ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il giudice interprete o legislatore?*
Intervista di Matilde Brancaccio a Vittorio Manes e Luca Pistorelli
Sommario: 1. Le domande - 2. introduzione al tema - 3. Le risposte - 4. Le conclusioni.
1. Le domande
1. Diritto scritto e diritto giurisprudenziale: la questione del loro rapporto ricorre nella storia degli ordinamenti giuridici di ogni epoca e sembra oggi nuovamente riproporsi con più forza e più attuale. E’ possibile la “compatibilità” tra due prospettive che hanno dato vita a sistemi penali differenti eppure a volte paralleli e coesistenti?
2. Fino a che punto il principio di legalità che ancora fonda il nostro diritto penale interno è in grado di reggere un formante giurisprudenziale sempre più forte, di fronte a quelli che la dottrina ha definito i “tradimenti legislativi” alla legalità? Si sta irrimediabilmente affermando un principio di “legalità debole” e, se è così, si tratta di un processo irreversibile in cui il giudice ha in mano le sorti dell’illecito penale?
3. L’art. 618, comma 1-bis, del codice di procedura penale ha introdotto un “vulnus” al concetto classico di legalità che induce a ritenere legittimo un “sistema del precedente”, quanto meno di quello “più forte” di matrice delle Sezioni Unite, oppure si pongono le basi per una “riorganizzazione della nomofilachia” che metta nuovamente al centro del lavoro della Corte di cassazione la sua funzione di garantire uniformità interpretativa?
4. Vincolo del precedente, nuova ermeneutica e massimazione sembrano oramai costituire una galassia in via di espansione.
Quando è possibile, ed a quali condizioni, che un’affermazione giurisprudenziale si trasformi in “precedente” anche attraverso la massimazione? E il cd. diritto dottrinale può avere un ruolo in questa trasformazione?
5. Logica della fattispecie concreta e logica del principio di diritto generato dalla scelta di campo per una ermeneutica tassativizzante e tipizzante possono apparire come approcci opposti dell’attività di creazione del precedente e del processo di massimazione, ma sono realmente inconciliabili?
2. Introduzione al tema
La scelta di aprire un cantiere permanente di riflessioni sulle nuove frontiere del diritto giurisprudenziale è stata già compiuta tempo fa dalla Rivista (vedi, da ultimo, A. Costanzo, Il precedente friabile e gli slittamenti della nomofilachia, in Giustizia Insieme, 13 maggio 2020) e contribuisce al dibattito fecondo sul tema che sempre più permea dottrina, avvocatura e magistratura (v., per tutti, A. Cadoppi, voce Giurisprudenza e diritto penale, in Dig. disc. pen., Agg., Torino, 2017, e M. Donini, Fattispecie o case law? La “prevedibilità del diritto” e i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in Questione giustizia, 2018).
La coscienza della crescita impetuosa del peso dell’interpretazione, a detta di molti oramai “creativa” della fattispecie penale, ha toccato anche il legislatore, che sembra quasi averne preso atto, introducendo una disposizione quale è il nuovo comma 1-bis dell’art. 618 del codice di procedura penale, che, attraverso il valore di precedente tendenzialmente vincolante delle affermazioni di principio provenienti dalle Sezioni Unite con valore nomofilattico, ha probabilmente inteso provare a rispondere alle istanze di uniformità e stabilità che fanno da contrappunto all’innegabile, moderna potenza del formante giurisprudenziale (per un’analisi della valenza della nuova norma, si rimanda, per tutti, a G. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra Sezioni unite e Sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Questione giustizia, 4, 2018; nonché a G. De Amicis, La formulazione del principio di diritto e i rapporti tra Sezioni semplici e Sezioni Unite Penali della Corte di cassazione, in Dir. Pen. Cont., 4 febbraio 2019).
Senza dubbio all’espansione della law in action ha contribuito il continuo flusso interpretativo proveniente dalle Corti europee, prima tra tutte la Corte Europea dei diritti dell’uomo, divenuto negli ultimi dieci anni una vera e propria corrente costante, pronta a trascinare con sé il diritto interno ed i suoi paradigmi consolidati, fino a toccare lo stesso principio di legalità formale che da sempre ispira il nostro diritto penale.
Tuttavia, il fenomeno che oggi constatiamo nasce dall’antica dicotomia tra “legalità della legge” e “legalità dell’esperienza giuridica” o “effettuale” – per usare le parole di Francesco Palazzo (il richiamo è F. Palazzo, Legalità fra law in the books e law in action, in AA.VV., Cassazione e legalità penale, a cura di A. Cadoppi, Roma, 2017, 27 ss., 33 ss.) – e ripropone l’eterno enigma del rapporto tra legge e giudice: l’una senza l’altro sarebbe vuota enunciazione; il giudice, al di fuori della legge, in un sistema penale a legalità formale, potrebbe costituire un vulnus democratico.
Ma al di là di tali due estreme ipotesi, emerge il piano fisiologico ed ordinario di un’interdipendenza inevitabile tra i due poli che sovrintendono alla nascita del precetto penale “vivente”, per la necessità di conferire, attraverso l’interpretazione e la giurisprudenza, piena ed effettiva espansione ai principi declinati dal legislatore.
è altrettanto evidente che la crisi della capacità di legiferare con forme e tecniche congrue ed efficaci ha determinato l’accrescersi sempre più intenso dell’importanza dell’ermeneutica, dell’attività di interpretazione, cui gli interlocutori istituzionali (a partire dalla Corte costituzionale) e la dottrina si sono rivolti per ritrovare organicità di contenuti e complessità di letture spesso nascoste dalla trascuratezza o dalla distonia legislative.
Quello che ancora Palazzo ha ben individuato come il riposizionamento dell’asse portante del principio di legalità ha fatto il resto: le fondamenta di esso sono sempre più collocate nei criteri universali di conoscibilità del precetto penale e di prevedibilità delle conseguenze della sua violazione e sempre meno nell’esaltazione fideistica della fonte legislativa, che, per questo, perde di centralità ed importanza nella ricostruzione della nuova legalità.
Ecco, dunque, che si compone la cornice entro la quale la crisi del modello di diritto penale classico conduce inesorabilmente ad adottare le forme più fluide e flessibili dell’ermeneutica dei diritti.
Ma quali sono i confini attuali entro i quali si muove questo fiume in piena rappresentato dal diritto giurisprudenziale e quali gli effetti, i rischi?
è possibile comporre le spinte disallineanti dell’interpretazione “diffusa”, tipica della giurisdizione di merito, utilizzando la propensione nomofilattica e razionalizzante del precedente giurisprudenziale, che è propria della Corte di cassazione?
L’obiettivo di questo dialogo, magari il primo di una serie di confronti a più voci sul tema, è quello di provare ad individuare alcune risposte agli interrogativi di fondo che animano questa nuova epoca della legalità, che oramai si muove in una fase avanzata e dalla quale non si può più prescindere.
Proviamo a farlo con due “esperti”, tra i primi a rendersi conto delle nuove potenzialità e, al tempo stesso, dei nuovi problemi che l’espansione della capacità di elaborazione del diritto vivente da parte della giurisprudenza determina: Vittorio Manes, ordinario di diritto penale all’Università di Bologna, che dei labirinti interpretativi creati dall’interazione delle molteplici fonti creatrici del moderno diritto penale è acuto osservatore (autore di una delle opere pionieristiche sul tema: V. Manes, Il giudice nel labirinto, ed. Dike, 2012), e Luca Pistorelli, magistrato, componente delle Sezioni Unite Penali e grande esperto di tecnica della massimazione (si richiama L. Pistorelli, Dalla massima al precedente, in AA.VV., Cassazione e legalità penale, a cura di A. Cadoppi, Roma, 2017).
Le risposte, come vedremo, si spingono ben oltre la ricognizione dello stato attuale di quella che, secondo alcuni, rappresenta una nuova ermeneutica, risorta in tutte le sue potenzialità da secoli di illuministica fiducia nel principio di riserva di legge in materia penale, e ne centrano anche i punti deboli e le prospettive meno esplorate.
3. Le risposte
1. Diritto scritto e diritto giurisprudenziale: la questione del loro rapporto ricorre nella storia degli ordinamenti giuridici di ogni epoca e sembra oggi nuovamente riproporsi con più forza e più attuale. E’ possibile la “compatibilità” tra due prospettive che hanno dato vita a sistemi penali differenti eppure a volte paralleli e coesistenti?
2. Fino a che punto il principio di legalità che ancora fonda il nostro diritto penale interno è in grado di reggere un formante giurisprudenziale sempre più forte, di fronte a quelli che la dottrina ha definito i “tradimenti legislativi” alla legalità? Si sta irrimediabilmente affermando un principio di “legalità debole” e, se è così, si tratta di un processo irreversibile in cui il giudice ha in mano le sorti dell’illecito penale?
V.M. Dietro la dicotomia che vorrebbe contrapposti “diritto scritto” e “diritto giurisprudenziale” ci sono sempre stati elementi di con-fusione, ed il confine è stato sempre mobile, e labile.
La legge, per gli antichi, era mutus magistratus, e il giudice lex loquens, le cui sentenze erano viva vox iuris: e ciclicamente si è avvertita l’esigenza di accentuare il ruolo della lex scripta, o di sistematizzarla in complessi normativi ordinati ed ordinanti, anche per arginare il diritto pretorile o giurisprudenziale, o quello elaborato dagli iuris prduentes nei loro responsa o nelle glosse, che nel tempo – come ben si sa – ha visto riconoscere come vere e proprie fonti del diritto criminale “[…] una opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento con iracondia suggerito da Farinaccio […]” (come rammentava la avvertenza al lettore di C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano, 7° ed., 1999, 31).
Proprio per reagire a questa “cosa funesta quanto diffusa al di d’oggi”, l’illuminismo giuridico ha avuto non solo il merito di proiettare il problema nella dimensione dello Stato di diritto, evidenziando la centralità di quel valore che oggi comunemente viene definito – con le parole del Preambolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – rule of law o prééminence du droit; ma soprattutto di evidenziare – nella precipua angolatura penalistica – la cifra politica della questione, invocando la primazia della legge e, parallelamente, limiti precipui e stringenti all’interpretazione in materia penale, emblematizzati proprio nel § 4 dell’aureo libretto di Beccaria, Dei delitti e delle pene, dove l’ingenuità dell’agognato “sillogismo giudiziale” – e l’idea di giudice come Subsumptionsautomat – o l’enfasi posta sul divieto di interpretazione non possono offuscare la primordiale istanza di legittimazione che appunto sta alla base del principio di legalità.
Se alcune tensioni sono dunque antiche e cicliche – e tanto note che non merita indugiare oltre – non vi è però dubbio che l’epoca contemporanea ha registrato una mutazione sostanziale nel rapporto tra legge e giudice, anche e soprattutto – lo diciamo con ovvia preoccupazione – in materia penale, dove è stato a più riprese evidenziato un “mutamento genetico del discorso penalistico” (M. Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale, Milano, 2011, 49 ss.): in molti, troppi casi la legge non riesce più a stabilire alcun confine affidabile per il cittadino e per l’interprete, perché la norma è frutto di una stratificazione di fonti policentriche e reticolari, spesso generate – a loro volta - dal metabolismo giurisprudenziale delle Corti europee; e l’interpretazione del giudice – liberata da ogni vincolo - ha conseguentemente espropriato il monopolio politico della penalità prima affidato alla centralità della lex parlametaria, tanto che la stessa categoria del “diritto vivente” è, ormai da tempo, paradossalmente diventata – nel lessico della stessa giustizia costituzionale - il parametro di riferimento dei principi di tassatività e determinatezza (v., per tutti, A. Cadoppi, voce Giurisprudenza e diritto penale, in Dig. disc. pen., Agg., Torino, 2017).
Ognuno vede che il rapporto di equilibrio si è dunque profondamente alterato, anche perché i criteri interpretativi – come generati in un inesauribile magic box - sono tanto variegati quanto privi di gerarchie che riescano ad ordinarli: nelle aule si invoca ora il criterio letterale (testualista, originalista, etc.), ora quello storico, o quello sistematico, o teleologico, ovvero, sempre più spesso, quello dell’interpretazione conforme (volta a volta orientata alla Costituzione, alla Convenzione EDU, al diritto UE..), etc., il tutto a seconda dei gusti e delle esigenze del caso concreto, e con la stessa pretesa di autorevolezza (per una critica argomentata, specie sul fronte dell’interpretazione conforme, v. di recente M. Luciani, voce Interpretazione conforme a costituzione, in Enc. dir., Ann. IX, Milano, 2016).
E’ noto: il declino della tassatività e la dissoluzione della legalità nell’interpretazione – in uno con la proliferazione scomposta dei metodi interpretativi che contrassegna l’ermeneutica giuridica contemporanea anche ove si rifuggano derive decostruzionistiche – hanno messo in crisi il futuro del “tipo legale” come schema logico-concettuale chiuso (Begriff), sostituito la sua determinatezza con la prevedibilità del diritto giurisprudenziale e posto il problema della “calcolabilità giuridica” all’apice delle urgenze anche in materia penale (v., di recente, F. Consulich, Così è (se vi pare). Alla ricerca del volto dell'illecito penale, tra legge indeterminata e giurisprudenza imprevedibile, in Sistema penale, 10 aprile 2020; amplius, A. Massaro, Determinatezza della norma penale e calcolabilità giuridica, Napoli, 2020).
Denunce recenti, con la voce sommamente autorevole di un Maestro venuto a mancare troppo presto, hanno evidenziato in maniera vibrante, specie nella prospettiva delle garanzie dei cittadini, lo “stato impossibile" del quadro attuale, dove ormai si punisce “senza legge, senza verità, senza colpa” (F. Sgubbi, Il diritto penale totale, Bologna, 2019); e riforme altrettanto recenti testimoniano, del resto, le difficoltà del legislatore nel ristabilire l’ordine infranto, inseguendo più il tentativo di imporre argini all’interpretazione dei giudici che il fine di fissare norme di condotta chiare per i loro destinatari privilegiati, i cittadini (basti pensare alla recente riforma dell’abuso d’ufficio, che – a prescindere dalle scelte tecniche adottate, non prive di notevoli ambiguità – dimostra il fallimento della riforma del 1997, mossa dall’evidente finalità di elevare la cifra di tassatività del reato).
Si è riflettuto forse meno, peraltro, sulle conseguenze che questo crescente disequilibrio avrà – e forse sta già avendo, in sinergia con vari altri fattori e vicende contingenti – sulla giurisdizione, e – prima e più in alto – sulla stessa legittimazione della magistratura, specie giudicante, che si scopre sempre più libera dai vincoli di legge ma, al contempo, sempre più condizionata dalle aspettative dell’opinione pubblica e del circuito mediatico: mentre dovrebbe essere chiaro che legalità formale, tassatività e determinatezza, divieto di analogia, etc. sono non solo garanzie per l’individuo – che ha un preciso diritto alla conoscibilità del divieto cui corrisponde un dovere dello Stato di garantire l’irretroattività del mutamento giurisprudenziale sfavorevole - ma al contempo presidi protettivi per il giudice e per la sua decisione, che viene messa gravemente a repentaglio quando “ci si attende molto di più da una sentenza che non da una legge” (così, ancora, F. Sgubbi, Il diritto penale totale, cit., 28).
Venendo alle domande, dunque, la compatibilità tra le due prospettive, in quella “singolarissima materia” che è il diritto penale, è possibile – a mio avviso - solo se si condividano una serie di regole di “deontologia ermeneutica”, ossia principi-guida che orientino e limitino l’interpretazione del giudice in materia penale: a partire da una “difesa del senso letterale” della disposizione incriminatrice, secondo quella che la Corte suprema americana definisce “narrow reading”; a seguire con l’adesione ad un approccio “antianalogico”, che nei casi dubbi conduca il giudice ad astenersi dal rischio di analogia in malam partem (in dubio pro analogia et abstine); ed operando la scelta tra le molteplici opzioni interpretative che la disposizione offre preferendo una lettura “tassativizzante e tipizzante” della norma penale, alla luce di direttrici imposte dai principi di offensività e proporzione, secondo una preziosa indicazione che la stessa Corte di Cassazione, in diverse importanti pronunce, ha offerto (volendo, sul punto, rinvio a quanto più diffusamente argomentato in Dalla fattispecie al precedente: appunti di “deontologia ermeneutica”, in Cass. pen., 2018, 2222 ss.).
Solo con questo preciso, rigoroso impegno ermeneutico sarà possibile avviarsi a ripristinare l’equilibrio perduto della legalità formale e le geometrie fondanti lo Stato di diritto, un “parallelogramma di forze” in cui convergono sia il potere di emanare le leggi che il potere di interpretarle e applicarle ai casi concreti, vettori opposti la cui convergenza – e la cui immanente tensione – genera la stessa spinta che garantisce l’equilibrio del sistema: come nell’architettura di una volta – si è detto con una felice metafora (R. Bin) – le cui linee d’arco, per sorreggerne il peso, devono innervarsi su basi saldamente fissate, e – soprattutto – ben distanziate tra loro.
L. P. La norma è inevitabilmente il risultato dell’interpretazione della disposizione astratta nella sua applicazione al caso concreto, posto che quello dell’applicazione meccanica della legge era e rimane una utopia illuministica.
Di conseguenza l’attività interpretativa del giudice diviene coessenziale all’attuazione della legge scritta e ne costituisce irrinunciabile complemento in funzione della sua concretizzazione giuridica. In tal senso il giudice “forma” il diritto o, se si preferisce, diviene fonte del diritto del caso concreto, produce, cioè, il diritto applicato. Il che non significa negare la supremazia della legge, ma più semplicemente riconoscere – ricorrendo ad una stucchevole, ancorchè efficace, espressione invalsa nei tempi correnti – che il giudice è il necessario veicolo per la “messa a terra” del dettato legislativo, consentendo così alla realtà fenomenica di riflettersi nella regola astratta.
Il rapporto tra la legge scritta e la sua applicazione al caso concreto è un equilibrio delicato, soprattutto in un ambito, come quello del diritto penale, governato dal principio di legalità. Equilibrio che i quesiti assumono oramai messo in crisi dalla erosione della centralità della prima in favore della sempre maggiore “invadenza” del formante giurisprudenziale nella definizione in via interpretativa del suo contenuto.
L’assunto non può essere negato, anche se il presunto scivolamento dalla legalità della legge verso una legalità “effettuale” mi sembra che, a volte, venga eccessivamente enfatizzato, ben oltre le reali dimensioni del fenomeno, mentre il dibattito sul punto risulta spesso inquinato da pregiudizi ideologici che finiscono per confondere cause ed effetti.
Sono dell’opinione che sia anzitutto doveroso confrontarsi in maniera obiettiva con la realtà della produzione legislativa allo stato attuale dell’evoluzione dei sistemi democratici e soprattutto di quelli caratterizzati dalla (formale o effettiva che si ritenga) centralità dell’istituzione parlamentare.
Confronto che non può che evidenziare come tale produzione sia per sua natura il frutto di articolate mediazioni indotte non solo (o non tanto) dalla frammentazione dei corpi legislativi, quanto, piuttosto, in ragione della necessità di coniugare le diverse e spesso confliggenti istanze provenienti da quelli sociali, in grado di riflettersi anche all’interno delle singole componenti rappresentative. Mediazioni che, anche in materia penale, inevitabilmente si riflettono sull’effettiva autosufficienza del prodotto legislativo. A ciò deve aggiungersi come l’impressionante accelerazione dei cambiamenti sociali e dell’evoluzione tecnologica a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni hanno determinato una crescente domanda di adeguamento e innovazione degli ordinamenti positivi, i cui tempi – per le ragioni già ricordate – risultano però difficilmente compatibili con l’urgenza di soddisfare le aspettative e che inevitabilmente comporta nella sede applicativa uno sforzo di adattamento della legge “scritta” alle mutate esigenze.
