ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Nomofilachia codificata e supremazia dei precedenti*
di Antonio Scarpa
Sommario: 1. Un’immagine scolorita della Corte di Cassazione? - 2. L’entrata nel circuito del precedente - 3. La motivazione con riferimento a precedenti conformi - 4. La codificazione della nomofilachia - 5. Conclusioni.
[Sul ruolo della Corte di Cassazione v., in precedenza, su questa Rivista, F. De Stefano, Giudice e precedente. Per una nomofilachia sostenibile, 3 marzo 2021 e R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, 4 marzo 2021]
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1. Un’immagine scolorita della Corte di Cassazione?
Virgilio Andrioli (Diritto processuale civile, I, 1979), scriveva che il ruolo di custode del diritto, che l’art. 65 del r.d. 30 gennaio 1941 n. 12 affida alla Corte di Cassazione, costituisce proiezione dell’art. 3 Cost., essendo l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge offesa da sentenze che impongano ai casi uguali assetti diversi. Tutte le decisioni della Corte costituirebbero documenti in cui si esprime la nomofilachia. Viceversa, le massime estratte dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo, a meno che non riproducano il principio di diritto enunciato ex art. 384 c.p.c., “non esimono coloro che ne prendono visione dall’onere di risalire alla motivazione della sentenza, dalla quale sono state estratte”: ciò perché, se l’operazione di massimazione è cosa utilissima, essa impone però di individuare la ragione giustificatrice della pronuncia e di cogliere il nesso fra caso giudicato e norme applicate, sicché “i suoi prodotti non hanno se non valore mnemonico”. Per Andrioli, in ogni metodo di giurisprudenza tendenzialmente costante si annida il forte rischio correlato all’esigenza di individuazione della eadem ratio, in difetto della quale il dictum anteriore non può considerarsi precedente di fatto, altrimenti corrompendosi l’interpretazione conforme in applicazione livellatrice, affatto confortata quest’ultima dall’art. 3 Cost. Tuttavia, la mancata identificazione del precedente, o l’inottemperanza al medesimo, non potrebbero essere motivi di annullamento della sentenza di merito, giacché il precedente di fatto non si inserisce quale diaframma fra norma di diritto applicabile e caso concreto, né tanto meno la Cassazione è tenuta a rispettare i propri precedenti, ma deve assoggettarli a riesame. Perciò, la giurisprudenza uniforme ispirata non della continua verifica della eadem ratio, ma dall’acritico ossequio al precedente di fatto, visto come ammantato da una presunzione assoluta di legittimità, sarebbe soltanto espressione della prudenza, intesa come utilizzazione della esperienza altrui. D’altro canto, la contestabilità del precedente sarebbe garantita anche dal citato art. 65, non essendo diverse, ai fini dell’esatta osservanza della legge, “le posizioni dei giudici sottordinati e della Cassazione”.
Quanto rimangono attuali queste riflessioni di Andrioli? Quanto, invece, esse ci inducono ormai soltanto a constatare che non siamo stati in questi decenni capaci di capirne gli ammonimenti tristemente presaghi?
Una manovra tattica a tenaglia, strategicamente organizzata dal legislatore e dalla giurisprudenza, sembra aver accerchiato pressoché tutti i postulati su cui fondava quella illuminata teorica circa i ruoli della nomofilachia e del precedente giurisprudenziale, attaccandoli frontalmente e sulle ali, così da precluderne ormai tutte le più virtuose direzioni operative.
2. L’entrata nel circuito del precedente
La storia del ruolo del precedente giurisprudenziale nel nostro ordinamento processuale civile ha origini antiche e sembra anche superfluo ripercorrerla oggi che pare giunta ad un epilogo ormai irretrattabile, per quanto non necessariamente felice.
Costituiva un vanto per i giudici italiani fino forse a mezzo secolo fa distinguere fra l’obbligo di decidere casi uguali in modo uguale, che discende già dal principio di eguaglianza, e l’obbligo di osservare, invece, i precedenti propri o di altre corti, stante che per l’art. 101 Cost. il giudice è soggetto soltanto alle legge. Oggi verrebbe quasi quasi da aggiungere che il giudice deve certamente altresì attuare il giusto processo ed assicurarne la ragionevole durata (art. 111 Cost.), ma pur sempre per come tali valori sono regolati alla legge, e non in base ad un’attività spirituale ricognitiva o creativa, che diviene espressione di un “diritto libero”, talvolta anche in antitesi con quanto la legislazione positiva abbia prescritto.
Se nel sistema statunitense e in quello inglese il “precedent” è, invece, “binding” è perché in essi la “case law” è fonte del diritto obbligatoria per tradizione o per legge. Questa constatazione distintiva nei decenni trascorsi rendeva orgogliosi gli studiosi e gli operatori italiani, perché, ad esempio, per i giudici inglesi la regola dello stare decisis veniva giustificata come metodo utile ad educarli alla cautela ed alla conservazione. Viceversa, negli Stati Uniti, dove è più contestata dai giudici l’adesione al sistema del precedente vincolante, è oggetto di costante critica proprio lo judicial activism, prospettato come fenomeno eversivo ed antidemocratico (Alpa).
D’altro canto, proprio nei sistemi di common law, teorizzando la distinzione tra obiter dictum e ratio decidendi, si ammoniscono i giudici a non esprimere loro opinioni e a non curarsi di decidere casi futuri, dovendo preoccuparsi di risolvere soltanto il singolo caso in esame.
E’ però anche vero che il giudice inglese del “caso seguente” possiede nel proprio armamentario strumenti che gli consentono di smentire l’efficacia persuasiva del precedente, anche «verticale», adoperando il distinguishing o l’overruling. Identiche vie di fuga ha il giudice americano, del quale si sostiene che, in pratica, egli “segue il precedente solo quando non ritiene opportuno discostarsene” (Taruffo).
I giudici italiani sono così entrati nel circuito del “precedente” un pò da sprovveduti. Siamo stati anche attratti dalla rosea prospettiva di rendere “giuridicamente calcolabili” le nostre decisioni, confidando nel miraggio della diminuzione del carico del contenzioso negli uffici giudiziari: un sogno utopistico, a guardare ancora oggi il dato dei procedimenti civili pendenti davanti alla Corte di cassazione.
Non siamo ancora tutti d’accordo, del resto, su cosa costituisce un “precedente” nel nostro sistema. Anche una sentenza di merito o soltanto le decisioni della Cassazione? E poi, tutte le decisioni della Cassazione, anche quelle in cui è stato accolto o rigettato un ricorso manifestamente fondato o infondato, rese a norma degli artt. 375, comma 1, n. 5, e 380-bis c.p.c.? O quelle rese comunque con ordinanza perché non è stata ravvisata alcuna particolare rilevanza della questione di diritto su cui pronunciare, ai sensi dell’art. 375, comma 2, e 380-bis.1, c.p.c.? O soltanto quelle in cui sia enunciato il principio di diritto a norma dell’art. 384 c.p.c., o addirittura solo quelle delle sezioni unite che abbiano enunciato il principio di diritto componendo un contrasto o risolvendo una questione di particolare importanza, che sono poi insormontabili dalla sezione semplice in base all’art. 374, comma 3, c.p.c.?
L’idea diffusa nella pratica giudiziaria è che la Corte di cassazione sia, nel nostro sistema processuale, essa stessa consapevole produttrice e abituale fruitrice dei precedenti giurisprudenziali. Solo che non sta alla Corte di cassazione stabilire ex ante se la pronuncia che si appresta a rendere è, o meno, destinata a precostituire un precedente per le generazioni future, come invece suppone semplicisticamente la logica aziendalistica sottesa alla riforma introdotta con il d.l. n. 168 del 2016, convertito in l. n. 197/2016. E’ il giudice del caso seguente che decide se sussiste tra questo ed il caso pregresso quella identità di ratio che impone, o per lo meno consiglia, di fare buon uso del precedente.
Tale identità di ratio tra i due casi, che giustifica l’applicazione del precedente secondo la valutazione discrezionale affidata al giudice del caso successivo, comunque non è, né può mai essere, pure identità dei fatti, perché se due vicende sono davvero indiscernibili, esse sono allora nient’altro che la stessa vicenda: eadem sunt, quorum unum potest substitui alteri salva veritate (Taruffo, ma prima ancora Leibniz). In tale prospettiva, non avrebbe nemmeno senso parlare di un “precedente di legittimità”, visto che la forza del precedente si radica unicamente sulla materially identical facts.
D’altro canto, se i giuristi di common law ricavano la norma dal raffronto tra il caso in esame e le soluzioni date in passato a casi simili, sicché sono proprio le sentenze che creano il diritto, nel nostro ordinamento i giuristi traggono la norma in via di deduzione da regole scritte generali contenute nelle leggi, e perciò i precedenti giudiziari non potrebbero vincolare, ma solo persuadere in ragione dell’autorità da cui provengono.
Nel nostro sistema, il precedente giudiziale assume le sembianze di un modello ibrido interspecifico: dalla fattispecie astratta della legge di diritto positivo il giudice trae la regola che decide sulla fattispecie concreta e ad un tempo arricchisce di contenuti quella fattispecie astratta per le future applicazioni di essa ad altre singole fattispecie concrete.
L’astratta enunciazione o interpretazione di una regola di diritto contenuta in una pronuncia della Corte di cassazione non può, quindi, precostituire un precedente in senso proprio, questo essendo, piuttosto, l’applicazione data alla legge in relazione al fatto concreto oggetto di lite.
Tanto meno rappresenta un precedente la massima che sia estratta da una sentenza della Cassazione, allorché non vi sia attenzione al fatto deciso (il che nella massima, secondo le tecniche redazionali in uso al Massimario, non si fa, tranne che, ma con la sintesi di un paio di righi, allorché si adottino i modelli stilistici della “massima di specie” o della “massima con fattispecie”). L’ordinamento brasiliano, che, ad esempio, attribuisce efficacia erga omnes alla súmula vinculante formulata dal Supremo Tribunal Federal, radica tale potere su un espresso riconoscimento costituzionale.
Le maglie ristrette del sindacato di legittimità sul fatto, soprattutto a seguito della riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. ha poi reso più frequente l’invocazione da parte dei ricorrenti del vizio di cui al numero 3 dell’art. 360 c.p.c., il che però implica anche la necessità per la Corte di enunciare il principio di diritto ai sensi dell’art. 384, comma 1, c.p.c., che sarà anche più probabilmente massimato, col rischio di generalizzare la singola soluzione quale prototipo decisorio valido per i casi futuri, seppur adottata senza prestare alcuna attenzione al fatto ed alla motivazione della sentenza di merito. Il caso concreto appare, così, mera occasione per la creazione del principio di diritto, il quale si erge al di sopra dei fatti.
