ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il rilievo della questione pregiudiziale europea fra processo e giurisdizione (nota a Cass., S.U., 30 ottobre 2020, n. 24107)*
di Paolo Biavati
Sommario: 1. Il caso - 2. Il rilievo della questione pregiudiziale europea come elemento del processo - 3. Quale tutela contro la ribellione del giudice nazionale di ultima istanza? - 4. Lo scenario: l’europeismo come campo di battaglia fra le alte corti?
1. Il caso
Una società di capitali ricorre al Tar Piemonte contro un’informativa interdittiva antimafia della prefettura di Torino. Il ricorso viene respinto e la società presenta appello dinanzi al Consiglio di Stato. I giudici di Palazzo Spada rigettano l’impugnazione e, in motivazione, escludono nel caso di specie la sussistenza dei presupposti per sollevare la questione di illegittimità costituzionale della normazione antimafia, ovvero per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Contro la decisione del Consiglio di Stato la società propone ricorso in Cassazione, ai sensi degli artt. 111, comma 8°, cost. e 362, comma 1°, c.p.c., asserendo che il mancato rinvio a Lussemburgo è frutto di un percorso logico errato e – qui sta il punto – che in questo modo la suprema magistratura amministrativa ha violato il limite esterno alla sua giurisdizione, per avere invaso la sfera decisionale attribuita in via esclusiva ai giudici del Kirchberg, in base all’art. 267, comma 3°, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Con l’ordinanza in commento, le Sezioni unite dichiarano inammissibile il ricorso.
2. Il rilievo della questione pregiudiziale europea come elemento del processo
Il cuore della vicenda sta nella natura del rapporto che si instaura fra giudice nazionale di ultima istanza e Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale.
La tesi fatta propria dal ricorrente mette in luce con forza il carattere obbligatorio, per il giudice interno contro le cui decisioni non vi sia un ulteriore livello di controllo, di effettuare il rinvio pregiudiziale tutte le volte che, in assenza di un pacifico orientamento giurisprudenziale di Lussemburgo, sussista una questione di interpretazione del diritto (ovvero di validità di un atto compiuto dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi) dell’Unione, rilevante nel caso concreto. Investire o no la Corte di giustizia significa ammetterla o no ad esercitare la sua funzione giurisdizionale dichiarativa: il giudice interno, quando omette di procedere al rinvio, pur essendovi tenuto, invade abusivamente – nell’ottica di questa prospettiva – la giurisdizione della corte del Plateau Kirchberg. Ne segue che il Consiglio di Stato avrebbe travalicato i limiti della propria giurisdizione, esponendo quindi la relativa sentenza alla ricorribilità in Cassazione, a norma dell’ultimo comma dell’art. 111 cost.
Le Sezioni unite rimarcano, invece, che la decisione sulla necessità o no del rinvio pregiudiziale rientra nel potere giurisdizionale del giudice italiano: la questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia – così si esprimono – “costituisce elemento processuale interno al processo, senza che essa risulti suscettibile di divenire oggetto di autonoma valutazione nell’ambito del sindacato di cui all’art. 111, comma 8°, cost.”.
Se l’afflato europeistico della tesi del ricorrente attira simpatia, resta pur vero che, a mio avviso, la pronuncia delle Sezioni unite merita piena adesione.
E’ certo superfluo ricordare che, in base ai trattati e al modo in cui è stato ripartito l’esercizio della giurisdizione, ogni giudice nazionale è applicatore (anzi, è il primo applicatore) del diritto dell’Unione e che solo al giudice nazionale spetta valutare se sussistano le condizioni per investire della questione interpretativa la Corte di giustizia[1].
L’equilibrio politico disegnato dai trattati si fonda sul presupposto della leale cooperazione fra giudici nazionali e Corte di giustizia, mettendo pienamente in conto il rischio che i primi omettano di richiedere l’interpretazione di Lussemburgo, pure quando vi sono tenuti. L’inosservanza dell’obbligo del rinvio non ha una sanzione diretta, almeno con effetti sul singolo caso, e i singoli non possono rivolgersi direttamente al Kirchberg. Tutto questo ha una logica: la supremazia del diritto dell’Unione non si attua mediante la supremazia delle corti europee rispetto ai giudici nazionali, ma solo attraverso la disponibilità ad un dialogo reciproco.
Mi permetto di sottolineare il fattore della reciprocità. Se, da un lato, si assiste a violazioni del dovere di rinvio da parte dei giudici nazionali, si nota, dall’altro lato, la costruzione in via pretoria, da parte della Corte, di un fitto sistema di limiti alla ricevibilità dei quesiti: limiti che non si trovano nei trattati e che, sotto varie forme (dalla mancanza di chiarezza del quesito, alla sua irrilevanza rispetto al caso concreto, alla natura fittizia della controversia) narrano di una politica di selezione dei casi, per cui il Kirchberg decide, senza appello, se e quando e a chi rispondere[2].
Intendo rimarcare che il sistema delinea la netta autonomia delle giurisdizioni e basa il suo funzionamento su di una paritaria relazione di lealtà: relazione che, ripeto, non va vista solo per stigmatizzare i giudici interni che non si rivolgono a Lussemburgo, ma anche per stigmatizzare Lussemburgo quando (specie su materie politicamente delicate) non risponde alle richieste di chiarimento dei giudici nazionali.
Immaginare qualcosa di diverso significa immaginare una struttura dell’Unione europea lontana da quella che è. Il disegno dei trattati, su questo aspetto, non si discosta nell’essenziale dalla primitiva forma delle Comunità: non si è mai voluto forzare la sovranità nazionale fino al punto di sanzionare direttamente il mancato utilizzo dello strumento del rinvio. Un giorno, forse, un supremo giudice europeo potrà rivedere le decisioni nazionali che abbiano violato il diritto dell’Unione: ma oggi non è così.
Rinviare o no a Lussemburgo significa decidere una questione di diritto, nel rispetto delle modalità processuali di ogni singolo Stato membro. Il giudice di ultima istanza può sbagliare: non solo quando non rinvia, laddove dovrebbe, ma anche quando commette un errore in diritto. Nell’uno come nell’altro caso, esercita il suo potere di decidere la controversia, e cioè la sua (ed esclusivamente sua) giurisdizione.
Ancora. Tutte le volte che il giudice a quo è tenuto a sospendere il processo, in attesa che una causa o una questione pregiudiziale sia decisa da un diverso organo giudiziario competente, mantiene sempre la giurisdizione sulla causa pregiudicata. Così avviene per la pregiudiziale penale, per quella costituzionale e, naturalmente, anche per quella europea. Una volta che l’antecedente logico-giuridico abbia avuto soluzione, il giudice riprende (salvo il rispetto dell’impulso di parte) la conduzione del processo pregiudicato, la cui cognizione non è mai passata al giudice della pregiudiziale. Del resto, la giurisdizione rimane in capo al giudice a quo anche se questi (in tesi, sbagliando) non si avveda o comunque non rilevi la situazione di pregiudizialità[3].
Ne segue che il mancato rinvio alla Corte di giustizia nel caso che ci occupa, anche ammesso che costituisse una violazione del diritto dell’Unione, non comportava in alcun modo una sottrazione di giurisdizione a scapito della Corte di giustizia, perché la giurisdizione sulla vicenda dell’interdittiva antimafia spettava dall’origine e rimaneva in capo agli organi della giustizia amministrativa italiana. La sentenza del Consiglio di Stato, dunque, non poteva dunque essere fatta oggetto di un’impugnazione in Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione. Inammissibile, pertanto, il ricorso e ineccepibile l’ordinanza delle Sezioni unite.
3. Quale tutela contro la ribellione del giudice nazionale di ultima istanza?
Se, dunque, la soluzione offerta al caso deve essere condivisa, resta aperto il tema, di quale tutela accordare al cittadino europeo, che faccia valere in giudizio una situazione soggettiva protetta dal diritto dell’Unione, che la veda disattesa dai tribunali di merito e che, infine, veda sfumare le possibilità di difesa perché la corte di ultima istanza si rifiuta, motivandolo o no, di sottoporre la questione pregiudiziale interpretativa alla Corte di giustizia.
Il punto è molto importante. Come ho più volte sostenuto, la possibilità per la parte di ottenere giustizia suppone la corretta applicazione del diritto dell’Unione. Di fronte alle resistenze dei giudici del proprio ordinamento, la parte può sollecitarli a rivolgersi a Lussemburgo, sapendo che, sia pure a prezzo della trafila delle impugnazioni, potrà giungere dinanzi alla corte di ultima istanza, che dovrà finalmente sottoporre alla Corte di giustizia la questione pregiudiziale[4]. Il rifiuto del giudice interno di ultima istanza spezza questo percorso ed espone la parte ad una grave privazione di tutela.
Con questa premessa, comunque si voglia guardare al problema, occorre rispondere francamente che una tutela piena e diretta non esiste.
Certo, la giurisprudenza di Lussemburgo insegna che una costante applicazione di norme interne in contrasto con il diritto dell’Unione espone lo Stato membro ad un giudizio di inadempimento ai trattati, seppure l’attività censurata provenga non dagli organi legislativi o amministrativi, ma da quelli giudiziari, che, nello stato di diritto, sono per definizione indipendenti. Prendendo le mosse da questa eventuale condanna, le parti processuali che sono risultate (ingiustamente) soccombenti nei processi interni potranno agire con una domanda risarcitoria a carico dello Stato. In sé, però, quei processi sono e restano persi[5].
Sul piano risarcitorio, si colloca ora (e tanto più dopo la legge n. 18 del 27 febbraio 2015) l’azione proponibile contro lo Stato per la responsabilità del giudice che abbia consapevolmente e palesemente violato il diritto dell’Unione, anche omettendo un rinvio pregiudiziale doveroso. Al netto della difficoltà di individuare un’ipotesi di responsabilità quando la decisione è collegiale, è comunque del tutto evidente che neppure per questa via si perviene ad una tutela equivalente a quella (in ipotesi, illegittimamente) negata.
Se, quindi, il sistema appare inadeguato, sotto il duplice profilo di una più intensa applicazione del diritto dell’Unione e di un’efficace protezione dei diritti individuali, mi pare che si debba prendere atto che questa imperfezione è conseguenza, come dicevo più sopra, dell’altrettanto imperfetto livello di integrazione europea. Né le originarie Comunità, né l’attuale Unione sono uno stato federale e, per il momento, il rispetto di talune sfere di discrezionalità nazionale rappresenta il prezzo politico da pagare per non alterare equilibri, la cui fragilità è sotto gli occhi di tutti.
Detto in altre parole. Ponendo l’obbligo di rinvio a carico dei giudici di ultima istanza, ma non sanzionandone in modo diretto l’inosservanza, i trattati hanno costruito una sorta di test sul grado di assorbimento del diritto europeo all’interno dei sistemi nazionali, accettando che il livello di cooperazione crescesse progressivamente, così come di fatto è accaduto, senza forzare la mano. Certo, in questo modo le sbavature sono inevitabili, ma occorre valutare realisticamente lo stato dell’arte.
4. Lo scenario: l’europeismo come campo di battaglia fra le alte corti?
Occorre, infine, collocare l’ordinanza qui commentata nello scenario, quanto mai attuale, della verifica in sede europea della correttezza della posizione ermeneutica che restringe il controllo impugnatorio della Cassazione nei confronti dei Consiglio di Stato e della Corte dei Conti per i soli motivi inerenti alla giurisdizione, non includendo nell’ambito applicativo dell’art. 111, comma 8°, cost., anche le ipotesi di manifesta violazione del diritto dell’Unione europea[6].
L’ordinanza delle Sezioni unite n. 19598 del 18 settembre 2020 è nota ed è stata resa già oggetto di articolati commenti, ai quali rimando[7]. Mi limito ad osservare che l’ordinanza qui esaminata vi fa riferimento, per notare che quella presa di posizione e il relativo rinvio a Lussemburgo non contrasta con la soluzione offerta al caso deciso.
Mi sembra chiaro, però, che in un diverso contesto culturale nessun avveduto difensore avrebbe potuto ipotizzare un ricorso in Cassazione contro una sentenza del Consiglio di Stato, individuando il “motivo attinente alla giurisdizione” nel mancato rinvio di una questione alla Corte di giustizia. Il ricorso, seppure dichiarato inammissibile, è parso plausibile perché il dibattito in corso si estende ad una possibile rivisitazione dell’equilibrio costituzionale fra il giudice ordinario e i giudici speciali, sullo sfondo, se non della giurisdizione unica, quanto meno di un riconoscimento di più ampi poteri alla Corte di Cassazione. La stessa (a mio avviso, criticabile) proposta di legge per l’istituzione del c.d. Tribunale dei conflitti rientra appieno in questa fase di riflessione[8].
Senza uscire dall’ambito del commento all’ordinanza n. 24107 del 2020, qualche osservazione su questo scenario non può mancare.
È interessante notare come la prospettiva, intorno alla quale ruota il dibattito, vede la Corte di Cassazione porsi come supremo garante interno dell’applicazione e, previo rinvio a Lussemburgo, dell’interpretazione del diritto dell’Unione. Ora, l’esigenza di rispettare l’art. 267 Tfue incombe su tutti gli organi giurisdizionali di ultima istanza, allo stesso modo della corretta applicazione del diritto positivo interno. L’eventuale ricollocazione delle scelte sul rinvio pregiudiziale, dal piano del processo a quello dell’esercizio della giurisdizione, non darebbe, di per sé, nessuna maggiore garanzia. La lealtà europeista non dipende dalle competenze astratte di questo o di quell’organo, ma dalla sensibilità dei singoli magistrati che li compongono. Se è vero che negli anni più recenti la Cassazione ha svolto in modo egregio il compito di dialogare con la Corte di giustizia, così non è sempre stato.
Le statistiche della Corte di giustizia ci dicono, a chiari numeri, che dall’inizio dell’avventura comunitaria a tutto il 2019, i giudici italiani hanno proposto 1205 rinvii pregiudiziali. Di questi, 1205 provengono da giudici di merito, 4 dalla Corte costituzionale, 204 dal Consiglio di Stato e “soltanto” 170 dalla Corte di Cassazione. Il mio “soltanto” intende dire che, a volgersi indietro, ci si accorge che Palazzo Spada, almeno quantitativamente, ha dialogato con Lussemburgo più di piazza Cavour.
Se, poi, si guarda alla percentuale di rinvii pregiudiziali effettuati dalle corti di ultima istanza rispetto al totale, risulta (per limitarsi ai paesi di più antica militanza europea) che le alte corti italiane raggiungono il 23,87%, quelle belghe il 25,78%, quelle francesi il 27,56% e quelle tedesche il 32,41%[9].
La dura franchezza dei numeri mi dice che, dietro all’elegante questione giuridica, nulla assicura che assegnare alla Cassazione l’ultima parola sui rinvii pregiudiziali porterebbe un incremento del dialogo con la Corte di giustizia.
Quanto all’equilibrio costituzionale italiano, il mio parere è che, in prospettiva, la giurisdizione unica sia preferibile: è lo stesso impatto del diritto europeo, che non distingue fra diverse tipologie di posizioni soggettive e assegna ai giudici di Lussemburgo il compito di decidere, con le medesime norme processuali, diverse tipologie di controversie, a spingere in questa direzione, rendendo ormai non più razionale la struttura interna. Si tratta, però, di una prospettiva lontana, per la quale i tempi non sembrano ancora maturi[10].
Non vi è dubbio, al contempo, che si assista a una sorta di deriva dei continenti: vi sono segnali che manifestano una qualche insoddisfazione per l’assetto attuale e la vicenda sottostante all’ordinanza qui commentata ne è un esempio.
Ora, è necessario evitare che la valorizzazione del diritto dell’Unione diventi, forse al di là delle intenzioni, non tanto il vero obiettivo di questo confronto, ma piuttosto il terreno su cui si combatte un’altra battaglia, che tende in qualche modo ad attenuare, se non a superare, l’equivalenza costituzionale fra i distinti plessi giurisdizionali.
Per tutte queste ragioni, l’ordinanza n. 24017 del 2020 è più importante di quanto non appaia ad un primo sguardo. Le Sezioni unite, con una serena e lineare motivazione, riconducendo correttamente al profilo processuale la decisione circa l’effettuazione o no del rinvio pregiudiziale, rispettano l’autonomia del Consiglio di Stato, si mantengono all’interno della ripartizione di funzioni voluta dalla Costituzione ed evitano controproducenti fughe in avanti, in un momento in cui occorre essere europeisti, ma con i piedi per terra.
* Ndr sull'argomento su questa Rivista Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione) di Fabio Francario e uida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020. di Maria Alessandra SANDULLI e Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598) Giuseppe Tropea
[1] Si veda l’ampia monografia di RAITI, La collaborazione giudiziaria nell’esperienza del rinvio pregiudiziale comunitario, Milano, 2003, specie p. 235 ss.
[2] Sulle forme di controllo della Corte di giustizia sulla ricevibilità dei quesiti pregiudiziali, v. D’ALESSANDRO, Il procedimento pregiudiziale interpretativo dinanzi alla Corte di giustizia, Torino, 2012, p. 101 ss.; RAITI, op. cit., p. 9 ss.; in lingua tedesca, MALFERRARI, Zurückweisung von Vorabentscheidungsersuchen durch den EuGH, Baden-Baden, 2003.
[3] Sul tema della pregiudizialità, v. per tutti ZUCCONI GALLI FONSECA, Pregiudizialità e rinvio (contributo allo studio dei limiti soggettivi dell’accertamento), Bologna, 2011.
[4] Ho utilizzato, in questo senso e con le opportune precisazioni, l’espressione “domanda pregiudiziale”, impiegata peraltro dall’art. 94 del regolamento di procedura della Corte di giustizia. V. in proposito, BIAVATI, Diritto processuale dell’Unione europea, 5° ed., Milano, 2015, p. 412 ss. La mia impostazione non è condivisa dalla maggior parte della dottrina, che, peraltro, mi pare si limiti ad uno sguardo prettamente formale del fenomeno: v. ad es. D’ALESSANDRO, op. cit., p. 17 ss.