Accanto a quella che appare in misura crescente come una crisi “strutturale” delle democrazie rappresentative (che non è certo questa la sede per approfondire), destinata a ripercuotersi inevitabilmente sulla tenuta della legalità formale, non è poi in dubbio che nel “caso” italiano si assiste altresì da tempo ad un progressivo deterioramento della tecnica legislativa e ad una degenerazione della mediazione democratica nel mero compromesso, nonchè al sempre più frequente tentativo di trasferire “a valle” la responsabilità politica di scelte controverse ricorrendo alla formulazione ambigua o generica delle singole disposizioni.
Ciò sempre più spesso si traduce nell’elaborazione di enunciati normativi caratterizzati da scelte terminologiche semanticamente poco impegnative sul piano definitorio e che irrimediabilmente si consegnano all’esperienza applicativa per acquisire certezza e stabilità di significato ovvero nella introduzione di incriminazioni finalizzate ad attrarre fattispecie tipologiche molto particolari, ma architettate in maniera assai sommaria e con scarsa ponderazione della loro attitudine espansiva.
A tutto questo deve infine aggiungersi la crescente complessità del sistema delle fonti, che sempre più spesso vede concorrere nella determinazione del contenuto del diritto penale quelle internazionali o sovranazionali con quelle nazionali, facendo insorgere l’esigenza di conciliarle in sede applicativa.
Limiti storici o strutturali e vizi patologici dell’esercizio della potestà legislativa sono dunque alla base di quella «dissoluzione della legalità nell’interpretazione» efficacemente fotografata da Vittorio Manes. Il principio di legalità costituisce, infatti, non solo il fondamento del monopolio del legislatore in materia penale, ma definisce altresì come questo potere debba essere esercitato. In questo senso il dogma illuministico dell’applicazione meccanica della legge può e deve essere recuperato nella tecnica legislativa, come tensione verso la formulazione di norme chiare e in grado di esprimere con certezza la volontà dell’artefice del diritto penale.
Le mancanze del legislatore non possono costituire però l’alibi per una sorta di eversione dell’ordine costituzionale, consentendo al formante giurisprudenziale di ricostruire il contenuto della legge travalicandone i limiti esegetici.
In definitiva, come è ben chiaro a tutti, perché la legalità della legge non sia percepita come una legalità “debole”, come suggerito dai quesiti, appare non più rinunciabile una maggiore definizione delle regole dell’interpretazione.
Sul punto mi limito a due brevi considerazioni.
Non posso, anzitutto, che concordare con Vittorio Manes sull’esigenza di formulare in proposito principi-guida fondati anzitutto sulla difesa del senso letterale della disposizione incriminatrice. Resta da intendersi sul come. Ed a mio avviso l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria sul punto (non priva di contraddizioni ed incertezze) richiede a questo punto di essere recepita ed ordinata dallo stesso legislatore, posto che l’unico reale vincolo normativo costituito dalle preleggi appare oramai inadeguato, quantomeno nella materia penale, a fronteggiare le molteplici sollecitazioni che convergono sul giudice al momento dell’applicazione del dato normativo al caso concreto di cui si è detto.
Una seconda annotazione riguarda invece la magistratura. Nel dibattito sulla “sopravvivenza” della legalità formale mi sembra che, con eccessiva disinvoltura, si tenda a non volersi confrontare con il principio della riserva di legge e, dunque, con il profilo della legittimazione democratica della fonte da cui promana il diritto penale.
Per conciliarsi nella materia penale con il principio di legalità che la domina, l’atto interpretativo può sì esitare nella individuazione di contenuti normativi apparentemente “inediti” rispetto alla lettera della disposizione (anche e soprattutto nell’ottica dell’adeguamento costituzionale o convenzionale di quest’ultima), purchè l’operazione avvenga per l’appunto nel rigoroso rispetto dei limiti esegetici della stessa e si traduca dunque nel riconoscimento della reale capacità espansiva della fattispecie astratta tipizzata e non già nella produzione di quella che di fatto si rivelerebbe essere una nuova disposizione. Condizione questa funzionale non solo al rispetto della matrice di garanzia del principio, ma anche (e, forse, soprattutto) di quella politico-ideologica: non si tratta dunque solo di rendere compatibile la “creatività” interpretativa con il principio di tassatività e determinatezza, ma anche con il significato che nell’assetto costituzionale assume l’attribuzione del monopolio normativo al legislatore.
Trascurare tale ultimo aspetto porta a non vedere a mio avviso i rischi ultimi dell’affermato scivolamento nella legalità “effettuale” e cioè, in prospettiva, l’insorgere dell’esigenza di modificare lo statuto costituzionale della magistratura, al fine di dotarla di quella legittimazione democratica in grado di giustificare una eventuale assunzione del formante giurisprudenziale nel sistema delle fonti e ciò in quanto l’interpretazione non è mai neutrale, contenendo in sé un insopprimibile margine di creatività e di soggettivismo, spesso condizionata dalle precomprensioni dell’interprete, tanto più “pericolose”, quanto non esplicitate od occultate dietro lo schermo dell’argomentazione tecnico-giuridica.
E’ dunque indubitabile che un valido antidoto a questo scenario - per il sottoscritto distopico, ancorchè non inedito nella storia dell’offerta politica nostrana - può essere rappresentato proprio dall’assunzione da parte del legislatore della responsabilità di elaborare una più stringente codificazione di quella “deontologia ermeneutica” cui ha fatto cenno il Prof. Manes.
3. L’art. 618, comma 1-bis, del codice di procedura penale ha introdotto un “vulnus” al concetto classico di legalità che induce a ritenere legittimo un “sistema del precedente”, quanto meno di quello “più forte” di matrice delle Sezioni Unite, oppure si pongono le basi per una “riorganizzazione della nomofilachia” che metta nuovamente al centro del lavoro della Corte di cassazione la sua funzione di garantire uniformità interpretativa?
V.M. La funzione nomofilattica della Cassazione, aggravata da un abnorme sovraccarico di ricorsi, è in crisi da tempo, e da tempo non riesce a controbilanciare il disequilibrio che via via si è determinato: casi di conflitti sincronici che apparivano, un tempo, esempi paradossali ”di scuola”, si verificano con frequenza crescente tra le varie sezioni (come nel caso del regime intertemporale relativo alle norme dell’ordinamento penitenziario, poi esitato nella nota decisione della Corte costituzionale n. 32 del 2020, su cui tornerò) o all’interno della stessa sezione (come nei casi della distinzione tra concussione, induzione indebita e corruzione, in seno alla sezione VI, della configurabilità del falso societario nelle valutazioni estimative, all’interno della sezione V, o dell’interpretazione della riforma in materia di responsabilità medica, all’interno della sezione IV), finanche nella forma di contrasti inconsapevoli (come nel caso delle pronunce Tarabori e Cavazza, depositate a pochi mesi di distanza dai giudici della IV sezione, in tema di responsabilità medica), e molti di questi hanno come esito – non sempre terminativo - la rimessione alle Sezioni Unite.
In questo quadro, l’aver introdotto un obbligo di rimessione come quello previsto all’art. 618, comma 1 bis, c.p.p., rappresenta un primo, apprezzabile strumento volto a temperare i conflitti giurisprudenziali, tanto più nocivi se generati al vertice del sistema, e manifesta la tendenza dell’ordinamento ad una stabilizzazione del precedente funzionale, anche, a garantire maggior conoscibilità della legge da parte dei consociati e, dunque, maggior certezza del diritto (ma v. di recente, sul punto, G. Amarelli, Dalla legolatria alla post-legalità: eclissi o rinnovamento di un principio, in RIDPP, 3, 2018, 1406 ss.; M. Lanzi, Error iuris e sistema penale. Attualità e prospettive, 213 s.; ampiamente, ora, A. Nappi, La prevedibilità nel diritto penale, Napoli, 2020); ed in questa prospettiva si comprende anche lo sforzo di chi ha proposto di rafforzare ulteriormente questo vincolo evocando un onere di motivazione rafforzata ove la sezione semplice voglia “convincere” le Sezioni Unite a rivedere il proprio orientamento (sul punto, G. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra Sezioni unite e Sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Questione giustizia, 4, 2018).
Ben prima, tuttavia, la stessa giurisprudenza della Cassazione aveva garantito un significativo e concreto riconoscimento di “valore” al precedente, sin dalle SS.UU., n. 18288/2010, Beschi (quando con riferimento al c.d. giudicato esecutivo ex art. 666, comma secondo, c.p.p., ha affermato il principio secondo cui “il mutamento di giurisprudenza intervenuto con decisione delle Sezioni unite, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza rigettata”); decisione a cui hanno fatto seguito varie pronunce di tenore analogo.
Si era da tempo preso atto, dunque, della valenza paranormativa del “diritto vivente”: e proprio al fine di rafforzare il ruolo della Cassazione come Corte suprema o “del precedente” e di rivitalizzare la sua funzione nomofilattica la riforma Orlando ha introdotto un meccanismo volto ad assicurare maggior stabilità, quanto meno, alla decisione delle Sezioni Unite, in una prospettiva sempre più distante da una efficacia solo “persuasiva” e “vincolante”, al più, per il giudice del rinvio (artt. 627, comma 3, e 628, comma 2, c.p.p.; art. 173, comma 2, disp. att.).
Tuttavia, il sistema resta ancora sideralmente lontano da un accettabile livello di nomofilachia, e da un’apprezzabile stabilizzazione dei precedenti. La stessa funzione nomofilattica, del resto, nell’attuale contesto di complessità non può essere affidata alla sola Cassazione, e men che meno alle sole Sezioni Unite, il ricorso alle quali, se troppo frequente, rischia peraltro di corroderne l’autorevolezza, con una sorta di volgarizzazione – o di “macdonaldizzazione” – delle relative pronunce.
Da questo punto di vista, un ausilio potrebbe e dovrebbe venire – in una sorta di “nomofilachia condivisa” - dalla Corte costituzionale, inducendola a riscoprire il tradizionale strumento delle “sentenze interpretative” che per molto tempo sono state limitate a sporadici casi di interpretazioni “innovative” o particolarmente “ardite” e “creative”, e che a partire dalla sentenza n. 356 del 1996 sono state largamente sostituite – come si sa - da decisioni di inammissibilità.
La recente giurisprudenza costituzionale che ha esteso il principio di irretroattività a talune norme dell’ordinamento penitenziario offre un buon esempio di introduzione e stabilizzazione di “nuovo diritto” per il tramite di pronunce interpretative: di fronte ad un “diritto vivente” conflittuale, la Corte costituzionale ha prima “sfoderato” la sentenza interpretativa di accoglimento, con la storica pronuncia n. 32 del 2020; successivamente, visto che l’interpretazione accolta deve considerarsi diritto vivente, di fronte ad analoga questione prospettatale ha potuto limitarsi ad una sentenza interpretativa di rigetto, invitando il giudice rimettente a prenderne atto.
Un principio rivoluzionario che faticava ad imporsi nella ermeneutica della giurisprudenza di legittimità è stato così veicolato e stabilizzato per via interpretativa dalla Corte costituzionale, evidenziando che “nessun ostacolo si oppone più a che il giudice a quo adotti, rispetto a tali reati, l’unica interpretazione della disposizione censurata compatibile con il principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., così come declinato da questa Corte nella sentenza n. 32 del 2020 […]” (sentenza n. 193 del 2020).
L.P. Il comma 1-bis è stato introdotto nell’art. 618 c.p.p. dalla riforma del 2017 al dichiarato fine di rafforzare la funzione nomofilattica del giudice di legittimità garantendo maggiore stabilità e certezza ai pronunziamenti adottati dalla sua massima espressione e cioè le Sezioni Unite.
Non si tratta di una novità assoluta, invero, atteso che una disposizione analoga già compariva nel testo del progetto definitivo del codice di procedura penale, ma venne poi accantonata in ragione delle obiezioni sollevate in sede parlamentare e che hanno portato nel corso degli anni a respingere anche ulteriori proposte di riforma dell'art. 618 c.p.p. nel senso indicato.
In estrema sintesi, i timori manifestati anche dalla dottrina contraria alla disciplina di cui si tratta sono legati al paventato rischio di una deriva verso la vincolatività del precedente e la progressiva atrofizzazione della spinta innovativa della produzione giurisprudenziale.
Si tratta, però, di timori cha affondano le radici in una visione astratta dei processi attraverso cui si affermano gli orientamenti giurisprudenziali nella sede di legittimità e che, in ultima analisi, finiscono per mettere in dubbio la stessa legittimazione della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione.
La realtà con la quale il legislatore ha invece ritenuto di fare in conti è però quella in cui l’organo che dovrebbe esprimere l’indirizzo nomofilattico non è (più) in grado di produrre orientamenti uniformi e stabili, gravata com’è dall’eccessivo numero dei ricorsi e dalla conseguente esigenza nel tempo di accrescere a dismisura il suo organico per farvi fronte. Ben più concreto è dunque il rischio (già divenuto per l’appunto opprimente realtà) di una crescente imprevedibilità delle decisioni di merito, sempre più in grado di trovare una base giustificativa all'interno dei numerosi contrasti interpretativi che caratterizzano la produzione della Suprema Corte. Imprevedibilità la cui inevitabile conseguenza è l’aumento del contenzioso, il quale a sua volta innesca un meccanismo perverso che genera ancora maggiore imprevedibilità ed instabilità.
La soluzione adottata dal legislatore appare come un ragionevole bilanciamento tra garanzia dell'evoluzione del pensiero giuridico in funzione dei cambiamenti sempre più rapidi della società e garanzia della certezza dell'interpretazione che di tali cambiamenti fornisce la Cassazione. Esigenze che invero non si contrappongono, risultando invece avvinte in un rapporto di reciproca implicazione. In tal senso, l'aver assegnato alle decisioni del supremo organo di nomofilachia una valenza più concreta, non significa aver reso sterile la Corte, atteso che l'estemporaneo scostamento da tali decisioni è spesso solo un “finto” sintomo della vitalità dell'elaborazione giurisprudenziale, mentre la spinta ad una rivisitazione dei principi affermati in passato altrettanto proficuamente può esprimersi attraverso l'autorevolezza delle argomentazioni dispiegate nell'ordinanza di remissione. Ed infatti la nuova disposizione non configura una sorta di “dittatura” delle Sezioni Unite, ma struttura il rapporto dialettico tra le stesse e le sezioni semplici, chiamate a rilevare le eventuali criticità dell'interpretazione consolidata.
Del resto la disposizione è stata mutuata da quella introdotta dal d. lgs. n. 40/2006 nell’art. 373 comma 3 c.p.c. per il giudizio civile di cassazione e la cui oramai più che decennale applicazione non ha visto concretizzarsi i rischi paventati.
Nel rispondere alla domanda, dunque, tenderei a non intravedere nella modifica dell’art. 618 c.p.p. l’attuazione di un surrettizio disegno finalizzato all’instaurazione di un “sistema del precedente”, ma più semplicemente un valido strumento di razionalizzazione della funzione assegnata dall’ordinamento alla Cassazione.
4. Vincolo del precedente, nuova ermeneutica e massimazione sembrano oramai costituire una galassia in via di espansione.
Quando è possibile, ed a quali condizioni, che un’affermazione giurisprudenziale si trasformi in “precedente” anche attraverso la massimazione? E il cd. diritto dottrinale può avere un ruolo in questa trasformazione?
V.M. Senza dubbio la stabilizzazione dei precedenti passa anche da una razionalizzazione del sistema di massimazione: del resto, non bisogna dimenticare che se “la forza e l’efficacia di un precedente è inversamente proporzionale alla quantità e al numero dei precedenti” (G. Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in Dir. pen. cont., 6 febbraio 2017, 1), l’efficacia della massima è direttamente proporzionale alla sua precisione puntiforme, ed alla selettività con cui si scelgono le massime da “ufficializzare”.
Qualche anno fa si registravano, negli archivi di ItalgiureWeb, oltre 150.000 massime nella sola materia penale (E. Lupo, Cassazione e legalità penale. Relazione introduttiva, in AA.VV., Cassazione e legalità penale, a cura di A. Cadoppi, Roma, 2017, 27 ss., 33 ss.): un profluvio al cospetto del quale la funzione di orientamento della massima risulta sostanzialmente annichilita, ed ogni sforzo di cernita del giudice di merito in sede di motivazione si riduce, sostanzialmente, ad un esperimento di cherry picking (dove si finisce con lo scegliere la ciliegina più gradita, non necessariamente rappresentativa di quelle contenute nel cestino).
In questa prospettiva, peraltro, si affaccia anche la necessità di definire l’autorità cui compete l’enunciazione della ratio decidendi “vincolante” per la giurisdizione, se debba trattarsi dello stesso organo decidente o, piuttosto, del secondo giudice chiamato a confrontarsi con fatti analoghi secondo l’insegnamento dell’esperienza del precedent di common law.
Alla dottrina, d’altro canto, spetta un compito fondamentale di sussidio all’evoluzione del diritto giurisprudenziale, declinabile in almeno tre attività (M. Donini, Fattispecie o case law? La “prevedibilità del diritto” e i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in Quest. giust., 2018): a) la conoscenza della legge e la stessa ricerca del diritto applicabile (Rechtsfindung, Rechtsauslegung); b) l’applicazione del diritto ai casi (Rechtsanwendung); c) la ricostruzione del diritto dopo l’applicazione ai casi (Rechtsfortbildung).
In questo senso, è la dottrina che, a monte, può preparare il campo ad un mutamento giurisprudenziale, mettendone in luce le ragioni; a valle, evidenziare o criticare la autorevolezza del “precedente”; censire le “classi di casi” a cui quel precedente dovrebbe estendersi, o, all’opposto, evidenziare le ragioni del distinguishing; da diversa prospettiva, e soprattutto, mettere in guardia da criptoanalogie e sollecitare la doverosa attivazione delle garanzie di irretroattività che devono contrassegnare un overruling con effetti in malam partem.
L.P. L’archivio informatico delle massime di ItalgiureWeb costituisce da diverso tempo la principale – e in larga misura l’esclusiva – banca dati da cui i magistrati italiani attingono la loro informazione sugli orientamenti della Suprema Corte e le conseguenti indicazioni nomofilattiche, costituendo la fondamentale – e, come detto, spesso l’unica – fonte di conoscenza del diritto giurisprudenziale.
In ogni caso costituisce l’unico strumento istituzionale di divulgazione dell’elaborazione giurisprudenziale attraverso la tecnica della “massimazione” delle decisioni della Corte e come tale è diffusa la sua consultazione anche da parte degli altri operatori del diritto.
La conoscibilità del diritto vivente – e quindi della norma nella sua interpretazione concreta - non può ritenersi garantita soltanto dalla formale accessibilità delle sentenze, ma presuppone l’effettiva possibilità di ricostruire gli orientamenti giurisprudenziali e la loro eventuale stabilità nel tempo.
Già in altre occasioni ho avuto modo di denunziare come tale possibilità diventi nel tempo sempre meno effettiva.
Per un verso l’archivio delle massime si è sviluppato nel tempo sostanzialmente per accumulazione, limite appena attenuato dalla segnalazione delle connessioni tra le singole decisioni attraverso l’indicazione di quelle conformi o difformi ed il richiamo a quelle per altri motivi considerate di interesse per la contestualizzazione del principio massimato. L’ipertrofica produzione della Corte di legittimità, seppur filtrata dalla selezione compiuta dall’Ufficio del Massimario, ha dunque generato un accumulo di decine di migliaia di massime che, come già sottolineato da Vittorio Manes, rendono spesso solo teorica la possibilità di identificare la reale portata di una pronunzia ed il suo valore di “precedente”.
