unica strada possibile per dare maggiore coerenza al tormentato assetto della responsabilità della pubblica amministrazione.
Ove si ritenesse che il giudice ordinario sia quello più attrezzato a giudicare della responsabilità civile della pubblica amministrazione, varrebbe la pena di considerare l’ipotesi che la gran parte delle questioni risarcitorie nei rapporti tra cittadino e amministrazione concerne in realtà diritti soggettivi (vuoi perché la lesione dell’interesse legittimo integra la fattispecie dell’art. 2043 c.c., dalla quale sorge il diritto soggettivo al risarcimento[64]; vuoi perché il modello di responsabilità introdotto con la sentenza n. 500 comporta, per le ragioni viste, il risarcimento dei soli diritti) e che, non essendo il risarcimento materia di giurisdizione esclusiva (vi ricade solo il danno da ritardo), le relative controversie spettano al giudice ordinario.
Si tratterebbe di una soluzione drastica, certamente coerente al suo interno, che risolverebbe in radice il problema della torsione degli istituti civilistici, perché l’intera responsabilità dell’amministrazione verrebbe consegnata al diritto privato e al suo giudice naturale. Essa però si pone in contrasto con quanto statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204/2004, la quale ha configurato il risarcimento del danno come strumento di tutela ulteriore dell’interesse legittimo, e con gli sviluppi anche normativi dell’ultimo decennio (basti il riferimento all’art. 30, c.p.a.).
Infine, una soluzione per certi versi antitetica a quest’ultima, ma probabilmente più coerente con l’attuale assetto del diritto positivo, a cominciare dall’art. 7, c.p.a., consiste nel riconoscere la sussistenza della giurisdizione amministrativa su tutte le controversie risarcitorie scaturenti da attività amministrativa di diritto pubblico, tanto che la fonte del danno sia il provvedimento tanto che sia il comportamento procedimentale[65], eventualmente accettando la configurazione di una ipotesi di giurisdizione esclusiva implicita[66].
Questa soluzione, per un verso, limiterebbe al massimo la concorrenza di due regimi di responsabilità della pubblica amministrazione, poiché la giurisdizione del giudice civile si occuperebbe esclusivamente della cognizione dei danni prodotti dall’amministrazione nella sua attività di diritto privato, e, per altro verso, potrebbe consentire al giudice amministrativo di perfezionare il regime della responsabilità della pubblica amministrazione con un certo grado di autonomia rispetto alla tradizione civilistica, riducendo il rischio di interpretazioni discutibili di categorie del diritto privato in danno al cittadino. In questo scenario sarebbe auspicabile, a mio avviso, che la giurisprudenza amministrativa aprisse con più convinzione alla responsabilità da comportamento, ammettendo il risarcimento dei danni per comportamento scorretto anche oltre l’ambito della contrattazione pubblica.
[1] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 17.4.
[2] ‘C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 17.3.
[3] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 17.4.
[4] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 17.4.
[5] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 17.4.
[6] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, parr. 20 e seguenti.
[7] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 25.
Nella giurisprudenza civile è da segnalare la recente sentenza Cass. civ., sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236, secondo cui la responsabilità dell’amministrazione nasce nell’ambito di un rapporto tra soggetto pubblico e soggetto privato, laddove il secondo fa affidamento nella correttezza del contegno del primo. In questa ottica il fatto dannoso, suscettivo di generare la fattispecie risarcitoria pur in assenza di provvedimento, è rappresentato dal comportamento complessivamente scorretto tenuto dalla pubblica amministrazione all’interno del procedimento. La situazione lesa è il correlato diritto soggettivo del privato che fa affidamento sulla correttezza dell’azione amministrativa: donde la giurisdizione del giudice ordinario. La responsabilità è da contatto e trova applicazione il regime della responsabilità contrattuale.
Con questa pronuncia la Corte di cassazione si pone nel solco della sua giurisprudenza precedente, la quale aveva ritenuto che spetta al giudice ordinario la questione concernente la responsabilità dell’amministrazione per danni arrecati al privato con il ritiro di un provvedimento favorevole in violazione dell’affidamento, poiché in tal caso il fatto generatore dell’illecito non è il provvedimento ma il comportamento ondivago e scorretto della pubblica amministrazione, comportamento che non sarebbe neppure mediatamente riconducibile al potere (Cass. sez. un. ordd. nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011, su cui, per tutti, M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, ad. plen. 23 marzo 2011 n.3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS. UU.23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in www.federalismi.it, 2011).
Rispetto a questo orientamento, la sentenza n. 8236 segna un avanzamento della tutela risarcitoria, poiché con essa la Cassazione estende la propria giurisprudenza in tema di tutela dell’affidamento e giurisdizione del giudice ordinario ai casi in cui l’amministrazione, pur senza intervenire con un provvedimento espresso lesivo dell’affidamento stesso, ponga in essere nel corso del procedimento un comportamento ondivago (sempre ritenuto non riconducibile, neppure mediatamente al potere), sfiancando il privato con indicazioni contraddittorie e defatiganti.
La sentenza della Cassazione n. 8236/2020 è annotata da G. Tropea – A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o. Note critiche (Nota a Cass., Sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236), in www.giustizia-insieme.it, 15 maggio 2020, cui si rinvia anche per una sintetica ma puntuale ricognizione degli orientamenti della Cassazione in tema di responsabilità dell’amministrazione per violazione dell’affidamento del cittadino, nonché dei rilievi prevalentemente critici della dottrina amministrativistica nei riguardi della posizione espressa dalla Cassazione a proposito della qualificazione come diritto soggettivo della situazione soggettiva del privato a fronte di un comportamento procedimentale illecito della pubblica amministrazione. A questo proposito gli AA, rilevano che il comportamento dell’amministrazione, lesivo dell’affidamento, è comunque riconducibile all’esercizio di un potere pubblicistico: non potendo questo essere “derubricato alla stregua di un comportamento materiale”, la situazione giuridica soggettiva del privato, di cui si chiede il risarcimento, avrebbe consistenza di interesse legittimo e non di diritto soggettivo. Per l’idea che l’elemento decisivo per radicare la giurisdizione amministrativa sia sempre e comunque la riconducibilità dell’azione dell’amministrazione all’esercizio del potere, essendo invece irrilevante se l’azione stessa sia qualificata come atto o come comportamento, v. già M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo ma non il vizio: riparto di giurisdizione e tutela dell’affidamento, in Dir. proc. amm., 2011, 899.
Invero questa sembra essere la strada imboccata da Cons. Stato, ad plen., 4 maggio 2018, n. 5, la quale ha configurato una tutela risarcitoria, autonoma dalla spettanza del bene della vita, nel caso in cui l’amministrazione violi le regole (di diritto privato) che concernono il comportamento della pubblica amministrazione, tra le quali spicca il principio di buona fede, distinguendo nettamente queste regole da quelle (di diritto pubblico) che regolano l’esercizio del potere e la formazione del provvedimento e che sono presidiate dalla tutela di annullamento. Va però segnalato che la sentenza non ammette la responsabilità da comportamento scorretto in termini generali, bensì in un contesto particolare, rappresentato dalla fase conclusiva delle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici, in virtù della assimilazione di questa fase alle trattative precontrattuali.
[8] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 31 e relativi sotto-paragrafi.
[9] Questa osservazione del C.g.a. conferma quanto osservato in dottrina a proposito della centralità che il tema della funzione riveste nell’ambito delle diverse ricostruzioni della responsabilità della pubblica amministrazione. Ed invero, “Le argomentazioni tecnico-giuridiche addotte rispetto a specifici profili problematici in tema di responsabilità vanno […] esaminate tenendo conto del fatto che in gran parte dei casi la loro veridicità non può apprezzarsi in termini astratti, ma solo in rapporto al tipo di “aspettative” che, in concreto, si ripongono nel “sistema risarcitorio” dei danni cagionati dalle pubbliche amministrazioni” (M. Renna, Responsabilità della pubblica amministrazione: A) Profili sostanziali, in Enc. dir. ann., Milano, 2016, par. 2).
[10] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, parr. 32,33 e 34.
[11] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 32.
[12] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 32.
[13] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 33. La sentenza precisa che stante la infungibilità della prestazione dell’amministrazione, la quale comporta che il privato non abbia altra scelta che rivolgersi alla stessa per ottenere il bene, le regole di condotta vanno intese come “precisi obblighi di protezione rispetto ai portatori di interessi coinvolti dall’agire pubblico”.
[14] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 34.
[15] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 38 e relativi sotto-paragrafi.
[16] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 38.3.
[17] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, parr. 28 e 29.
[18] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 29.
[19] La tesi del diritto soggettivo come presupposto dell’interesse legittimo, come noto, si deve a E. Cannada Bartoli, Interesse (dir. amm.), in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 9 ss., ed è ripresa da ultimo da F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di Piazza Cavour, Piazza del Quirinale e Piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in www.giustiziainsieme.it, 11 novembre 2020, spec. nota 20; Id., Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in www.federalismi.it., 2020, 104 ss., dove peraltro sono svolte osservazioni critiche nei riguardi della c.d. “patrimonializzazione” dell’interesse legittimo.
[20] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 29.
[21] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 29.
[22] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 29.
[23] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 37.
[24] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 37
[25] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 37.
[26] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 37.
[27] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 37.
[28] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 39.
[29] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 40.
[30] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 40.
[31] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 40.
[32] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 41.
[33] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 42 e relativi sotto-paragrafi.
[34] G. Severini, La trasparenza delle decisioni e il linguaggio del giudice. La prevedibilità e la sicurezza giuridica, in www.giustizia-amministrativa.it., 2019, 6.
[35] Sulla regola aurea di cui al testo, e per diverse preziose indicazioni sullo stile delle sentenze, cfr. G. Severini, op. cit., 14.
[36] Sull’art. 3 c.p.a. cfr. P. Carpentieri, I provvedimenti del giudice, in B. Sassani - R. Villata, a cura di, Torino, 2012, 1083 ss.; M. Sinisi, Il giusto processo amministrativo tra esigenze di celerità e garanzie di effettività della tutela, Torino, 2017, 107 ss.
[37] Decreto del Presidente del Consiglio di Stato 22 dicembre 2016 ai sensi dell’art. 13 -ter dell’allegato II al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104.
[38] G. Severini, op. cit., 13.
[39] F. Patroni Griffi, Forma e contenuto delle sentenze del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm.,2015, 26, il quale aggiunge che aggiunge che la sentenza “prolissa” ha ulteriori “evidenti inconvenienti: fa perdere tempo a chi la scrive, ma anche a chi la legge e deve decidere se impugnarla (la parte) o se confermarla o riformarla (il giudice di appello); è generalmente meno chiara, perché meno consequenziale sul piano espositivo e logico; corre il rischio paradossale, ma non tanto , di esporsi a revocazione, anche per omessa pronuncia; rende quasi impossibile la corretta enucleazione del principio di diritto che va sempre rapportato al caso concreto deciso”.
[40] Sono le caustiche parole Gorla, riprese da F. Patroni Griffi, op. cit., 26.
[41] G. Barbagallo, Per la chiarezza delle sentenze e delle loro motivazioni, in Il linguaggio della giurisprudenza, in Foro it., 2016, parte V.
[42] F. Patroni Griffi, op. cit., 25.
[43] È quanto rileva A. Cassatella, La Plenaria limita i casi di rinvio al giudice di primo grado, in in Giorn. dir. amm.,2019, 207 ss., in relazione alle pronunce dell’adunanza plenaria, specie laddove siano esercizio della funzione nomofilattica prevista dall’art. 99 c.p.a. L’A peraltro prosegue osservando correttamente che “Le eccedenze argomentative potrebbero tuttavia essere assimilate ad osservazioni di politica del diritto estranee all’oggetto dell’intervento della Plenaria, come individuato dall’art. 99 c.p.a.”.
[44] G. Severini, op. cit., 11.
[45] F. G. Scoca, Divagazioni su giurisdizione e azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 2008, 6 ss.
[46] F. G. Scoca, L’interesse legittimo, Storia e teoria, Torino, 2017, 301: “ove si rifletta a fondo, il riferimento all’interesse al bene della vita, la cui lesione (essa sola, sebbene congiunta con la lesione dell’interesse legittimo), apre la strada al risarcimento del danno, potrebbe risultare (e, sul piano logico, certamente risulta) un modo inedito per negare ancora una volta la risarcibilità degli interessi legittimi, nel senso che la loro lesione non “giustifica” di per sé il risarcimento”.
[47] Cass. civ., sez. I, 10 gennaio 2003, n. 157.
[48] F.G. Scoca, L’interesse legittimo, cit., 311 s., 314-316: “Quanto alla risarcibilità degli interessi oppositivi, la distinzione tra lesione dell’interesse legittimo e lesione del diritto soggettivo, che sia stato illegittimamente estinto (o ridotto), è molto semplice: il diritto soggettivo, preesistente all’azione dell’amministrazione, viene leso dal provvedimento ablatorio che si assume illegittimo; l’efficacia, anzi l’esecuzione, di questo provvedimento comporta il mancato godimento del diritto, da parte del suo titolare, per il tempo in cui perdura l’effetto del provvedimento illegittimo. Il mancato godimento del bene non costituisce danno riferibile al (la lesione del) l’interesse legittimo, ma propriamente danno riferibile al (la lesione del) diritto soggettivo. La lesione dell’interesse legittimo, in quanto tale, si ha, invece, in relazione al comportamento dell’amministrazione, che sia lesivo dell’interesse ad avere un provvedimento tempestivo, che non sia ingiustificatamente sfavorevole ,e la cui formazione risponda alle regole procedimentali e ai principi di correttezza e buona fede […] La lesione dell’interesse (oppositivo), che ben può aggiungersi a quella del diritto soggettivo […] attiene all’andamento del procedimento: è determinata dal mancato rispetto delle norme che lo disciplinano, dall’inadempimento dei doveri che ne derivano, dall’ingiustificato annullamento della sua durata, dal suo inutile appesantimento con incombenti non necessari e non utili, dal suo contenuto ingiustificatamente sfavorevole. Se si tiene e distinto ciò che attiene al bene (finale) della vita da ciò che costituisce l’oggetto dell’interesse legittimo, risulta chiaro che il risarcimento per lesione dell’interesse legittimo si può avere anche se il bene della cita legittimamente non spetta al privato”.
“Per gli interessi pretensivi si ha un quadro differente rispetto a quello che è proprio dell’interesse oppositivo: non c’è un bene della vita che possa essere leso, dato che la sua acquisizione passa necessariamente per (è condizionata dal) l’adozione di un provvedimento amministrativo che accolga la domanda del privato. L’illegittimità del procedimento di diniego si riflette, in linea di principio, sull’interesse legittimo, il quale può risultare leso dal mancato rispetto delle regole di comportamento dell’amministrazione, come nel caso dell’interesse oppositivo. L’ipotesi di maggior spicco è il risarcimento del danno da ritardo nell’adozione del provvedimento; danno che (ormai) si verifica, anche se il provvedimento tardivo è negativo, e lo è illegittimamente- […] Può aggiungersi, nel caso dell’interesse pretensivo, al danno propriamente riferibile alla lesione dell’interesse legittimo, anche un danno riferibile al(la aspettativa al) bene della vita?”. Secondo l’illustre Autore la risposta da dare a questa domanda è positiva: “occorre prendere in considerazione la disciplina positiva sul grado di “spettanza” del bene richiesto, che può desumersi, in negativo. (ma con buona approssimazione), dalla misura della discrezionalità attribuita all'amministrazione. Non si tratta di ipotizzare giudizi prognostici, bensì di valutare la disciplina specifica applicabile al caso concreto, tenendo contro sia della sussistenza dei necessari presupposti di fatto (che può essere dimostrata dall’interessato), sia delle scelte e della valutazioni eventualmente già fatte dall’amministrazione […] IN conclusione, si può affermare che il danno, nel caso degli interessi pretensivi, riguarda la lesione del bene (finale) della vita, soltanto in caso della sua “spettanza virtuale””.
[49] A. Romano Tassone, Risarcimento del danno per lesione di interesse legittimo, in Enc. dir. agg., Milano, 2001, par. 11; M. Renna, op. cit., par. 5, secondo cui le norme sul procedimento “impongono all’amministrazione di porre in essere determinati adempimenti i quali, oltre ad avere un valore intrinseco alla procedura (determinandone i passaggi e le tempistiche), hanno anche — e spesso soprattutto — un valore ulteriore, poiché assicurano alle parti del procedimento utilità autonome rispetto all’esito sostanziale della attività amministrativa. Si pensi alle norme che sanciscono l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento, di concludere il procedimento entro termini predeterminati, di comunicare i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, di consentire l’accesso agli atti. Poiché l’assolvimento di questi obblighi “non è condizionato ad alcun tipo di apprezzamento discrezionale […]” la mancata osservanza degli stessi, “ai quali si contrappongono autentici diritti”, va sussunta nel paradigma della responsabilità da inadempimento, la quale, come riconosciuto anche dalla contemporanea dottrina civilistica [….] vanta un ambito di applicazione più ampio rispetto al perimetro dei rapporti stricto sensu contrattuali”. Sul punto sia consentito il rinvio a M. Trimarchi, La validità del provvedimento amministrativo. Profili di teoria generale, Pisa, 2013, 185-187, 240 s.
[50] E. Follieri, Il rapporto giuridico amministrativo dinamico, in www.giustamm.it., dicembre 2017, 9 ss., 13 s.
[51] La responsabilità dell’amministrazione per violazione delle regole di diritto privato che governano il comportamento della pubblica amministrazione, tra le quali spicca il principio di buona fede è affermata da Adunanza plenaria, la quale distingue queste regole da quelle (di diritto pubblico) che regolano l’esercizio del potere e la formazione del provvedimento e che sono presidiate dalla tutela di annullamento.
[52] Del resto, la tesi che collega la responsabilità da lesione dell’interesse legittimo (o del diritto procedimentale) alla violazione di una regola di condotta indubbiamente individua una fattispecie di responsabilità diversa da quella derivante dalla lesione della situazione sottostante, ma si espone a un inconveniente pratico. Una volta negata l’esistenza di una relazione tra la fattispecie risarcitoria, generata dalla lesione dell’interesse legittimo, e il bene della vita (o meglio, identificato questo bene nell’interesse immediatamente protetto dalla norma procedimentale), diventa infatti problematica l’individuazione del parametro da prendere in considerazione per la quantificazione del danno: dando fiato alla giusta osservazione che, così ragionando, il cittadino che abbia presentato istanza all’amministrazione per ottenere l’autorizzazione all’avvio di uno stabilimento industriale, e nel corso del procedimento abbia subito la lesione dell’interesse legittimo per via della condotta dell’amministrazione, avrebbe diritto ad una somma di denaro identica a quella che spetterebbe al cittadino che abbia presentato istanza per ottenere l’autorizzazione ad ampliare un balcone e abbia subito la stessa violazione procedimentale da parte dell’amministrazione.
Allo stato del diritto positivo, se si vuol dar consistenza alla pretesa risarcitoria collegata alle mere situazioni procedimentali, si dovrebbe accentuare la funzione punitivo-sanzionatoria della responsabilità, poiché ciò consentirebbe di condannare al risarcimento l’amministrazione che non rispetti le situazioni procedimentali anche indipendentemente dall’eventuale pregiudizio patrimoniale patito dal singolo. Questa soluzione, considerata la notevole elasticità che il sistema italiano della responsabilità civile ha dimostrato nel tempo (basti pensare alla vicenda del danno punitivo o alla lettura evolutiva degli artt. 2043 e 2059 cc.), è meno fantasiosa di quanto potrebbe apparire a prima vista. Essa nondimeno evoca una deviazione della responsabilità della pubblica amministrazione dal modello civilistico tradizionale, e dunque si inscrive nella prospettiva generale della responsabilità amministrativa di diritto pubblico.
[53] A questo proposito si può ricordare che la rete di contenimento degli interessi legittimi risarcibili costruita dalla Cassazione con la sentenza n. 500 si ispirava al pensiero di F.D. Busnelli, Lezione di interessi legittimi: dal «muro di sbarramento» alla «rete di contenimento», in Danno e resp., 1997, 271, secondo il quale “alla auspicata caduta del ‘muro’ della irrisarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi non deve […] seguire una apertura indiscriminata alla risarcibilità, affidata esclusivamente al prudente apprezzamento equitativo da parte del giudice; deve, invece, corrispondere la costruzione di una ‘rete di contenimento’ a valle, giustificata e fondata sul principio della ingiustizia del danno, reso flessibile dall’abbandono della concezione tradizionale incentrata sulla lesione dei diritti soggettivi (assoluti), ma pur sempre espressione di un filtro normativo dei danni risarcibili”.
[54] Cons. Stato, ad plen., 4 maggio 2018, n. 5.
[55] Cass. civ., sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236.
[56] Per una sintesi del dibattito si rinvia ancora a G. Tropea – A.Giannelli, op. loc. cit.
[57] Uno sforzo di questo genere è vano secondo E. Follieri, Il modello di responsabilità per lesione di interessi legittimi nella giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo: la responsabilità amministrativa di diritto pubblico, in Dir proc. amm.,2006, 20 s., secondo cui “le responsabilità previste dal codice civile e che si articolano in extracontrattuale e contrattuale non possono applicarsi per il risarcimento da lesione di interessi legittimi. Le responsabilità previste dal codice civile sono manifestazioni di rapporti che si svolgono all'insegna dei diritti soggettivi, dei doveri e degli obblighi in un contesto diverso da quello proprio del diritto amministrativo.
Favorevole al regime speciale della responsabilità di diritto pubblico, sulla scorta della tradizione francese, anche M. Mazzamuto, A cosa serve l’interesse legittimo?, in Dir. proc. amm., 2012, 75, il quale considera “del tutto naturale che il giudice speciale del diritto pubblico ricostruisca in termini pubblicistici anche il diritto della responsabilità, così come è avvenuto in Francia, e come era nei desiderata degli antichi Maestri del nostro diritto amministrativo”.
[58] I rapporti tra tutela risarcitoria in forma specifica ed per equivalente presuppongono l’accertamento e la commissione di un illecito da parte della pubblica amministrazione. Si tratta pertanto di una questione interna al tema della responsabilità, da non confondere con quella più generale dei rapporti tra tutela costitutiva e tutela risarcitoria.
[59] Su cui cfr. Cons. Stato, ad. plen., 12 maggio 2017, n. 2., per l’interpretazione dell’art. 112, comma 3, c.p.a.
[60] Cfr. E. Follieri, Il modello di responsabilità, cit., 23, secondo cui il risarcimento dei danni in diritto amministrativo copre l'area dell'interesse al bene della vita che non ha ricevuto integrale soddisfazione dalla sentenza di annullamento, nonostante il ricorrente, in diritto, avrebbe dovuto ottenere soddisfazione del suo interesse perché illegittimamente leso dall'atto amministrativo, non rispettoso delle regole previste per la sua produzione e la situazione di fatto dovrebbe essere ripristinata in toto. La situazione può essere risarcita solo in via eventuale, quando l'effetto ripristinatorio dell'annullamento non ha modo di dispiegarsi pienamente in conseguenza di eventi e fatti, ormai accaduti, e che non possono essere rimossi retroattivamente. Dello stesso A. v. già la monografia Risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi, Chieti, 1984, 175, dove il risarcimento dei danni da lesione dell’interesse legittimo è concepito come “un modo di adempimento della P.A. all’obbligo di conformarsi al giudicato”. Il risarcimento pertanto va chiesto al giudice dell’ottemperanza.
[61] Del resto non bisognerebbe dimenticare che per la tutela dell’erario esiste uno strumento apposito, che è la responsabilità amministrativo-contabile, per quanto oggi se ne richieda da più parti un uso prudente per evitare fenomeni di burocazia difensiva.
[62] R. Villata, Scritti di giustizia amministrativa, Milano, 2015, 536.
[63] M. Mazzamuto, I principi costitutivi, cit., e molti altri lavori dello stesso A.
[64] È la tesi di R. Villata, Scritti, cit., 67 ss., 396 s., che infatti critica la sentenza della Corte costituzionale n. 204/2004, nella parte in cui configura il risarcimento come strumento di tutela ulteriore dell’interesse legittimo.
[65] M. Mazzamuto, A cosa serve l’interesse legittimo?, cit., 63 ss.
[66] F.G. Scoca, Divagazioni, 7-10.
Omaggio al Prof.Marongiu, padre nobile dello Statuto dei contribuenti
di Roberto Succio
Il prof. Marongiu è stato mio docente di diritto tributario nell’a.a.1990/1991 presso l’Università di Genova, in quella che era allora la Facoltà di Giurisprudenza.
Allora le lezioni del suo corso, come degli altri, iniziavano a novembre e terminavano a maggio/giugno; se non ricordo male (tempus fugit) si tenevano nelle mattinate del lunedì e del mercoledì.
Il Professore teneva le lezioni in un’aula piccola: seguivano il suo corso solo una trentina di studenti perché già allora il diritto tributario, per il suo tecnicismo e la sua complessità, forse affascinava pochi. Era come esser tornati al Liceo; il ritmo delle lezioni infatti portava chi seguiva a conoscersi tutti, tra gli studenti; ci si scambiava sovente gli appunti, per controllarne il contenuto e magari per supplire a una lezione mancata a causa di sovrapposizioni con altri corsi o per imprevisti “ferroviari” per chi, come me, viaggiava tra casa e Università con ritmo quotidiano.
Spesso il suo esame, che era facoltativo per gli studenti del terzo/quarto anno del corso, veniva inserito nel piano di studi non senza una certa premeditazione, derivante da una forma di predisposizione perversa (o benedetta, dipende dai punti di vista) per lo studio dei tributi. Infatti, per argomenti e istituti da trattare, “diritto tributario” era assai affine a “scienza delle finanze”, che prevalentemente constava di diritto finanziario, ed era un corso tenuto dal Prof. Magnani. Sia pur con alcune differenze di contenuto e metodo, si potevano affrontare lo studio e fare gli esami in modo parallelo, per ambedue i corsi.
Era però, almeno per me e per altri colleghi, del tutto diversa la sollecitazione che mi spingeva a seguire il suo corso. Intanto, il tam – tam della Facoltà tra studenti riferiva di lezioni avvincenti, quasi romanzesche: il Professore era descritto come un grande narratore della storia dei tributi -(rimando ai suoi volumi “Storia del fisco in Italia. Vol. 1: La politica fiscale della Destra storica (1861-1876)”; “Storia dei tributi degli enti locali (1861-2000)”, il recente “Il fisco e il fascismo”)- e molti di noi, me incluso, subivano ancora fortemente il fascino delle epoche passate.
Inoltre, e soprattutto, le sue lezioni, per analiticità, chiarezza e completezza, ben potevano sostituirsi al manuale adottato; pertanto avevamo la sensazione che una adeguata conoscenza del loro contenuto potesse ben fungere da adeguato usbergo protettivo contro ogni strale possibile in sede d’esame.