Sull’art. 94 del regolamento della Corte, v. GRASSO, sub art. 94, in AMALFITANO-CONDINANZI-IANNUCCELLI, Le regole del processo dinanzi al giudice dell’Unione europea, Napoli, 2017, p. 586 ss.
[5] Si veda la giurisprudenza inaugurata dalla Corte di giustizia con la sentenza Köbler (30settembre 2003, in causa C-224/01), su cui v. fra gli altri SCODITTI, “Francovich” presa sul serio: la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario derivante da provvedimento giurisdizionale, in Foro it., IV, 2004, c. 4 ss.; RASIA, Il controllo della Commissione europea sull’interpretazione del diritto comunitario da parte delle corti supreme degli Stati membri, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, p. 1025 ss.; adde, si vis, BIAVATI, Inadempimento degli Stati membri al diritto comunitario per fatto del giudice supremo: alla prova la nozione europea di giudicato, in Int’l Lis, 2005, n. 2, p. 62-66.
[6] Il tema dei limiti della ricorribilità in Cassazione delle sentenze del Consiglio di Stato è stato affrontato di recente in numerosi ed ampi contributi. Ne ricordo alcuni: ZINGALES, Pubblica amministrazione e limiti alla giurisdizione tra principi costituzionali e strumenti processuali, Milano, 2007; PANZAROLA, Il controllo della Corte di cassazione sui limiti della giurisdizione del giudice amministrativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, p. 587 ss.; POLICE-CHIRICO, I “soli motivi inerenti alla giurisdizione” nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Il processo, 2019, p. 113 ss.
[7] V. per tutti CARRATTA-COSTANTINO-RUFFINI, Limiti esterni e giurisdizione: il contrasto fra Sezioni Unite e Corte Costituzionale arriva alla Corte UE. Note a prima lettura di Cass. SS. UU. 18 settembre 2020, n. 19598, in www.questionegiustizia.it; M. LIPARI, Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione tra l’art. 111, co. 8, della Costituzione e il diritto dell’Unione Europea: la parola alla Corte di Giustizia, in www.giustiziainsieme.it.
[8] Su cui v. per tutti TRAVI, Considerazioni sulla proposta di legge per l’istituzione del Tribunale dei conflitti, in www.questionegiustizia.it, 2019.
[9] Le statistiche della Corte di giustizia sono agevolmente consultabili sul sito istituzionale www.curia.europa.eu.
[10] Si veda la recente messa a punto di DEL ROSSO, Unità della giurisdizione e prosecuzione del processo. Contributo allo studio della translatio iudicii, Napoli, 2020. Fra i moltissimi contributi su questo argomento, ricordo quello di VERDE, Giurisdizione e giurisdizioni (un tema caro a Franco Cipriani), in Il giusto proc. civ., 2020, p. 17 ss.
Il diritto alla riservatezza e la tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione*
di Alessandro Centonze
Sommario: 1. I fondamenti costituzionali e sovranazionali del diritto alla tutela dei dati personali - 2. La tutela dei dati personali e l’approvazione del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 - 3. La tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione - 4. La tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione: il settore civile - 5. La tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione: il settore penale - 6. Gli interventi della Corte costituzionale finalizzati a delimitare l’ambito applicativo del principio di tutela della riservatezza individuale con riferimento ai provvedimenti giurisdizionali.
1. I fondamenti costituzionali e sovranazionali del diritto alla tutela dei dati personali
La tutela dei dati personali è un diritto fondamentale della persona, che costituisce una manifestazione del diritto all’intangibilità della sfera privata, riconosciuto da una pluralità di fonti normative nazionali e sovranazionali[1].
Sul piano nazionale, devono essere prese in considerazione le disposizioni degli artt. 15 e 21 Cost., pur dovendosi precisare che non è rinvenibile nella Carta costituzionale alcuna esplicita menzione del diritto alla riservatezza della persona.
Più precisamente, la norma dell’art. 15 Cost. si articola in due commi.
Il primo di tali commi recita: «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili»; il secondo di tali commi, invece, stabilisce: «La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge».
Tale disposizione deve essere collegata all’art. 21 Cost., che disciplina la libertà di stampa, di cui ai presenti fini, si ritiene utile il richiamo dei soli primi due commi.
In particolare, nel primo comma dell’art. 21 Cost. si prevede: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»; nel secondo di tali commi, invece, si stabilisce: «La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».
Sul piano sovranazionale, invece, si ritiene opportuno richiamare gli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, l’art. 16 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e l’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Di queste previsioni normative si impone una preliminare ricognizione, costituendo tali disposizioni il punto di riferimento indispensabile per inquadrare, sul piano del diritto internazionale convenzionale, il tema che si sta affrontando.
Occorre, pertanto, prendere le mosse dall’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, intitolato «Rispetto della vita privata e della vita familiare», che stabilisce: «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni».
Tale disposizione è strettamente collegata all’art. 8 della stessa Carta, intitolato «Protezione dei dati di carattere personale», che si articola in tre paragrafi, di cui, ai presenti fini, si ritiene utile il richiamo dei soli primi due paragrafi.
In particolare, nel primo paragrafo dell’art. 8, si prevede: «Ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano»; nel secondo paragrafo di tale disposizione, invece, si stabilisce: «Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni persona ha il diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica».
Queste disposizioni normative, a loro volta, devono essere correlate al primo e al secondo paragrafo dell’art. 16 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.
Più precisamente, nel primo paragrafo dell’art. 16 del Trattato, si prevede: «Ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano»; nel secondo di tali paragrafi, invece, si stabilisce: «Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, stabiliscono le norme relative alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati di carattere personale da parte delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell’Unione, nonché da parte degli Stati membri nell’esercizio di attività che rientrano nel campo di applicazione del diritto dell’Unione, e le norme relative alla libera circolazione di tali dati».
Il quadro normativo in esame, infine, deve essere integrato con la previsione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, intitolato «Diritto al rispetto della vita privata e familiare», che è articolato in due paragrafi. Il richiamo dell’art. 8 è particolarmente utile ai nostri fini, perché in questa disposizione convenzionale si contemperano il diritto alla riservatezza della persona con le ragioni, espressamente indicate nel secondo paragrafo della stessa disposizione, che giustificano la compressione di tale prerogativa individuale.
In particolare, nel primo paragrafo dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, si prevede: «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza»; nel secondo paragrafo dell’art. 8, invece, si stabilisce: «Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».
Ricostruito, sia pure sinteticamente, il contesto normativo, nazionale e sovranazionale, nel quale devono essere inseriti i temi del diritto alla riservatezza della persona e della tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione, occorre passare a considerare i punti di riferimento normativo dell’ordinamento italiano.
2. La tutela dei dati personali e l’approvazione del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196
Nella cornice normativa che si è descritta nel paragrafo precedente, deve evidenziarsi che nell’ordinamento italiano il punto di partenza di ogni disamina sul tema della tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali è rappresentato dal d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, recante «Codice in materia di protezione dei dati personali»[2].
Questo testo legislativo, a sua volta, deve essere correlato alle norme del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riferimento al trattamento e alla libera circolazione dei dati personali, convenzionalmente noto, per la sua denominazione in lingua inglese, come General Data Protection Regulation ovvero con l’acronimo di GDPR.
Questa correlazione normativa si impone in conseguenza del fatto che l’entrata in vigore del Regolamento (UE) 2016/679, essendo direttamente applicabile in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, a partire dal 25 maggio 2018, ha reso necessario l’adeguamento del preesistente “Codice in materia di protezione dei dati personali”[3], introdotto nel nostro ordinamento giuridico con il d.lgs. n. 196 del 2003.
Si tratta, a ben vedere, di una vera e propria opera di adeguamento normativo, perché il legislatore italiano non ha abrogato il previgente “Codice in materia di protezione dei dati personali”, provvedendo a una sua complessiva rivisitazione, realizzata mediante l’approvazione del d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101, recante «Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)». Tale procedimento di rivisitazione del testo normativo preesistente è stato attuato mediante l’abrogazione delle disposizioni previgenti incompatibili con il Regolamento (UE) 2016/679 e il contestuale adeguamento del «Codice in materia di protezione dei dati personali», effettuato attraverso l’inserimento di nuove disposizioni o la modifica di quelle precedentemente vigenti.
All’esito di questo complesso procedimento di rivisitazione sistematica, il legislatore italiano ha articolato la materia della protezione dei dati personali in due distinti piani normativi, rispettivamente riguardanti il trattamento dei dati personali da parte degli organi di giustizia e la divulgazione all’esterno, per finalità di informazione e di informatica giuridica, delle pronunce giurisdizionali.
Al primo di questi piani normativi, riguardante il trattamento dei dati personali da parte degli organi di giustizia, è dedicato l’art. 2-duodecies del d.lgs. n. 196 del 2003, così come integrato dal d.lgs. n. 101 del 2018.
Questa disposizione, in particolare, stabilisce che, nella materia in esame, i «diritti e gli obblighi di cui agli artt. da 12 a 22 e 34 del Regolamento sono disciplinati nei limiti e con le modalità previste dalle disposizioni di legge o di regolamento che regolano tali procedimenti».
Nel quarto comma dell’art. 2-duodecies, inoltre, si precisa che i trattamenti dei dati personali effettuati per “ragioni di giustizia” sono quelli «correlati alla trattazione giudiziaria di affari e controversie», nonché quelli «effettuati in materia di trattamento giuridico ed economico del personale di magistratura, nonché i trattamenti svolti nell’ambito delle attività ispettive su uffici giudiziari [...]». Nello stesso contesto normativo, si precisa anche che le “ragioni di giustizia” non ricorrono «per l’ordinaria attività amministrativo-gestionale di personale, mezzi, strutture, quando non è pregiudicata la segretezza di atti direttamente connessi alla trattazione giudiziaria di procedimenti».
Al secondo di questi piani normativi, riguardante la divulgazione all’esterno, per finalità di informazione e di informatica giuridica, del contenuto dei provvedimenti giurisdizionali, sono dedicate le norme degli artt. 51 e 52 del d.lgs. n. 196 del 2003, così come integrate dal d.lgs. n. 101 del 2018.
Gli artt. 51 e 52, quindi, costituiscono la piattaforma normativa indispensabile per inquadrare il tema del trattamento dei dati personali in materia di informazione e di informatica giuridica, cui si collega la questione delle limitazioni applicabili alla diffusione, integrale o parziale, delle pronunzie giudiziarie.
Più precisamente, l’art. 51 del «Codice in materia di protezione dei dati personali», che è rimasto immutato a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 101 del 2018, disciplina la diffusione dei provvedimenti giudiziari, prevedendo, nel suo primo comma, che i «dati identificativi delle questioni pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado sono resi accessibili a chi vi abbia interesse anche mediante reti di comunicazione elettronica, ivi compreso il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet». Il secondo comma dell’art. 51, invece, stabilisce che le «sentenze e le altre decisioni dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado depositate in cancelleria o segreteria sono rese accessibili anche attraverso il sistema informativo e il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet, osservando le cautele previste dal presente capo».
Le cautele richiamate dal secondo comma dell’art. 51, a sua volta, sono disciplinate dal successivo art. 52, parzialmente modificato dal d.lgs. n. 101 del 2018, che individua i limiti alla diffusione del contenuto, integrale o parziale, delle sentenze e degli altri provvedimenti giurisdizionali. Tali limiti si applicano sia nelle ipotesi di divulgazione per finalità di informazione giuridica su riviste scientifiche o su supporti elettronici, sia in ogni altra ipotesi di riproduzione di pronunce giudiziarie, come nel caso della diffusione di notizie su organi di stampa.
3. La tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione
Dopo avere ricostruito la cornice normativa nella quale si inseriscono i temi del diritto alla riservatezza e della tutela dei dati personali, occorre passare a considerare le modalità con cui tale protezione viene garantita nei provvedimenti giurisdizionali, civili e penali, della Corte di cassazione.
A tale problematica è dedicato il decreto del Primo Presidente della Corte di cassazione 14 dicembre 2016, n. 178, dalla cui ricognizione occorre muovere per inquadrare la materia di cui ci stiamo occupando[4].
Occorre premettere che questo decreto mira ad assicurare la più ampia diffusione dei provvedimenti giurisdizionali, civili e penali, della Corte di cassazione, che però deve essere garantita nel rispetto del diritto alla protezione dei dati personali dei soggetti processuali. A tali obiettivi ci si si riferisce espressamente nel preambolo del decreto presidenziale in esame, in cui si richiama «l’esigenza di assicurare la più ampia informazione in ordine alle decisioni della Corte di cassazione nel rispetto del diritto alla protezione dei dati personali […] relativamente alla riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica»[5].
Allo scopo di assicurare il contemperamento di tali esigenze, nel decreto n. 178 del 2016, innanzitutto, il Primo Presidente della Corte di cassazione sollecita l’attenzione dei collegi giudicanti – e in particolare dei presidenti e degli estensori dei provvedimenti giurisdizionali oggetto di potenziale diffusione esterna – sulla necessità o sull’eventualità di disporre l’oscuramento dei dati identificativi dei soggetti coinvolti in un procedimento di legittimità, civile o penale, con le modalità disciplinate dall’art. 52 del d.lgs. n. 196 del 2003[6].
Tale collaborazione, processuale e istituzionale, nella prospettiva auspicata dal decreto presidenziale in esame, si rende indispensabile, attesa «l’impossibilità di prevedere forme di controllo e di “oscuramento” standardizzate, in particolare con riferimento alle specifiche parti da anonimizzare nei singoli provvedimenti e all’individuazione dei procedimenti nei quali sono coinvolti minori non come parti, ma, ad esempio, come testimoni»[7].
In questo contesto, occorre distinguere le ipotesi in cui l’oscuramento dei dati personali di un soggetto processuale deve essere eseguito sulla base delle emergenze del caso concreto, previste dall’art. 52, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003, dalle ipotesi in cui l’oscuramento dei dati personali deve essere eseguito obbligatoriamente, previste dall’art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 196 del 2003.
Rientrano, in particolare, nel primo ambito normativo, connotato da discrezionalità, le ipotesi previste dall’art. 52, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003, rilevanti «nei procedimenti civili e nei procedimenti penali concernenti “dati sensibili” […]», per i quali l’oscuramento dei dati personali «ha ad oggetto unicamente il nominativo dell’interessato […]»[8].
Rientrano, invece, nel secondo ambito, connotato da obbligatorietà, le ipotesi, previste dall’art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 196 del 2003, rilevanti «nei procedimenti civili concernenti minori, rapporti di famiglia e stato delle persone, nonché nei procedimenti penali concernenti reati contro la famiglia (artt. da 556 a 574-bis cod. pen.), reati di cui agli artt. 414-bis e 416, settimo comma, cod. pen., reati di cui all’art. 591 cod. pen., reati di cui agli artt. da 600-bis a 600-octies e da 609-bis a 609-undecies cod. pen., reati di cui all’art. 643 cod. pen., reati di cui all’art. 734-bis cod. pen., reati in tema di prostituzione, reati in materia di interruzione volontaria della gravidanza, reati in materia di procreazione medicalmente assistita, e reati commessi da o in danno di minorenni […]»[9]. In queste ipotesi, secondo quanto previsto dal decreto in questione, l’oscuramento «deve riguardare non solo i dati identificativi dell’interessato, ma ogni altro dato, anche relativo a terzi, tramite il quale si possa risalire anche direttamente alla sua identità»[10].
Occorre, infine, evidenziare che, nella prospettiva collaborativa auspicata dal provvedimento presidenziale in esame, l’attività di selezione dei procedimenti oscurabili deve essere svolta dagli organi della Corte di cassazione da cui transita il fascicolo processuale dopo la presentazione del ricorso, costituiti, come vedremo, dalle Cancellerie penali e civili; dagli Uffici per l’esame preliminare dei ricorsi, costituiti presso le sezioni civili e penali; dai collegi giudicanti ai quali il fascicolo è assegnato dopo la fissazione dell’udienza; dal magistrato estensore della sentenza; dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione; dall’Ufficio C.E.D. della Corte di cassazione[11].
4. La tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione: il settore civile
In questa cornice generale, in conformità delle disposizioni contenute nel decreto n. 178 del 2006, occorre distinguere i provvedimenti giurisdizionali della Suprema Corte a seconda che siano adottati da sezione civili o sezioni penali[12].
Prendendo, pertanto, le mosse dai provvedimenti giurisdizionali adottati dalle sezioni civili della Corte di cassazione, deve evidenziarsi che la Cancelleria centrale civile provvede d’ufficio a segnalare i procedimenti per i quali è stata presentata una richiesta di oscuramento dei dati personali e i procedimenti per i quali l’oscuramento è obbligatorio. L’oscuramento obbligatorio, in particolare, è previsto per i procedimenti civili riguardanti le materie dell’adozione; dell’assistenza ai minori; della capacità della persona fisica; della delibazione di sentenze straniere; della famiglia; dell’interruzione di gravidanza; della responsabilità civile; del lavoro privato; dello stato civile delle persone[13].
In queste ipotesi la Cancelleria centrale civile provvede alla possibilità di procedere alla segnalazione dell’oscuramento dei dati personali dei soggetti processuali, mediante «l’apposizione di una stampigliatura sul fascicolo, utilizzando i marcatori predisposti in via automatica»[14].
La medesima annotazione fascicolare, relativa all’oscuramento dei dati personali dei soggetti processuali, deve essere apposta dalla Cancelleria della Sesta Sezione civile sul fascicoletto di spoglio e dalla Cancelleria delle Sezioni unite civili; ipotesi, quest’ultima, statisticamente marginale, riguardando i soli procedimenti trattati dalle Sezioni unite civili, numericamente contenuti.
Un ruolo fondamentale, quindi, viene svolto dai magistrati addetti all’esame preliminare dei ricorsi, afferenti al settore civile, che devono verificare preliminarmente se i procedimenti «per i quali sussistono o possono sussistere i presupposti per disporre l’oscuramento di dati personali o identificativi risultino segnalati con le modalità sopra indicate sul relativo fascicolo […]»[15] e, in caso negativo, devono provvedere «a far apporre sul fascicolo e a fare inserire nel registro generale la relativa annotazione»[16].