Per altro verso deve ricordarsi come le scelte e le tecniche di massimazione sono il frutto di una elaborazione pluridecennale compiuta esclusivamente all’interno della Corte. Potrebbe credersi che ciò vada imputato ad una scarsa attitudine da parte dell’istituzione suprema di giustizia al confronto, ma in realtà la sua autoreferenzialità è la inevitabile conseguenza del completo disinteresse da parte delle altre componenti del mondo giuridico per il tema (fatte salve meritorie eccezioni), dell’assenza, cioè, di un effettivo dibattito sulla reale funzione della massima, sul metodo di individuazione del principio di diritto che la stessa intende evidenziare, sui criteri di selezione delle decisioni da sottoporre a massimazione, sulla stessa determinazione dei criteri per l’assunzione di una decisione a “precedente”.
E’ dunque auspicabile una profonda revisione dell’attività di massimazione e di ristrutturazione dell’archivio informatico, anche attraverso il forse utopico, ma a mio avviso imprescindibile, coinvolgimento dell’Accademia e dell’Avvocatura.
5. Logica della fattispecie concreta e logica del principio di diritto generato dalla scelta di campo per una ermeneutica tassativizzante e tipizzante possono apparire come approcci opposti dell’attività di creazione del precedente e del processo di massimazione, ma sono realmente inconciliabili?
V.M. Non vedo, francamente, questa inconciliabilità: identificazione della regula iuris corretta e applicazione della regola al caso concreto sono due aspetti distinti, ma coessenziali, del fenomeno giuridico: coessenziali anche se non si giunga a condividere una opinione peraltro diffusa nell’ermeneutica contemporanea, per la quale nessuna regola potrebbe essere interpretata prima, e al di fuori, della sua applicazione ai casi (v. ad es. O. Di Giovine, L’interpretazione nel diritto penale tra creatività e vincolo della legge, Milano, 2006, 18 ss.; ma anche M. Vogliotti, Dove passa il confine? Sul divieto di analogia in materia penale, Torino, 2011, 53 ss.; Id., Lo scandalo dell’ermeneutica per la penalistica moderna, in Quaderni fiorentini, 2015, tomo I, 131 ss., 162 ss.; sul punto, in chiave critica, v. ancora M. Donini, Fattispecie o case law?, cit., 10 ss.).
Sono questi due momenti, dunque, che danno come risultato la norma del caso concreto, o meglio il “caso-norma” (Fallnorm), che è norma in quanto esprime la riconducibilità o la sussumibilità di quella condotta nel perimetro della disposizione interpretata, secondo criteri di ripetibilità, e che se è innovativo rispetto al passato – e percepito come un avanzamento originale rispetto allo stesso, e non solo come esempio applicativo generato dalla infinita casistica quotidiana - diventa appunto qualcosa di simile al “precedente”, “una volta che sia riconosciuto come tale non solo da chi lo ha giudicato ma, evidentemente, dalla…successiva giurisprudenza che, case by case, opera giudizi analogici particolareggiati tra i casi” (cfr., ancora, M. Donini, Fattispecie o case law?, cit., 12, anche per la non sovrapponibilità tra “caso-norma” e “precedent” di common law).
Dunque la giurisprudenza, al di là dei casi di ordinaria esemplificazione applicativa della norma agli infiniti casi della quotidianità, talvolta genera – anche con la guida della dottrina – una “sotto-fattispecie” che per la sua innovatività è riconosciuto come vero e proprio precedente: come nel caso recente – condivisibile o meno che esso sia – dell’applicazione dei reati di turbativa al di fuori dal perimetro economico-commerciale delle gare d’appalto estendendole alle valutazioni comparative riferibili ai concorsi pubblici.
La natura di precedente – è stato ancora evidenziato - “dipende dalla percezione o meno di uno strappo innovativo rispetto al passato […]; [e] il loro successivo “riconoscimento”, dipende dall’onestà intellettuale di ammettere quello strappo o il coinvolgimento della sfera di aspettative e dei diritti di terzi rispetto all’imprevedibilità del mutamento” (ancora M. Donini, op. ult. cit., 14).
Qui, dunque, si gioca la delicata questione delle garanzie intertemporali interpellate dall’evoluzione del diritto giurisprudenziale: il quale - se davvero maturo e consapevole del ruolo ormai assunto - dovrebbe appunto improntarsi non solo (e non tanto) a quel self-restraint che gli impone di rispettare il perimetro di una interpretazione “tassativizzante e tipizzante”, ma anche, ed appunto, a quella onestà intellettuale che lo conduca a riconoscere le proprie spinte innovative imprevedibili, quanto meno in materia penale, incanalandole entro i corretti binari costituzionali.
L.P. Se il formante giurisprudenziale concorre all’identificazione del diritto applicato mi sembra perfino superfluo riconoscere l’intimo legame tra fattispecie concreta e principio di diritto. Nella formazione del “precedente”, però, ciò che assume rilievo non è la fattispecie concreta considerata in tutte le sue articolazioni, ma quella tipologica cui è riconducibile, giacchè solo in tal modo è possibile individuare una base omogenea funzionale al confronto dei principi affermato nelle diverse pronunzie ed all’apprezzamento del carattere eventualmente innovativo di quella più recente. Fermo restando che secondo i tradizionali criteri assunti dal giudice di legittimità una decisione innovativa diviene precedente solo qualora altra successiva la riconosca come tale aderendovi.
4. Le conclusioni
Le sirene del diritto giurisprudenziale “creativo” sono senz’altro affascinanti, ma il principio di legalità tuttora appare come un baluardo di garanzia del nostro sistema penale che ne assicura anche la sua tenuta democratica.
è questa la prospettiva che emerge dal confronto delle risposte di Vittorio Manes e Luca Pistorelli alle domande volutamente formulate con tono accentuatamente dialettico.
è, quindi, sì innegabile la forza propulsiva del formante giurisprudenziale nei moderni sistemi di diritto penale: e come potrebbe essere negata?.. essendo peraltro simbolo di modernità di approccio, dal momento che le improvvise fughe in avanti nella ricerca di tutela dei diritti imposte dal tessuto sociale sopraffanno spesso il legislatore.
E tuttavia, come ammonisce Manes, è necessario che tale forza sia orientata secondo un’auspicata serie di regole di “deontologia ermeneutica” condivise, che svolgano il ruolo di linee guida interpretative, oltre che tracciare confini di operatività delle scelte del giudice (sul tema, appunto, V. Manes, Dalla fattispecie al precedente: appunti di “deontologia ermeneutica”, in Cass. Pen., 2018, 2222 e s., nonché in Dir. Pen. Cont., 17 gennaio 2018), la cui attività dovrebbe sempre rimanere sostanzialmente, e non solo formalmente, distinguibile da quella del legislatore per rispettare gli equilibri del sistema ordinamentale democratico fondato sul principio di legalità penale classica (per una prospettiva generale e valoriale dell’attività di interpretazione nella materia penale, si rimanda a O. Di Giovine, «Salti mentali» (analogia e interpretazione nel diritto penale), in Questione Giustizia, n. 4/2018).
Una lettura meno enfatica delle magnifiche sorti progressive della legalità “effettuale” è quella proposta anche da Luca Pistorelli, che richiama ad un realismo d’analisi dell’entità del fenomeno, scevro da approcci eccessivamente ideologizzati.
Dividersi in due partiti contrapposti – quello dei fautori del potere salvifico della nuova ermeneutica e del formante giurisprudenziale, rispetto alle mancanze del legislatore, e quello di coloro i quali si richiamano al principio di legalità penale formale quale unico presidio valido di un diritto penale democratico e capace di preservare garanzie ed approntare tutele – è operazione artificiosa oltre che pericolosa.
L’esegetica, invece, deve sprigionare tutte le sue potenzialità migliorative della voce legislativa attraverso una maggiore definizione delle regole dell’interpretazione.
Pistorelli auspica che sia lo stesso legislatore a provvedere all’elaborazione di strumenti ermeneutici maggiormente dotati di efficacia ordinatrice dell’attività interpretativa giurisprudenziale, oggi affidata al criterio troppo generale dell’art. 12 delle Preleggi.
E tuttavia, sia consentito per certi aspetti dubitare di una tale capacità legislativa nel breve periodo, a meno di non immaginare una task force di intelletti delegati all’opera, che, unendo le forze migliori di dottrina, giurisprudenza ed avvocatura, sopperisca alla mancanza diffusa di qualsiasi consapevolezza dell’importanza della questione da parte di chi detiene il potere di incidere sulla legalità formale.
Non è in dubbio, d’altra parte, che un simile sforzo di riorganizzazione di alcune pre-regole interpretative dotate di carattere sistematico debba essere tentato, dovendo essere valutate con estrema prudenza prospettive che paiono troppo inclini a guardare con favore un formante giurisprudenziale slegato dalla legalità formale ed a sfuggire al confronto inevitabile con il principio della riserva di legge; principio che costituisce, in filigrana, la trama di quelli di autonomia ed indipendenza della magistratura così come concepiti dal nostro dettato costituzionale: caduta la forza di garanzia democratica della riserva di legge in materia penale, si rischia di aprire le porte anche all’esigenza di modificare lo statuto primario della magistratura, al fine di dotarla di quella legittimazione .. in grado di giustificare una eventuale assunzione del formante giurisprudenziale nel sistema delle fonti, come avverte acutamente Pistorelli.
E forse un primo tentativo di rispondere a questa esigenza di stabilizzazione e sistematizzazione del formante giurisprudenziale può ritrovarsi nella disposizione introdotta con la legge n. 103 del 2017 all’interno del dettato dell’art. 618 del codice di procedura penale.
Il nuovo comma 1-bis, pur non costruendo certo una regola di precedente vincolante “puro” nel sistema processuale penale, riscontra un’esigenza di ordine nomofilattico, che opera sia sul piano, interno alla Cassazione, della moral suasion e della motivazione – ogni Sezione penale che intenda discostarsi dall’autorevole affermazione delle Sezioni Unite dovrà d’ora in poi, anzitutto, farsi carico più profondamente, ed obbligatoriamente, del confronto con le ragioni di essa e, quindi, sentirsi portatrice di un’adeguata e convincente carica argomentativa e giustificativa della possibile scelta dissonante – sia su un orizzonte di orientamento esterno, inducendo gli interpreti e i destinatari del precetto penale a confrontarsi con un’ermeneusi maggiormente affidabile e dotata di più ampi margini di prevedibilità (per un approfondimento, si richiama ancora, per tutti, il contributo di G. Fidelbo, Verso il sistema del precedente? Sezioni Unite e principio di diritto, in Dir. Pen. Cont., 29 gennaio 2018; nonché A. Caputo - G. Fidelbo, Appunti per una discussione su ruolo della Corte di cassazione e “nuova” legalità, in Sistemapenale, n. 3/2020).
Ed è proprio sul fronte della prevedibilità che si gioca la partita della tenuta convenzionale del formante giurisprudenziale, secondo gli orientamenti della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, legati a logiche di prospective overruling che stanno emergendo in tutta la loro problematica rilevanza anche nel nostro sistema penale (si vedano in proposito le illuminanti pagine di M. Donini, Il caso Contrada e la Corte Edu. La responsabilità dello Stato per la carenza di tassatività/tipicità di una legge penale retroattiva a formazione giudiziaria, in Rivista italiana di diritto e processo penale, 2016, p.346 e ss.; nonché, dello stesso Autore, Il diritto giurisprudenziale penale. Collisioni vere e apparenti con la legalità e sanzioni dell’illecito interpretativo, in AA.VV., Cassazione e legalità penale, a cura di A. Cadoppi, Roma, 2017, 77 e ss).
Una regola del precedente soft ed a vincolatività relativa quale quella che viene fuori dall’art. 618, comma 1-bis (per tale definizione e approfondimenti, si richiama G. Fidelbo, Verso il sistema del precedente?, op. cit.) può aiutare a riorganizzare la funzione nomofilattica, sotto stress per l’eccessivo carico di decisioni richieste alla Corte di cassazione.
E tale affermazione non è in discussione, per quanto sulla portata della nuova disposizione Manes e Pistorelli si dividono: a parere del primo, essa non consente di raggiungere l’obiettivo di un’apprezzabile stabilizzazione dei precedenti e rischia di inflazionare le pronunce delle Sezioni Unite, sicchè si invocano nuovi orizzonti nomofilattici che vedano coprotagonista la Corte costituzionale attraverso lo strumento delle “sentenze interpretative”; a giudizio del secondo, la norma, tutto sommato, merita una valutazione più benevola, quale strumento di razionalizzazione della funzione nomofilattica basato su un ragionevole bilanciamento tra garanzia dell'evoluzione del pensiero giuridico, capace di seguire i cambiamenti sempre più rapidi della società, e garanzia della certezza dell'interpretazione che di tali cambiamenti fornisce la Cassazione.
Sembra, in ogni caso, molto positiva l’efficacia dialogica della nuova procedura prevista per l’eventualità che una Sezione semplice intenda discostarsi da un orientamento già oggetto di scelte interpretative delle Sezioni Unite: si potrà instaurare un rapporto dialettico più proficuo, maturo e consapevole tra le sezioni semplici e il massimo collegio nomofilattico, tale da consentire l’emersione di eventuali criticità dell’orientamento “vincolante” e, d’altra parte, da evitare più possibile un confronto solo parziale o non adeguatamente meditato con il precedente più “autorevole” o, peggio ancora, fughe distoniche azzardate.
Tale ultimo effetto potrebbe consentire - certo non in tempi brevi, ma nel medio periodo - di arginare il moltiplicarsi eccessivo degli orientamenti in contrasto all’interno della giurisdizione di legittimità, che, oltre ad aumentare l’imprevedibilità delle decisione, agendo sulla percezione di instabilità del precedente dei giudici di merito, diventa esso stesso causa di ulteriori, collegati contrasti.
Un ruolo fondamentale nella ricostruzione del precedente, sia pur solo relativamente vincolante, e nella riorganizzazione della funzione nomofilattica di cui è interprete il giudice di legittimità deve essere riconosciuto, oggi più che mai, all’attività di massimazione e, dunque, all’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione.
L’archivio delle massime gestito dal CED della Corte di cassazione (Italgiure Web) dovrebbe essere diretto a supportare l’attività nomofilattica della Suprema Corte e ad offrire un quadro prospettico dell’evoluzione del pensiero giurisprudenziale, fissandone i percorsi interpretativi più attuali e consentendo di orientarsi circa il “diritto vivente”.
Manes e Pistorelli hanno entrambi invocato fortemente una razionalizzazione dell’attività di massimazione, per sostenere i nuovi orizzonti dell’ermeneutica moderna e le sue nuove sfide: la mole sempre più ingente di massime contenute nella banca dati Italgiure Web è certamente un problema nella ricerca di precedenti stabili ed autorevoli che svolgano in pieno la loro funzione di “orientamento”.
Il lavoro incessante di selezione ed elaborazione delle massime da parte dell’Ufficio del Massimario non riesce a governare l’implementazione pletorica della banca dati, dovuta all’eccessiva produzione della Corte di legittimità, effetto, a sua volta, del carico di ricorsi a dir poco anomalo cui essa deve soggiacere.
Tuttavia, è necessario chiedersi se tali prospettive siano unanimemente condivise e quali siano oggi gli obiettivi della massimazione: in che misura essa debba, da un lato, rispondere alle aspettative nomofilattiche e, dall’altro, costituire lo specchio attuale dell’evoluzione giurisprudenziale, seguendola “in tempo reale”.
Secondo ragioni in parte antitetiche a quelle appena proposte, infatti, la massima penale dovrebbe quanto più tendere a evidenziare il caso concreto di riferimento, per la forza creatrice del nesso interpretare-applicare: il significato di un testo normativo si comprende autenticamente e “si costituisce” solo in relazione al contesto applicativo, non vi è distinzione netta tra quaestio facti e quaestio iuris; nè separazione tra interpretazione in astratto e interpretazione in concreto: ogni nuovo “caso” aggiunge qualcosa alla comprensione della norma (per una ricostruzione del tema, si richiama M. Vogliotti, Lo scandalo dell’ermeneutica per la penalistica moderna, in Quaderni fiorentini, 2015, tomo I).
Dunque, ben vengano, in tale ottica, anche banche dati capillari e poderose: la banca dati non rischia nulla, infatti, dall’eccessiva implementazione, che anzi è funzionale all’obiettivo ultimo di “costruire il diritto”, seguendo i casi concreti che descrivono l’essenza della norma penale, strutturalmente “aperta” ai mutamenti sociali.
Ed invece, una visione di maggior razionalizzazione, più funzionale alle aspettative nomofilattiche, postula, probabilmente, un contenimento della massimazione per fattispecie, da limitarsi alle ipotesi realmente peculiari, utili da segnalare per frequenza e paradigmaticità: la massima penale deve fornire la percezione del diritto vivente e contenere un nucleo di astrazione necessaria del principio di diritto.
In tale prospettiva, la costruzione di un archivio troppo “sensibile” alle fattispecie concrete ostacola la ricostruzione dei principi di diritto astratti, leggibili come linea di tendenza interpretativa dall’insieme delle applicazioni normative svolte nelle decisioni giurisprudenziali.
Si tratta, come è evidente, di prospettive complesse e parzialmente antagoniste, delle quali solo negli ultimi anni si è compresa la reale importanza, individuando la posta in gioco: la tenuta stessa del principio di legalità nella sua dimensione “effettuale”, dinamica; dimensione essenziale a garantire la tutela dei diritti nell’esercizio della giurisdizione penale dei moderni sistemi democratici.
è giunto il tempo, però, di una crescita, di un’evoluzione culturale sulla questione del valore del precedente che travalichi i confini segnati dalla magistratura e dalla dottrina più attenta e colta, uscendo allo scoperto, impadronendosi del dibattito giuridico con nuova centralità: in questo ben si comprende il richiamo ad un moderno pluralismo nell’attività di elaborazione che ruota intorno alla formazione della massima giurisprudenziale.
Una consapevolezza deve guidarci: il diritto giurisprudenziale non può non rispondere all’esigenza di darsi regole interpretative quanto più possibile condivise e intellegibili, per scongiurare rischi di autoreferenzialità ed imprevedibilità che potrebbero minarne la legittimazione sociale ma soprattutto per collegare chiaramente e sempre di più i suoi obiettivi all’attuazione delle linee costituzionali.
* L'intervista prosegue il tema già trattato dalle rivista in Il giudice disobbediente nel terzo millennio e in Giudice o giudici nell’Italia post-moderna?
Decreto "antiscarcerazioni". Corte cost. n.245 del 2020: una declaratoria di infondatezza non sempre attenta alle argomentazioni dei giudici a quibus* di Franco Della Casa
La Corte costituzionale si è pronunciata negativamente sulle quaestiones sollevate da tre giudici rimettenti nei confronti dell’art. 2-bis d.l.28/2020 (convertito con l. 70/2020). Nel commento si concentra l’attenzione sulle eccezioni che assumono come parametro gli artt. 24, comma 2, 32 e 27, comma 3, Cost. Le riserve che vengono formulate riguardano soprattutto la motivazione della sentenza, che risulta non sempre adeguata rispetto alle articolate argomentazioni contenute nelle ordinanze di rimessione. Assume un valore paradigmatico quel passaggio della parte motiva in cui il giudice delle leggi esclude qualsiasi contrasto della normativa impugnata con l’art. 27, comma 3, Cost.: la risposta negativa è perentoria e non si fa carico delle molteplici sfaccettature di un problema inerente al principio del finalismo rieducativo della pena proclamato nell’art. 27, comma 3, Cost., vale a dire al principio cardine dell’esecuzione penitenziaria.