A differenza di ora, a quei tempi non si usavano certo le slides e il Professore non predisponeva appunti per sé. La sua lezione presupponeva e manifestava il ricordo perfetto di quanto trattato nella lezione precedente, che era punto di partenza per quella che si accingeva a iniziare e – in qualche occasione – la lettura dei testi normativi. Quando era opportuno citarne letteralmente una porzione a fini didattici, il Professore apriva il corposo codice tributario che portava con sé, rimuoveva gli occhiali e avvicinandosi al testo desiderato (risultando quindi vittorioso sulla sua miopia, come ora faccio anch’io, e pluribus) leggeva quanto necessario alla sua illustrazione del tema.
Questa operazione, però, era sempre preceduta da una sottolineatura, che mi è rimasta indelebile: il Professore rammentava con essa l’importanza del dato legislativo dal quale prender le mosse anche in una materia in cui esso cambia quasi quotidianamente, specialmente con riguardo a quegli elementi autenticamente definitori (il presupposto dei tributi, il concetto di reddito, la nozione di impresa, di base imponibile, e quant’altro). Ed era una sottolineatura verbale precisa: all’atto di rimuovere gli occhiali per reperire il testo normativo, esordiva con un “come loro sanno, l’articolo…..”. Per noi studenti la sottolineatura era duplice: si dava per conosciuto un elemento (e quindi se non lo ricordavamo, immediatamente noi studenti ci appuntavamo la necessità di rivederlo per memorizzarlo) e ci si rivolgeva a noi con il “loro”.
Ora, non credo che ciò derivasse da una mera forma di amore per le parole desuete, almeno non solo.
Ritrovando il Professore qualche anno fa, tra un’udienza e l’altra, ne ho avuto la prova da lui stesso, mentre ci avvicinavamo alla macchinetta del caffè che volle, da genovese atipico, offrimi.
Era un modo istintivo, ma consapevole, per dare conto all’uditorio del rispetto portato, della cura destinata nell’insegnamento, che richiedeva specularmente e giustamente da noi analogo rigore nello studio in preparazione all’esame; era indice dell’attenzione alla meticolosa chiarezza espositiva a fronte della quale egli esigeva dagli studenti, in modo sinallagmatico, il giusto approfondimento degli argomenti e la loro padronanza in sede di esame.
Certo, l’espressione ottocentesca in parola lo aveva in almeno un caso posto a rischio di divertenti fraintendimenti.
Mi raccontò infatti quanto avvenne durante la sua campagna elettorale al termine della quale fu eletto al Parlamento, in occasione di un incontro con i frequentatori di un circolo operaio genovese, ai quali, anche in quell’occasione, si rivolse ripetutamente con l’amato “loro”.
L’effetto, percepito anche da chi lo accompagnava sedendo nel pubblico e lo riferì al Professore (segnalando con sano buon senso che forse in quella come in altre sedi era meglio esser meno risorgimentali nell’eloquio), fu disorientante.
Due uditori infatti, pur apprezzando e condividendo il contenuto del discorso “programmatico” del candidato Professore, iniziarono a chiedersi “chi fossero” questi “loro”; per sentirsi poi chiarire da un vicino che i “loro” erano “noialtri”, vale a dire proprio i presenti.
Al Professor Marongiu si deve – oltre alle pubblicazioni sulle quali sorvolo, trattandosi di un Maestro e bastando una ricerca in Internet – anche l’introduzione nel nostro ordinamento tributario dello Statuto dei diritti del Contribuente di cui alla L. n. 212 del 2000, al quale dedicò sempre attenzione specialmente nelle interpretazioni adottatene dalla giurisprudenza.
Qualche tempo fa, in una conversazione telefonica propedeutica a un convegno, mi accennò del suo intento di proporre al Legislatore modifiche e integrazioni allo stesso, anche alla luce della Giurisprudenza costituzionale e unionale; alla non tenera età sua, il Professore ha mantenuto sempre l’interesse, vivo e acuto, per il diritto dei tributi, nelle sue multiformi espressioni anche quelle più complesse e problematiche; di diritto tributario ha sempre scritto e argomentato ad alto livello, con passione e senza amor di pura polemica.
Ricordo, durante una riunione della Rivista “Diritto e Pratica tributaria”, quando gli chiesi una indicazione di metodo riguardante un articolo che stavo scrivendo in tema di autotutela: era appena stato pubblicato il d. M. n. 37 del 1997, che forniva importanti prescrizioni regolamentari in ordine al procedimento amministrativo in materia. Il Professore, che del d. M. aveva copia sulla scrivania, me ne consegnò il testo con alcune sue sottolineature, rammentandomi di tenerne conto particolarmente nella redazione dell’articolo, per le ragioni che mi suggerì e che feci subito mie.
Non l’ho dimenticato.
Ho ritrovato di recente il Professore nei ricorsi per cassazione che in alcune occasioni ho esaminato e deciso quale consigliere della Corte Suprema; ne ho nuovamente apprezzato - e a fronte di altri atti, non di rado rimpianto - il tono e i contenuti che ricordavo nelle sue lezioni, da studente: anche da difensore si è sempre dimostrato straordinariamente colto (e non solo in materia tributaria), sempre pacato e chiaro nell’argomentare e sempre altrettanto agevole da comprendere.
Gianni Marongiu ha concluso la sua corsa; ha certamente combattuto la buona battaglia: i suoi studenti hanno avuto un grande Professore e gli sono grati, i suoi clienti un difensore e un gentiluomo di eccezionale livello professionale e dovrebbero ricordarlo con eguale sentimento di gratitudine.
Per quanto ho potuto conoscerlo, penso non abbia mai perso la speranza di un sistema tributario, se non perfetto (il suo pragmatismo intelligente glielo avrebbe impedito), quantomeno perfettibile.
Grazie, Professore.
Il caso Diasorin parte seconda. Le "collaborazioni" tra strutture pubbliche ed operatori privati nel campo biomedico. (nota a Cons. St., sez. III, 17 dicembre 2020, n. 8126).
di Saul Monzani
Sommario: 1. Premessa: il giudizio di primo grado e la ritenuta applicabilità delle regole dell'evidenza pubblica. - 2. Il carattere aperto della ricerca scientifica in una prospettiva di "realismo giuridico". - 3. La non applicabilità dei principi dell'evidenza pubblici ai fini della formazione di accordi di collaborazione scientifica non avente carattere escludente.
1. Premessa: il giudizio di primo grado e la ritenuta applicabilità delle regole dell'evidenza pubblica.
E' approdata al Consiglio di Stato la vicenda relativa alla convenzione stipulata dal Policlinico San Matteo di Pavia con un operatore privato ed avente ad oggetto una collaborazione finalizzata alla valutazione di test sierologici e molecolari per la diagnosi di infezione da SARS-Cov-2 da sviluppare e successivamente produrre da parte dell'operatore predetto.
La vicenda, esaminata e decisa in primo grado dal T.A.R. Lombardia-Milano, nasce dall'iniziativa giurisdizionale assunta da un soggetto economico operante nel medesimo settore, il quale ha impugnato i provvedimenti assunti al fine di stipulare la convenzione in parola, lamentando la necessità, non rispettata, di sottoporre l'affidamento in questione alla effettuazione di una procedura competitiva, stante la natura pubblica del soggetto affidante, costituito sotto forma di fondazione rientrante nella categoria di "Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico” (IRCCS), nonchè il carattere economicamente apprezzabile dell'utilità conseguita dal privato.
I giudici amministrativi di primo grado avevano accolto il ricorso, ritenendo che effettivamente la sottoscrizione della convenzione in questione dovesse essere preceduta dalla celebrazione di una procedura ad evidenza pubblica ai fini dell'individuazione del concessionario, e ciò per tre fondamentali ordini di ragioni:
- la convenzione è da qualificarsi giuridicamente come "un vero e proprio contratto a prestazioni corrispettive, con il quale la fondazione resistente, a fronte del pagamento di un compenso variamente articolato, ha messo a disposizione di un operatore economico la propria capacità tecnica e scientifica al fine di giungere all’elaborazione di nuovi prodotti da commercializzare, sulla base di un mero prototipo presentato dal predetto operatore”, così esulando dal concetto di mero “accordo di collaborazione scientifica”. Nell'ambito di questi ultimi, secondo i giudici amministrativi di primo grado, il soggetto pubblico è sì legittimato ad avvalersi di altri soggetti per industrializzare i risultati della sua ricerca scientifica, svolta come attività istituzionale, senza però porre la sua struttura e le sue capacità a disposizione di un particolare soggetto privato al fine di consentirgli di conseguire risultati scientifici che resteranno nell’esclusiva disponibilità del medesimo, anche per ciò che attiene alla proprietà e alla titolarità dei brevetti;
- per altra via, l'atto convenzionale impugnato è stato considerato come contratto attivo, “in forza del quale è l’amministrazione ad obbligarsi ad eseguire una serie di prestazioni in favore di un soggetto privato in cambio di un compenso variamente articolato”. Ebbene, ciò assunto, se ne è fatta derivare l'applicabilità della disciplina in tema di contratti attivi, con particolare riferimento all'art. 4 del Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 s.m.i. che impone, non la stretta applicazione del Codice stesso, ma pur sempre il rispetto dei principi di “economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica”, nonchè con riferimento al disposto di cui ai r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 e 23 maggio 1924. n. 827, i quali prevedono che i contratti dai quali derivi un'entrata per le pubbliche amministrazioni debbono essere preceduti da pubblici incanti;
- partendo dal presupposto per cui le fondazioni IRCCS costituiscono enti pubblici, si è osservato che tale qualificazione comporta la sottoposizione dei beni di cui esse sono titolari (nel caso, strumenti, apparecchiature, laboratori, materiali impiegati, conoscenze scientifiche, tecnologie, professionalità di cui l’ente dispone e che deve riservare al raggiungimento dei suoi scopi istituzionali) al regime del patrimonio indisponibile, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 830, comma 2 e 828, comma 2, del Codice civile, con la conseguenza che essi non possono essere sottratti alla loro destinazione di pubblico servizio, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano. In tale ottica, si è ritenuto che l'accordo in questione sia consistito, tecnicamente, in una concessione di beni pubblici, come tale sottoposta al rispetto dei principi di trasparenza, non discriminazione e parità di trattamento quanto alla individuazione del concessionario.
2. Il carattere aperto della ricerca scientifica in una prospettiva di "realismo giuridico".
Preliminarmente, il Consiglio di Stato è stato chiamato ad esprimersi sulla domanda di sospensione dell'efficacia della sentenza di primo grado, accogliendola (con ordinanza n. 4270 del 16 luglio 2020), nella more di ricevere dal Ministero dell'Università e Ricerca scientifica una relazione sulle prassi applicative seguite dagli IRCCS nel sottoscrivere convenzioni con enti pubblici o privati ai fini dello svolgimento delle proprie funzioni istituzionali nel campo della ricerca (ciò con riferimento al disposto di cui all'art. 8 del d.lgs. 16 ottobre 2003, n. 288, recante "Riordino della disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico").
Ebbene, il Ministero, ottemperando alla richiesta istruttoria disposta dai giudici, ha evidenziato, nella propria relazione, che nel caso di sperimentazioni e validazioni su proposta del privato, nella normale prassi di tutti i centri sedi di sperimentazione clinica (IRCCS pubblici e privati, aziende ospedaliero-universitarie e altri enti del SSN), non vengono svolte procedure di evidenza pubblica, dato che tali enti sono aperti alla collaborazione con qualunque impresa che intenda condurre una sperimentazione clinica.
Tale approdo sarebbe coerente con il fatto che il Ministero della Salute "ha collocato tra le sue priorità il trasferimento tecnologico e la creazione di sinergie tra il mondo della ricerca, il settore imprenditoriale e il territorio e ha importato tali indirizzi nell'attività di promozione dell'azione degli IRCCS".
Ciò posto, si legge nella relazione che le principali tipologie in cui si può esplicare l'attività di ricerca, come evidenziato nella legge sugli IRCCS, comprendono, non solo quelle che partono da un'idea originale di proprietà dell'Istituto (generando, in questo caso, la prassi dell'evidenza pubblica), ma anche ogni iniziativa di trasferimento tecnologico in cui l'Istituto mette in campo il proprio Know-how.
Traendo spunto dalla relazione fornita dal Ministero, i giudici amministrativi d'appello hanno preso le mosse da una "prospettiva di realismo giuridico", cercando di operare una sintesi fra necessità, da un lato, di incentivare la ricerca, anche creando sinergie con gli operatori industriali del settore, e, dall'altro lato, di riconoscere e rispettare la natura pubblica dell'ente in questione nonchè del suo ruolo istituzionale, pur ricomprendente, non solo la necessità di rispetto dei principi di parità di trattamento e non discriminazione, ma anche il perseguimento dell'interesse pubblico alla massima evoluzione possibile, nelle forme previste dalla legge, degli sviluppi della ricerca, soprattutto in ambito sanitario ed in tempi di pandemia.
In tale prospettiva, è venuta in rilievo la "difficile coniugabilità del principio di concorrenzialità, e del relativo corollario dell'evidenza pubblica, con le sperimentazioni e le validazioni condotte dall'IRCCS su iniziativa del privato, aventi ad oggetto "invenzioni" suscettibili di tutela brevettuale", ovvero, più in generale, la difficoltà di conciliare attività di ricerca sanitaria e disciplina dei contratti pubblici.
Nel contesto così individuato, l'approdo fondamentale cui si è giunti nella sentenza ora in commento consiste nella constatazione per cui nel caso concreto deciso, a differenza di quanto accade normalmente in tema di appalti o concessioni, un problema di concorrenza non si porrebbe, in quanto l'attività di "colllaborazione" della struttura pubblica è aperta, nel senso di non essere limitata a favore di un solo operatore privato , essendo, viceversa, rivolta potenzialmente a tutti gli operatori interessati operanti nel campo della ricerca scientifica. In altri termini, si è accertato, a sostengo della decisione assunta, "il carattere non esclusivo o non escludente dell'accordo contestato, e l'apertura allla valutazione di altre analoghe (anche contestuali) proposte di accordo".
Ne è stata fatta conseguire la non necessaria sottoposizione di tali forme di accordo all'obbligo dell'evidenza pubblica.
Dirimente, nel ragionamento condotto dai giudici d'appello, è stata l'obiettiva valutazione dell'oggetto dell'accordo in relazione alle finalità istituzionali della fondazione e alla conseguente disciplina normativa (costituita dall'art. 8 del d.lgs. 16 ottobre 2003 n. 288), la quale individua e descrive gli strumenti funzionali al loro perseguimento, rispetto al quale diventa recessivo l'apprezzamento circa la eventuale sinallagmaticità delle prestazioni aventi carattere patrimoniale o in merito all'utilità economica conseguita dal privato.
In sostanza, tenendo conto dello specifico contesto sistematico e teleologico, si è valorizzata la missione affidata ad enti come la fondazione coinvolta nel giudizio in questione, la quale consiste nella ricerca scientifica, il cui perseguimento presuppone anche di facilitare la ricerca dei privati, così come consentito dalle norme, speciali, che regolano il rapporto pubblico-privato in tale campo.
Pertanto, dalla predetta norma si è ricavato che al fine di "attuare comuni progetti di ricerca", "praticare comuni protocolli di assistenza" ed "operare la circolazione delle conoscenze", la forma della collaborazione è sostanzialmente libera.
Ulteriore conseguenza tratta dalla prospettazione fin qui illustrata è stata l'esclusione della fattispecie esaminata dal campo di applicazione dell'art. 9 del citato d.lgs. n. 288 del 2003, che disciplina, sottoponendole all'evidenza pubblica, le attività degli IRCCS "diverse da quelle istituzionali", pur se compatibili con le finalità di ricerca proprie di tali istituti, nonchè l'impossibilità di qualificare la medesima fattispecie come concessione di bene pubblico, il che avrebbe condotto, anche per tale via, alla sottoposizione quantomeno ai principi dell'evidenza pubblica.
Alle esclusioni predette si è pervenuti, in particolare, enfatizzando l'aspetto funzionale della fattispecie, consistente nell'attività di sperimentazione, rispetto all'elemento strutturale, ovvero la asserita messa a disposizione di un complesso aziendale, valorizzato, invece dai giudici di primo grado.
3. La non applicabilità dei principi dell'evidenza pubblici ai fini della formazione di accordi di collaborazione scientifica non avente carattere escludente.
Come già evidenziato, lo spirito che ha animato i giudici amministrativi di secondo grado nell'individuare una soluzione opposta a quella raggiunta in primo grado è stato caratterizzato da una buona dose "di realismo giuridico", nell'intenzione di non imporre aggravi procedimentali rispetto alle esigenze della ricerca scientifica, le quali, peraltro, appaiono particolarmente pregnanti nel periodo caratterizzato dalla pandemia, in cui l'interesse pubblico è fortemente concentrato sulla esigenza di tutela della salute (si ricorda che la convenzione oggetto di giudizio ha riguardato test sierologici e molecolari per la diagnosi di infezione da SARS-Cov-2).
Sul piano più strettamente normativo, si può osservare, sul fronte dei contratti passivi, ovvero quelli che comportano una spesa per la pubblica amministrazione, che nel previgente Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 12 aprile 2006. n. 163, l'art. 20 sottoponeva alla disciplina del Codice stesso tutti gli appalti di servizi elencati nell’allegato II A, tra cui erano compresi i servizi di "ricerca e sviluppo" (A tal proposito, e con riferimento alle direttive previgenti, la Corte di giustizia UE, Grande sezione, 19 dicembre 2012, n. 159, in C- 159/11, in Foro amm. CdS 2012, 3098, ha chiarito, esprimendosi in una fattispecie di accordo tra enti pubblici in tema di ricerca scientifica, che “le norme del diritto dell'Unione in materia di appalti pubblici non sono applicabili, a condizione che tali contratti siano stipulati esclusivamente tra enti pubblici, senza la partecipazione di una parte privata, che nessun prestatore privato sia posto in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti, e che la cooperazione da essi istituita sia retta unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d'interesse pubblico”).
Nel vigente Codice, di cui al d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 s.m.i., l'art. 158, dedicato proprio ai medesimi "servizi di ricerca e sviluppo", sempre sul fronte passivo, sottopone alla propria disciplina alcune specifiche categorie di servizi, rientranti nelle definizioni CPV quali quelli di "ricerca e sviluppo sperimentale", "di laboratorio", "di sviluppo sperimentale", apponendo però due condizioni, ovvero che i risultati appartengano esclusivamente all'amministrazione e che la prestazione del servizio sia interamente retribuita dall'amministrazione aggiudicatrice e dall'ente aggiudicatore.
Sul fronte attivo, ovvero con riferimento ai contratti da cui derivi un'entrata in capo alla pubblica amministrazione, il Codice vigente, all'art. 4, li ha sottoposti ai soli principi "di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica", così inserendo una prescrizione che, pur assente nel Codice previgente, era ed è comunque contenuta nei r.d. 18 novembre 1923, n. 244 e 23 maggio 1924. n. 827, tuttora in vigore (nessun dubbio si riscontra in giurisprudenza sulla necessità di rispetto dei principi generali predetti con riferimento ai contratti attivi stipulati dalla pubblica amministrazione: sul punto, con riferimento al vigente Codice dei contratti, cfr. T.A.R. Lazio Roma, sez. I, 14 luglio 2020, n. 8066, in Foro amm., 2020, 1522; T.A.R. Sardegna, sez. I, 4 marzo 2019, n.188, ivi, 2019, 613; con riferimento ai r.d. citati: T.A.R. Lazio Latina, sez. I, 6 febbraio 2019, n. 88, ivi, 304; T.A.R. Veneto, sez. I, 5 settembre 2018, n.875, in www.giustizia-amministrativi.it; T.A.R. Piemonte, sez. I, 18 dicembre 2015, n. 1749, ivi).
L'obbligo dell'evidenza pubblica è stato affermato persino con riferimento alla stipulazione dei contratti c.d. altruistici o gratuiti, ovvero quelli che comunque conferiscono ad un soggetto operante nel mercato un'opportunità di guadagno e, quindi, la possibilità di un'iniziativa economica, in astratto in grado di determinare un vantaggio competitivo (di recente, in tal senso, si v. T.A.R. Campania Napoli, sez. III, 10 febbraio 2020, n. 620, in Foro amm., 2020, 340).
In definitiva, in un contesto generale che sottopone qualsiasi accordo concluso da una pubblica amministrazione, o enti assimilabili, con soggetti privati quantomeno ai principi generali in tema di contratti pubblici, risulta a questo punto emergere una tipologia di rapporto pubblico-privato che si sottrae a tale esigenza.
Si tratta degli accordi di collaborazione scientifica quale strumento attraverso il quale gli IRCCS, ai sensi dell'art. 8 del d.lgs. n. 288 del 2003, sono abilitati ad attuare “misure idonee di collegamento e sinergia con altre strutture di ricerca e di assistenza sanitaria, pubbliche e private, all'interno delle quali attuare comuni progetti di ricerca, praticare comuni protocolli di assistenza, operare la circolazione delle conoscenze e del personale con l'obiettivo di garantire al paziente le migliori condizioni assistenziali e le terapie più avanzate, nonché le ricerche pertinenti”.
La norma predetta, in particolare, in vista di una possibile produzione industriale dei risultati della ricerca, consente la formazione di accordi anche con soggetti privati, ponendo taluni vincoli (la trasparenza dei flussi finanziari e la rendicontazione, nonchè la destinazione dei proventi economici al finanziamento delle attività istituzionali della struttura pubblica), ma non prevedendo alcunchè in ordine alle modalità di individuazione della controparte contrattuale, le quali risultano libere, perlomeno laddove si tratti di accordi non escludenti, ovvero che non impediscano ad altri operatori del settore di accedere alle medesime forme di collaborazione con una struttura pubblica.
In definitiva, il punto centrale attorno a cui ruota il ragionamento condotto dai giudici d'appello, che ha condotto a risultati opposti rispetto a quelli raggiunti in primo grado, consiste nella constatazione circa il difetto del requisito della “esclusività” del rapporto che si instaura con il soggetto privato, quale presupposto fondamentale ai fini dell'applicazione delle regole, o anche solo dei principi, a seconda dei casi, in tema di evidenza pubblica.
Ebbene, la mancanza di tale presupposto è apparsa tale da rendere irrilevante, ai fini in questione, l'apprezzamento di altre circostanze, valorizzate invece in primo grado, quali, ad esempio, il carattere sinallagmatico dell'accordo o la concreta disciplina dei rapporti tra parte pubblica e privato o, ancora, l'utilità economica acquisita da quest'ultimo.
Nel quadro così delineato, si potrebbe forse aggiungere l'esigenza di fornire, da parte della pubblica amministrazione, un'adeguata motivazione circa il carattere scientifico delle collaborazioni instaurate con soggetti privati e circa la loro rispondenza all'interesse pubblico alla luce delle funzioni istituzionalmente attribuite agli IRCCS, nonché l'esigenza da parte di questi ultimi di dotarsi di una precisa regolamentazione che attesti la disponibilità e l'impegno della struttura pubblica a collaborare con tutti i soggetti privati che lo richiedano, in presenza dei necessari presupposti, con riferimento a determinate categorie di attività. Solo per tale via, appare veramente conseguibile il rispetto dei principi di imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, pubblicità che comunque devono connotare ontologicamente ed imprescindibilmente l'azione di un soggetto di natura pubblica, pure se preordinato a svolgere funzioni di ricerca scientifica anche in sinergia con soggetti privati.
Poteri impliciti delle Autorità indipendenti e principio di legalità. Il potere di accertamento della Consob (nota a Consiglio di Stato, Sezione Sesta, 14 dicembre 2020, n. 7972)
di Giovanni Barozzi Reggiani
Sommario: 1. Considerazioni introduttive - 2. La vicenda processuale (in breve) - 3. Principio di legalità e poteri («espliciti» e «impliciti») delle Autorità indipendenti - 4. I poteri impliciti e il tema della strumentalità - 5. Ruolo e funzioni della Consob - 6. Il potere esercitato nel caso concreto e la sua qualificabilità in termini di potere implicito - 7. La violazione delle garanzie partecipative di Vivendi e Telecom - 8. Note conclusive.
1. Considerazioni introduttive
La sentenza che si commenta offre lo spunto per operare una riflessione sul tema dei «poteri impliciti» delle Autorità amministrative indipendenti (nel caso di specie, della Commissione Nazionale per le Società e la Borsa - Consob) [1],
Dopo aver preliminarmente sinteticamente ricostruito i fatti del giudizio, che ha visto contrapposte la società francese Vivendi Societé Anonyme SA, Telecom Italia S.p.A. e la Consob in relazione alla qualificabilità della prima quale società controllante della seconda, verranno sinteticamente ricordate le diverse ricostruzioni dottrinarie poste a fondamento della teoria dei poteri impliciti valutando alla luce di queste la soluzione data dalla Consob nel caso di specie.
2. La vicenda processuale (in breve)
Il contendere sorgeva attorno ad un atto («comunicazione») della Consob - impugnato dinanzi al T.a.r. di Roma, con separati ricorsi (poi riuniti), tanto da Vivendi quanto da Telecom Italia S.p.A. - avente ad oggetto «qualificazione del rapporto partecipativo di Vivendi S.A. in Telecom Italia S.p.A. ai sensi della disciplina in materia di operazioni correlate, dell’art. 2359 del codice civile e dell’art. 93 del D.lgs 58/1998 (“TUF”)»[2].
A mezzo della comunicazione in parola - adottata all’esito di un procedimento avviatosi a seguito di specifico quesito posto dal Collegio Sindacale di Telecom[3] - la Consob veniva sostanzialmente a riconoscere a Vivendi la natura di socio controllante della stessa Telecom, in ragione della posizione dominante che la prima era venuta ad assumere a seguito di un’assemblea dei soci della seconda (tenutasi il 4 maggio 2017) nell’ambito della quale - tra le altre cose - il consiglio di amministrazione di Telecom era stato rinnovato con consiglieri tratti in larga maggioranza (10 su 15) dalla lista presentata da Vivendi (presente in assemblea con il 23,94% del capitale, mentre il capitale con diritto di voto presente era pari al 58,75%) risultata la più votata[4].
