ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’estinzione del processo non estingue l’azione. Rinuncia agli atti e rinuncia all’azione nel processo amministrativo (nota a TAR Lazio – Sez. Terza Ter sentenza del 04.11.2020 n. 11408).
di Stefania Caggegi
Sommario: 1. Premessa - 2. “La rinuncia al ricorso” ex art. 84 c.p.a e la rinuncia all’azione amministrativa. - 3. L’effetto sulla sfera sostanziale, quale discrimen tra rinuncia agli atti e rinuncia all’azione. 3.1. Giurisprudenza richiamata e decisione del TAR Lazio. 4. Considerazioni conclusive. Dicotomia solo concettuale in ambito amministrativo?
1. Premessa.
La sentenza in commento affronta un tema suggestivo ed interessante, fondamentalmente inscritto nel quadro della nota e discussa dicotomia rinuncia agli atti/rinuncia all’azione.
Nella fattispecie in esame, il Collegio respinge un’eccezione di improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse, proposta dalla parte resistente per aver la ricorrente rinunciato – nel corso di un differente giudizio – all’atto di intervento ad adiuvandum (da valere anche con ricorso autonomo) ivi depositato ed avente ad oggetto la medesima pretesa fatta valere nel giudizio che ha generato la pronuncia in commento.
Nel respingere tale eccezione, il TAR si sofferma a verificare gli effetti della rinuncia agli atti, richiamando la disciplina codicistica applicabile, nonché la giurisprudenza più rilevante che, nel corso degli anni, ha ribadito il principio – sancito, peraltro, a chiare lettere dall’art. 310 c.p.c. - secondo il quale la rinuncia agli atti processuali non va confusa con la rinuncia all’azione.
Seppure in modo sintetico, come impone il carattere del presente scritto, saranno oggetto di analisi gli effetti sostanziali e le ricadute processuali dei due diversi tipi di rinuncia in seno al processo amministrativo, al fine di meglio valutarne i risvolti in merito alla permanenza tanto dell’interesse quanto della legittimazione ad agire, in sede di impugnativa di provvedimenti amministrativi che incidano sulla medesima pretesa sostanziale.
A tal proposito, occorre preliminarmente chiarire che la rinuncia agli atti, propria dei procedimenti giurisdizionali ad iniziativa di parte come il processo amministrativo[1], è un atto con cui il ricorrente dichiara di abbandonare la situazione giuridica processuale fatta valere nell'ambito della domanda proposta in sede di giudizio[2]; in quanto causa di estinzione del processo nel suo significato formale[3], essa è, invero, tradizionalmente distinta dalla rinuncia all’azione, definita come un “modo improprio per designare la rinunzia al diritto sostanziale sottostante”[4].
Si tratta di due istituti disciplinati dal codice di rito civile, a differenza di quello amministrativo ove il legislatore si è limitato a codificare solo l’istituto della rinuncia agli atti. Non si tratta di una lacuna, ma, evidentemente di una scelta, accompagnata dal rinvio esterno posto dall'art. 39 c.p.a. al codice di procedura civile. Ed infatti, ciò non impedisce – superando taluni dubbi espressi in dottrina[5] ed in giurisprudenza[6] – che tale distinzione sia applicabile anche al processo amministrativo[7], quanto meno dal punto di vista concettuale, nei termini di cui si dirà in sede conclusiva.
2. “La rinuncia al ricorso” ex art. 84 c.p.a e la rinuncia all’azione amministrativa.
Come accennato in premessa, nel processo civile i due distinti concetti di rinuncia all’azione e rinuncia agli atti vengono previsti agli artt. 306 ss. c.p.c.[8]; di converso, nel codice del processo amministrativo è stato trasposto e regolamentato esclusivamente l’istituto della rinuncia al ricorso, intesa come rinuncia agli atti di causa. Originariamente prevista dall’art. 30 del R.D. n. 6516/1899 e poi dall’art. 46 del R.D. n. 642/1907, è stata, infatti, normata dal legislatore del 2010 all’art. 84 del codice del processo amministrativo, a mente del quale “la parte può rinunciare al ricorso in ogni stato e grado del giudizio”[9].
Il comma 2 del predetto art. 84 introduce, poi, un’importante novità in tema di spese processuali, rispetto alla previsione della condanna obbligatoria del rinunciante (ad eccezione dell’ipotesi in cui le parti si fossero accordate per la compensazione) sancita nella precedente disciplina del R.D. del 1907[10]: è, infatti, prevista la possibilità che il Collegio decida di compensarle “avuto riguardo ad ogni circostanza”. Tale previsione, ha di fatto eliminato uno degli ostacoli più significativi all’utilizzo dell’istituto della rinuncia, cui le parti evitavano di ricorrere, anche nelle ipotesi in cui sarebbe stato opportuno, facendo ricorso alla dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse, spesso resa all’udienza di merito, in quanto atto idoneo a realizzare il medesimo obiettivo cui è preordinata la rinuncia al ricorso, ma spesso, a spese compensate[11].
Restano sostanzialmente immutate le modalità di esternazione della rinuncia[12], proposta mediante dichiarazione resa in udienza dal difensore – munito di mandato speciale – e documentata nel relativo verbale, oppure sottoscritta dalla parte o dal difensore – sempre munito di mandato speciale -, notificata alle altre parti almeno dieci giorni prima dell’udienza e depositata in segreteria[13].
Ai sensi del comma terzo, alla rinuncia ritualmente presentata e qualora le altre parti interessate non abbiamo interposto opposizione[14], segue l’estinzione del processo.
Gli effetti, dal punto di vista sostanziale e processuale, ove si pervenga a siffatto esito estintivo, sono previsti dall’art. 310 c.p.c. - applicabile al processo amministrativo, come si anticipava, per effetto del rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a. – la cui lettera irrompe affermando in maniera concisa e puntuale che “l’estinzione del processo non estingue l’azione”.
Nella pronuncia in commento, pertanto, il Collegio richiama tale disposizione, in quanto certamente applicabile e ribadisce che la stessa va interpretata nel senso che la pretesa sostanziale che costituiva l’oggetto del processo estinto rimane integra ossia non pregiudicata dall’estinzione. Ciò significa che, se non è intervenuta una decadenza, l’azione per far valere quella pretesa può essere riproposta mediante altro successivo processo: il ricorrente, dunque, può rinunciare agli atti senza rinunciare alla pretesa sostanziale[15].
Dunque, nulla quaestio circa la possibilità di riproporre il ricorso in precedenza rinunciato.
Ma le possibilità del rinunciante non si esauriscono qui: egli può anche riproporre le medesime censure già svolte, dedurre tutto ciò che è deducibile a miglior difesa della sua sfera giuridica.
Difatti, come si è avuto già modo di appurare, il rinunciante (ora ricorrente) non ha compiuto alcun atto abdicativo dell’azione ovvero del titolo della domanda, sicché l’identità delle censure rispecchierebbe solo ed esclusivamente un’ipotesi di identica illegittimità dei provvedimenti lesivi.
Deve, peraltro, aggiungersi che la rinuncia può riguardare anche solo il ricorso per motivi aggiunti, senza alcun effetto sul giudizio introdotto con il ricorso principale.[16]
3. L’effetto sulla sfera sostanziale, quale discrimen tra rinuncia agli atti e rinuncia all’azione.
È stato precisato in giurisprudenza che, nella differenza tra rinuncia agli atti e rinuncia all’azione, è rilevante la caratterizzazione delle ragioni che sottendono tale comportamento, nel senso che, ove manchi una esplicitazione delle ragioni sostanziali sottese al comportamento di rinuncia, questa deve ritenersi mera rinuncia agli atti, e viceversa, nel caso in cui le ragioni siano state dettagliate in ragione della pretesa sostanziale originariamente azionata[17].
Che il discrimen sia rintracciabile negli effetti che tanto la rinuncia agli atti, quanto la rinuncia all’azione producono sulla sfera sostanziale, è acquisizione ormai pacifica della giurisprudenza, a tenore della quale gli effetti applicativi della normativa di cui all’art. 310 c.p.c. determinano l’assoluta “inidoneità della pronuncia di estinzione per rinuncia agli atti ad acquistare efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere, potendo essa acquisire tale efficacia di giudicato sul solo aspetto del venir meno dell'interesse alla prosecuzione di quel determinato processo”[18].
Ciò in quanto, “l'efficacia abdicativa in ordine all'effetto sostanziale della decisione di merito, preclusiva del potere delle parti di chiedere al giudice una nuova decisione sulla stessa controversia, va riconosciuta soltanto ad un atto che possa essere interpretato come rinuncia anche al giudicato, in quanto estesa alla sentenza già emessa ed alle sue conseguenze”[19].
Il TAR, nella pronuncia in commento, richiama questo ulteriore aspetto, specificando che, nel caso oggetto di giudizio, la ricorrente “non risulta aver rinunciato alla pretesa sostanziale (ovvero al “bene della vita” al quale aspira), ma solo agli atti del giudizio”.
Del resto, non trascurabili, anche in ragione della rilevata natura meramente processuale della pronuncia declaratoria dell’estinzione del processo, sono gli effetti della stessa sui c.d. stabilizzatori di diritto sostanziale, ossia sulla prescrizione e sulla decadenza[20].
Ed è proprio in ragione della più marcata incidenza che determina la rinuncia all’azione sulla pretesa sostanziale sottesa che questa può essere anche tacita, mentre la rinuncia agli atti deve essere espressa, di contro la rinuncia all’azione non richiede ai fini del suo perfezionamento l’accettazione della controparte,[21] perché estinguendo l’azione stessa, ha l’efficacia di un rigetto nel merito della domanda[22].