Sommario: 1. Il “dietro alle quinte” dell’art. 2-bis d.l. 28/2020 (conv. l. 70/2020). La valorizzazione delle Procure antimafia - 2. Il percorso della Corte costituzionale per conciliare il procedimento a contraddittorio posticipato di cui all’art. 2-bis d.l. 28/2020 con l’art. 24, comma 2, Cost. - 2.1. Le forzature della Consulta per illuminare la fase senza contraddittorio - 2.2. L’evocazione del procedimento previsto dall’art. 51-ter ord penit.: un esempio di gemellaggio perfetto? - 3. La negata violazione del diritto alla salute (art. 32 Cost.) – 4. La sbrigativa esclusione di un contrasto con il principio del finalismo rieducativo della pena (art. 27, comma 3, Cost.).
1. Il “dietro alle quinte” dell’art. 2-bis d.l. 28/2020 (conv. l. 70/2020). La valorizzazione delle Procure antimafia
Nella sentenza 245 del 2020 la Corte cost. ha dichiarato, in parte, infondate e, in parte, manifestamente infondate talune questioni di legittimità costituzionale inerenti ad una disposizione del c. d. decreto “antiscarcerazioni”. Ad essere sottoposto al giudizio della Corte è stato, più precisamente, l’art. 2-bis d.l. 30 aprile 2020, n. 28 (convertito con l. 25 giugno 2020, n. 70)[1]. Articolo nel quale viene stabilita un’inedita procedura di periodica verifica circa la persistente sussistenza dei presupposti che hanno indotto il tribunale o il magistrato di sorveglianza a concedere – il secondo in via provvisoria - la detenzione domiciliare regolata dall’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit. o la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva prevista dall’art. 147, comma 1, n. 2 c.p. «per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19». Va precisato che il legislatore ha circoscritto tale periodica revisione, dal punto di vista temporale, ai provvedimenti adottati dalla magistratura di sorveglianza dopo il 23 febbraio 2020 e, dal punto di vista soggettivo, a due “blocchi” soltanto di condannati[2]: da un lato, quelli puniti per taluni gravi delitti specificamente indicati (artt. 270, 270-bis e 416- bis c.p. e 74, comma 1, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309)[3], nonché i condannati per delitti commessi con metodo mafioso o per agevolare associazioni di stampo mafioso; dall’altro, i condannati sottoposti al regime carcerario differenziato di cui all’art.41-bis, comma 2, ord. penit.[4].
Ai fini di un migliore inquadramento, può non essere inopportuno concentrarsi preliminarmente su un profilo della disposizione in esame esorbitante o, comunque, non al centro della quaestio de legitimitate: in particolare, sulla valorizzazione del ruolo delle Procure – nel nostro caso il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, se si tratta di condannati sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis, comma 2, ord. penit., oppure il procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di condanna, con riferimento ai condannati per taluno dei delitti contestualmente indicati – i cui pareri, ovviamente non vincolanti, devono essere acquisiti anteriormente alla decisione della magistratura di sorveglianza (art. 2-bis, comma 1, d.l. 28/2020).
Rilevato che l’imprescindibile interlocuzione con questi organismi costituisce una costante del provvedimento appena citato, essendo stata prevista – sempre limitatamente ai responsabili di gravi delitti o ai sottoposti al regime di “carcere duro” – anche prima della decisione sulla concedibilità di un permesso c.d. di necessità (art. 2, comma 1, lett. a d.l. cit.)[5], nonché prima di quella su una richiesta di detenzione domiciliare c.d. surrogatoria o in deroga (art 2 comma 1° lett. b d.l. cit), vale forse la pena di soffermarsi sul significato dell’innovazione. Onde appurare se il coinvolgimento delle Procure persegue semplicemente un obiettivo di razionalizzazione, consistente nell’assicurare al giudice una più estesa disponibilità di conoscenze funzionali alla decisione, o se riveste, prevalentemente, un significato simbolico: quello di dimostrare a chi aveva denunciato il lassismo della magistratura di sorveglianza - accusata di avere fatto scarcerare con troppa leggerezza condannati di elevata pericolosità sociale - la sollecitudine del legislatore nel predisporre un meccanismo tale da favorire radicali ripensamenti e da accentuare, paradossalmente, la solitudine del giudice al momento della decisione. Come si è detto, ci si sta riferendo a quei condannati che, alla luce della loro pericolosità sociale, secondo una parte consistente dell’opinione pubblica – troppo spesso “colonizzata” da mezzi di informazione ignari della complessità della questione penitenziaria o/e ideologicamente prevenuti – non devono rientrare nel contesto sociale se non dopo avere espiato dentro le mura l’intera pena. In base a tale impostazione, l’internamento deve continuare pure nell’ipotesi in cui gravi (o plurime) patologie riguardino una cerchia di persone, la cui permanenza in strutture carcerarie del tutto inadeguate a scongiurare la propagazione di un’infezione virale potrebbe portare ad un loro fatalis exitus.
2. Il percorso della Corte costituzionale per conciliare il procedimento a contraddittorio posticipato di cui all’art. 2-bis d.l. 28/2020 con l’art. 24, comma 2, Cost.
Anche se non pare esserci spazio per asserire che l’obbligatoria acquisizione del parere delle Procure risulti in contrasto con un qualsiasi precetto della Costituzione, la breve perlustrazione effettuata non può essere considerata fine a sé stessa, in quanto aiuta a comprendere l’atmosfera in cui si è collocato il provvedimento normativo contenente, tra l’altro, la disposizione sospettata di illegittimità dai giudici a quibus.
Ad avviso della Corte, la censura «essenziale» dei rimettenti concerne il ritenuto contrasto con l’art. 24, comma 2, Cost. della previsione legislativa che prescrive un procedimento a contradditorio soltanto differito, da utilizzare ai fini di un’eventuale sospensione della misura extramuraria da parte dello stesso magistrato di sorveglianza che l’aveva concessa. Quest’ultimo, infatti, qualora precedentemente abbia disposto in via provvisoria (art.47-ter, comma 1-quater, ord penit. o art. 684, comma 2, c.p.p), per motivi connessi all’emergenza Covid[6], la detenzione domiciliare in surroga o il rinvio dell’esecuzione della pena a favore di un condannato affetto da gravi patologie, è tenuto a riesaminare ripetutamente e a brevi intervalli di tempo – la prima volta, entro 15 giorni dall’entrata in vigore del decreto legge, in un secondo tempo con cadenza mensile[7] – il provvedimento emesso, onde verificare se medio tempore sono venuti meno i «motivi legati all’emergenza sanitaria» che erano stati alla base dell’intervento diretto a neutralizzare il rischio di un contagio potenzialmente esiziale. Per effettuare il riesame, il magistrato procede inaudita altera parte, con un decreto motivato che – se sfavorevole al condannato - è immediatamente esecutivo: successivamente gli atti vengono trasmessi al tribunale di sorveglianza, il quale, adottando un rito rispettoso della regola del contraddittorio – il procedimento di sorveglianza (artt. 666 e 678 c.p.p.) – è tenuto a pronunciare l’ordinanza decisoria che si sostituisce al provvedimento provvisorio del giudice monocratico, e che, per impedire la sua perdita di efficacia, deve essere assunta entro trenta giorni dalla ricezione del decreto di revoca e degli atti che ne hanno giustificato l’emissione[8].
Secondo due dei giudici a quibus la normativa che introduce tale modello bifasico a contraddittorio differito contrasterebbe, come si è detto, con l’art. 24 comma 2 Cost. Per pervenire alla declaratoria di non fondatezza la Corte ha potuto contare su di un itinerario argomentativo collaudato, che infatti non esita a percorrere, ricorrendo tuttavia ad una motivazione non sempre impeccabile: sia perché caratterizzata da alcune forzature, sia perché non vengono tenuti in considerazione – o, per lo meno, in adeguata considerazione – argomenti non marginali sviluppati nelle ordinanze di rimessione.
È verosimile che al giudice costituzionale siano venute subito in mente le decisioni con cui sono state respinte, non certo da ieri, le eccezioni inerenti al contrasto con l’art. 24, comma 2, Cost. del procedimento per decreto (artt.459-464 c.p.p.), caratterizzato per l’appunto da una struttura bifasica a contraddittorio posticipato[9]: fermo restando che, pur essendo palesi le analogie con quel clichè, non era possibile ignorare le peculiarità della procedura coniata dal legislatore del 2020. Per rendersene conto, basti ricordare che il primo segmento del procedimento monitorio sfocia in un decreto motivato che può infliggere esclusivamente una sanzione pecuniaria, mentre la revoca della detenzione domiciliare o del rinvio dell’esecuzione disposta dal magistrato di sorveglianza sulla base del citato art. 2-bis d.l. 28/2000 ha un’immediata incidenza sulla libertà personale del condannato, dal momento che comporta ex se il suo rientro in carcere. Non stupisce più di tanto, quindi, che nella motivazione non si accenni minimamente alla pregressa giurisprudenza che ha ripetutamente sancito la conformità a Costituzione del procedimento per decreto, anche se è lecito sostenere che in camera di consiglio, o, quanto meno, nei retropensieri dei giudici, quel consolidato filone giurisprudenziale non sia rimasto in un cono d’ombra e sia anzi servito a fornire loro un’importante indicazione circa la più agevole rotta da seguire.
Nel costruire la motivazione della declaratoria di infondatezza, incentrata sul paragone con altri procedimenti a contraddittorio soltanto differito, lo sguardo è rimasto, quindi, nell’ambito dell’ordinamento penitenziario. È stato anzitutto richiamato l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. penit., in virtù del quale, in caso di urgenza, il magistrato di sorveglianza, verificata l’assenza del pericolo di fuga in capo al condannato, può concedergli in via provvisoria, con ordinanza adottata de plano, la detenzione domiciliare[10], allorché ritenga fondata la richiesta dell’interessato la cui posizione sia riconducibile nel perimetro di una delle previsioni dei precedenti commi dell’art. 47-ter ord. penit. Il provvedimento provvisorio deve essere poi sottoposto alla valutazione del tribunale di sorveglianza, il quale, avvalendosi del procedimento di sorveglianza, potrà concedere o rigettare in via definitiva la richiesta di detenzione domiciliare. Il richiamo è evidentemente servito ai giudici della Consulta per sostenere che nell’ordinamento penitenziario sono rinvenibili altre ipotesi in cui il contraddittorio viene garantito solo a valle di una prima fase in cui esso non ha invece diritto di cittadinanza.
Per trasparenti ragioni di connessione, la Corte avrebbe potuto, in questo passaggio della motivazione, richiamare proficuamente anche il procedimento coniato dal legislatore penitenziario del 2002 per la concessione della liberazione anticipata (art. 69-bis ord. penit.) [11]: procedimento bifasico, in cui ancora una volta il magistrato di sorveglianza, tenuto ad acquisire il parere del pubblico ministero, decide inaudita altera parte[12]. La successiva entrata in scena del tribunale di sorveglianza (art. 69-bis comma 4 ord. penit.), che provvede ai sensi dell’art. 678 c.p.p., è subordinata ad un reclamo dell’interessato o del pubblico ministero. Essendo stato previsto che il magistrato di sorveglianza raccolga preliminarmente soltanto il parere del pubblico ministero, il procedimento è ancora più simile a quello tratteggiato dall’art. 2-bis d.l. 28/2020, e - particolare non trascurabile - è regolato da una previsione che ha superato indenne il vaglio del giudice delle leggi, il quale, con l’ordinanza 352/2003[13], ha riconosciuto tra l’altro «la piena compatibilità con il diritto di difesa di modelli processuali a contraddittorio eventuale e differito»[14].
Ci sono però delle importanti differenze tra le situazioni a cui si riferiscono sia l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. penit., sia l’art. 69-bis ord. penit. e quella sottoposta in questa circostanza all’esame della Corte. Una è macroscopica: nelle prime si discute della eventuale concessione al condannato di un beneficio, diversamente da quanto accade nell’ipotesi considerata nell’art. 2-bis d.l. 28/2020 inerente alla revoca, sia pure provvisoria ma con efficacia immediata, di una misura extracarceraria. Non solo: in entrambi i casi utilizzati come termine di raffronto, alla base della pronuncia del magistrato di sorveglianza si colloca un’iniziativa del condannato, posto in grado di interloquire, sia pure embrionalmente, col giudice attraverso la specificazione del petitum, nonché dei motivi sui quali è fondata la sua richiesta. Questa circostanza non è irrilevante ed è stata sottolineata dalla stessa Corte nella già citata ordinanza del 2003, nella quale, per avvalorare la sua declaratoria di manifesta infondatezza, ha affermato che il magistrato di sorveglianza viene chiamato a decidere su un’istanza «proposta dalla stessa parte del cui diritto di difesa si discute».
L’osservazione può essere ritenuta condivisibile: infatti, se si valorizza il dato relativo alla genesi del procedimento, sembra difficile negare che l’inconveniente dell’ignoranza da parte del condannato del contenuto della documentazione acquisita ex officio e della conseguente impossibilità di opporre calibrate controdeduzioni si attenui qualora sia lui stesso, con la sua iniziativa, a sollecitare il provvedimento giudiziale.
2.1. Le forzature della Consulta per illuminare la fase senza contraddittorio
La Corte costituzionale non si limita però ad affermare che l’art. 2-bis d.l. 28/2020 presenta delle analogie – come si è visto, imperfette – con l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. penit., ma invoca anche (e sopra tutto) l’art. 51-ter, comma 2, ord. penit., concernente la sospensione ex officio, sia pure provvisoria, di una misura alternativa da parte del magistrato di sorveglianza, che procedendo de plano interviene allorché il beneficiario di una di esse «pone in essere comportamenti suscettibili di determinare la revoca». Sospensione che in un secondo tempo, deve essere ratificata - entro il termine di trenta giorni dalla ricezione degli atti, a pena della perdita di efficacia del decreto sospensivo - dal tribunale di sorveglianza, tenuto a procedere con il rito di cui all’art. 678 c.p.p. Ad avviso del giudice costituzionale, in questo caso i connotati delle due entità sottoposte a confronto sono identici e quindi il discorso può ritenersi chiuso, anche in considerazione del fatto che l’art. 51-ter ord. penit. non è mai stato oggetto di alcun incidente di legittimità costituzionale.
Prima di esaminare più approfonditamente questa argomentazione, vale la pena di svolgere qualche osservazione sul suo ricorso ad alcune affermazioni che sembrano testimoniare un certo disagio nel ricalcare sic et simpliciter il tradizionale orientamento giurisprudenziale, propenso a ritenere che la previsione dell’udienza caratterizzata dal contraddittorio tra le parti è un dato sufficiente a fugare ogni dubbio di legittimità costituzionale. Si vuole alludere al tentativo di dimostrare che anche nella fase che ha come protagonista il magistrato di sorveglianza, sono rinvenibili garanzie idonee ad impedire una totale negazione del diritto di difesa del condannato.
In quest’ottica va letta, anzi tutto, la valorizzazione dell’art. 121 c.p.p., il quale consente all’imputato – ma la regola può essere pacificamente estesa al condannato, visto che in tale articolo si afferma la sua applicabilità «in ogni stato e grado del procedimento» - di presentare, senza alcuna limitazione, memorie al giudice. Affermazione, quest’ultima, ineccepibile, ma bisognevole di alcune precisazioni: dato che nel nostro caso il procedimento viene avviato ex officio, le eventuali memorie sono necessariamente redatte “al buio”, con scarse probabilità di essere ben calibrate rispetto agli elementi negativi risultanti dalla documentazione in possesso del giudice. Anzi, pur senza dimenticare che la procedura di verifica demandata al magistrato di sorveglianza deve avere luogo a scadenze prefissate (e, quindi, non difficili da prevedere), gli interessati – o, per lo meno, taluni di essi - potrebbero addirittura ignorare che il medesimo si sta attivando per un’eventuale revoca della misura di cui stanno usufruendo e non avvertire quindi l’esigenza di presentare memorie[15]. La fragilità del rimedio difensivo incarnato dalle memorie può essere, inoltre, desunta dal più recente orientamento della Corte di cassazione, secondo la quale l’omessa valutazione da parte del giudice di una memoria difensiva non determina alcuna nullità[16].
Che la Corte costituzionale indulga a forzature nel tentativo di dipingere il primo segmento della procedura tratteggiata dal legislatore del 2020 a tinte più rosee di quelle che sono nella realtà emerge, d’altronde, ancora più nitidamente da quella parte della motivazione nella quale viene contraddetta la denuncia – formulata dai giudici di sorveglianza di Sassari e di Avellino – di una “ipotutela” del diritto alla salute del condannato: ipotutela desumibile, secondo i rimettenti, dalla circostanza che, da un lato, è prescritta l’acquisizione di una pluralità di pareri e di informazioni (delle Procure, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, del Presidente della giunta regionale)[17], mentre, dall’altro, si glissa totalmente sull’acquisizione di una documentazione concernente lo stato di salute del condannato.
La Corte costituzionale obietta che nulla vieta al magistrato di sorveglianza di attivarsi per una acquisizione motu proprio, ma anziché limitarsi a questa sola constatazione si spinge più in là, aggiungendo che, in ogni caso, il giudice procedente può disporre, qualora lo ritenga necessario, anche una perizia sullo stato di salute del condannato, ai sensi dell’art. 185 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale: il quale stabilisce che nella «udienza» del procedimento di esecuzione possono essere assunte prove, tra cui la perizia, «senza particolari formalità». Se circa la possibilità di applicare questa disposizione nel procedimento di sorveglianza non ci possono essere dubbi[18], è invece un’affermazione molto azzardata, contraddetta dal dato normativo e dalla dottrina[19], sostenere che ad essa si possa ricorrere nella fase antecedente alla celebrazione dell’udienza caratterizzata dal contraddittorio delle parti. Tant’è vero che, nel commentare il suddetto art. 185, la dottrina affronta tematiche quali l’ipotetico ricorso all’esame incrociato, nonché, con riferimento alla testimonianza, l’obbligo di attenersi alla regola delle domande specifiche su singoli fatti, imposta dall’art. 499 comma 1 c.p.p.: tematiche, che presuppongono inequivocabilmente un contesto procedimentale caratterizzato dal contraddittorio.
2.2. L’evocazione del procedimento previsto dall’art. 51-ter ord penit.: un esempio di gemellaggio perfetto?
Le ombre che si sono evidenziate non sono certo idonee a riverberarsi sul dispositivo della sentenza 245 del 2020, ma si prestano – lo si è detto - ad essere lette come un indizio circa il disagio della Corte costituzionale nell’adeguarsi alla tesi secondo cui la semplice posticipazione di determinate garanzie di carattere processuale vale a compensare il deficit delle stesse in una precedente fase del procedimento.
Ma che dire dell’argomento principale della motivazione, cioè del sillogismo in base al quale, essendo il procedimento bifasico di cui all’art.2-bis d.l. 28/2020 strutturato in termini identici a quello disciplinato dall’art. 51-ter ord. penit., e non essendo quest’ultima disposizione mai stata sfiorata da dubbi di legittimità costituzionale, è logico concludere - relativamente a questo profilo - per l’infondatezza della quaestio de legitimitate sottoposta al suo esame?
Anche in questo caso sembra esserci spazio per alcuni rilievi critici, che possono essere in larga misura ricondotti agli argomenti sviluppati dal magistrato di sorveglianza di Spoleto nella sua ordinanza di rimessione
Anzitutto non si può non rilevare che il dettato dell’art.51-ter ord.penit. presenta talune significative diversità rispetto a quello dell’articolo sottoposto all’esame della Corte. Infatti è pur vero che prima di pronunciare il decreto motivato con cui sospende ex officio l’esecuzione della misura alternativa il magistrato di sorveglianza non entra - et pur cause[20] - in contatto col condannato, ma è altrettanto vero che non ha nessun tipo di interlocuzione neppure col pubblico ministero. Quindi la parità delle parti viene, sia pure al ribasso, garantita.