Sulla base di quanto accaduto nella predetta assemblea, degli assetti societari venuti definendosi all’esito della stessa nonché di un’altra (articolata) serie di circostanze fattuali (una, particolarmente rilevante, concernente la configurabilità o meno di una situazione di direzione e controllo di Vivendi nei confronti di Telecom[5]) la Consob veniva ad affermare come Vivendi esercitasse «il controllo di fatto su TIM ai sensi dell’art. 2359 c.c. e ai sensi dell’art. 93 del TUF, nonché ai sensi della disciplina parti correlate»[6]; ciò veniva effettuato, dall’Authority, non già nell’ambito di un procedimento più ampio (regolatorio, autorizzatorio, di vigilanza o sanzionatorio) bensì “in via autonoma”, vale a dire mediante apposito procedimento sfociato in un atto che i Giudici di primo e secondo grado avrebbero definito di «accertamento»[7] (di atto «di regolazione con funzione di accertamento» ha parlato specificamente il Consiglio di Stato).
Avverso la «comunicazione» della Consob insorgevano Vivendi e Telecom, articolando diversi motivi di ricorso, dei quali preme, in questa sede, analizzarne esclusivamente due, concernenti:
(a) la contestazione circa l’assenza di un fondamento (normativo) per il potere esercitato, con conseguente affermata violazione dei principi di legalità (formale e sostanziale) e di tipicità che governano la funzione amministrativa (quale attività che si estrinseca nell’esercizio di un potere pubblico);
(b) l’avvenuta pretermissione delle garanzie di partecipazione procedimentale di Vivendi e Telecom, da parte di Consob, e in specie la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento conclusosi con l’adozione della citata comunicazione.
In primo grado, il ricorso veniva integralmente rigettato dalla Seconda Sezione del T.a.r. del Lazio (Roma), con sentenza (17 aprile 2019, n. 4990) che veniva riformata in grado di appello in riferimento al profilo concernente la violazione delle garanzie procedimentali delle società ricorrenti.
Sui passaggi della motivazione della sentenza in commento concernenti entrambi i predetti profili si tornerà nel prosieguo, non prima però di aver effettuato un sintetico (ma necessario) inquadramento del tema dei poteri impliciti e del rapporto tra i medesimi ed il principio di legalità, nonché delle prerogative e del ruolo della Consob.
3. Principio di legalità e poteri («espliciti» e «impliciti») delle Autorità indipendenti
Non costituiscono argomento nuovo le perplessità e i dibattiti che la nutrita schiera di poteri attribuiti dalle varie leggi istitutive alle diverse Autorità indipendenti ha suscitato, in dottrina e in giurisprudenza, riguardo alla compatibilità del modello con il principio di legalità - e, più ampiamente, con quello democratico di cui all’art. 1 Cost. - nonché con la stessa “separazione dei poteri”, cardine di ogni società ed ordinamento moderno[8].
Se appare arduo giustificare l’attribuzione ad organismi non inseriti nel circuito di responsabilità politico-ministeriale (ai sensi dell’art. 97 Cost.) di poteri suscettibili di incidere unilateralmente sulle sfere giuridiche di persone fisiche o enti, ancor più difficile è rinvenire argomenti per legittimare l’esercizio, da parte di organismi consimili, di poteri non “nominati”, disciplinati e tipizzati da disposizioni normative[9].
Gli atti delle Pubbliche amministrazioni che configurano estrinsecazione di un potere devono infatti - per regola generale - da un lato trovar fondamento in disposizioni normative, dall’altro risultare strumentali a conseguire le finalità individuate (sempre da norme) ed essere esercitati nel rispetto delle regole procedimentali[10]. La Pubblica amministrazione è tenuta a perseguire l’interesse pubblico alla stessa affidato (pur essendo titolare di sfere più o meno ampie di discrezionalità sulla scelta dell’an, del quando e del quomodo del provvedere) e, nel fare ciò, non può utilizzare uno strumento o un potere di cui dispone per finalità diverse da quelle per le quali l’uso di detto strumento o potere è previsto (pena il sorgere di profili di illegittimità dell’attività e dei provvedimenti che ne costituiscano eventualmente estrinsecazione, nei termini della più antica declinazione dell’eccesso di potere rappresentata dal c.d. «sviamento»[11]) né tantomeno esercitare il potere secondo modalità diverse da quelle previste dalle norme o, a maggior ragione, “inventarsi” un potere o una funzione (che risulterebbero addirittura affetti da nullità per carenza assoluta di attribuzione)[12].
A dispetto di quanto sopra - e della presenza di tale regola generale che affonda le proprie radici in disposizioni e principi costituzionali - i poteri impliciti delle Pubbliche amministrazioni sono una realtà ben presente nel nostro ordinamento e riconosciuta, come legittima, da gran parte della dottrina e della giurisprudenza; una realtà, tuttavia, che - lo si dirà meglio nel prosieguo - ha posto non pochi problemi e interrogativi, che si fanno ancor più delicati in riferimento a quella particolarissima tipologia di funzione amministrativa costituita dalla regolazione (nelle sue varie declinazioni[13]) vale a dire quella attività a mezzo della quale un organismo - solitamente un’Autorità indipendente - detta regole concernenti il funzionamento di uno specifico settore, in riferimento a determinati aspetti, e che quindi risulta “pericolosamente” vicina alla normazione (prerogativa, quest’ultima, degli organi politici o comunque rappresentativi[14]).
In riferimento alla funzione regolatoria, il “surplus” di problematicità è dovuto alla constatazione che rispetto alla stessa si rinvengono norme “attributive” - di poteri e funzioni ad organismi - connotate da un grado solitamente alto di genericità: non di rado, tali norme si limitano a individuare gli obiettivi che l’attività dell’organismo deve perseguire e a delineare le funzioni e i poteri dello stesso, senza tuttavia dettagliare questi ultimi[15].
Trattasi di uno schema ordinario per quanto concerne la regolazione, che si giustifica principalmente in ragione dell’esigenza di garantire l’effettività e l’efficacia della medesima: una predeterminazione normativa eccessivamente rigida circa presupposti e modalità di esercizio del potere regolatorio può tradursi infatti in un vincolo troppo forte per il soggetto che ha la titolarità dello stesso (che qui chiameremo genericamente «Regolatore»), con sostanziale svuotamento della funzione e venir meno della stessa ratio del conferimento del potere[16], il quale, per avere senso e significato, richiede che il Regolatore medesimo possa “scrivere le regole” del proprio settore effettuando valutazioni e scelte connotate da un alto grado di discrezionalità (amministrativa o tecnica)[17].
L’attività regolatoria, dunque, non può esercitarsi, a cagione delle sue caratteristiche intrinseche, a mezzo di schemi e modelli predeterminati e “tipici”. L’ampiezza e la “genericità” degli obiettivi da perseguire - cui si collega un’attribuzione ampia di poteri, caratterizzati da un grado di discrezionalità (sia essa amministrativa o tecnica) piuttosto elevato - impone il conferimento dei poteri medesimi a mezzo di disposizioni normative che non siano formulate con un grado di eccessivo dettaglio (che sarebbe suscettibile di paralizzare le funzioni e di vanificare l’effettività e l’efficacia delle stesse).
Ne consegue ciò che parte della dottrina ha definito in termini di «caduta», altra di «deroga», altra ancora di «dequotazione»[18] del principio di legalità (riferito all’esercizio della funzione), problema rispetto al quale l’elaborazione tanto dottrinale quanto giurisprudenziale si è ormai rassegnata a constatare l’impossibilità di fornire una soluzione definitiva, se non in termini di ricerca e messa a punto di strumenti di compensazione.
Il vulnus al principio di legalità che tanto la regolazione (per sua stessa natura) quanto il riconoscimento ad Autorità indipendenti di poteri impliciti determina non può essere sanato, se non al prezzo di rendere ineffettiva e inefficace l’attività delle Autorità stesse, potendo al più essere compensato: e detta compensazione - una volta constatata l’impossibilità di imbrigliare i poteri delle Authorities, e di quelle di regolazione in particolare, all’interno di una predeterminazione rigida di presupposti, condizioni, e modalità di esercizio dei poteri stessi - può avvenire solo a mezzo di un’implementazione degli istituti partecipativi (rafforzamento della c.d. «legalità procedimentale»)[19]; non è certo un caso che, rispetto alle funzioni delle Autorità indipendenti (e di quelle di regolazione in particolare), il legislatore abbia previsto, spesso a ciò “delegando” le Autorità stesse, la messa a punto di istituti partecipativi particolarmente «avanzati», che prevedono schemi riconducibili al «notice and comment»[20] ovvero ad istituti ancora più “inclusivi”.
Ai soggetti che, a vario titolo, vengano a rapportarsi con poteri regolatori - quali diretti destinatari degli stessi o operatori di uno specifico settore regolato - ovvero con poteri «impliciti», deve dunque essere garantita una partecipazione procedimentale effettiva: se tale partecipazione non è assicurata, viene meno quell’elemento di compensazione della dequotazione del principio di legalità sostanziale che secondo l’orientamento giurisprudenziale e dottrinario maggioritario (anche se non pacifico) costituisce l’unico accettabile compromesso di ammissibilità riguardo all’attribuzione di funzioni regolatorie - difficilmente predeterminabili e “imbrigliabili” a priori e per via normativa - ed al riconoscimento della titolarità di poteri impliciti - “atipici” e “innominati” per definizione - ad Autorità politicamente irresponsabili (come quelle indipendenti)[21].
4. I poteri impliciti e il tema della strumentalità
Si è detto che dottrina e giurisprudenza riconoscono ormai senza troppe incertezze l’esistenza e l’ammissibilità, in termini di legittimità, di poteri impliciti in capo alle Autorità amministrative indipendenti: esigenza che secondo alcuni Autori sarebbe addirittura “imposta” dalla genericità e dalla indeterminatezza che caratterizza molte norme attributive di poteri (specie regolatori)[22].
L’esercizio di poteri impliciti è però ritenuto legittimo solo al ricorrere di specifici presupposti, uno dei quali concerne la strumentalità di tali poteri.
In pressoché tutti gli studi e i contributi che si sono occupati di «poteri impliciti» si rinviene infatti l’affermazione secondo la quale poteri consimili, per poter essere considerati ammissibili e legittimi, devono mostrare un collegamento con “qualcosa” di esplicito; tale collegamento viene normalmente declinato (appunto) in termini di strumentalità: poteri innominati non possono esistere di per sé - tantomeno essere esercitati - ma solo se ed in quanto strumentali a “qualcos’altro”.
Dato ciò per condiviso, è sul “complemento di termine” dell’essere strumentale dei poteri impliciti che si registra, in dottrina, qualche oscillazione.
Ed infatti, una prima declinazione (che potremmo definire “forte” o “radicale”) della teoria dei poteri impliciti - della quale si rinvengono tracce in ambito europeo[23] - richiede, quale condizione di legittimo esercizio degli stessi, la sussistenza di un nesso di strumentalità tra il singolo potere (implicito) che viene in rilievo e gli obiettivi e le finalità attribuite dalle norme alla singola Autorità amministrativa. A quest’ultima, in altre parole, dovrebbe riconoscersi la titolarità di tutti quei poteri, anche non espressamente riconosciuti e tipizzati dalle norme, che risultino funzionali al conseguimento delle finalità alla stessa assegnate.
Secondo altra impostazione, più restrittiva, la strumentalità, quale caratteristica e condizione di legittimità dell’esercizio di poteri impliciti, dovrebbe invece essere valutata non già (o comunque non solo) in relazione alle finalità attribuite ad una specifica Autorità amministrativa, bensì, e soprattutto, in riferimento ai poteri espressamente riconosciuti da disposizioni normative all’Autorità stessa (e che potremmo chiamare «espliciti»). E’ stato in questo senso affermato che «implicito può essere definito quel potere autoritativo amministrativo che, pur non previsto dalla legge, corre però “parallelamente” ad un potere autoritativo tipico viceversa espressamente conferito da una norma ad un organo amministrativo, e che è legato da un nesso di “strumentalità” con l’oggetto materiale e con l’interesse pubblico cui si riferisce il potere esplicito […] In altri termini, condizione essenziale perché possa parlarsi di un potere implicito è, da un lato, che esso sia logicamente e teleologicamente necessario per consentire di portare a compimento la funzione affidata all’organo amministrativo dalla norma attributiva del potere tipico e, dall’altro, che sia da escludersi con sicurezza che esso sia previsto dalla norma stessa, anche se ricavabile in via deduttiva dalle espressioni vaghe da questa impiegate o comunque con interpretazione di tipo estensivo»[24].
In ossequio alla ricostruzione da ultimo descritta, dunque, l’ammissibilità - in termini di legittimità - di un potere non espressamente attribuito e tipizzato da una disposizione normativa (dunque implicito) richiede che lo stesso sia strumentale al più effettivo ed efficace esercizio di un potere «esplicito» (ovvero codificato).
Trattasi di differenza di impostazione di non poco conto: come è infatti immediatamente percepibile, dall’adesione all’una piuttosto che all’altra tesi discendono conseguenze di non secondario rilievo circa l’ampiezza del novero dei poteri (impliciti) che devono essere ritenuti ammissibili e quindi legittimamente esercitabili dalla specifica Autorità di cui si tratta.
A livello di ordinamento interno, è la seconda delle tesi esposte che sembra poter trovare cittadinanza: l’ammissibilità di poteri impliciti in capo ad un’Autorità amministrativa può in questo senso sostenersi solo nella misura in cui gli stessi risultino strumentali all’esercizio di un potere e di una funzione espressamente previsti e attribuiti da una norma.
In tale ipotesi, infatti, il principio di legalità, benché parzialmente vulnerato, non viene del tutto pretermesso: lo specifico potere implicito individuato viene ritenuto legittimo e ammissibile in quanto elemento e condizione di effettività dell’esercizio di una funzione espressamente attribuita, a sua volta strumentale al conseguimento delle finalità individuate dalla legge. Il potere implicito che viene in rilievo, pur suscettibile di essere autonomamente considerato e inquadrato, risulta così comunque riconducibile ad un potere «esplicito», rispetto al quale è possibile individuare un riferimento normativo espresso.
L’Autorità amministrativa che faccia ricorso ad un potere implicito, in tale ipotesi, non effettua un’operazione di “auto-conferimento” di prerogative e non ricorre a mezzi e strumenti del tutto estranei al complesso delle proprie attribuzioni, ma si limita a svolgere un’attività o a compiere un atto la cui effettuazione (o adozione) risulta necessaria all’esercizio effettivo di altra propria (espressamente attribuita) prerogativa.
Laddove accedessimo invece alla tesi più ampia e radicale - quella che, vale a dire, è propensa a riconoscere l’ammissibilità, in termini di legittimità, di quei poteri impliciti per i quali si rinvenga un nesso di strumentalità rispetto non già ad un altro potere (esplicito) bensì al complesso degli obiettivi da perseguire e degli interessi da tutelare - finiremmo per legittimare una pretermissione pressoché totale del principio di legalità, e una sorta di “auto-attribuzione” di poteri sganciata da qualsiasi collegamento (fosse anche minimo) con un dato normativo specifico, e rispetto al quale l’Amministrazione procedente finirebbe per sostituirsi all’attività di ponderazione di interessi compiuta dal legislatore, ovvero per affiancare a questa una propria ponderazione, con la prima in potenziale conflitto.
Quello di cui sopra non pare assunto condivisibile, anche perché il modello che esso delinea si pone in contrasto (non sanabile e difficilmente “compensabile”) oltre che con il principio democratico e con quello di legalità, con altri principi e norme costituzionali (si pensi all’art. 23 Cost.[25] e alle disposizioni che definiscono l’architrave della tutela giurisdizionale nei confronti della Pubblica Amministrazione[26]).
La strumentalità - e comunque il collegamento - di un potere implicito rispetto ad uno o più poteri “espliciti” costituisce dunque un elemento che appare irrinunciabile, se non a prezzo di slegare l’esercizio del potere pubblico da qualsiasi riferimento normativo, il che non appare accettabile[27].
Ed è proprio sul se l’accertamento disposto a mezzo della comunicazione citata la Consob abbia inteso esercitare un potere implicito e se detto potere risulti strumentale (o meno) all’esercizio di altri poteri “espliciti” che si sono incentrare le riflessioni dei Giudici di primo e secondo grado, per meglio inquadrare le quali verrà ora effettuata una rapida ricostruzione degli scopi e delle prerogative dell’Autorità.
5. Ruolo e funzioni della Consob
La Consob, in ragione del prestigio riconosciutole e del posto che occupa nel panorama istituzionale italiano, non ha certo “bisogno di presentazioni”: trattasi di Autorità amministrativa indipendente, istituita nel 1974[28], chiamata a svolgere, in riferimento ai mercati mobiliari, numerose ed eterogenee funzioni: di regolazione, di vigilanza e controllo[29], autorizzatorie[30] o approvative[31], sanzionatorie e para-giurisdizionali[32].
Rispetto ad essa, ed al suo ambito di attività, è possibile individuare e tracciare - da una prospettiva che potremmo definire “spaziale” - una sorta di perimetro esterno; operazione che risulta fondamentale nella misura in cui è rispetto a detto ambito di attività che trovano applicazione le specifiche regole frutto dell’attività regolatoria dell’Autorità (e si individua l’estensione spaziale del “settore regolato”) e si estrinsecano gli altri poteri di cui essa è titolare: si rinvengono in tal senso attività e soggetti che definiamo “regolati” - in quanto sottoposti a tutta o parte della regolazione della Consob - ed altre attività o soggetti che, pur non dovendo rispettare la regolazione di settore (e non potendo quindi essere formalmente qualificati quali “soggetti regolati”), sono comunque tenuti a osservare procedure o condotte, effettuare adempimenti o rispettare obblighi ai sensi delle disposizioni normative di riferimento e, nel fare ciò, a interfacciarsi a vario titolo con la Consob medesima.
E’ in riferimento a tale assetto che dobbiamo qui inquadrare l’istituto del “controllo societario”, che configura uno dei fattori che determina l’appartenenza di un soggetto o di un’attività al perimetro e all’ambito di operatività, anche regolatorio, della Consob.
La sussistenza di una situazione di controllo è, in particolare, rilevante ai sensi e quale presupposto applicativo di diverse disposizioni del T.U.F. che disciplinano funzioni e poteri dell’Autorità nonché, per quanto maggiormente interessa, relativamente all’applicazione della speciale disciplina concernente le operazioni «con parti correlate». Trattasi di disciplina che contempla diversi istituti, nonché specifici obblighi di condotta - previsti da varie norme (tra cui disposizioni dello stesso T.U.F.) e da specifiche disposizioni regolatorie, ed in specie dal Regolamento[33]«Operazioni con parti correlate», di cui alla delibera Consob n. 17221 del 12 marzo 2010, più volte modificato, da ultimo a mezzo della recentissima delibera 10 dicembre 2020[34] - volti fondamentalmente a garantire la trasparenza di talune operazioni ed attività, rilevanti per gli equilibri del mercato finanziario di riferimento e per la tutela degli interessi dei consumatori[35].
Con specifico riferimento alla regolazione di settore, giova rilevare che il citato Regolamento Consob fino a pochi giorni orsono elencava in uno specifico Allegato - (Allegato 1), cui faceva rinvio l’art. 3, lettera a) del Regolamento (recante “parti correlate” e “operazioni con parti correlate”) - le varie tipologie di «parti correlate», fra le quali annoverava ogni soggetto che «(a) direttamente, o indirettamente, anche attraverso società controllate, fiduciari o interposte persone: (i) controlla la società, ne è controllato, o è sottoposto a comune controllo; (ii) detiene una partecipazione nella società tale da poter esercitare un’influenza notevole su quest’ultima; (iii) esercita il controllo sulla società congiuntamente con altri soggetti; (b) è una società collegata della società».
Una recente novella (del dicembre 2020) ha eliminato il riferimento all’Allegato 1 contenuto nel predetto art. 3, lettera a), sostituendolo con un richiamo ai «principi contabili internazionali adottati secondo la procedura di cui all'art. 6 del regolamento (CE) n. 1606/2002», nei quali si rinvengono parimenti riferimenti alla nozione di controllo[36].
La sussistenza di una situazione di controllo societario è dunque elemento suscettibile di attribuire ad un soggetto la qualifica di «parte correlata», e quindi di costituire presupposto “applicativo” della disciplina regolatoria di settore nonché fattore di riconducibilità di un’attività o di un soggetto all’ambito di operatività della Consob.
Sul piano oggettivo, la disciplina del Regolamento in parola è volta ad assicurare «la trasparenza e la correttezza sostanziale e procedurale delle operazioni con parti correlate realizzate direttamente o per il tramite di società controllate»[37]. A tali fini, il Regolamento prevede in capo ai soggetti che effettuino operazioni con «parti correlate» (tra le quali, come detto, figurano le società controllate e controllanti) il sorgere di alcuni obblighi (principalmente informativi, specie in favore del pubblico, e comunque volti a garantire la trasparenza delle operazioni[38]), rispetto ai quali alla Consob sono riconosciuti poteri di vigilanza (con la possibilità per la stessa di richiedere informazioni e documenti, nonché eseguire ispezioni)[39] oltre che inibitori (con finalità cautelative rispetto alle ripercussioni che operazioni non trasparenti e informazioni non corrette potrebbero produrre sul mercato e sui consumatori)[40].
Costituisce dunque - quella concernente la qualifica di un soggetto quale “parte correlata” e, per esso, della sussistenza di una situazione di controllo societario - attività per la quale si rinviene certamente un nesso di strumentalità con taluni compiti e poteri della Consob, configurando anzi la medesima un vero e proprio presupposto di esercizio dei descritti poteri e delle accennate funzioni (oltre a costituire elemento suscettibile di incidere sulla sfera giuridico/economica del soggetto che vede attribuirsi detta qualifica, con il conseguente sorgere di uno specifico interesse a ricorrere avverso l’atto attributivo della qualifica medesima).
6. Il potere esercitato nel caso concreto e la sua qualificabilità in termini di potere implicito
Le considerazioni di cui sopra portano a chiedersi se, nel caso di specie, la Consob - nell’adottare un atto contenente l’accertamento, e la conseguente “qualificazione”, della posizione di Vivendi quale socio controllante di Telecom -abbia o meno esercitato un «potere implicito», alla stessa non espressamente conferito dalla legge (e dunque necessariamente “atipico” e “innominato”).
Giova evidenziare che, come accennato in apertura di contributo, in senso affermativo si è espresso il Consiglio di Stato, che ha argomentato tale affermazione prendendo le mosse da una precisa e colta ricostruzione della teoria dei poteri impliciti per poi effettuare una illustrazione delle ragioni per le quali poteri consimili dovessero ritenersi sussistenti nel caso di specie.
Al fine di commentare le conclusioni del Collegio - e formulare un giudizio concernente la condivisibilità o meno delle stesse - occorre brevemente richiamare le due impostazioni (in precedenza illustrate) che si rinvengono, nel panorama dottrinale, in riferimento ai poteri impliciti, e cercare di comprendere se e a quale di esse il Collegio abbia inteso aderire.
Sul punto, il primo rilievo che occorre effettuare concerne il fatto che i Giudici hanno chiaramente sottolineato come il potere esercitato dalla Consob (avente ad oggetto «la definizione e le modalità applicative di un concetto, quale è quello relativo al controllo di fatto societario» ed espressamente definito “implicito”) non fosse risultato prodromico (e quindi strumentale) «all’esercizio di altri specifici poteri» (punto 4.1 della sentenza).
Trattasi di elemento piuttosto rilevante, specie in considerazione della centralità che, come detto, al tema della “strumentalità” deve essere riconosciuta nell’ambito della teoria dei poteri impliciti.
Secondo i Giudici, la legittimità (ammissibilità) dell’accertamento della sussistenza di una situazione di controllo societario in capo a Vivendi, e della deduzione di tale accertamento/qualificazione in un atto ad hoc, doveva ricavarsi «dall’intero impianto normativo e dalla stessa funzione generale che il legislatore ha inteso assegnare alla Consob» (punto 4.2 della sentenza in commento). Si sarebbe trattato di un potere definito di «regolazione dichiarativa», il cui esercizio sarebbe stato funzionale a fornire “certezza giuridica” alle stesse Società ricorrenti ed in generale agli operatori economici del settore (nonché ai consumatori), nell’ottica di «assicurare il corretto funzionamento del mercato finanziario e l’interesse generale degli investitori e dei risparmiatori» (punto 4.1).
Così definite le coordinate ermeneutiche, una interpretazione particolarmente - forse eccessivamente - aderente al tenore letterale della motivazione (si richiamano gli elementi testuali appena citati) indurrebbe a ritenere che il Consiglio di Stato abbia inteso riferirsi a quell’impostazione “forte” o “radicale” della teoria dei poteri impliciti che postula come necessario (ma al contempo sufficiente) un nesso di strumentalità tra il potere non codificato e l’obiettivo o la finalità assegnati alla singola Autorità amministrativa che viene in rilievo (la Consob, nel nostro caso).
Il potere «di regolazione con funzione di accertamento» esercitato dalla Consob sarebbe stato, nel caso di specie, direttamente preordinato a conseguire due delle diverse finalità assegnate all’Authority - la garanzia del corretto funzionamento del mercato finanziario e l’interesse generale degli investitori e dei risparmiatori - mediante produzione di effetti di «certezza» nei confronti degli operatori del mercato[41]: un potere, dunque, volto a fornire in via autonoma e diretta tutela a beni giuridici e interessi, e non a garantire l’efficacia e l’effettività di altri poteri della medesima Consob (dunque apparentemente non strumentale all’esercizio di questi ultimi).
Se questa fosse l’interpretazione corretta da attribuire al passaggio della motivazione in oggetto (ma, si ritiene, è possibile avanzarne anche una diversa, come si illustrerà nell’immediato prosieguo) la sentenza si esporrebbe a critiche, dal momento che l’apparato argomentativo della stessa risulterebbe riconducibile a quella declinazione ampia della teoria dei poteri impliciti che, come si diceva, non pare ammissibile nel nostro ordinamento, in quanto troppo sacrificante per il principio di legalità (che verrebbe in larga misura pretermesso) anche perché suscettibile - in astratto - di legittimare un proliferare di poteri atipici e innominati.
Da tale interpretazione, in sostanza, discenderebbe il riconoscimento, in capo alla Consob, del potere di adottare un atto volto (in via se non esclusiva quantomeno principale) a fornire certezze agli operatori del settore - mediante accertamento e attribuzione (all’accertamento conseguente) di una specifica qualifica - potere che sarebbe di per sé, ed autonomamente, funzionale a perseguire gli interessi e gli obiettivi alla stessa Consob affidati dalle disposizioni normative di riferimento; il nesso di strumentalità legherebbe dunque direttamente il potere esercitato e i predetti obiettivi, e configurerebbe pertanto adesione a quella che in precedenza abbiamo definito declinazione “radicale” della teoria dei poteri impliciti, che appare difficilmente compatibile con il nostro assetto ordinamentale.
Della suscettibilità di una simile impostazione a esporsi a critiche pare del resto consapevole lo stesso Consiglio di Stato.