3.1. Giurisprudenza richiamata e decisione del TAR Lazio.
Il Collegio richiama la costante e risalente giurisprudenza a tenore della quale, mentre la rinuncia all’azione incide sul diritto e quindi preclude ogni ulteriore tutela giurisdizionale, la rinuncia agli atti agisce solo sul processo, la cui estinzione lascia salvo l’esercizio dell’azione in un nuovo processo[23].
Da ultimo, il Consiglio di Stato – richiamato anche questo a fondamento della pronuncia in commento -, tornando sul tema, ha ribadito che “nel processo amministrativo, la rinuncia alla domanda non va confusa con la rinuncia agli atti del giudizio atteso che, nel caso di rinuncia agli atti del giudizio, si può parlare di estinzione del processo, cui consegue una pronuncia meramente processuale, potendo essere la domanda riproposta nel caso in cui siano ancora aperti i termini per far valere in giudizio la pretesa sostanziale. Viceversa, la rinuncia all'azione comporta una pronuncia con cui si prende atto di una volontà del ricorrente di rinunciare alla pretesa sostanziale dedotta in giudizio, con la conseguente inammissibilità di una riproposizione della domanda; in quest'ultimo caso non vi può essere estinzione del processo, in quanto la decisione implica una pronuncia di merito, cui consegue l'estinzione del diritto di azione, atteso che il giudice prende atto della volontà del ricorrente di rinunciare alla pretesa sostanziale dedotta nel processo”.[24]
Pertanto, dopo un ricco exursus giurisprudenziale che individua gli elementi di differenziazione tra rinuncia agli atti e rinuncia all’azione, il TAR Lazio conclude agevolmente che la rinuncia operata dalla ricorrente nel differente giudizio, vertente sulla medesima pretesa sostanziale, non risulta ostativa alla possibilità di decidere la controversia nel merito, non essendo intervenuta alcuna decadenza nella proposizione dell’azione impugnatoria ed avendo parte ricorrente espressamente ribadito l’interesse alla decisione nel merito.
4. Considerazioni conclusive. Dicotomia solo concettuale in ambito amministrativo?
In virtù di quanto evidenziato nel corso della trattazione pare, dunque, potersi desumere che l’unica circostanza impeditiva della tutela di una pretesa sostanziale, la cui attivazione processuale sia stata in precedenza rinunciata, sia rinvenibile nell’intervento di una decadenza.
Come, del resto, pare poter assurgere a conclusione “pacifica” e oramai consolidata l’applicabilità della distinzione tra rinuncia agli atti e rinuncia all’azione nel processo amministrativo.
Sicché, nel caso di specie, il Collegio ha potuto richiamare ed applicare tale disciplina, in ragione del fatto che la parte – prima rinunciante e poi ricorrente – fosse ancora in termini.
Qualche dubbio potrebbe sorgere forse sull’aspetto pratico dell’applicabilità della distinzione tra rinuncia agli atti e rinuncia all’azione, così come prevista dal c.p.c. ed elaborata dalla dottrina processualcivilistica, al settore amministrativo.
Il processo amministrativo, infatti, presenta non trascurabili peculiarità rispetto a quello civile, che incidono sulla nettezza della distinzione di cui trattasi, prima fra tutte la circostanza che l’azione tipica, posta quale baluardo della tutela degli interessi legittimi è l’azione di annullamento, che, come è noto, può essere azionata solamente nel termine perentorio decadenziale di 60 giorni. Quindi, in molti casi, difficilmente – da un punto di vista prettamente pratico – un soggetto può instaurare un giudizio, poi rinunciarvi e successivamente riproporlo, senza incorrere nella scadenza del termine previsto per il consolidamento del provvedimento amministrativo lesivo. Ne discende che la dicotomia rinuncia agli atti/rinuncia all’azione - per quanto opportunamente richiamata a fini decisori nella pronuncia in commento e certamente calzante all’oggetto del giudizio esaminato dal Collegio - parrebbe avere, nell’ambito del giudizio amministrativo instaurato a seguito di azione di annullamento, una valenza assai limitata, maturando comunque una condizione di definitività in termini di inoppugnabilità del provvedimento in ragione della scadenza del breve termine perentorio prescritto. Ciò, a ben guardare, in una certa qual misura comporta una sorta di equiparazione quoad effectumtra i due istituti. siffatta conclusione non sembra essere inficiata dall’art. 30, comma 2 c.p.a., il quale, pur ammettendo un’autonoma azione di risarcimento danni, prevede anche in questo caso un termine decadenziale, di 120 giorni, significativamente breve[25].
[1] Espressione tratta da A.M. SANDULLI, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, in Trattato del processo civile, diretto da F. CARNELUTTI, Napoli 1963; si veda anche successivamente A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989.
[2] In questo senso: M.T. LIEBMANN, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano 1968,1,203; A. SALETTI, voce Estinzione del processo, in Enc. Giur. Treccani, XII, Roma, 1994,3.
[3] F. BENVENUTI, voce Estinzione del processo (dir. Amm.), in Enc. Dir., XV, Milano, 1966, 949.
[4] C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, Torino, 2013, 395.
[5] A tal proposito, N. SAITTA, Sistema di giustizia amministrativa, Milano 2011, 302, dove si afferma che <<se tuttavia si assegna alla rinuncia anche la valenza di accettazione dell’assetto degli interessi così come riflesso nella situazione che aveva portato all’instaurazione dell’originario contenzioso, potrebbe inferirsene una sorta di effetto positivo che metterebbe i resistenti al sicuro da eventuali […] ritorni di fiamma del ricorrente rinunciatario>>; in senso analogo anche E. PICOZZA, Il processo amministrativo, Milano 2008, 364.
[6] Cfr. CGARS, 9.08.2010, n. 1081, a tenore della quale <<nel giudizio amministrativo la rinuncia è espressione del potere della parte di disporre del diritto di azione>>; in senso analogo: TAR Basilicata, sez. I, 08.06.2011 n. 351, in giustiziaamministrativa.it.
[7] In dottrina, A.M. SANDULLI, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, op. cit., 248, per il quale è problema di interpretazione se alla dichiarazione di rinuncia (resa in udienza o depositata) debba essere attribuito il significato di “rinuncia agli atti” o “rinuncia all’azione”, così citata da S.MORO, in Il Codice del processo amministrativo, a cura di B. SASSANI E R. VILLATA, Torino, 2012, 1159;
sempre in senso favorevole all’applicabilità della distinzione tra rinuncia agli atti e rinuncia all’azione nel processo amministrativo, si veda: V. CANAIELLO, Diritto processuale amministrativo, Torino, 1988, 629; C. MIGNONE, Il giudizio di primo grado, in Diritto Amministrativo, a cura di L. MAZZAROLLI – G. PERICU – A. ROMANO – F.A. ROVERSI MONACO – F.G. SCOCA, Bologna, 2005, 628; L. PERFETTI, Sub art. 25, in Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, a cura di A. ROMANO – R. VILLATA, Padova 2009, 841-842; A. POLICE, Estinzione del processo, in Giustizia Amministrativa, a cura di F.G. SCOCA, Padova, 2009, 469;
in giurisprudenza: Cons. Stato, Sez. VI, 24.02.2005 n. 675; TAR Puglia – Bari, sez. I, 13.10.2004, n. 4444;
sulla disciplina in generale si veda anche: E. CANNADA BARTOLI, Processo amministrativo, in Noviss. dig. it., XIII, Torino, 1966.
[8] G. MANDRIOLI A. CARRATTA, Corso di diritto processuale civile, vol. II, Torino 2013, 236; A. PROTO PISANI, Diritto processuale civile, Milano 1984; A.CERINO CANOVA, La domanda giudiziale ed il suo contenuto, in Commentario del cod. di proc. Civ., diretto da E. ALLORIO, II, I, Torino, 1980; P. CALAMANDREI, La relatività del concetto di azione, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1929; G. CHIOVENDA, L’azione nel sistema dei diritti, in Saggi di diritto processuale civile, I, Bologna 1904; per un approfondimento specifico sul tema dell’estinzione del processo per rinuncia agli atti: R.VACCARELLA, Rinunzia agli atti del giudizio, in Enciclopedia del diritto, vol. XL, Milano 1989, 960; E. REDENTI, Diritto processuale civile, vol.II, Milano 1997, 329; S. LA CHINA, Manuale di diritto processuale civile, vol. I, Milano 2003; F.P. LUISO, Diritto processuale civile, Milano 2011, 247.
[9] Con riferimento al potere di rinunciare agli atti del giudizio, come espressione del carattere soggettivo dell’interesse fatto valere dal ricorrente e della piena disponibilità dell’azione proposta si veda: A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2014, 231;
[10] Cfr., precedentemente all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, Cons. St., Sez. V, 17.09.2010, in giustizia-amministrativa.it.
[11] In tal senso: G. VIRGA, Il regime delle opposizioni avverso i decreti ex art. 9 della L. n. 205/2000 e delle spese di giudizio nel caso di rinuncia al ricorso, in Giustamm.it, 2, 2001; più di recente, in senso analogo: R. GAROFOLI, in Codice Amministrativo Ragionato, Nel Diritto Editore - 2018;
[12] Per quanto attiene alla modalità di presentazione della rinuncia a norma dell’art. 84 c.p.a., cfr. Cons. St., Sez. VI, 9.12.2008 n. 6098, in giustizia-amministrativa.it.