Inoltre, nel caso dell’art. 2-bis d.l. 28/2020, il magistrato di sorveglianza, se è orientato nel senso di ritenere non più sussistenti i motivi di concessione della misura riconducibili all’emergenza sanitaria, verso la revoca provvisoria della misura extramuraria, non ha di fronte a sé un’alternativa, essendo obbligato a disporre – in esito a quel procedimento larvale di cui si è detto – la revoca della medesima con un provvedimento che ha come effetto quello di fare rientrare subito in carcere il condannato. Invece nell’ipotesi prevista dall’ art.51-ter ord. penit. l’alternativa esiste, essendo consentito al giudice monocratico di trasmettere gli atti al tribunale di sorveglianza dopo avere sospeso l’esecuzione della misura extramuraria in corso oppure di farlo, prescindendo da tale sospensione. Il particolare non è di secondaria importanza specie se, con riferimento all’art.2-bis d.l. 28/2020, ci si concentra sull’ipotesi di una mancata ratifica del provvedimento provvisorio da parte del tribunale di sorveglianza. In tal caso il condannato si trova sottoposto ad una specie di doccia scozzese – traduzione e permanenza in carcere/successivo rientro nell’area esterna – che non può non avere negative ripercussioni sulla continuità-omogeneità del suo trattamento sanitario e, quindi, sulla sua salute. Al contrario, sulla base di una presunzione non azzardata, l’attentato ad un bene di tale importanza, cioè la salute, non concerne, nella normalità delle ipotesi, il condannato sottoposto ex art. 51-ter ord. penit. all’eventuale sospensione cautelativa. Eppure, nei suoi confronti, il legislatore detta una disciplina meno rigida.
Muovendo da questa premessa, viene da chiedersi se la Corte costituzionale non avrebbe potuto, quanto meno, rilevare l’irragionevolezza di una simile differenziazione e dichiarare l’incostituzionalità della disposizione devoluta al suo esame nella parte in cui non offre al magistrato di sorveglianza – privo di quel sapere non frammentato che solo il contraddittorio è in grado di fornire – la possibilità di optare per una subordinata meno draconiana rispetto all’immediata riconduzione in carcere del condannato.
Continuando a ragionare su eventuali violazioni dell’art. 3 Cost. ad opera della normativa del 2020, suscita invece talune perplessità l’opinione di uno dei rimettenti, propenso a ravvisare la violazione del principio di uguaglianza per effetto della regola che consente la devoluzione immediata del giudizio di revoca al tribunale di sorveglianza – anziché all’omonimo magistrato – nell’ipotesi in cui sia stato il primo ad emettere l’ordinanza concedente la misura extramuraria: tra i molti esempi possibili, ci si può rifare al caso in cui la richiesta del condannato, rigettata del giudice monocratico, venga successivamente accolta dal tribunale di sorveglianza. È pur vero che la competenza, in prima battuta, dell’uno o dell’altro giudice finisce per essere del tutto casuale, però non è semplice dimostrare che il diritto di difesa sia vulnerato in misura costituzionalmente rilevante a seconda che il giudice collegiale decida per primo oppure si pronunci solo dopo la pronuncia provvisoria del magistrato monocratico.
3. La negata violazione del diritto alla salute (art. 32 Cost.)
La seconda eccezione affrontata nella sentenza 245/2020 è quella riguardante la lamentata violazione del diritto alla salute del condannato (art. 32 Cost.). I principali argomenti dei giudici a quibus sono i seguenti: anzitutto, la normativa impugnata pone in primo piano, non già le esigenze della salute del condannato, ma quella della sicurezza collettiva, come è desumibile dalla prescritta reiterazione nel tempo delle frequenti verifiche da parte del magistrato sorveglianza, che testimoniano un favor - anzi un’implicita sollecitazione - del legislatore verso una pronuncia di revoca della misura extracarceraria. Si colloca in questo contesto, a mo’ di conferma, la già ricordata denuncia delle scarse garanzie offerte al condannato nel segmento processuale che si svolge dinanzi al giudice monocratico. In secondo luogo, la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, co. 1-quater, ord. penit. si esegue con modalità tali – ossia è caratterizzata da un così spiccato connotato contenitivo – da non porre in pericolo la sicurezza collettiva.
La Corte costituzionale replica a queste argomentazioni contestando che le periodiche revisioni imposte al magistrato di sorveglianza mirino ad indurre il giudice alla revoca di un provvedimento già concesso, perché esse, in realtà, sono dirette a verificare «la perdurante attualità del bilanciamento tra le imprescindibili esigenze di salvaguardia della salute del detenuto e le altrettanto pressanti ragioni di tutela della sicurezza pubblica»[21]. Non bisogna inoltre dimenticare – aggiunge la Corte – che, essendo stata la scarcerazione, a suo tempo, disposta per carenze di carattere oggettivo (riconducibili ad un’inidoneità dell’apparato carcerario a tutelare il condannato dagli effetti della pandemia), una volta che si siano realizzate le condizioni per ovviare a tale mancata tutela, viene meno l’unico elemento da prendere in considerazione ai fini della concessione della misura extramuraria. Non solo: secondo il giudice costituzionale il contrasto tra la disposizione sottoposta al suo esame e l’art. 32 Cost. sarebbe smentito dalla lettera della legge, la quale consente che venga disposto il rientro in carcere del condannato solo qualora sia documentata la «disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute dell’interessato».
Anche a questo proposito non manca lo spazio per qualche notazione a margine. Ci si riferisce, in particolare, all’affermazione della Corte relativa all’indiscussa necessità di un persistente bilanciamento tra esigenze della salute e quelle di sicurezza della collettività. In linea di massima tale affermazione può essere condivisa, fermo restando che l’eccessiva frequenza con cui la verifica di tale bilanciamento è stata stabilita dal legislatore del 2020 obbedisce in primis a ragioni diverse dalla sua volontà di mantenere in equilibrio i due piatti della bilancia a cui si riferisce il giudice costituzionale Infatti non si può dimenticare quello che è stato il vero connotato genetico della disposizione in esame, elaborata per placare l’allarme sociale di un’opinione pubblica spaventata per la scarcerazione di pericolosi boss mafiosi – così, secondo la vulgata – e pervasa da una forte animosità nei confronti non solo della “generosa” magistratura di sorveglianza, ma anche nei confronti di un legislatore ritenuto troppo permissivo[22]. Il quale si è prontamente adoperato affinché il j’accuse del “fuori tutti” potesse essere sostituito nell’immaginario collettivo da uno slogan di segno contrario.
Tenendo presente tutto ciò, sembra difficile negare che per il modo in cui è articolata la risposta della Corte costituzionale, nel punto in cui si limita ad affermare sic et simpliciter che le ripetute verifiche imposte al magistrato di sorveglianza mirano ad impedire uno sbilanciamento tra le esigenze della salute e quelle della sicurezza, non sia pienamente soddisfacente. Le sarebbe bastato un conciso riferimento al fatto che lo stabilire la frequenza delle verifiche rientra nella discrezionalità del legislatore per allontanare l’impressione di un suo acritico appiattimento su una regola trasparentemente anomala.
Qualche perplessità può suscitare anche il troppo meccanico ragionamento secondo cui non c’è niente da eccepire se il legislatore, in mancanza di un’idonea allocazione nella struttura penitenziaria del condannato seriamente malato, ha fatto prevalere, in un primo momento, le esigenze della sua salute sulla sicurezza collettiva e ha privilegiato, in un secondo tempo, queste ultime, una volta accertata la sopravvenuta disponibilità di un’adeguata allocazione del medesimo. Affermare, come fa il giudice delle leggi, che se così non fosse stato stabilito si sarebbe arrecato – per definizione – un ingiustificato vulnus alle esigenze della sicurezza collettiva significa escludere a priori qualsiasi rilevanza del periodo trascorso all’esterno del carcere dal condannato. La cui pericolosità sociale potrebbe essersi nel frattempo ridimensionata e risultare quindi tale da non richiedere limitazioni della sua libertà personale più intense di quelle che comporta la detenzione domiciliare surrogatoria (art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit.).
Per quanto concerne il merito della risposta negativa che è stata fornita, la Corte costituzionale è rimasta nel solco della sua precedente giurisprudenza. Per rendersene conto, può essere sufficiente richiamare un paio di passaggi della sentenza n. 70 del 1994[23], in cui è stata scrutinata la normativa in tema di condannati affetti da infezione HIV[24], nei confronti dei quali il legislatore, per impedire la diffusione del virus all’interno delle carceri, aveva stabilito il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena. Nella motivazione di tale sentenza la Corte ha affermato che «l'alternativa tra immediata esecuzione della pena detentiva o la sua temporanea "inesigibilità" a causa di condizioni di salute [del condannato] non comporta soluzioni a "rime obbligate" sul piano costituzionale, dovendosi necessariamente ammettere spazi di valutazione normativa che ben possono contemperare l'obbligatorietà della pena con le specifiche situazioni di chi vi deve essere sottoposto»[25]. E ha successivamente aggiunto che il controllo del giudice costituzionale deve essere finalizzato soltanto a «verificare se la disposizione, che il legislatore ha ritenuto di dettare integri [….] una ipotesi di eccesso di potere normativo, tale da porsi in palese contrasto con i principii costituzionali che il giudice rimettente ritiene esser stati violati»[26]. È indubbio che le puntuali indicazioni desumibili da tale precedente abbiano costituito la premessa della conclusione a cui è pervenuta la Corte nella sentenza 245/2000, anche se a causa della stringatezza delle sue argomentazioni, di esse non si ritrova alcuna traccia.
4. La sbrigativa esclusione di un contrasto con il principio del finalismo rieducativo della pena (art. 27, comma 3, Cost.)
La parte più insoddisfacente della sentenza in esame è quella in cui viene liquidata in pochissime righe la quaestio de legitimitate concernente la normativa devoluta all’esame della Consulta con riferimento al principio del finalismo rieducativo della pena di cui all’art. 27, comma 3, Cost. Una censura ritenuta manifestamente infondata, in quanto – si afferma - basata su un parametro «inconferente», dato che la detenzione domiciliare in surroga (art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit.) e il differimento facoltativo della pena (art. 147 c. p.) non sono funzionali alla rieducazione del condannato, bensì in via esclusiva alla tutela della sua salute.
Anzitutto vale la pena di fare presente che mentre sin qui, come si è visto, le risposte fornite nella sentenza 245/2000 sono risultate in sintonia con i precedenti orientamenti della giurisprudenza costituzionale, in questo caso non è così. Si vuole alludere in particolare al passaggio di una precedente pronuncia in cui il giudice delle leggi ha espresso un orientamento contrario rispetto all’odierna presa di posizione in tema di art. 27, comma 3, Cost. Si tratta per l’esattezza della già citata sentenza 70/1994 – inerente, come si è detto, alla sospensione obbligatoria dell’esecuzione della pena a favore dei condannati colpiti da infezione da HIV – nella quale si è affermato che non bisogna assegnare, in via esclusiva, alla fase esecutiva funzione di prevenzione generale e di difesa sociale, perché, così facendo, si oblitererebbe quella «eminente finalità rieducativa»[27] ad essa riconosciuta, in particolare, dalla sentenza 313/1990[28]. Ma non è tutto: infatti, contestualmente, non si è mancato di sottolineare che tale finalità sicuramente caratterizza anche l’istituto del rinvio dell’esecuzione della pena.
Che dire di questa impostazione? Nei termini in cui è espresso nella sentenza 70/1994, il ragionamento della Corte non è condivisibile, perché il rinvio dell’esecuzione della pena ex artt. 146 e 147 c.p. significa, com’è facile arguire, che non c’è più una fase esecutiva in corso – tant’è vero che la libertà personale del condannato non è in alcun modo compressa[29] – per cui, senza ombra di dubbio, ci si colloca fuori dal perimetro applicativo dell’art. 27, comma 3, Cost.
Trattandosi di detenzione domiciliare in surroga, il discorso deve invece assumere cadenze diverse: infatti, considerato che tale misura non interrompe l’iter esecutivo, qualora si interpreti latamente la sentenza costituzionale 313/90 e si coltivi, quindi, l’idea che il principio del finalismo rieducativo permei di sé capillarmente la fase esecutiva, si potrebbe in teoria sostenere che anche la detenzione in surroga non è estranea all’ambito di operatività dell’art. 27, comma 3, Cost. Senonché, sebbene suggestiva, la tesi di una pervasiva incidenza in executivis del fondamentale principio della rieducazione suscita fondati dubbi circa la sua compatibilità con talune disposizioni della legge penitenziaria: aderendo ad essa, si dovrebbe, per esempio, riconoscere una valenza rieducativa anche ai brevi ed eccezionali permessi di uscita di cui all’art.30 ord. penit. Il che pare difficilmente sostenibile.
Sempre con riferimento alla detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit., va aggiunto però che il dubbio appena superato può riproporsi qualora si correli questa disposizione con l’art.54 comma, 1 ord. penit., il quale stabilisce – senza alcuna distinzione fra le diverse species di detenzione domiciliare – che le riduzioni di pena previste dall’articolo in questione, siano concesse, sussistendone i presupposti, anche al condannato che stia espiando la pena nella sua abitazione o in un altro dei luoghi indicati nell’art. 47-ter, comma 1, ord. penit. Ma allora, se si riflette sul fatto che il presupposto per la concessione della liberazione anticipata è quello della «partecipazione all’opera di rieducazione», bisogna riconoscere, con la consapevolezza della non risolutiva robustezza di questa argomentazione, che non è così pacifica - come mostra di ritenere la Corte costituzionale – la conclusione secondo cui la custodia domestica disciplinata dall’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit. e la categoria della rieducazione ruotino indiscutibilmente su orbite separate. La cautela della Consulta avrebbe dovuto essere maggiore anche in considerazione del fatto che la Suprema corte ha non occasionalmente asserito che la detenzione domiciliare di cui ci si sta occupando «al pari delle altre misure alternative alla detenzione, ha come finalità il reinserimento sociale del condannato»[30].
Tutto questo premesso, si deve però riconoscere fondata la tesi, sostenuta – pressoché unanimemente - dalla dottrina[31], che riconduce la ragion d’essere della detenzione domiciliare in surroga all’esigenza di non disumanizzare l’espiazione della pena, e che esclude qualsiasi interferenza dell’art. 27, comma 3, Cost. con tale misura..
Non si può tuttavia fare a meno di sottolineare che il quesito proposto dai giudici a quibus implicava non già una risposta che si limitasse ad una telegrafica ricognizione della natura giuridica delle due misure extramurarie in discussione, ma che considerasse l’interrogativo sulla denunciata lesione della finalità rieducativa della pena nel contesto del meccanismo messo a punto dal d.l. 28/2020. Un meccanismo che comporta il rientro del condannato in carcere, quando viene riscontrata in un istituto la disponibilità di posti sanitariamente idonei. Non già tuttavia – se non del tutto casualmente – nel carcere dove costui stava espiando la pena, il quale dovrebbe coincidere col carcere più vicino alla sua residenza o a quella della famiglia, in conformità ai criteri forniti dagli artt. 14 comma 1 e 42 comma 2 ord. penit., bensì in un carcere dovunque ubicato[32], purché in grado di soddisfare l’esigenza di una collocazione adeguata dal punto di vista della protezione dal virus.
Anche a volere ipotizzare che il carcere di “vecchia” assegnazione non fosse quello individuato sulla scorta dei criteri dettati dal legislatore penitenziario, è difficile sostenere che - a prescindere dai condannati sottoposti al regime di cui all’art.41-bis ord. penit., per i quali l’esecuzione della pena è governata da regole tutt’affatto particolari – il passaggio ad una diversa struttura carceraria, scelta esclusivamente sulla base del parametro fornito dall’art. 2-bis d.l. 28/2020, non incida negativamente sul percorso trattamentale del condannato e, quindi, sul suo processo di reinserimento sociale.
Pochi esempi, tra i molti disponibili, sono sufficienti ad avvalorare questo assunto. Si pensi al condannato che stava seguendo un corso scolastico o di addestramento professionale che non abbiano equivalenti nell’istituto di nuova destinazione; o al tempo che deve trascorrere prima che i componenti del gruppo di osservazione-trattamento acquisiscano una conoscenza non solo cartacea del nuovo arrivato, e siano quindi in grado di porre le premesse necessarie per l’avvio di un trattamento individualizzato, difficilmente coincidente, peraltro, con quello attuato nella precedente struttura. Quanto poi alla diversa ipotesi in cui il condannato fosse stato anteriormente ristretto in un carcere rispondente al criterio di territorializzazione della pena, che costituisce il caposaldo di ogni percorso trattamentale, le ripercussioni negative del ricominciamento sarebbero intuibilmente ancora più gravi.
Sembra quindi che sia concesso salire di tono rispetto alle critiche formulate relativamente ad altri profili della sentenza. Anche se la Corte – contrariamente a quanto qui si sostiene – avesse ritenuto di dovere escludere il contrasto della normativa impugnata con l’art.27, comma 3, Cost., non avrebbe dovuto essere tanto laconica. Più precisamente: non avrebbe dovuto dedicare al denunciato contrasto solo tre righe della motivazione.
* Ndr Sulla sentenza della Corte costituzionale in commento leggi anche La Consulta conferma la legittimità costituzionale della normativa emergenziale in materia penitenziaria (nota alla sentenza della Corte Cost. n. 245/20) di Stefano Tocci
[1] Nel testo ci si riferirà sempre all’art.2-bis d.l. 30 aprile 2020, n. 28 convertito con l. 25 giugno 2020, n.70. Vale la pena di precisare che una disposizione di analogo contenuto figurava nel d.l. 10 maggio 2020, n. 29 (art. 2). Tuttavia, in sede di conversione del d.l. 28/2020, il d.l.29/2020 è stato abrogato e il suo contenuto è transitato nella l. 70/200. Sull’art. 2 d.l. 29/2020, v., tra gli atri, M. Gialuz, Il d.l. antiscarcerazioni alla Consulta: c’è spazio per rimediare ai profili di illegittimità costituzionale in sede di conversione, in sistemapenale.it, 5 giugno 2020; F. Gianfilippi, La rivalutazione delle detenzioni domiciliari per gli appartenenti alla criminalità organizzata, la magistratura di sorveglianza e il corpo dei condannati nel d.l. 10 maggio 2020 n. 29, in Giustizia Insieme, 12 maggio 2020;
[2] Nel comma 1 dell’art. 2-bis d.l. 28/2020 si fa riferimento non solo ai condannati, ma anche agli internati. Si tratta di una delle ricorrenti sviste del legislatore, dal momento che l’internato non può beneficiare né del rinvio della esecuzione della pena detentiva, né della detenzione domiciliare in surroga.
[3] Gli articoli menzionati si riferiscono ai seguenti delitti: associazione sovversiva (art. 270 c.p.), associazione con finalità di terrorismo (art. 270-bis c.p.), associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.), associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309), delitti commessi con metodo mafioso o per agevolare l’associazione mafiosa, delitti commessi con finalità di terrorismo, in base alla definizione di cui all’art. 270-sexies c.p..
[4] Vale a dire i condannati per un delitto di cui al primo periodo dell’art.4-bis, comma 1, ord. penit., nei confronti dei quali «vi siano elementi tali da fare ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva».
[5] Sul punto, cfr., volendo, F. Della Casa, L’intervento del d.l. 28/2020 sull’istruttoria dei permessi di necessità: un innesto sine causa e fuori asse rispetto al divieto di detenzione inumana, in sistema penale.it, 9 luglio 2020.