Il Collegio riconosce infatti che un potere consimile non si rinviene codificato espressamente in norme di diritto positivo, dovendosi piuttosto ricavare, come si è detto, «dall’intero impianto normativo e dalla stessa funzione generale che il legislatore ha inteso assegnare alla Consob»; trattasi di «base legale» espressamente definita «debole»[42], dai Giudici, ma ritenuta comunque bastevole a fondare la legittimità del potere esercitato, anche - e soprattutto - in considerazione del fatto che la mera «valenza di regolazione dichiarativa», al potere stesso riconosciuta[43], doveva ritenersi suscettibile di fondare «un giudizio di minore rigore rispetto alla necessità che sussist[esse] una adeguata base legale sostanziale», con tuttavia la parallela esigenza di un rafforzamento delle garanzie di partecipazione procedimentale.
A quella appena esposta, che è stata commentata in senso critico, è però forse possibile affiancare una seconda lettura interpretativa, che pur apparendo meno aderente al dato strettamente letterale della pronuncia risulta comunque sostenibile alla luce della motivazione complessiva offerta dal Consiglio di Stato, e rispetto alla prima maggiormente condivisibile.
L’elemento centrale dell’interpretazione “alternativa” che si è qui ad offrire si ritiene debba rinvenirsi nel fatto che, con l’affermare che il potere esercitato fosse strumentale ad «assicurare il corretto funzionamento del mercato finanziario e l’interesse generale degli investitori e dei risparmiatori», il Consiglio di Stato intendesse non già sostenere la strumentalità del potere esercitato rispetto alle sole finalità della Consob (e non dunque ad un potere), bensì riferire detta strumentalità all’insieme delle prerogative di cui quest’ultima è titolare - rispetto alla materia delle “operazioni con parti correlate” - e, in particolare, alla funzione di vigilanza di cui si è in precedenza detto.
La pronuncia dovrebbe in questo senso leggersi come volta ad affermare che l’accertamento della sussistenza di una situazione di «controllo societario» costituisca fattore di riconducibilità di un soggetto o di un’attività al perimetro di operatività delle prerogative della Consob (siano esse regolatorie, di vigilanza o di altro tipo), e dunque elemento necessariamente strumentale all’esercizio di queste.
L’interpretazione ora esposta sembra idonea a superare le criticità che si sono in precedenza evidenziate: in base ad essa, l’accertamento circa la posizione di “controllante” di una società (rispetto ad un’altra) configurerebbe il presupposto per la riconducibilità di tale società al perimetro di applicazione di una disciplina speciale e specifica rispetto alla quale la Consob è titolare di talune attribuzioni, risultando dunque attività strumentale all’esercizio delle attribuzioni stesse, non già estrinsecazione di altra “autonoma” prerogativa (volta a fornire “certezze pubbliche” agli operatori del settore) che il legislatore - nell’individuare gli obiettivi e i poteri da conferire all’Autorità al fine di conseguire i medesimi - non ha ritenuto di prevedere.
Se lette secondo l’interpretazione appena fornita, le argomentazioni del Consiglio di Stato appaiono sostenibili, nella misura in cui un nesso di strumentalità dell’effettuato accertamento rispetto ad altri poteri (di vigilanza, di controllo, sanzionatori), benché inteso in senso ampio, comunque si rinviene, e dunque non risulta necessario accedere a quella declinazione “radicale” della teoria dei poteri impliciti che, per le ragioni che si sono precedentemente esposte, non pare accettabile.
In realtà, a ben vedere, potrebbe persino discutersi se nel caso di specie risultasse indispensabile “scomodare” la teoria dei poteri impliciti, dal momento che l’attività di verifica della sussistenza di un elemento di riconducibilità di un soggetto o di un’attività all’ambito di operatività della Consob - e in specie al quadro regolatorio di settore - non pare neppure necessitare della qualificazione di potere “a sé stante”, configurando piuttosto elemento necessario del generale agere dell’Autorità, non logicamente scindibile e separabile dalle prerogative (esplicite) della stessa, come peraltro sembra aver ritenuto, all’esito del giudizio di primo grado, il T.a.r. (che al punto 8.3 della sentenza ha qualificato l’accertamento della natura di «socio controllante» di Vivendi in termini di «segmento logico necessario dell’indagine svolta nel perimetro delle attribuzioni [della Consob] derivanti dalla disciplina delle operazioni con le parti correlate, ai sensi del combinato disposto tra l’art. 2391-bis c.c. e l’art. 114, comma 5, del TUF, per l’applicazione del quale l’esistenza di una situazione di controllo di fatto in senso civilistico è un presupposto soggettivo senz’altro rilevante»).
Due letture - che pur seguendo percorsi argomentativi parzialmente diversi giungono a conclusioni sostanzialmente sovrapponibili - risultano dunque possibili: l’accertamento in capo a un soggetto della qualifica di socio controllante è attività che risulta prodromica all’esercizio dei poteri della Consob in materia di «operazioni con parti correlate» (e dunque se di potere implicito deve parlarsi è possibile rinvenire un nesso di strumentalità rispetto non già ai soli fini e obiettivi attribuiti alla Consob medesima, ma anche agli stessi poteri di cui questa è titolare, ed in specie a quelli di vigilanza); è però altresì sostenibile che non sia necessario neppure parlare di «poteri impliciti» costituendo, il più volte citato «accertamento», un «passaggio logico» necessario e prodromico all’esercizio, da parte della Consob, delle proprie prerogative, non inquadrabile in via separata da queste.
Il fatto, poi, che l’attività di accertamento sia stata dalla Consob esercitata in modo “formalmente” autonomo, vale a dire al di fuori di un procedimento concernente esercizio di altre funzioni della Consob medesima, non determina di per sé il sorgere di profili di criticità: come detto, a mezzo di tale attività, e dell’atto che ne costituisce estrinsecazione, la Consob viene sostanzialmente a rappresentare ad un soggetto la circostanza secondo cui sussistono i presupposti per l’applicazione di una disciplina specifica (nel caso di specie, quella concernente le operazioni tra parte correlate) e per l’esercizio dei poteri dalla stessa prevista: il fatto che ciò avvenga a mezzo di atto autonomo non si riverbera sul profilo della strumentalità e non produce di per sé alcuna lesione alle prerogative e in generale alla sfera giuridica del citato soggetto, offrendo anzi a quest’ultimo un’ulteriore occasione di partecipazione procedimentale (ovvero di accesso alla tutela giurisdizionale) e determinando il sorgere di un autovincolo per l’Autorità la quale, ove dovesse, nell’esercizio di uno dei propri poteri “espliciti”, orientarsi diversamente circa la qualificabilità di una situazione in termini di controllo, dovrebbe congruamente motivare in tal senso (o, addirittura, ragionare in termini di revoca o comunque di autotutela).
Ciò posto, e in conclusione di ragionamento, affinché la ricostruzione di cui sopra risulti effettivamente sostenibile deve ulteriormente precisarsi che l’accertamento effettuato (e la qualifica attribuita) non dovrà essere suscettibile di produrre effetti «esterni»; riferiti vale a dire, ad ambiti e settori diversi da quelli concernenti i poteri e le attribuzioni Consob, rispetto ai quali (siano essi già in esercizio o suscettibili di esserlo in futuro) l’accertamento - come detto - deve risultare strumentale; ché, diversamente, saremmo in presenza di un potere (questo sì) autonomo, producente effetti lato sensu certificatori (nel senso indicato in precedenza) e non strumentale rispetto ad altri, che, come si diceva, non sembra potersi ritenere ammissibile, in quanto non attribuito alla Consob dal legislatore ed esorbitante dalla strumentalità rispetto all’esercizio di altri poteri. In altre parole, se il riconoscimento dal parte della Consob della qualifica, in capo ad un soggetto, di «socio controllante» di una società ovvero di «parte correlata» dovrà ritenersi cristallizzato - fino all’eventuale sopravvenire di altri atti amministrativi o di pronunce giurisprudenziali - in riferimento al settore regolato e alla disciplina speciale concernente le operazioni con parti correlate (in relazione alle prerogative della Consob medesima), rispetto ad altri ambiti in cui l’istituto del controllo societario dovesse venire in rilievo (si pensi, tra le varie, alle disposizioni del T.U.S.P.[44]) tale accertamento potrà al più configurare un fattore “indiziario”, non già un elemento cristallizzato che deve essere necessariamente considerato sussistente (o meno, a seconda delle determinazioni della Consob).
In conclusione, deve condividersi l’affermazione, effettuata dal Consiglio di Stato, relativa alla legittima sussistenza, in capo alla Consob, di un potere (che abbiamo qualificato “di accertamento”) come quello esercitato nel caso Vivendi - Telecom con la «comunicazione» in commento; allo stesso modo, il percorso argomentativo seguito dal Collegio appare condivisibile solo se allo stesso si attribuisce un’interpretazione che rigetta un’impostazione che aderisce ad una declinazione della teoria dei poteri impliciti che postula come necessaria la sola strumentalità tra detti poteri e gli obiettivi che la singola Autorità (la Consob, nel nostro caso) è chiamata a conseguire.
A tale conclusione può giungersi qualificando l’accertamento quale attività funzionale a verificare l’estensione ad una specifica situazione dell’ambito di applicazione di talune prerogative dell’Authority, ovvero individuando comunque per lo stesso un nesso di strumentalità forte con altri poteri (espliciti) della medesima.
7. La violazione delle garanzie partecipative di Vivendi e Telecom
Da ultimo, preme analizzare la statuizione del Consiglio di Stato concernente il secondo motivo di ricorso (e dunque il secondo capo di sentenza oggetto di appello), relativo alla asserita violazione delle garanzie procedimentali di Vivendi(e Telecom) e l’applicabilità al caso di specie del disposto del secondo periodo del secondo comma dell’art. 21-octiesdella legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15), il quale dispone che il provvedimento amministrativo non sia comunque annullabile «per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato»[45].
La censura proposta dalle due società, tanto in primo quanto in secondo grado, concerneva il fatto che, pur essendosi verificate diverse interlocuzioni tra le società stesse e la Consob, quest’ultima non avesse provveduto ad inviare formale comunicazione di avvio del procedimento, né bandito una consultazione pubblica (dal Consiglio di Stato ritenuta necessaria in ragione della idoneità dell’accertamento a «fornire indirizzi generali agli operatori economici del mercato finanziario»).
Le predette interlocuzioni non sono state ritenute idonee, dal Collegio, a “sanare” la mancata comunicazione di avvio del procedimento (contrariamente a quanto rilevato dai Giudici di prime cure[46]); ma non è questo il passaggio motivazionale che maggiormente attira l’attenzione e che merita un commento[47].
L’elemento su cui occorre effettuare un breve focus è piuttosto l’affermazione concernente la non applicabilità, al caso di specie, del disposto del secondo periodo del secondo comma dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990.
Scrive, in merito, il Consiglio di Stato: «si tratta di una norma che ha previsto in generale una “dequotazione della legalità procedimentale” ma, come esposto, in questo caso si deve realizzare un rafforzamento di tale legalità per compensare la “dequotazione della legalità sostanziale”[48]. L’attribuzione, nella fattispecie in esame, di un fondamento costituzionale al diritto di partecipazione impone di interpretare l’art. 21-octies nel senso che esso non possa trovare applicazione».
Ed ancora: «anche a volere prescindere dall’effettivo perimetro applicativo di tale norma, in ogni caso, è la stessa natura del potere esercitato che impedisce di svolgere un giudizio prognostico favorevole alla pubblica amministrazione in ordine alla irrilevanza di una eventuale partecipazione. Vengono, infatti, in rilievo ampi profili decisori di contenuto giuridico che implicano valutazioni le quali rinvengono proprio nel procedimento la loro sede naturale».
In sostanza, a giudizio del Consiglio di Stato la debole “base normativa” fondativa del potere e il carattere implicito e innominato di quest’ultimo avrebbero imposto un rafforzamento delle garanzie procedimentali che non avrebbe consentito il ricorso ad un istituto (quale quello della “sanatoria” prevista dal citato secondo periodo del secondo comma dell’art. 21-octies) il quale, pur espressamente previsto dal legislatore e valevole in via generale, non potrebbe trovare applicazione in una fattispecie consimile, a prescindere dall’effettiva capacità dell’Amministrazione di dimostrare in concreto che il contenuto del provvedimento non «avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».
Tali affermazioni del Consiglio di Stato, a giudizio dello scrivente, non paiono condivisibili.
Le esigenze di rafforzamento della legalità procedimentale, funzionali a compensare il vulnus alla legalità sostanziale, sono certo reali e concrete (rispetto ad esse richiamiamo quanto detto in precedenza sul tema della compensazione della dequotazione della legalità sostanziale a mezzo di implementazione della legalità “procedimentale” dell’attività delle Autborities, specie ove vengano in rilievo poteri impliciti delle stesse) e molto correttamente il Consiglio di Stato le ha poste in evidenza; che ciò possa tuttavia spingere a ritenere non applicabile in sede processuale una disciplina normativa sulla base di un’interpretazione “costituzionalmente orientata” della disciplina normativa medesima appare invece dubbio, specie in considerazione del fatto che, all’istituto in parola, il legislatore ha volutamente conferito un ambito di applicabilità particolarmente ampio, più esteso perfino di quello previsto per i vizi procedimentali diversi dal mancato invio della comunicazione di avvio del procedimento, per i quali, come si è detto, l’applicabilità della “sanatoria” processuale è circoscritta ai provvedimenti aventi natura “vincolata” (riferimento che invece non si rinviene rispetto alla mancata comunicazione di avvio del procedimento).
Ciò vale in via generale e anche con specifico riferimento al caso di specie, nel quale è venuto in rilievo un potere della Consob che - pur volto a verificare la sussistenza di elementi dotati di un certo grado di oggettività - pare connotato da un certo grado di discrezionalità (non già amministrativa bensì tecnica) o comunque espressione di un’attività che non pare riconducibile ad un semplice accertamento tecnico, inteso quantomeno nel suo significato più puro[49]; il tutto rafforzato poi dal fatto che, come rilevato in primo grado, tanto Vivendi quanto Telecom erano state messe in condizioni di interloquire ampiamente con l’Autorità.
Piuttosto, laddove il Consiglio di Stato avesse dubitato circa l’applicabilità alla fattispecie del secondo periodo del secondo comma dell’art 21-octies della legge n. 241/1990, e in generale della legittimità (costituzionale) dello stesso, quest’ultimo avrebbe dovuto far ricorso allo strumento dell’incidente di costituzionalità, sollevando la questione dinanzi alla Consulta.
Parimenti, le esigenze di rafforzamento della legalità procedimentale - correttamente evidenziate dal Consiglio di Stato - ben potevano essere garantite richiedendo alla Consob uno sforzo motivazionale particolarmente rigoroso (anche a cagione dei margini di discrezionalità di cui la stessa disponeva) sulla sussistenza dei presupposti di applicabilità del secondo periodo del secondo comma dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, e dunque sulle ragioni per le quali l’eventuale comunicazione di avvio e la conseguente partecipazione procedimentale delle società non avrebbero influito sul contenuto dell’atto concretamente adottato.
8. Note conclusive
In conclusione, e riprendendo le considerazioni fin qui effettuate, deve ribadirsi che la sentenza si segnala positivamente per aver riacceso l’attenzione sul tema dei poteri impliciti e, in riferimento alle doglianze espresse da Vivendi e Telecom con il primo motivo di ricorso, per le conclusioni a cui è giunta circa la legittimità della comunicazione Consob oggetto di impugnazione.
Quanto poi al giudizio concernente il concreto iter argomentativo seguito, a chi scrive pare che il medesimo possa essere positivo purché risulti possibile fornire alla pronuncia in commento una determinata interpretazione.
Ed infatti, l’affermazione circa la legittimità di un potere come quello ipotizzato dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato - non tipizzato da norme (dunque implicito) e ritenuto ammissibile sulla base del complesso delle disposizioni concernenti la Consob ed in quanto strumentale al raggiungimento di uno degli obiettivi alla stessa affidato (la “generalissima” garanzia del buon funzionamento del mercato) - appare discutibile.
Chi scrive ritiene infatti certamente accettabile un approccio elastico (rectius: teleologico) al principio di legalità, che dia dello stesso una lettura che escluda rigidi formalismi e quindi la necessità che ogni singolo potere o atto della Pubblica amministrazione sia previsto e dettagliatamente disciplinato dalla legge (quanto a presupposti applicativi e modalità di esercizio). Sul piano pratico, peraltro, un’adesione ad una lettura rigida o “formalistica” del principio di legalità si tradurrebbe (anche in questo caso come già segnalato) nell’abbandono di un modello di presenza del potere pubblico nel mercato imperniato sul conferimento di deleghe regolatorie ad Autorità indipendenti, il che allo stato non pare risultato auspicabile né obiettivo inserito nelle agende politiche dei principali ordinamenti europei.
Allo stesso modo, una declinazione del principio di legalità in senso “eccessivamente teleologico” e deformalizzato rischierebbe di tradursi in un totale svuotamento dello stesso, il che, per le descritte ragioni, non pare risultato accettabile.
Sostenere che un’Autorità indipendente (ed in particolare di regolazione) possa esercitare poteri che la legge non le ha espressamente conferito purché (leggasi: alla sola condizione che) i medesimi risultino strumentali (e indispensabili) al conseguimento degli obiettivi assegnati all’Autorità stessa significa, come è intuibile, circoscrivere l’operatività del principio di legalità alla mera definizione degli obiettivi (cosa che, peraltro, avviene sovente in termini ampi e generici), il che non pare reggere rispetto ad un vaglio di compatibilità con le disposizioni e i principi della Carta.
La strumentalità, quale condizione di ammissibilità e legittimità di un potere implicito, deve sempre rinvenirsi, e in riferimento non già ai soli obiettivi assegnati ad un’Autorità, bensì anche - e soprattutto - a poteri di cui quest’ultima è titolare.
Ciò detto, a ben vedere è forse possibile, come si diceva, interpretare la pronuncia in esame (forse un po’ forzandone il dato letterale) come volta a legare l’affermazione della legittimità del potere esercitato alla riconosciuta strumentalità dello stesso rispetto all’effettivo ed efficace esercizio, da parte della Consob, dei poteri alla stessa esplicitamente attribuiti per il conseguimento del fine del corretto funzionamento del mercato (e della tutela dei consumatori), ed in specie a quelli di vigilanza.
Una lettura consimile appare maggiormente compatibile con il nostro quadro ordinamentale, proprio perché valorizza l’elemento della strumentalità fra poteri impliciti e poteri espliciti nel senso che appare accettato da dottrina e giurisprudenza; non può tuttavia non sottolinearsi nuovamente come ad un giudizio positivo (circa la legittimità del potere esercitato dalla Consob) si sarebbe potuti giungere anche a prescindere da un ricorso all’apparato argomentativo offerto dalla teoria dei poteri impliciti: il riconoscimento in capo ad un soggetto della qualifica di socio controllante (di altra società) pare configurare un elemento prodromico e un passaggio necessario all’esercizio, da parte della Consob,delle funzioni in materia di «operazioni con parti correlate», e dunque semplice “condizione” del loro esercizio (la sussistenza della quale deve essere verificata), non configurante un potere a sé stante, implicito e innominato.
Né particolari ostacoli giuridici si rinvengono rispetto al fatto che tale potere venga esercitato “in via autonoma” (vale a dire nell’ambito di un procedimento a ciò specificamente dedicato).
Piuttosto, appare da rigettare l’ipotesi di configurare in capo alla Consob medesima un potere lato sensu certificatorio, volto - in via esclusiva o principale - a produrre certezze giuridiche per gli operatori del settore. Non è certo da escludersi che tale effetto possa prodursi, ma ciò deve avvenire incidentalmente - quale effetto secondario - e non già quale scopo ultimo del potere esercitato, posto che, diversamente, verrebbe meno il necessario “nesso di strumentalità” di cui più volte si è detto.
Inoltre, agli effetti di detto potere non deve potersi riconoscere “rilevanza esterna” rispetto al settore regolato e, in generale, alle attribuzioni della Consob; in buona sostanza, il riconoscimento in capo ad un soggetto della qualifica di socio controllante e/o parte correlata, effettuato dall’Autorità, non potrà essere fatto valere al di fuori del settore regolato o comunque della disciplina specifica.
Ed infatti, un potere consimile avente rilevanza “esterna” (i cui effetti, vale a dire, possano in ipotesi esercitarsi anche in ambiti e settori diversi da quelli cui si riferiscono le attribuzioni della Consob) dovrebbe, per poter essere considerato legittimo, risultare espressamente attribuito da una norma, a giudizio di chi scrive.
Un giudizio di non condivisione delle statuizioni del Consiglio di Stato si ritiene debba invece essere espresso in riferimento al secondo vizio dedotto dalle parti ricorrenti (ed esaminato dal Collegio): quello concernente la mancata comunicazione alle società dell’avvio del procedimento. Le argomentazioni circa la ritenuta non applicabilità del secondo periodo del secondo comma dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990 non appaiono convincenti, per le ragioni già esposte in precedenza alle quali, per brevità, si rinvia.
Queste le prime riflessioni “a caldo” che la pronuncia in esame ha suscitato in chi scrive: non saranno certamente le ultime, dato che - giova ribadirlo - la pronuncia medesima ha il grande pregio di aver riacceso l’attenzione sul tema dei poteri impliciti, giungendo a conclusioni sulle quali, si ritiene, la dottrina non perderà l’occasione di confrontarsi.
[1] La letteratura in materia di Autorità amministrative indipendenti ha ormai assunto dimensioni tali che non consentono di indicare una bibliografia (seppure minima) senza correre il rischio di escludere contributi anche rilevanti. Per tale ragione, nel prosieguo ci si limiterà a indicare opere e articoli che si riferiscono a temi specifici concernenti le Authorities, principiando dai poteri impliciti, rispetto ai quali, ai fini di un inquadramento generale, si rimanda a P. Pantalone, Autorità indipendenti e matrici di legalità, Napoli, 2018; G. Morbidelli, Ricordando Nicola Bassi nella sua ricerca della legalità in difficile coabitazione con i poteri impliciti, in Riv. reg. merc., 2017, f. 2, 263 ss.; P. Pantalone, Poteri impliciti delle authorities e torsioni del principio di legalità, in Giustamm.it, luglio 2012; G. Morbidelli, Il principio di legalità e i c.d. poteri impliciti, in Dir. amm., 2007, 4, 703 ss.; N. Bassi, Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano, 2001.
[2] Comunicazione n. 106341 del 13 settembre 2017, pubblicata sul Bollettino Consob, Settembre 2017, prima quindicina.
[3] Come si legge nella citata comunicazione (al par. 1), nel gennaio 2017 il Collegio Sindacale di Telecom S.p.a., nell’ottica di dirimere un contrasto con la Società circa la qualificabilità di Vivendi quale socio controllante (della stessa Telecom), aveva interpellato la Consob, chiedendo alla medesima di esprimersi sul punto. Ne era seguita una interlocuzione che aveva coinvolto a più riprese il Collegio e la stessa Telecom (oltre a Vivendi).
[4] Sul punto, nella citata comunicazione Consob (Bollettino, cit., 44) si legge quanto segue: «la lista di Vivendi è arrivata prima con il voto favorevole del 29% del capitale votante presente in assemblea, mentre per la lista dei fondi ha votato il 28,78% del capitale presente»; sottolineava inoltre la Commissione che «non vi erano liste che avrebbero potuto contendere alla lista di Vivendi la nomina della maggioranza di amministratori», considerato che l’unica lista alternativa «aveva un numero di candidati inferiore alla metà dei componenti da eleggere, essendo una lista preordinata alla nomina di amministratori di minoranza».
[5] La Consob dava conto di quello che la stessa qualificava “evento rilevante” verificatosi successivamente all’assemblea dei soci del 4 maggio 2017. Il 27 luglio del medesimo anno, il dott. De Puyfontaine - presidente TIM e amministratore delegato di Vivendi - aveva dichiarato che quest’ultima società esercitava su Telecom attività di «direzione e coordinamento». In due pareri trasmessi da Telecom alla Presidenza del Consiglio dei ministri nell’agosto del medesimo anno (nell’ambito di un procedimento avviato dalla medesima Presidenza per l’accertamento della sussistenza degli obblighi di notifica previsti dalla disciplina in materia di c.d. “golden power”) la Società confermava l’avvenuta opzione di Vivendi per la «direzione e il coordinamento» riguardo alle modalità di gestione di Telecom. A giudizio di Consob, lo svolgimento di attività di direzione e coordinamento di un’impresa (società) richiede, in assenza di disposizioni statutarie utili allo scopo ovvero di appositi accordi contrattuali, la sussistenza di una situazione di controllo. Conseguentemente, la dichiarata sussistenza di tale “situazione” veniva a configurare un ulteriore elemento che deponeva nel senso della sussistenza di una fattispecie di controllo del socio Vivendi in Telecom.
[6] La disciplina civilistica del controllo societario è posta dall’art. 2359 c.c., il quale prevede due macro-tipologie di controllo, definite rispettivamente controllo interno e controllo esterno. Nell’ambito del controllo interno, relativo ai voti esercitabili da una società nell’assemblea ordinaria di un’altra, si distingue tra controllo «di diritto» (situazione che si configura ove una società disponga della maggioranza dei voti esercitabili, ai sensi del comma 1, n.1 del citato art. 2359 c.c.) e controllo «di fatto», che si realizza laddove una società possieda un numero di voti i quali, pur non costituendo la maggioranza di quelli esercitabili nell’assemblea ordinaria di altra società, consentano alla prima di esercitare un’«influenza dominante» sulla seconda (art. 2359, comma 1, n. 2). Infine, il controllo esterno (disciplinato dall’art. 2359, comma 1, n. 3) si configura rispetto a società «che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa». La nozione civilistica di controllo societario è richiamata da diverse discipline speciali: basti qui richiamare il Testo Unico delle Società a partecipazione Pubblica (T.U.S.P., di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, spec. art. 2, comma 1, lett. b), il Codice dei contratti pubblici (di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50) nonché, per quanto di specifico interesse, il Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (T.U.F., di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58) e la disciplina regolatoria Consob concerne le operazioni «tra parti correlate», di cui si darà conto nel prosieguo.
[7] Espressione utilizzata forse in modo atecnico, ma alla quale possiamo qui riferirci nella sua declinazione di attività di verifica, da parte di una Pubblica amministrazione, della sussistenza di una serie di fatti dai quali discendano «determinate conseguenze giuridiche» (come riportato da B. Tonoletti, L’accertamento amministrativo, 2001, part. 209 ss.). Considerata la complessità del tema, ciò che in questa sede preme mettere in luce è quello che potremmo definire il carattere «dichiarativo» - dunque non costitutivo - dell’accertamento effettuato dalla Consob: chi scrive è infatti convinto che la situazione di «controllo societario», o la fattispecie di «parte correlata», siano elementi che vengono dall’Amministrazione riscontrati, e non da questa costituiti; ciò, beninteso, non significa che si tratti di accertamento “puro e semplice”, consistente nella sola verifica della sussistenza di determinati elementi e presupposti scevra da qualsiasi profilo valutativo: la tipologia di potere esercitato dalla Consob, nel caso oggetto delle presenti riflessioni, richiede, infatti (quantomeno in riferimento alla fattispecie del controllo societario «di fatto» e al concetto di «influenza dominante») una valutazione da parte della stessa rispetto alla quale paiono rinvenirsi margini di discrezionalità (benché tecnica). Ma su questo punto si tornerà nel prosieguo.