Un’altra complicazione sta nella distinzione che abitualmente si fa fra ratio decidendi, ovvero il nucleo della pronuncia che applica la norma ai fatti del caso concreto, cui soltanto sarebbero riferibili gli effetti del precedente, ed obiter dictum, che è invece ogni altra enunciazione o argomentazione che il giudice abbia espresso in sentenza trascendendo dal caso deciso. Gli obiter non dovrebbero mai costituire un precedente per le decisioni successive, né essere censiti in massime mentitorie. Tale distinzione è tuttavia assai complessa nella pratica, né vale ad escludere del tutto l’efficacia persuasiva che pure un obiter dictum possa rivelare per il giudice chiamato a decidere il caso successivo: si transita così, vien detto, in un sistema di stare consultis, neppure più di stare decisis (Sassani).
Ove si ravvisi il vincolo, o quanto meno l’efficacia persuasiva, del precedente di Cassazione consistente soltanto nella astratta elaborazione di una regola di diritto formulata in termini generali, la sentenza della Corte sovraordinata è intesa, in realtà, come norma universale suscettibile di applicazione deduttiva: possiamo averne vantaggi in termini di calcoli matematici, ma dobbiamo ammettere gli svantaggi che sono inevitabilmente correlati ad ogni deriva autoritaria e burocratica nell’esercizio della giurisdizione, il tutto, direi, senza incidere nemmeno in maniera positiva sull’attuazione del principio di eguaglianza sostanziale.
3. La motivazione con riferimento a precedenti conformi
L’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., come modificato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, dispone che “la motivazione della sentenza di cui all’articolo 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”. Quest’articolo, che dalla periferia del codice si è spostato al centro del sistema (Irti), eleva il riferimento ai precedenti conformi a criterio di legalità e logicità della sentenza. Ci aveva già provato l’art. 16, comma 5, del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, sui procedimenti in materia societaria, a prevedere una motivazione della sentenza in forma abbreviata, mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi. Si tratta di un percorso legislativo che Cass. sez. un. 16 gennaio 2015, n. 642, ha ritenuto “ormai reso inevitabile anche dalla necessità di dare concreta attuazione al principio costituzionale di ragionevole durata del processo” (e qui taluno obietta: ragionevole durata, «que de crimes on commet en ton nom!»).
Ora, la nozione di «precedente conforme» non sottende né la vis imperativa del giudicato né l’«autorità» della sentenza invocata in un diverso processo, di cui discorre l’art. 337, comma 2, c.p.c.: essa viene adottata dal legislatore “in funzione di una progressiva semplificazione dell’attività motivazionale del giudice decidente”, il quale è autorizzato a fare uso di «schemi decisionali» tratti da precedenti pronunzie dotate di «un’efficacia persuasiva» (Comoglio).
Dunque, con l’art. 118 disp. att. c.p.c. il “riferimento a precedenti conformi” diviene una agevole scorciatoia nell’adempimento dell’obbligo di motivazione. In combinato con la riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il rinvio a precedenti potrebbe bastare a passare indenni il sindacato sul “minimo costituzionale” esigibile di motivazione.
Ma è sufficiente davvero, per motivare abbastanza, affermare in sentenza: “l’ha detto lui” (o, semmai, “Lui”, se l’autore del precedente merita la maiuscola reverenziale)?
E poi, per motivare “in riferimento a precedenti conformi”, basta all’estensore indicare gli estremi delle pronunce richiamate per rendere apparentemente “giusta”, o razionalmente giustificata, la propria sentenza? O gli occorre comunque anche esporre i motivi per i quali abbia condiviso le ragioni sostenute nei precedenti menzionati?
E se si tratta di questione di diritto già decisa in modo difforme, la motivazione può riferirsi ai soli precedenti che siano conformi alla decisione che il giudice vuol rendere o questi deve prendere posizione anche sui precedenti in senso contrario?
La giurisprudenza prova a dare risposta a questi interrogativi: la motivazione per relationem ex art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., può fondarsi su precedenti non solo di legittimità, ma anche di merito, del medesimo o di altro ufficio, «ricercandosi palesemente per tale via il beneficio della utilizzazione di riflessioni e di schemi decisionali già compiuti per casi identici o caratterizzati dalla risoluzione di identiche questioni» (Cass. 6 settembre 2016, n. 17640); è ben possibile anche il rinvio ad un precedente del medesimo ufficio, sempre che si dia conto dell’identità contenutistica della situazione di fatto e di diritto tra il caso deciso dal precedente e quello oggetto di decisione (Cass. 22 maggio 2012, n. 8053; si veda però anche Cass. Sez. Un. 16 gennaio 2015, n. 642); può andar bene pure così: il giudice dell’impugnazione, dopo aver ricordato un precedente del proprio ufficio reso su una questione analoga ed aver esaminato le singole censure, conclude nel senso che le argomentazioni della sentenza richiamata “rispondono a tutti i motivi d’impugnazione” (Cass. 11 febbraio 2011, n. 3367).
Occorre altresì procedere in modo disincantato ad una consapevole analisi costi/benefici: se posso succintamente motivare uniformandomi ai precedenti che seguo, quanto mi tocca scrivere, invece, se da essi volessi discostarmi?
Ancora di recente, come in un passato ormai remoto, la Corte di Cassazione ha sostenuto che, una volta che abbia esposto i motivi della sua decisione, il giudice non deve dimostrare esplicitamente l’infondatezza o la non pertinenza dei precedenti giurisprudenziali eventualmente difformi, poiché la motivazione in tanto può essere viziata in quanto sia di per sé erronea, in fatto o in diritto, in relazione alla fattispecie concreta, non già in quanto eventualmente in contrasto con le ragioni addotte in decisioni riguardanti altre fattispecie analoghe, simili o addirittura identiche (Cass. 26 giugno 2017, n. 15846; Cass. 23 giugno 2008, n. 17026; Cass. 17 marzo 1980 n. 1772).
Si è peraltro affermato dalla medesima Corte che, a fronte di fattispecie del tutto simili, l’uniformazione delle motivazioni delle sentenze rese da giudici diversi in udienze pure diverse è cosa “del tutto comprensibile, se non addirittura opportuna” (Cass. 12 maggio 2020, n. 8782).
Nei repertori impolverati può trovarsi anche qualche monito più esplicito: nell’esercizio del suo potere-dovere d’interpretazione della norma applicabile alla fattispecie sottoposta al suo esame, il giudice è libero di non adeguarsi all’opinione espressa da altri giudici e può anche non seguire l’interpretazione proposta dalla Corte di Cassazione, così come può dissentire dalle motivazioni delle pronunzie di rigetto della Corte costituzionale, ma tale libertà non esclude l’obbligo di addurre ragioni congrue, convincenti a contestare e far venir meno l’attendibilità dell’indirizzo interpretativo rifiutato (Cass. 3 dicembre 1983, n. 7248).
In pratica, la condizione del giudice di merito rispetto al precedente di legittimità non è poi assai dissimile da quella in cui si trova il giudice di rinvio a seguito di cassazione della sentenza: questi deve “uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte” (art. 384, comma 2, c.p.c.) in forza dell’efficacia positiva della sentenza di cassazione, rimanendogli altresì preclusa dall’efficacia negativa della stessa la possibilità di rimettere in discussione pure i fatti che costituiscano il presupposto della pronuncia di annullamento; ogni altro giudice rimane libero nel ricostruire la fattispecie concreta sottoposta al suo esame e nell’individuare la norma ad essa applicabile, ma, se voglia dissentire dall’indirizzo interpretativo seguito dalla Suprema Corte riguardo a tale norma, dovrà addurre ragioni congrue e convincenti per minare l’orientamento giurisprudenziale ripudiato.
Vennero però anche Cass. 28 luglio 1997, n. 7050 e poi Cass. 19 dicembre 2001 n. 16007, a chiarire che non è viziata per violazione di legge la sentenza in cui il giudice di merito non spiega perché non abbia seguito i precedenti giurisprudenziali di legittimità.
Nei primi anni del terzo millennio, tuttavia, l’ostentazione dell’idea del giudice che sia libero nello svincolarsi dai precedenti iniziò ad essere reputata quasi uno sprezzante rifiuto del valore dello stare decisis come forte riduttore di litigiosità. Il valore del precedente starebbe proprio in ciò: “esso dispensa il giudice che vi si adegui dall’obbligo di motivare; impone al giudice che voglia discostarsene l’obbligo di motivare convincentemente il rifiuto”. E’ la giustizia che “piuttosto che ridurre la litigiosità, opera per incrementarla. Si dedica, per così dire, all’autoproduzione di litigiosità (…). Da noi, la volubilità della giurisprudenza agisce come incentivo alla temerarietà” (Galgano). Si torna indietro fino a Muratori e Verri per arrivare alle ansie dei moderni economisti circa il funzionamento dei mercati, criticando l’incertezza cagionata dall’imprevedibilità delle sentenze e l’anelito dei giudici ad interpretare la legge nel modo migliore possibile, anche a costo di contraddire le altrui e le proprie precedenti interpretazioni. Superata l’era della legislatio ed entrati nell’era della iurisdictio, all’alba del nuovo millennio pareva imporsi come adeguata una sola soluzione: codificare la nomofilachia.
D’altro canto, per Cass. sez. un. 3 maggio 2019, n. 11747, integra violazione di legge rilevante ai fini della responsabilità civile nell’esercizio delle funzioni giudiziarie la decisione del giudice che, senza motivare, rende una decisione difforme dai precedenti giurisprudenziali, atteso che “la superabilità del precedente non può prescindere dall’obbligo di conoscerne l’esistenza”.
A coloro che parlano di dottrina delle corti e di un diritto vivente giurisprudenziale, mutevole sotto le spinte delle cultura, dell’economia e della politica, rimane a contrapporsi soltanto chi in ciò intravede il rischio di una ibridazione tra formanti, che lascerebbe addirittura trasparire una misurata, quanto consapevole, arroganza (Gazzoni).
4. La codificazione della nomofilachia
Il legislatore italiano degli ultimi quindici anni sembra aver recepito la propaganda ideologica secondo cui l’unico rimedio idoneo a disinnescare la litigiosità ed a ripristinare la calcolabilità economica delle sentenze sarebbe stato quello di codificare la nomofilachia. I risultati di questa scelta si sono, tuttavia, rivelati affatto confortanti, anzi; i procedimenti civili iscritti e quelli definiti ogni anno in Corte di Cassazione superano ormai stabilmente la soglia dei trentamila, come la pendenza complessiva supera i centomila. Un dio che è fallito, verrebbe da dire.