[13] Il dies ad quem è stato introdotto dal legislatore del 2010 e attiene al solo atto formale di rinuncia, ma non preclude che la rinuncia avvenga con dichiarazione resa in udienza, in questo senso: R. CHIEPPA, Il codice del processo amministrativo, Milano, 2010, 410.
[14] Nella vigenza dell’art. 46 del R.D. n. 642/1907 era pacifico che la rinuncia non richiedeva l’accettazione delle controparti, mentre l’art. 84 c. 3 c.p.a. dispone che il processo non si estingue se le parti “si oppongono”: per un’approfondita analisi dell’opposizione delle controparti alla rinuncia si rinvia a S.MORO, in Il Codice del processo amministrativo, a cura di B. SASSANI E R. VILLATA, op. cit., 1182 – 1186 nonché alle note ivi inserite;
[15] In questo senso, F. BENVENUTI, voce Parte (dir. Amm.), in Enc. Dir., XXXI, Milano 1981, 970.
[16] Cfr. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, 9.08.2010 n. 1073, cit. anche in: A. QUARANTA, V. LOPILATO, Il Processo Amministrativo. Commentario al D.Lgs. n. 104/2010, Milano, 2011, 634;
[17] Cfr. Trib. Reggio Calabria, 25.09.2002, in G. S. RICHTER E P.S. RICHTER, La giurisprudenza sul Codice di procedura civile coordinata con la dottrina, a cura di P.DI RIENZO, O. FANELLI, S. LA SPADA, E. MANDANELLI, S. PICCOLI, A. TULLIO, libro II, tomo I, Milano 2006, 934;.
[18] Corte di Cassazione Civile, Sez. I, 23.11.2015, n. 23867, in jusexplorer.it.
[19] Cass. Civ., Sez. II, 16.03.2017, n.6845, in jusexplorer.it.
[20] Per un’accurata analisi sugli effetti dell’estinzione su prescrizione e decadenza, si rinvia a: AA.VV., Commentario al codice di procedura civile, artt. 163 -322, a cura di P. CENDON, Milano 2012, 1941; per un’analisi più specifica degli effetti sulla prescrizione, arricchita da corposa giurisprudenza, si veda: La giurisprudenza sul Codice di procedura civile coordinata con la dottrina, op.cit., 991.
[21] Cass. Civ., Sez. II, 07.06.1991 n. 6450; più di recente: Cass. Civ., sez. II, 10.09.2004 n. 18255, in jusexplorer.it; in tema di accettazione, in dottrina, tra gli altri, F. VOLPE, La rinuncia al giudizio non vuole accettazione, la dichiarazione di mancanza dell’interesse si, n. 8/2008, in lexitalia.it; più in generale si veda già C.E. GALLO, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, 2007, 213;
[22] Cass. Civ., Sez. II 13.03.1999 n. 2268, in jusexplorer.it.
[23] Cass. Civ., Sez. Lavoro, 13.03.1999, n.2268, in jusexplorer.it.
[24] Consiglio di Stato, sez. III, 21.06.2017, n.3058 (conforme: CdS, Sez. III 22.08.2018 n.5014) in giustizia-amministrativa.it.
[25] In tal senso si veda: A. TRAVI, Nota Ad. Pl. 24 giugno 2004 n. 8, in Foro.it, IV, 2004, 949.
Vaccini, epistemologia e stili di pensiero in Ludwig Fleck
di Angelo Costanzo
1. Il laboratorio di Rudolf Weigl a Lwów, in Polonia (ora Leopoli in Ucraina), in cui lavorò Ludwig Fleck, batteriologo e microbiologo, fu un centro mondiale di ricerca sui vaccini contro il tifo e durante l’occupazione nazista dovette risolvere il problema di fornirei vaccino all'esercito tedesco: con alcuni sotterfugi occasionali produsse vaccini non ottimali e una piccola quantità di vaccino per uso privato, che, si sostiene, trovò la strada per il ghetto ebraico di Varsavia.
Come ebreo, Fleck fu arrestato nel febbraio del 1943 e in seguito lavorò nei campi di concentramento sotto il diretto controllo delle SS. Egli e i suoi colleghi escogitarono un'altra soluzione al problema di lavorare per il nemico e collaboratori inesperti e supervisori delle SS ignoranti sostennero inconsapevolmente la finzione: produssero, con un sistema clandestino, vaccino inefficace, con cui immunizzare i militari tedeschi, e vaccino efficace con cui immunizzare i prigionieri di Buchenwald attivi nella Resistenza [1].
2. Oggi Fleck è ricordato come un precursore della sociologia del pensiero con la sua dottrina, da lui definita "teoria comparata della conoscenza" o "epistemologia comparata" (Vergleichende Erkenntnistheorie), fondata su due concetti: lo "stile di pensiero" (Denkstil) e il "collettivo di pensiero" (Denkkollektiv).
La sua principale opera epistemologica è la monografia intitolata Entstehung und Entwicklung einer wissenschaftlichen Tatsache. Einführung in die Lehre vom Denkstil und Denkkollektiv, 1ª ed., Basel, B. Schwabe und Co. Verlabuchhandlung, 1935, 2ª ed., Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1980 (ed. it.: Genesi e sviluppo di un fatto scientifico. Per una teoria dello stile e del collettivo di pensiero, Bologna, Il Mulino, 1983). Le sue teorie rimasero quasi sconosciute finché non furono in parte riprese da Thomas Kuhn nella celebre opera The Structure of Scientific Revolution (1962).
3. Tutti gli altri saggi di carattere epistemologico di Fleck sono ora contenuti in: Stili di pensiero. La conoscenza scientifica come creazione sociale (a cura di F. Coniglione, Milano-Udine, Mimesis, 2019) .
Nell’ampio saggio introduttivo (Lontano da Vienna, lontano da Leopoli. Ludwik Fleck: l’uomo giusto nel posto e nel tempo sbagliati, pp. 7-95) Coniglione chiarisce come l’epistemologia di Fleck sia centrata sul contesto della scoperta delle teorie: lo sviluppo storico di un pensiero non si riduce allo sviluppo logico dei suoi contenuti, non esiste una generazione spontanea dei concetti perché la stessa osservazione dei fenomeni richiede dei preconcetti e l’atteggiamento del ricercatore è segnato dallo “stile di pensiero” condiviso dal gruppo scientifico al quale appartiene e che costituisce un “collettivo di pensiero”.
Fondamentalmente: il vero e il falso non derivano dalla relazione binaria fra il giudizio e lo stato delle cose ma da una relazione ternaria in cui si inserisce l’attuale condizione delle conoscenze scientifiche e della cultura in generale, cioè lo stile di pensiero in cui si colloca il ricercatore. Si tratta di una concezione - analoga a quella espressa da Kazimierz Ajdukiewicz[2] - secondo cui finché ci si serve di un certo quadro concettuale i dati dell’esperienza costringono a accettare certi giudizi, a meno che il ricercatore scelga un altro quadro concettuale che gli consenta di formulare giudizi di segno diverso. Ma la teoria di Fleck non è limitata al dominio scientifico perché considera la rilevanza della influenza sociale su ogni aspetto della vita: esiste una molteplicità di collettivi di pensiero (con i rispettivi stili) che possono essere del tutto disgiunti oppure in sovrapposizione parziale o immersi in un collettivo più vasto (il cosiddetto “senso comune”) che rende possibile reciproche comunicazioni e la riutilizzazione di uno stile all’interno di un altro, con l’introduzione di germi di idee che possono condurre a nuove direzioni di ricerca e al mutamento delle credenze, a causa del fatto che ordinariamente ciascun individuo partecipa a più gruppi di pensiero perché è inserito e vive in molteplici contesti sociali.
Ulteriore considerazione di Fleck - che così si collega alle tesi di Michael Polanyi[3] - è che ogni ricercatore all’interno di un collettivo di pensiero possiede competenze verbalizzabili e altre (abitudini, abilità, preferenze) frutto di un indottrinamento pratico tipico della formazione specialistica nel suo campo di lavoro e non completamente verbalizzabile.
4. Signicativa dell’approccio di Fleck è la risposta alla domanda (importante in tanti ambiti, fra i quali, in particolare, quelli della diagnosi in medicina e della ricostruzione degli eventi singoli in campo giuridico): “in che modo trovare una legge in fenomeni irregolari?”. Egli considera che il calcolo delle probabilità indica che anche eventi privi di relazioni reciproche si lasciano inquadrare in determinate leggi, mentre una molteplicità di elementi rimane non razionalizzabile se la considera da un unico punto di vista (p. 115).
Ancora, Fleck si sofferma sulla attitudine, di fronte a situazioni nuove, a cercare delle similarità con qualcosa di conosciuto trascurando ciò che è nuovo, ineffabile e specifico (p. 122) e rileva che è vero che l’idea di “osservazione” contiene un elemento di arbitrarietà perché dipende in modo essenziale da quali oggetti si debbano includere nell’insieme osservato: per essere in grado di catturare una qualche definita forma in un dato campo occorre uno stato di attenzione che comporta espungere altre forme. Si impianta una disposizione a percepire forme che si accordano alla precomprensione adottata e al contempo si affievolisce la possibilità di percepire fenomeni non conformi a essa. In definitiva: non vi sono osservazioni conformi alla realtà se non quelle conformi a una data cultura; determinati contesti culturali non definiscono solamente le osservazioni in senso positivo (cioè le rendono possibili) ma anche ne rendono impossibili altre e per queste vie avviene la differenziazione del pensiero nei gruppi.