[6] Per quanto concerne la fonte che ha ricollegato la concessione delle misure extramurarie all’emergenza COVID, v. in particolare, il d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (decreto “Cura Italia”), convertito con l. 24aprile 2020, n. 27; Per un’analisi di tale provvedimento, v., M. Ruaro, Le disposizioni relative all’esecuzione penale del d.l. “cura Italia”, in Cass. pen, 2020, p.2185 ss.; M. Peraldo, Licenze, permessi e detenzione domiciliare "straordinari": il decreto "ristori" (d.l. 28 ottobre 2020, n. 137) e le misure eccezionali in materia di esecuzione penitenziaria, in sistemapenale.it,, 16 novembre 2020.
[7] Da non sottovalutare il fatto che i brevi intervalli temporali stabiliti nel comma 1 dell’art. 2-bis d.l. 28/2020 possono essere, in concreto, spazzati via grazie alla previsione, contenuta nel medesimo comma 1, in base alla quale la valutazione del magistrato di sorveglianza deve essere effettuata «immediatamente», nel caso in cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunichi la disponibilità di strutture adeguate alle condizioni di salute del condannato.
[8] Il termine perentorio di trenta giorni è stato inserito in sede di conversione del d.l. 28/2020 e corrisponde ad un auspicio formulato dalla dottrina: v., in particolare, M. Gialuz, Il d.l. antiscarcerazioni alla Consulta: c’è spazio per rimediare ai profili di illegittimità costituzionale in sede di conversione, in sistema penale.it, 5 giugno 2020, p. 11.
[9] Con riferimento alle pronunce più recenti, cfr., per la declaratoria di manifesta infondatezza, Corte cost. (ord.), 18 luglio 2003, n.257; Corte cost. (ord.) 15 gennaio 2003, n. 8.
[10] È il comma 4 dell’art. 47 ord. penit., in tema di affidamento in prova al servizio sociale, la norma “madre” che disciplina la concessione in via di urgenza delle misure alternative alla detenzione: ad essa si rifanno sia l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. penit. per quanto concerne la detenzione domiciliare, sia l’art. 50, comma 6 (ult. periodo), ord. penit., relativo alla semilibertà. Per quanto concerne invece il rinvio dell’esecuzione delle pene detentive (nonché delle sanzioni sostitutive) e il relativo intervento in via provvisoria del magistrato di sorveglianza, bisogna fare capo all’art. 684, comma 2, c.p.p. Circa l’affermazione che non è ricorribile per cassazione il provvedimento con cui il magistrato di sorveglianza rigetta la richiesta di concessione della detenzione domiciliare in via provvisoria, dato che si tratta di provvedimento interinale, cfr. Cass. 21 giugno 2007, Missarelli, in CED 236879-01.
[11] Si tratta della l. 19 dicembre 2002, n. 277. Anteriormente a tale provvedimento sia per la concessione, sia per la revoca della liberazione anticipata era competente il tribunale di sorveglianza, il quale procedeva col rito di cui agli artt.666 e 678 c.p.p.
[12] Per tale raffronto, cfr. Mag. sorv. Spoleto 18 agosto 2020, in sistemapenale.it, 23 settembre 2020.
[13] Vale la pena di evidenziare altresì che, mentre nel procedimento per decreto il giudizio caratterizzato dal contraddittorio è eventuale, nel caso della procedura coniata dal legislatore del 2020 la seconda fase si instaura automaticamente, così che si può parlare di un procedimento connotato da un contraddittorio necessario.
[14] Cfr. Corte cost. (ord.), 5 dicembre 2003, n. 352. Per un commento, cfr. E. Esposito, Ordinamento penitenziario e liberazione anticipata, in Giur. cost., 2003, p.3659; A. Pulvirenti, Dal “giusto” processo alla “giusta pena”, Torino, 2008, p. 283 ss.
[15] Questo limite si accentua, ovviamente, nell’ipotesi in cui, ai fini della revoca provvisoria, il magistrato di sorveglianza si attivi «immediatamente». V. supra, nota 8.
[16] Cfr. Cass. 24 giugno 2020, Cilio, in CED 279578-01; Cass. 8 maggio 2019, Capezzuto, in CED 276199-03; Cass., 16 marzo 2018, Tropea e altri, in CED 272542.
[17] L’acquisizione del parere del Presidente della giunta regionale, che a prima vista potrebbe sembrare incongruente, va ricollegata all’esigenza di un chiarimento circa la situazione epidemiologica sussistente nel territorio in cui si trova il carcere da prendere in considerazione per la nuova allocazione.
[18] In proposito, cfr. M. Ruaro, La magistratura di sorveglianza, Milano, 2009, p. 401.
[19] G. Rossetto, sub art.185 disp. att. e coord., in Commentario al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, Normativa complementare, vol. I, Torino, 1992, p.692 ss.
[20] L’art. 51-ter ord.penit. prevede che il magistrato di sorveglianza emetta un decreto motivato che può comportare, in caso di periculum in mora, il rientro in carcere del condannato. Di qui l’esigenza di non compromettere l’effetto sorpresa, sacrificando il quale l’interessato sarebbe messo in condizione di sottrarsi all’esecuzione della pena detentiva.
[21] Cfr. § 9.2 del considerato in diritto.
[22] Sull’importante tematica, v., diffusamente, G. Fiandaca, Scarcerazioni per motivi di salute, lotta alla mafia e opinione pubblica, in sistemapenale.it ,19 maggio 2020, spec. p. 2.
[23] Corte cost. 3 marzo 1994, n. 70. Relativamente a questa sentenza, v. C. Fiorio, Libertà personale e dritto alla salute, Padova, 2002, p.141 ss. nonché E. Fassone, Corte costituzionale e AIDS: una conclusione infelice ma inevitabile, in Legislazione pen., 1996, p. 282; A. Margara, Normativa per i detenuti malati di AIDS: è per morire o per vivere?, in Quest. giust., 1995, p. 135.
[24] Ci si riferisce al d.l. 14 maggio 1993, n. 139 (conv. l. 14 luglio 1993, n. 222) e, più precisamente, all’art. 4, grazie al quale è stata disciplinata nell’art. 146, comma 1, c.p. una nuova ipotesi di rinvio obbligatorio di esecuzione della pena, concernente la «persona affetta da infezione da HIV nei casi di incompatibilità con lo stato di detenzione ai sensi dell'articolo 286- bis, comma 1, del codice di procedura penale».
[25] Corte cost n. 70/1994, § 4 del considerato in diritto.
[26] ibidem
[27] ibidem
[28] Corte cost. 2 luglio 1990, n. 313, nella quale si afferma che il principio della rieducazione di cui all’art. 27, comma 3, Cost. deve permeare la pena ed essere rispettato a partire da «quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue» (§ 4 del considerato in diritto).
[29] Nel senso che al tribunale di sorveglianza non è consentito disporre una qualsiasi prescrizione all’atto della concessione del rinvio dell’esecuzione della pena, cfr. Cass. 9 novembre 1992, Molé, in CED n.192410; Cass. 27 novembre 1991, Alanpiù, in CED n. 189030-01.
[30] Così, Cass. 27 maggio 2008, Nunnari, in CED n. 240867-01; conf. Cass. 12 giugno 2000, Sibio, in CED 216912-01.
[31] Cfr. M. Canepa - S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, IXa, ed,, Milano,2010, p. 320; C.E.Paliero, Commento all’art.4 l. 27 maggio 1998, n. 165, in Legislazione pen., 1998, 821; A. Pulvirenti, Le misure alternative alla detenzione, in P. Corso, Manuale della esecuzione penitenziaria, VIIa ed., Milano, 2019, p.324 conf. Cass.7 dicembre 1999, Saraco, in CED . 215203-01.
[32] Per un esempio, cfr. Cass. 20 novembre 2020, Furnari, massima n. 35772, dalla cui motivazione emerge che, in occasione del procedimento per la revoca della detenzione domiciliare nei confronti di un condannato precedentemente detenuto nella casa circondariale di Nuoro, è stata indicata dall’amministrazione penitenziaria, come carcere scelto per l’ulteriore fase di esecuzione della pena, la casa circondariale di Catanzaro.
La banalizzazione della pena di morte nel tramonto dell’era Trump ed il caso di Lisa Montgomery
di Paolo Passaglia*
Sommario: 1. Sei mesi di esecuzioni - 2. Un caso forse più drammatico di altri - 3. «La più politica delle pene» - 4. Il «dopo Trump»: un nuovo slancio per l’abolizionismo?
1. Sei mesi di esecuzioni
Il turbolento tramonto dell’era Trump, che l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio ha fatto piombare direttamente nella notte fonda, sta portando con sé, insieme con una serie di forzature, tentate e sovente realizzate, alla Costituzione statunitense, anche un rigurgito relativo alla pena di morte. Un rigurgito che, preannunciato da tempo (tutto ebbe inizio con … un tweet presidenziale dell’agosto 2019: https://twitter.com/realdonaldtrump/status/1158424951503884292?lang=en), ha assunto, come temuto, caratteri preoccupanti, per ampiezza e per crudeltà.
La pena di morte, nel diritto federale statunitense, non è mai stata abolita, tuttavia, per lungo tempo, non è stata applicata (ovviamente per gli ordinamenti degli Stati membri il discorso è ben diverso). Dopo il marzo 1963, per quasi mezzo secolo le esecuzioni si erano infatti fermate, prima che, durante la presidenza di George W. Bush riprendessero, con un bilancio di due condanne eseguite nel giugno 2001 e una nel marzo 2003. Da allora, si era avuto un nuovo accantonamento, fino, appunto, alla presidenza Trump, che negli ultimi sei mesi del 2020 ha condotto ben 10 esecuzioni.
Non si tratta soltanto di numeri, anche se il numero è di per sé allarmante, visto che l’anno appena trascorso, segnato dalle difficoltà che la pandemia ha opposto nei confronti delle esecuzioni, è stato comunque l’anno in cui il potere federale ha eseguito più condanne a morte di civili, almeno a far tempo dall’inizio del Novecento. È stato anche il primo anno nella storia degli Stati Uniti in cui le esecuzioni a livello federale hanno superato la somma delle esecuzioni a livello statale, bloccate, appunto, dalla pandemia, al punto da segnare, con 7, il valore minimo negli ultimi trentasette anni.
Non si tratta soltanto di numeri: la lettura del report annuale del Death Penalty Information Center (The Death Penalty in 2020: Year End Report. Death Penalty Hits Historic Lows Despite Federal Execution Spree, Dec. 16, 2020, https://deathpenaltyinfo.org/facts-and-research/dpic-reports/dpic-year-end-reports/the-death-penalty-in-2020-year-end-report) è, da questo punto di vista, inquietante: «L’ondata di esecuzioni è stata aberrante anche nella selezione dei detenuti da mettere a morte. I condannati hanno incuso il primo nativo americano mai giustiziato dal governo federale per l’omicidio di un membro della sua stessa tribù su terre tribali; le prime esecuzioni federali, in 68 anni, di delinquenti adolescenti ai tempi dei fatti; la prima esecuzione federale, in 57 anni, per un crimine commesso in uno Stato che aveva abolito la pena di morte; le esecuzioni programmate di due detenuti che le prove mediche avevano indicato come affetti disabilità intellettiva; le esecuzioni programmate di due detenuti con gravi malattie mentali, compreso uno che potrebbe essere stato incapace di intendere e di volere al momento della sua esecuzione; le esecuzioni programmate di due detenuti che non avevano ucciso nessuno e di tre condannati meno colpevoli dei coimputati che avevano ricevuto condanne minori; le prime esecuzioni, in oltre un secolo, nell’intervallo tra le elezioni politiche e l’entrata in funzione del nuovo Congresso; esecuzioni poste in essere contro la volontà dei familiari delle vittime, dei procuratori del processo di primo grado o d’appello nei relativi casi e di almeno uno dei giudici che avevano presieduto il processo».
Questa spirale è destinata, auspicabilmente, a interrompersi, stando almeno al programma del presidente eletto, Joe Biden, che si è impegnato a eliminare la pena di morte a livello federale (cfr. The Biden Plan for Strengthening America’s Commitment to Justice, https://joebiden.com/justice/). Il punto è che fino al 20 gennaio le funzioni presidenziali saranno (recte, dovrebbero essere) esercitate da Donald Trump. E se, già oggi, il presidente in carica può (s)fregiarsi del poco onorevole primato di essere stato il presidente che ha autorizzato più esecuzioni della storia degli Stati Uniti durante il periodo di passaggio da un presidente a un altro, è ben possibile che, negli ultimi giorni del suo mandato, cerchi, se ne avrà l’opportunità, di ritoccare le sue macabre statistiche. Sono, infatti, previste due esecuzioni ad opera del potere federale, il 12 e il 14 gennaio (una terza esecuzione, prevista per il 15, è stata per il momento sospesa in ragione di un vizio nel procedimento di notifica della data dell’esecuzione).
2. Un caso forse più drammatico di altri
Sul presupposto dell’intollerabilità di qualunque esecuzione, è quasi fisiologico che alcuni casi attirino più di altri l’attenzione dell’opinione pubblica. Tra questi casi, evidentemente, rientra quello di Lisa Montgomery, la cui esecuzione, fissata per il 12 gennaio, ha dato luogo a diffuse richieste di clemenza, anche da parte di persone particolarmente qualificate in ambito forense e scientifico. A fondare queste richieste certo non è un fattore di genere: è vero che Lisa Montgomery è l’unica detenuta donna in un braccio della morte federale ed è vero che per trovare l’ultima donna di cui sia stata eseguita la condanna a morte da parte del potere federale si deve risalire al 1953, ma le ragioni che hanno spinto a un impegno contro questa esecuzione sono ben più profonde.
Difficile contestare l’efferatezza del fatto-reato commesso, del 16 dicembre 2004: strangolamento di una donna all’ottavo mese di gravidanza, taglio dell’addome con un coltello da cucina ed estrazione del bambino, sopravvissuto anche al rapimento da parte dell’omicida.
A rendere meno nitida l’esecrabilità della condotta si è fatto appello, in sede processuale, alla vita pregressa dell’imputata, fatta di abusi, anche sessuali, perpetrati dal patrigno e da almeno uno dei due uomini che aveva sposato in rapida successione, a 18 anni, per abbandonare l’abitazione materna; una vita fatta di abuso di alcol, asseritamente indotto dalla ricerca di una astrazione dalla cupezza della realtà; una vita segnata da una sterilizzazione, all’età di 22 anni, dopo aver messo al mondo quattro figli, che, presumibilmente, non doveva essere stata del tutto accettata, viste le ripetute false dichiarazioni di uno stato di gravidanza.
Nel corso del processo, non è stata accolta la linea di difesa basata sulla non imputabilità della Montgomery, che le avrebbe risparmiato la pena di morte in ragione della giurisprudenza della Corte suprema federale (cfr., in part., la sentenza sul caso Atkins v. Virginia, 536 U.S. 304, del 20 giugno 2002, https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/536/304, in cui si è dichiarato che l’inflizione della pena di morte a persone affette da ritardo mentale era incompatibile con il divieto di pene crudeli e inusuali di cui all’Ottavo Emendamento alla Costituzione federale). La giuria ha quindi dichiarato colpevole l’imputata, raccomandando la condanna a morte, che il giudice ha pronunciato il 26 ottobre 2007. Solo successivamente si è venuti a conoscenza di ulteriori perizie relative allo stato mentale della Montgomery, che il suo avvocato non aveva ritenuto di produrre e che solo in appello sono stato presentate, peraltro senza successo.
Il caso della Montgomery è stato sottoposto anche alla Corte suprema federale, la quale – in data 19 marzo 2012 – ha tuttavia negato il certiorari, rifiutando discrezionalmente di trattare la causa (ciò che avviene, come noto, per la stragrande maggioranza dei ricorsi presentati alla Corte).
Dopo la condanna definitiva, e durante il suo soggiorno nel braccio della morte, la Montgomery è stata sottoposta a varie perizie psichiatriche richieste dal collegio difensivo, dalle quali sarebbe stata confermata la possibile incapacità al momento della commissione del fatto e dalle quali sarebbero emersi frequenti stati di dissociazione dalla realtà asseritamente derivati da danni cerebrali prodotti dalle percosse subite durante l’adolescenza. Se, dunque, per un verso potevano nutrirsi dubbi sulla legittimità della condanna, per l’altro poteva essere richiamata la giurisprudenza della Corte suprema federale (Ford v. Wainwright, 447 U.S. 399, del 26 giugno 1986, https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/477/399; Panetti v. Quarterman, 551 U.S. 930, 28 giugno 2007, https://www.law.cornell.edu/supct/html/06-6407.ZS.html; Madison v. Alabama, 586 U.S., docket n. 17-7505, 27 febbraio 2019, https:// www.law.cornell.edu/supremecourt/text/17-7505) che ha dichiarato incostituzionale l’esecuzione di un condannato divenuto incapace nelle more dell’esecuzione.
Nonostante un insieme non proprio scarno di argomenti in favore di una qualche clemenza, l’esecuzione della Montgomery è stata fissata per l’8 dicembre, e solo la circostanza che i suoi legali avessero contratto il Covid-19 ha potuto portare a un rinvio. Rinvio che è stato, peraltro, piuttosto breve, visto che il 23 novembre è stata notificata alla Montgomery la nuova data del 12 gennaio. La Corte federale di primo grado per il District of Columbia, in data 24 dicembre, ha ritenuto illegittimo il nuovo provvedimento di fissazione, perché adottato quando era ancora in corso la sospensione della precedente esecuzione. La Corte d’appello, con ordinanza del 1° gennaio, ha annullato la decisione di primo grado, ripristinando così la validità della fissazione al 12 gennaio.
3. «La più politica delle pene»
Nel momento in cui queste righe sono scritte (il 7 gennaio) non è ancora certo che l’esecuzione avrà luogo. Non potrebbe essere altrimenti, visto che la storia della pena di morte negli Stati Uniti ha conosciuto sospensioni o atti di clemenza adottati anche a pochi minuti dall’inizio dell’esecuzione. L’ottusità dell’intransigenza dell’amministrazione Trump in materia di esecuzioni parrebbe rendere, nella specie, assai improbabile che potesse verificarsi una eventualità del genere. Una incognita enorme, tuttavia, pesa su qualunque previsione; un’incognita che non riguarda la detenuta, ma chi decide sull’esecuzione.
Dopo la sconvolgente vicenda dell’assalto al Campidoglio, infatti, si vanno moltiplicando, in queste ore, le voci che propugnano l’applicazione del Venticinquesimo Emendamento alla Costituzione, e cioè la rimozione per incapacità del Presidente in carica e la sua sostituzione, per gli ultimi giorni del mandato, con il Vicepresidente, Mike Pence. Qualora a ciò si addivenisse, non potrebbe escludersi che il nuovo presidente facente funzioni volesse evitare di caratterizzare i suoi dieci giorni di mandato con una esecuzione tanto contestata. D’altro canto, neppure può escludersi che, anche qualora a una rimozione non si dia luogo, il caos venutosi a creare e la larga delegittimazione che il Presidente Trump ha subito anche nel campo repubblicano suggeriscano di evitare ulteriori atti forieri di tensione: in quest’ottica, anche le programmate esecuzioni potrebbero essere sospese.
Queste considerazioni, nella loro superficialità e nella loro astrattezza, è probabile che nel volgere di qualche giorno o anche di qualche ora mostrino tutta la loro inattualità. La loro utilità risiede, però (almeno lo si spera), nel dimostrare quanto la pena di morte sia legata a considerazioni di ordine politico. Un bel libro di qualche anno fa la ha giustamente definita «la più politica delle pene» (D. Galliani, La più politica delle pene. La pena di morte, Assisi, Cittadella, 2012): l’utilizzo spregiudicato che ne ha fatto il Presidente Trump nei mesi antecedenti le elezioni sembra che possa leggersi come la ricerca di consenso in alcuni settori dell’elettorato; il ricorso parimenti spregiudicato alle esecuzioni che ha fatto seguito alle elezioni perse si inquadra perfettamente nel clima di crescente tensione e confusione che Trump ha voluto imprimere alla fase di transizione. In entrambe le fasi, i condannati che sono stati giustiziati non hanno avuto, evidentemente, alcun peso nel calcolo politico, potendo assumere tutt’al più il ruolo presto dimenticabile di «danni collaterali».