Con il d.lgs. n. 40 del 2006 si introdusse il terzo comma dell’art. 374 c.p.c., il quale onera la sezione semplice della Corte di Cassazione di rimettere alle sezioni unite la decisione di un ricorso ove ritenga di non condividere un principio di diritto da queste affermato. Le sezioni semplici vengono cosi private della opzione per l’overruling ed il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite rimane per le prime immutabile come l’orbita dei pianeti. Lo scopo della conclamata «supremazia nomofilattica» delle sezioni unite è evidente: ridurre i contrasti di pronunce fra sezioni semplici e lasciare alle sezioni unite la sperimentazione dimostrativa che un’idea vada cambiata. Si può obiettare che così, se i giudici sono costituzionalmente soggetti soltanto alla legge, le sezioni semplici sono soggette altresì, e più di ogni altro giudice, al principio di diritto delle sezioni unite, ma tant’è.
Peraltro, neppure finisce qui. Preservata alle sole sezioni unite la forza del mutevole divenire, per due concorrenti fattori il precedente espresso dal primate nomofilattico può addirittura acquisire l’immutabilità del Logos.
Si è affermato che, a fronte di un ancora recente intervento delle sezioni unite volto a dipanare un contrasto di orientamenti, pur quando meditati rilievi suggeriscano l’opportunità di ripensare la questione, le sezioni unite, ove nuovamente investite, devono avvertire l’esigenza di assicurare un sufficiente grado di stabilità all’indirizzo interpretativo già indicato. Lo stare decisis, pur non essendo legge nel nostro ordinamento, è un “valore”, o, quanto meno, “una direttiva di tendenza”, “in base alla quale non ci si può discostare da una interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione nomofilattica, senza delle forti ed apprezzabili ragioni giustificative. Insomma, se la lettera della legge consente due diverse interpretazioni, è da preferire sempre quella “sulla cui base si è formata una certa stabilità di applicazione”, soprattutto in tema di interpretazione di norme processuali, “non potendo l’utente del servizio giustizia essere esposto al rischio di frequenti modifiche degli indirizzi giurisprudenziali” (Cass. sez. un. 31 luglio 2012, n. 13620).
Detto ancor più esplicitamente: perché si possa invocare un mutamento della giurisprudenza delle sezioni unite, soprattutto, in materia processuale, non basta contestare la plausibilità dell’interpretazione già fornita dal precedente, ma occorre che la stessa risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa, o che comunque dia luogo a risultati disfunzionali, irrazionali o “ingiusti” (Cass. sez. un. 6 novembre 2014, n. 23675).
In certo senso, se le sezioni semplici soffrono, in virtù del terzo comma dell’art. 374 c.p.c., la «supremazia nomofilattica» delle sezioni unite, le sezioni unite, una volta che si siano pronunciate su un dilemma interpretativo, restano, almeno per qualche anno, schiave di se stesse in nome della stabilità e della certezza.
La salvaguardia della stabilità dell’interpretazione giurisprudenziale delle sezioni unite della Corte di Cassazione appare un valore fondante: essa potrebbe garantire più certezza della stessa norma giuridica positiva, la quale di per sé è variabile, giacché esposta alla contingenza della volontà di sistema. Anzi, la fedeltà assoluta dei giudici ai propri precedenti sembra in grado di sconfessare pure lo scettiscismo di matrice kelseniana sul «mito» della certezza del diritto, rendendo unica, e perciò finalmente prevedibile, la decisione esatta.
Il mutamento di indirizzo giurisprudenziale ha conosciuto, poi, nell’ultimo decennio, un altro limite, stavolta sotto il profilo effettuale.
Una vita fa leggevamo che, poiché “la funzione assolta dalla giurisprudenza, nel contesto di sillogismi decisori, non può essere altra che quella ricognitiva dell’esistenza e dell’effettiva portata, e non dunque anche una funzione creativa, della regola stessa”, “discende come logico ed obbligato corollario da questa incontestabile premessa che, in presenza di una ricognizione, pur reiterata nel tempo, che si dimostri poi però erronea nel presupporre l’esistenza di una regola in realtà insussistente, la ricognizione correttiva debba avere una portata naturaliter retroattiva, conseguendone altrimenti la consolidazione medio tempore di una regola che troverebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenze che, erroneamente presupponendola, l’avrebbero con ciò stesso creata” (Cass. sez. un. 4 novembre n. 2004, n. 21095). Questo valeva a dire che al mutamento di indirizzo giurisprudenziale rispetto ai precedenti sarebbe inevitabilmente seguito il venir meno retroattivo di ogni efficacia vincolante, anche con riguardo ai rapporti instaurati prima del rèvirement.
A far tempo da Cass. sez. un. 11 luglio 2011, n. 15144, sono cambiate molte cose. Quando la Corte intende procedere ad un mutamento di un proprio consolidato orientamento su di una regola del processo, e tale mutamento sia connotato, oltre che dalla imprevedibilità, dall’idoneità a provocare un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte, quest’ultima, avendo fatto ragionevole affidamento sulla stabilità del precedente, non deve risentire delle conseguenze dell’overruling. La forza dei precedenti qui è tale da finire per trasformare la funzione stessa della sentenza innovativa: essa, da semplice strumento dichiarativo di ricerca della norma preesistente da applicare al caso concreto in esame, si evolve, piuttosto, in annuncio solenne di giurisprudenza futura. La Cassazione si avvede che la regola processuale finora dettata era sbagliata, ma stabilisce di continuare ad utilizzarla per tutti i rapporti in corso al fine di non sancire preclusioni o decadenze in danno della parte che di quella regola si era fidata.
Il problema della protezione del legittimo affidamento è, come sappiamo, tipico dei sistemi in cui vige il principio dello stare decisis, lì dove, cioè, i precedenti giudiziari sono concepiti come diritto. In particolare, oltre l’affidamento della generalità dei consociati, viene in speciale rilievo l’affidamento della parte cha abbia pianificato la sua strategia difensiva dinanzi a quel giudice. E’, inoltre, problema correlato alle esigenze di certezza avvertite in quegli ordinamenti che non hanno leggi scritte e perciò auspicano la stabilità e l’uniformità della law in action.
Acquisita la consapevolezza della concreta “dimensione integrativo-creatrice della giurisprudenza”, la medesima giurisprudenza avverte il timore “di divenire (e di essere avvertita dai cittadini come) un fattore d’irrazionalità e di disordine nel tessuto sociale”. Se, perciò, il precedente giurisprudenziale non costituisce tuttora una vera e propria regula iuris, che si impone con forza di legge in un successivo giudizio vertente su questioni analoghe, “specialmente per il giudice di legittimità, l’esigenza di tener conto dei propri stessi precedenti si radica nella sua istituzionale funzione e nella conseguente necessità di garantire (almeno tendenzialmente) i valori di coerenza ed uguaglianza dell’ordinamento” (Rordorf).
Beninteso: la tutela da prospective overruling, vien detto, sarebbe problema che si pone soltanto per l’affidamento qualificato ingenerato da un costante indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione, e non invece se formatosi nella giurisprudenza di merito (Cass. sez. 12 febbraio 2019, n. 4135). Inoltre, deve pur sempre trattarsi di mutamenti della giurisprudenza su una regola del processo, e non riguardanti norme di carattere sostanziale (Cass. 10 maggio 2018, n. 11300; Cass. 3 settembre 2013, 20172), come se la scelta repentina di una contrapposta interpretazione in tema, ad esempio, di validità di un contratto o di prescrizione di un diritto non possa a sua volta provocare l’operatività di preclusioni o decadenze e frustrare affidamenti incolpevoli.
Non so se queste risposte siano verità forti o unicamente verità utili. L’esigenza di tutela dell’affidamento creato dai consolidati precedenti giurisprudenziali si pone identicamente, se non in maggior misura, in materia sostanziale. Non distolgono da questa constatazione l’argomento secondo cui per la salvaguardia sull’affidamento in materia sostanziale non si presterebbe utilmente lo strumento della rimessione in termini, né la spiegazione che ricomprende tra i “costi di transizione” la vanificazione dell’aspettativa dei consociati circa la stabilità di una determinata interpretazione giurisprudenziale.
La cortina dei precedenti di legittimità, con la legge n. 69 del 2009, è poi divenuta strumento per il filtro di ammissibilità dei ricorsi per cassazione. In forza dell’art. 360-bis, n. 1, c.p.c., il ricorso (o un suo singolo motivo) è inammissibile quando il provvedimento impugnato abbia deciso le questioni di diritto «in modo conforme alla giurisprudenza della Corte» e l’esame delle censure non offre elementi di tale qualità da minare l’interpretazione consolidatasi ed indurre il collegio a ripensare il proprio orientamento, per mutarlo o anche soltanto per confermarlo. Si tratta di una inammissibilità del ricorso per ragioni di merito, in rapporto alla quale si eleva a parametro la conformità della sentenza impugnata rispetto alla giurisprudenza consolidata in base a valutazione da operarsi comunque al momento della decisione della Corte di Cassazione, pure quando l’orientamento sia mutato a seguito della proposizione dell’impugnazione (Cass. sez. un. 21 marzo 2017, n. 7155). Del resto, al centro del sistema posto dall’art. 360- bis, n. 1, c.p.c. non è tanto un requisito genetico di contenuto dell’impugnazione, quanto la supposta superfluità di chiamare la Corte a riesaminare una quaestio iuris che essa ha ormai risolto (essendo altrimenti da dichiarare inammissibile il ricorso che perorasse immotivatamente il mutamento di giurisprudenza poi medio tempore avversatosi, ed al contrario da dichiarare ammissibile il ricorso conforme all’orientamento affermato all’epoca della sua notificazione, ma difforme dalla nuova interpretazione).
L’art. 360-bis, n. 1, c.p.c. lascia però irrisolti interrogativi non meno gravi, né nuovi, per quanto già detto nelle pagine precedenti. Quante sentenze ci vogliono per fare la «giurisprudenza della Corte»? Un precedente fa «giurisprudenza» ? (si, risponde, Cass. 22 febbraio 2018, n. 4366, “quand’anche unico e perfino remoto, ma univoco e chiaro”).
E’ come quel che avviene nel sofisma del sorite, scriveva Taruffo: quanti granelli ci vogliono per fare un mucchio di sabbia, ovvero, quale granello, singolarmente aggiunto, fa divenire mucchio ciò che prima tale non era? La relatività del parametro della «giurisprudenza della Corte», invece individuato dall’art. 360-bis, n. 1, c.p.c. come misura di tutte le cose, è evidentemente acuita dalla difficoltà di ricercare nei precedenti un valore assoluto ed oggettivo all’interno di un sistema che lascia alla Corte Suprema la produzione di oltre trentamila decisioni all’anno.