5. Secondo Fleck esistono tre fondamentali fenomeni della scienza della attività cognitiva (pp. 171-209).
Gli appartenenti allo stesso gruppo di pensiero possono intendersi fra loro perché pensano in un qualche modo simile e, dopo poche comunicazioni, avvertono una specifica solidarietà intellettuale così constatando la coappartenenza allo stesso collettivo di pensiero. Invece, coloro che non possiedono lo stesso stile di pensiero non riescono a comprendersi fra loro: dopo qualche comunicazione si manifesta un caratteristico sentimento di estraneità che segnala le loro divergenze.
La circolazione del pensiero è, in linea di principio, legata sempre alla sua trasformazione. Soltanto nel contesto delle sue connessioni all’interno di un collettivo di pensiero una frase possiede un senso determinato; al contrario, se isolata, può essere polisemica o addirittura senza senso. Se viene formulata per gli appartenenti a un altro collettivo di pensiero un’idea si trasforma in modo da creare un collettivo comune; qualcosa di intermedio, più povero per contenuti ma più vasto (si pensi alla divulgazione del pensiero scientifico). Ogni circolazione del pensiero è legata alla sua alterazione, per cui può anche avvenire che certi elementi di un pensiero siano senza autore perché nella circolazione sociale acquisiscono un nuovo contenuto che non è il prodotto di un individuo ma origina a motu sociali.
Lo sviluppo storico del pensiero non si può ricondurre allo sviluppo logico dei contenuti di pensiero né al semplice crescere dell’informazione. Per questo non è corretto cogliere con concetti odierni il contenuto di pensieri appartenenti a un‘epoca passata, nella quale allignarono proto-idee, nuclei di significato originariamente indifferenziati, dalla evoluzione dei quali (con il confronto con nuove esperienze o con diversi stili di pensiero) sono sorte le idee attuali.
Inoltre, alcuni collettivi di pensiero sono transitori, altri stabili. Anche nel corso di una vivida conversazione può crearsi un particolare stato che consente ai partecipanti di esprimere pensieri che in altri gruppi non esprimerebbero. In ogni caso, per rendere un collettivo stabile occorre delimitarlo e non si può penetrare al suo interno soltanto con la logica ma occorre un periodo di apprendistato in cui operano l’autorità e la suggestione più che le spiegazioni razionali. In effetti, la mancanza di formazione specialistica in un dato campo empirico trapela dalla eccessiva accuratezza nello sviluppo delle inferenze logiche (p. 247): in realtà la logicità della struttura non costituisce un criterio valido in senso assoluto per la scienza se si considera che un errore sistematico genera spesso costruzioni logicamente più coerenti di quelle conseguibili in sua assenza (p.250).
Né tutti i membri del collettivo di pensiero hanno lo stesso status o lo stesso atteggiamento. Gli esperti ne costituiscono la elite; altri sono i seguaci, i profani, la massa. La seconda categoria costituisce il serbatoio della prima, ma soltanto questa produce lo sviluppo del pensiero all’interno del collettivo. Proficua la seguente osservazione: gli esperti quanto più vanno in profondità nelle loro ricerche, tanto più sono lontani dalle “cose” e invece vicini ai “metodi”, quanto più profondamente entriamo nel bosco, tanto meno alberi vi troviamo e sempre più taglialegna (p. 232).
6. Risulta interessante constatare la prossimità delle posizioni di Fleck (microbiologo), Kuhn (fisico) e Polanyi (economista) nonostante la loro differente formazione e l’assenza di contatti diretti sia personali sia culturali. Allora, in che senso può dirsi, usando la terminologia di Fleck, che essi appartennero a uno stesso collettivo di pensiero, più specifico di quello dato dal generale clima dell’epoca? Nessuno dei tre è stato un filosofo professionale e, del resto, le loro teorie non si presentano propriamente come teorie della conoscenza perché riguardano fondamentalmente quella che Fleck ha denominato sociologia del pensiero.
Ne derivano due considerazioni.
La prima è che l’esistenza di un collettivo di pensiero, costituito dalla interazione fra suoi appartenenti, agevola la produzione di idee e il loro consolidarsi nei contenuti di uno stile di pensiero. Ma esiste un mondo delle idee (il 3° mondo di Popper) che possiede una sua tessitura alla quale, in qualche misura, un soggetto pensante può attingere anche se non collegato a uno specifico collettivo pensiero.
La seconda è che la vicenda personale di Fleck, rimasto poco conosciuto sino a tempi recenti, indica – come, del resto, in tanti altri casi della storia delle scienze – che anche pensatori sociologicamente marginali possono offrire contributi potenzialmente rilevanti. Allora, gli attuali mezzi di divulgazione delle idee possono consentirne una circolazione che, se captata e accortamente rilanciata, secondo una razionale organizzazione, da apposte istituzioni (non ultime quelle universitarie) può produrre un serbatoio di potenziali stili di pensiero ai quali attingere utilmente a condizione che si fruisca di una formazione personale allenata al discernimento critico.
[1] A. Allen, The Fantastic Laboratory of Dr. Weigl: How Two Brave Scientists Battled Typhus and Sabotaged the Nazis, Norton & Co., 2015. Trad. it. Di E. Ghiseri, Torino, Bollati Boringhieri, 2017).
[2] K.Ajdukiewicz, The Scientific World-Perspective and other Essays (1931-1963), Reidel, Dordrecht, 1978.
[3] In: Personal Knowledge, Chicago, 1958; The Tacit Dimension, Routledge and Kegan Paul, London, 1966
Recensione di Umberto Apice a "ALLA FINE, BALORDI". Gli uomini non illustri di Massimo Ferro.
Perché Massimo Ferro, magistrato notissimo in ambito forense e negli ambienti della dottrina giuridica, non è anche un autore celebre?
Questo suo ultimo libro (Alla fine, Balordi può essere definito un romanzo, anche se tecnicamente è una raccolta di racconti, che sono però accomunati da un’identica atmosfera ) è il suo terzo di narrativa: il primo fu Misericordiae ( 8.38 ), Novecento editore, 2013, vincitore della VII edizione del Premio letterario RIPDICO - Scrittori della Giustizia; il secondo fu Non avrai le mie parole, Novecento editore, 2014. E con esso Ferro si conferma uno scrittore vero, di quelli che nascono scrittori. Da che cosa si capisce? Basta leggere una pagina a caso ( una qualsiasi: è sicuro che presenterà le sue perle e nello stesso tempo il suo elevato tasso di complessità ). Da quella pagina balzerà fuori la caratteristica fondamentale della sua scrittura e del suo mondo morale: Ferro è tormentato prima di tutto dalla voglia di scoprire qualcosa di più sulla vita e sugli uomini, su noi stessi, lui compreso; e poi dalla voglia di implicare il lettore, di scuoterlo, di farlo partecipare e soffrire. E’ chiaro che quando un libro si presenta con queste credenziali al lettore capiterà di spazientirsi, ma non può piantarla lì ( almeno, se è un lettore serio ): non mollerà, anche quando vorrebbe che un personaggio si decidesse e facesse sapere che cosa ha deciso di fare, senza tenerci ancora col fiato sospeso. Lo stesso linguaggio è spiazzante, sincopato, spesso paratattico, ma non privo di complicate ipotassi, in una tensione stilistica tra narratore e personaggio; tensione che arriva all’estremo che in ogni situazione il lettore si trova davanti l’aggettivo più insolito o addirittura l’alternanza del punto di vista ( che ora è espresso con un io e ora con la terza persona ).
E allora torniamo all’interrogativo con cui abbiamo iniziato: può essere celebre uno scrittore che, come segno particolare, presenta questo rigore morale? E in un panorama culturale nel quale i lettori premiano gli scrittori della serialità più sciatta e più sconfortante? No: la risposta, che non può essere più ovvia, va tutta ad onore di Ferro.
I dodici personaggi del libro ( dodici quante sono le località che contraddistinguono i dodici capitoli: luoghi immaginari, che vengono a costituire un faulkneriano universo disperso ) vivono o hanno vissuto esistenze prive di grandi avvenimenti o, per loro sfortuna, si sono trovati a subire una sola tragica esperienza, che è diventata l’ossessione della loro vita. Non possono mai illudersi di aver trovato una piattaforma dove regna la tranquillità. No. Tutti sono condannati a portarsi appresso i loro demoni, le loro nevrosi, grandi o piccole. In qualche modo sono i parenti stretti di quegli “ uomini non illustri ” resi immortali dalla narrativa di Giuseppe Pontiggia: anche loro attanagliati da una trama segreta, personale o familiare, di ricordi ed angosce.
Qualche esempio sarà più illuminante di tante parole.
Oreste Bertani. Un professore sulla soglia del pensionamento e in ansia per l’attesa di un responso di biopsia ritorna in un ristorante dove era stato in gioventù e rievoca come si fece adescare da una sguattera del locale. Una ragazzina. Una vergogna che gli ha lasciato il segno.
Gemma Albinati. Un amore tra i banchi di scuola. Amore incompiuto fino a cinquant’anni dopo, quando i due ragazzi di allora si incontrano e subentra l’angoscia di svelarsi l’una all’altro: “ Ci stavamo immaginando, i capelli già bianchi e radi di lui, le pelli intrise di vita e stagioni entrambi, anch’io segnata attorno agli occhi. E più giù. Quei teli puliti e messi a festa servirono a nasconderci, impedendo alla vista di sapere chi fossimo.”