Analoga verifica deve essere svolta dalle cancellerie dei singoli sezioni civili, che devono provvedere con le stesse modalità prescritte per i magistrati addetti all’esame preliminare dei ricorsi, qualora ricevano una richiesta di oscuramento dei dati personali da parte di un soggetto interessato.
Superata questa fase procedimentale preliminare e assegnato il fascicolo a un’udienza civile, i singoli collegi giudicanti, nei casi in cui si debba disporre l’oscuramento dei dati personali di un soggetto processuale, ai sensi dell’art. 52, commi 2 e 5, del d.lgs. n. 196 del 2003[17] ovvero nelle ipotesi di accoglimento della richiesta presentata dall’interessato, devono fare apporre sul ruolo di udienza «un’annotazione con la quale si segnala che prima dell’inserimento del provvedimento nella rete Internet […] debbono essere oscurati i dati in questione […]»[18].
Dopo la decisione del procedimento, l’estensore del provvedimento giurisdizionale civile, in sede di redazione della motivazione della minuta della sentenza, deve indicare alla cancelleria i dati identificativi oggetto di oscuramento, avendo cura di sottolineare «con una linea continua le parole e le indicazioni numeriche non ostensibili direttamente in sede di redazione dello stesso»[19].
Depositato il provvedimento, l’Ufficio del Massimario e del ruolo della Corte di cassazione, in relazione alle pronunzie giudiziarie sottoposte a scrutinio ai fini della massimazione ovvero dell’inserimento nel “Servizio Novità”, deve segnalare i casi in cui si deve disporre l’oscuramento obbligatorio dei dati identificativi ex art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 196 del 2003, laddove «non già indicati nel provvedimento, apponendo una barra sulle parole e sulle indicazioni non ostensibili»[20].
Infine, a completamento della descritta procedura, l’Ufficio del C.E.D. della Corte di cassazione deve eseguire le operazioni di oscuramento dei dati identificativi dei soggetti processuali, nel rispetto delle indicazioni ricevute.
5. La tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione: il settore penale
Occorre, quindi, passare a considerare le disposizioni contenute nel decreto del Primo Presidente n. 178 n. del 2006, relative alla tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Suprema Corte riguardanti il settore penale[21].
Anche, in questo caso, assume un ruolo decisivo e preliminare la Cancelleria centrale penale della Corte di cassazione, che provvede a segnalare «i procedimenti per i quali vi è richiesta di oscuramento dei dati personali, nonché dei procedimenti che abbiano ad oggetto reati contro la famiglia (artt. da 556 a 574-bis cod. pen.), reati di cui agli artt. 414-bis e 416, settimo comma, cod. pen., reati di cui all’artt. 591 cod. pen., reati di cui agli artt. da 600-bis a 600-octies e da 609-bis a 609-undecies cod. pen., reati di cui all’art. 643 cod. pen., reati in tema di prostituzione, reati in materia di interruzione volontaria della gravidanza, reati in materia di procreazione medicalmente assistita, reati cui all’art. 734-bis cod. pen., reati commessi da o in danno di minorenni […]»[22]. In tali ipotesi, la Cancelleria centrale penale, analogamente a quanto si è evidenziato per il settore civile, procede «mediante apposizione di stampigliatura sul fascicolo, utilizzando i marcatori predisposti in via automatica»[23].
In questi casi, i magistrati addetti all’esame preliminare dei ricorsi per cassazione, afferenti al settore penale, devono verificare se i procedimenti riguardanti le materie oggetto di oscuramento e comunque quelli per i quali sussistono o possono sussistere i presupposti per disporre l’oscuramento di dati personali o identificativi, risultino «segnalati con le modalità sopra indicate sul relativo fascicolo […]»[24] e, in caso negativo, devono provvedere a fare «apporre sul fascicolo e a fare inserire nel registro generale la relativa annotazione»[25].
Analoga incombenza grava sulle cancellerie delle singole sezioni penali della Suprema Corte, che devono provvedere, con le modalità richiamate, qualora ricevano una richiesta di oscuramento dei dati personali da parte di un soggetto interessato.
Superata questa fase preliminare e assegnato il fascicolo processuale a un’udienza penale, i singoli collegi giudicanti, nelle ipotesi in cui si debba disporre l’oscuramento dei dati personali o comunque identificativi, ai sensi dell’art. 52, commi 2 e 5, del d.lgs. n. 196 del 2003, ovvero in accoglimento della richiesta presentata dall’interessato, provvedono ad apporre sul ruolo di udienza «un’annotazione con la quale si segnala che, prima dell’inserimento del provvedimento nella rete Internet […] debbono essere oscurati i dati in questione […]»[26].
Dopo la decisione, l’estensore del provvedimento giurisdizionale penale, in sede di redazione della motivazione della minuta della sentenza, provvede a segnalare i dati che devono essere oscurati, provvedendo a sottolineare «con una linea continua le parole e le indicazioni numeriche non ostensibili direttamente in sede di redazione dello stesso»[27].
Depositato il provvedimento, l’Ufficio del Massimario e del ruolo della Corte di cassazione, in relazione ai provvedimenti giurisdizionali penali sottoposti al suo scrutinio, ai fini della massimazione ovvero dell’inserimento nel “Servizio Novità” della Suprema Corte, deve segnalare i casi in cui si debba disporre l’oscuramento dei dati identificativi d’ufficio, ai sensi dell’art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 196 del 2003, laddove gli stessi non siano stati indicati nell’atto processuale, apponendo «una barra sulle parole e le indicazioni numeriche non ostensibili»[28].
Infine, a completamento della procedura che si è richiamata, l’Ufficio del C.E.D. della Corte di cassazione provvede a eseguire le operazioni di oscuramento dei dati identificativi, nel rispetto delle indicazioni ricevute.
6. Gli interventi della Corte costituzionale finalizzati a delimitare l’ambito applicativo del principio di tutela della riservatezza individuale con riferimento ai provvedimenti giurisdizionali
Nella parte conclusiva di questa esposizione ci si vuole concentrare sugli interventi della Corte costituzionale maggiormente rappresentativi delle esigenze di tutela dei dati personali che si sono esposte nei paragrafi precedenti[29].
In questa cornice, innanzitutto, occorre evidenziare che la Corte costituzionale, a partire dalla sentenza 26 marzo 1990, n. 139[30], ha sempre ricondotto il tema della protezione dei dati personali nell’ambito del principio di tutela della riservatezza individuale, così come prefigurato dall’art. 15 Cost.
In particolare, con la sentenza n. 139 del 1990, riguardante la legittimità del d.lgs. 6 settembre 1989 n. 322, recante «Norme sul sistema statistico nazionale e sulla riorganizzazione dell’Istituto nazionale di statistica, ai sensi dell’art. 24 l. 23 agosto 1988 n. 440», la Corte costituzionale evidenziava che le finalità perseguite dal principio di tutela della riservatezza individuale mirano a «prevenire qualsiasi rischio che i dati raccolti siano conosciuti all’esterno nel loro riferimento nominativo o individuale ovvero in modo tale che siffatto riferimento possa esser ricostruito pur in presenza di dati anonimi […]»[31].
La Corte costituzionale, al contempo, evidenziava che lo scopo di «tale principio è duplice, in quanto, senza siffatte garanzie, da un lato, le statistiche potrebbero risultare non veridiche e, dall’altro lato, potrebbero essere messi in pericolo beni individuali strettamente connessi al godimento di libertà costituzionali e, addirittura, di diritti inviolabili […]»[32].
Nella stessa direzione ermeneutica si pone la sentenza 23 giugno 2005, n. 271[33], intervenuta a distanza di un quindicennio dalla sentenza n. 139 del 1990, che si pronunciava sul d.lgs. n. 196 del 2003, affermandone la legittimità, evidenziando che con tale disciplina il legislatore mirava a tutelare il trattamento dei dati personali, introducendo una disciplina – conforme al dettato costituzionale – che, pur riconoscendo tutele differenziate in relazione ai diversi tipi di dati personali e all’eterogeneità dei contesti normativi in cui tali dati vengono utilizzati, si caratterizzava per il riconoscimento di una serie di diritti intangibili delle persone fisiche e giuridiche.
Il terzo e fondamentale arresto della Corte costituzionale, al quale occorre riferirsi, è quello relativo alla sentenza 21 febbraio 2019, n. 20[34].
Con tale pronuncia la Corte costituzionale, nel dichiarare incostituzionale l’obbligo di pubblicare on-line i dati personali sul reddito e sul patrimonio dei dirigenti pubblici diversi da quelli che ricoprono incarichi apicali, tratteggiava in maniera efficace e aderente all’attuale stato del pensiero giuridico il fondamento costituzionale del diritto alla riservatezza dei dati personali, che costituisce un risvolto della manifestazione del diritto fondamentale all’intangibilità della sfera privata[35].
Secondo il Giudice costituzionale, nell’epoca attuale, il diritto alla riservatezza si atteggia principalmente quale diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla persona, che si giova, a sua protezione, dei canoni elaborati in sede sovranazionale per valutare la legittimità della raccolta, del trattamento e della diffusione dei dati personali[36].
La Corte costituzionale, inoltre, tenuto conto dell’affermazione degli strumenti digitali e del progresso tecnologico, che permettono una rapida e indiscriminata diffusione delle informazioni tramite la rete e le comunicazioni telematiche, prefigurava una “nozione dinamica”[37] del diritto alla riservatezza, idonea a consentire all’interessato di controllare la diffusione dei suoi dati e di reagire di fronte a comportamenti illegittimi dei soggetti che intervengono nelle operazioni di trattamento dei dati personali.
Naturalmente, il diritto alla riservatezza può subire deroghe o limitazioni, che, tuttavia, si devono ispirare ai principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, in modo da operare nei limiti indispensabili a consentire di raggiungere obiettivi legittimi, sottesi all’acquisizione e alla diffusione delle informazioni. Diventa, pertanto, indispensabile identificare le misure che incidono in modo limitato sul diritto alla riservatezza dell’individuo, contribuendo al contempo al raggiungimento di legittimi obiettivi informativi.
D’altra parte, secondo la Corte costituzionale, eguale rilievo deve essere riconosciuto ai principi di pubblicità e di trasparenza, rilevanti, non solo, quali corollari del principio democratico di cui all’art. 1 Cost. per tutti gli aspetti rilevanti della vita pubblica, ma, anche, ai sensi dell’art. 97 Cost., per il buon funzionamento della pubblica amministrazione e per la gestione dei dati che la stessa possiede e controlla.
*Relazione svolta il 19 gennaio 2021, quale coordinatore del Gruppo di lavoro dedicato a “La tutela dei dati personali e l’accesso alle informazioni sensibili nei provvedimenti della Corte di cassazione”, costituito nell’ambito del Corso organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, con formazione da remoto, intitolato “Trattamento dei dati personali in ambito giudiziario”, tenutosi nelle date del 18 e del 19 gennaio 2021.
[1] Sui temi del diritto alla riservatezza individuale e della protezione dei dati personali, si rinvia, senza alcuna pretesa di esaustività, agli interventi di E. Brugiotti, La privacy attraverso le “generazioni dei diritti”. Dalla tutela della riservatezza alla protezione dei dati personali fino alla tutela del corpo elettronico, in www.dirittifondamentali.it, 8 maggio 2013; G. Grasso, Il trattamento dei dati di carattere personale e la riproduzione dei provvedimenti giudiziari, in Foro it., 2018, V, 349; S. Niger, Le nuove dimensioni della privacy: dal diritto alla riservatezza alla protezione dei dati personali, Cedam, Padova, 2006; D. Piccione, Riservatezza (Disciplina amministrativa), voce, in Enciclopedia del Diritto (Annali), Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2015, pp. 722 ss.; S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Giuffrè, Milano 2006.
[2] Sulla rilevanza sistematica e sulla portata applicativa del “Codice in materia di protezione dei dati personali” si rinvia a Garante per la protezione dei dati personali, Linee guida in materia di trattamento di dati personali nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica del 2 dicembre 2010, in www.garanteprivacy.it; per un commento sul “Codice in materia di protezione dei dati personali” si rinvia agli studi di R. Panetta, Circolazione e protezione dei dati personali, tra libertà e regole del mercato. Commentario al Regolamento UE n. 679/2016 e al d.lgs. n. 101/2018, Giuffrè Francis Lefevbre, Milano, 2019; F. Midiri, Il diritto alla protezione dei dati personali. Regolazione e tutela, Editoriale Scientifica, Napoli, Torino, 2017; A. Pisapia, La tutela per il trattamento e la protezione dei dati personali, Giappichelli, Torino, 2018; S. Scagliarini, Il “nuovo” codice in materia di trattamento di dati personali. La normativa italiana dopo il d.lgs. 101/2018, Giappichelli, Torino, 2019.
[3] Sul testo originario del “Codice in materia di protezione dei dati personali”, conseguente all’approvazione del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 e sulle complesse questioni ermeneutiche prodotte dalla sua entrata in vigore, si rinvia a Corte di cassazione - Ufficio del Massimario e del Ruolo, Corte di cassazione e tutela della privacy: “l’oscuramento” dei dati identificativi nelle sentenze, Relazione del 5 luglio 2005 redatta a cura di A. Giusti ed E. Calvanese.
[4] Il decreto del Primo Presidente della Corte di cassazione 14 dicembre 2016, n. 178 può essere consultato sul sito www.cortedicassazione.it, cui occorre rinviare per la sua lettura integrale.
[5] Si veda decreto del Primo Presidente della Corte di cassazione 14 dicembre 2016, cit.
[6] Vedi supra paragrafo 2.
[7] Si veda decreto del Primo Presidente della Corte di cassazione 14 dicembre 2016, cit.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Per la ricognizione del ruolo ordinamentale e delle funzioni assegnate agli organi della Suprema Corte richiamati nel testo si rinvia alle Tabelle di organizzazione della Corte di cassazione per il triennio 2017-2019, attualmente vigenti.
[12] Tali disposizioni sono contenute nelle pagine 2 e 3 del provvedimento in esame e devono essere integrate dalle indicazioni contenute nell’allegato A dello stesso provvedimento relativo ai procedimenti che devono essere segnalati dalle cancellerie delle sezioni civili della Corte di cassazione.
[13] Si tratta, in particolare, dei provvedimenti giurisdizionali compiutamente elencati nell’allegato A del decreto presidenziale in esame.
[14] Si veda decreto del Primo Presidente della Corte di cassazione 14 dicembre 2006, cit.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem.
[17] Ibidem.
[18] Ibidem.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] Tali disposizioni sono contenute nelle pagine 3 e 4 del provvedimento in esame e devono essere integrate dalle indicazioni contenute nell’allegato B dello stesso provvedimento relativo ai procedimenti che devono essere segnalati dalle cancellerie delle sezioni penali della Corte di cassazione.
[22] Si veda decreto del Primo Presidente della Corte di cassazione 14 dicembre 2006, cit.; si tratta, in particolare, dei provvedimenti giurisdizionali compiutamente elencati nell’allegato B del decreto presidenziale in esame.
[23] Ibidem.
[24] Ibidem.
[25] Ibidem.
[26] Ibidem.
[27] Ibidem.
[28] Ibidem.
[29] Si tratta, naturalmente, di un’esposizione che non ha alcuna pretesa di esaustività, mirando soltanto a fornire alcune indicazioni ermeneutiche utili a inquadrare il tema in esame.
[30] Si veda C. cost., 26 marzo 1990, n. 139.
[31] Si veda C. cost., 26 marzo 1990, cit.
[32] Si veda C. cost., 26 marzo 1990, cit.
[33] Si veda C. cost., 23 giugno 2005, n. 271.
[34] Si veda C. cost., 21 febbraio 2019, n. 20.
[35] Si veda C. cost., 21 febbraio 2019, cit.
[36] Si veda C. cost., 21 febbraio 2019, cit.
[37] Si veda C. cost., 21 febbraio 2019, cit.; su tali profili ermeneutici, si veda anche S. Rodotà, La vita e le regole, cit., pp. 47 ss.
Il diritto al risarcimento del militare per i danni subiti a causa dell’esposizione all’uranio impoverito (nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 30 novembre 2020, n. 7560).
di Roberto Fusco
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il caso di specie. – 3. La competenza del giudice amministrativo: sede di servizio o residenza del danneggiato? – 4. Il dovere del militare di esporsi al pericolo e il dovere dell’amministrazione di circoscrivere i rischi prevedibili e prevenibili. – 5. La responsabilità dell’amministrazione della difesa in qualità di ente datore di lavoro. – 6. Il nesso eziologico del “più probabile che non”. – 7. La notorietà del pericolo. – 8. La necessità del fattore causale fortuito. – 9. Il dictum della sentenza.
1. Premessa.
La sentenza in commento definisce i limiti della responsabilità dell’amministrazione della difesa per i danni subiti dal militare nell’ambito dell’esercizio delle proprie funzioni, a causa dell’esposizione alla sostanza tossica dell’uranio impoverito[1]. La questione dei danni alla salute derivanti da tale sostanza negli ultimi decenni ha acquisito un’importanza crescente visto il moltiplicarsi di richieste di risarcimento e di indennizzo formulate all’amministrazione da militari di ritorno dalle missioni all’estero[2]. La sentenza in commento – confermando l’impostazione del giudice veneto di prime cure[3] – conferma la responsabilità della pubblica amministrazione per tali danni fornendo un interessante affresco sul complesso dei rispettivi doveri nel rapporto tra l’amministrazione della difesa e il militare impiegato nelle missioni “di pace”. Da tale analisi – si anticipa sin d’ora – viene delineata una responsabilità “da posizione” della pubblica amministrazione a cui si ricollega un preciso dovere di proteggere il cittadino-soldato da ogni forma prevedibile e prevenibile di pericolo (non strettamente dipendente da azioni belliche), garantendogli i più adeguati strumenti di tutela per la sua salute e adottando ogni misura idonea ad evitare i danni derivanti da lesioni alla sua integrità fisica e morale.