Una identica immagine della Cassazione, vista come “macchina banale”, emerge dal secondo comma dell’art. 375 c.p.c. inserito dal d.l. n. 168 del 2016, convertito in l. n. 197 del 2016, in base al quale la Corte, a sezione semplice (ma, nella pratica seguita, anche a sezioni unite) pronuncia in camera di consiglio, senza l’intervento del pubblico ministero delle parti (art. 380-bis.1, c.p.c.), in ogni caso, salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa “opportuna” dalla particolare rilevanza della questione di diritto da risolvere (oppure quando, omisso medio, la sesta sezione, in esito alla camera di consiglio, abbia ritenuto che il ricorso non sia né inammissibile, né manifestamente fondato o infondato). E’ una distinzione di riti che postula una capacità vaticinale del presidente di sezione all’atto della fissazione dell’udienza o dell’adunanza (o del collegio, ove se ne ammetta la facoltà di repêchage in analogia all’art. 380-bis, comma 3, c.p.c.: ad esempio, Cass. sez. un. 5 giugno 2018, n. 14437), supponendo che sia prevedibile ex ante l’idoneità a “fare precedente” di una pronuncia da rendere, ma negli effetti pratici riducendo la funzione nomofilattica, che è garanzia di legalità, al riscontro empirico dell’uniformità della giurisprudenza, sicché l’una non (più) occorre quando, in qualsiasi modo ed a qualsiasi prezzo, si sia comunque conseguita l’altra.
La vulgata vuole che la Suprema Corte possa agevolmente discernere tra esercizio dello jus constitutionis e dello jus litigatoris, riservando al primo lo scenario della pubblica udienza ed al secondo i toni ben più dimessi della trattazione in camera di consiglio: eppure siffatta distinzione sui predicamenti dell’essere tra jus constitutionis e jus litigatoris non significa certo che quando la Corte adempie al primo non risolve comunque una lite tra le parti, né che quando provvede al secondo possa disinteressarsi della propria funzione nomofilattica.
Da ultimo, non può trascurarsi l’influenza che un’interpretazione stabilizzata e consolidata fornita dal giudice della nomofilachia spiega altresì sul sindacato di costituzionalità delle leggi, atteso che, in presenza di un “diritto vivente” di matrice giurisprudenziale, com’è noto, la Corte costituzionale si reputa priva della possibilità di proporre differenti soluzioni interpretative (Corte cost., sentenze n. 208 del 2014; n. 338 del 2011; n. 299 del 2005; n. 266 del 2006), dovendo piuttosto stabilire se lo stesso sia o meno conforme ai principi costituzionali. La norma sarà dunque illegittima “così come interpretata dalla Cassazione”. Per converso, in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice che non voglia discostarsi da esso, prescegliendo una diversa esegesi del dato normativo per adeguarne il significato a precetti costituzionali, ha la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini di “diritto vivente” e di richiederne, su tale presupposto, il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (Corte cost., sentenze n. 39 del 2018, n. 259 e n. 122 del 2017, n. 200 del 2016 e n. 11 del 2015).
5. Conclusioni
E’ difficile trarre una conclusione di sintesi dalle pagine precedenti circa il ruolo attuale della nomofilachia e l’efficacia del precedente. Della prima è emersa l’idea che essa sia erogata da un dispositivo ad intermittenza, che la Corte di Cassazione dovrebbe interrompere e ripristinare a seconda dei casi da giudicare e delle questioni da risolvere. La forza del precedente sembrerebbe poi giustificata da esigenze preminenti anche rispetto a quella della astratta legalità della decisione, quali la stabilità e la certezza degli orientamenti giurisprudenziali, la calcolabilità degli esiti del processo e la ragionevole durata dello stesso.
Com’è noto, nel 67 a.C., su iniziativa del tribuno della plebe Gaio Publio Cornelio, fu approvato un plebiscitum – la lex Cornelia -, con il quale venne disposto “ut praetores ex suis edictis perpetuis ius dicerent”, intendendosi obbligare i pretori ad attenersi, nell’esercizio della iurisdictio, all’editto pubblicato all’inizio del loro anno di funzioni. Lo storico Asconio spiegò che si cercava così di redarguire i pretori, i quali, soprattutto negli ultimi tempi della Repubblica, “varie ius dicere assueverant”. La Legge Cornelia mirava, dunque, a conferire la veste di edictum perpetuum all’editto proposto da ciascun pretore all’assunzione della carica, negando ai magistrati la possibilità di intervenire su materie della loro giurisdizione in forma di edicitum repentinum. Si voleva che l’attività edittale non dovesse più conformarsi ai mutevoli orientamenti del singolo pretore, e in tal modo ripristinare la stabilità degli editti, non potendocisi più rimettere alla sola fides del magistrato.
Kruger, in Geschichte der Quellen und Litteratur des Römischen Rechts, 1888, raccontò, comunque, che la Legge Cornelia non venne mai effettivamente applicata.
* L’articolo rielabora il testo di una relazione svolta all’incontro di studi su “Il giudizio civile di cassazione e la necessità di conciliare quantità e qualità”, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura nei giorni 11 e 12 febbraio 2021.
Interdittiva antimafia e controllo giudiziario (nota a Consiglio di Stato, sez. III, 11 gennaio 2021, n. 319)
di Renato Rolli e Martina Maggiolini
Sommario: 1. Premessa: la vicenda contenziosa- 2. Sul rapporto tra interdittiva e controllo giudiziario- 3. Considerazioni conclusive
1. Premessa: la vicenda contenziosa
La natura composita, e per certi versi ambigua, delle informative antimafia impone una costante attenzione della dottrina e della giurisprudenza, in quanto ogni intervento in materia, aggiunge una tessera al complesso mosaico che compone l’interdittiva medesima [1].
Da ultimo la pronuncia del Consiglio di Stato n. 319 del 2021, che qui si annota, chiarisce un particolare aspetto del procedimento prefettizio levigando questioni fondamentali alla determinazione dei confini e dei limiti del provvedimento interdittivo [2].
I Giudici di Palazzo Spada hanno reso la sentenza in oggetto, sulla riforma della pronuncia del Tar Campania che aveva rigettato tre distinti ricorsi e i relativi motivi aggiunti, proposti contro le informative prefettizie relative alla sussistenza delle “situazioni di cui all'art. 84, comma 4 e all'art. 91, comma 6 del D.Lgs. 6/9/2011 n° 159 e s.m.i.”, nonché contro i provvedimenti che, di conseguenza, hanno determinato la revoca o la risoluzione dei rapporti negoziali a valle [3].
Anche in appello, avverso la suddetta pronuncia, venivano proposti tre distinti ricorsi dalle società destinatarie dei provvedimenti prefettizi. Con ordinanze collegiali i giudizi venivano sospesi fino al decorso del termine di efficacia del controllo giudiziario ex art. 34-bis, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011 disposto dall’ autorità giudiziaria competente [4].
Le società appellanti, all’esito del periodo di controllo giudiziario e dunque a seguito della cessazione della causa di sospensione, depositavano: istanze di fissazione di udienza, i provvedimenti con cui venivano successivamente iscritte nella c.d. white list, la sentenza di assoluzione del socio del 23 marzo 2020 ed i provvedimenti conclusivi della procedura di controllo giudiziario.
Preliminarmente i ricorsi in appello venivano riuniti, in quanto relativi alla medesima sentenza e poiché connessi, in quanto le tre società appellanti sono società di progetto per la realizzazione di specifiche opere che venivano attinte da informativa antimafia, a seguito dell’adozione di analogo provvedimento nei confronti della predetta s.p.a.
Le società appellanti sono tre società di progetto partecipate dalla “società madre” che, fino all’11 gennaio 2018, avevano come amministratore unico il socio che deteneva il 30% della capogruppo. Con i ricorsi di primo grado venivano dedotti sia motivi inerenti l’illegittimità, a monte dell’interdittiva adottata, sia con motivi autonomi, a loro volta concernenti l’alterità soggettiva di ciascuna società rispetto alla “società madre” e la pretesa autonomia oggettiva di ciascuna società di progetto.
Con la censura comune che qui più interessa, le appellanti contestano la sentenza gravata in relazione alla valutazione dell’automatica refluenza, sulle rispettive realtà aziendali, del pericolo di infiltrazione desunto dal collegamento societario con la società madre, sostenendo che la Prefettura di Caserta avrebbe dovuto dimostrare, mediante elementi concreti e non mere supposizioni, la perdurante influenza dell’ex amministratore sulle politiche ovvero sulle sorti delle aziende, e quindi la fittizietà ovvero il mero fine elusivo del suo allontanamento dall’azienda.
Invero, le ragioni delle appellanti (per cui in seguito all’arresto del socio non vi sarebbe stato alcun pericolo di infiltrazione mafiosa in ragione dell’abbandono da parte del predetto delle cariche sociali) non possono essere accolte per la rilevanza dei rapporti intrattenuti con lo stesso. È peraltro evidente che il detto arresto, e la sua sostituzione nelle cariche sociali, non ha operato una censura sul piano personale e familiare fra l’ex amministratore e le strutture aziendali interessate, ma risulta anzi una sorta di continuità che non legittima l’affermazione di una reale separazione delle fasi gestionali.
Nondimeno appare dirimente l’infondatezza della censura in esame, sul piano dei rapporti e dei collegamenti fra la capogruppo da un lato e le odierne appellanti dall’altro. L’alterità soggettiva, da queste affermata, è in realtà solo formale, perché nel caso delle società di progetto la connessione è molto più intensa, dal momento che la società viene costituita per il singolo affare quale mero strumento operativo della dante causa, totalmente dipendente al singolo affare della società “madre”.
Ragion per cui è necessario sottolineare che la società di progetto è subentrata automaticamente nel rapporto già facente capo all’aggiudicataria, sostituendola in tutti i rapporti con l’amministrazione utilizzatrice. Dunque il soggetto giuridico, pur se formalmente distinto, è sostanzialmente il medesimo ovvero il reale centro di imputazione degli interessi afferenti la vicenda negoziale.
In conclusione, le tre società appellanti hanno prodotto in giudizio i provvedimenti conclusivi del controllo giudiziario, nei quali viene accertata l’inesistenza, a quella data, di un rischio infiltrativo attuale. È chiaro però che dagli elementi rilevati in tale sede non è possibile inferire un giudizio prognostico diverso da quello contenuto nei provvedimenti interdittivi impugnati.
Del resto, posto che dal provvedimento favorevole, emanato all’esito del periodo di controllo giudiziario, che afferma l’inesistenza, a quella data, di elementi che possano far desumere l’esistenza di un rischio infiltrativo attuale, non può desumersi l’illegittimità dell’informativa antimafia resa in precedenza, il Consiglio di Stato riunendo i ricorsi li rigetta.
2. Sul rapporto tra interdittiva e controllo giudiziario
Come chiarito dal Collegio, dedurre dai provvedimenti favorevoli dell’autorità giudiziaria, emanati alla conclusione del periodo di controllo ex art. 34-bis, l’illegittimità dell’informativa resa in precedenza comporterebbe una violazione del perimetro normativo di riferimento [5].
La valutazione del giudice della prevenzione penale circa l’assenza di elementi che possano rilevare un contatto attuale dell’impresa a condizionamenti illeciti attiene ad un profilo diverso ed ulteriore rispetto alla ricognizione fondata sul principio del “più probabile che non” [6] su cui trova fondamento il provvedimento prefettizio.