Silvia Perletti, una dirigente di azienda con trentadue anni e sei mesi di anzianità. La sua pena segreta è il ricordo di un figlio vissuto soltanto trentotto ore e otto minuti, così che lei in giro diceva “ di essere stata almeno per un po’ madre ”. Il suicidio arriverà - naturale e inaspettato, secondo la formula di Henry James - al termine di un meeting di lavoro e con un salto nel vuoto dalla stanza di albergo all’estero: “ Qui ho finito. E anche il settimo piano, da quassù, sarà abbastanza alto. [...] Indosso, ora porto le mutande arrivate in regalo da mia sorella. Appena messe. Così almeno, quando mi ritroveranno laggiù, si consoleranno per i miei pensieri alla famiglia.”
Amedeo Saviotti. Un ragazzo che dal paese di nascita si trasferisce in città per studiare e diventare ingegnere. Ci ritorna per i funerali di un compagno di scuola, che era stato manesco e intrattabile. Commentano i vecchi compagni: “ Se n’è andato così, perdendo le forze come un serbatoio vuoto. Non riusciva a spingere nemmeno la leva del trattore. Né a salirvi.” Mentre l’ingegnere, vedendo le mani giunte del morto, e il rosario arrotolato alle dita grosse, se ne sta distante, “ almeno un passo, come a temere che se si alza m’arriva una manata in faccia ”.
Agostina Montero. Storia di un padre - padrone e di violenze in famiglia rievocate dalla figlia il giorno in cui l’aguzzino muore e quando la vittima già da molti anni è lontana dal suo giogo. Fermo e deciso il suo rifiuto di ritornare al paese per partecipare ai funerali. Realismo e oggettività agghiaccianti, pur nel distacco e nell’assenza di giudizio. “ Restai coricata, chiudendo gli occhi mentre le mani, le mie, cooperavano a togliere i vestiti. Riposti sotto la schiena. “ Così non ti salgono le formiche ” mi fu bisbigliato insieme a un bacio che mi portò via ogni secchezza dalla bocca. Annuii all’ordine condiviso.” L’iniziazione all’oscena consuetudine non poteva essere espressa con maggiore laconicità: alla pari, quasi, con la manzoniana risposta della “ sventurata ”.
Dodici microromanzi. Viene da dire che il mondo di questi uomini e di queste donne è un mondo mediocre, sgualcito ( rubando la definizione a Geno Pampaloni che l’applicò ai “ non illustri ” di Pontiggia ): manie, desideri innaturali, adulteri, matrimoni sbagliati, ambizioni male apposte. E spesso questi personaggi hanno una vita parallela, sotterranea, fatta di sentimenti, ricordi e desideri, che sono segreti, e perciò si tratta di una vita clandestina. Il narratore - sembra che dica Ferro - deve preoccuparsi di una sola cosa: andare alla ricerca di quel pathos, di quel sordido, di quella violenza, che si trovano nella vita clandestina. E non importa se in questa ricerca gli capiterà di entrare in un tunnel di ambiguità. La vera letteratura si manifesta soprattutto nell’ambiguità: perlomeno, la letteratura che non vuole essere solo testimonianza (che sarebbe un ruolo riduttivo), ma ambisce a un ruolo preminente sul terreno cognitivo.
“Il diritto alla speranza davanti alle Corti” di Dolcini, Fiorentin, Galliani, Magi e Pugiotto, una lettura in attesa della Corte Costituzionale su ergastolo ostativo e liberazione condizionale.
Recensione di Fabio Gianfilippi
La speranza è costruzione. Building bridges, l’installazione monumentale di Lorenzo Quinn per la Biennale Venezia del 2019, campeggia sulla copertina di Il diritto della speranza davanti alle Corti. Ergastolo ostativo e articolo 41-bis, volume con una prefazione del prof. Francesco Palazzo e gli interventi di cinque giuristi da tempo impegnati, da punti di vista diversi (docenti universitari, giudici di legittimità e di merito), nella riflessione critica sullo spazio dell’ergastolo nel nostro sistema costituzionale e convenzionale, in particolare nella sua forma c.d. ostativa, prevista per i condannati in relazione ai delitti compresi nel disposto dell’art. 4-bis co. 1 ord. penit.
Sei paia di braccia si intrecciano, enormi, a lanciare ponti impercorribili sulle acque dell’Arsenale. Ognuna simboleggia un sentimento universale che, appunto, costruisce. Tra questi, ovviamente, la speranza. E’ un tempo, il nostro, in cui le mani non possono stringersi, a causa del virus. Un tempo in cui si fa fatica persino a concepire il venirsi incontro. Costruire ponti tra persone, idee e punti di vista diversi richiede allora il genio dell’artista e un sovrappiù di lungimiranza.
L’immagine scelta, che non è qui mero orpello, ci conduce alla lettura di un testo che, séguito degli studi già pubblicati nell’anno 2019 da Dolcini, Fassone, Galliani, Pinto de Albuquerque e Pugiotto, con il titolo Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, continua ad approfondire lo stato dell’arte in materia di ergastolo ostativo, estendendo la sua indagine al regime differenziato in peius di cui all’art. 41- bis ord. penit., per più ragioni strettamente connessi. Non tanto, e non solo, perché gli ergastolani ostativi siano sottoposti a quel regime, poiché anzi ve ne sono non pochi che, anche da molto tempo, non sono più considerati, o non lo sono mai stati, portatori di una pericolosità sociale tanto qualificata da richiedere l’imposizione di quel regime eccezionale di sospensione di molte regole trattamentali. Piuttosto perché una pena perpetua non aperta, in difetto di collaborazione con la giustizia, ai permessi premio o alla liberazione condizionale e un regime differenziato in cui si prevedano limitazioni meramente afflittive e non funzionali agli scopi del 41-bis, pongono interrogativi urgenti in materia di diritti fondamentali, che hanno già condotto a pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte Costituzionale che si sono rapidamente succedute negli ultimi anni. Un materiale che si è già rivelato fertile di conseguenze in sede giurisprudenziale, di merito e legittimità, con il quale è dunque essenziale confrontarsi.
Le riflessioni sullo stato dell’arte. Il testo che si commenta è dunque, attraverso i diversi contributi che lo compongono, innanzitutto livre de chevet sul senso costituzionale delle pene, anche come antidoto a vecchie tentazioni carcerocentriche e al sempre nuovo populismo penale, incapace di leggere nell’individualizzazione del trattamento e nella discrezionalità rimessa alla magistratura di sorveglianza la formula in grado di inverare l’art. 27 della Costituzione e di garantire perciò anche la sicurezza della collettività (vd. la riflessione di Dolcini, Pena e Costituzione).
E si fa poi vero e proprio bedeker indispensabile per leggere criticamente le pronunce più recenti ed incisive sul tema emesse innanzitutto dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Si affronta dunque la sentenza Provenzano c. Italia che, se ribadisce ancora una volta la compatibilità del regime del 41-bis con i principi fondamentali della Convenzione, richiede allo Stato una immancabile valutazione specifica ed attualizzata della necessità dell’imposizione del regime anche nei confronti di un soggetto gravemente malato, la cui capacità di mettersi in relazione con i sodali all’esterno, e dunque la sua pericolosità concreta, deve essere puntualmente vagliata, e non può essere oggetto di proroghe automatiche (vd. i contributi di Magi, L’incidenza delle condizioni di salute ai fini della ingiustiza del trattamento carcerario differenziato e Galliani, Una sentenza scontata. Il caso Provenzano e l’individualizzazione del regime detentivo differenziato). E si approfondisce la sentenza Viola n. 2 c. Italia, che affronta, come noto, il tema della non compatibilità con i principi convenzionali, ed in particolare con l’art. 3 CEDU, dell’ergastolo ostativo, in quanto costituente una pena che, poggiando sulla presunzione di pericolosità sociale costituita dall’assenza di collaborazione con la giustizia, sottrae al condannato un riesame nel merito del proprio percorso di ravvedimento, con ciò confliggendo con la tutela della dignità umana (vd. Fiorentin, Il caso Viola n. 2. L’ergastolo ostativo e la tutela della dignità umana; Dolcini, Dalla Corte Edu una nuova condanna per l’Italia: l’ergastolo ostativo contraddice il principio di umanità della pena; Galliani e Pugiotto, L’ergastolo ostativo non supera l’esame a Strasburgo (a proposito della sentenza Viola c. Italia n. 2).
Le riflessioni si volgono poi verso la sentenza Corte Cost. 23 ottobre 2019 n. 253, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis co. 1 ord. penit. nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen. o commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo o al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio, anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter ord. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo di ripristino di tali collegamenti (vd. i contributi di Galliani e Magi, Regime ostativo e permesso premio. La Consulta decide, ora tocca ai giudici e Pugiotto, La sent. 253/2019 della Corte Costituzionale: una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria) cui si aggiunge il significativo approfondimento anche sulla sentenza Corte Cost. 5 novembre 2019 n. 263, che interviene con un “secondo colpo di piccone” sul regime delle ostatività, considerandolo, almeno per il settore minorile, incompatibile del tutto, e non soltanto come presunzione assoluta invece che relativa, con la funzione costituzionale assegnata in quel contesto alla pena (vd. Pugiotto, Due decisioni radicali della Corte Costituzionale in tema di ostatività penitenziaria: le sent. nn. 253 e 263 del 2019).
La documentazione. La seconda parte del testo contiene una importante selezione di decisioni della Corte Costituzionale intervenute a rimuovere singole limitazioni, ritenute non funzionali agli scopi del 41-bis, che vi erano state introdotte, nel testo del co. 2-quater, con la l. 94/2009. Le formule utilizzate dalla Consulta, richiamando propri precedenti, sono eloquenti: “anche chi si trova ristretto secondo le modalità dell’art. 41-bis ordin. penit. deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale”.