[8] Il panorama dottrinale relativo al tema della compatibilità del modello delle Autorità amministrative indipendenti con alcuni dei più rilevanti principi costituzionali è variegato, con posizioni tra loro anche piuttosto diversificate (in senso positivo o negativo) ed aventi le più diverse sfumature; tali posizioni sono state efficacemente ricostruite da A. Police nell’opera Tutela della concorrenza e pubblici poteri, Torino, 2007, in part. 137 ss., alla quale si rinvia; sullo specifico tema del rapporto tra regolazione indipendente e “politica” si rimanda invece alla recente opera di E. Bruti Liberati, La regolazione indipendente dei mercati. Tecnica, politica e democrazia, Torino, 2019.
[9] Come osserva F. Levi, voce «Legittimità (dir. amm.)», in Enc. Dir., Milano, XXIV, 1974, 134, «l’ammissibilità di un’attribuzione implicita di un potere può costituire un problema in ogni ordinamento ispirato al principio di legalità».
[10] «Sotto il profilo delle applicazioni concrete del principio di legalità in senso sostanziale si è affermato in giurisprudenza che non è ammissibile l’attribuzione di un potere a contenuto indeterminato in capo allo Stato, alle Regioni e ai Comuni», (così F. De Leonardis, Il principio di legalità, in A. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, 2016, 14, ma le considerazioni valgono per le Amministrazioni pubbliche complessivamente considerate). Come del resto rileva F. Sorrentino, Lezioni sul principio di legalità, Torino, 2007, 3, la legalità per le pubbliche Autorità, «rappresenta il titolo ed il fondamento per l’esercizio dei loro poteri autoritativi», nonché «condizione ineliminabile del loro agire».
[11] Trattasi di «figura sintomatica» dell’eccesso di potere, che si configura qualora «un’Autorità amministrativa abbia utilizzato i propri poteri per raggiungere fini diversi da quelli per i quali i poteri le sono stati conferiti» (così G. Greco, Argomenti di diritto amministrativo, Milano, 2013,161, che cita giurisprudenza comunitaria concernente lo sviamento di potere e, in particolare, Trib. I° grado, Sez. II, 4 febbraio 2009, in causa T-145/06, nonché Corte Giust. CE, Sez. II, 15 maggio 2008, in causa C-442/04, Regno di Spagna c. Consiglio, secondo la quale: «un atto è viziato da sviamento di potere solo se, in base ad indizi oggettivi, pertinenti e concordanti, risulta adottato allo scopo esclusivo, o quanto meno determinante, di raggiungere fini diversi da quelli dichiarati o di eludere una procedura appositamente prevista dal Trattato CE per far fronte alle circostanze del caso di specie»). Partendo dall’originaria figura dello sviamento, la giurisprudenza amministrativa ha nel tempo di molto ampliato l’elenco delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere, che parte della dottrina (riprendendo la tesi di Benvenuti che definisce l’eccesso di potere quale “vizio della funzione”) considera «come autonomi e specifici vizi della funzione amministrativa» (sul punto cfr. R. Villata - M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2017, 489).
[12] Come è noto, ai sensi dell’art. 21-septies della legge n. 241/1990 «è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge». Quella del difetto assoluto di attribuzione è l’ipotesi definita anche di «carenza di potere in astratto», che si configura laddove l'Amministrazione assuma «di esercitare un potere che in realtà nessuna norma le attribuisce» (così Consiglio di Stato Sez. IV, 17 novembre 2015, n. 5228 e - conformi ed ex multis - Cons. Stato, Sez. IV, 19 dicembre 2007, n. 2273; Id., Sez. V, 2 novembre 2011, n. 5843; Id., Sez. VI, 27 gennaio 2012, n. 372; Id., Sez. V, 30 agosto 2013, n. 4323; Id., Sez. VI, 31 ottobre 2013, n. 5266). Trattasi di ipotesi di non frequente verificazione, tanto da essere definita anche quale «caso di scuola» (Cons. Stato, Sez. VI, n. 5266 del 2013, cit.), ma che in effetti proprio rispetto al tema dei poteri impliciti può conoscere occasioni di applicazione.
[13] Quella di regolazione è nozione articolata e complessa, della quale si rinvengono plurime definizioni, e che risulta difficilmente riducibile ad un insieme unitario (come rilevato recentemente da P. Lazzara, La regolazione amministrativa: contenuto e regime, in Dir. amm., 2018, f. 2, 337 ss e in part. 350-353). Solo a titolo di sommario inquadramento dell’istituto, si rileva che la regolazione viene diversamente declinata in riferimento all’oggetto della stessa (si distingue in particolare tra una regolazione economica, una regolazione tecnica e una “sociale”) nonché alla sua “intrinseca natura”; sotto questo profilo, la letteratura riconosce due macro-tipologie di funzione regolatoria: quella condizionale (che prevede la messa a punto di regole volte ad orientare le iniziative e le condotte dei privati, senza conformarle direttamente) e quella finalistica (che prevede invece una diretta conformazione, mediante scrittura di regole o esercizio di poteri di direzione, delle condotte degli operatori economici al fine del conseguimento di un determinato fine). Per una bibliografia minima sulle declinazioni finalistica e condizionale della regolazione v., tra gli altri, P. Lazzara, La regolazione amministrativa: contenuto e regime, cit; N. Rangone, voce Regolazione in Diz. Dir. Pubb., Milano, 2006, 5057 ss.; L. Torchia, Gli interessi affidati alla cura delle autorità indipendenti, in Cassese S. – Franchini C. (a cura di), I garanti delle regole, Bologna, 1996, 55 ss.; S. Cassese, La trasformazione dei servizi pubblici in Italia, in Econ. pubb., 1995, f. 5, 5 ss.; G. Vesperini, La Consob e l'informazione del mercato mobiliare. Contributo allo studio della funzione regolativa, Padova, 1993, ancora L. Torchia, Il controllo pubblico della finanza privata, Padova, 1992 e S. Cassese, Stato e mercato dopo privatizzazioni e deregulation, in Riv. trim. dir. pubbl., 1991, f. 2, 378 ss.
[14] Lo spazio e il focus del presente contributo non consentono allo scrivente di dilungarsi in considerazioni su temi quali la discrezionalità amministrativa, quella tecnica e il rapporto tra le stesse. Per brevità ci si limita a precisare che con il termine «discrezionalità amministrativa» vuole intendersi quell’attività che si estrinseca in una ponderazione tra diversi interessi (secondo la nota ricostruzione espressa da M.S. Giannini nella celeberrima opera Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1939, ora in M.S. Giannini, Scritti, vol. I, Milano, 2000); la Pubblica Amministrazione esercita invece quella che viene classicamente definita «discrezionalità tecnica» laddove si trovi a dover effettuare accertamenti e valutazioni alla stregua di criteri e regole che sono propri di determinate scienze o arti (o comunque specialistici). La nozione di «discrezionalità tecnica» - è opportuno darne conto - è oggi contestata da più parti, in dottrina, in ragione della non facile conciliabilità tra l’idea di un’attività discrezionale e i “vincoli” che gli assunti delle scienze e delle arti dovrebbero essere suscettibili di produrre in capo all’Amministrazione (sul punto si consideri che già nel 1967 Vittorio Bachelet affermava come la discrezionalità tecnica “non esistesse”, potendosi rinvenire solo «accertamenti, apprezzamenti, giudizi tecnici, che possono essere riferiti tanto ad atti discrezionali che ad atti vincolati». Cfr. V. Bachelet, L’attività tecnica della pubblica amministrazione, Milano, 1967, in part. 41).
[15] Come osserva G. Morbidelli, Poteri impliciti (a proposito della monografia di Cristiano Celone “La funzione di vigilanza e regolazione dell’Autorità sui contratti pubblici”, Giuffrè ed., Milano, 2012), rinvenibile sul sito istituzionale dell’Anac, «la legislazione si limita ad attribuire competenze di carattere generale e ad enunciare solo alcuni obiettivi rimessi alla loro cura. Ciò accade per varie ragioni rappresentate dal carattere indeterminato dei valori da tutelare (pluralismo, completezza di informazione, efficienza nel settore dei servizi di pubblica utilità, risparmio, stabilità delle banche e delle compagnie di assicurazione ecc.), e, con riguardo specifico alle competenze di regolamentazione di settori tecnici, dal fatto che sono necessari interventi connotati da elasticità, alta competenza tecnica e specialistica».
[16] Come osservato da Cons. Stato, Sez. VI, 20 marzo 2015, n. 1532, «la parziale deroga al principio di legalità in senso sostanziale (che si estrinseca, in particolare, attraverso la tipica forma di esercizio del potere regolamentare ai sensi dell'articolo 17, cit., secondo un sistema ispirato a una rigorosa tipicità) si giustifica, nel caso delle Autorità indipendenti, in ragione dell'esigenza di assicurare il perseguimento di fini che la stessa legge predetermina: il particolare tecnicismo del settore impone, infatti, di assegnare alle Autorità il compito di prevedere e adeguare costantemente il contenuto delle regole tecniche all'evoluzione del sistema».
[17] Sull’idea della regolazione quale funzione che si sostanzia, principalmente, in attività di «scrittura di regole» (a mezzo di atti normativi o atti amministrativi generali) e sulla necessità di riconoscere al titolare della funzione ampi spazi di discrezionalità (con tutti i profili di problematicità che ciò determina) ai fini tanto della garanzia dell’indipendenza dello stesso quanto dell’effettività della regolazione, mi sia consentito un rinvio a G. Barozzi Reggiani, Il «dominio delle regole». La regolazione indipendente dei settori dell’energia elettrica e del gas naturale tra matrice europea e politica nazionale, Torino, 2020.
[18] Cfr. sul punto M. Midiri, Principio di legalità sostanziale e potere regolatorio della Consob, in Giur. Comm., 2020, f. 3, 568/II.
[19] Sul tema cfr., ex multis, T.A.R. Milano, (Lombardia), Sez. II, 6 settembre 2016, n. 1629, la quale ha affermato che «con riferimento ai poteri di regolazione [dell’Aeegsi, nel caso specifico] la dequotazione del principio di legalità sostanziale, giustificata dalla valorizzazione degli scopi pubblici da perseguire, impone il rafforzamento del principio di legalità procedimentale il quale si sostanzia, tra l'altro, nella previsione di più incisive forme di partecipazione degli interessati». Di “democrazia procedimentale” ha parlato S. Cassese, Negoziazione e trasparenza nei procedimenti davanti alle Autorità indipendenti, in Aa.Vv., Il procedimento davanti alle Autorità indipendenti, Torino, 1999. Il profilo in esame, nel momento in cui viene riferito alla regolazione, assume peraltro un particolare ed ulteriore significato: dato che a mezzo della funzione regolatoria vengono costruite regole concernenti il funzionamento di uno specifico settore, la partecipazione dei (futuri) destinatari delle medesime alla loro costruzione configura un importante strumento di democrazia partecipativa che, oltre a fornire un elemento di legittimazione della funzione, rafforza l’effettività della stessa, contribuendo a far sì che gli operatori del settore compartecipino alla creazione di un insieme di regole che sentiranno come le “loro regole” (o comunque come regole non calate dall’alto ma frutto di una elaborazione in qualche misura “condivisa”) in quanto membri di una “comunità di regolati” (per un richiamo a tale ultimo concetto v., tra gli altri, O. Pini, Garanzie procedimentali e regolazione partecipata come possibili canoni di democraticità: l’esempio dell’Aeegsi, in M. Midiri - S. Antoniazzi, Servizi pubblici locali e regolazione, Napoli, 2015, 209, la quale sottolinea appunto come la partecipazione ai procedimenti regolatori configuri uno strumento atto a costruire un “rapporto” con tale comunità).
[20] Trattasi di modello, rinvenibile principalmente in riferimento ai procedimenti regolatori, riconducibile all’Administrative Procedure Act statunitense del 1946, che prevede la redazione e la successiva pubblicazione, da parte dell’Autorità procedente, di una proposta di atto, rispetto alla quale gli interessati possono inviare osservazioni e commenti di cui l’Autorità deve tener conto ai fini dell’adozione dell’atto definitivo.
[21] Sul tema della “irresponsabilità politica” delle Autorità amministrative indipendenti v., tra gli altri, V. Caianiello, Le Autorità indipendenti tra potere politico e società civile, in Foro Amm., 1997, f. 1, 341 ss.
[22] Cfr. sul punto G. Morbidelli, Il principio di legalità e i c.d. poteri impliciti, cit., 709.
[23] Sul punto occorre osservare che il primo par. dell’art. 352 del TFUE – che rispetto ai previgenti artt. 235 e 308 del TCE elimina i riferimenti al «funzionamento del mercato comune» – stabilisce che «se un'azione dell'Unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate. Allorché adotta le disposizioni in questione secondo una procedura legislativa speciale, il Consiglio delibera altresì all'unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo». Rispetto alla disposizione in esame si è parlato di «poteri impliciti» anche se chi scrive concorda con l’opinione, espressa in dottrina, secondo la quale si tratterebbe in realtà di poteri “espliciti”, attribuiti sulla base di «una procedura formale appositamente regolata per integrare i poteri delle istituzioni comunitarie, integrazione che deve rispettare i limiti e le condizioni stabiliti dalla norma» (cfr. G. Tesauro, Sovranità degli Stati e integrazione comunitaria, in Dir. Un. Eur., 2006, f. 2, 235). La vera applicazione dei principi della teoria dei poteri impliciti, in taluni casi anche nella sua versione “radicale”, si è avuta, in ambito europeo, grazie all’opera della Corte di Giustizia, in particolare a partire dalla nota pronuncia Aets (Corte giust., 31 marzo 1971, causa c. 22/70, Commissione c. Consiglio).
[24] Cfr. N. Bassi, Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, cit., 102 - 103.
[25] Il quale, come è noto, prevede che nessuna prestazione personale o patrimoniale possa essere imposta se non in base alla legge, così individuando una riserva (benché relativa) di legge che si riferisce particolarmente ai “pubblici poteri”.
[26] Ed in specie gli articoli 24 e 113 Cost. i quali riconoscono a “tutti” (anche non cittadini) il diritto di agire in giudizio «per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi» anche nei confronti di «atti della pubblica amministrazione».
[27] Sul tema v. M. Manetti, I regolamenti delle Autorità Indipendenti, in www.astridonline.it, 4 ss.
[28] A mezzo del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 91, recante «disposizioni relative al mercato mobiliare ed al trattamento fiscale dei titoli azionari» (convertito, con modificazioni, dalla legge 7 giugno 1974, n. 216). E’ stato osservato che la piena riconducibilità della Consob al novero delle Autorità amministrative indipendenti si è avuta a seguito dell’assetto che alla stessa è stato conferito dalla 4 giugno 1985, n. 281, che ha modificato la legge istitutiva (sul punto cfr. Aa.Vv., La Consob come Autorità Amministrativa Indipendente, in Consob, Quaderni di finanza, n. 42, Roma, ottobre 2000, 5).
[29] Sulla differenza tra attività di vigilanza e attività di controllo cfr. R. Calzoni, L’Anac, la vigilanza sui contratti pubblici e le prospettive di riforma, in Nomos, 2019, f. 1, 1 ss.
[30] Cfr. ad esempio la funzione di autorizzazione delle società di intermediazione mobiliare (sim) all'erogazione dei servizi e delle attività di investimento, che la Consob esercita (sentita la Banca d’Italia) sulla base di una procedura dalla stessa definita.
[31] Si pensi alla funzione di approvazione dei prospetti di offerte al pubblico ai sensi dell’art. 94 del T.U.F.
[32] Sui poteri para-giurisdizionali delle Autorità indipendenti si rimanda a E.L. Camilli - M. Clarich, I poteri quasi-giudiziali delle Autorità indipendenti, in astridonline.it, che contiene diversi riferimenti alle funzioni della Consob.
[33] Sulla natura giuridica dei Regolamenti Consob v., tra gli altri, P. Lazzara, La potestà regolamentare della Commissione nazionale per le società e la borsa in materia d’intermediazione finanziaria, in Foro Amm., 2000, f. 2, 703 ss.
[34] Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 317 del 22 dicembre 2020.
[35] In particolare, l’art. 2391-bis c.c. prevede che gli organi di amministrazione delle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio adottino regole volte ad assicurare la trasparenza e la correttezza sostanziale e procedurale delle operazioni con parti correlate (vengano esse realizzate direttamente ovvero per il tramite di società controllate e li rendono noti nella relazione sulla gestione), rendendole note nella relazione sulla gestione. La disposizione in oggetto individua (al comma 1) uno specifico ruolo per la Consob, prevedendo che essa debba dettare i “principi generali” sulla base dei quali devono essere adottate le regole volte ad assicurare la trasparenza e la correttezza delle operazioni. Il comma 3 dell’articolo in oggetto dispone poi che la Consob, «nel definire i principi indicati nel primo comma, individua, in conformità all'articolo 9 quater della direttiva 2007/36/CE, almeno: a) le soglie di rilevanza delle operazioni con parti correlate tenendo conto di indici quantitativi legati al controvalore dell'operazione o al suo impatto su uno o più parametri dimensionali della società. La Consob può individuare anche criteri di rilevanza che tengano conto della natura dell'operazione e della tipologia di parte correlata; b) regole procedurali e di trasparenza proporzionate rispetto alla rilevanza e alle caratteristiche delle operazioni, alle dimensioni della società ovvero alla tipologia di società che fa ricorso al mercato del capitale di rischio, nonché i casi di esenzione dall'applicazione, in tutto o in parte, delle predette regole; c) i casi in cui gli amministratori, fermo restando quanto previsto dall'articolo 2391, e gli azionisti coinvolti nell'operazione sono tenuti ad astenersi dalla votazione sulla stessa ovvero misure di salvaguardia a tutela dell'interesse della società che consentono ai predetti azionisti di prendere parte alla votazione sull'operazione». Il tema delle operazioni con «parti correlate» è poi riconducibile - quanto a disciplina speciale - a diverse disposizioni del T.U.F. (in particolare agli artt. 113-ter, 114, 115 e 154-ter) le quali assegnano diversi ruoli e funzioni alla Consob.
[36] Ai fini che qui interessano, deve farsi riferimento al Regolamento (CE) n. 1126/2008 della Commissione del 3 novembre 2008 (più volte modificato, da ultimo con Regolamento (UE) 2020/1434 della Commissione del 9 ottobre 2020), che adotta «taluni principi contabili internazionali conformemente al regolamento (CE) n. 1606/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio». Il principio contabile internazionale n. 24 posto dal Regolamento in parola reca la definizione di «parte correlata»: in tal modo è definita una “parte”, rispetto a “un’entità”, se «a) direttamente, o indirettamente attraverso uno o più intermediari, la parte: i) controlla l’entità, ne è controllata, oppure è sotto comune controllo (ivi incluse le entità controllanti, le controllate e le altre società del gruppo); ii) detiene una partecipazione nell’entità tale da poter esercitare un’influenza notevole su quest’ultima; o L 320/146 IT Gazzetta ufficiale dell’Unione europea 29.11.2008 iii) controlla congiuntamente l’entità; b) la parte è una società collegata (secondo la definizione dello IAS 28 Partecipazioni in società collegate) dell’entità; c) la parte è una joint venture in cui l’entità è una partecipante (cfr. IAS 31 Partecipazioni in joint venture); d) la parte è uno dei dirigenti con responsabilità strategiche dell’entità o della sua controllante; e) la parte è uno stretto familiare di uno dei soggetti di cui ai punti a) o d); f) la parte è un’entità controllata, controllata congiuntamente o soggetta ad influenza notevole da parte di uno dei soggetti di cui ai punti d) o e), ovvero tali soggetti detengono, direttamente o indirettamente, una quota significativa di diritti di voto; o g) la parte è un piano per benefici successivi alla fine del rapporto di lavoro a favore dei dipendenti dell’entità, o di una qualsiasi altra entità a essa correlata».
[37] Il Regolamento Consob reca altresì una definizione delle operazioni con parti correlate, qualificate in «qualunque trasferimento di risorse, servizi o obbligazioni fra parti correlate, indipendentemente dal fatto che sia stato pattuito un corrispettivo».
[38] Oltre all’obbligo generale previsto dall’art. 2391-bis c.c. di adottare regole volte ad assicurare la trasparenza e la correttezza sostanziale e procedurale delle operazioni con parti correlate (secondo i principi definiti dalla Consob e dedotti nel citato Regolamento), la regolazione di settore prevede l’adozione di specifiche procedure nonché la redazione di un documento informativo per il pubblico. Peraltro, anche in ragione della disciplina regolatoria di settore, le informazioni concernenti le operazioni con parti correlate devono qualificarsi quali «informazioni regolamentate», ai sensi dell’art. 113-ter del T.U.F., che devono essere depositate presso la Consob secondo i termini e le modalità dalla stessa stabiliti, e possono (ove ne ricorrano i presupposti) configurare informazioni privilegiate ai sensi del Regolamento UE 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014 e dell’art. 114 del T.U.F. L’art. 154-ter del medesimo T.U.F. prevede poi (al comma 4) che la relazione intermedia di gestione debba contenere «informazioni rilevanti con parti correlate».
[39] L’art. 115 del T.U.F. prevede che la Consob, al fine di vigilare sulla correttezza delle informazioni fornite al pubblico, possa: «a) richiedere agli emittenti quotati, agli emittenti quotati aventi l'Italia come Stato membro d'origine, ai soggetti che li controllano e alle società dagli stessi controllate, la comunicazione di notizie e documenti, fissandone le relative modalità; b) assumere notizie, anche mediante la loro audizione, dai componenti degli organi sociali, dai direttori generali, dai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari e dagli altri dirigenti, dai revisori legali e dalle società di revisione legale, dalle società e dai soggetti indicati nella lettera a); c) eseguire ispezioni presso i soggetti indicati nelle lettere a) e b), al fine di controllare i documenti aziendali e di acquisirne copia; c-bis) esercitare gli ulteriori poteri previsti dall'articolo 187-octies». Quest’ultima disposizione conferisce alla Consob il potere di compiere tutti gli atti necessari all’accertamento delle violazioni delle disposizioni del Regolamento (UE) n. 596/2014 e di quelle di cui al Titolo I-bis della Parte V del T.U.F., in materia di «abusi del mercato». Trattasi di poteri molto incisivi e penetranti, fra i quali (e solo per citare i più rilevanti) citiamo quello di richiedere dati e notizie, quello di richiedere «le registrazioni esistenti relative a conversazioni telefoniche, a comunicazioni elettroniche e allo scambio di dati, stabilendo il termine per la relativa trasmissione» (così la lett. b) del comma 3), quello di disporre audizioni e di «procedere al sequestro dei beni che possono formare oggetto di confisca ai sensi dell' articolo 187-sexies» (lettera d) nonché quello di procedere con ispezioni e perquisizioni.
[40] La Consob, ai sensi dell’art. 113-ter, comma 8, del T.U.F., può rendere pubblico il fatto che i soggetti tenuti alla comunicazione delle informazioni regolamentate non ottemperino agli obblighi sugli stessi incombenti. Essa, inoltre, ai sensi del comma 9 della medesima disposizione, può «sospendere o richiedere che il mercato regolamentato interessato sospenda la negoziazione dei valori mobiliari o quote di fondi chiusi per un massimo di dieci giorni per volta, se ha motivi ragionevoli di sospettare che le disposizioni relative alle informazioni regolamentate siano state violate dal soggetto obbligato, ai sensi del presente articolo, alla comunicazione delle informazioni regolamentate» e, nel caso in cui la violazione venga accertata, «proibire la negoziazione in un mercato regolamentato». Ai sensi del comma 7 dell’art. 154-ter del T.U.F., la Consob «nel caso in cui abbia accertato che i documenti che compongono le relazioni finanziarie di cui al presente articolo non sono conformi alle norme che ne disciplinano la redazione, può chiedere all'emittente di rendere pubblica tale circostanza e di provvedere alla pubblicazione delle informazioni supplementari necessarie a ripristinare una corretta informazione del mercato». Poteri specifici sono poi attribuiti alla Consob dalla disciplina concernente le informazioni privilegiate.
[41] Secondo il Collegio (sempre al punto 4.1 della sentenza) si sarebbe trattato «di un potere di regolazione con funzione di accertamento degli specifici rapporti societari tra Telecom e Vivendi» volto ad eliminare «una incertezza giuridica che aveva dato anche luogo a conflitti di posizione tra gli stessi organi interni a Telecom» e «con funzione di accertamento della nozione di controllo societario rilevante anche per gli altri operatori economici del mercato finanziario». Se non di effetto «certificatorio», a chi scrive pare possa comunque parlarsi di attività volta a creare una situazione di «certezza pubblica», nel senso declinato da A. Benedetti, voce Certezza pubblica, in Enc. Giur. Treccani online (2014), la quale rileva che la «certezza pubblica» «introduce nella realtà giuridica delle asserzioni conoscitive, relative a determinati fatti o requisiti, che concorrono alla descrizione giuridica della realtà e si oppongono a rappresentazioni diverse».
[42] Si legge nella sentenza, al punto 4.2, quanto segue «[la base normativa rinvenuta] rimane debole, in quanto, nella specie, non risultano espressi né il corollario della nominatività né quello della tipicità».
[43] Nello scrivente qualche perplessità suscita anche l’aggettivazione, da parte dei Giudici, del potere esercitato dalla Consob come “regolatorio”. Ed infatti, se condividiamo l’assunto secondo il quale il potere regolatorio (pur nelle sue innumerevoli possibili declinazioni) trova nella scrittura di regole, mediante atti normativi o amministrativi generali, il proprio nucleo centrale, incontriamo qualche difficoltà a qualificare in tali termini l’accertamento (e conseguente qualificazione) effettuato dalla Consob nel caso di specie. Anche qualora volesse accedersi alla interpretazione secondo la quale l’Autorità avrebbe esercitato un potere volto principalmente a “fornire certezze” agli operatori del settore, tali “certezze” ben difficilmente potrebbero essere qualificati alla stregua di regole “di fonte regolatoria”.
[44] Il quale, nel dettare una definizione di «controllo» valevole per la disciplina specifica dallo stesso posta, richiama «la situazione descritta nell'articolo 2359 del codice civile».