Orbene sindacare la legittimità dell’interdittiva sulla base delle risultanze del successivo controllo giudiziario, finalizzato proprio ad un’amministrazione dell’impresa immune da probabili infiltrazioni criminali, appare scelta assai viziata e priva di una logica giuridica. In primo luogo gli elementi fattuali considerati nelle due diverse sedi sono differenti o comunque postposti; in secondo luogo è diversa la prospettiva d’indagine, id est l’individuazione dei parametri di accertamento e di valutazione dei legami con la criminalità organizzata [7].
Il giudice della prevenzione penale nella sua valutazione, infatti, si riferisce ad un controllo successivo all’adozione dell’interdittiva e dunque relativo a vicende sopravvenute rispetto alla determinazione prefettizia. Ed è la medesima ragione per cui non rilevano, in senso opposto, i provvedimenti prefettizi con cui è stata disposta l’iscrizione delle società appellanti nella white list [8].
Difatti il Collegio nel caso de quo è lapidario nel sostenere che se il giudice penale, in sede di cognizione piena, non ha ritenuto gli elementi di prova raccolti “elementi certi” per affermare la responsabilità a titolo di contiguità compiacente rilevante in termini di concorso esterno[9], ciò non comporta sic et simpliciter la conseguente non rilevanza dell’attività ai fini del provvedimento prefettizio che si fonda non su una piena dimostrazione bensì sul più ampio principio del “più probabile che non” che risulta nel caso de quo pienamente soddisfatto dato il complesso quadro indiziario[10].
Dunque, se la valutazione del Tribunale della prevenzione non vincola il giudice amministrativo chiamato a valutare la legittimità dell'informazione prefettizia, in egual modo la pronuncia di quest'ultimo non vincola il giudice penale che è chiamato a vagliare la natura occasionale ovvero stabile del pericolo di condizionamento, come stabilito dall'art. 34 bis comma 1, del d.lgs 159/2011, senza poter tuttavia mettere in discussione i presupposti del provvedimento interdittivo [11].
Dunque, il rapporto di reciproca autonomia tra gli ambiti di valutazione del Tribunale della prevenzione e del giudice amministrativo dovrebbe indurre a ritenere che il primo possa ammettere la misura del controllo giudiziario richiesto dall'impresa interessata in tutti i casi in cui gli elementi vagliati raggiungano la predetta occasionalità nonché ove si attestino ad un livello inferiore rispetto al valore-soglia. Per tale ragione al Tribunale della prevenzione è preclusa, invece, la facoltà di estendere il proprio ambito valutativo alla delibazione degli stessi presupposti per l'adozione del provvedimento prefettizio che è invece riservata al Giudice Amministrativo [12].
3. Considerazioni conclusive
Risulta allora evidente, a chiusa delle considerazioni sin qui svolte, come la valutazione del giudice della prevenzione penale circa l’assenza di elementi che lascino supporre una disponibilità attuale dell’impresa a condizionamenti illeciti[13] attiene ad un profilo diverso ed ulteriore rispetto alla ricognizione probabilistica del rischio di infiltrazione[14], la quale costituisce, invero, il presupposto del provvedimento prefettizio, atto che vede la sua genesi in un momento diacronicamente e cronologicamente ad esso successivo[15].
Per cui la pretesa di operare un sindacato di legittimità del provvedimento, alla luce delle risultanze del successivo controllo giudiziario[16], il cui fine ultimo e precipuo risulta essere un’amministrazione dell’impresa immune da eventuali infiltrazioni criminali, appare intervento viziato dalla molteplicità ed eterogeneità degli elementi fattuali, intrinseci ed estrinseci, che vengono in considerazione nelle due diverse sedi [17]. Ciò è avvalorato avendo ancor più riguardo alla prospettiva d’indagine, nonché all’individuazione dei parametri di accertamento e di valutazione dei legami con la criminalità organizzata [18].
Orbene, emerge come la valutazione finale del giudice della prevenzione penale si riferisca alla funzione tipica di tale istituto [19]: un controllo successivo all’adozione dell’interdittiva, avente riguardo alle sopravvenienze rispetto a tale provvedimento, per cui l’illegittimità non può certamente trovare in esso il suo fondamento [20].
***
[1] si rinvia a M. Mazzamuto, Il salvataggio delle imprese tra controllo giudiziario volontario, interdittive prefettizie e giustizia amministrativa, Sistema penale, fascicolo III, 2020
[2] Si consenta il rinvio a R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’8 giugno 2020), in Questa rivista, 3 luglio 2020
[3] G. AMARELLI, L’onda lunga della sentenza De Tommaso: ore contate per l’interdittiva antimafia “generica” ex art. 84, co. 2., lett. d) ed e), d.lgs. n. 159/2011? in Riv. trim. penale contemp., 2017
[4] si rinvia a M. Mazzamuto, Pagamento di imprese colpite da interdittive antimafia e obbligatorietà delle misure anticorruzione, in Giurisprudenza Italiana, 2019
[5] S. MAZZARESE, A. AIELLO., Le misure di prevenzione antimafia. Interdisciplinarità e questioni di diritto penale, civile e amministrativo, Giuffrè Editore, Milano, 2010
[6] F. FRACCHIA - M. OCCHIENA, Il giudice amministrativo e l’inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell’interesse pubblico”, il diritto dell’economia, si ritiene che in tale ipotesi la “giurisprudenza dovrebbe incaricarsi di verificare dall’interno e compiutamente la coerenza delle inferenze seguite dall’Amministrazione dell’Interno (…)”. Cons. Giust. amm. reg. sic., 31 dicembre 2019, n. 1104: “la regola causale del più probabile che non integra un criterio di giudizio di tipo empirico-induttivo, che ben può essere integrato da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso) e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia da qualsiasi logica penalistica (...)”; Cons. St., Sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483; Id., 28 giugno 2017, n. 3171, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[7] M. Speciale, Interdittive antimafia tra vecchi confini e nuovi scenari, in giustizia-amministrativa, 2020
[8] P.M. Zerman, Lotta alle infiltrazioni nelle imprese, vanno valutati fatti concreti, in ilSole24 ore, 25 settembre 2019
[9] “Per espressa previsione normativa, il controllo giudiziario ex art. 34 bis d.lg. n. 159/2011 non costituisce un superamento dell'interdittiva ma « sospende », per la durata dello stesso, gli effetti dell'interdittiva senza eliminarli; non riabilita l'impresa ma, al contrario, presuppone la sussistenza e la permanenza del provvedimento interdittivo. Il controllo giudiziario è infatti strumento di autodepurazione dalle infiltrazioni criminali che consente all'impresa ammessa di continuare ad operare nei rapporti con la pubblica amministrazione. L'esigenza sottesa alla continuità aziendale, tuttavia, deve essere conciliata con l'interesse alla realizzazione dell'opera di pubblica rilevanza. Ciò impone, pertanto, la necessità di operare un giusto contemperamento degli interessi coinvolti. Necessità che è tanto più forte ed immanente in una fattispecie, come quella in esame, in cui la procedura di gara — al momento in cui è stata prima presentata e poi accolta l'istanza per la nomina di un amministratore giudiziario — si è già conclusa con l'individuazione definitiva del nuovo aggiudicatario. In tale situazione, non vi è spazio per ipotizzare che gli effetti della sospensione di cui all'articolo 34 bis, comma 7, del d.lg. n. 159/2011, debbano (o possano) retroagire fino a travolgere gli atti legittimamente adottati dall'amministrazione quale automatica e doverosa conseguenza dell'informativa interdittiva intervenuta a carico dell'originaria aggiudicataria. Un simile effetto, oltre a non risultare coerente con la ratio del nuovo istituto, risulta altresì in contrasto con lo stesso tenore letterale dalla norma che individua un limite temporale (compreso tra uno e tre anni) di durata e collega alla misura la mera sospensione degli effetti dell'interdittiva”. T.A.R. Reggio Calabria, (Calabria) sez. I, del 30 ottobre 2018, n.643
[10] Cfr. Corte costituzionale sentenza n. 57 del 2020
[11] Si consenta il rinvio a R. Rolli M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979), in questa rivista, 2020
[12] Cfr. T.A.R. Napoli, (Campania) sez. I, del 29 aprile 2020, n.1589
[13] Si consenta il rinvio a R. Rolli e M. Maggiolini, Interdittiva antimafia e questioni di legittimità costituzionale (nota a ord.za TAR - Reggio Calabria, 11 dicembre 2020, n. 732), in questa rivista, 2021
[14] “Ai fini dell'interdittiva antimafia, il giudizio relativo alla sussistenza dei pericoli di infiltrazione in una società non può essere modificato dal decreto di ammissione alla misura del controllo giudiziario, previsto dall'art. 34 -bis del D.Lgs. 159/2011; il controllo giudiziario che permette la prosecuzione dell'attività imprenditoriale non ha, infatti, effetti retroattivi, né costituisce un superamento dell'interdittiva, bensì ne rappresenta una conferma della sussistenza, in quanto viene adottato un regime in cui l'iniziativa imprenditoriale può essere ripresa per ragioni di libertà di iniziativa e di garanzia dei posti di lavoro, ma in un regime limitativo di assoggettamento a un controllo straordinario giudiziario”. T.A.R. Napoli, (Campania) sez. I, del 2 novembre 2018, n.6423
[15] v. M. Mazzamuto, Le interdittive prefettizie tra prevenzione antimafia e salvataggio delle imprese, Giurisprudenza italiana, 2018
[16] “Il giudizio amministrativo che abbia ad oggetto un'interdittiva antimafia e il procedimento penale finalizzato all'ottenimento dell'applicazione del controllo giudiziario, anche se legati da un rapporto di collegamento funzionale, si pongono su piani non coincidenti i quali comportano un sindacato di tipo differente”. T.A.R. Palermo, (Sicilia) sez. I, del 21 settembre 2020, n.1874
[17] v. M. Mazzamuto, L’agenzia nazionale per l’amministrazione e la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalita’ organizzata, Diritto penale contemporaneo, 2015
[18] M. Mazzamuto, Interdittive prefettizie: rapporti tra privati, contagi e giusto procedimento, in Giurisprudenza italiana, 2020
[19] F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in giustamm, 6, 2018
[20] C. Filicetti, Self cleaning e interdittiva antimafia (nota a Cons. St., Sez. III, 19 giugno 2020, n. 3945)
Note brevi sul n. 5 dell’art. 360 c.p.c.
di Bruno Capponi
Sommario: 1. Le inutili riforme dell’appello portate dal D.L. n. 83/2012 - 2. Il nuovo testo del n. 5) dell’art. 360 e le sentenze gemelle nn. 8053 e 8054 del 2014: la segnaletica - 3. Il “veicolo” - 4. Il vizio “specifico” - 5. Verso il cuore del problema - 6. La Corte di cassazione e il controllo di logicità - 7. Ancora precedenti da segnaletica? - 8. I contesti - 9. Qualche telegrafica considerazione finale.