Sono inoltre offerti ai lettori la Relazione della Commissione parlamentare antimafia sul 4-bis alla luce della sent. Corte Cost. 253/2019, che contiene anche proposte di riforma del testo (non esenti da critiche, almeno nella misura in cui non tengono in adeguato conto il riparto naturale di competenza nella materia di sorveglianza, e la sua ratio di prossimità alla persona condannata, per consentire al giudice di conoscerne approfonditamente il percorso trattamentale), nonché di ulteriori recenti contributi della giurisprudenza di legittimità e di merito sui regimi ostativi.
Una posizione centrale è di fatto attribuita all’ordinanza della Corte di cassazione 3 giugno 2020 n. 18518 con la quale la S.C. ha proposto questione di legittimità costituzionale degli art. 4-bis e 2 dl 152/1991, nella parte in cui escludono che il condannato all'ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale.
La pronuncia della Corte Costituzionale è attesa per il prossimo 24 marzo e gli Autori pubblicano in questo contesto, dopo le ampie riflessioni contenute nella prima parte del testo sulla sent. 253/2019, di cui la questione pendente è considerata un seguito naturale, anche i cinque Amici Curiae che, significativamente, Antigone, Macrocrimes, Nessuno tocchi Caino, L’Altro Diritto e il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, hanno voluto presentare alla Consulta in quel procedimento.
In un certo senso tutto il percorso di approfondimento critico, che costituisce lo speciale valore dell’opera in commento, conduce verso questo ulteriore significativo passaggio di un cammino che, mediante successive approssimazioni, evoca la speranza del superamento dell’ergastolo ostativo e se ne fa portatrice, pur nella consapevolezza dei rischi involutivi del sistema, non taciuti nella sua Prefazione da Francesco Palazzo.
Leggendo l’ordinanza di rimessione. La lettura dell’ordinanza di rimessione della S.C. n. 18518 restituisce d’altra parte il senso di una naturale evoluzione delle argomentazioni utilizzate dalla Corte nella sent. 253/2019. Si nutre dei riferimenti leggibili nella giurisprudenza costituzionale circa la funzione pedagogico-propulsiva del permesso premio, in quell’occasione liberato dalla preclusione assoluta connessa alla mancanza di collaborazione con la giustizia, e restituito alla prudente ed informata discrezionalità del magistrato di sorveglianza, e di fatto chiede che quell’esperimento non resti un esercizio vano di libertà temporanea, ma costituisca il mattone utile a rendere percorribile una strada di ben più ampia prospettiva, che conduca appunto alla trasformazione della pena perpetua in una misura come la liberazione condizionale, che riconduce il condannato pienamente nella società. Una strada, sia pure difficile e tutta in salita, che non somigli a certe ciclabili nelle nostre città che, per l’errore del pianificatore, finiscono contro un muro.
Il permesso premio, con gli occhi di un magistrato di sorveglianza, ha in effetti una evidente funzione di stimolo all'approfondimento dei risultati raggiunti ed apre naturalmente alla possibilità che il fruirne nel tempo e con regolarità, in assenza di eventuali involuzioni comportamentali, faccia emergere un sempre più convinto allontanamento dal sistema di vita criminale in precedenza abbracciato e produca uno sradicamento da eventuali contesti sociali controindicati, influenzi condotte di aperta dissociazione o persino condotte collaborative. Perché ciò possa effettivamente avvenire, però, deve essere preservata una prospettiva al fondo della strada, rappresentata dalla speranza di accedere ad una misura alternativa, come nel caso di specie la liberazione condizionale. Ciò consente di riempire di nuova efficacia i benefici premiali concessi e di un senso più profondo l’esercizio di responsabilità che è richiesto a chi ne beneficia nel far rientro regolarmente in carcere e nel rispetto pieno delle prescrizioni.
Se il percorso è aperto a questa conclusione si evita che il condannato si adagi nel trascorrere degli anni in una istituzionalizzazione inerte e si stimolano gli operatori penitenziari, affinché investano pienamente tempo e risorse sulla osservazione scientifica della personalità anche del condannato alla pena dell’ergastolo, non svuotando il senso del tempo trascorso in detenzione, che indefettibilmente deve tendere alla rieducazione (e nel caso sottoposto alla Corte Cost. si parla di una pena perpetua iniziata circa venti anni fa).
L’ordinanza della cassazione appare in tal senso anche in sintonia con l’insegnamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, maturato a partire dal caso Vinter e a. c. Regno Unito, secondo la quale sussiste l'obbligo, a carico degli Stati contraenti, di consentire sempre che il condannato alla pena dell'ergastolo possa contare su un riesame certo della perpetuità della sua pena, conoscendone dall'inizio dell'espiazione tempi e presupposti, e che sia prevista dunque una periodica verifica dei progressi compiuti dal condannato nel corso del trattamento, al fine di valutare la permanenza dei motivi che ne giustifichino il mantenimento in detenzione, e dettagliato, rispetto ad una posizione in tutto speculare a quella oggi rimessa al vaglio della Consulta, nella sentenza Viola n. 2 c. Italia.
Quest’ultima pronuncia, così approfondita nelle già citate riflessioni della prima parte del Diritto alla speranza davanti alle Corti, è d’altra parte a sua volta particolarmente informata alla nostra giurisprudenza costituzionale, in un virtuoso mescolarsi di temi concordanti, e mostra la peculiare attenzione dei giudici di Strasburgo alla drammaticità del fenomeno mafioso nel nostro paese, a differenza di quanto superficialmente affermato a caldo, dopo la notizia della sentenza. Ed è proprio riguardo alla mafia che la Corte Edu afferma che: “la lotta contro questo flagello non può giustificare deroghe alle disposizioni dell’articolo 3 della Convenzione, che vieta in termini assoluti le pene inumane o degradanti”. (par. 130).
Il condannato all’ergastolo ostativo, nelle parole della Corte Edu, finisce invece per trovarvisi, poiché è posto “nell’impossibilità di dimostrare che non sussiste più alcun motivo legittimo di ordine penologico che giustifichi il suo mantenimento in detenzione (…), mantenendo l’equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale, il regime vigente collega la pericolosità dell’interessato al momento in cui i reati sono stati commessi, invece di tenere conto del percorso di reinserimento e dei progressi eventualmente compiuti a partire dalla condanna (…) la suddetta presunzione inconfutabile impedisce de facto al giudice competente di esaminare la domanda di liberazione condizionale e di verificare se, durante l’esecuzione della sua condanna, il ricorrente si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi nel cammino della correzione per cui il mantenimento della detenzione non è più giustificato per motivi inerenti alla pena.”(cfr. par. 128 e 129).
La questione torna dunque oggi ad interpellare il giudice delle leggi, chiedendogli di proseguire nell’intrapreso percorso di relativizzazione delle preclusioni contenute nell’art. 4-bis co. 1 ord. penit., soltanto in questo modo coerenti al disegno costituzionale per il quale la funzione di risocializzazione della pena non può mai essere pretermessa, neppure a fronte del più terribile dei reati, con una conseguente piena restituzione alla magistratura di sorveglianza del compito di valutazione nel merito delle posizioni dei condannati che le sono affidati.
Nel caso della liberazione condizionale, oggi in questione, ciò significherebbe consentirle di esaminare l’eventuale sussistenza del ravvedimento richiesto dalla norma, e declinato dalla giurisprudenza di legittimità nel senso ben colto dalla CEDU, mediante la ricerca nel condannato di “comportamenti oggettivi dai quali desumere la netta scelta di revisione critica operata rispetto al proprio passato, che parta dal riconoscimento degli errori commessi e aderisca a nuovi modelli di vita socialmente accettati” (cfr. cass. 45042/2014) o ancora “comportamenti positivi dai cui poter desumere l'abbandono delle scelte criminali, e tra i quali assume particolare significato la fattiva volontà del reo di eliminare o di attenuare le conseguenze dannose del reato.” (cass. n. 486/2015 e 11331/2019). Senza dubbio molto più della buona condotta richiesta per l’ottenimento di un permesso premio, ma insieme anche altro rispetto alla collaborazione con la giustizia (diversa quest’ultima anche concettualmente, per come comprensibile dalla disciplina speciale di concessione dei benefici nei confronti dei collaboratori di giustizia, che richiede il ravvedimento come requisito ulteriore: cfr. cass. 19854/2020).
Si tratterebbe di proseguire in un percorso, si diceva, che è certamente informato e nutrito dalle decisioni della CEDU, ma che affonda le sue radici nella consolidata giurisprudenza costituzionale, che ci restituisce una lettura dell’esecuzione penale come un tempo destinato inevitabilmente ad accogliere i cambiamenti, positivi e negativi, della persona, che deve essere in grado di conoscere dal momento in cui commette il reato (cfr.sent. Corte Cost. 32/2020) quando e come potrà vedersi rivalutato ed apprezzato per ciò che, dopo il reato, anche il più terribile (cfr. sent. Corte Cost. 149/2018) è oggi. Al fondo di una pena che porti pure il nome dell’ergastolo, dovrebbe dunque sempre residuare l’alternativa tra la perpetuità, che inevitabilmente attenderebbe chi non volesse mettere seriamente in discussione il proprio stile di vita e pensiero antisociale, e la speranza di poter incontrare un giorno pienamente la società.