4. Il «dopo Trump»: un nuovo slancio per l’abolizionismo?
La nefasta parentesi Trump, domani, dopodomani o, al massimo, il 20 gennaio, avrà termine. Cosa ci si può attendere per il futuro della pena di morte negli Stati Uniti?
Lo scempio degli ultimi mesi, con la risonanza mediatica di alcune esecuzioni che hanno sollevato forti obiezioni e un diffuso senso di ingiustizia in settori della società statunitense più ampi del solito, dovrebbe agevolare il Presidente Biden nel concretizzare l’impegno assunto di abolire la pena di morte relativamente al diritto federale.
Salvo quanto avvenuto nel 2020 (e, forse, nei primi scampoli del 2021), la pena di morte negli Stati Uniti non è però una questione «federale», giacché le condanne e le esecuzioni connotano solitamente gli Stati membri, o meglio alcuni Stati. Negli ultimi decenni si è assistito a una crescita piuttosto significativa del fronte abolizionista, che ha circoscritto la pena capitale a un numero di Stati contenuto, soprattutto se si ha riguardo alle esecuzioni concretamente poste in essere. L’esistenza di un sistema federale, tuttavia, non consente di proporre alcun tipo di automatismo: l’eventuale abolizione della pena a livello federale non avrebbe che una valenza di esempio, forse di modello per i legislatori degli Stati membri retenzionisti.
Il riferimento ai «legislatori» non è casuale, essendo la presa d’atto che la storia statunitense sembra suggerire che l’abolizione della pena di morte debba passare attraverso una decisione dei rappresentati del popolo. Negli Stati Uniti, infatti, quando è stato il potere giudiziario ad abolire la pena di morte, l’effetto che si è avuto è stato quello di un rifiuto nell’opinione pubblica della posizione abolizionista.
Una analisi delle abolizioni giudiziarie negli States non può essere qui ripercorsa (sul tema, sia consentito rinviare a P. Passaglia, La condanna di una pena. I percorsi verso l’abolizione della pena di morte, Firenze, Olschki, 2021, spec. 142 ss., 161 ss. e 207 ss.); la sentenza più famosa, però, merita almeno una menzione. Era il 1972, l’ultima esecuzione condotta negli Stati Uniti risaliva a cinque anni prima; la Corte suprema federale, con la sentenza sul caso Furman v. Georgia (408 U.S. 238, resa il 29 giugno 1972, https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/408/238), dichiarava l’incostituzionalità della disciplina della pena di morte della Georgia, censurando però elementi che si ritrovavano in tutte le legislazioni statali. Tutto sembrava far propendere, dunque, per la fine della pena capitale negli Stati Uniti, in parallelo con quanto era appena avvenuto o stata avvenendo nel Regno Unito o in Canada. E invece, la decisione veniva interpretata come una invasione ad opera del potere giudiziario di sfere di competenza del potere politico. Questo, in una fase storica in cui veniva percepito un tasso di criminalità in aumento, ha prodotto una sorta di «effetto rimbalzo» a beneficio dell’opzione favorevole alla pena di morte, che si è tradotto nella introduzione di nuove discipline in gran parte degli Stati e, a partire dal 1976, nel concreto recupero della pena di morte come sanzione «normale», pur nella sua gravità.
A prescindere dalla attuale composizione della Corte suprema federale, che rende ben poco probabili decisioni abolizioniste, la vicenda degli Anni Settanta è indicativa di quanto la pena capitale si presti a strumentalizzazioni sul piano politico. La sua abolizione, salvo casi relativamente eccezionali (come avvenuto, ad esempio, in alcuni Stati ex-socialisti o nel Sudafrica post-apartheid), deve essere il frutto di una decisione che venga da chi è legittimato democraticamente, perché solo così si ha una immunizzazione (mai completa, peraltro) da rischi di ritorni indietro. L’auspicio è dunque che la banalizzazione sconvolgente con cui la politica di messa a morte è stata condotta in questi ultimi mesi possa almeno dare lo slancio per un nuovo corso dell’abolizionismo statunitense.
*Paolo Passaglia è ordinario di Diritto comparato presso l’Università di Pisa e coordinatore scientifico pro tempore dell’Area di diritto comparato del Servizio Studi della Corte costituzionale.
Il magistrato di Sciascia: eroe e anti-eroe tra "verità" e "giustizia"
di Andrea Apollonio
Nessuna figura come quella del magistrato ha, nell'opera di Sciascia, un carattere più equivoco: trasformato in un modello letterario dal significato ambiguo - una trasfigurazione che nell'ideologia sciasciana trova fondamento storico sul fatto inoppugnabile e documentato che la storia della giustizia è in realtà una storia di ingiustizie - il magistrato è stato reso dal grande scrittore, in quarant'anni di intensa attività letteraria, eroe e anti-eroe al tempo stesso: in cerca della verità, fautore dell'impostura.
La verità è un concetto che percorre tutta l'opera di Sciascia seppur diversamente declinato: che ritroviamo nel suo primo libro - il misconosciuto Favole della dittatura del 1950 - come nell'ultimo - Una storia semplice, pubblicato postumo nel 1989. Nel mezzo, quarant'anni di continua riflessione su di un tema che viene per la prima volta sistematicamente trattato, in maniera quasi escatologica, nel 1963 con Il Consiglio d'Egitto. In questo romanzo la verità sembra disciogliersi nella contingenza storico-politica, quindi nelle cose di ogni giorno: ne prende il posto la menzogna, che diviene caratteristica ontologica di una comunità: “La menzogna è più forte della verità. Più forte della vita. Sta alle radici dell'essere, frondeggia al di là della vita”, dice l'avvocato Di Blasi, il quale appena prima - facendo riferimento alla sua professione, al suo confronto quotidiano con giudici ed inquisitori - si era lasciato andare ad una confidenza: “Ho visto tante volte la verità confusa e la menzogna assumere le apparenze della verità”. Lui stesso, da lì a poco avrebbe subìto un processo ingiusto, e poi la tortura e la decapitazione; ma nelle forme stabilite dalla legge.
Non esiste altra forma di verità da quella professata da chi è investito di un potere ed ha facoltà di esprimersi sui fatti; ed è il potere giudiziario ad accertare i fatti e a punire gli impostori, o a salvaguardarli per ragioni di convenienza. È così, appunto, nel Consiglio d'Egitto, in 1912+1, ne La strega e il capitano.
Una concezione tragica dell'accertamento dei fatti; in cui la verità esiste ma - essendo le cose del mondo ordinate sulla base di decisioni prese d'imperio e calate dall'alto, conformi alla legge e all'opportunità del momento - la verità non è possibile raggiungere: la si può solo prospettare, teorizzare e persino narrare (è questo lo spirito con cui vengono costruiti La scomparsa di Majorana e l'Affaire Moro). Il mondo sarebbe dunque una fittissima trama di verità impossibili, puntualmente soffocate dalle verità costituite. Quando Sciascia, in una delle sue frasi più celebri e ripetute (tratta appunto dall'Affaire), afferma: <
Ad una verità che sicuramente non coincide con la giustizia, che è un insieme di forme appannaggio dell'autorità e dei poteri costituiti. Ripercorrendo l'opera sciasciana, ci si renderebbe conto che in nessun caso la verità coincide con la giustizia (quella formalmente intesa: che è l'unico modo di intenderla). In alcune storie (A ciascuno il suo, Il giorno della civetta: i "gialli" senza soluzione, dunque senza verità) le risultanze giudiziarie non sono di concreta utilità; in altre (Il contesto, Porte aperte, Una storia semplice) gli organi giudiziari volutamente impediscono un pieno e genuino accertamento dei fatti; in altre ancora l'esercizio della giustizia si traduce in mero arbitrio, in mistificazione della verità (ne è un fulgido esempio Morte dell'Inquisitore). Ed una giustizia che non riesce a tradursi in verità merita di essere sovvertita: ne consegue che gran parte dei suoi romanzi sono apologhi alla sovversione dei poteri costituiti, perché arroganti, prevaricatori, mistificatori, anche se non individuabili perché abilmente nascosti in ogni piega della società: in questo senso poteri mafiosi. E' una sfida impari, quella stessa del protagonista di Todo modo innanzi al potere torbido e informe; quella stessa del Vice, ne Il cavaliere e la morte.
La verità che Sciascia ha in mente è piuttosto il frutto di un processo dettato dalla ragione. Non può tacersi la sua vocazione illuminista, né possiamo mai allontanarlo dal suo pantheon con Voltaire e Diderot, ma con anche i moralisti Montaigne e Pascal, del quale sembra - ma non se ne hanno evidenze bibliografiche - che Sciascia amasse citare la frase: “Non potendosi trovare la giustizia, si è trovata la forza”. La giustizia come brutale esercizio di potenza e prevaricazione; la verità come frutto impossibile della ragione: nel mezzo, l'utopia del diritto, che pure, da settant'anni a questa parte, con l'avvento della Costituzione repubblicana, ha una chiara matrice liberale ed illuminista.
Invero, neppure l'avvento dell'illuminismo giuridico sembra, agli occhi di Sciascia, aver permeato di ragione la procedura giudiziaria, che appare sempre troppo inquisitoria, sempre troppo asservita a logiche di prevaricazione. Egli ripercorre - fonti alla mano - la storia giudiziaria della Sicilia, metafora italiana, che affonda (forse ancora profondamente) le proprie radici nell'Inquisizione, e racconta di giudici e condannati, mistificazioni, imposture e impunità nei romanzi (Sciascia direbbe: "racconti") già citati, con l'aggiunta di tanti altri cammei letterari: gli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, oppure la Nota a margine della "Storia della colonna infame", del "suo" Alessandro Manzoni, con graffianti accenni all'attualità. Attualità che viene pienamente investita dalla critica sciasciana nelle raccolte Nero su Nero e sopratutto in A futura memoria.”
Nell'ultimo suo libro, Una storia semplice, fatalmente uscito il giorno della sua morte, la frase che fa da esergo è tratta da "Giustizia", di Durrenmatt: “Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia”. Egli davvero non aveva mai smesso di ricercare la giustizia, in un (impossibile?) accoppiamento alla verità ed alla ragione. Ma è pur sempre - quella a cui lui tendeva - una giustizia che scaturisce dalla ragione: “Credo nella ragione umana, e nella libertà e nella giustizia che dalla ragione scaturiscono”. E si torna così, inutilmente, al punto di partenza: alla sconfitta della ragione, una sconfitta che Sciascia ha sempre - personalmente - preventivato. Dichiarava ad un giornale francese: “Anche la mia storia è una storia di sconfitte. O, più dimessamente, di delusioni. Da ciò lo scetticismo; che non è, in effetti, l'accettazione della sconfitta - preventivata e ragionata - ma il margine di sicurezza, di elasticità per cui la sconfitta non diventa definitiva e mortale”.
In pochi sanno che nel piccolo studiolo di casa Sciascia, in contrada Noce, nell'immaginifica Racalmuto, è - ancora - appeso alla parete un quadretto dalla minuscola didascalia: "Muriò la Verdad". È la riproduzione dell'acquaforte di Francisco Goya custodita al Museo del Prado, che raffigura una donna esanime circondata da una moltitudine confusa di persone che la compiangono: riesce appena a cogliersi la figura di un prete che impartisce una impietosa benedizione, un monaco e altri visi occhialuti appartenenti a sagome distinte. Fa una certa impressione l'idea che Leonardo Sciascia abbia avuto alle sue spalle, una volta al tavolo di lavoro, la "Verità è morta".
Attraversare il corpus sciasciano vuol dire allora supporre, con cognizione di causa, che tra gli uomini che fanno da contorno alla donna che incarna la Verità di Goya - tra i quali se ne scorgono alcuni occhialuti e distinti - figurano gli inquisitori e i giudici: i magistrati. Questa immagine è senz'altro armonica nel suo sistema di opere, con l'insieme dei suoi personaggi: in cui il magistrato - narrato in chiave storica o moderno investigatore - è non raramente l'anti-eroe, che fronteggia ed infine soverchia un proprio subordinato: un semplice brigadiere in Una storia semplice, un semplice ispettore ne Il contesto; oppure, anche, un semplice giudice rispetto ad un superiore collega, come nel più intenso dei suoi libri: Porte aperte. Anche nell'alveo della giustizia si replica quindi lo scontro del forte con il debole, di chi ricerca inutilmente la verità (dentro o fuori le forme della giustizia stessa) al cospetto dell'organo di giustizia. Si replica quindi, per dirla sempre con le parole di Sciascia, ”la storia di una continua sconfitta della ragione e di coloro che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati”
Rimane la "sicilitudine", ovvero la particolare dimora letteraria di Leonardo Sciascia, ove il modo di sentire, di essere, di vivere dei siciliani si evidenziano. E' la "sicilitudine" il nucleo incandescente della sua opera: “Tutti i miei libri ne fanno uno sulla Sicilia”; come tutti i suoi personaggi emergono dalla "metafora" siciliana. E per tutto quanto si è detto il magistrato siciliano può essere considerato, sotto l'aspetto prettamente letterario, l'eroe e al tempo stesso l'anti-eroe sciasciano: in cerca della verità, fautore dell'impostura.
Vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione. Note a margine del parere del Comitato Nazionale per la Bioetica
di Marianna Gensabella Furnari*
Sommario: 1.Le vaccinazioni come questione bioetica. 2.I vaccini anti-Covid-19 e l’etica della ricerca 3.Oltre le leggi del mercato: un bene a disposizione di tutti. 4.Le sfide della distribuzione dei vaccini: preparedness e giustizia 5.La campagna vaccinale tra adesione spontanea e obbligatorietà
1.Le vaccinazioni come questione bioetica
La scoperta dei vaccini anti-Covid-19, la loro approvazione e ancor più l’inizio della campagna vaccinale costituiscono, come è stato detto diverse volte, una luce in fondo al tunnel. Ciò di cui disponevamo prima per contenere la diffusione di questo virus, tanto potente quanto sconosciuto, ricordava le misure per combattere le epidemie del passato, una forma di prevenzione primaria: basata sul mutamento degli stili di vita, fatta di distanziamento, mascherine, lavaggi ripetuti delle mani, disinfezioni. Ciò che abbiamo ora è un’arma molto più potente, un balzo in avanti dall’antico al moderno, consentito dalla scienza e dalla tecnica. Un’arma che, a differenza delle prime, può sradicare il virus, come hanno mostrato in un passato non molto lontano alcuni vaccini[1].
Eppure di fronte a questa luce, non poche sono le ombre, le domande, le inquietudini che affiorano in molti di noi. I vaccini appartengono infatti alle misure di prevenzione che, già di per sé, difficilmente riscuotono la piena adesione da parte della popolazione, e in più sono farmaci che vengono iniettati in un corpo sano: per proteggerlo da un eventuale contagio e al tempo stesso per proteggere la comunità, certo, ma, in quanto farmaci, sempre soggetti a provocare effetti collaterali. Il rapporto tra rischi e benefici attesi è per i vaccini convalidati in chiaro saldo positivo. Ma ci fidiamo di ciò che dicono gli scienziati? Non sempre, non tutti. Una comunicazione poco corretta accentua la possibilità di eventi avversi, oscurando la luce che i vaccini gettano su epidemie più o meno virulente, più o meno pericolose. Da qui quell’”esitazione vaccinale”[2] che può giungere anche al rifiuto. Ma possiamo rifiutare di vaccinarci?
Ritagliandosi all’interno del delicato rapporto tra salute individuale e salute pubblica, i vaccini aprono una serie di problematiche che debordano dal piano meramente scientifico, andando ad investire quello etico e giuridico. Ad essere chiamati in causa non sono solo le nostre scelte individuali e le loro ripercussioni sulla collettività, ma anche le scelte sociali e politiche che stanno alla base delle campagne vaccinali, i principi etici, le norme giuridiche che devono regolare le une e le altre. Ponendosi quindi tra scienza, etica e diritto, il tema delle vaccinazioni ricade nell’ambito interdisciplinare della bioetica.
Già nei primi anni del suo operato il Comitato Nazionale per la Bioetica (di seguito CNB) dedica al tema delle vaccinazioni un parere, Le vaccinazioni, del 22 settembre 1995, che, nel metterne in luce l’importanza, evidenzia “il piano bioetico della questione”, non sempre investito correttamente nel dibattito[3]. Sullo stesso piano bioetico, ancora una volta poco frequentato dal dibattito politico e massmediale sui vaccini, richiama l’attenzione il parere I vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione, del 27 novembre 2020.
Il parere è pubblicato prima dell’inizio della campagna vaccinale, in un momento segnato ancora da grande incertezza sia sulla disponibilità dei vaccini, ancora in corso di approvazione da parte delle Agenzie regolatorie, sia sulle modalità della loro distribuzione. Il CNB propone, quindi, una riflessione etica preliminare, indicando i principi e i criteri generali su tre aspetti giudicati fondamentali (la sperimentazione sui vaccini, il loro costo, la loro distribuzione), nella piena consapevolezza che l’evolversi della situazione porterà ad ulteriori riflessioni sull’applicazione dei principi e criteri etici indicati.
Qual è il senso di questa riflessione preliminare? Sarebbe stato meglio aspettare che i vaccini in fase già avanzata di sperimentazione passassero al vaglio delle Agenzie regolatorie, fossero disponibili e che il piano vaccinazione venisse varato? Il senso del parere è proporre, tenendo fede al mandato istituzionale del Comitato[4], una riflessione bioetica preliminare, che serva da orientamento sia al Governo, sia all’opinione pubblica: una riflessione sui principi etici fondamentali che devono guidare la campagna vaccinale, e che al tempo stesso indichi la via per preparare la popolazione ad un’adesione consapevole e responsabile alla vaccinazione.
Non si tratta di una campagna vaccinale tra le altre, ma della più imponente che la storia ricordi, dal momento che coinvolge, così come il virus, tutti i paesi del mondo. Come accade per altre tematiche, anche qui la pandemia pone in evidenza, agendo come una lente di ingrandimento, i problemi sollevati dalle vaccinazioni.
2. I vaccini anti-Covid-19 e l’etica della ricerca
Il primo problema è rispondere alla domanda che è nella mente di tutti: i vaccini sono sicuri? Una domanda che non riguarda solo i vaccini anti-Covid-19. Già nel primo parere del 1995 il CNB affrontava il problema dei sospetti nei confronti dei vaccini, delle paure di effetti collaterali, che possono determinare un rifiuto dei vaccini stessi. La risposta era semplice e chiara: in realtà i rischi sono presenti, come per ogni farmaco, ma sono ben bilanciati dai benefici, e sicuramente sono minori dei rischi che si corrono non vaccinandosi[5].
Per i vaccini anti-Covid-19 vi è una paura, un’incertezza in più, determinata dai tempi brevi, molto più brevi rispetto agli altri vaccini, trascorsi dall’inizio alla fine presunta della sperimentazione: possiamo considerarli sufficienti? Ed è questo il primo punto su cui il CNB prende posizione: “sebbene sia ovvio che le ricerche per un vaccino scientificamente valido ed efficace debbano avere una corsia preferenziale, al fine di tutelare la salute individuale e pubblica, l’emergenza non deve portare a ridurre i tempi o addirittura ad omettere le fasi della sperimentazione, definite dalla comunità scientifica internazionale requisiti indispensabili sul piano scientifico, bioetico e biogiuridico, per garantire la qualità, la sicurezza e l’efficacia di un farmaco”[6]. L’abbreviamento dei tempi può riguardare solo le procedure per la revisione delle ricerche, incidendo esclusivamente sulla parte amministrativa e burocratica.