2. Il caso di specie.
Il caso di specie riguarda un militare, capitano dell’esercito italiano, che si rivolge al giudice amministrativo per ottenere il risarcimento del danno conseguente all’infermità derivata dalla sua partecipazione ad alcune missioni all’estero (in Bosnia e in Somalia) nel corso delle quali sarebbe stato esposto al contatto con sostanze contaminanti altamente tossiche, fra le quali l’uranio impoverito. La fondatezza della pretesa risarcitoria, secondo l’impostazione del ricorrente, sarebbe indirettamente confermata sia dal riconoscimento amministrativo della dipendenza della patologia da causa di servizio, sia dall’attribuzione della qualità di “vittima del dovere”, con i conseguenti benefici economici. Il T.A.R. Veneto adito, previo esperimento di apposita C.T.U. affidata ad un dirigente medico dell’I.N.A.I.L., ha dichiarato la sussistenza del nesso causale fra l’esposizione all’uranio impoverito e la neoplasia diagnosticata al militare, riconoscendogli un grado di invalidità del 30% e liquidandogli il conseguente danno non patrimoniale secondo le Tabelle di Milano per l’anno 2014[4], previa compensatio lucri cum damno[5]. Avverso tale sentenza il Ministero della difesa ha presentato appello con il quale: in rito, ha riproposto l’eccezione di incompetenza territoriale del T.A.R. Veneto e, nel merito, ha contestato la sussistenza del nesso di causalità tra neoplasia e il servizio svolto in missione dal militare sostenendo, da una parte che non «non risulta comprovato l’utilizzo di uranio impoverito in Somalia» e, dall’altra, che il Ministero resistente «fino al dicembre 2000 non era a conoscenza dell’impiego di munizionamento all’uranio impoverito in Bosnia». Il Consiglio di Stato rigetta il proposto appello confermando la responsabilità dell’amministrazione della difesa per il risarcimento del danno subito dal militare.
3. La competenza del giudice amministrativo: sede di servizio o residenza del danneggiato?
Prima di affrontare il merito della questione, il Consiglio di Stato si pronuncia sull’eccezione di difetto di competenza territoriale del T.A.R adito riproposta in appello. Secondo il Ministero appellante al caso di specie si dovrebbe applicare il disposto dell’art. 13, comma 2 c.p.a. che prevede un’ipotesi di competenza funzionale in relazione alle controversie riguardanti pubblici dipendenti per le quali sarebbe inderogabilmente competente il Tribunale nella cui circoscrizione territoriale è situata la sede di servizio del dipendente[6]. Il Giudice d’appello sul punto, però, ritiene di condividere quanto affermato dal T.A.R. Veneto (ritenutosi competente) secondo il quale la succitata ipotesi di competenza funzionale presuppone l’attualità del rapporto di servizio che, nel caso di specie, era già venuta meno all’atto del radicamento del giudizio di prime cure. Deve, pertanto, applicarsi l’ordinario criterio generale dell’estensione territoriale della res controversa, nel caso in questione limitata al Veneto, Regione di residenza del ricorrente all’epoca dell’introduzione del giudizio.
Questione non trattata dalla sentenza in commento, invece, è quella relativa alla giurisdizione su tali richieste risarcitorie che, nel recente passato, è stata spesso contesa dal giudice amministrativo e da quello ordinario. Secondo l’orientamento ormai consolidato della Corte di cassazione, il riparto della giurisdizione, rispetto ad una domanda di risarcimento danni per la lesione della integrità psico-fisica proposta da un pubblico dipendente nei confronti dell’amministrazione, è strettamente subordinata all’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta: se viene fatta valere la responsabilità contrattuale dell’ente datore di lavoro, la cognizione della domanda rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; se, invece, è stata dedotta la responsabilità extra-contrattuale, la giurisdizione spetta al giudice ordinario[7]. Quindi, appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo la domanda proposta da un militare italiano nei confronti del Ministero della difesa per il risarcimento dei danni alla salute subiti in conseguenza dell’esposizione all'uranio impoverito «essendo stata dedotta quale condotta colposa dell’Amministrazione l’averlo fatto operare in un ambiente irreversibilmente inquinato senza fornirgli le necessarie dotazioni di sicurezza e senza averlo informato dei rischi connessi all’esposizione e perciò sulla base di una condotta che non presentava un nesso meramente occasionale con il rapporto di impiego, ma costituiva la diretta conseguenza dell’impegno del militare in un “teatro operativo”, senza adempiere, secondo l’assunto, all’obbligo di provvedere alla tutela del personale impiegato nelle operazioni»[8].
4. Il dovere del militare di esporsi al pericolo e il dovere dell’amministrazione di circoscrivere i rischi prevedibili e prevenibili.
Passando all’analisi del merito della questione, il Collegio d’appello individua quali sono i rischi rispettivamente ascrivibili in capo all’amministrazione e al singolo militare, col fine di individuare (o meno) la responsabilità della pubblica amministrazione per i danni subiti dal soldato nell’ambito delle missioni svolte all’estero.
Secondo la sentenza, per evitare la propria responsabilità, l’amministrazione della difesa sarebbe giuridicamente tenuta: ad informarsi preventivamente della concreta ed effettiva situazione (militare, politica, sociale, sanitaria, ambientale) del contesto operativo; ad accertarsi della piena idoneità psico-fisica dei militari, adottando tutte le opportune profilassi; a fornire al personale tutti gli strumenti di protezione individuale ragionevolmente utili al fine di prevenire i possibili rischi, ivi inclusi quelli connotati da una bassa probabilità statistica.
Per quanto riguarda i doveri del militare, invece, esso avrebbe il dovere giuridico di esporsi ad una serie di pericoli connessi alla sua presenza in un contesto di guerra (c.d. rischio bellico), ossia: il pericolo recato dalle forze nemiche; i rischi inevitabilmente connessi con l’uso, il maneggio e la conservazione del materiale bellico; l’ontologica insidia recata dalla permanenza fisica in contesti operativi instabili e in quanto tali pericolosi, benché formalmente pacificati.
Quindi, questo dovere del militare di esporsi al c.d. rischio bellico non può essere inteso come base per affermare che sul militare gravi ogni tipo di rischio dipendente dalla sua presenza fisica nel teatro delle operazioni, poiché ad esso si contrappone il dovere della pubblica amministrazione di proteggere il cittadino-soldato dagli altri pericoli in loco, ossia quelli non strettamente dipendenti dalle azioni belliche, dotandolo dei necessari presidi sanitari e di equipaggiamenti adeguati.
Pertanto, sul militare grava il c.d. rischio bellico, mentre sull’amministrazione grava l’insieme dei diversi e ulteriori rischi connessi alla presenza del militare in tale contesto, sempre che siano rischi concretamente prevedibili (in quanto non implausibili) ed oggettivamente prevenibili.
5. La responsabilità dell’amministrazione della difesa in qualità di ente datore di lavoro.
Premesso tale riparto dei rischi tra l’amministrazione della difesa e il militare, il Collegio entra in medias res cercando di indagare se il comportamento omissivo della pubblica amministrazione possa costituire fonte di responsabilità per i danni subiti dal ricorrente. A tal riguardo viene evidenziato che l’amministrazione della difesa, quale datore di lavoro, è sottoposta agli obblighi di protezione stabiliti dall’art. 2087 c.c., che impone a quanti ricorrano all’utilizzo di energie lavorative di terzi di adottare le misure idonee, secondo un criterio di precauzione e di prevenzione, a «tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». La disposizione, secondo il Collegio, enuclea un dovere di protezione che ha valore di principio generale nell’approntare una tutela del prestatore di lavoro e, come tale, integra un referente normativo di impatto sistemico che trova applicazione anche nel caso del rapporto di impiego o, comunque, di servizio fra il militare e l’amministrazione della difesa.
La sentenza in commento, quindi, si inserisce in quel filone giurisprudenziale, divenuto maggioritario in tempi recenti, che qualifica la responsabilità dell’amministrazione della difesa per i danni subiti dai militari nelle missioni all’estero come una responsabilità contrattuale in base all’art. 2087 c.c.[9]. Ciò non toglie, sempre secondo la pronuncia, che allafattispecie si debba applicare anche l’art. 2050 c.c., il quale, pur se dettato in punto di responsabilità extra-contrattuale, ha una potenzialità normativa “espansiva”, in quanto anch’esso costituisce l’espressione di un principio generale. Secondo questa norma le conseguenze dannose delle attività pericolose gravano in capo a colui che le pone in atto, salva la prova dell’adozione di «tutte le misure idonee ad evitare il danno».
Tali generali coordinate normative vengono poi calate nella specificità delle funzioni dell’amministrazione della difesa che invii personale militare in missione: infatti, le misure che deve adottare il datore di lavoro militare risentono della particolarità del lavoro svolto dal soldato. L’amministrazione è tenuta, prima di procedere all’esecuzione materiale della missione, ad una rigorosa analisi del contesto ambientale, ad una puntuale enucleazione dei possibili fattori di rischio e, quindi, ad una conseguente individuazione delle misure tecnico-operative concretamente disponibili e potenzialmente idonee ad eliminare o, comunque, ad attenuare il più possibile i rischi per la salute dei militari.
6. Il nesso eziologico del “più probabile che non”.
Una volta inquadrata la responsabilità della pubblica amministrazione nell’ambito del genus di quella contrattuale datoriale ex art. 2087 c.c., il Collegio svolge delle interessanti considerazioni relative al nesso eziologico, osservando che «in tema di illecito civile, il nesso causale ha veste probabilistico-statistica (“più probabile che non”) e non richiede, dunque, quella certezza di contro propria dell’accertamento penale». Tale carattere “attenuato” della prova richiesta in ordine all’elemento causale del danno civile è, se possibile, ancor più pregnante e giuridicamente necessario quando – come nel caso di specie – i danni lamentati afferiscano alla dimensione della tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore, mettendone a rischio la sua incolumità fisica durante lo svolgimento di un servizio (la “difesa della Patria”) di vitale importanza per la Repubblica (“sacro dovere del cittadino” ex art. 52 cost.), anche considerando che, per evitare i danni alla salute dei militari, siano concretamente disponibili e ragionevolmente implementabili mezzi di protezione individuale[10]. Sempre in relazione alla “tenuta” del nesso causale probabilistico, il Collegio afferma che, nel caso in questione, difettano spiegazioni eziologiche alternative alla patologia o dati scientifici che consentano di escludere il rischio per la salute umana da esposizione all’uranio impoverito.
7. La notorietà del pericolo.
Analizzata la “consistenza” del nesso di causalità, viene verificato se il fattore di rischio per la salute sia conoscibile dal datore di lavoro (amministrazione della difesa) al momento dell’impiego del militare nella missione, essendo, quello psicologico, un elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. Sul punto le argomentazioni svolte dalla difesa dell’amministrazione – dirette a dimostrare l’ignoranza sul munizionamento di uranio impoverito in Somalia e la conoscenza della presenza dello stesso in Bosnia solo a partire dal 2000 – vengono ritenute prive di pregio. Il Collegio sostiene che sarebbe stato tra i doveri della pubblica amministrazione informarsi (ed accertare) presso le parallele strutture della difesa degli alleati della N.A.T.O. circa il tipo di munizionamento utilizzato durante i pregressi eventi bellici, al fine di individuare l’equipaggiamento più opportuno ed indicare le migliori procedure per tutelare la sicurezza del proprio personale militare. Infatti, sulla conoscibilità del pericolo derivante alla salute umana dall’uso di uranio impoverito in determinate zone, la giurisprudenza è consolidata nell’affermare che «sono state svolte diverse indagini e studi da parte di organismi internazionali sulla base dei quali sono state adottate specifiche misure di protezione dal Governo degli Stati Uniti, l’ONU e la NATO, conosciute dallo Stato Italiano sin dal 1992 (relazione di Eglin relativa alla Ricerca condotta nel 1977-78; rapporto US Army Mobility Equipmente Research and Development Command del 1979; Conferenza di Bagnoli del 1995)»[11].
Inoltre, secondo il Collegio, nel caso di specie, da una parte è circostanza nota che nell’ex Jugoslavia era stata condotta una campagna di bombardamenti con conseguente presenza di un potenziale (e non implausibile) rischio di inalazione umana di sostanze tossiche e, dall’altra, in Somalia le apposite linee guida elaborate dalle forze armate statunitensi all’indomani dell’operazione O.N.U. “Restore Hope” dimostrano, sia pure indirettamente, la presumibile presenza di uranio impoverito anche nel teatro africano.
8. La necessità del fattore causale fortuito.
Ciò premesso sul nesso di causalità e sulla conoscibilità della pericolosità dell’esposizione dei militari all’uranio impoverito nelle zone considerate, l’amministrazione della difesa, per evitare l’addebito della responsabilità, dovrebbe provare la sussistenza in concreto delle circostanze straordinarie non prevedibili che hanno causato il danno al militare. Infatti, come correttamente evidenzia il medesimo Consiglio di Stato in altra pronuncia, se all’interessato basta dimostrare l’insorgenza della malattia in termini probabilistico-statistici, la pubblica amministrazione è gravata da un onere d’istruttoria e di motivazione assai stringente circa la sussistenza in concreto delle circostanze straordinarie esimenti la propria responsabilità[12]. Nel caso di specie, infatti, il Collegio adito evidenzia come «alla luce della peculiarità dello specifico contesto operativo, del carattere contrattuale della responsabilità dell’Amministrazione, dei valori primari in gioco, della mancata adozione degli accorgimenti pur apprestati dagli Alleati a beneficio del proprio personale, dell’impegno prettamente operativo e “sul campo” svolto dall’odierno resistente, gravasse sull’Amministrazione l’onere di fornire, a contrario, un principio di prova circa l’intervento di un fattore oncogenetico alternativo e diverso rispetto all’esposizione al DU ed ai metalli pesanti». Sempre sull’onere probatorio gravante in capo alla pubblica amministrazione viene evidenziato poi che «la prova liberatoria non può consistere semplicemente nell’invocare il fattore causale ignoto, ma deve spingersi sino a provare convincentemente il fattore causale fortuito, ossia quello specifico agente, non prevedibile e, comunque, non prevenibile, che ha provocato l’evento di danno».
9. Il dictum della sentenza.
Il Consiglio di Stato, nella scia della più recente giurisprudenza civile e amministrativa, fornisce un’ulteriore conferma alla risarcibilità dei danni patiti dai militari a causa della loro esposizione all’uranio impoverito. Nelle ipotesi di missioni all’estero l’amministrazione della difesa versa in una condizione di responsabilità lato sensu di “posizione” nei confronti del militare, a cui fa eccezione il solo rischio oggettivamente imprevedibile (giuridicamente qualificabile alla stessa stregua del caso fortuito) ma in cui, viceversa, rientra il rischio da esposizione ad elementi che, benché non ancora scientificamente acclarati come sicuro fattore eziopatogenetico, vengono ritenuti tali in base ad un giudizio di non implausibilità logico-razionale. Pertanto, la diligentia cui è tenuta la pubblica amministrazione nell’adottare ogni misura possibile di prevenzione per la tutela dei propri dipendenti deve porsi ad un livello molto alto. L’amministrazione della difesa, per evitare di essere responsabile, non potrà limitarsi ad eccepire il fattore causale ignoto, ma dovrà riuscire a provare il fattore causale fortuito, ossia una causa non prevedibile e, comunque, non prevenibile.
[1] Sugli aspetti generali della responsabilità della pubblica amministrazione, senza alcuna pretesa di esaustività, ci si limita a segnalare i seguenti contributi: R. ALESSI, La responsabilità della pubblica amministrazione, Milano, 1939; E. CASETTA, L’illecito degli enti pubblici, Milano, 1953; D. SORACE (a cura di), Le responsabilità pubbliche, Padova, 1998; F. GARRI, La responsabilità civile della pubblica amministrazione, Padova, 2000; M. CORRADINO, La responsabilità della pubblica amministrazione, Torino, 2011; M. RENNA, Responsabilità della Pubblica Amministrazione: profili sostanziali, in Enc. dir., Annali, IX, 2016, p. 800 ss.
[2] Sul punto A. CRISMANI, Le indennità nel diritto amministrativo, Torino, 2012, p. 45, ci ricorda che l’art. 603, commi 1 e 2, d.lgs. n. 66/2010 riconosce «al personale italiano entro e fuori i confini nazionali in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, nonché al personale impiegato nei poligoni di tiro e nei siti dove vengono stoccati munizionamenti, e al personale civile italiano nei teatri operativi all’estero e nelle zone adiacenti alle basi militari sul territorio nazionale, adeguati indennizzi in caso di infermità o patologie tumorali per le particolari condizioni ambientali od operative».
[3] I riferimenti della sentenza del T.A.R. Veneto di primo grado risultano oscurati nell’ambito della pronuncia di appello al pari delle generalità del ricorrente.
[4] Sulla legittimità dell’utilizzo delle Tabelle di Milano per la liquidazione del risarcimento del danno all’integrità psico-fisica subita da un militare in conseguenza all’esposizione dell’uranio impoverito si veda: T.A.R. Campania (Napoli), Sez. VII, 5 agosto 2010, n. 17232, in Foro it., 2010, 11, III, p. 594 ss.
[5] Secondo la Corte di cassazione (vedasi ex multis: Cass. civ., Sez. III, 30 novembre 2018, n. 31007, in www.dejure.it) dal risarcimento del danno spettante al militare che abbia contratto una patologia tumorale a seguito dell’esposizione all’uranio impoverito durante una missione internazionale va detratto, in applicazione del principio della “compensatio lucri cum damno”, l’indennizzo a questi erogato ex art. 2, commi 78 e 79, l. n. 244/2007 (ratione temporis applicabile), essendo una elargizione avente finalità compensativa posta a carico del medesimo soggetto (pubblica amministrazione) obbligato al risarcimento del danno.
[6] Per un’analisi delle regole di riparto della competenza nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo, tra le tante trattazioni manualistiche, si segnalano i seguenti contributi: A. POLICE, La competenza, in F.G. SCOCA (a cura di), La giustizia amministrativa, Torino, 2013, p. 127 ss. e M.M. FRACANZANI, La competenza per territorio, materia e grado del giudice amministrativo. Il regolamento di competenza, in G.P. CIRILLO (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Padova, 2014, p. 245 ss.