E’ ancora una volta la sentenza Viola a ricordarci come, in assenza di un momento di rivalutazione come quello che nel nostro ordinamento sarebbe offerto dalla liberazione condizionale, appaiano insufficienti allo scopo gli strumenti della grazia presidenziale, per altro mai comminata ad un condannato alla pena dell’ergastolo “ostativo”, ed anche il rimedio della sospensione della pena per motivi di salute, che risponde a finalità umanitarie e che comunque è sempre sottoposto a una rivalutazione in tempi brevi e, a seguito del recente dl 28/2020 convertito in l. 70/2020, all’immediato ripristino della carcerazione, ove si riscontri un qualche miglioramento delle condizioni che lo hanno determinato.
L’intervento della Corte potrebbe dunque restituire compiutamente le disposizioni normative contenute nell’art. 4-bis ord. penit. ad una funzione di stimolo al discernimento del giudice e di necessario approfondimento istruttorio sotto il profilo della pericolosità sociale attuale dell’interessato, come originariamente nel 1991. Non più uno stigma indelebile, salvo che con la gomma abrasiva della collaborazione con la giustizia, ma un meccanismo, per quanto presidiato da regole probatorie che gli Autori del libro non mancano di sottoporre a critica, per come elaborate dalla stessa Corte Costituzionale con la sent. 253/2019, e verosimilmente da riproporsi qui, che consenta al giudice di interrogarsi sulle molteplici, e spesso drammatiche, ragioni per le quali la collaborazione non sia apparsa all’interessato una soluzione praticabile (posto comunque che neque captivus tenetur alios detegere, verrebbe da dire con la Consulta), e non lo privi della speranza, senza la quale la pena perde l’abbrivo che è indispensabile perché si possa intraprendere un credibile percorso di responsabilizzazione.
Le mani che si incrociano sulle acque della laguna veneta aprono alla lettura di un testo che è tutto percorso dal filo rosso di questa speranza, il cui diritto è evocato in modo esplicito nella stessa ordinanza n. 18518 di rimessione alla Corte Costituzionale. Braccia e mani che richiamano un fare e un costruire, un dinamismo che deve essere il proprium della pena, che si dipana nel tempo e cui, nell’orizzonte costituzionale e convenzionale, non può bastare inibire ed incapacitare, essendo chiamata a tentare (e verrebbe da dire incessantemente) di rifondare e, a un certo punto, svolto il suo compito, a lasciare il passo ad un rientro proficuo della persona nella società.
Ratificato il Protocollo n. 15 ...aspettando il Prot. 16. Al via le modifiche alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
di Marina Castellaneta*
Sommario: 1.Premesse. 2. 2.Le modifiche introdotte dal Protocollo n. 15: il principio di sussidiarietà e la dottrina del margine di apprezzamento. 3. Le novità sulle condizioni di ricevibilità e sul deferimento alla Grande Camera. 4. L’eliminazione del “diritto di veto” nei casi di deferimento alla Grande Camera. 5. Le novità nella scelta dei giudici della Corte 6. Osservazioni conclusive.
1.Premesse.
Alla fine la ragionevolezza ha avuto la meglio e, seppure con ritardo rispetto a tutti gli altri Stati parti alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’Italia ha adottato la legge di ratifica, contenente anche l’ordine di esecuzione, al Protocollo n. 15 del 24 giugno 2013 recante emendamento alla Convenzione[1]. Il 10 febbraio 2021 è stata pubblicata, infatti, la legge n. 11 del 15 gennaio 2021 (in Gazzetta Ufficiale n. 34 del 10 febbraio) ed è stato rimosso l’ultimo ostacolo all’entrata in vigore del Protocollo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’Italia è arrivata ultima (una scelta politica, inerzia?) e, quindi, ha bloccato per diversi anni l’applicazione del Protocollo poiché, in base all’articolo 7 che contiene la clausola si omnes, era necessaria la ratifica di tutti gli Stati contraenti della Convenzione[2]. Con l’ultima ratifica, quindi, il Protocollo n. 15 può entrare in vigore - come previsto dall’articolo 7 - il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dalla data in cui tutte le Parti hanno espresso il proprio consenso ad essere vincolate dal Protocollo salvo, come vedremo, per l’articolo 4 (relativo alla riduzione dei termini per presentare ricorso alla Corte) che entrerà in vigore dopo un periodo di sei mesi, sempre a partire dalla data di entrata in vigore del Protocollo.
La scelta di separare i destini del Protocollo n. 15 dal n. 16[3] ha permesso di arrivare a questo risultato, abbandonando alla sua sorte, almeno per il momento, la ratifica del n. 16 adottato il 2 ottobre 2013[4]. Il Protocollo, come è noto, è entrato in vigore per 10 Stati dal 1° agosto 2018 (oggi sono 15) e, in sostanza, introduce nel sistema Strasburgo un meccanismo analogo al rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo, prevedendo che le corti supreme di uno Stato parte alla Convenzione europea possano sospendere il procedimento interno e chiedere alla Grande Camera un parere sull’interpretazione o sull’applicazione di una norma convenzionale e sui protocolli addizionali.
2.Le modifiche introdotte dal Protocollo n. 15: il principio di sussidiarietà e la dottrina del margine di apprezzamento
Il cammino verso l’adozione del Protocollo n. 15 è stato dettato dal costante incremento del carico di lavoro della Corte che, anno dopo anno, si è vista arrivare ricorsi individuali anche su questioni via via meno rilevanti sotto il profilo della tutela dei diritti umani. Per arginare, quindi, lo snaturamento della funzione della Corte e consentire ai giudici internazionali di arrivare a una diminuzione del carico di lavoro, nell’interesse del buon funzionamento del sistema e della garanzia di una tutela effettiva dei diritti, dal 2010, nei vertici di Interlaken, Smirne, Brighton, con le dichiarazioni adottate in occasione delle Conferenze di alto livello sul futuro della Corte, è stata tracciata la linea da seguire, con alcuni indirizzi confluiti, almeno in parte, nel Protocollo n. 15.
Tra le novità, l’inserimento esplicito del principio di sussidiarità che era già implicitamente incluso nella Convenzione europea attraverso l’affermazione del principio del previo esaurimento dei ricorsi interni[5]. Con il Protocollo n. 15 (articolo 1) è stato aggiunto un considerando al Preambolo nel quale si afferma che “spetta in primo luogo alle Alte parti contraenti, conformemente al principio di sussidiarietà, garantire il rispetto dei diritti e della libertà definiti” nella Convenzione e nei suoi Protocolli. Inoltre, il considerando in esame, codifica la dottrina del margine di apprezzamento concesso agli Stati “sotto il controllo della Corte europea dei diritti dell’uomo”, che ha variato l’ampiezza della discrezionalità concessa agli Stati (da ampio a ristretto) tenendo conto delle materie in cui essa viene esercitata e del consenso degli altri Stati in relazione a una determinata questione giuridica[6].
3. Le novità sulle condizioni di ricevibilità e sul deferimento alla Grande Camera - Il Protocollo, inoltre, introduce due modifiche all’articolo 35 della Convenzione europea, dedicato alle condizioni di ricevibilità. In particolare, sempre nel rispetto del previo esaurimento delle vie di ricorso interne, da valutare tenendo conto dei principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti, il limite temporale di presentazione del ricorso passa da sei mesi, a partire dalla data della decisione interna definitiva, a quattro mesi (articolo 4 del Protocollo). Una scelta che ha suscitato perplessità ma che, come chiarito nel rapporto del relatore Christopher Chope della Commissione sugli affari giuridici e i diritti umani dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa[7], era necessaria tenendo conto dell’utilizzo su larga scala delle nuove tecnologie che consentono un taglio dei tempi di comunicazione e di trasmissione dei documenti. Per assicurare la certezza del diritto, in ogni caso, il nuovo termine sarà applicabile, come previsto dall’articolo 8, par. 3, alla scadenza di un periodo di sei mesi dall’entrata in vigore del Protocollo e, inoltre, non si applica ai ricorsi “in merito ai quali la decisione definitiva ai sensi dell’articolo 35, paragrafo 1 della Convenzione sia stata presa prima della data di entrata in vigore dell’articolo 4 del presente Protocollo”. È stata così esclusa ogni possibile interpretazione di applicazione retroattiva, che avrebbe incisivo negativamente sulle potenziali vittime di violazioni dei diritti convenzionali e sul diritto alla tutela giurisdizionale effettiva. Questa modifica, a nostro avviso, dovrebbe anche spingere verso una maggiore conoscenza del sistema di funzionamento della Corte europea e della Convenzione, perché il taglio dei tempi di ricorso impone assenza di improvvisazione nella presentazione delle istanze alla Corte. Pertanto, nelle università, nei percorsi formativi degli avvocati e, in generale tra gli operatori del diritto, dovrebbe essere rafforzato l’approfondito studio del sistema di garanzia, a vantaggio del piano interno e internazionale.
Tra le altre novità, in un’ottica di riduzione del carico di lavoro della Corte, è soppressa la previsione introdotta con il Protocollo n. 14 in base alla quale la Corte non può rifiutare l’esame di un ricorso se, malgrado il ricorrente non abbia subito alcun pregiudizio importante, il caso non sia stato debitamente esaminato da un tribunale interno (articolo 35, par. 3, lett. b). Di conseguenza, a seguito dell’eliminazione della lettera b (articolo 5 del Protocollo), la Corte sarà tenuta a verificare unicamente la condizione del pregiudizio importante e, quindi, anche se la causa non sia stata esaminata da un tribunale nazionale, in assenza di un pregiudizio importante, già definito in diverso occasioni dalla Corte europea, i giudici internazionali dovranno dichiarare il ricorso irricevibile e questo anche con riguardo ai ricorsi pendenti al momento dell’entrata in vigore del Protocollo n. 15 (articolo 8, par. 4). Questa modifica potrebbe incidere in termini positivi anche sul carico di lavoro di Strasburgo: dalla relazione annuale presentata il 26 gennaio 2021 dal Presidente della Corte Robert Spano, con riferimento all’attività 2020, risulta che l’arretrato arriva a 61.500 casi pendenti (+ 4% rispetto al 2019), dei quali il 75% è causato da Russia, Turchia, Ucraina, Romania e Italia.