[45] Il primo periodo del medesimo secondo comma prevede poi un’altra ipotesi di “non annullabilità” del provvedimento «adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».
[46] Cfr. i punti 9.3 e 9.4 della sentenza di primo grado: «il procedimento seguito dalla Consob per l’adozione della Comunicazione in questione risulta scandito da una serie di interlocuzioni sia con l’emittente TIM – a far data dal 14 febbraio 2017 – sia, a seguito del comunicato stampa del 27 luglio 2017, con il socio Vivendi – tramite il coinvolgimento dell’Autorità francese AMF – in forza di richieste di informazioni ex art. 115, comma 2, del TUF, mediante le quali entrambi i soggetti destinatari dell’atto hanno potuto sottoporre alla Consob le argomentazioni a sostegno delle rispettive posizioni, anche producendo pareri legali pro veritate proprio sulla specifica questione del controllo ai sensi degli artt. 93 TUF e 2359 c.c.» (punto 9.3) «sicché, posto che la partecipazione degli interessati al procedimento amministrativo, a garanzia della quale è previsto l’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento, non ha valenza meramente formale, ma persegue l’obiettivo sostanziale di una migliore ponderazione da parte dell’autorità procedente di tutti gli elementi che vengono in rilievo nella fattispecie, quando, come nel caso di specie, questa finalità sia stata comunque raggiunta, l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento non determina alcuna causa di annullamento dell’atto. Né, del resto, le ricorrenti hanno dimostrato in che modo sarebbero state pregiudicate da detta omissione, non allegando quale ulteriore contributo partecipativo avrebbero potuto rendere (ove tale comunicazione di avvio fosse stata effettuata) che risultasse idoneo ad indirizzare in modo diverso la valutazione infine adottata dalla Commissione» (punto 9.4).
[47] In tema occorre comunque citare M. A. Sandulli, La comunicazione di avvio del procedimento tra forma e sostanza (spunti dai recenti progetti di riforma), in Foro Amministrativo TAR, 2004, 1595 ss., la quale, nel commentare i progetti di legge che sarebbero poi sfociati nella riforma del 2005, in relazione alla dequotazione del vizio di mancata comunicazione di avvio del procedimento, sembra rifiutare tanto un approccio totalmente sostanzialistico quanto uno eccessivamente “formalistico”, focalizzando l’attenzione sull’effettività della partecipazione, che può sussistere - come probabilmente avvenuto nel caso di specie - pur a prescindere dall’effettiva comunicazione dell’avvio del procedimento (come sottolinea l’Autrice, «se scopo della comunicazione è la partecipazione, una volta che questa sia comunque intervenuta, poco importa l'atto che l'abbia determinata»).
[48] Deve in effetti darsi conto del fatto che le previsioni di cui al secondo comma dell’art. 21-octies non sono state accolte con unanime favore dalla dottrina, in ragione della dequotazione dei vizi formali che esse determinano e dei riflessi che tale dequotazione produce rispetto alla tutela giurisdizionale di situazioni giuridiche soggettive (fra i commentatori critici della riforma del 2005 v., tra gli altri, L. Ferrara, I riflessi sulla tutela giurisdizionale dei principi dell’azione amministrativa dopo dopo la riforma della legge sul procedimento amministrativo: verso il tramonto del processo di legittimità?, in Dir. amm. 2006, 204; G. Micari, Considerazioni sulla legittimità costituzionale del disposto di cui all'art. 21-octies l. n. 15 del 2005: tra logica di risultato e logica di legalità, in Giust. Civ., 2006, ff. 4-5, 1049 ss. e F. Fracchia - M. Occhiena, Teoria dell'invalidità dell'atto amministrativo e art. 21- octies, L. 241/1990: quando il legislatore non può e non deve, in www. giustamm.it, 2005, n 1). Non è mancato però chi abbia salutato con favore la novella, sottolineando il fatto che «il passaggio da un clima culturale di segno formalistico ad uno di segno più marcatamente teleologico coincide con la graduale sostituzione della tesi dell'eguale rilevanza dei vizi con la tesi della diversa rilevanza dei vizi, in cui cioè la violazione deve essere valutata per quello che realmente è, in rapporto alla ratio della norma violata» (così F. Luciani, L'invalidità e le altre anomalie dell'atto amministrativo: inquadramento teorico, in V. Cerulli Irelli - L. De Lucia (a cura di). Sulla stessa linea v. V. Cerulli Irelli, Considerazioni in tema di sanatoria dei vizi formali, in V. Parisio (a cura di), Vizi formali, procedimento e processo amministrativo, Milano, 2004, 101 ss. e spec. 103, il quale osserva: «che l’Amministrazione, come ogni soggetto dell’ordinamento debba rispettare la legge (il diritto vigente) è fuori discussione; ma le norme, com’è noto, non hanno tutte lo stesso valore (c’è norma e norma) e, inoltre, il loro contenuto imperativo opera diversamente a seconda delle condizioni concrete. E perciò le violazioni delle norme danno luogo a conseguenze diverse nei diversi casi». Per un commento alla riforma del 2005 v. anche F. Francario, Dalla legge sul procedimento amministrativo alla legge sul provvedimento amministrativo (sulle modifiche e integrazioni della legge 15/2005 alla legge 241/1990), in GiustAmm., 1/2015.
[49] Vale a dire, per dirla con A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 594, quell’accertamento che concerne «un fatto verificabile in modo indubbio in base a conoscenze e a strumenti tecnici di sicura acquisizione».
Il fine vita e il legislatore pensante
2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte II
Considerazioni di Nicoletta Patti e Giancarlo Geraci
Introduzione di Mario Serio
[v. Il fine vita e il legislatore pensante. Editoriale - Il fine vita e il legislatore pensante. 1. Il punto di vista dei penalisti (di Vincenzo Militello, Beatrice Magro e Stefano Canestrari) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I (di Mario Serio, Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano)]
Introduzione
Ancora una volta Giustizia Insieme si rende lodevole interprete della sensibilità sociale sviluppatasi attorno a temi in cui le implicazioni giuridiche esigono un coordinamento chiaro e ragionato con altri forme di conoscenza e giudizio ,anche eticamente qualificati.
L'occasione è oggi costituita dal significato da attribuire, sul terreno del diritto e delle soluzioni che esso appare in grado di prospettare, al concetto di vita in generale e, più in particolare, su quello di vita che valga la pena di essere continuata a condurre a cospetto di condizioni, situazioni, evenienze che dolorosamente mettano in dubbio, tanto dal punto di vista soggettivo, quanto da quello oggettivo, questa possibilità.
Tema da sviluppare, oltre che con il ricorso al patrimonio delle competenze strettamente tecniche, tenendo conto della crudezza delle circostanze e della necessità di governarle assumendo come linea di indirizzo il superiore valore della dignità della persona umana in ogni momento della sua esistenza, fino a quello del suo epilogo.
La molteplicità delle sollecitazioni culturali e, in declinazione aconfessionale e rigorosamente laica, in senso ampio spirituali che la ricerca proposta lascia affiorare serve certamente ad affinare la profondità delle riflessioni, caricandole del nobilitante onere di controllarne la doverosa compatibilità con la preservazione, sempre e comunque, del decoro della vicenda umana.
La Scuola comparatistica palermitana, i cui esponenti addito orgogliosamente addito quali Allievi, qui presente sia con affermati ed esperti studiosi sia con freschi contributi di giovani cultori, ha coltivato una ricca indagine sulle modulazioni dell'oggetto dello studio opportunamente suggerito dalla rivista, dirigendo la propria attenzione verso un duplice obiettivo: da un canto, sceverando la natura delle varie questioni in sé, nella loro essenza considerate; d'altro canto, convogliando verso la sponda dell'appropriato metodo comparatistico l'apparato concettuale appena fissato. E' così che il mutuo contratto con altre esperienze ordinamentali si risolve in, anche implicito, criterio di orientamento per scelte, indirizzi, proposte attuabili nel nostro ordinamento.
Alla prima parte del lavoro scientifico già pubblicata, segue oggi la parte II, qui di seguito presentata.
Alle approfondite riflessioni di Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano, si ricongiunge dunque l'altrettanto pregevole analisi, acuta ed informata, che Nicoletta Patti svolge relativamente alle conseguenze, agli insegnamenti ed alle svolte impresse dalle soluzioni giurisprudenziali multi-livello nei dolorosi casi Englaro e Cappato ,costituenti basi fondative di attesi interventi legislativi italiani che ben potrebbero trarre proficuo alimento dalla situazione registrata in altri Paesi. Nel medesimo, generale ordine argomentativo, allargato alla questione dell'efficacia da assegnare alla opzione volitiva del paziente rivolta a conseguire assistenza al proprio disegno di suicidio si pone l'ulteriore contributo della medesima Autrice che si indirizza alla ricerca di soluzioni al terribile problema, rinvenendone tracce in un certo numero di ordinamenti stranieri, europei e non.
Ed infine, con finezza di pensiero e dovizia informativa l'analisi di Giancarlo Geraci affonda nel tessuto del processo civile e degli strumenti cautelari che esso presta per quanto attiene alla possibilità di aiuto al proposito di porre termine alla propria esistenza di fronte alla carenza di fattivo sostegno da parte delle competenti autorità sanitarie: il pesante fardello gravante sulle spalle del Giudice, anche straniero, è conseguentemente esplorato. La ricerca di un ragionevole, dignitoso contemperamento tra i concorrenti beni-valori in competizione nella tragica cornice di una vita la cui prosecuzione contrasta ,sul piano della tollerabilità delle sofferenze che ne sgorgano, è adeguatamente perseguita dallo stesso giovane studioso con l'ausilio del raffronto tra le caratteristiche conformanti sul punto il diritto italiano ed il common law inglese.
Il quadro tratteggiato da questi generosi contributi ben si inscrive nell'ariosa visione che Giustizia Insieme ha voluto, nella scia di un dibattito radicato nella coscienza sociale, descrivere nel generale contesto della sublimazione dei precetti costituzionali atti riscattare la dignità umana dal giogo del dolore umiliante ed opprimente.
Anche l'ultima parte di questo lavoro collegiale, ed i singoli contributi, non avrebbe visto la luce senza la costante opera di guida e suggerimento posta in essere con la consueta maestria dalle Professoresse Timoteo e Cetchia, rispettivamente ordinarie di Diritto privato comparato nelle Università di Bologna e di Milano Statale.
Mario Serio
Nicoletta Patti
1. Il valore normativo della sentenza Englaro e delle pronunzie della Corte costituzionale sull'aiuto al suicidio. Punto di arrivo o punto di partenza per il legislatore?
È possibile rintracciare un tratto comune tra le decisioni indicate - sia pure nella diversità delle questioni affrontate - nell’attitudine dei giudici a oltrepassare gli ostacoli ideologici e a confrontarsi con la concretezza delle questioni ad essi sottoposte. Ciononostante, le soluzioni cui sono pervenute le Corti nelle suddette pronunzie non possano che costituire un punto di partenza per il legislatore, il cui intervento oltre che auspicabile, si ritiene doveroso. Al fine di argomentare tale risposta si ritiene opportuno trattare separatamente le due decisioni che, come evidenziato, affrontano due diversi profili del caleidoscopico tema delle decisioni di fine vita. L’obiettivo sarà quello di evidenziare per ognuna i nodi irrisolti e di ricercare possibili soluzioni operando un rimando ad esperienze straniere (fermo restando che una compiuta analisi richiederebbe ben altro spazio).
Nel caso Englaro la Corte di Cassazione ha affrontato il problema che si pone nel caso in cui l’infermo non sia in grado di esprimere la propria volontà a causa del suo stato di totale incapacità e non abbia - prima di cadere in tale condizione, allorché era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali - specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie egli avrebbe desiderato ricevere e quali, invece, avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza. Con un articolato percorso argomentativo, i giudici di legittimità sono giunti ad enunciare il principio di diritto per cui “ove il malato giaccia da moltissimi anni in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno (…), su richiesta del tutore che lo rappresenta, il giudice può autorizzare la disattivazione dei presidi sanitari che lo mantengono artificialmente in vita, unicamente in presenza dei seguenti presupposti:
- quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno;
- e sempre che tale istanza sia espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona.”[1]
Secondo quanto statuito dalla Corte, allora, il diritto all’autodeterminazione dell’infermo in ordine ai trattamenti terapeutici cui sottoporsi - che discende dagli articoli 2 e 32 della Costituzione - deve essere rispettato anche quando il degente versi in uno stato di incapacità volitiva. In tale ipotesi è necessario che la sua volontà - in effetti mai concretamente manifestata - sia ricostruita ed, infine, dichiarata dal tutore, il quale deve agire nell’esclusivo interesse del primo. Tale argomentazione si attesta su posizioni fortemente tributarie al meccanismo del substituted judgement elaborato dalle Corti statunitensi[2], il quale - facendo perno sulla personalità e sulle opinioni del soggetto incapace così come ricostruite dai soggetti preposti alla sua tutela - non ha a proprio fondamento una volontà reale ma, come il nome stesso manifesta, un surrogato di questa.[3] Proprio tale circostanza fa sorgere alcune perplessità. Il tutore, infatti, incaricato del compito di individuare la decisione che l’infermo avrebbe assunto laddove fosse stato capace, non potrà evitare, nell’opera di ricostruzione di una siffatta volontà, una sovrapposizione tra i propri desideri e convincimenti e le opinioni dell’incapace, magari rese in relazione a circostanze tanto differenti da non essere adattabili alla situazione specifica[4]. In altri termini, in assenza di chiare e dirette istruzioni anticipate, non ci sono garanzie che la decisione sostitutiva sia veramente rappresentativa della concezione morale e della valutazione soggettiva dell’infermo. Il rischio, allora, è che, nel ricostruire l’ipotetica determinazione del rappresentato, vi sia uno stravolgimento del giudizio sostitutivo il quale, partendo dalla decisione del paziente, giunge a una decisione del sostituto. Queste brevi riflessioni inducono a ritenere che il meccanismo del substituted judgment non sia realmente idoneo a tutelare l’autodeterminazione della persona che versi in uno stato di incoscienza. È, dunque, necessario un intervento del legislatore che, lungi dal trasporre in forma organica le coordinate già delineate dalla Corte di Cassazione, ricerchi un criterio alternativo maggiormente idoneo a tutelare gli interessi delle persone incapaci.
De iure condendo, un modello di riferimento potrebbe essere rintracciato nell’ordinamento giuridico francese, dove la questione è stata specificamente prevista ed è stata adottata, pur nella delicatezza della materia, una precisa scelta di campo. Nello specifico, il Code de la santé publique, all’art. L.1110-5-1, dispone che nessun trattamento sanitario debba essere iniziato o proseguito nel caso in cui questo si traduca in una irragionevole ostinazione; pertanto, quando gli stessi trattamenti appaiono privi di alcuna utilità, sproporzionati o limitati unicamente al prolungamento artificiale della vita del degente, essi possono essere interrotti conformemente alla volontà del paziente o, in caso di impossibilità di quest’ultimo ad esprimere un volere, in base ad una decisione assunta dal personale sanitario ad esito di una procédure collégiale disciplinata dal codice deontologico della professione. In particolare, se chi ha in cura il degente intende interrompere i trattamenti di sostentamento vitale - in considerazione dell’inutilità degli stessi ad apportare un concreto miglioramento della condizione clinica del degente – ha il dovere di consultare previamente un altro medico (con il quale non intrattenga alcun rapporto di natura gerarchica) e di ascoltare l’opinione di chi abbia la responsabilità legale dell’incapace. La decisione assunta al termine di tale concertazione dovrà essere motivata, riportata all’interno della cartella clinica dell’infermo e comunicata alla personne de confiance[5], se nominata o, in sua assenza, ai familiari dell’infermo. Soltanto nell’ipotesi in cui vi sia disaccordo tra questi ultimi e i medici in ordine alla scelta di proseguire, o meno, i trattamenti sanitari è necessario il ricorso all’autorità giudiziaria, la quale tuttavia ha esclusivamente il compito di verificare che la decisione del medico sia stata assunta nel rispetto della procedura prescritta dalla legge.
La conseguenza di una siffatta scelta legislativa è, dunque, nel segno dell’attribuzione di un ruolo predominante al giudizio dei professionisti sanitari. Come è evidente, in alcun modo viene attribuita rilevanza alla volontà inespressa del paziente quale criterio atto a stabilire se interrompere i trattamenti di sostentamento vitale. Piuttosto, tale decisione si fonda su una valutazione obiettiva dell’irreversibilità dello stato clinico e della conseguente inutilità delle terapie apprestate - inevitabilmente rimessa alla competenza scientifica del medico - e può essere assunta da quest'ultimo anche in contrasto con l’eventuale opinione divergente espressa dai familiari dell’infermo, i quali pur dovendo essere ascoltati nell’ambito della procédure collégiale, non hanno, tuttavia, alcun potere ostativo.
La stessa materia ha trovato una regolamentazione legislativa e giurisprudenziale anche in Inghilterra, con esiti del tutto assimilabili alla soluzione adottata in Francia. La vicenda che ha permesso di avviare una riflessione sul tema è quella che ha coinvolto il giovane Bland, ridotto ad uno stato vegetativo permanente a causa delle lesioni riportate a seguito di un grave incidente[6]. La House of Lords, chiamata a pronunciarsi sulla sospensione della somministrazione di trattamenti terapeutici di sostegno vitale, ha statuito che, nell’ipotesi in cui il paziente non possa esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione terapeutica, l’unico elemento che legittima la prosecuzione o l’interruzione di un trattamento sanitario è la necessità di perseguire il best interest del paziente stesso, valutato secondo i parametri condivisi dalla scienza medica. Anche i giudici inglesi, dunque, hanno fatto ricorso a quella misura oggettivamente valutabile costituita dall’inutilità di proseguire un trattamento terapeutico in assenza di un beneficio ulteriore rispetto alla mera sopravvivenza incosciente. Il principio del best interest è stato espressamente recepito dal legislatore inglese che lo menziona all’interno della section 1 del Mental Capacity Act del 2005. La Supreme Court poi, recentemente chiamata a pronunciarsi nuovamente sul tema, ha stabilito che non è necessario ottenere una preventiva autorizzazione giudiziale laddove la decisione circa l’interruzione dei trattamenti di sostentamento vitale sia assunta, sulla base dei parametri oggettivi testé richiamati, da professionisti e congiunti dell’infermo di comune accordo. Soltanto in subordine – quando, cioè, non sussista tale unanimità d’intendimenti – è necessario ricorrere all’autorità giudiziaria, affinché si accerti, con le garanzie del dibattimento processuale, la soluzione più idonea alle esigenze dell’infermo, tenendo conto anche della specifica personalità di quest’ultimo ricavata attraverso elementi attendibili.[7] Sebbene l’ultimo frammento di tale decisione sembra rievocare il giudizio sostitutivo fatto proprio dalla nostra Corte di Cassazione nel caso Englaro, occorre tuttavia considerare come la Corte Suprema del Regno Unito abbia espressamente dichiarato che la competenza delle Corti nell’assumere determinate decisioni sia di fatto inferiore a quella dei medici, la cui valutazione costituisce, dunque, elemento fondante della stessa decisione giudiziaria.[8]
Il criterio del best interest, nell’impossibilità di ricostruire con certezza l’effettiva volontà del paziente incosciente, appare di gran lunga preferibile rispetto alla soluzione adottata dalla Corte di Cassazione e può costituire un utile riferimento per l’auspicato intervento del legislatore italiano: “pur costituendo, senz’altro, una deroga al diritto all’autodeterminazione dell’infermo - dal momento che il compito di accertarlo è demandato al personale sanitario - esso ha almeno il pregio di non consistere in una finzione giuridica, come quella su cui si fonda la tecnica ermeneutica del substituted judgement. Quest’ultima, infatti, perseguirebbe il fine, generalmente impossibile da raggiungere, di pervenire alla stessa decisione che il paziente, se cosciente e capace, avrebbe assunto.”[9]
Il secondo profilo su cui il quesito posto induce a riflettere riguarda i confini del diritto ad ottenere assistenza medica a morire in situazioni patologiche irreversibili alla luce dell’ordinanza n. 207/2018 e, da ultimo, della sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale.[10]
Con la prima ordinanza la Consulta - investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito altrui di togliersi la vita - attraverso un complesso ragionamento la cui descrizione esula dai fini della presente indagine, era giunta alla considerazione per la quale le questioni connesse ad un tema tanto controverso quanto ricco di implicazioni etiche non potessero che essere risolte in Parlamento, luogo deputato per antonomasia alla ricerca di una sintesi tra interessi contrapposti e tutti meritevoli di tutela. La decisione, prima facie, era stata allora quella di assegnare al Parlamento stesso il compito di predisporre una regolamentazione legislativa dell’assistenza al suicidio, nella piena ed espressa consapevolezza che una mera ed incondizionata dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 580 c.p. avrebbe creato un vulnus di tutela al malato stesso e alla collettività tutta, ben maggiore di quello determinato dal mantenimento di una norma in parte illegittima. A distanza di quasi un anno, di fronte alla sostanziale inattività del legislatore – non essendo sopravvenuta alcuna normativa in materia – la Corte ha ritenuto opportuno pronunciarsi in merito alle questioni già diffusamente trattate nell’ordinanza n. 207 del 2018. È allora intervenuta con una nuova decisione al fine di rimuovere quegli aspetti di illegittimità costituzionale che essa aveva già riscontrato nella succitata ordinanza, non limitandosi tuttavia a emettere una sentenza meramente ablativa, ma arrivando di fatto a dettare una regolazione autosufficiente e innovativa, seppur parziale, in tema di fine vita e suicidio assistito[11].
In particolare la Consulta, pur mantenendo intatta la vigenza dell’art. 580 c.p., lo integra di una causa di non punibilità qualora (a) il paziente sia affetto da una patologia irreversibile, (b) questa sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute assolutamente intollerabili dal malato, (c) la persona sia tenuta in vita attraverso trattamenti di sostegno vitale, (d) l’individuo interessato resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli.[12]
Innanzitutto, quanto al primo requisito, è interessante notare come, a differenza del quadro che emerge dal panorama comparatistico, la Corte Costituzionale italiana non abbia subordinato l’accesso all’aiuto al suicidio al fatto che il paziente sia affetto da una malattia in stato terminale, ma richiede la sola “irreversibilità” di una condizione che procura al malato «sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili». La condizione di “terminalità” è richiesta, per esempio, nella legislazione dello stato di Victoria in Australia, dove la legge sul Voluntary Assisted Dying Act (n. 61/2017) prevede, all’art. 9, co. 1, lett. d), n. 3, che il soggetto che intenda suicidarsi abbia ricevuto la diagnosi di una malattia che “is expected to cause death within weeks or months, not exceeding 6 months”[13]. Sulla stessa traiettoria, il progetto di legge presentato alla House of Lords inglese nel 2015 (l’Assisted Dying Bill), delimita l’accesso al suicidio medicalmente assistito al malato terminale che, affetto da una patologia a decorso progressivo e resistente alle cure, “is reasonably expected to die within six months”.[14] Ancora, l’art. 241.2, co. 2 del codice penale canadese prevede - tra i presupposti soggettivi, che la persona sia affetta da “grievious and irremediable medical condition” e che (lett.d)) “their natural death has become reasonably foreseeable”[15].
Ora, le previsioni normative appena riportate appaiono foriere di sperequazioni tra infermi che patiscono le stesse sofferenze. Subordinare, infatti, l’accesso al suicidio assistito ad una circostanza che si fonda su una valutazione medica, neppure certa in ordine al suo verificarsi nei tempi previsti, circoscrive in modo eccessivo la portata applicativa delle disposizioni richiamate. Il rischio è che venga riservato un trattamento diverso a coloro che, pur sopportando i medesimi patimenti, abbiano - secondo l’opinione dei professionisti sanitari - una differente prospettiva di vita in termini strettamente quantitativi. In questo senso, la sola irreversibilità della malattia, come previsto dalla Corte, appare una condizione ben più inclusiva rispetto allo stato terminale, dal momento che la stessa si riferisce ad una patologia “non guaribile” sulla base delle conoscenze e delle tecniche medico-scientifiche disponibili nel momento in cui viene valutata la richiesta di assistenza medica a morire. Da questo punto di vista, allora, la scelta operata dalla Consulta risulta condivisibile. Fa sorgere dubbi, sul piano della ragionevolezza, invece, la previsione che il paziente, affinché possa ottenere assistenza medica nel morire, debba essere tenuto in vita da trattamenti di sostentamento vitale. Tale condizione, assente nelle legislazioni di ordinamenti stranieri, comporta (quantomeno fino all’auspicabile intervento del legislatore) risposte giuridiche opposte tra chi necessita di tali interventi e chi, invece, pur malato irreversibilmente e sofferente in un modo ritenuto non più sopportabile, abbia la “sfortuna” di vedere la propria vita svincolata da qualsiasi terapia vitale. I primi, infatti, hanno il diritto di chiedere la cessazione delle cure, lasciandosi morire (ex legge n. 219 del 2017) e – adesso – anche di ottenere il suicidio medicalmente assistito; i secondi, invece, si vedrebbero precluse tali opprtunità: l’una perché non vi è alcun trattamento da interrompere, l’altra in quanto verrebbe a mancare uno dei requisiti che legittima l’accesso dell’infermo al suicidio assistito, rimanendo così “condannati a vivere” contro la loro volontà e la loro (percezione) di dignità.
Il legislatore dovrebbe allora intervenire estendendo la platea di beneficiari del suicidio medicalmente assistito, includendo anche chi, non tenuto in vita da detti trattamenti, risulti comunque affetto da patologie irreversibili - fonti di intollerabili sofferenze fisiche o psichiche - e contemporaneamente capace di assumere decisioni libere e consapevoli.
Una simile soluzione si trova nella proposta di legge n. 1875 la quale, all’art 3, comma 1, prevede che possa chiedere aiuto nella morte il soggetto affetto da una malattia a prognosi infausta che gli procuri sofferenze evidenti, insostenibili e irreversibili[16]. In maniera condivisibile, il presupposto applicativo della norma viene sganciato dalla dipendenza da trattamenti di sostentamento vitale, per ancorarlo esclusivamente a condizioni di vita terribilmente deteriorate in cui versa il paziente e che giustificano un intervento diretto, in maniera compassionevole, ad abbreviarle.
Un ulteriore elemento che emerge dall’analisi comparatistica è che in alcuni ordinamenti (si vedano, ad esempio la legislazione adottata in Australia[17] e in Canada[18], nonché l’Assisted Dying Bill inglese[19]) il perimetro applicativo della depenalizzazione dell’aiuto al suicidio riserva la possibilità di attivare il relativo procedimento ai soggetti che posseggano la residenza nella stessa nazione.