[7] In tal senso si esprime: Cass. civ., Sez. Un., 6 maggio 2014, n. 9666, in Foro Amministrativo (Il), 2014, 9, p. 2227 ss. La sentenza precisa al riguardo che: «L’accertamento del tipo di responsabilità azionato prescinde dalle qualificazioni operate dall’attore, anche attraverso il richiamo strumentale a singole norme di legge, quali l’art. 2087 c.c. o l’art. 2043 cod. civ., mentre assume rilievo decisivo la verifica dei tratti propri dell’elemento materiale dell’illecito, e quindi l’accertamento se il fatto denunciato violi il generale divieto di “neminem laedere” e riguardi, quindi, condotte dell’amministrazione la cui idoneità lesiva possa esplicarsi indifferentemente nei confronti della generalità dei cittadini come nei confronti dei propri dipendenti, costituendo in tal caso il rapporto di lavoro mera occasione dell’evento dannoso, ovvero consegua alla violazione di obblighi specifici che trovino al ragion d’essere nel rapporto di lavoro, nel qual caso la natura contrattuale della responsabilità non può essere revocata in dubbio».
[8] Cass. civ., Sez. Un., 6 maggio 2014, n. 9666, cit. In senso conforme si veda anche la più risalente: Cass. civ., Sez. Un. civ., 4 marzo 2008, n. 5785, in www.dejure.it. Tra le sentenze del giudice amministrativo si segnala: T.A.R. Campania (Napoli), Sez. VII, 5 agosto 2010, n. 17232, cit.
[9] La natura della responsabilità dell’amministrazione della difesa per i danni subiti dai militari nelle missioni all’estero è stata spesso dibattuta in giurisprudenza. Secondo un primo orientamento tale responsabilità deve essere ascritta alla genus della responsabilità extra-contrattuale di cui all’art. 2043 c.c. (in tal senso vedasi in primis la nota sentenza Trib. Roma, Sex., XXII, 1° dicembre 2009, n. 10431, in Foro it., 2010, 2, I, p. 676 ss., seguita da diverse altre pronunce tra cui si cita ex multis Cass. civ., Sez. III, 15 luglio 2009, n. 16456, in Foro it., Mass. 2009). Un diverso orientamento, col tempo divenuto maggioritario, inquadra detta responsabilità nell’alveo dell’art. 2087 c.c. e, quindi, nella categoria della responsabilità contrattuale del datore di lavoro (in tal senso si vedano ex multis: Trib. Roma, Sez. XIII, 15 luglio 2009, n. 16320, in www.dejure.it, T.A.R. Campania (Napoli), Sez. VII, 5 agosto 2010, n. 17232, T.A.R. Valle d’Aosta (Aosta), Sez. I, 20 settembre 2017, n. 56 e T.A.R. Toscana (Firenze), Sez. I, 18 aprile 2017, n. 564, tutte consultabili in www.giustizia-amministrativa.it).
[10] Il criterio del “più probabile che non” è stato posto alla base della responsabilità dell’amministrazione della difesa in diverse altre sentenze. A titolo esemplificativo si può citare T.A.R. Calabria (Catanzaro), Sez. II, 2 ottobre 2014, n. 1568, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «a causa dell’impossibilità di stabilire, sulla base delle attuali conoscenze scientifiche, un nesso diretto di causa-effetto, e per il riconoscimento del concorso di altri fattori collegati ai contesti fortemente degradati ed inquinati dei Teatri Operativi, non debba essere richiesta la dimostrazione dell’esistenza del nesso causale con un grado di certezza assoluta, essendo sufficiente la dimostrazione, in termini probabilistico-statistici…». In termini analoghi vedasi anche T.A.R. Liguria, (Genova), Sez. I, 29 settembre 2016, n. 956, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «il verificarsi dell’evento costituisce ex se un dato sufficiente, secondo il cosiddetto “criterio di probabilità”, a far sì che le vittime delle patologie abbiano diritto ai benefici previsti dalla legislazione vigente ogni qual volta, accertata l’esposizione del militare all’inquinante in parola, l’amministrazione non riesca a dimostrare che essa non abbia determinato l’insorgenza della patologia e che questa dipenda, invece, da fattori esogeni dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica». In senso conforme vedasi anche Cons. St., Sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 837, in www.giustizia-amministrativa.it.
[11] T.A.R. Calabria (Catanzaro), 2 ottobre 2014, n. 1568, in www.giustizia-amministrativa.it. In senso analogo si vedano anche: T.A.R. Piemonte (Torino), Sez. I, 6 marzo 2015, n. 429, T.A.R. Emilia-Romagna (Parma), 11 ottobre 2016, n. 284, T.A.R. Friuli Venezia Giulia (Trieste), Sez. I, 19 giugno 2014 n. 308, Cons. Stato, Sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4440, tutte consultabili in www.giustizia-amministrativa.it. Sul punto il Collegio precisa che (par. 8.2 della sentenza in commento) «Non può, peraltro, sottacersi che, stante la pluridecennale partecipazione italiana alla NATO, alleanza organica ed integrata di carattere militare, è del tutto ragionevole presumere che i massimi vertici dell’Amministrazione della difesa ben conoscessero la tipologia di armamento anti-carro in dotazione agli Alleati, rappresentata appunto, fra l’altro, da proiettili DU».
[12] In tal senso vedasi Cons. St., Sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 837, cit.
L’actio iudicati nel “nuovo” processo amministrativo (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 4 dicembre 2020, n. 24)
di Giuseppe Andrea Primerano
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Funzioni e caratteri del ricorso di ottemperanza. - 3. Il termine di prescrizione di cui all’art. 114, comma 1, c.p.a. - 4. L’Adunanza plenaria n. 24 del 2020 e la specialità del giudizio amministrativo.
1. Introduzione.
Chiamata a pronunciarsi dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (ord. 25 giugno 2020, n. 466[1]), l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza del 4 dicembre 2020, n. 24, ha affermato che «il termine decennale previsto dall’art. 114, comma 1, c.p.a. in ogni caso può essere interrotto anche con un atto stragiudiziale volto a conseguire quanto spetta in base al giudicato».
Viene, in tal modo, risolta una questione – quella della possibile interruzione del termine per l’esercizio dell’actio iudicati – dibattuta in giurisprudenza soprattutto prima dell’entrata in vigore del Codice[2].
L’interesse nei confronti della pronuncia si coglie in quanto si tratta di un arresto che consente di impostare una riflessione non solo sulla natura del ricorso di ottemperanza, ma, più in generale, sulla pari dignità della tutela di diritti e interessi legittimi, posto dall’Adunanza plenaria alla base del proprio iter motivazionale, e sul ruolo del giudice amministrativo nel rinnovato sistema di giustizia amministrativa.
2. Funzioni e caratteri del ricorso di ottemperanza.
Al fine di corroborare il proprio ragionamento e, quindi, valorizzare il disposto dell’art. 114, comma 1, c.p.a., l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 24 del 2020 si sofferma sui profili evolutivi del giudizio di ottemperanza che, come noto, in origine riguardava il giudicato civile a tutela di diritti suscettibile di esecuzione nei confronti della pubblica amministrazione nel termine di trent’anni[3].
Nello specifico, detto rimedio veniva ammesso per eseguire il giudicato che avesse riconosciuto «la lesione di un diritto civile o politico» ai sensi dell’art. 4, n. 4, della l. n. 5992/1889, poi trasfuso nei testi unici sul Consiglio di Stato approvati con r.d. n. 6166/1889, n. 638/1907 e n. 1054/1924. Si trattava di un termine passibile di interruzione: l’art. 2123 del codice civile del Regno d’Italia del 1865, infatti, disponeva che la prescrizione – cui risultava assoggettata pure l’actio iudicati, in assenza di disposizioni contrarie – fosse interrompibile “civilmente”.
L’esecuzione del giudicato amministrativo[4] a mezzo del ricorso di ottemperanza si afferma inizialmente a livello giurisprudenziale, per poi essere tipizzata ai sensi dell’art. 37, commi 3 e 4, della l. Tar, entrata in vigore quando il codice civile del 1942 aveva già ridotto a dieci anni il termine di prescrizione dell’actio iudicati. Si deve, comunque, attendere fino alla legge di riforma n. 205/2000 per assistere all’ulteriore ampliamento dell’ambito di applicazione del rimedio tale da inglobare pure le decisioni esecutive, ancorchè non passate in giudicato, e le ordinanze pronunciate dal giudice amministrativo in sede cautelare.
Il Libro IV, titolo I, del codice del processo amministrativo conferma tali approdi e, al contempo, introduce alcune significative novità, fra cui l’estensione dei provvedimenti suscettibili di ottemperanza, l’espunzione della diffida all’autorità amministrativa ad adempiere prima della formale instaurazione del giudizio, come invece previsto dall’art. 90, comma 2, r.d. n. 642/1907, e l’esperibilità del rimedio in questione per ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza (art. 112, comma 5, c.p.a.).
La logica è quella di implementare l’effettività della tutela giurisdizionale a fronte di un precedente sindacato favorevole cui non è stata data spontanea esecuzione[5].
In un simile conteso evolutivo, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 24 del 2020 ha rilevato che la giurisprudenza non ha mai dubitato dell’applicazione in sede processuale amministrativa dell’art. 2953 c.c., in base al quale «i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni», né dell’art. 2943, comma 4, c.c. per cui la prescrizione è fra l’altro interrotta «da ogni atto che valga a costituire in mora il debitore», trattandosi di giudicati aventi ad oggetto diritti soggettivi. La garanzia di tali situazioni, per i principi costituzionali di eguaglianza e di effettività della tutela, non avrebbe potuto essere inferiore a quella erogabile dal giudice ordinario.
Ha creato maggiori problemi il giudicato di annullamento di provvedimenti amministrativi illegittimi, quando è prevalsa l’esigenza di garantire certezza e stabilità ai rapporti di diritto pubblico e, conseguentemente, si è negata l’interrompibilità, a mezzo di atti stragiudiziali, del termine di “prescrizione” per la proposizione dell’actio iudicati.
È quanto riconosciuto dall’Adunanza plenaria n. 5 del 1991, sentenza assunta come parametro di riferimento dalla citata ordinanza di rimessione n. 466 del 2020 secondo cui l’art. 114, comma 1, c.p.a. individuerebbe, in realtà, un termine decadenziale, maggiormente coerente con l’impianto codicistico, cui rimane assoggettata l’azione di ottemperanza. In altre parole, tanto più che i termini processuali sono di norma perentori e, quindi, sottratti alla disponibilità delle parti, soltanto l’esercizio dell’actio iudicati sarebbe idonea a produrre effetti interruttivi: «anche il precedente della Cass., sez. un., 2 aprile 2007, n. 8085, non si riferisce al caso di atti interruttivi stragiudiziali del termine dell’actio iudicati; altri precedenti del Consiglio di Stato, pur ammettendo atti interruttivi del termine decennale dell’actio iudicati, si riferiscono ad atti interruttivi giudiziali, mediante azione di ottemperanza o altro tipo di azione processuale (Cons. Stato, sez. V, 18 ottobre 2011, n. 5558; Id., 16 novembre 2018, n. 6470)»[6].
Una simile impostazione non è stata, tuttavia, avallata dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 24 del 2020, in base alla quale «il legislatore si è consapevolmente riferito alla prescrizione della “azione” senza fare riferimento alle posizioni giuridiche oggetto del giudicato».
In tale prospettiva è stato, altresì, neutralizzato il rilievo critico del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana secondo cui «la soluzione che ammette atti stragiudiziali interruttivi dell’actio iudicati può condurre al paradossale risultato di una serie di atti interruttivi stragiudiziali fatti nell’imminenza dello scadere dei dieci anni, reiterati ogni dieci anni, per un tempo potenzialmente indefinito»[7].
3. Il termine di prescrizione di cui all’art. 114, comma 1, c.p.a.
Sono ben noti i condizionamenti che il tradizionale giudizio di legittimità ha imposto al sindacato su diritti soggettivi nelle particolari materie di giurisdizione esclusiva[8] e, più in generale, è difficile negare che il processo amministrativo sia tuttora condizionato dalla rilevanza dell’interesse pubblico rientrante nella titolarità della pubblica amministrazione parte del giudizio[9].
Le categorie del processo civile, del resto, possono assumersi a modello solo se compatibili con la specialità del processo amministrativo. Lo conferma la norma sul rinvio esterno (art. 39 c.p.a.), che cristallizza l’autonomia della giurisdizione amministrativa, e, del pari, lo dimostrano diverse disposizioni codicistiche dalle quali è agevole desumere come la distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi, se può perdere rilevanza nell’ottica del riparto giurisdizionale, ben può preservarla sul piano strettamente processuale e dei rimedi attivabili dal ricorrente. Si pensi alle norme sull’arbitrato (art. 12), sulle domande riconvenzionali (art. 42, comma 5) o sul decreto ingiuntivo (art. 118), le quali fanno tutte riferimento a diritti soggettivi.
Pur non potendosi predicare una vera e propria equiparazione delle forme di tutela erogabile alle situazioni oggetto del giudicato, come si intuisce, rientra nella discrezionalità del legislatore riferirsi specificamente ai rimedi processuali.
È quanto accade in sede di art. 114, comma 1, c.p.a. là dove la “prescrizione” è stata posta in relazione all’esercizio della “azione”. Quando l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 24 del 2020 sostiene che il termine di prescrizione può essere interrotto con atto stragiudiziale «in ogni caso» intende, appunto, affermare che, indipendentemente dal fatto che il giudicato riguardi diritti soggettivi o interessi legittimi, è necessario considerare il rimedio rappresentato dall’actio iudicati e non la natura della situazione dedotta in giudizio.
L’art. 114, comma 1, c.p.a. delinea una regola consapevolmente unitaria ai fini della proposizione del ricorso di ottemperanza, con riferimento sia ai diritti che agli interessi legittimi, compatibile con l’assetto costituzionale della giustizia amministrativa e, in particolare, con il principio di effettività della tutela, nonché con gli artt. 97 e 111 Cost. sotto il profilo del buon andamento dell’amministrazione e del giusto processo, con specifico riguardo alla ragionevole durata dei giudizi.
In tale apparato concettuale, in primo luogo, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato osserva che «una specifica ed autonoma portata applicativa dell’art. 114, comma 1, ha riguardato proprio l’actio iudicati riguardanti i giudicati aventi per oggetto posizioni di interesse legittimo, nel senso che il legislatore ha espressamente ammesso, in ogni caso, che il termine decennale, proprio perché è di prescrizione e non di decadenza, possa essere interrotto anche con idonei atti stragiudiziali, senza la necessità che entro il termine decennale sia notificato il ricorso d’ottemperanza».
In secondo luogo, la sentenza in nota rileva che:
a) la mancata esecuzione del giudicato si pone in sé in contrasto con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa;
b) il ricorso di ottemperanza rappresenta l’extrema ratio per ottenere, in sede di giurisdizione di merito, l’esecuzione del giudicato qualora, in sede amministrativa, sia mancata la definizione della questione conforme al giudicato stesso, pure a seguito dei contatti eventualmente intercorsi tra le parti, i quali vanno considerati di per sé consentiti dal sistema e, in particolare, dall’art. 11 della l. n. 241/1990, da interpretarsi «nel senso che ben può essere concluso un accordo di natura transattiva volto a definire una volta per tutte la controversia (Cons. Stato, sez. IV, 11 agosto 2020, n. 4990)»;
c) il principio della ragionevole durata processuale si riferisce al periodo entro il quale deve intervenire la risposta di giustizia e non può essere inteso nel senso che sia precluso al legislatore fissare una regola secondo cui – intervenuto un giudicato favorevole – chi ha titolo ad ottenere l’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto preferisca sollecitare la pubblica amministrazione soccombente senza ricorrere al giudice dell’ottemperanza, confidando che la stessa, nel rispetto dei propri doveri istituzionali, dia esecuzione al giudicato[10].
4. L’Adunanza plenaria n. 24 del 2020 e la specialità del giudizio amministrativo.
L’apprezzamento nei confronti della sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 24 del 2020, la quale «ha evitato una di quelle ibridazioni che nel futuro prossimo venturo avrebbero altrimenti originato quasi sicuramente questioni di giurisdizione a non finire»[11], può condividersi anche per le ripercussioni destinate ad avere sul piano dei rapporti tra plessi giurisdizionali, i cui persistenti profili di incertezza risultano ben inquadrabili alla luce dell’ordinanza interlocutoria delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 18 settembre 2020, n. 19598[12].
La pronuncia in nota si colloca in un solco tracciato dal medesimo organo di nomofilachia – si considerino, in particolare, le sentenze n. 2/2013, che rimarca la regola secondo cui il giudicato amministrativo copre il dedotto e non il deducibile[13], n. 11/2016 relativa al giudicato a formazione progressiva[14], n. 2/2017 sul risarcimento dei danni connessi all’impossibilità di eseguire il giudicato[15] e n. 7/2019 sulla c.d. ottemperanza di chiarimenti[16] – che riflette la specialità del giudizio amministrativo, la quale si accompagna a dati normativi che disvelano persistenti tratti di oggettività del processo amministrativo[17].
Appaiono emblematiche, in tal senso, le previsioni codicistiche sulla competenza territoriale inderogabile (art. 13), quelle sui temperamenti all’esercizio di azioni risarcitorie autonome a tutela di interessi legittimi (art. 30), sull’accertamento della nullità che può essere sempre opposta dalla parte resistente o rilevata d’ufficio dal giudice (art. 31, comma 4), le previsioni sulla rinuncia, che determina l’estinzione del giudizio «se le parti che hanno interesse alla prosecuzione non si oppongono» (art. 84, comma 3), quelle sull’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge ai sensi dell’art. 99, comma 5, c.p.a., senza dimenticare gli ampi poteri di cui il giudice dispone in materia di appalti (artt. 120 ss., s.m.i.) o le peculiarità proprie del contenzioso elettorale (artt. 126 ss.).