1. Le inutili riforme dell’appello portate dal D.L. n. 83/2012
L’art. 54 del DL 22 giugno 2012, n. 83 – un decreto omnibus recante Misure urgenti per la crescita del Paese, articolato in IV titoli a loro volta articolati in vari capi disciplinanti le materie più disparate – sotto la rubrica “appello” recò modifiche agli artt. 342, comma 1 e 345, comma 3; inserì, dopo l’art. 348, gli artt. 348 bis e ter; nonostante la lettera della rubrica, intervenne anche sul n. 5) dell’art. 360 e poi sull’art. 383, prevedendo una nuova fattispecie di rinvio restitutorio in relazione alle nuove figure di inammissibilità dell’appello (commi 3 e 4 dell’art. 348 ter).
La legge 7 agosto 2012, n. 134 convertì, con modificazioni, il DL 83.
La riforma estiva, inattesa, suscitò, nell’immediatezza, un ampio dibattito.
A distanza di quasi due lustri, possiamo serenamente affermare che le nuove norme sull’appello sono andate incontro a rapida obsolescenza: tutte le discussioni che esse hanno direttamente o indirettamente alimentato – dall’appello “motivato” al progetto alternativo di sentenza, sino al “fiore all’occhiello” dell’inammissibilità per inesistenza di una ragionevole probabilità di accoglimento – si sono rivelate sterili; per comune rilievo, la riforma ha prodotto un inutile aggravio (non soltanto per i commentatori, costretti a misurarsi con norme improvvisate, mal concepite e mal fatte; ma, ciò che più conta, anche) per le Corti d’appello, che si sono dovute confrontare con novità che, nate per semplificare e razionalizzare, hanno finito per inutilmente complicare e duplicare l’esame dei gravami. Le Corti sono state indotte, almeno in sede di prima applicazione, a celebrare udienze ad hoc senza ottenere risultati di deflazione, con l’inevitabile conseguenza di favorire nuovi slittamenti dei contenziosi; a resistere alle sirene di un formalismo stucchevole (tentazione alla quale, dopo una prima reazione di disorientamento, le Corti si sono meritoriamente sottratte) avente lo scoperto obiettivo di far deflettere il giudizio di gravame dall’esame serio del merito della controversia.
La Corte d’appello è rimasta l’ufficio giudiziario in cui la crisi di durata delle procedure e l’incertezza dei giudicati si manifesta nelle forme più acute.
La riforma (mancata) ha contribuito a diffondere, tra gli avvocati, la cattiva abitudine di far precedere, nei gravami, la trattazione del merito da pagine e pagine di involute questioni di ammissibilità, spesso fumose perché quasi sempre relative non a vere questioni di ammissibilità (per come eravamo abituati a conoscerle) bensì a questioni di merito travestite da litis ingressum impedientes.
È rimasta sul terreno la riforma del n. 5) dell’art. 360, che del resto è subito apparsa – parliamo, è ovvio, della giustizia civile – l’intervento più rilevante nel contesto di un provvedimento, dedicato alla crescita economica (in cui, cioè, le ragioni dell’economia dichiaratamente sovrastavano quelle della giustizia), che ha implicitamente denunziato le impugnazioni civili ordinarie come un fattore non di garantismo bensì di crisi, di inceppamento del sistema, di implicita e diffusa violazione del canone di ragionevole durata. La vulgata che ne è emersa – a giustificazione dell’improvvisato intervento estivo – è che gli atti di appello sono generalmente infondati e che i ricorsi per cassazione sono spesso il prolungamento di contenziosi in fatto che non dovrebbero giungere nelle aule del Palazzaccio.
Obiettivo di questo breve scritto è individuare ciò che resta dell’intervento legislativo – pur denunziandone la genesi a sorpresa e il generico intento sanzionatorio – con riferimento al giudizio di legittimità, per i profili interessati dalla riforma del n. 5).
2. Il nuovo testo del n. 5) dell’art. 360 e le sentenze gemelle nn. 8053 e 8054 del 2014: la segnaletica
La Corte di cassazione ha consolidato in materia una serie di massime conformi a partire dalle note sentenze gemelle nn. 8053 e 8054 del 2014[1].
La prima massima risolve un problema di segnaletica: chiarisce, cioè, quanto non è più nel n. 5) e va in alternativa ricercato in altri numeri dell’art. 360 [il 4) e, secondo taluni, anche il 3)], perché il n. 5) non parla più di motivazione e dunque occorrerà – per sollecitare quel controllo di legittimità sul giudizio di fatto che la vecchia formulazione del motivo, risalente al 1950, aveva garantito – scrutinare le norme che impongono la motivazione dei provvedimenti decisori (artt. 132, comma 2, n. 4) c.p.c., 118 disp. att.; art. 111, comma 6, Cost.) seguendo il criterio del “minimo costituzionale”, che la stessa Corte di cassazione aveva indicato quando, nel 1992 (sent. n. 5888), aveva deciso di restringere l’accesso al ricorso straordinario ex art. 111, comma 7 fondato sul controllo della motivazione (costringendo il legislatore delegato del 2006, d.lgs. n. 40, a inserire nell’art. 360 l’attuale ultimo comma, che ha condotto il ricorso straordinario nell’alveo dell’ordinario).
Dietro al problema di segnaletica è peraltro un problema contenutistico, perché se è vero che di motivazione parlano (oltre che la Costituzione) altre norme del c.p.c., peraltro ritoccate nel 2009 con l’intento di “semplificare” la redazione dei provvedimenti decisori (v. infra), soltanto il vecchio testo del n. 5) faceva riferimento alla nota triplice – omessa, insufficiente, contraddittoria – che aveva consentito alla Corte, probabilmente ben al di là di quanto programmato dal legislatore del 1950, un controllo penetrante sulla logicità dei giudicati, anche svincolandosi dalla nozione “formale” della motivazione (cioè da un suo mero controllo letterale presupponendone la mera funzione giustificativa). Ma qualcosa si è perso per strada: e del resto l’intenzione deflazionistica del legislatore estivo non poteva essere in tutto contraddetta, riducendola a un semplice “trasloco” di questioni dal n. 5) ai nn. 3) e 4) dell’art. 360[2] o, se si preferisce, risolvendo quella intenzione in un mero cambiamento della tecnica con cui l’avvocato specializzato si rivolge alla Suprema Corte.
Grazie al chiarimento dato dalla segnaletica, sappiamo cosa, secondo la Corte (e nell’immediatezza della riforma), non è più nel n. 5), ma ancora non sappiamo cosa il legislatore attuale – quello del 1942, che aveva utilizzato una formula pressoché corrispondente, era mosso da intenzioni diverse in un contesto diverso – abbia voluto intendere per “omesso esame di un fatto decisivo e controverso”. Anche questa è nozione che va sedimentata; va preso atto che massime ancora del 2020 o del 2021 continuano a risolvere problemi di segnaletica: evidentemente, le abitudini del foro sono talmente inveterate che il richiamo all’art. 5), anche frammisto ad altri numeri dell’art. 360, continua ad andare fuori bersaglio. Ma va anche riconosciuto che, in qualche caso, è la stessa Corte a indurci in errore: ad es., quando afferma che a seguito della riformulazione dell’art. 360, n. 5), c.p.c., il sindacato di legittimità sulla motivazione della sentenza è limitato ai casi di omesso esame del fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e di anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante[3]; o che l’art. 360, n. 5), c.p.c., come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, consente soltanto la denuncia dell’omesso esame di un fatto decisivo che sia stato oggetto di discussione tra le parti; la norma non consente, invece, il sindacato sulle anomalie motivazionali che presenta la sentenza impugnata, salvo che tali anomalie si risolvano in una violazione di legge costituzionalmente rilevante[4]. Massime che rischiano di confonderci, se davvero dobbiamo dare per acquisito che il n. 5) non è più deputato al controllo sulla motivazione e che il detto controllo deve ora avvenire per il tramite di altri numeri dell’art. 360.
La verità è che molte massime presentano, e forse continueranno a presentare ancora a lungo, un contenuto misto: da un lato, indicano ciò che nel n. 5) non è più, e svolgono quasi un ruolo di indicatore per favorire la transizione dal vecchio al nuovo sistema; dall’altro lato, individuano ciò che è nel motivo e che, ripete la Corte, risulta essere non qualcosa di meno rispetto al vecchio testo, bensì qualcosa di nuovo.
Possiamo infatti dare per acquisito che quello di cui parla il nuovo testo del n. 5) dell’art. 360 è un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (così la massima conforme a partire dalle sentenze gemelle), vale a dire un vizio che prima non era in catalogo, e che non si confonde col vizio di motivazione che avevamo conosciuto grazie all’abrogato n. 5).
3. Il “veicolo”
Oltre ai problemi di segnaletica, gli orientamenti di legittimità sul nuovo testo del n. 5) risolvono le possibili questioni di ammissibilità delle censure, calandosi nel contesto di autosufficienza e di specificità che interessa tutti i tramiti mediante i quali si accede alla Corte: anche chi segue correttamente la segnaletica, ha da porsi il problema del veicolo col quale una determinata censura può utilmente pervenire in Cassazione.
Sarà bene chiarire, sotto il primo profilo, che in sede di legittimità, il motivo è inammissibile laddove non soddisfa i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, n. 3, 4 e 6, c.p.c., che devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l'atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza[5].
E anche, sotto il secondo profilo, che, in generale, il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato dai motivi di ricorso che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito (e dunque) il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie previste; ne deriva l’inammissibilità delle critiche generiche alla sentenza impugnata.[6]
Anche questi aspetti sono chiariti dalle sentenze gemelle, laddove esplicitano che la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso, da intendersi nel senso che la considerazione di quel fatto avrebbe fatto cambiare di segno la decisione resa (se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Dunque: il vizio specifico, diverso dal difetto di motivazione, deve essere dedotto rispettando il veicolo di queste precise coordinate, in difetto delle quali la censura non potrà superare il vaglio preliminare di ammissibilità.
Ovviamente, vale anche a questo proposito quanto detto retro a proposito dell’appello: chi esercita l’avvocatura sa bene che è ormai impossibile leggere un controricorso in cui non risultino trattate, spesso con generoso svolgimento e maniacale dettaglio, questioni di ammissibilità che non possono non annoiare (il ricorrente e soprattutto) la Corte, costretta (come se ignorasse la sua propria giurisprudenza) a leggere interi compendi di massime sul corretto modo di accedere al giudizio di legittimità.
Gli avvocati, certo, fanno il loro mestiere: ma non è dubbio che la redazione degli atti – in tempi che mostrano attenzione alla chiarezza e sinteticità – viene enormemente appesantita dalle questioni di ammissibilità, purtroppo spesso richiamate non del tutto a proposito, quasi utilizzando un prontuario da adattarsi caso per caso.