L’indicata modifica potrebbe essere utile in questa direzione anche perché codifica il principio de minimis non curat praetor affermato nella decisione del 25 ottobre 2005, O’Halloran e Francis contro Regno Unito (ricorsi n. 15809/02 e n. 25624/02) e nella sentenza della Grande Camera nel caso Micallef contro Malta del 15 ottobre 2009 (n. 17056/06). In questo modo, la Corte, anche in ragione del crescente numero di ricorsi, spesso futili e che non raggiungono una soglia minima di gravità, può evitare un intasamento del lavoro dell’organo giurisdizionale, fermo restando l’obbligo per gli Stati parti di garantire una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti dell’uomo ai sensi dell’articolo 13 della Convenzione. In questa direzione, va ricordato che l’indicata clausola riguarda unicamente i ricorsi a Strasburgo e va letta congiuntamente al principio di sussidiarietà in base al quale la tutela dei diritti convenzionali va assicurata dai giudici nazionali e, solo in mancanza, dalla Corte europea. Pertanto, la suddetta modifica certo non può essere letta nel senso di non offrire una tutela interna in virtù del principio de minimis o di arrivare a un’applicazione estensiva delle condizioni di ricevibilità di cui all’articolo 35, rischio che, come sottolineato in dottrina[8], ha già trovato, però, in passato, una conferma in alcune sentenze interne. Ed invero, va chiarito che il principio de minimis non curat praetor è applicabile solo nei ricorsi alla Corte europea e impone la massima tutela interna dei diritti perché, in caso contrario, sarebbe in contrasto con il principio di sussidiarietà codificato proprio nel Protocollo n. 15. Una lettura diversa risulta contraria alla Convenzione europea.
4. L’eliminazione del “diritto di veto” nei casi di deferimento alla Grande Camera In base all’attribuzione di competenze alla Grande Camera, quest’ultima può essere chiamata a pronunciarsi dalla Camera, qualora una sezione ritenga che si sia in presenza di una questione grave relativa all’interpretazione della Convenzione o dei suoi Protocolli o che la soluzione della questione potrebbe portare a una contraddizione con una precedente sentenza della Corte. In queste ipotesi, la precedente regola prevedeva che la Camera avesse questo potere di declinare la propria competenza in favore della Grande Camera, salvo che una delle parti non si opponesse (articolo 30). Il Protocollo n. 15 ha portato all’eliminazione di questa sorta di diritto di veto esercitato dalle parti, con la conseguenza che uno Stato o la vittima, non possono più bloccare il deferimento dell’affare alla Grande Camera (articolo 3). La rimozione di questa possibilità di obiezione, che costituiva un limite al deferimento alla Grande Camera, è considerata, stando al rapporto esplicativo, come un mezzo per migliorare e accelerare il funzionamento della Corte proprio nei casi che pongono questioni più complesse o che possono portare a un cambiamento della prassi seguita fino a quel momento. Anche qui è stata prevista una condizione temporale di operatività, perché l’articolo 8, par. 2 dispone che l’indicato emendamento “non si applica alle cause pendenti in cui una delle parti si sia opposta, prima dell’entrata in vigore del presente Protocollo, alla proposta di una camera della Corte di dichiararsi incompetente a favore della Grande Camera”.
5. Le novità nella scelta dei giudici della Corte
Di minore rilievo i cambiamenti introdotti dal Protocollo n. 15 legati all’età dei giudici. È stabilito, infatti, che possono accedere alla funzione di giudice della Corte europea solo candidati che abbiano meno di 65 anni alla data in cui la lista di tre candidati, fornita dagli Stati, arrivi all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. In questo modo, con riguardo all’età, diventa variabile l’età anagrafica di cessazione dell’attività dei giudici e si assicura, però, che non si vada al di là dei 74 anni, in linea con i limiti di età già previsti in diversi Stati. Resta ferma la durata del mandato di 9 anni, non rinnovabile. Tale emendamento conduce a una modifica dell’articolo 21 par. 2 della Convenzione e comporta l’eliminazione dell’articolo 23, par. 2, con la rimozione del limite del compimento del settantesimo anno.
6. Osservazioni conclusive
Le novità introdotte dal Protocollo n. 15 che, a prima vista, potrebbero essere lette come la volontà di eliminare l’arretrato e limitare il carico di lavoro della Corte, sono, invece, a nostro avviso, un utile intervento per spingere gli Stati verso l’applicazione effettiva della Convenzione sul piano interno e lasciare all’organo giurisdizionale internazionale la competenza per i casi di violazione dei diritti umani più significativi. Ci sembra, in questa direzione, che l’operatività del Protocollo n. 16, seppure non per l’Italia che ha scelto per ora di non ratificare, possa essere funzionale anche a una corretta applicazione del Protocollo n. 15 con riguardo al principio di sussidiarietà e al divieto di porre veti in caso di deferimento della Camera alla Grande Camera perché, proprio grazie alla nuova e già operativa funzione consultiva, il dialogo tra Corti dovrebbe condurre a una migliore attuazione dei diritti convenzionali, come interpretati dalla Corte europea. Inoltre, in questo modo, sono anche evitate manovre dilatorie dei Governi in causa, che potrebbero avere un interesse, per evitare l’accertamento di una violazione, a prolungare la durata del procedimento – inevitabile se è previsto prima l’intervento della Camera e poi quello della Grande Camera – proprio nei casi in cui si presentino le questioni più gravi.
Per quanto riguarda il taglio sui tempi di ricorso, come detto, ci sembra un’occasione utile per favorire e rafforzare la formazione, anche degli avvocati, i quali talvolta spingono i propri clienti verso Strasburgo, utilizzando la Corte come quarto grado di giurisdizione e snaturando, così, le sue funzioni. Basti pensare al numero di ricorsi dichiarati irricevibili nel 2020, che è arrivato a 37.289.
* Professore ordinario di diritto internazionale, Università degli studi di Bari “Aldo Moro”.
[1] Il testo ufficiale, con il rapporto esplicativo, è disponibile nel sito https://www.coe.int.
[2] Qui sono reperibili le audizioni in vista della ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 https://www.camera.it/leg18/1104?shadow_organo_parlamentare=2803&id_tipografico=03. Cfr. A. Cannone, Il disegno di legge di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione dei Protocolli 15 e 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: audizioni parlamentari, in Rivista di diritto internazionale, 2020, p. 859 ss.; E. Crivelli, The Italian debate about the ratification of Protocol n. 16, in Eurojus, 2020, n. 4, p. 371 ss.; M. Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU, in http://www.sistemapenale.it, 2019; E. Nalin, I Protocolli n. 15 e 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Studi int. eur., 2014, p. 117 ss.
[3] Si veda il disegno di legge C.1124 del 10 agosto 2018, “Ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 15 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 24 giugno 2013, e del Protocollo n. 16 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 2 ottobre 2013”. Tale atto è stato affiancato dalla proposta di legge del 23 marzo 2018, C. 35 (Schullian, Gebhard e Plangger).
[4] Sulla mancata ratifica del Protocollo n. 16, cfr. B. Nascimbene, La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto, in questa Rivista, 2021; S. Bartole, Le opinabili paure di autorevole dottrina a proposito della ratifica del protocollo n. 16 alla CEDU e i reali danni dell’inerzia parlamentare, ivi, 2020; P. Biavati, Giudici deresponsabilizzati? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo n. 16, ivi, 2020; E. Cannizzaro, La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n. 16, ivi, 2020; C. V. Giabardo, Il Protocollo n. 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts, ivi, 2020; E. Lamarque, La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa, ivi, 2020; C. Pinelli, Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale, ivi, 2020; A. Ruggeri, Protocollo 16: funere mersit acerbo, ivi, 2020.
[5] Cfr. M. I. Vila, Subsidiarity, margin of appreciation and international adjudication within a cooperative conception of human rights, in International Journal of Constitutional Law, 2017, p. 393 ss.
[6] Si veda F. Fabbrini, The Margin of Appreciation and the Principle of Subsidiarity: a Comparison, in A Future for the Margin of Appreciation?, 2015, iCourts Working Paper Series, no. 15, nel sito https://ssrn.com.
[7] Doc. n. 13154, del 28 marzo 2013, reperibile nel sito https://assembly.coe.int.
[8] Per un’approfondita analisi di alcune controverse sentenze della Cassazione, si veda R. Conti, Legge Pinto – ma non solo – Corte di Cassazione e CEDU su alcune questioni ancora controverse, in Questione giustizia, 2015, p. 1 ss., reperibile anche nel sito https://academia.edu, il quale ha sottolineato che l’operatività dei criteri di cui all’articolo 35, par. 3, estesa ai giudici nazionali risulterebbe contraria a quanto affermato dalla Corte europea (p. 15). Per l’A., infatti, “la Corte europea non sembra affatto avere affermato un principio di irrisarcibilità dei danni di lieve entità, piuttosto limitando il ricorso alla Corte di Strasburgo, per evidenti esigenze deflattive, alle ipotesi di violazioni di maggiore entità” (p. 16).
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