Come ha riconosciuto la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 5 del 27 aprile 2015[18] «il principio dispositivo non può cancellare il dato di fatto che l’interesse pubblico di cui è portatrice una delle parti in causa rimane il convitato di pietra che impronta più o meno consapevolmente svariate disposizioni; la visione del processo amministrativo nella logica “parte privata contro parte pubblica”, “interesse privato contro interesse pubblico”, non considera, sullo sfondo, l’interesse generale dell’intera collettività da un lato ad una corretta gestione della cosa pubblica, e dall’altro ad una corretta gestione del processo, anche per le ripercussioni finanziarie che ricadono sulla collettività». L’essenza di giustizia della decisione – prosegue la sentenza n. 5 del 2015 – è «ancora più avvertita nel processo amministrativo di legittimità concentrato sul controllo della legalità dell’azione amministrativa necessariamente esercitata in funzione dell’interesse pubblico: sarebbe paradossale che quanto teorizzato per il processo civile circa l’importanza della dimensione pubblica dello stesso, non trovasse piena applicazione per il processo amministrativo come disegnato, nella sua genesi storica repubblicana, dalla Costituzione».
In realtà, ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione, la dimensione pubblica del processo amministrativo non era contestabile. La legge Crispi n. 5992 del 1889 ha creato un giudice nell’amministrazione in base alla constatata inadeguatezza del potere di disapplicazione riconosciuto dagli artt. 4 e 5 della l. n. 2248/1865, all. E, al giudice ordinario, inadatto a tutelare i privati nei confronti del potere amministrativo e, per l’esattezza, a garantire quelle situazioni soggettive dei privati che con tale potere “dialogano”[19], ossia gli interessi legittimi.
Storicamente, la giurisdizione amministrativa nasce in quanto giurisdizione che meglio si modella sull’esercizio del potere e il giudice amministrativo esiste come giudice speciale in quanto il potere che la legge riconosce all’amministrazione per il perseguimento di fini di interesse generale è “speciale”. È questo il principale insegnamento ereditato dalla fondamentale sentenza n. 204 del 2004[20] della Consulta[21] ed è quanto si può, chiaramente, desumere dall’art. 7, comma 1, c.p.a. che fa del giudice amministrativo il giudice naturale[22] precostituito a sindacare l’esercizio del potere amministrativo in funzione della tutela da accordare ai privati[23]. Negare la specialità del giudizio amministrativo significherebbe, in ultima analisi, mettere in discussione la stessa esistenza del giudice amministrativo.
[1] Con nota di F. D’Angelo, La “decadenza” del processo amministrativo, in questa Rivista (21 luglio 2020).
[2] Nel senso dell’ammissibilità di atti stragiudiziali di interruzione dell’actio iudicati, Cons. Stato, sez. III, 28 febbraio 2014, n. 945; Id., 22 dicembre 2014, n. 6296; Id., sez. VI, 30 dicembre 2014, n. 6432; Id., sez. III, 23 novembre 2017, n. 5448; Cgars, 11 dicembre 2017, n. 544; contraCons. Stato, ad. plen., 29 agosto 1991, n. 5; Cons. Stato, sez. V, 16 marzo 1999, n. 274.
[3] L’art. 2135 del codice civile del Regno d’Italia del 1865, infatti, disponeva in generale che «tutte le azioni tanto reali quanto personali si prescrivono col decorso di trent’anni».
[4] Sulle origini e sull’evoluzione del giudicato amministrativo come (nuovo) “problema” della scienza giuridica, si veda S. Vaccari, Il giudicato nel nuovo diritto processuale amministrativo, Torino, 2017, spec. 55 ss.
[5] Sul punto cfr. E. Cannada Bartoli, La tutela giudiziaria del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, Milano, 1964, 106.
[6] Così l’ordinanza di rimessione del Cgars n. 466 del 2020.
[7] Secondo il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana «una esegesi che conduce a un risultato paradossale è perciò solo da rigettare» (ord. n. 466 del 2020).
[8] In tema, per tutti, V. Domenichelli, Giurisdizione esclusiva e processo amministrativo, Padova, 1988; F. Ledda, La giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato. Atti del V Seminario della Sezione Umbra del C.I.S.A., Perugia 1970, Firenze, 1972, 21 ss.; A. Police, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, vol. I, Padova, 2000, 113 ss.
[9] Cfr., da ultimo, F. Francario, Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in www.federalismi.it, n. 34/2020, 103.
[10] L’indirizzo giurisprudenziale prevalente si è attestato sulla configurazione dell’ottemperanza come «giudizio misto di cognizione ed esecuzione che dà luogo a un giudicato a formazione progressiva»: così, fra le ultime, Cons. Stato, sez. VI, 22 giugno 2020, n. 4004, con nota di M. Ricciardo Calderaro, Ottemperanza di chiarimenti e appellabilità della decisione, in questa Rivista, 16 luglio 2020. Già M. Nigro, Il giudicato amministrativo ed il processo di ottemperanza, in Il giudizio di ottemperanza. Atti del XXVII Convegno di Studi di Scienza dell’Amministrazione (Varenna, 17-19 settembre 1981), Milano, 1983, 65 ss., aveva ricostruito l’ottemperanza come “giudizio necessariamente di esecuzione ed eventualmente di cognizione”. Il carattere esecutivo del processo in questione è valorizzato, fra gli altri, da R. Villata, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in Dir. proc. amm., 1989, 369 ss.; viceversa, il carattere essenzialmente cognitivo del processo è sottolineato da A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1982, 1238. Una simile impostazione, a seguito dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, è preferibile anche secondo F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il processo, n. 3/2018, successivamente pubblicato in Id., Garanzie degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa. Saggi sulla giustizia amministrativa, Napoli, 2019, 209 ss., il quale conclusivamente osserva «come la possibilità di considerare il giudizio di ottemperanza un processo esecutivo sia sicuramente da escludere alle origini, allorquando l’istituto venne pensato ed applicato per assicurare l’osservanza da parte della Pubblica Amministrazione unicamente delle sentenze del giudice ordinario; e come sia improprio qualificare il giudizio di ottemperanza come un giudizio di esecuzione anche quando l’istituto viene applicato alle sentenze del giudice amministrativo», in relazione alle quali viene in rilievo un giudizio «con una cognizione estesa ai profili discrezionali eventualmente ancora consentiti alla decisione amministrativa successivamente al giudicato e con i conseguenti poteri decisori anche nel merito» (p. 244).
[11] F. Francario, Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, cit., 104.
[12] L’ordinanza in questione ha immediatamente originato un acceso dibattito, come dimostra l’ampiezza e lo spessore delle sue annotazioni, numerose anche in questa Rivista: F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di Piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione) (11 novembre 2020); M. Lipari, Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione tra l’art. 111, co. 8, della Costituzione e il diritto dell’Unione Europea: la parola alla Corte di Giustizia (11 dicembre 2020); B. Nascimbene - P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea? (24 novembre 2020); M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19598 del 2020(30 novembre 2020); G. Tropea, Il Golem europeo e i “motivi inerenti alla giurisdizione” (7 ottobre 2020).
[13] Cons. Stato, ad. plen., 15 gennaio 2013, n. 2, con note di A. Falchi Delitalia, Il giudice dell’ottemperanza come “giudice naturale dell’esecuzione della sentenza”, in Foro amm. CdS, 2013, 1846 ss.; ivi N. Spadaro, Brevi considerazioni in tema di giudizio di ottemperanza, 1864 ss.
[14] Cons. Stato, ad. plen., 9 giugno 2016, n. 11, con note di N. Spadaro, Giudicato a formazione progressiva e diritto europeo. Un’occasione sprecata dall’Adunanza plenaria, in Dir. proc. amm., 2016, 1159 ss.; S. Vaccari, “Ius superveniens” e giudicato a formazione progressiva, in Foro it., 2017, IV, 204 ss.
[15] Cons. Stato, ad. plen., 12 maggio 2017, n. 2, con nota di F.G. Scoca, Impossibilità di esecuzione del giudicato e azioni conseguenti, in Corr. giur., 2017, 1257 ss.
[16] Cons. Stato, ad. plen., 9 maggio 2019, n. 7, con note di S. Aurilio, La statuizione relativa alla penalità di mora può essere modificata in sede di c.d. “ottemperanza di chiarimenti” purchè se ne dimostri la manifesta iniquità, in S. Toschei (a cura di), L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2020, 820 ss.; M.M. Cellini, La penalità di mora nel processo amministrativo tra precarietà della statuizione ed effettività della tutela giurisdizionale, in corso di pubblicazione in Riv. dir. proc., n. 1/2021.
[17] Per una ricognizione, si segnala la raccolta di contributi pubblicati in F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli. Atti del Convegno di Modanella, Napoli, 2017. Si veda, inoltre, P.L. Portaluri, Le “macchine pigre” ed un Codice ben temperato, in Foro amm. Tar, 2011, 669 ss.
[18] In relazione alla quale v. L.R. Perfetti - G. Tropea, “Heart of darkness”: l’Adunanza Plenaria tra ordine di esame e assorbimento dei motivi, in Dir. proc. amm., 2016, 205 ss.; A. Travi, Recenti sviluppi sul principio della domanda nel giudizio amministrativo, in Foro it., 2015, III, 286 ss.
[19] Per riprendere la significativa immagine offerta da F.G. Scoca, Contributo sulla figura dell’interesse legittimo, Milano, 1990, 25.
[20] E della successiva sentenza della Corte cost., 11 maggio 2006, n. 191, commentata da M.A. Sandulli, Riparto di giurisdizione atto secondo: la Corte Costituzionale fa chiarezza sugli effetti della sentenza 204 in tema di comportamenti “acquisitivi”, in www.federalismi.it, 2006; A. Travi, Principi costituzionali sulla giurisdizione esclusiva ed occupazione senza titolo dell’amministrazione, in Foro it., 2006, I, 1625 ss.
[21] Così, da ultimo, il Pres. F. Patroni Griffi in occasione del webinar - Modanella 2020 La questione di giurisdizione. Giornate di studio sulla giustizia amministrativa (9 dicembre 2020), in questa Rivista (12 dicembre 2020).
[22] Cfr. M. Mazzamuto, Per una doverosità costituzionale del diritto amministrativo e del suo giudice naturale, in Dir. proc. amm., 2010, 643 ss.
[23] Come è stato significativamente affermato da V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 2003, 988: «è peculiare del processo amministrativo la circostanza che esso è volto a soddisfare pretese di soggetti nei confronti di potestà pubbliche, per cui anche il processo esecutivo non si svolge nello schema proprio del processo civile diritto-obbligo, bensì nello schema del sindacato sulla potestà».
Un riesame critico di alcune questioni irrisolte della disciplina dei licenziamenti, conversando con Stefano Giubboni
Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Stefano Giubboni
«Anni difficili. I licenziamenti in Italia in tempi di crisi» è il libro pubblicato, a fine ottobre 2020, per i tipi di G. Giappichelli Editore, che raccoglie – riordinandoli in forma organica – alcuni contributi di Stefano Giubboni dedicati negli ultimi anni alla disciplina dei licenziamenti, dalla legge Fornero al Jobs Act, passando per la giurisprudenza di legittimità e costituzionale. Una rimemorazione, insomma, della disciplina dei licenziamenti, con una «serrata analisi critica dei numerosi aspetti irrazionali e disfunzionali della disciplina oggi in vigore nel nostro Paese, così come stratificatasi senza adeguato coordinamento sistematico in questi anni di contro-riforme, per suggerire – oltre a soluzioni utili già disponibili sul piano interpretativo – anche radicali interventi di semplificazione e di (autentica) riforma, in linea con le indicazioni offerte dalla Corte costituzionale nelle sue sentenze sul decreto legislativo 23/2015». In questo dialogo ripercorriamo con l’autore l’ultimo miglio della disciplina dei licenziamenti, con qualche domanda obbligata sull’impianto sistematico delle tutele dagli anni ’70 in poi e sulle scelte recenti di politica del diritto del lavoro.
Quelle riportate sopra sono le parole che leggiamo nella quarta di copertina. Sono queste le “ragioni” del tuo libro? C’è dell’altro?
La ragione di fondo che ha guidato questa “rimemorazione” – come l’hai elegantemente chiamata – è, in effetti, ben sunteggiata nella quarta di copertina. Il libro nasce anzitutto dall’esigenza di mettere in forma maggiormente distesa e insieme “compatta” quella critica radicale – come tale, insieme tecnica e politica – delle controriforme del decennio perduto del diritto del lavoro, per citare un’espressione efficace, nella quale mi sono impegnato, in buona compagnia per la verità, in questi ultimi anni, segnalando tra i primi, in particolare, la strutturale incompatibilità del cosiddetto “contratto a tutele crescenti” (formula che ho trovato sin da subito francamente inaccettabile per l’insopportabile tasso di impostura e mistificazione linguistica) con i principi della Costituzione repubblicana. Quella impostazione critica è stata, in una parte non minore, sostanzialmente recepita dalla Corte costituzionale con le due importanti sentenze del 2018 (la n.194) e del 2020 (la n.150), di cui come ovvio il libro dà conto diffusamente.
Collegata a questa ragione ve n’è un’altra più generale, che ha a che fare con l’esigenza di esplicitare in maniera più compiuta di quanto non avessi fatto in precedenza una ben precisa opzione di politica del diritto, diretta, da un lato, a ripristinare regimi di tutela effettivamente bilanciati e adeguati, restituendo anzitutto centralità alla tutela reale del posto di lavoro, e, dall’altro, a semplificare un quadro normativo sulla cui insostenibile e disfunzionale complessità esiste, oggi, un giudizio pressoché unanime da parte di quelli che con brutta espressione ci siamo abituati a chiamare gli “operatori del diritto”, in primis avvocati e giudici del lavoro. Una opzione di politica del diritto evidentemente opposta a quella di segno neoliberale perseguita negli anni delle controriforme, sia dalla legge Fornero, sia – e soprattutto – dal Jobs Act renziano.
Nella introduzione del libro definisci questi orientamenti neoliberali approssimativi e provinciali, frutto – come scrivi – di «un accidioso abbandono (quasi una desistenza culturale)» a una serie di luoghi comuni, «in un campionario argomentativo in cui spiccano le più schematiche rappresentazioni del conflitto insiders vs outsiders e le semplificate versioni nostrane della Law & Economics». È un giudizio severo, non solo tecnico-giuridico.
È un giudizio severo, ma credo corretto, visto che l’appello alle virtù taumaturgiche della flessibilità (anche) “in uscita” – la cui necessità e quasi ineluttabilità è stata sbrigativamente giustificata con il richiamo a quei topoi ormai consunti del senso comune neoliberale – è servito a bloccare praticamente sul nascere un autentico dibattito scientifico sul fondamento di quelle asserzioni. Un fondamento – si badi – debolissimo sul piano teorico, dove è sempre stato contestato anche in seno alle dottrine economiche, e dalle ancor più evanescenti basi empiriche, come i fatti hanno poi implacabilmente dimostrato. Nessuno degli effetti attesi da una riduzione della asserita eccessiva rigidità della disciplina italiana dei licenziamenti sul dinamismo del nostro mercato del lavoro (e, di riflesso, sulla crescita della capacità competitiva del sistema delle nostre imprese) si è verificato; e ciò per la ragione di fondo che quella disciplina ha un rilievo del tutto marginale sul funzionamento del mercato del lavoro e soprattutto sulle dinamiche dell’occupazione. Le controriforme criticate nel libro hanno quindi tradotto in maniera piuttosto pasticciata opzioni politiche dalla forte connotazione ideologica e in realtà sprovviste di quella robustezza di basi teoriche che si è tentato di accreditare. Lo stesso dibattito tra gli economisti è sempre stato assai più articolato della versione riduzionistica e piuttosto unilaterale che è prevalsa nella mediazione offerta ad uso dei giuslavoristi.
Hai scritto che il dibattito che ha accompagnato e sostenuto soprattutto gli interventi normativi del 2012 e del 2015 ha sviato l’attenzione dalla vera questione che conta in questo campo di «lotta per il diritto»: quella del potere, della limitazione e del controllo del potere sociale dell’impresa. A cosa ti riferisci esattamente? Puoi illustrarci meglio questo passaggio?
È questo il profilo maggiormente ideologico del discorso neoliberale, la cui visione del mercato concorrenziale semplicemente rimuove, occulta, il tema del potere. Che è invece il tema fondamentale del diritto del lavoro, ciò che ne fa un elemento portante del modello di democrazia accolto dalla Costituzione repubblicana. Il fatto che ci ritroviamo, anche in Europa, e certamente in Italia, a vivere in società sempre più diseguali, con una crescita vertiginosa e vergognosa delle diseguaglianze economiche (nella distribuzione del reddito e della ricchezza e di conseguenza nelle opportunità) che nega alla radice il disegno costituzionale, è legato a questa rimozione, e costituisce il frutto della applicazione, seppur con intensità diversa nei diversi contesti nazionali, del paradigma neoliberale.
Oggi assistiamo però – finalmente – a un ripensamento di quel paradigma, anche all’interno dell’Unione europea, che ne ha probabilmente fatto, specie dopo il 2008, l’applicazione forse più ottusamente rigoristica, anche in forza delle regole che si è data con quella sorta di legalità parallela che nella letteratura specialistica va sotto il nome di crisis-management-law. Ce ne dà evidenza non solo Nex-Gerenation-EU, che evidentemente supera la logica ordoliberale dell’austerità, ma forse ancor più, per certi versi, l’audace proposta di direttiva su un salario minimo adeguato presentata a settembre dalla Commissione europea, che al di là di tutti i suoi limiti (evidenti e del resto persino scontati, data la controversa base giuridica messa a disposizione dal Trattato), segnala, di per sé, che il modello della svalutazione interna competitiva del lavoro non è più la strada che l’Unione intende perseguire. O, almeno, non è la sola.
Nella introduzione si leggono parole molto critiche anche sulla «narrazione flessicuritaria».