4. Il vizio “specifico”
Va chiarito cosa non è omesso esame di un fatto decisivo e controverso.
Fino al 2006 – d.lgs. n. 40 – il difetto di motivazione doveva interessare «un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio»; il legislatore delegato ha inserito nel n. 5) la diversa lezione: «un fatto controverso e decisivo per il giudizio».
Da ciò viene generalmente dedotto che il riferimento al “fatto”, di cui è menzione anche nel testo attuale, vale a escludere la possibilità di riferire al n. 5) una censura o un’argomentazione in diritto, una deduzione difensiva[7], e in generale quanto può dedursi col motivo del n. 3) in termini di violazione e falsa applicazione. Sebbene non manchi chi ritiene che una medesima censura potrebbe essere svolta con riferimento congiunto o alternativo a più numeri dell’art. 360, personalmente ritengo che, nel quadro di un’impugnazione limitata, ogni possibile censura debba far capo a un motivo determinato, di modo che l’individuazione di uno dovrebbe automaticamente escludere il richiamo o il concorso con altro; va peraltro considerato che a volte, applicando il principio jura novit curia, la Corte si riconosce la libertà di autonomamente qualificare lo svolgimento argomentativo del motivo[8], prescindendo anche dalla sua rubrica e inquadrando la censura meglio di come abbia fatto il ricorrente[9]. Il che non è senza conseguenze, considerata l’attuale giurisprudenza che impone, per la denunzia degli errores in procedendo, l’allegazione dello “specifico pregiudizio” che alla parte deriva dal mancato rispetto della norma processuale. È bene in ogni caso aver presente che il motivo del n. 5) è sempre stato considerato su un piano diverso rispetto a tutti gli altri, alla cui base c’è sempre la violazione di una norma, e ciò proprio per il tipo di indagine e di conseguenze applicative che gli si riconnettono: altro è il controllo di logicità, altro quello di legittimità. Inoltre, potrebbe avvenire che l’omesso esame di un fatto si tramuti in errore di violazione o falsa applicazione di norme, tutte le volte che l’omessa considerazione dell’elemento di una determinata fattispecie abbia portato il giudice a richiamare una fattispecie giuridica diversa; in casi del genere, il motivo del n. 3) presuppone, in un certo senso, la violazione di cui è menzione nel n. 5).[10] Ne vedremo applicazioni infra, §§ 6 e 7.
Va distinto l’omesso esame dalla omessa pronuncia su domanda o eccezione, che configurano una violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c. che transitano in Cassazione per il motivo del n. 4) dell’art. 360[11] che configura una nullità e non un controllo di logicità.
Va distinto l’omesso esame dall’errore revocatorio per omissione, che presuppone il carattere non controverso del fatto oggetto di pronuncia [il n. 4) dell’art. 395 sembra usare promiscuamente “fatto” e “punto”, termini che invece nel n. 5) dell’art. 360 introducono concetti tra loro assai diversi].
In generale, vuole la Corte che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie[12].
Un discorso molto delicato, che qui può essere soltanto accennato, riguarda la concezione “sostanziale” contrapposta a quella “formale” di motivazione, che collega il possibile vizio all’esame del materiale istruttorio: ove si ritenga che la motivazione non debba limitarsi alla giustificazione formale del percorso logico seguito dal giudice, ma che essa debba dar conto dell’utilizzo concreto che il giudice abbia fatto, o non fatto, del materiale probatorio (la dottrina s’è espressa nel senso che la lezione “sostanziale” perde il carattere di semplice giustificazione della pronuncia, per assumere quello di «ragionamento» che il giudice ha effettuato sulla base delle prove raccolte), si aprono possibilità applicative del nuovo n. 5)[13] che certamente entrano in conflitto con l’intento deflazionistico che ha ispirato il legislatore estivo del 2012.
5. Verso il cuore del problema
Ci avviciniamo al cuore del problema.
Dopo le sentenze gemelle, le sezioni semplici hanno avuto modo di chiarire che «l’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c. nel suo attuale testo riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Trattasi di una nozione da intendersi riferita a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico»[14]; deve cioè trattarsi di «un vizio specifico relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo»[15]; «un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante»[16]. Mentre il vizio di motivazione, denunziabile con altri motivi, deve risultare dal testo della sentenza, l’omesso esame può rilevare anche dagli atti processuali.[17]
Il punto è se tale fatto appartenga alla fattispecie dedotta, conosciuta e dibattuta nel giudizio – il “fatto” oggetto della pronuncia di merito[18] – ovvero se il riferimento sia a quanto nel processo sia stato ricostruito con gli strumenti a ciò deputati: il che rende inevitabile il riferimento al corredo dei mezzi di prova che il giudice è stato chiamato a valutare e così alla tecnica di quella valutazione. Anche su questo sono rinvenibili orientamenti, almeno in apparenza, chiari. È stato ad esempio affermato che «il “fatto storico” di cui all’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c. è accadimento fenomenico esterno alla dinamica propria del processo, ossia a quella sequela di atti ed attività disciplinate dal codice di rito che, dunque, viene a caratterizzare diversa natura e portata del “fatto processuale”, il quale segna il differente ambito del vizio deducibile, in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c.»[19]; «l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti. Il discrimine tra le distinte ipotesi di violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, è infatti segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa».[20]
Se si accede all’idea di un “fatto storico” contrapposto al “fatto processuale” e si accetta la conseguenza che il “fatto processuale” non sarebbe controllabile col mezzo del n. 5) ma esclusivamente con quello del n. 4), ossia che si tratta di valutare la legittimità e non (o non anche) la logicità del percorso seguito dal giudice di merito, il primo ostacolo che ci si trova davanti è l’inveterato orientamento secondo cui «in cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione»[21].
Rischiamo di ritrovarci in un vicolo cieco. Il fatto è una cosa, il giudizio di fatto un’altra.
6. La Corte di cassazione e il controllo di logicità
Ciò spiega perché la Corte di cassazione, pur continuando a consolidare anche a sezioni semplici le massime delle sentenze gemelle, abbia iniziato a porsi di nuovo il problema del controllo di logicità, in certo senso prescindendo dai limiti rigorosi che la stessa Corte si è data nella segnaletica, ossia nel tentativo di disegnare i confini esatti tra il motivo del n. 5) e gli altri possibili tramiti dell’art. 360. L’operazione è chiarissima nella sentenza della sez. III, 10 giugno 2016, n. 11892, che, pur dichiarando inammissibili vari motivi fondati sia sul n. 3) che sul n. 5) e che denunziavano da varie prospettive violazione e falsa applicazione delle norme sulla valutazione delle prove, osserva, in obiter, che «il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito, non essendo incasellabile né nel paradigma del n. 5), né in quello del n. 4) (per il tramite della deduzione della violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4) … non trova di per sé alcun diretto referente normativo nel catalogo dei vizi denunciabili con il ricorso per cassazione». Ma ciò, continua la Corte, non priva il ricorrente di ogni tutela a fronte dell’illegittimo esercizio del potere di valutazione delle prove, potendosi ipotizzare la possibilità di «svolgere considerazioni sul cattivo esercizio del detto potere non già sub specie di denuncia in sé e per sé di un vizio della sentenza impugnata, bensì solo in funzione e, quindi, come elemento di un’attività di dimostrazione che il giudice di merito è pervenuto ad una erronea ricostruzione della quaestio facti, sì che essa l’abbia indotto in ultima analisi ad applicare erroneamente una norma di diritto alla fattispecie dedotta in giudizio. Sicché il motivo di ricorso sia la denuncia di tale erronea applicazione.[22] Si può dunque ipotizzare che dette considerazioni possano e debbano necessariamente incasellarsi solo come elemento di un ben più articolato quadro evidenziatore della deduzione di un error in iudicando ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3), circa la norma applicabile ed applicata alla fattispecie». Precisandosi che, «in pratica, potrebbe ipotizzarsi che la critica all’esercizio concreto del potere di cui all’art. 116 c.p.c. si collochi come parte di un ragionamento più ampio che giustifichi innanzitutto in termini di necessarietà logica una ricostruzione della quaestio facti sulla base del materiale probatorio diversa da quella operata dal giudice di merito e per tale ragione evidenzi che egli ha mal sussunto la vicenda sotto la norma che ha applicato, perché tale norma non sarebbe stata applicabile se la ricostruzione fosse stata quella esatta. Una siffatta attività argomentativa sarebbe diretta ad evidenziare un errore di sussunzione della fattispecie concreta e di individuazione dell’esatto diritto applicabile e, dunque, della motivazione in iure, ma essa supporrebbe, in ossequio ai requisiti di chiarezza necessari in ogni motivo di impugnazione, l’articolazione dell’esposizione di un siffatto motivo in modo puntuale secondo le scansioni progressive appena sopra indicate».
Insomma, la sentenza indica la strada del n. 3), anche se forza il concetto di sussunzione e con esso la configurazione del vizio di violazione e falsa applicazione, che slitta dal diritto al fatto.
Sempre la sez. III, 5 luglio 2017, n. 16502, ha affermato il seguente principio: «pur essendo, dopo la riforma dell’art. 360 c.p.c., n. 5), ridotto al minimo costituzionale il controllo di legittimità sulla motivazione, soprattutto in punto di fatto, nonché restando riservata istituzionalmente al giudice del merito la valutazione dei fatti e l’apprezzamento delle risultanze istruttorie, la Corte di cassazione può verificare l’estrinseca correttezza del giudizio di fatto sotto il profilo della manifesta implausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze e, pertanto, può sindacare la manifesta fallacia o non verità delle premesse o l’intrinseca incongruità o contraddittorietà degli argomenti, onde ritenere inficiato il procedimento inferenziale ed il risultato cui esso è pervenuto, per escludere la corretta applicazione della norma entro cui è stata sussunta la fattispecie». In motivazione, la Corte precisa che «nel giudizio di fatto – il quale tende alla ricostruzione e cioè alla rappresentazione di una serie di dati empirici esterni al processo al fine di sottoporli alla valutazione del giudicante ed al successivo giudizio di diritto – è necessario che il giudice del merito verifichi l’esistenza di fatti noti acquisiti al processo, appunto provati, per applicarvi massime di esperienza verificate o condivise e giungere, in base ad un procedimento inferenziale, a ritenere provati i fatti ignoti ovvero ancora da ricostruire nella loro struttura obiettiva, applicando il noto canone del prudente apprezzamento. E, se è vero che il controllo di questa Corte di legittimità non può mai spingersi a valutare l’esito del suddetto procedimento logico (Cass. Sez. U., n. 8053 del 2014, cit., punto 14.8.3) e quindi il risultato della concreta modalità di esercizio del prudente apprezzamento del giudice del merito nella valutazione del materiale istruttorio, tuttavia un tale controllo, pure restando assai limitato, deve persistere, a presidio dell’intima coerenza della conciliabilità delle affermazioni operate quale garanzia di attendibilità del giudizio di fatto a sua volta premessa di quello di diritto, quanto alla verifica della correttezza del percorso logico tra premessa-massima di esperienza-conseguenza, cioè di esattezza della massima di esperienza poi applicata, come pure alla verifica della congruità - o accettabilità o plausibilità o, in senso lato, verità - della premessa in sé considerata; in mancanza di tale congruenza o plausibilità, la motivazione sul punto resterà soltanto apparente. A mano a mano che la prudenza nell’apprezzamento cessa di essere una regola generale di giudizio e finisce con il qualificare necessariamente gli elementi costitutivi della fattispecie, tanto da inficiarne la concreta sua qualificazione e renderne non corretta la sussunzione proposta, si estende allora – sia pure col persistente, serio ed inviolabile, limite dell’intangibilità del risultato – il controllo sulla congruità della motivazione ancora possibile da parte di questa Corte sulla motivazione in fatto anche dopo la novella del 2012: se violata è solo la regola generale dell’art. 115 c.p.c., rileveranno solo quei vizi talmente macroscopici da rendere evidente che, a dispetto delle apparenze, nessuna effettiva giustificazione della conseguenza può dirsi operata nella specie; ad esempio, quelli nell’individuazione della regola di esperienza (sia essa logica od empirica), ovvero quelli nella costruzione della relativa inferenza, mediante l’avvalimento di una più o meno ampia discrezionalità a seconda dei postulati di quella regola».