L’etica della ricerca deve quindi rimanere rigorosa nell’accertare la validità della sperimentazione, ma anche rispettando il principio della gratuità nel reclutamento dei volontari sani, attuando confronti tra i vaccini approvati, nonché tenendo conto degli ultimi studi sulla genomica[7].
3.Oltre le leggi del mercato: un bene a disposizione di tutti
Altro problema che riguarda la produzione dei vaccini è il loro costo. Dal momento che proteggono un bene prioritario, la salute, agendo contemporaneamente a livello della salute individuale e di quella pubblica, i vaccini hanno, come già affermava il parere del 1995, un “valore sociale”[8]. In tempi di pandemia questo valore appare ancora più importante, un valore essenziale per la difesa della salute, che deve, proprio per questo, essere “messo a disposizione di tutti all’interno di ogni Paese e di tutti i Paesi”[9]. Un’affermazione forte, che si scontra con le leggi di mercato, opponendovi un’etica della solidarietà. È il tema scottante del “costo di un bene comune”: un tema, come il parere ricorda, già all’attenzione dell’Unione europea e al centro del programma globale Covax[10]. Anche qui ritroviamo, messo in luce dalla pandemia, un problema di sempre, doloroso, tragico: il costo di farmaci essenziali per la salute come discrimine tra chi può e chi non può pagare. Il CNB non si limita a raccomandare che il vaccino venga considerato un bene comune e che le istituzioni controllino che produzione e distribuzione non siano regolate unicamente dalle leggi del mercato, ma sottolinea che tale raccomandazione “non deve rimanere un mero auspicio, ma piuttosto un obbligo a cui deve far fronte la politica internazionale degli Stati”[11]. La raccomandazione assume, quindi, i toni forti dell’indicazione di un dovere di solidarietà, di un fermo richiamo non solo agli Stati, ma anche alla responsabilità sociale delle industrie farmaceutiche.
Ma il Comitato va ancora oltre: la pandemia ci pone di fronte ad un’alternativa in realtà illusoria: tra un agire solidale e un difenderci gli uni dagli altri. È l’alternativa di fronte a cui ci pone il vincolo di interdipendenza che da sempre ci unisce e che il virus, con il suo viaggiare tra di noi, ha messo in luce. Un vincolo che ci vede tutti vulnerabili, e insieme tutti capaci di cura, ma con potenzialità diverse di forza e di debolezza. La tentazione è di cercare di farcela da soli, facendo leva ognuno sulla propria forza e ignorando o peggio sfruttando le debolezze degli altri. Una tentazione illogica, irrazionale: il virus lo mostra, superando i confini, tornando a noi da quelle parti del mondo che pensavamo di poter abbandonare al loro destino. In realtà dobbiamo passare dall’interdipendenza alla solidarietà, perché solo la prima opzione, la collaborazione internazionale a livello scientifico ed economico può funzionare, può portarci fuori da questa crisi.
Ed ecco che la lente ingrandita funziona anche come possibile orientamento per azioni future: “Il Comitato auspica che l’attenzione per un’equa distribuzione del vaccino anti-Covid-19 non resti un caso isolato, ma diventi l’occasione per costruire una solidarietà internazionale che ponga fine alle gravi limitazioni nella tutela della salute che ancora permangono in molti Paesi”[12]. Utopia? Forse, ma un’utopia quanto mai necessaria oggi[13], e di cui la pandemia mette in luce, come mai prima, l’esigenza.
4.Le sfide della distribuzione dei vaccini: preparedness e giustizia
Una volta che sia autorizzata la distribuzione dei vaccini, e che questa sia, come si raccomanda, per tutti, altre sfide sono da affrontare. Il parere parla di sfide di “carattere pratico ed economico per non correre il rischio di trovarsi impreparati nella raccolta e distribuzione del vaccino”[14]. Una preoccupazione non da poco, che avvertiamo forte nel momento in cui scriviamo, dato che è questa la fase cruciale che ora stiamo attraversando. Una preoccupazione che, non a caso, ritorna nelle raccomandazioni, dove al punto sulla distribuzione si raccomanda “che venga pianificata in anticipo la realizzazione del programma di vaccinazione per non trovarsi di fronte a carenze strutturali e organizzative, in particolare evitando che le dosi disponibili di vaccino rimangano in stoccaggio per non aver anticipatamente predisposto le misure necessarie a garantire una rapida distribuzione, ed individuando con chiarezza le professionalità necessarie ad eseguire le vaccinazioni”[15]. Ma si tratta solo di sfide di carattere pratico ed economico? Al fondo di tali scelte si tratta di una responsabilità sociale di non poco conto, che impegna a pre-vedere e ad essere pre-parati: la preparadeness, su cui il CNB richiama l’attenzione in altri pareri dedicati al Covid-19[16].
La distribuzione pone però anche un altro problema etico fondamentale: dal momento che si pensa che inizialmente le dosi di vaccino saranno limitate, come stabilire le priorità? Qui il parere non può che limitarsi a ricordare il principio etico che deve guidare le scelte di distribuzione, senza poter individuare i gruppi di persone che avranno la priorità. Questa individuazione è, infatti, connessa ai dati, ancora non disponibili nel momento della stesura del parere, sulle sperimentazioni per ottenere i vaccini, in particolare alla conoscenza dei gruppi di persone su cui sono state effettuate. Il principio però va oltre i dati specifici che potranno consentire l’individuazione dei gruppi da vaccinare per primi: funziona come guida, orientamento per stabilire le priorità. Ed è il principio di giustizia, ripensato nella sua complessità: come principio dell’uguale dignità di ogni essere umano, che obbliga quindi a non discriminare alcuno, e al tempo stesso come “equità”, eguaglianza sostanziale, che tiene conto delle differenze, delle diseguali condizioni di partenza, riparandole attraverso una considerazione delle particolari vulnerabilità[17]. Al richiamo che giustamente il parere fa, all’art. 3 della Costituzione, si può dal punto di vista etico affiancare il richiamo alla teoria della giustizia di Rawls[18], nonché al principio di giustizia così come ripreso nel principialismo di Beauchamp e Childress[19].
Notiamo che il Comitato si preoccupa anche dell’applicazione di questo principio, perché è consapevole della complessità della questione e di come le scelte nell’individuazione delle priorità debbano essere corrette e trasparenti. Auspica quindi che “l’attribuzione specifica dei singoli gruppi nelle diverse fasi sia definita, con i criteri sopra raccomandati, sulla base di competenze multidisciplinari (medici, bioeticisti, giuristi, rappresentanti di pazienti, sociologi, statistici, ecc.) in modo che sia possibile valutare la situazione concreta al momento”[20]. Nulla si dice, e credo appositamente, sull’organizzazione di eventuali commissioni o comitati in cui tali competenze possano interagire, ma è significativo il richiamo alla multidisciplinarità, come momento chiave per un’attribuzione che sia la più giusta possibile.
5.La campagna vaccinale tra adesione spontanea e obbligatorietà
L’ultimo problema trattato nel testo è quello centrale in ogni campagna di vaccinazione: se si debba o no stabilire un obbligo di vaccinarsi. Il problema ci riporta al punto focale della questione bioetica delle vaccinazioni: la loro funzione di tutela della salute del singolo e della comunità a cui appartiene, del “bene del singolo” e del “bene di tutti”. Un’indicazione che è ben lungi dall’essere una “formula magica”, come già notava il parere del CNB del 1995[21]: l’e di congiunzione può essere fonte di tensioni, nel momento in cui il singolo non riconosca nel vaccino un bene per la propria salute. Che fare dunque di fronte al rifiuto della persona di vaccinarsi?
La questione è giuridica e, prima ancora, etica.
Nel parere del 1995 il Comitato aveva già preso posizione in merito, notando la complessità del problema: “Pur tenendo conto dell’obiettiva difficoltà di stabilire una chiara delimitazione tra diritti individuali e diritti collettivi, si ritiene che lo Stato abbia non solo il diritto, ma anche il dovere di promuovere le vaccinazioni considerate essenziali dalla comunità scientifica internazionali non solo attraverso campagne di informazione ed educazione sanitaria, ma anche, se necessario, con altre modalità più incisive”[22]. Quali? Si può giungere all’obbligatorietà? Nel parere si espongono tre diverse posizioni presenti in alcuni stati: misure coercitive indirette, ossia l’obbligo di esibire il certificato di vaccinazione al momento dell’iscrizione all’asilo nido o alla scuola elementare, un atteggiamento più articolato, che considera il rifiuto della vaccinazione illecito, ma non perseguibile penalmente, una coercizione esplicita, sia per la popolazione infantile, che per alcune categorie professionali. Ciascuna di queste posizioni viene considerata dal CNB “ugualmente accettabile, purché raggiunga lo scopo, rappresentato da una protezione vaccinale sufficientemente estesa da proteggere sia i singoli soggetti sia l’intera popolazione da rischi significativi di contagio”[23]
Insomma, l’imposizione è ammessa, come si dirà più avanti, come “eventuale”, in virtù del significato della vaccinazione, che persegue “due scopi pratici inscindibili”, la salvaguardia della salute dell’individuo e la tutela di coloro che gli sono vicini.[24]
Il tema dell’obbligatorietà ritorna nella mozione L’importanza delle vaccinazioni, 24 aprile 2015: una mozione sollecitata dall’allarme per la diminuzione della copertura vaccinale contro il morbillo, per il conseguente aumento dei casi nel 2014 e, più in generale, dalla preoccupazione per la tendenza diffusa a dilazionare o addirittura rifiutare la somministrazione delle vaccinazioni, sia quelle obbligatorie, che quelle raccomandate dalle Autorità sanitarie.
Di fronte a tale tendenza, il Comitato avverte l’esigenza di ribadire il valore delle vaccinazioni, che qui viene indicato non più come “valore sociale”, ma come “valore etico”: “il CNB ribadisce come i vaccini costituiscano una delle misure preventive più efficaci con un rapporto rischi/benefici particolarmente positivo e con un valore non solo sanitario, ma etico intrinseco assai rilevante”[25].
È forte, quindi, il richiamo alla responsabilità personale e sociale nell’assicurare una copertura adeguata, sia per le vaccinazioni obbligatorie, che per quelle raccomandate. Per raggiungere tale obiettivo il CNB indica la promozione di efficaci campagne di informazione, comunicazione ed educazione, che comprendano anche la stigmatizzazione del diffondersi di falsità e pregiudizi. Ma se ciò non bastasse?
“In conclusione, il Comitato ritiene che debbano essere fatti tutti gli sforzi per raggiungere e mantenere una copertura vaccinale ottimale attraverso programmi di educazione pubblica e degli operatori sanitari, non escludendo l’obbligatorietà in casi di emergenza”[26]. Insomma, l’obbligatorietà non viene per prima, ma è consentita come ultima ratio, là dove se ne ravvisi la necessità.
Questa posizione presa dal CNB nel 2015 è presente anche nel parere sui vaccini anti- Covid-19 che stiamo esaminando. Il Comitato ribadisce all’inizio come sia “sempre auspicabile il rispetto del principio che nessuno subisca un trattamento sanitario contro la sua volontà e, quindi, tendenzialmente la preferenza dell’adesione spontanea rispetto ad un’imposizione autoritativa, ove il diffondersi di un senso di responsabilità individuale e le condizioni complessive della diffusione della pandemia lo consentano”[27] . Anche se non esplicitato è chiaro qui il riferimento all’art.32 della Costituzione e alla legge 219 del 2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, così come dal punto di vista etico è chiaro il riferimento al rispetto del principio di autonomia. Ma fino a che punto? Qual è il limite?
Subito dopo l’auspicio al rispetto dell’autonomia e la dichiarazione di preferenza per l’adesione spontanea, troviamo un’apertura sull’obbligatorietà, laddove si ravvisi la necessità di raggiungere una copertura vaccinale adeguata: “Tuttavia il Comitato è altresì consapevole che sono riconosciute per legge nel nostro ordinamento ed eticamente legittime forme di obbligatorietà dei trattamenti sanitari, quali appunto il vaccino, in caso di necessità e di pericolo per la salute individuale e collettiva”[28].
Il limite è “il pericolo” per la salute non solo individuale, ma pubblica. Come ricorda il parere del 1995, richiamandosi alla sentenza n. 307 del 1990 della Corte costituzionale, le vaccinazioni obbligatorie sono costituzionalmente legittime solo se dirette contestualmente alla tutela della salute del singolo e della collettività. Ossia l’obbligo vaccinale può essere imposto “solo per quelle malattie che hanno carattere contagioso ed epidemico, ma non allorché è posta in pericolo solo la salute del singolo”[29].
Anche dal punto di vista etico il limite oltre il quale il rispetto dell’autonomia della persona cede è là dove metta in pericolo la salute degli altri. Ma se questo è il limite, occorre fare di tutto prima, per non scavalcarlo. Ancora una volta il richiamo forte del CNB è, come nella mozione, all’informazione e alla formazione. Possiamo leggere questo richiamo come un ulteriore rispetto del principio di autonomia, visto nel suo aspetto non solo negativo, non interferenza, ma anche positivo, come potenziamento della capacità di comprendere e di decidere[30]: l’informazione e, ancor più, la formazione, trasmettendo sapere e rafforzando la consapevolezza, sono infatti forme essenziali di potenziamento dell’autonomia della persona.
Ma quali sono gli ostacoli per tali azioni? In tempi di Covid emerge in modo più evidente la difficoltà di “comunicare” il sapere dagli esperti a chi esperto non è: un problema di sempre, con cui l’applicazione del consenso informato quotidianamente si confronta nella pratica clinica, là dove si voglia prendere sul serio l’autonomia del paziente. Un problema che nell’emergenza pandemica assume dimensioni più evidenti, viste le incertezze che ancora circondano il virus e, di conseguenza, i vaccini. Il richiamo qui non può che essere ai principi base di un’etica della comunicazione: la correttezza, ossia la veridicità, che impone l’attenta vigilanza sulle fonti e il rifiuto delle fake news, il rifiuto di trionfalismi ed enfatizzazioni, l’onestà nel confessare i limiti del proprio sapere, la fedeltà al patto di fiducia implicito con il destinatario. Questa comunicazione affidata agli esperti, anche qui sulla base di competenza multidisciplinari, riuscirà nel suo compito? Potrà condurre all’auspicata adesione spontanea? Sollecitare quel diffondersi della responsabilità individuale che ci faccia rimanere nel pieno rispetto dell’autonomia, onorandone il senso?
Lo speriamo tutti. E forse la cornice etica che dovrebbe accompagnare questa campagna vaccinale sul versante della comunicazione è quella tracciata dal CNB già nelle conclusioni del primo parere sulle vaccinazioni, là dove le vede non solo come un valore in sé, ma anche come “un’importante occasione di approfondimento del problema più generale dell’etica della cura della vita”[31]. I vaccini sono anche questo: non solo una possibilità preziosa per difendere la nostra salute, ma anche una possibilità in più per ripensare la responsabilità che abbiamo nei confronti della salute nostra e di chi ci sta accanto, vedendo quell’e di congiunzione come segno dell’alleanza, della cura reciproca, occasione per vivere l’interdipendenza come vincolo solidale.
Lo sono ancor più i vaccini anti-Covid-19. E per un motivo evidente: il virus con la sua forza dirompente ha messo in luce in modo tragico, con la sofferenza di tanti, la nostra comune vulnerabilità aprendo dinanzi a noi tutti, più o meno provati, i sentieri di un’etica della cura. Sta a noi percorrerli con la ragione e il cuore, persuadendoci l’un l’altro che il bene salute non può che essere un bene comune da perseguire in una solidale alleanza tra le persone e tra i popoli.
* Prof. Ord. di Filosofia Morale, Università di Messina, Componente del Comitato Nazionale per la Bioetica
[1] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Mozione L’importanza delle vaccinazioni, 24 aprile 2015, Comitato Nazionale per la Bioetica - L'importanza delle vaccinazioni (governo.it), p. 3.
[2] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione, p140_2020_vaccini-e-covid19_it.pdf (governo.it), p.14, nota 21.
[3] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Le vaccinazioni, 22 settembre 1995, Comitato Nazionale per la Bioetica - Le vaccinazioni (governo.it), p. 5.
[4] Sul sito del Comitato alla voce presentazione leggiamo: “Il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), istituito con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri il 28 marzo 1990, svolge sia funzioni di consulenza presso il Governo, il Parlamento e le altre istituzioni, sia funzioni di informazione nei confronti dell’opinione pubblica sui problemi etici emergenti con il progredire delle ricerche e delle applicazioni tecnologiche nell’ambito delle scienze della vita e della cura della salute”( Comitato Nazionale per la Bioetica - La presentazione del CNB (governo.it).
[5] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Le vaccinazioni, cit., p.7.
[6] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 6. La stessa raccomandazione il CNB aveva già espresso nel parere La sperimentazione biomedica per la ricerca di nuovi trattamenti terapeutici nell’ambito della pandemia Covid-19: aspetti etici , 22 ottobre 2020, Comitato Nazionale per la Bioetica - La sperimentazione biomedica per la ricerca di nuovi trattamenti terapeutici nell’ambito della pandemia covid-19: aspetti etici (governo.it).
[7]Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., pp. 7-8.
[8] Già il parere del 1995 afferma il “valore sociale” dei vaccini, “in quanto oltre a proteggere la persona vaccinata riducono il rischio del contagio a carico della restante popolazione” (cfr. Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Le vaccinazioni, cit., p. 8).
[9] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 8.
[10] WORLD HEALTH ORGANIZATION, COVAX: Working for global equitable access to COVID-19 vaccines, https://www.who.int/initiatives/act-accelerator/covax
[11] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 9.
[12] Ibidem.
[13] Cfr. S. RODOTÀ, Solidarietà. Un’utopia necessaria, GEDI S.p.A., Roma 2017.
[14] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 10.
[15] Ivi, p.16
[16] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, COVID-19: La decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del “triage in emergenza pandemica”, 8 aprile 2020, pp.7-8; ID., COVID-19: salute pubblica, libertà individuale, solidarietà sociale, 28 maggio 2020, http://bioetica.governo.it/italiano/documenti/pareri-e-risposte/covid-19-salute-pubblica-liberta-individuale-solidarieta-sociale/, pp.8-10.
[17] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p.11.Il problema di una giusta distribuzione di risorse scarse era già stato preso in esame nel parere sopra citato dedicato al triage in emergenza pandemica.
[18] Cfr. J. RAWLS, Una teoria della giustizia, tr.it. U. Santini, a cura di S. Maffettone, Feltrinelli, Milano 1989.
[19] Cfr. T.L. BEAUCHAMP- J.F. CHILDRESS, Princìpi di etica biomedica, tr.it. F. Demartis, Le Lettere, Firenze 1999, pp.321-386.
[20] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 12.
[21] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Le vaccinazioni, cit., p. 5.
[22] Ivi, p. 8.
[23] Ibidem.
[24] Cfr. ivi, p. 40.
[25] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Mozione L’importanza delle vaccinazioni, cit., p. 2.
[26] Ivi, p. 4.
[27] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 13.
[28] Ivi, p.13.
[29] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Le vaccinazioni, cit., p. 29.
[30] Cfr. T.L. BEAUCHAMP- J.F.CHILDRESS, Princìpi di etica biomedica,pp. 131-134.
[31] “In conclusione, le vaccinazioni vanno viste non solo di per sé, ma anche come un’importante occasione di approfondimento del problema più generale dell’etica della cura della vita” (ivi, p. 42).
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