La flexicurity è la versione edulcorata e politically correct del paradigma neoliberale. Il mio, comunque, non vuole essere un atteggiamento di chiusura aprioristica e ideologica: di per sé, come tutte le formule politiche di compromesso, può voler dire, e infatti dice, cose molto diverse, alcune delle quali del tutto condivisibili. Sta di fatto, però, che, in Italia, quella formula è stata tradotta – in particolare con la legge Fornero e il Jobs Act, che ad essa si sono esplicitamente ispirati – nel modo che sappiamo: insicurezza, precarietà, in-work-poverty dilagante, per usare un altro anglicismo forse meno à la page, da una parte, e politiche attive del lavoro en attendant Godot, dall’altra. Con gli ammortizzatori sociali si è fatto forse un po’ di più, ma sempre troppo poco, come ci ha rammemorato la difficilissima gestione della crisi pandemica. L’attuale Ministro del lavoro ha ottimi propositi, e buoni progetti, ma molto dipenderà, in concreto, dalla quota di risorse che sul fronte della innovazione (e della effettiva implementazione) delle politiche attive si riuscirà a ritagliare nell’ambito del cosiddetto recovery plan.
A cosa serve, oggi, l’articolo 18?
Serve a quello cui era servito ieri e a cui dovrà servire domani, salvo che non si pensi – e io, infatti, non lo penso – a un modo di produzione, quello che alcuni teorici definirebbero “postcapitalistico”, che si regga sul lavoro finalmente liberato dal vincolo della subordinazione. Oggi c’è in molte realtà più subordinazione, e non di rado più sfruttamento, di quanto non ce ne fosse ieri, e l’articolo 18 è uno strumento – importante – di riequilibro del potere contrattuale delle parti in contesti nei quali, in realtà, lo squilibrio di forza tra datori di lavoro e lavoratori è, appunto, persino aumentato. Mi ha ad esempio molto colpito la lettura della motivazione con la quale il Tribunale di Palermo, nella recente sentenza del 24 novembre 2020, ha minuziosamente riscostruito la pervasività del potere direttivo esercitato dalla nota piattaforma del food delivery sui propri riders (e la recentissima decisione bolognese sugli effetti sistematicamente discriminatori dell’algoritmo utilizzato da un’altra nota società ce ne dà conferme piuttosto inquietanti).
La rivoluzione digitale saprà liberare il lavoro e l’autonomia delle persone solo a patto di tenere a bada il potere delle piattaforme (un potere immenso e smisurato, come sappiamo per comune esperienza e come ha spiegato forse meglio di altri Shoshana Zuboff nel suo The age of surveillance capitalism, il cui sottotitolo è parimenti indicativo: The fight for a human future at the new frontier of power). Il diritto del lavoro è tuttora chiamato a svolgere questa sua funzione fondamentale (Guy Davidov, nel suo recente libro, la chiama di limitazione del potere datoriale con finalità democratica; ma è un insegnamento dei nostri classici).
Sempre nella introduzione del volume si legge che la responsabilità più grave della dottrina giuslavoristica italiana «sta a ben vedere nell’aver reciso i legami con quella straordinaria tradizione di studi sul licenziamento, e sulla stabilità reale in specie, che pure ha costituito uno dei momenti più rilevanti del contributo dottrinale classico al nostro diritto del lavoro, e insieme una delle espressioni più eleganti di quello che potremmo chiamare lo stile italiano». Credi davvero che in questi anni abbiamo vissuto una regressione (non solo) culturale sulla questione dei licenziamenti?
Direi di sì, per le ragioni che ho sommariamente ricordato poc’anzi. La discussione sull’opportunità di riformare – o di abrogare, sia pure per consunzione lenta (come in pratica ha fatto il d.lgs. n. 23/2015), l’articolo 18 – è stata impostata su basi viziate da pregiudizi puramente ideologici, e sarebbe stato compito dei giuslavoristi, a prescindere dagli orientamenti di politica del diritto, contribuire a indirizzare quella discussione su basi metodologicamente più corrette, cosa che ci avrebbe forse risparmiato, almeno in parte, la deriva legislativa cui abbiamo dovuto nostro malgrado assistere. Questa deriva è, del resto, denunciata da molti: esiste un giudizio trasversalmente condiviso sullo scadimento della qualità – anche tecnica – della disciplina in vigore; una valutazione negativa, questa, fatta ormai propria anche da quanti hanno visto con favore l’opzione per la marginalizzazione della tutela reale (e più in generale per la riduzione del livello delle tutele), che ha ispirato il legislatore del 2012 e ancor più quello del 2015.
La pessima riscrittura dell’articolo 18 non poteva non portare al groviglio di questioni nel quale siamo tuttora impaniati. Le linee divisorie che, per lo meno nelle intenzioni, avrebbero dovuto separare con nettezza, nel sacro nome della certezza del diritto, gli ambiti applicativi dei diversi rimedi (e segnare in particolare il confine tra la reintegra attenuata e l’indennità risarcitoria forte) sono state mal congegnate ab origine, anche per l’impiego di espressioni d’ineffabile vaghezza. Era inevitabile che le incertezze applicative fossero destinate ad aumentare, con buona pace dei propositi di semplificazione. Che il d.lgs. n. 23/2015 fosse predestinato, come è poi stato per larga parte, a una bocciatura costituzionale – soprattutto per il modo insensatamente punitivo, per il lavoratore illegittimamente licenziato, con il quale era stato ideato il primo comma dell’art. 3 – doveva essere, a mio sommesso parere, avviso condiviso che la comunità dei giuslavoristi – unanime e tutt’intera – avrebbe dovuto rivolgere all’improvvido riformatore, per una sorta di dovere deontologico. Ed oggi, i pur necessari correttivi introdotti ex post in parte dal legislatore e in parte dalla Corte costituzionale, con le sentenze citate, hanno finito per incrinare definitivamente quel poco di coerenza che si poteva rintracciare nel combinato disposto tra nuovo articolo 18 e d.lgs. n. 23/2015; per cui il meno che oggi si possa dire – come in effetti è stato detto – è che ci troviamo di fronte ad un quadro regolativo totalmente privo di ragionevolezza, specie se visto nel suo insieme (non oso neppure dire dal “punto di vista sistematico”, visto che non credo esista nulla di più eccentrico rispetto al sistema della normativa sui licenziamenti).
Il sostanziale ridimensionamento della tutela reintegratoria dell’art. 18, St. lav., si è avuto con la legge Fornero, n. 92/2012, ma non credi che tutto abbia avuto inizio con la previsione della possibilità per il lavoratore di formulare l’opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione?
È in effetti questo un argomento spesso usato dai difensori del nuovo articolo 18, che non mi trova però d’accordo. Anzitutto il lavoratore vittorioso in giudizio esercita – liberamente – una sua facoltà di scelta: sta a lui decidere se monetizzare o meno la reintegrazione. Anche quanti parlano oggi di empowerment come obiettivo di un moderno diritto del lavoro dovrebbero riconoscere che questa facoltà aumenta, semmai, il potere che al lavoratore deriva, in ogni caso, della possibilità di accedere al rimedio restitutorio, senza contraddirne la natura. Osservo comunque con interesse che nel nuovo testo dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001 la facoltà di opzione per la indennità sostitutiva della reintegra è stata espunta: non so, però, sulla base di quale ragione e, in particolare, se ciò sia avvenuto sulla base di un pensiero critico sull’istituto (della qual cosa tenderei peraltro a dubitare).
Dopo di che, che la reintegrazione nel posto di lavoro sia sempre stata più immaginaria che reale perché nemo ad factum cogi potest, come è stato anche da ultimo autorevolmente ricordato, è argomento che a mio sommesso avviso prova troppo. Da un lato, perché la valutazione sulla efficacia del rimedio non può essere risolta nella impossibilità, comune alle obbligazioni di facere infungibili, della esecuzione in forma specifica (anche volendo abbandonare definitivamente alla storia noti dibattiti d’epoca in cui si cimentarono illustri processualisti come Andrea Proto Pisani, per fare un solo nome); dall’altro, perché, se questo fosse il problema, gioverebbe molto alla sua soluzione estendere ai rapporti di lavoro la previsione sulle misure di coercizione indiretta introdotta nell’ordinamento dall’art. 614-bis cod. proc. civ. Dubito peraltro fortemente che la esclusione delle controversie di lavoro dall’applicabilità di tale previsione sia conforme a Costituzione, ed anche per questo mi è capitato di patrocinarne il superamento presso l’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro, che ha infatti proposto – allo stato purtroppo senza successo – di rimediare a questa ingiustificata disparità di trattamento abrogando il secondo comma dell’art. 614-bis cod. proc. civ.
La tutela reintegratoria attenuata o indennitaria pura, nelle ipotesi date (sulle quali ritorneremo oltre), prevista dalla legge Fornero, poteva essere una soluzione compromissoria accettabile, o ritieni negativa, in linea di principio, anche questa?
Ritengo che, nell’area applicativa dell’art. 18, la tutela reintegratoria, se si vuole anche attenuata (meglio ancora se sul modello oggi vigente per il lavoro pubblico alla stregua del citato nuovo articolo 63 del testo unico), debba essere il rimedio previsto per ogni ipotesi di licenziamento ingiustificato, di natura sia soggettiva che oggettiva, superando la cervellotica distinzione tra ingiustificatezza “semplice” e “qualificata”, foriera di incertezze insuperabili, e tornando a parificare la disciplina applicabile al licenziamento disciplinare e a quello per giustificato motivo oggettivo. Si potrebbe semmai valutare di mantenere la tutela indennitaria – ma a mio avviso nella versione forte – per i soli vizi formali-procedurali, il cui rilievo sistematico nell’ambito della complessiva tutela del lavoratore è stato, peraltro, giustamente posto in evidenza, con l’attento richiamo di taluni precedenti classici, dalla Corte costituzionale nella sentenza 150/2020.
In estrema sintesi, e passando al Jobs Act, quali sono le maggiori criticità della disciplina posta dal d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, per i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti?
Del d.lgs. n. 23/2015 non salverei francamente nulla, neppure dopo i correttivi introdotti dalla legge n. 96/2018 e dalla Corte costituzionale: è l’intero impianto ad essere sbagliato e per questo sono convinto che il decreto andrebbe tout court abrogato. Ad ogni modo, allo stato le principali criticità mi paiono tre: la prima è quella tatticamente elusa dalla Corte costituzionale con più la recente sentenza n. 254/2020, che ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità in materia di licenziamento collettivo con motivazione non esattamente inappuntabile; la seconda riguarda quell’autentico sgorbio giuridico del secondo comma dell’art. 3, ritenendo semplicemente inaccettabile che in un ordinamento civile possa ammettersi – in tema di licenziamento disciplinare – una nozione barbara come quella di “fatto materiale”, estraniando il giudice da ogni valutazione circa la sproporzione del recesso datoriale; la terza solleva la questione – certamente complessa e delicata – della adeguatezza della tutela indennitaria per i dipendenti delle piccole imprese, visto che quella prevista dell’art. 9 appare ridicolmente inadeguata.
La Corte costituzionale, comunque, ha ritenuto la scelta del legislatore di differenziare la sfera di applicazione delle norme in base al fattore temporale ragionevole e coerente con lo scopo dichiaratamente perseguito «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione».
Come sai, ho aspramente criticato questo profilo – senza dubbio centrale – del ragionamento della Corte costituzionale, che è parso, non solo a me per la verità, fondamentalmente errato. L’argomento del fluire del tempo mi sembra davvero una fallacia logica, visto che qui ci troviamo di fronte alla coesistenza di discipline diversissime per situazioni identiche (non potendo certo la data della stipula del contratto di lavoro valere a differenziarle). Quanto, poi, allo scopo manifestato dal legislatore – palesemente e notoriamente fallito, peraltro (al netto, come ovvio, del temporaneo aumento delle assunzioni a tempo indeterminato indotto dall’uso del tutto inappropriato del doping dello sgravio contributivo a pioggia e incondizionato: una misura che dà bene il senso della natura assai approssimativa e abborracciata del neo-liberismo nostrano) –, mi pare che la deferenza mostrata dalla Corte risponda ad una concezione formalistica e indebitamente restrittiva del controllo di ragionevolezza, criticabile anche alla luce della sua stessa giurisprudenza.
Più che deferenza direi che il giudice costituzionale non vuole fare il legislatore; non è solo un problema di tecniche del giudizio costituzionale. A ciascuno il suo mestiere.
Colgo il tuo punto: in effetti, ci muoviamo su un terreno delicato e certamente gli sconfinamenti vanno evitati. Non mi pare, però, che la tua osservazione confuti la mia critica sulla estrema fragilità, se proprio non vogliamo seccamente affermarne la erroneità, dell’argomento del “fluire del tempo”.
L’anzianità di servizio rimane, comunque, un valido criterio prioritario di determinazione dell’indennità risarcitoria, anche per quanto la Corte costituzionale ha stabilito con la successiva sentenza n. 150/2020.
Ho sostenuto, mi pare tra i primi e tra i pochi, ricevendo critiche puntute, la tesi secondo cui l’anzianità di servizio dovesse restare la base di partenza della liquidazione della indennità dovuta al lavoratore, per una serie di argomenti ispirati ad una lettura sostanzialistica della sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale. Ora, in effetti, sia pure ribadendo la tecnica decisoria della 194, la sentenza n. 150/2020 è esplicita, in un significativo passaggio della motivazione, nel fornire il proprio avallo a questa tesi. Mi pare, comunque, che nei fatti la prassi giurisprudenziale si stesse già attestando, in netta prevalenza, su tale linea interpretativa, di chiaro buon senso.
È per i motivi che hai ricordato sin qui che auspichi quindi l’abrogazione pura e semplice del d.lgs. n. 23/2015 (peraltro, come ricordi, da più parti invocata) e, provocatoriamente, come tu stesso riconosci, anche del comma 42 dell’art. 1 della legge n. 92/2012, con il ritorno al testo dell’art. 18 St. lav. ante controriforma?
Sì, è per questi motivi, e più in generale perché giudico oggettivamente fallimentare l’esperienza applicativa in materia tanto del Jobs Act quanto della legge Fornero. Quell’auspicio, in realtà, rievoca semplicemente l’esito cui mirava la campagna referendaria della CGIL, il cui “sfogo” è stato tuttavia preluso dalla nota (e discussa) sentenza di inammissibilità della Corte costituzionale del 2017. Mi limito a osservare che, ove il quesito referendario si fosse limitato a chiedere l’abrogazione delle due controriforme, senza, per così dire, ulteriori “ambizioni manipolative” del testo dell’articolo 18, quel mio auspicio che oggi può apparire così provocatorio potrebbe non essere poi così lontano dalla realtà. Resto infatti convinto che il corpo elettorale – che, è bene ricordare, da poco aveva respinto la riforma costituzionale renziana e che di lì a poco avrebbe ridisegnato profondamente il volto della rappresentanza politica in Parlamento con le elezioni del marzo 2018 – avrebbe sostenuto le ragioni referendum abrogativo, approvando il quesito.
Per quanto riguarda il licenziamento disciplinare, date per acquisite le affermazioni giurisprudenziali sul principio di proporzionalità della sanzione, anche in base alla tipizzazione contrattuale degli illeciti, la legge Fornero ha introdotto la nozione di “insussistenza del fatto contestato” come elemento discriminante per la concessione della tutela reintegratoria in caso di illegittimità del licenziamento. Se non ho capito male, ritieni, comunque, destabilizzate l’introduzione di questo criterio applicativo, anche per le differenziazioni, non sempre coerenti, che ne derivano.
Condivido la tua espressione: mi pare un criterio destabilizzante, perché affida alla discrezionalità del giudice una valutazione molto difficile da applicare con apprezzabile grado di prevedibilità e omogeneità nella straordinaria varietà dei casi in cui può realizzarsi il comportamento di rilevanza disciplinare, rendendo oltremodo difficile una prognosi ex ante sul possibile esito del giudizio (lo sanno meglio di tutti gli avvocati che, salve ipotesi relativamente eclatanti, difficilmente possono avventurarsi nel fornire al cliente, qualunque esso sia, previsioni attendibili sul possibile esito del giudizio in caso di illegittimità del licenziamento, tanto è impalpabile, nella pratica, la differenza tra ingiustificatezza semplice e qualificata). La Corte di cassazione ha certamente fornito un importante contributo in sede nomofilattica, ma temo che questo non sia sufficiente, per il semplice fatto che non può esserlo, data la strutturale ambivalenza della disposizione (che, ricordiamolo, prevede il rimedio reintegratorio anche nelle ipotesi in cui il contratto collettivo contempli, per l’illecito, una sanzione conservativa). Nel libro dedico al tema – a beneficio (spero) degli studenti, cui è talvolta necessario complicare la vita – un lungo capitolo.
Di controriforma in controriforma, secondo la tua opzione interpretativa, si arriva alla declinazione del secondo comma dell’art. 3 del d.lgs. n. 23/2015, cui hai già fatto cenno, che solo dall’insussistenza del fatto materiale contestato, restando esclusa ogni valutazione sulla proporzionalità, fa derivare l’annullamento del licenziamento con la sanzione forte della reintegrazione.
Considero l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015 il punto più basso del contro-riformismo di questi anni. Una norma puramente ideologica perché non necessaria neppure nell’ottica del legislatore del Jobs Act, ma appunto voluta per veicolare nella maniera più netta il messaggio politico della contro-riforma, che, ridotto all’osso, è questo: «Siate docili, abbassate la testa; il datore di lavoro vi può licenziare, pagandovi una miseria soprattutto se siete giovani con una modesta anzianità di servizio, anche se il vostro inadempimento è poca cosa, poco più che una bagattella». È una norma che incoraggia – oggettivamente – l’abuso di potere, favorendo un clima di soggezione all’esercizio finanche arbitrario delle prerogative datoriali, a ben vedere anche contro i dettami della famosa Law & Economics, contraria a previsioni dirette a incoraggiare così sfacciatamente l’azzardo morale. Un vulnus ai principi costituzionali che deve essere rimosso, nonostante la Cassazione abbia, anche in questo caso, meritoriamente stemperato la violenza ideologica del messaggio racchiuso nella disposizione.
Passiamo ad altro. Nel quadro normativo di progressivo affievolimento della tutela reintegratoria, non ritieni surreale o quantomeno in netta controtendenza l’affermazione giurisprudenziale, precedente alla riforma Madia, della contemporanea vigenza di un doppio testo normativo: la vecchia versione dell’art. 18, per il pubblico impiego contrattualizzato; la nuova, per i dipendenti privati?