Una tale limitazione, non prevista tra le condizioni dettate dalla Consulta, né inserita in alcuno dei progetti di legge attualmente pendenti dinnanzi al Parlamento italiano, ha il pregio di impedire a soggetti stranieri - cittadini di stati nei quali non è permessa l’assistenza all’infermo a porre termine alla propria vita - di recarsi in quegli ordinamenti al fine di accedere a quell’atto estremo vietato nei luoghi di provenienza, così evitando il fenomeno del c.d. “turismo della morte”.
Procedendo oltre nella disamina della pronuncia n. 242/2019, la Corte Costituzionale, dopo aver aperto al suicidio assistito nei casi che sopra esaminati, vi affianca altri elementi che ricava dalle «coordinate del sistema vigente», avendo, in particolare modo, come «punto di riferimento» la legge n. 219 del 2017[20].
Il richiamo a tale legge consente alla Corte di collegare e circoscrivere l’aiuto al suicidio alla relazione terapeutica, estendendovi la “procedura medicalizzata” già prevista dal legislatore. Tale percorso “medicalizzato” comporta una verifica dei presupposti oggettivi indicati dalla Corte (in particolare l’esistenza di una patologia irreversibile, le sofferenze fisiche o psichiche intollerabili per il degente, la presenza di trattamenti di sostegno vitale). Tale compito, «in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore», viene affidato a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale. Ad esse spetta vagliare anche «le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze». L’importanza dei valori in gioco porta la Consulta a richiedere, quale ulteriore requisito, «l’intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze», idoneo a «garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità». Sempre nell’attesa delle scelte legislative, il compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti, già investiti di funzioni consultive «che involgono specificamente la salvaguardia di soggetti vulnerabili»[21].
L’esigenza di un presidio rafforzato di garanzia non può non essere condivisa. Residuano, ciononostante, talune perplessità: da un lato sull’effettiva capacità del sistema sanitario nazionale di sostenere l’incombenza, in modo particolare dal punto di vista organizzativo, specialmente in mancanza (come vedremo) di un obbligo nei confronti del personale medico; dall’altro in rapporto alla reale idoneità dei comitati etici ad assumere il ruolo di “organi collegiali terzi muniti delle adeguate competenze”[22] (per la loro composizione, per il possibile rischio di approcci non uniformi tra i diversi comitati territorialmente competenti; per la non meglio precisata natura del parere espresso, vincolante o no).
A tale proposito, un utile spunto per il legislatore italiano può essere tratto dalla procedura prevista nell’Assisted Dying Bill. Tale progetto di legge, oltre a richiedere (similmente a quanto stabilito dalla normativa canadese[23], australiana[24], olandese[25] e belga[26]) che ben due medici in posizione di indipendenza tra loro attestino – dopo avere esaminato separatamente il malato e la sua storia clinica – l’esistenza dei presupposti che legittimano il suicidio assistito, prevede altresì che l’istanza dell’infermo sia rivolta alla Family Division della High Court, la quale ha il compito di accertare la genuinità del volere del richiedente e il rispetto di tutte le formalità prescritte dalla legge.[27] Tale soluzione che, sulla scorta delle stesse preoccupazioni che animano la procedura delineata dalla Corte Costituzionale, prevede un doppio controllo appare idonea a eliminare ogni probabile abuso che possa dipendere sia dalla presenza di un medico eccessivamente pronto ad assecondare la richiesta eutanasica, sia pure in assenza di un rigido controllo sulla sussistenza di tutti i presupposti soggettivi; sia, ancora, dall’esistenza di una pressione indebita sul volere del malato non rilevabile da un medico come potrebbe esserlo, invece, da parte di un giudice[28]. Un’ultima riflessione. La Corte Costituzionale già nell’ordinanza n. 207 aveva suggerito al legislatore la necessità di contemplare (colmando l’attuale lacuna della legge n. 219/2017) una regolamentazione dell’obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura di agevolazione al suicidio in presenza delle più volte richiamate circostanze. Nella sentenza il punto, in realtà centrale, è velocemente risolto prevedendo che, esclusa la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, nessun obbligo è previsto in capo al singolo medico, affidandosi alla sua coscienza la scelta “se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”[29]. Il rischio, tuttavia, è di rendere in questo modo del tutto aleatorio l’agognato aiuto a porre fine alle proprie sofferenze e di ridurre, di conseguenza, il suicidio assistito ad un «diritto» privo di una concreta azionabilità. Piuttosto dovrebbe prevedersi, pur sempre nel rispetto di eventuali obiezioni di coscienza del personale sanitario, la presenza all’interno della struttura sanitaria di almeno un medico pronto a dare seguito alla volontà del paziente.
In questo senso la normativa belga, a seguito della novella introdotta con legge del 15 marzo 2020, può costituire un utile punto di riferimento. Essa, infatti, prevede che se il medico consultato, esercitando la propria libertà di coscienza, rifiuta di praticare l’eutanasia, è tenuto ad informare il paziente entro 7 giorni dalla formulazione della richiesta, contestualmente rendendolo edotto delle ragioni del diniego. Egli dovrà inoltre fornire al paziente o alla persona di fiducia i recapiti di un centro o associazione specializzata nelle pratiche eutanasiche e inviare la cartella clinica ad un medico designato dal paziente stesso o dalla personne de confiance.[30] In questa traiettoria, condivisibilmente, la proposta di legge n. 1875, all’art. 6, dopo aver riconosciuto il diritto del personale sanitario a non prendere parte alle procedure del suicidio medicalmente assistito e del trattamento eutanasico, stabilisce che le strutture del Servizio sanitario nazionale sono comunque tenute a garantire il rispetto della volontà manifestata dal paziente. Qualora tale diritto non sia garantito, la struttura del Servizio sanitario nazionale, ferme restando le conseguenze penali o civili, dovrà provvedere al risarcimento del danno morale e materiale provocato[31].
Quanto discusso finora dovrebbe aver chiarito la non completa esaustività della decisione della Corte e, al contempo, la consapevolezza della stessa di non esserlo né tantomeno di poterlo essere. Non va dimenticato, infatti, come la decisione assunta con ordinanza n. 208 di rinviare la trattazione (o per meglio dire di differire la declaratoria della ravvisata illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.), sia stata mossa dalla finalità di consentire al Parlamento, in nome dell’invocato “spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale”[32], l’esercizio delle proprie prerogative. Già a suo tempo, indicando le linee guida dell’auspicato intervento legislativo, che hanno poi trovato concretezza nella sentenza n. 242, la Corte ha intrapreso un’apprezzabile opera di bilanciamento di interessi contrapposti (l’ autodeterminazione del singolo individuo e la protezione del bene-vita) che, in ogni caso, oggi il legislatore è chiamato a completare (seppur nell’esercizio della sua discrezionalità); è questo il significato da attribuire al monito, sia pur conciso, contenuto a chiusura della sentenza n. 242 del 2019 a che “la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi precedentemente annunciati”[33].
2. Il valore della volontà del paziente incosciente e l’aiuto al suicidio
Prima di affrontare il quesito posto è necessario effettuare una breve premessa di carattere terminologico, che consenta un approccio il più possibile analitico all’oggetto di studio.
Per “eutanasia attiva” si intende quella condotta attraverso la quale il personale sanitario avvia dei processi idonei a provocare il decesso di chi soffra di una patologia caratterizzata da una prognosi infausta ed irreversibile, al fine di abbreviarne i conseguenti patimenti e di preservare una (altrimenti difficile) dignità nella sofferenza. All’interno di tale categoria occorre poi compiere una necessaria distinzione tra l’ipotesi di eutanasia attiva diretta - che si realizza attraverso il compimento di atti con i quali si pone fine, a determinate condizioni, alla vita altrui in maniera immediata e senza arrecare sofferenze - e quella, differente, di assistenza al suicidio che si sostanzia nella procedura in base alla quale il personale del Servizio sanitario nazionale fornisce al paziente ogni supporto sanitario e amministrativo necessario per consentirgli di porre fine alla propria vita in modo dignitoso, autonomo e volontario[34]. La differenza tra le due fattispecie è netta: se nella prima ipotesi il decesso è provocato direttamente dal medico tramite la somministrazione di farmaci che inducono la morte, generalmente per via endovenosa, nel caso di suicidio medicalmente assistito l'atto finale di togliersi la vita - somministrandosi le sostanze necessarie in modo autonomo e volontario - è compiuto interamente dal soggetto stesso e non da soggetti terzi, i quali si occupano di assistere la persona per altri aspetti, quali il ricovero, la preparazione delle sostanze e la gestione tecnica post mortem.
Risolto tale iniziale problema definitorio, risulta evidente come nessun valore possa essere attribuito alla volontà del paziente diretta ad ottenere assistenza al suicidio per l’ipotesi futura in cui dovesse versare in uno stato di incoscienza. In tale circostanza, infatti, l’interessato non potrebbe esercitare quel dominio sull’atto finale che innesca il processo letale che è insito, per definizione, nel suicidio assistito. Vi sarebbe, dunque, un’incompatibilità logica tra lo stato di incoscienza in cui versa il degente e la modalità attraverso la quale lo stesso dovrebbe raggiungere la morte.
Bisogna allora, più correttamente, domandarsi quale sia il valore eventualmente da attribuire alla manifestazione di volontà resa anticipatamente dal paziente incosciente al fine di accedere ad un atto di eutanasia attiva diretta, praticato interamente dal personale sanitario.
A tal proposito può essere utile volgere lo sguardo alla disciplina adottata in altri ordinamenti, in modo da rilevare possibili spunti di riflessione dalle differenti soluzioni legislative adottate sul punto. In particolare analizzeremo la disciplina prevista in Belgio, Olanda, Canada e Australia (stato di Victoria)[35], al fine di confrontarla con quella individuata, per la medesima materia, nelle proposte di legge presentate al Parlamento italiano.
In Belgio, così come in Olanda, è attribuita rilevanza alla volontà del paziente incosciente soltanto se la stessa sia stata trasposta in una dichiarazione anticipata, contenente in modo chiaro ed univoco, la richiesta di eutanasia e siano rispettate alcune condizioni. In particolare il legislatore belga ha previsto che la dichiarazione anticipata debba essere firmata da un maggiorenne o da un minore emancipato. In entrambi i casi dev’essere sottoscritta da due testimoni, di cui almeno uno non deve avere un interesse materiale nel decesso del dichiarante. Questa dichiarazione, revocabile o modificabile in qualsiasi momento, può essere utilizzata dal medico solo nel caso in cui il paziente si trovi in stato d’incoscienza irreversibile secondo le conoscenze scientifiche dell’epoca.[36] Il dichiarante può designare una o due persone di sua fiducia che gli facciano da portavoce nel momento in cui non sarà in grado di esprimersi. In ogni caso la dichiarazione anticipata non è vincolante, e il medico può rifiutarsi di praticare l’eutanasia[37].
Anche la legge olandese sull’eutanasia prevede che un soggetto possa rendere delle dichiarazioni anticipate destinate ad assumere rilevanza nel caso di sopravvenuta incapacità e impossibilità di esprimere al medico la propria volontà di accedere alle pratiche eutanasiche, sebbene alle stesse non sia attribuita natura vincolante. L’art 2, comma 2 prevede infatti che “se il paziente che ha sedici anni o un’età superiore non è capace di esprimere la sua volontà, ma prima di raggiungere questa condizione clinica aveva una ragionevole capacità di intendere e di volere circa i suoi interessi ed ha fatto un testamento scritto che contiene la richiesta per l’eutanasia, il medico può non tenere conto di questo requisito.”[38]
Una soluzione simile si ritrova nelle proposte di legge italiane n. 1586 e n. 1655 le quali, rispettivamente agli articoli 3 e 4 ter, stabiliscono che «ogni persona può compilare un atto scritto, con firma autenticata dall’ufficiale di anagrafe del comune di residenza o domicilio con il quale chiede l’applicazione dell’eutanasia nell’ipotesi in cui egli diventi incapace di intendere e di volere ovvero di manifestare la propria volontà, nominando contemporaneamente un fiduciario (…) perché confermi la richiesta ricorrendone le condizioni. La richiesta di applicazione dell'eutanasia deve essere chiara ed inequivoca e non può essere soggetta a condizioni. Essa deve essere accompagnata, a pena di inammissibilità, da un’autodichiarazione, con la quale il richiedente attesta di essersi adeguatamente documentato in ordine ai profili sanitari, etici e umani ad essa relativi. La conferma della richiesta da parte del fiduciario deve, altresì, essere chiara e inequivoca, nonché espressa per scritto».
Effettuando un raffronto comparatistico emerge come, in modo condivisibile, nessuna delle previsioni richiamate attribuisce natura vincolante alla volontà espressa nelle disposizioni anticipate, consentendo dunque al medico di discostarsene. Ciò che desta perplessità, invece, è che né nella disciplina olandese né in quella individuata nelle proposte di legge richiamate è richiesta la maggiore età del disponente per la redazione di una siffatta dichiarazione anticipata, con la conseguenza che, nell’ipotesi di trattamenti eutanasici da praticarsi in futuro, è sufficiente la capacità di intendere e di volere, piuttosto che quella di agire. Una simile conclusione potrebbe essere condivisibile laddove la volontà del paziente fosse diretta a definire un percorso di cura, quale estrinsecazione del potere di autodeterminazione dell’individuo in ordine alla pianificazione del trattamento terapeutico conseguente allo stato patologico in cui versa. Tale diritto di scegliere le cure cui sottoporsi, all’interno del quadro delle possibili alternative, dovrebbe ragionevolmente non essere circoscritto entro i limiti della capacità d'agire. L’ipotesi di richiesta di eutanasia, formulata in anticipo rispetto al momento in cui dovesse insorgere uno stato di incoscienza, è però del tutto diversa: in questo caso, infatti, il soggetto dispone, in modo irrimediabile, di sé stesso e della propria vita. Allora tale manifestazione di volontà, destinata ad incidere in maniera profonda e irreversibile sulla sfera giuridica e personale del dichiarante, dovrebbe presupporre, in ragione della estrema delicatezza e irrimediabilità della decisione, la piena capacità legale d’agire del soggetto e non soltanto la naturale capacità di intendere e di volere[39]. Sotto questo profilo, condivisibile risulta la scelta effettuata nell’ordinamento giuridico belga di limitare la possibilità di richiedere l’eutanasia, in previsione di una eventuale futura incapacità deliberativa, ai maggiorenni e ai minori abilitati.
Al di là del dato anagrafico, tuttavia, vi è un ulteriore elemento, più incisivo, che induce a discostarsi in modo radicale da ognuna delle soluzioni finora analizzate.
Le disposizioni anticipate possono essere redatte in un momento lontano rispetto a quello in cui si dovrebbe applicare il trattamento eutanasico, in cui il paziente può anche non essere affetto da alcuna malattia cronica, invalidante o mortale. Questa circostanza si pone in radicale antitesi con il presupposto proprio dell’eutanasia, che risiede, invece, nell’attualità di una condizione patologica che arrechi sofferenze così gravi da rendere insopportabile l’esistenza dell’infermo.[40] Alla luce di tale considerazione, si ritiene del tutto preferibile l’opzione legislativa di cui alla proposta n. 1875[41], la quale, analogamente alla legge canadese[42] e a quella australiana (stato di Victoria)[43], non contempla la possibilità di redigere dichiarazioni anticipate che abbiano ad oggetto la richiesta di pratiche eutanasiche, negando in radice l’attribuzione di qualsivoglia valore ad una manifestazione di volontà pregressa in tal senso orientata. È necessario, allora, che chi richiede l’eutanasia sia dotato di piena capacità decisionale durante l'intero processo che condurrà all’esito esiziale, al fine di assicurarsi che la decisione assunta sia volontaria, ponderata e coerente rispetto alla condizione clinica attuale.
Giancarlo Geraci
1. Alla ricerca di un bilanciamento fra dignità, diritto alla vita, autodeterminazione e tutela della salute. Potrà mai essere trovato “per legge”?
La domanda pone una preliminare difficoltà. Il riferimento a termini che hanno una portata e una pregnanza assai profonda nell’ordinamento giuridico, non solo a livello nazionale, quali la dignità, il diritto alla vita, all’autodeterminazione e la tutela della salute, sembrano porre l’interprete innanzi a una matassa assai ingarbugliata che, pertanto, necessita di essere accuratamente sbrogliata.
Con riferimento alla dignità[44], ragionando in termini generali, è stato osservato[45] come sia assai complicato tentare di inquadrare tale termine all’interno di una cornice definitoria ben determinata. Sulla scorta di un’analisi della giurisprudenza della Corte Costituzionale[46], tuttavia, si può ragionevolmente ritenere come il concetto di dignità sia assunto quale indefettibile presupposto per l’esercizio dei diritti, ossia come quel requisito fondamentale che, all’interno di una Carta costituzionale che si ispira al principio personalista, qual è quella italiana, è riconosciuto ad ogni individuo come tale e di cui quest’ultimo non può in alcun modo essere spogliato.
Non a caso si è osservato[47] come per indicare la parola “dignità”, intesa nel senso di qualità, valore elevato dell’essere umano, nel greco antico veniva usato il termine axìoma che, successivamente, è stato tradotto con la parola “assioma” intesa, appunto, come principio primo, come enunciato presupposto di ogni procedimento argomentativo.
In tal senso, dunque, per poter coerentemente rispondere alla domanda e per cercare di entrare in un campo di indagine più specifico, è necessario coniugare la dignità con un altro fondamentale diritto, ossia quello all’autodeterminazione dell’individuo e osservare come, con specifico riferimento a tale aspetto, esistano due specifiche concezioni[48] del termine in discorso[49].
Secondo una prima accezione, che si pone in linea di continuità con quanto sinora osservato, la dignità sarebbe un concetto inerente ad ogni individuo e da cui deriva ogni altro diritto fondamentale a questi ascrivibile[50]. Tale accezione di dignità è nota come dignity as empowerment, poiché la dignità diviene proprio quello strumento di rafforzamento dell’individuo nei confronti di qualsivoglia interferenza altrui.
Altra accezione del termine, contrapposta a quella sinora brevemente analizzata, individua nella dignità sempre quell’indefettibile presupposto di ogni diritto fondamentale che, tuttavia, ed è questa la fondamentale differenza, non è propria di ciascuna persona ma del genere umano complessivamente inteso[51]. Si parla, in tale accezione, di dignity as constraint, poiché la dignità è essa stessa fonte di interdizioni e divieti inderogabili anche da parte dei relativi “titolari”.
Per poter, dunque, trovare un corretto bilanciamento tra la dignità umana e l’autodeterminazione dell’individuo, non può che accogliersi la prima concezione, previamente spiegata, di dignità. Solamente in tal senso, infatti, l’idea del diritto all’autodeterminazione della persona assume un suo significato compiuto e trova nella dignità stessa il suo presupposto indefettibile e fondamentale.
Con specifico riferimento, poi, al principio di autodeterminazione, non può non osservarsi come esso abbia subito un processo evolutivo, che lo ha portato ad una progressiva emersione. Nonostante, infatti, l’art. 32, secondo comma, Cost.[52] abbia sempre previsto il diritto di ciascuno ad autodeterminarsi in ambito sanitario in particolare garantendo il diritto di rifiutare ogni trattamento sanitario che non sia obbligatorio per legge si ritiene[53] che tale principio sia incominciato ad emergere effettivamente solo dagli anni’ 70 del secolo scorso. In tale periodo, infatti, si assiste al graduale superamento della concezione del rapporto medico/paziente di stampo “paternalistico” (in cui il sanitario aveva l’obbligo di trattare il paziente secondo i dettami della scienza medica e quest’ultimo era visto più come un oggetto delle cure che come soggetto delle stesse) ad uno di tipo “personalistico” basato, per l’appunto, sul principio di autodeterminazione del paziente stesso.
Il suddetto principio ha assunto oggi un ruolo preminente nell’ambito dei trattamenti sanitari, in quanto connesso al concetto di dignità dell’individuo quale presupposto indefettibile dello stesso essere umano e di cui egli è principale, se non addirittura esclusivo, arbitro. Ad ulteriore sostegno di quanto si sta affermando, non può non citarsi la recentissima legge n. 219 del 2017 che, facendo propri principi stabilmente affermatisi nella giurisprudenza, ha finalmente riconosciuto un ruolo primario al consenso dell’individuo, che solo se adeguatamente informato potrà consentire una libera esplicazione della sua autodeterminazione nel campo dei trattamenti sanitari[54].
Alla luce di quanto sinora esposto, dunque, non può non ritenersi che, per ritornare alla domanda iniziale, la dignità e l’autodeterminazione debbano necessariamente essere poste sullo stesso piatto della bilancia.
Il punctum pruriens rispetto al tema in discorso è certamente uno. Se, infatti, il principio di autodeterminazione, coniugato con la concezione di dignità umana di cui si è detto, certamente consente all’individuo di rifiutare i trattamenti sanitari (anche quelli c.d. salva-vita) ci si domanda se questi stessi principi possano consentire all’individuo anche di pretendere un trattamento sanitario che lo conduca al decesso: si fa, evidentemente, riferimento alle pratiche di eutanasia attiva[55] e di suicidio assistito[56].
In questi casi viene ad affacciarsi l’altro piatto della suddetta ipotetica bilancia, ossia quello del diritto alla vita, rectius della sacralità della vita. Sarebbe pleonastico sottolineare come in qualsiasi ordinamento giuridico democratico, il diritto alla vita è sempre tutelato e garantito nei confronti di ogni individuo. Ma tale tutela può giungere fino a “costringere” taluno a vivere anche qualora non lo voglia? Si può dire, in altri termini, che esista non un “diritto” alla vita ma un “dovere” alla vita? Orbene, guardando al nostro ordinamento, due notazioni sono preliminari.
La prima, quella secondo cui, come in altri ordinamenti occidentali[57], la tutela del diritto alla vita non arriva al punto di sanzionare penalmente colui che commetta, o tenti di commettere, un suicidio e, la seconda, che si pone in linea di continuità con questa, che è garantito, come visto precedentemente, il diritto “a lasciarsi morire”, rifiutando un trattamento sanitario, non obbligatorio. Tuttavia, come si diceva, il problema sorge allorché si pretenda che qualcuno attivamente interferisca nella vita di un altro, con il suo consenso, per porvi fine.
La questione deve necessariamente essere letta con l’ultimo dei concetti cui si fa riferimento nella domanda, ossia quello della tutela alla salute. Questo potrebbe essere ritenuto quale chiave di volta per addivenire ad un corretto bilanciamento dei termini della questione, solo se correttamente inteso. È chiaro che la salute di ogni individuo non è solamente quella fisica ma anche quella psichica. In tal senso, allora, la situazione in cui un soggetto che si trovi in uno stato patologico irreversibile, che gli causa sofferenze gravi ma non tali da determinarne la (prossima) morte e che maturi pertanto un’autonoma e consapevole volontà di porre fine alle proprie sofferenze, porta a una domanda. In tali casi l’ordinamento giuridico, che tutela il diritto alla salute dell’individuo stesso, deve intervenire assecondando la volontà dell’infermo ovvero, al contrario, rimanere inerte, negando al soggetto tale volontà, nel nome di un’astratta tutela della salute (solamente fisica in questo caso) e di un dovere, più che un diritto, alla vita?
È evidente come il bilanciamento tra questi concetti, come si è anticipato in apertura, sia assai complicato per il legislatore, per il fatto che essi involvono talmente varie, complesse, situazioni che diviene assai difficile prevedere e disciplinare tramite la legge, per definizione astratta e generale[58].
Allo stesso tempo, tuttavia, nell’inerzia del legislatore, si pongono inevitabilmente drammatici casi inerenti alla tematica del fine vita che devono essere risolti dal giudice che, assai spesso, proprio a causa dell’assenza di un adeguato strumentario normativo, si trova costretto a pronunce di tipo creativo[59], basate su un bilanciamento dei diritti in gioco, ovvero a rimandare la questione al giudice delle leggi[60].
Dando uno sguardo oltre i confini nazionali, come si è già osservato, sono assai pochi gli ordinamenti che sono riusciti a darsi una legislazione in tema di fine vita.
Tuttavia, vi è senz’altro un fil rouge tra gli ordinamenti che non può essere sottaciuto. Si fa riferimento, in particolare, al fatto che tanto le varie proposte di legge, sia italiane che straniere (come nel caso inglese[61]), che le leggi in tema di fine vita (come quella canadese[62]) sono state precedute da casi giurisprudenziali che hanno destato l’attenzione dell’opinione pubblica e che hanno in qualche modo segnato la strada che poi il legislatore ha effettivamente intrapreso.
Quanto finora osservato conduce ad una conclusione. Trovare un bilanciamento tra dignità, autodeterminazione, diritto alla vita e tutela alla salute è qualcosa di estremamente complicato, in particolare per il legislatore. Tuttavia, come si è detto, la varietà e la quotidianità delle drammatiche vicende che involvono il tema del fine vita impongono a questi di intervenire e non rimanere inerte. Per far ciò, un aiuto fondamentale può essere senz’altro rinvenuto nel patrimonio fecondo di principi di diritto enunciati nelle pronunce delle autorità giurisdizionali, non solo interne, che hanno affrontato il tema e che, per forza di cose, non si sono in alcun modo potute sottrarre ad una decisione.
Tramite un dialogo fecondo tra giudici e legislatore, allora, potrà pervenirsi ad una soddisfacente trattazione del tema in questione e, dunque, di un altrettanto soddisfacente bilanciamento dei concetti di cui alla domanda.
2. La tutela cautelare civile per garantire la domanda di aiuto al suicidio in caso di inerzia della struttura sanitaria e il ruolo del giudice. Che fare?
La domanda necessita di preliminari chiarimenti sui termini della questione.
In primo luogo è necessario intendersi sull’effettiva portata della locuzione “aiuto al suicidio” e, in particolare, sulla relativa distinzione rispetto alle pratiche rientranti nella c.d. eutanasia attiva[63]. In entrambi i casi, infatti, si tratta di pratiche che postulano un intervento attivo, acceleratore o, più spesso, determinante, la morte dell’infermo che si trova in uno stato di sofferenza intollerabile.
L’elemento discretivo tra le due tipologie di pratiche sta essenzialmente nelle modalità tramite cui viene somministrato il trattamento letale. Mentre, infatti, nel caso di eutanasia attiva è il medico che somministra al paziente il detto trattamento, nel caso di pratiche di aiuto al suicidio il medico “semplicemente” lo assiste nella detta somministrazione. Questi prescrive i farmaci necessari al suicidio su esplicita richiesta del suo paziente e lo consiglia riguardo alle modalità di assunzione. In tal caso, dunque, viene a mancare l’atto diretto del medico che somministra i farmaci al malato.
Nelle pratiche di aiuto al suicidio, allora, l’intervento del sanitario e, di conseguenza, della struttura sanitaria all’interno della quale questi opera, diviene determinante nel definire la pratica stessa.