In qualche modo hai ragione, sebbene anche io, pur consapevole della oggettiva problematicità della soluzione, abbia sostenuto la tesi della inapplicabilità del nuovo testo dell’art. 18 ai pubblici dipendenti per una serie di ragioni sulle quali mi soffermo diffusamente in un capitolo del libro. Si è trattato di uno dei tanti difetti di impostazione della novella del 2012: certamente di uno dei più rilevanti. Mentre nel caso del d.lgs. n. 23/2015 non mi pare ci siano stati dubbi significativi sulla sua inapplicabilità al lavoro pubblico, nonostante il decreto taccia sul punto.
È intervenuta poi la nuova formulazione dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001, che ha configurato un sistema rimediale speciale e autonomo, autosufficiente, per tutta l’area del pubblico impiego contrattualizzato, centrato sulla reintegrazione e sulla indennità risarcitoria al massimo di 24 mensilità, a conferma della dualità delle tutele contro i licenziamenti illegittimi nel settore pubblico e privato.
La riforma Madia ha sul punto avuto l’indubbio merito di fare chiarezza, aggiungendo, però, come hai appena notato, una ulteriore forma di rimedio, che presenta tratti indubbiamente peculiari (ho già ricordato, ad esempio, che non è contemplata l’opzione per la indennità sostitutiva della reintegra).
Resta (francamente non so quanto giustificata) la differenziazione tra settore pubblico e privato in materia di licenziamenti. Ritieni che il regime sanzionatorio a tutela dei dipendenti pubblici possa costituire un modello di riforma unitario per tutti i dipendenti?
Può forse costituire un buon punto di riferimento, anche se nel settore del lavoro privato sarebbero con ogni probabilità necessari degli adattamenti (ad esempio, non credo che sarebbe trasponibile in questo ambito la previsione del comma 2-bis dell'art. 63, che nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità autorizza il giudice a rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali, tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato).
Un capitolo del libro, il quarto, «è dedicato alla complessa tematica del licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione, in una prospettiva d’indagine che privilegia nettamente i nessi sistematici con la tutela antidiscriminatoria», per usare le tue stesse parole. La locuzione “disabilità fisica o psichica del lavoratore”, impiegata nella formulazione finale dell’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 23/2015, è sovrapponibile a quella di “inidoneità” del vigente art. 18, comma 7, St. lav., o sono nozioni diverse? E, ove la risposta sia affermativa, quali sono le conseguenze sul piano sanzionatorio?
Nel libro sostengo, in sintonia con l’interpretazione prevalente, che le due formule sono sovrapponibili. Quanto alle conseguenze sanzionatorie, il legislatore del 2012 e quello del 2015 hanno fatto come noto scelte diverse, perché il primo prevede la tutela reintegratoria ad effetti risarcitori attenuati, mentre quello del 2015 stabilisce quella ad effetti pieni (uguali, cioè, a quelli cui dà accesso l’accertamento della nullità del recesso per il suo carattere discriminatorio). La questione di più difficile soluzione riguarda proprio i rapporti con la tutela antidiscriminatoria. Sempre nel libro, aggiornando una proposta interpretativa che avevo avanzato in un saggio del 2008, sostengo che, in difetto della adozione degli adattamenti ragionevoli previsti dalla direttiva europea del 2000 ed ora anche dalla norma di trasposizione contenuta nel d.lgs. n. 216/2003, il licenziamento diventa tecnicamente discriminatorio, per cui, ove si applichi l’art. 18, deve valere la tutela reintegratoria piena dei primi tre commi.
Resta, comunque, problematico il tema dei limiti sostanziali al potere di recesso del datore di lavoro in caso di sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle mansioni, tra l’obbligo degli adattamenti ragionevoli e l’obbligo di repêchage, per non violare il divieto di discriminazione per la disabilità.
Non c’è dubbio che questo resti il profilo maggiormente problematico, non solo sul piano della selezione del rimedio correttamente applicabile. L’obbligo degli adattamenti ragionevoli non va in effetti confuso con quello di ripescaggio: esprime, infatti, una compressione ben più intensa della libertà di impresa, perché esige dal datore di lavoro – nei limiti della ragionevolezza – di modificare l’organizzazione produttiva esistente per consentire il proficuo utilizzo delle residue capacità lavorative del lavoratore (divenuto) disabile. Si tratta in realtà di una grande questione sociale, considerata l’elevata età media della popolazione attiva del nostro Paese, ed è importante che l’INAIL disponga ora di competenze, e di capacità finanziarie, utili ad affrontarla proattivamente, almeno in parte. Occorre però un impegno attuativo ben maggiore di quello che c’è stato sino ad oggi e una maggiore disponibilità delle imprese.
Nell’analizzare la fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sottoponi a forte critica quello che definisci «il riassetto della disciplina del potere di recesso datoriale in una logica che ha complessivamente – e qui in modo particolarmente netto – privilegiato, nel bilanciamento degli interessi in conflitto, l’interesse dell’impresa su quello del lavoratore alla stabilità o meglio alla conservazione del posto di lavoro». Anche qui ritorna il presupposto della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con la conseguente tutela reintegratoria attenuata nella disciplina applicabile in base alla legge Fornero, o la sola tutela indennitaria per le ipotesi di applicazione del Jobs Act.
È vero, anche se la mia critica – in questo caso – è rivolta, oltre che al legislatore (del 2012 e del 2015), alla giurisprudenza di legittimità, per la nota svolta interpretativa del 2016.
L’esegesi dell’art. 3 della legge n. 604/1966, che non contempla alcun onere per il datore di lavoro di provare l’esistenza di situazioni economiche negative, risultando rilevante la modificazione dell’organizzazione aziendale dalla quale consegua la soppressione del posto di lavoro, combinata con il principio della libertà di iniziativa economica sancito dall’art. 1, comma 1, della Costituzione, non mi sembra, però, che lasci spazio alla sindacabilità delle decisioni datoriali (come espressamente ribadito, non a caso, dall’art. 30 della legge n. 183/2010). Cosa è che non ti convince di questo ragionamento della Cassazione?
L’esegesi letterale, come la farebbe un epigono della école de l’exégèse, in effetti, non contempla alcun onere di prova del genere a carico del datore di lavoro. Non, però, l’esegesi calata nella trama dei principi costituzionali (e consapevole, segnatamente, della direttiva interpretativa fornita dal secondo comma dell’art. 41 Cost.), come quella svolta per decenni dalla prevalente giurisprudenza, anche di legittimità, sulla scia di celebri ricostruzioni dottrinali (con le tesi di Federico Mancini che prevalsero, come noto, su quelle di Giuseppe Pera). Ma capisco bene che il nuovo orientamento della Cassazione è più in sintonia con lo spirito del tempo.
Ma le cose possono cambiare. E credo, anzi, debbano cambiare, non solo perché quella interpretazione dell’art. 3 della legge n. 604/1966 è foriera di esisti paradossali (e per questo criticati da larga parte della dottrina, e non solo da quella orientata pro-labour, come si dice), ma perché saranno ancora una volta gli eventi a indurre, almeno spero, a un ripensamento. Il dopo pandemia – anche quando, come è necessario, sarà superato il cosiddetto “blocco dei licenziamenti” – non potrà essere semplicemente come il “prima”. Costringerà a gestire la crisi economica e occupazionale che già c’è e che verrà – almeno sino a quando non si saranno recuperati livelli produttivi paragonabili a quelli pre-pandemia (peraltro essi stessi ancora inferiori, in Italia, a quelli esistenti prima della crisi economico-finanziaria di dieci anni fa) – con una sensibilità che a mio avviso dovrà essere diversa. E l’approccio neoliberista all’art. 3 della Cassazione non esprime quel tipo di sensibilità, che richiede piuttosto di prendere sul serio il secondo comma dell’art. 41 (insieme agli artt. 3, comma 2, 4 e 35) della Costituzione.
L’obbligo di repêchage e l’impossibilità di ricollocazione del lavoratore riportati dalla giurisprudenza più recente, come fatto, nell’ambito della nozione complessiva di giustificato motivo oggettivo, risolvono questo problema, da sempre oggetto di discussione, oppure restano ancora aspetti irrisolti?
Non mi pare che possa parlarsi di orientamenti veramente assestati e di problemi effettivamente risolti, neppure sui fronti che evochi. Mi pare, d’altra parte, che ancora manchi una soluzione condivisa alla questione del rapporto con il nuovo art. 2103 cod. civ. La mia tesi, neanche a dirlo, è che l’art. 2103 ampli notevolmente l’area dell’obbligo di repêchage, che deve essere equi-estesa rispetto alla più ampia sfera di esercizio dello jus variandi. Ma esistono, come sin troppo noto, autorevoli opinioni di diverso segno. Non mi consta, tuttavia, che la Cassazione si sia ancora specificamente pronunciata sulla questione.
La complessiva riforma dei licenziamenti collettivi introdotta dalla legge Fornero (art. 1, commi 44 – 46, legge n. 92/2012), da una parte semplifica gli obblighi procedurali e di comunicazione che gravano sul datore di lavoro ex art. 4 della legge n. 223/1991, dall’altra riconnette alla loro inosservanza la tutela indennitaria-risarcitoria, a seguito della novellazione dell’art. 5, comma 3, della legge n. 223/1991. Anche su questo aspetto la tua valutazione è fortemente critica.
Stavolta è una critica di natura, per così dire, più dottrinale, perché a me sembra che, dopo la legge Fornero (per non parlare del Jobs Act, of course), la sistemazione dogmatica del licenziamento collettivo, che aveva proposto per primo Massimo d’Antona e che è stata poi seguita dalla giurisprudenza dominante, sia entrata in crisi. Quella ricostruzione, infatti, assegnava una funzione decisiva al controllo svolto ex ante dal sindacato, ridimensionando di converso quello effettuato ex post dal giudice, cui in pratica è precluso intrudersi nella “causale” della riduzione di personale: l’oggettivo depotenziamento delle sanzioni per i vizi procedurali mi pare, però, che incrini la tenuta di questa sistemazione.
La scelta della tutela meramente indennitaria-risarcitoria è sposata in pieno dal Jobs Act (con l’eccezione del caso di scuola del licenziamento collettivo intimato in forma orale), sia per la violazione delle regole procedurali e dei criteri di scelta dei lavoratori di cui, rispettivamente, all’art. 4 e all’art. 5 della legge n. 223/1991. Anche qui il problema non è (soltanto) la limitazione del controllo giudiziario, ma il sistema rimediale adottato dal legislatore.
Non c’è dubbio. Qui, però, c’è l’aggravante del problema della macroscopica disparità di trattamento tra lavoratori assunti prima o dopo la fatidica data del 7 marzo 2015. La questione di legittimità costituzionale, discutibilmente dichiarata inammissibile dalla Consulta con la ricordata sentenza n. 254/2020, è destinata a riproporsi. Io resto fermamente convinto – come dico a più riprese anche nel libro – che la questione, stante la evidenza della ingiustificata disparità, debba essere accolta; ma sono ben consapevole che la Corte costituzionale, da ultimo proprio nella sentenza n. 254 (che pure, tecnicamente, non è entrata nel merito), ha dato segnali non incoraggianti in tal senso.
Sono curioso (e insieme a me saranno curiosi anche i lettori). Cosa è che non ti convince della sentenza n. 254/2020 della Corte costituzionale?
Semplicemente non mi pare che il petitum fosse indeterminato o, comunque, afflitto da quella insanabile ambiguità che vi ha scorto la Corte: si chiedeva piuttosto chiaramente l’estensione della tutela reintegratoria ex art. 18 St. lav. (con le correlate conseguenze anche processuali) ad una ipotesi di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, toccato in sorte a lavoratore la cui unica differenza rispetto ai compagni di lavoro stava nella data di assunzione. Mi pare, poi, che la Corte abbia voluto porre un’enfasi eccessiva su taluni passaggi, per quanto non cristallini, della ordinanza di rimessione in sede di descrizione della fattispecie, che non mi sembrava tuttavia lacunosa al punto da meritare una bocciatura così netta per difetto di motivazione sulla rilevanza.
Non credo sia ad ogni modo il caso di soffermarsi troppo su quello che, in definitiva, è un “non-evento”, che per definizione lascia intatte le questioni sostanziali cui ho accennato.
Nell’ultimo capitolo, il settimo, del tuo libro affronti infatti le questioni di legittimità costituzionale ed euro-unitaria sollevate con riferimento alla disciplina italiana dei licenziamenti. Qual è lo stato dell’arte, ad oggi?
Il libro era già uscito quanto è stata pubblicata la più volte citata sentenza n. 254/2020, di cui quindi non ho potuto dar conto. Ma nel capitolo che hai richiamato, tenuto conto della ordinanza Romagnuolo della Corte di giustizia dell’Unione europea sull’altro corno della avventurosa e ormai famosa “doppia pregiudiziale” napoletana, formulavo previsioni negative, non troppo diverse dall’esito che si è poi avuto.
Resta ora in piedi il rinvio pregiudiziale proposto dal Tribunale di Milano. Ma per come è tecnicamente formulato, incentrato in particolare com’è sulla direttiva sul contratto a termine, non mi pare possa costituire l’occasione adatta per affrontare veramente la questione fondamentale della disparità di regimi applicabili in caso di licenziamento collettivo illegittimo (non solo, peraltro, per violazione dei criteri di scelta). Spero naturalmente di sbagliarmi, ma temo che non sarò smentito. Comunque, dopo l’interpretazione iper-restrittiva dei limiti di applicabilità dell’art. 30 della Carta di Nizza fatta propria (anche) con la ordinanza Romagnuolo, non mi pare ci si possa attendere granché dalla Corte di giustizia. Un discorso, questo, che faccio per la verità da anni più in generale: ma è un’altra storia, di cui non è possibile parlare qui (spero mi permetterai di rinviare a un altro mio volume, piuttosto recente: Diritto del lavoro europeo. Una introduzione critica, pubblicato con Wolters Kluwer/CEDAM nel 2017).
Una delle differenze di disciplina introdotte dal d.lgs. n. 23/2015 attiene, come è noto, alla applicabilità del c.d. rito Fornero, un rito accelerato da alcuni enfatizzato per la migliore, e tempestiva, tutela dei lavoratori licenziati, ma anche per dare certezza, in tempi brevi, al datore di lavoro. Qual è il tuo giudizio sull’applicazione di questo rito in questi anni?
Il fatto che il legislatore abbia deciso di non applicare il rito ai licenziamenti dei lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti (e, ora, dopo l’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001, a quanto sembra, anche ai dipendenti pubblici “contrattualizzati”) mi pare di per sé piuttosto sintomatico della scarsa fiducia riposta sul farraginoso meccanismo processuale previsto dalla legge n. 92/2012. Condivido comunque il giudizio per lo più negativo che ne viene dato: i vantaggi in termini di (relativa) celerità della decisione potrebbero essere probabilmente assicurati con accorgimenti più semplici, riservando una corsia preferenziale e accelerata alle cause di impugnazione del licenziamento. Ma mi rendo conto di avere – per miei limiti culturali – un approccio piuttosto grossolano alle questioni processuali, per cui è bene che non mi avventuri oltre in suggerimenti che potrebbero apparire rozzi e semplicistici.
Nel libro c’è solo un accenno al divieto dei licenziamenti stabilito dalla normativa emergenziale, entrato in vigore quando l’opera era – mi par di capire – già scritta. Anche se non offri una analisi dettagliata di questa normativa, ne affermi comunque con nettezza la sua legittimità costituzionale. Vuoi riprendere meglio questo passaggio?
Trovandomi già a collaborare con l’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro quando è stato adottato il primo decreto-legge di contrasto della emergenza pandemica, il c.d. “Cura Italia”, debbo dire per trasparenza e onestà intellettuale di aver pienamente condiviso questa scelta, senza dubbio difficile, e di avervi anche contribuito. La disciplina del cosiddetto “blocco dei licenziamenti” ha poi avuto, come ben noto, una evoluzione, che ne ha certamente comportato una attenuazione, per quanto selettiva, e una flessibilizzazione, come ha osservato una nutrita dottrina.
Difendo con convinzione la legittimità costituzionale (ed euro-unitaria) di questa disciplina, che, per il suo carattere temporaneo, mi pare adeguata e proporzionata rispetto allo scopo (di ordine pubblico economico) di contenimento della distruzione di posti di lavoro dovuta alla pandemia, cui è immediatamente preordinata. Nel bilanciamento degli interessi di rango costituzionale in gioco non può del resto trascurarsi il massiccio intervento finanziario compensativo a favore delle imprese, ben al di là dell’uso – esso stesso di eccezionale ampiezza – della cassa integrazione per Covid.
Cosa proponi, in concreto, e in conclusione, quale linea di una nuova e diversa politica del diritto in materia di licenziamenti?
Mi parrebbe doveroso accogliere l’invito autorevolmente rivolto al Parlamento dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 150/2020. È un invito formulato in termini sobri ma netti: «Spetta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari».
I miei ideali auspici li ho formulati poco fa, a partire da quello del definitivo superamento del d.lgs. n. 23/2015. Quel che è certo, è che urge un intervento capace di restituire un minimo di ragionevolezza e di coerenza complessiva alla nostra disciplina, ricomponendo, e quindi riducendo e razionalizzando, i troppi regimi di tutela, tenendo conto delle indicazioni già offerte al legislatore sia dalla Corte costituzionale che dal Comitato europeo dei diritti sociali.
A conclusione di questo interessante dialogo, devo segnalare che ogni capitolo del libro è corredato da ampie citazioni di dottrina e giurisprudenza, che i lettori sapranno apprezzare, visto che rendono completa e organica la trattazione di una materia – come scrivi – «fluida e contesa», qual è quella dei licenziamenti, sempre densa di cambiamenti e in continua evoluzione, per la quale hai opportunamente richiamato, riprendendolo da un saggio di Carl Schmitt, il motto jüngeriano: «Assomigliamo ai marinai sempre in viaggio, e ogni libro non può essere niente più che un giornale di bordo».
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