Fatta questa breve ma doverosa premessa di carattere terminologico, appare evidente che l’eventuale inerzia della struttura sanitaria nel consentire al paziente che lo richieda, l’aiuto al suicidio, assume carattere decisivo: se manca un intervento attivo del professionista, non si può in alcun modo parlare di suicidio assistito.
A questo punto, occorre ulteriormente precisare che, ad oggi, il legislatore italiano non è ancora intervenuto nel regolare la disciplina dell’aiuto al suicidio ma, a seguito dell’intervento della Consulta in un caso che ha destato l’interesse dell’opinione pubblica[64], si è stabilito che, a determinate condizioni indicate dagli stessi giudici della Corte Costituzionale, tale pratica non è penalmente perseguibile. Ne consegue, dunque, che, attualmente, non esiste alcun obbligo nei confronti del medico e, di conseguenza, della struttura sanitaria presso la quale questi opera, di garantire al paziente che lo richieda l’aiuto al suicidio.
Si può ragionevolmente ritenere, allora, che nel caso in cui un soggetto, di fronte alla inerzia della struttura sanitaria alla quale si è rivolto per aver garantito una pratica di suicidio assistito, adisca l’autorità giudiziaria, prevedibilmente tramite lo strumento del ricorso cautelare d’urgenza ex art. 700 c.p.c., affinché questa emani una pronuncia di condanna ad un obbligo di fare nei confronti della detta struttura, l’esito della controversia non potrà che essere negativo per il ricorrente. In mancanza, infatti, di un obbligo legislativamente previsto, l’autorità adita non disporrà degli strumenti giuridici idonei al fine di imporre coattivamente alla struttura sanitaria l’esecuzione della pratica di aiuto al suicidio.
È chiaro, quindi, che soltanto con un’apposita disciplina legislativa che regoli il suicidio assistito, imponendo alla struttura sanitaria, al ricorrere di determinate condizioni appositamente previste, di garantire tale pratica al soggetto che la richieda, si potrà immaginare un ruolo effettivo del giudice, di fronte all’ingiustificata inerzia della struttura sanitaria medesima.
In effetti, è attualmente in discussione in Parlamento un progetto di legge[65] che, sulla scorta delle “istruzioni” contenute, tanto nell’ordinanza del 2018 che nella sentenza del 2019 della Consulta nel predetto “caso Cappato”, regola la pratica del suicidio assistito.
Tale progetto di legge prevede un ruolo attivo del medico nell’accompagnare il paziente lungo tutta la procedura che, in presenza di tutti i presupposti previsti[66], porterà al suicidio assistito.
In particolare, l’art. 4 della detta proposta di legge, in materia di “Requisiti e forma della richiesta”, dispone che il paziente ricorra alla procedura di suicidio medicalmente assistito solamente allorché la relativa richiesta sia “informata, consapevole, libera ed esplicita”. Anche se la proposta di legge tace al riguardo, è facile intuire che il soggetto che debba informare adeguatamente il paziente in merito non possa che essere il medico, secondo le procedure e le modalità di cui alla fondamentale legge n. 219/2017[67] in tema di consenso informato.
Una volta maturata tale volontà “informata”, il paziente dovrà esprimerla per iscritto e indirizzarla “al medico di medicina generale o al medico che ha in cura il paziente ovvero al medico di fiducia”[68] il quale, a sua volta, redigerà un rapporto sulle condizioni cliniche del richiedente e sulle relative motivazioni che ne hanno determinato la richiesta, inoltrandolo al Comitato etico clinico territorialmente competente[69]. Tale Comitato esprimerà un parere tecnico – scientifico non vincolante e lo invierà nuovamente al medico che, in ogni caso, lungo tutta la procedura, dovrà verificare il persistere della volontà suicidaria del richiedente.
Come si è cercato di evidenziare, nella proposta di legge cui si è fatto riferimento vi è uno spazio determinante lasciato al medico, nonché alla struttura sanitaria di riferimento.
Se tale proposta verrà tradotta in legge, allora potranno effettivamente verificarsi problematiche del tipo di quelle suggerite dalla domanda cui si sta rispondendo.
Al contrario, infatti, dello status quo, con l’introduzione di una legge in materia, vi sarebbe effettivamente il sorgere di un diritto soggettivo del paziente che, al ricorrere delle relative condizioni, legittimamente potrebbe richiedere al medico di aver garantita la pratica di aiuto al suicidio e, di conseguenza, in caso di inerzia ingiustificata del medico, ovvero della struttura sanitaria, vi sarebbe uno iato nel quale può inserirsi il giudice con una pronuncia di tipo condannatoria.
Sorge, tuttavia, una domanda. Cosa succede se vi è un parere negativo del medico ovvero del Comitato etico di valutazione? In questo caso il richiedente potrebbe adire l’autorità giudiziaria affinché questa si sostituisca al medico nella valutazione dei presupposti di legge?
Si possono immaginare due possibili soluzioni della questione. Una (a dire il vero difficilmente praticabile) dovrebbe portare a ritenere la materia sottratta alla possibilità di valutazione dell’autorità giudiziaria. Questa risposta, tuttavia, si scontrerebbe evidentemente con i principi costituzionali e, in particolare, con l’art. 24 Cost. che garantisce il diritto di “tutti” ad una tutela giudiziaria[70].
Pertanto, si può ritenere che, di fronte al rifiuto ovvero all’inerzia della struttura sanitaria nel garantire al paziente l’aiuto al suicidio, questi potrebbe senz’altro ricorrere all’autorità giudiziaria ma, è altrettanto assai chiaro che nel corso del giudizio dovrà essere nominato dal giudice un consulente tecnico d’ufficio che possa valutare, alla stregua dei requisiti previsti dalla legge, la legittimità o meno della richiesta del paziente e, dunque, della sussistenza dei presupposti per procedere al suicidio assistito.
La soluzione della questione sarebbe diversa qualora si ipotizzasse un ruolo attivo del giudice, già nella valutazione dei presupposti per procedere alla pratica di suicidio assistito, così come previsto nel progetto di legge omologo in Inghilterra, l’Assisted Dying Bill[71].
Nel detto progetto di legge[72], in particolare, si prevede che l’infermo rivolga la propria istanza alla Famiy Division della High Court[73], la quale ha il compito preliminare di valutare il corretto formarsi della volontà del richiedente[74] e, inoltre, di verificare che siano state osservate tutte le formalità, previste a tutela del malato, relative alla confezione dell’istanza.
In tal modo, dunque, a differenza dell’esaminato progetto di legge italiano, si prevede un ruolo attivo dell’autorità giudiziaria, in modo da prevenire possibili controversie che potrebbero sorgere in materia.
In conclusione, dunque, attualmente non è possibile immaginare un ruolo del giudice nell’obbligare la struttura sanitaria nel praticare il suicidio assistito al soggetto richiedente, in quanto non vi è ancora un obbligo legislativo che, parallelamente, garantisca il relativo diritto dell’infermo.
De iure condito, invece, si può ritenere che solamente con l’introduzione della relativa disciplina legislativa tali spazi si potranno aprire e, con molta probabilità, si può altrettanto prevedere che il giudice si troverà dinanzi ad un ruolo assai scomodo, da un punto di vista etico, ossia quello di dover condannare la struttura sanitaria inerte a praticare il suicidio assistito nei confronti del richiedente che abbia tutti i presupposti previsti dall’introducenda legge, verificati dal consulente all’uopo nominato dal giudice stesso.
[1] Cass. Civ., sez. II, 16 ottobre 2007, n. 21748
[2] Cfr. In re Quinlan, 355 A.2d 647 (N.J.), cert. denied, 429 U.S. 922 (1976); Cruzan v. Director Missouri Department of Health, U.S. 110 S. Ct. 2841, 111 L. Ed. 2d 224 (1990); In re Conroy, 98 N.J. 321 e 486 A.2d 1209 (1985); . Per l’analisi di tali casi si rinvia a: G. Smorto, Note comparatistiche sull’eutanasia, in Diritto e questioni pubbliche, n. 7/2007, pp. 175-179;
[3] Una simile soluzione si ritrova, a livello normativo, nel § 1901b, Abs. 2, BGB, il quale prevede che, allorquando un soggetto non abbia redatto alcuna dichiarazione anticipata, la decisioni circa l’interruzione o meno dei trattamenti terapeutici debba essere assunta dando rilievo alla volontà presunta dell’infermo che il Betreuer, il fiduciario, ha il compito di ricostruire sulla base dei desideri precedentemente manifestati e delle sue convinzioni etiche o religiose.
[4] In questo senso, G. Giaimo, Quello che la legge non dice. L’interruzione delle terapie di sostegno vitale in assenza di una volontà espressa dall’infermo, in BioLaw Journal, 17/2020, pp. 128-129
[5] La personne de confiance è il soggetto chiamato a manifestare la volontà del degente in ordine ai trattamenti terapeutici, nell'ipotesi di perdita della capacita volitiva di quest’ultimo (v. art. L1111-6 Code de la santé publique).
[6] Airedale NHS Trust v. Bland, 1993, W.L.R., 2
[7] NHS Trust v. Y (by his litigation friend, the Official Solicitor), 2018, UKSC, 46
[8] Per una trattazione più ampia si rinvia a G. Giaimo, Quello che la legge non dice. L’interruzione delle terapie di sostegno vitale in assenza di una volontà espressa dall’infermo, cit.
[9] G. Smorto, Note comparatistiche sull’eutanasia, in Diritto e questioni pubbliche, 2007, 7, p. 174
[10] La questione che ha dato luogo al giudizio di legittimità costituzionale, come è noto, trae spunto dalla vicenda processuale che vede coinvolto Marco Cappato, imputato del reato di cui all’art. 580 c.p., per aver agevolato - accompagnandolo con la propria auto in Svizzera - il suicidio di dj Fabo (al secolo Fabiano Antoniani) il quale, cieco, tetraplegico e sottoposto a respirazione ed alimentazione artificiali, si era liberamente autodeterminato a contattare l’associazione elvetica che lo assistette nell’atto di iniettarsi un farmaco letale. Per un più ampio commento alle decisioni richiamate si rinvia a: M.E. Bucalo, G. Giaimo, le sollecitazioni delle corti e l’inerzia del legislatore in tema di suicidio assistito. un confronto tra Italia e Inghilterra, in BioLaw Journal, 2019; M.E. Bucalo, La “circoscritta (e puntellata) area” di incostituzionalità dell’art. 580 c.p. fra self-restraint della Corte costituzionale e perdurante inerzia del legislatore, in BioLaw Journal, 2020; R. Potenzano, Brevi note comparatistiche in tema di suicidio assistito, in diritto di famiglia e delle persone, 2019; O. Caramaschi, La Corte costituzionale apre al diritto all’assistenza nel morire in attesa dell’intervento del legislatore, in Osservatorio Costituzionale, 1/2020; C. Cupelli, Il Parlamento decide di non decidere e la Corte costituzionale risponde a se stessa. La sentenza n. 242 del 2019 e il caso Cappato, in Sistema Penale, 2019; C. Cupelli, il caso Cappato e i nuovi confini di liceità dell’agevolazione al suicidio. Dalla doppia pronuncia della Corte Costituzionale alla sentenza di assoluzione della Corte di Assise di Milano, in Cassazione Penale, 1/2020
[11] La Corte adotta una peculiare tecnica decisoria: si tratta, infatti, di un’atipica decisione additiva, poiché la stessa Corte ammette che la propria regolamentazione sia superabile dall’intervento del Parlamento, essendo una disciplina costituzionalmente necessaria e non vincolata. Per una più ampia trattazione si rinvia, tra gli altri, a: S. Catalano, La sentenza 242 del 2019: una pronuncia additiva molto particolare senza ‘rime obbligate’, in Osservatorio costituzionale, 2/2020; M.E. D’Amico, Il “fine vita” davanti alla Corte costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici (Considerazioni a margine della sent. n. 242 del 2019), in Osservatorio costituzionale, 1/2020;
[12] Punto 2.3 del considerato in diritto della sentenza n. 242 del 2019, ripreso dall’ordinanza n. 207 del 2018
[13] cfr. Voluntary Assisted Dying Act (n. 61/2017), Part 2, section 9, 1(d)(iii)
[14] cfr. Assisted Dying Bill 2016, section 2
[15] cfr. Medical Assistance in Dying Act, 2016, section 241.2
[16] Proposta di legge n. 1875 del 30 maggio 2019. Per le ragioni sopra esposte tale proposta appare preferibile rispetto ai progetti di legge n 1586 e n. 1655 che prevedono che la richiesta dell’infermo debba essere motivata da una patologia inguaribile con prognosi infausta inferiore ai 18 mesi. Per un commento più ampio sulle proposte di legge richiamate si rinvia a: G. Giaimo, Considerazioni sparse, in chiave comparatistica, sulle proposte di legge in materia di eutanasia e di suicidio medicalmente assistito, in BioLaw Journal, 15/2019, pp. 27-41
[17] cfr. Voluntary Assisted Dying Act (n. 61/2017), Part 2, section 9, 1 (b) che recita “the person must (i) be an Australian citizen or permanent resident; and (ii) be ordinarily resident in Victoria; and (iii) at the time of making a first request, have been ordinarily resident in Victoria for at least 12 months”
[18] cfr. Medical Assistance in Dying Act 2016, 241.2 (1) “A person may receive medical assistance in dying only if they meet all of the following criteria: a) they are eligible — or, but for any applicable minimum period of residence or waiting period, would be eligible — for health services funded by a government in Canada (…)”
[19] cfr. Assisted Dying Bill 2016, section 1 (2)(c) “on the day the declaration is made (…) (iii) has been ordinarily resident in England and Wales for not less than one year”
[20] punti 4 e 5 del considerato in diritto della sentenza n. 242 del 2019
[21] punto 5 del considerato in diritto della sentenza n. 242 del 2019
[22] Ibidem
[23] cfr. Medical Assistance in Dying Act 2016, 241.2 (3)(e)
[24] cfr. Voluntary Assisted Dying Act (n. 61/2017)
[25] cfr. Legge n. 137 del 2001, art. 2
[26] cfr. Legge del 28 maggio 2002, art. 3 (2)
[27] Assisted Dying Bill 2016, section 3
[28] In questo senso, G. Giaimo, Considerazioni sparse, in chiave comparatistica, sulle proposte di legge in materia di eutanasia e di suicidio medicalmente assistito, cit., pp. 39-40
[29] Punto 6 della sentenza n. 242 del 2019.
[30] art. 14 della legge del 28 maggio 2002, in seguito alla novella introdotta con legge del 15 marzo 2020 così modificato: “(…) Le médecin qui refuse de donner suite à une requête d’euthanasie est tenu, dans tous les cas, de transmettre au patient ou à la personne de confiance les coordonnées d’un centre ou d’une association spécialisé en matière de droit à l’euthanasie et, à la demande du patient ou de la personne de confiance, de communiquer dans les quatre jours de cette demande le dossier médical du patient au médecin désigné par le patient ou par la personne de confiance”
[31] Proposta di legge n. 1875 del 2019, art. 6
[32] Punto 11 del considerato in diritto dell’ordinanza della Corte Costituzionale n. 207/2018
[33] Punto 9 del considerato in diritto della sentenza n. 242 del 2019
[34] Cfr. G. Smorto, Note comparatistiche sull’eutanasia, in Diritto e questioni pubbliche, 2007, 7, p. 144; G. Giaimo, Il diritto di morire naturalmente nel confronto tra la giurisprudenza inglese ed italiana, in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, 2015, p. 616
[35] Non sarà oggetto di analisi l’Assisted Dying Bill presentato alla House of Lords inglese nel 2015 dal momento che, limitandosi tale progetto di legge a regolamentare la possibilità di accedere al suicidio medicalmente assistito e non anche alle pratiche di eutanasia attiva diretta, non costituisce un utile punto di riferimento per la nostra indagine.
[36] Art. 4 della legge del 28 maggio 2002, come modificato con legge del 15 marzo 2020
[37] Art. 14 della legge del 28 maggio 2002, come modificato con legge del 15 marzo 2020
[38] Art. 2, comma 2 legge n.137 del 10 aprile 2001
[39] G. Giaimo, Considerazioni sparse, in chiave comparatistica, sulle proposte di legge in materia di eutanasia e di suicidio medicalmente assistito, cit., p. 12
[40] Il problema prospettato trovava una parziale soluzione nella disciplina belga che prevedeva una delimitazione temporale della validità delle disposizioni anticipate, con conseguente necessità di un loro rinnovo periodico, onde consentire al soggetto che l’espressione dei suoi desideri sia quanto più vicina alla situazione reale e alla possibile condizione clinica futura. Tale inciso, contenuto nell’articolo 14 della legge è tuttavia stato eliminato a seguito delle modifiche apportate nel 2020
[41] Proposta di legge n. 1875 del 30 maggio 2019
[42] Medical Assistance in Dying Act 2016
[43] Voluntary Assisted Dying Act (n. 61/2017)
[44] Sono innumerevoli gli scritti in tema di dignità tra i quali, senza pretesa di esaustività, si possono segnalare S. Rodotà, Antropologia dell’homo dignus, in Riv. crit. dir. priv., 2011, 547 ss.; G. Piepoli, Tutela della dignità e ordinamento della società secolare europea, in Riv. crit. dir. priv., 2008, 7 ss.; B. Malvestiti, La dignità umana dopo la Carta di Nizza. Un’analisi concettuale, Napoli – Salerno, 2015; J. Waldron, Dignity, Rank & Rights, Oxford, 2012.
[45] Osserva, in tal senso, M.C. Lipari, Figure della dignità umana, Milano, 2008, 23, che l’idea stessa di dignità “non è semplicemente affacciata sul limite esterno dei diritti fondamentali, ma è sospesa su una linea più sottile: tra l’essere positivamente qualcosa e il non-essere la propria negazione”.
[46] In merito alla quale si rimanda a N. Lipari, Personalità e dignità nella giurisprudenza costituzionale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 3, 2017, 847 ss.
[47] M.C. Lipari, Figure della dignità umana, cit., 46; ma si veda anche F.M. De Sanctis, Riflessioni sull’homo dignus, in Riv. crit. dir. priv., 2011, 9 ss.
[48] Di “proteiforme” significato di dignità umana parla, non a caso, G. Giaimo, La volontà e il corpo, Torino, 2019, 8.
[49] L’analisi del concetto di dignità umana e del differente significato ad essa ascrivibile è sapientemente descritta da D. Beyleveld, R. Brownsword, Human dignity in bioethics and biolaw, Oxford, 2001.
[50] Si afferma, in tal senso, che “human dignity is the rock on which the superstructure of human rights is built”, D. Beyleveld, R. Brownsword, op. cit., 13.
[51] In tal senso la dignità “should be driven not by the vagaries of individual choice, but by a shared vision of human dignity that reaches beyond individuals”, D. Beyleveld, R. Brownsword, op. cit., 29.
[52] Art. 32 Cost. – “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
[53] In tal senso, C. Granelli, Autodeterminazione e scelte di fine vita, in Jus Civile, 5, 2019, 548 ss.
[54] Esplicativo di quanto detto è l’art. 1, comma 1, della citata legge n. 219 del 2017, con cui si dispone che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata”, per cui “ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, […] qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso” e, secondo il comma 6 del prefato articolo, che “il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo”.
[55] È nota la distinzione tra eutanasia attiva e passiva ove, con la prima, si fa riferimento a quelle azioni dirette ad accelerare, ovvero a provocare, il decesso di chi soffra di una patologia caratterizzata da prognosi infausta e irreversibile mentre, con la seconda, a quel comportamento omissivo che porta alla cessazione dei trattamenti sanitari che mantengono in vita il malato e che, dunque, si collegano al relativo diritto all’autodeterminazione sanitaria. Per un approfondimento sulla distinzione in parola si rimanda a G. Giaimo, La volontà e il corpo, op. cit., 59; G. Smorto, Note comparatistiche sull’eutanasia, in Diritto e questioni pubbliche, 2007, n.7, 144 ss.
[56] La distinzione tra la pratica di suicidio assistito e quella di eutanasia attiva, risiede nelle modalità di somministrazione del trattamento. Mentre, infatti, nel caso di eutanasia attiva è il medico che somministra al paziente il farmaco, nel caso di pratiche di aiuto al suicidio il medico “semplicemente” lo assiste nella detta somministrazione. Questi prescrive i farmaci necessari al suicidio su esplicita richiesta del paziente e lo consiglia riguardo alle modalità di assunzione. In tal caso, dunque, viene a mancare l’atto diretto del medico che somministra in vena il farmaco al malato.
[57] Mentre l’attuale codice penale italiano non ha mai conosciuto il reato di suicidio, in Inghilterra si è dovuto attendere il 1961 e, in particolare, l’emanazione del Suicide Act, affinché si addivenisse alla relativa decriminalizzazione. Secondo l’attuale Suicide Act, section 1, infatti, “The rule of law whereby it is a crime for a person to commit suicide is hereby abrogated”
[58] Non è un caso, infatti, che attualmente sono assai pochi gli ordinamenti che hanno legislativamente disciplinato le situazioni di fine-vita e, in particolare, quelle relative alle pratiche di suicidio assistito, tra cui può senz’altro farsi riferimento alla legislazione canadese e, in particolare, al Medical Assistance in Dying Act 2016. In altri ordinamenti, tra cui anche quello italiano, vi sono solamente delle proposte di legge oggetto di discussione in Parlamento. Interessante anche il progetto di legge inglese, l’Assisted Dying Bill, presentato nel 2015 alla House of Lords da Lord Falconer of Thoroton e riproposto, l’anno successivo, da Lord Hayward. Attualmente non fa parte del calendario dei lavori della House of Lords ma presenta spunti di notevole interesse da un punto di vista comparatistico per il cui più completo esame si rimanda a G. Giaimo, Considerazioni sparse, in chiave comparatistica, sulle proposte di legge in materia di eutanasia e di suicidio medicalmente assistito, in BioLaw – Rivista di BioDiritto, 3, 2019, 27 ss.
[59] Cass. civ., sez. I, sentenza 16 ottobre 2007, n.21748, nel noto “caso Englaro”, relativo ad un caso di interruzione di trattamento vitale per un soggetto in stato vegetativo.
[60] Corte d’Assise Milano, sez. I, ordinanza 14 febbraio 2008, n.1, con cui è stata rimessa alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nell’ambito del “caso Cappato”.
[61] Si fa riferimento, in particolare, ai casi R (Pretty) v DPP, HKHL, [2001], 61 e R (Nicklinson) v Ministry of Justice, UKSC, [2014], 38.
[62] Leading case in materia è stato senz’altro Carter v Canada (Attorney General), SCC, 2015, 5, per il cui esame si rimanda a R. Potenzano, Brevi note comparatistiche in tema di suicidio assistito, in Diritto di Famiglia e delle Persone, 4, 2019, 823 ss.
[63] Si è soliti distinguere tra eutanasia attiva e quella passiva ove, con la prima, si fa riferimento a quelle azioni dirette ad accelerare, ovvero a provocare, il decesso di chi soffra di una patologia caratterizzata da prognosi infausta e irreversibile mentre, con la seconda, a quel comportamento omissivo che porta alla cessazione dei trattamenti sanitari che mantengono in vita il malato e che, dunque, si collegano al relativo diritto all’autodeterminazione sanitaria. Per un approfondimento sulla distinzione in parola si rimanda a G. Giaimo, La volontà e il corpo, Torino, 2019, 59; G. Smorto, Note comparatistiche sull’eutanasia, in Diritto e questioni pubbliche, 2007, n.7, 144 ss.
[64] È fin troppo noto, infatti, che la Corte Costituzionale nel c.d. “caso Cappato”, con l’ordinanza n. 207 del 24 ottobre 2018, ha invocato l’intervento del legislatore in materia di suicidio assistito, tramite l’inconsueto strumento dell’ordinanza di rinvio all’anno successivo. Tuttavia, trascorso invano il detto termine, con la sentenza n. 242 del 22 novembre 2019, è dovuta intervenire andando a dichiarare “l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 […], agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Numerosissimi i riferimenti dottrinari in materia, tra i quali si rimanda a S. Prisco, Il caso Cappato tra Corte costituzionale, Parlamento e dibattito pubblico, un breve appunto per una discussione da avviare, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2, 2019, 1 ss; M.E. Bucalo, G. Giaimo, Le sollecitazioni delle Corti e l’inerzia del legislatore in tema di suicidio assistito. Un confronto tra Italia e Inghilterra, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2, 2019, 171 ss.; R. Potenzano, Brevi note comparatistiche in tema di suicidio assistito, in Diritto di Famiglia e delle Persone, 2019, 1822 ss.
[65] Proposta di legge della Camera dei deputati N. 1875 del 30 maggio 2019.
[66] L’art.3 del progetto di legge in esame, rubricato “Presupposti e condizioni”, prevede che la persona che intende ricorrere alla procedura di suicidio assistito debba essere maggiore di età e capace di intendere e di volere. A ciò, si aggiunge che il richiedente deve trovarsi in una delle seguenti condizioni, ossia essere “ 1. affetta da una patologia irreversibile ed a prognosi infausta; 2. affetta da una condizione clinica irreversibile; 3. affetta da una patologia che sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella trova intollerabili; 4. totalmente dipendente da terzi o tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”.
[67] Per un più esaustivo esame della legge, si rimanda a M. Azzalini, Legge n.219/2017: la relazione medico – paziente irrompe nell’ordinamento positivo tra norme di principio, ambiguità lessicali, esigenze di tutela della persona, incertezze applicative, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2018, 8 ss.; G. Ferrando, Rapporto di cura e disposizioni anticipate nella recente legge, in Rivista Critica di Diritto Privato, 2018, 49 ss.; M. Graziadei, Dal consenso alla consensualità nella relazione di cura, in Responsabilità Medica, 2019, 37 ss.
[68] Art. 4, progetto di legge cit.
[69] Art. 5, progetto di legge, cit.
[70] Art. 24 Cost. “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.”
[71] Si tratta di una proposta di legge in materia di suicidio assistito presentata nel 2015 alla House of Lords da Lord Falconer of Thoroton e riproposta, l’anno successivo, da Lord Hayward. Attualmente non fa parte del calendario dei lavori della House of Lords ma presenta spunti di notevole interesse da un punto di vista comparatistico.
[72] Per un esame dettagliato dell’Assisted Dying Bill, si rimanda a G. Giaimo, Considerazioni sparse, in chiave comparatistica, sulle proposte di legge in materia di eutanasia e di suicidio medicalmente assistito, in BioLaw – Rivista di BioDiritto, 3, 2019, 27 ss.
[73] Assisted Dying Bill, 2016, section 1(1).
[74] Assisted Dying Bill, 2016, section 3(1)(a).
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.