Il ricorso viene accolto, riferendo le censure fondate sul n. 5) alla violazione e falsa applicazione oggetto di altro motivo fondato sul n. 3).[23]
7. Ancora precedenti da segnaletica?
Salutati dai commentatori nei termini di un salutare ritorno della Cassazione al controllo del giudizio di fatto, i precedenti del 2016 e 2017[24] possono, in realtà, essere classificati ancora nel contesto della segnaletica: essi ridefiniscono un percorso, che prima del 2012 conduceva al n. 5), e che ora (in questo le decisioni sembrano convergere) potrà condurre al n. 3): il cui ambito applicativo viene slabbrato per la finalità di ricomprendervi un controllo sul giudizio di fatto, di cui prima non si avvertiva la necessità perché era garantito dal vecchio testo del n. 5). Il cui nuovo testo, quindi, non pone soltanto un problema di redistribuzione, ma anche di ridefinizione della portata dei motivi – specie il n. 3), a quanto sembra – che dovranno acconciarsi ad accogliere le censure di logicità.
Resta la difficoltà di inquadrare quel che di nuovo c’è nel n. 5) attuale, che rischia di sfuggirci nonostante tutti gli sforzi classificatori.
Una parte della dottrina ha sottolineato la prossimità di tale vizio “nuovo” all’errore revocatorio, del quale sarebbe quasi un completamento: l’elemento in comune sarebbe che esso potrà risultare dal raffronto anche col fascicolo di causa, e spetterà al ricorrente individuarne il luogo specifico grazie al motivo “autosufficiente”; l’elemento differenziale sarebbe nel suo carattere controverso tra le parti e nel suo essere quindi autentico errore di giudizio; laddove l’errore revocatorio, quale abbaglio dei sensi, è tutt’altro che errore di giudizio e tanto è chiarissimo nella giurisprudenza della Corte sull’art. 391 bis c.p.c.
Si può tentare una verifica al contrario: prima della riforma del 2012, che regime aveva l’omesso esame del fatto decisivo e controverso? La risposta può forse essere nel senso che soccorreva il vizio di motivazione qualora l’omissione di quel fatto fosse stata percepibile dalla motivazione, sul presupposto della sua concezione “formale”; ancora il vecchio n. 5) poteva soccorrere qualora si accedesse alla lezione “sostanziale” della motivazione, in termini di rapporto tra giustificazione della decisione e materiale istruttorio acquisito al giudizio e valutato secondo i dettami dell’art. 116 c.p.c.: un prudente apprezzamento sottoposto a controllo di logicità; altrimenti, il vizio poteva rifluire nel n. 3), secondo quanto deciso ora dalla sent. n. 11892/2016, come error in iudicando di individuazione della fattispecie, di riconduzione del “fatto” alla “norma”: secondo le chiare parole della sentenza, «il giudice di merito è pervenuto ad una erronea ricostruzione della quaestio facti, sì che essa l’abbia indotto in ultima analisi ad applicare erroneamente una norma di diritto alla fattispecie dedotta in giudizio».
Ma, certo, una cosa va detta: se si abbandona l’idea più classica del controllo sulla motivazione, quale giustificazione del percorso logico seguito dal giudice e rappresentazione degli elementi probatori su cui è stato fondato il giudizio di fatto, e se quindi si considera l’omissione dell’attuale n. 5) quale vizio che potrà risultare (ma anche non risultare) dalla motivazione che è pur sempre un posterius rispetto alla ricostruzione del “fatto”, la conclusione che si potrà facilmente attingere è che la norma attuale pone il giudice di legittimità direttamente dinanzi all’esame del fatto e dinanzi al materiale istruttorio, senza più la mediazione rappresentata dalla motivazione.
Paradossalmente, così inteso il nuovo n. 5) rende la Cassazione interprete del “fatto storico”, che è quanto di più lontano dalle funzioni di legittimità.
8. I contesti
Se ne sentiva il bisogno?
Torniamo al contesto del decreto-legge: in un provvedimento omnibus dedicato al primato dell’economia, una norma imprecisa sin dalla sua rubrica ha introdotto modifiche al giudizio di appello, di cui s’è detto, e ha modificato il n. 5) dell’art. 360 riportandolo alla stesura del 1942.
L’obiettivo, dichiarato, era quello di ridurre l’accesso alla Cassazione quanto (genericamente) alle “questioni di fatto”, sul fallace presupposto della possibilità d’una netta distinzione tra “fatto” e “diritto” e senza tener conto che nella pratica del giudizio di legittimità era piuttosto rara la proposizione del motivo n. 5) non coordinata con altro motivo, in generale il n. 3). Ciò per i problemi di cui s’è fatta carico, ora, l’elaborata sentenza n. 11892/2016: “fatto” e “diritto” sono spesso un groviglio indistinguibile, perché una certa qualificazione in diritto consente a valle di selezionare certi fatti, e la costruzione coi fatti di una determinata fattispecie richiama l’applicazione di una determinata norma di diritto.
L’intervento sul n. 5) è stato poi realizzato tenendo conto di altri contesti, che sembra opportuno ricordare.
Punto di partenza di una prima ricognizione è l’art. 16, comma 5, d.lgs. n. 5/2003, in tema di processo societario (abrogato con legge n. 69/2009), che – a proposito della motivazione – prevedeva: La sentenza può essere sempre motivata in forma abbreviata, mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi.
La stessa legge n. 69/2009, che ha appunto abrogato l’intero processo societario salvando soltanto le disposizioni speciali sull’arbitrato, ha modificato l’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c.: La motivazione della sentenza di cui all’articolo 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”. Anche l’art. 132 c.p.c. è stato modificato dalla legge n. 69/2009, con la previsione secondo cui la sentenza deve contenere: 4) la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. Un ulteriore tentativo di semplificazione nella redazione della motivazione della sentenza era stato tentato col D.L. n. 69/2013 intervenendo sull’art. 118 disp. att. c.p.c., ma la novellazione non è stata confermata dalla legge di conversione n. 98/2013.[25] Sono seguite proposte, immediatamente abbandonate, che chiamavano gli avvocati indicati dai Consigli dell’Ordine a motivare i dispositivi dei giudici, così trasformando, in sostanza, le sentenze in verdetti privi di qualsiasi “giustificazione” (quella appiccicata a cose già fatte da un terzo estraneo al processo non può essere seriamente considerata una motivazione).
È nel descritto contesto che il decreto-legge del 2012 ha deciso di allentare i controlli sulla motivazione, in ciò favorito dall’attuale tendenza della Cassazione a premiare lo jus constitutionis, ponendosi come giudice più della legge che dei conflitti.
Altro contesto da considerare è quello della selezione dei ricorsi, che ancora la legge n. 69/2009 aveva tentato con l’introduzione dell’art. 360 bis c.p.c.: norma, rapidamente caduta nell’oblio, che la stessa Cassazione non ha potuto interpretare per non aver potuto scioglierne l’ambiguità di fondo: considerare un sommario e preliminare esame del merito alla stregua di una prescrizione di ammissibilità. Per selezionare i ricorsi, la Corte ha dovuto continuare a far uso dei suoi sperimentati cavalli di battaglia pretòri: l’autosufficienza del ricorso e la specificità del motivo. Si tratta di strumenti più che bastevoli per mandare al macero un numero elevatissimo di ricorsi, non fosse che spesso la Corte, dopo averli dichiarati inammissibili o improcedibili, li esamina anche nel merito con dettagliate trattazioni.[26]
In questo ambiente indubbiamente difficile, che la Cassazione, dopo la riforma del 2012, continui a interrogarsi sui limiti del controllo a lei riservato, ossia se esso debba limitarsi alla legittimità ovvero estendersi alla logicità, è un segno confortante di vitalità della Corte.
9. Qualche telegrafica considerazione finale
A distanza di quasi due lustri, che valutazione dare della riforma estiva del 2012?
Il grosso delle nuove norme è caduto nell’oblio.
Del resto, è caduto nello stesso oblio anche l’art. 360 bis c.p.c., a testimonianza della difficoltà che la Corte incontra a selezionare al proprio interno i ricorsi meritevoli di essere definiti con pronunce non di mero rito.
La riforma del n. 5) ha sollevato varie questioni, al termine delle quali ciò che emerge è che la Corte ben difficilmente potrà rinunciare al controllo di logicità dei giudicati, perché tale funzione appartiene alla sua storia e perché i consiglieri, che sono stati giudici di merito, non possono essere insensibili alla giustizia, oltre che alla legittimità, delle decisioni soggette al loro controllo. Ma molte energie sono state inutilmente disperse in segnaletica, identificazione del veicolo, definizione del vizio specifico e in generale per tentare di assorbire in un disegno razionale un intervento legislativo rozzo, inquinato dai contesti che abbiamo indicato.
A nessuno viene in mente che per sgravare la Cassazione dal peso che la sta schiacciando occorrerebbe lavorare sui gradini inferiori della piramide, per aumentare il grado di accettabilità delle decisioni dei giudici di merito.
A nessuno viene in mente che occorre lavorare non sui respingimenti del contenzioso, ma sulla qualità e la giustizia delle sentenze dei giudici di merito.
A nessuno viene in mente che, riconosciuto (dal 1990) ruolo centrale al giudizio di primo grado e carattere provvisoriamente esecutivo alla sentenza che lo definisce, i magistrati migliori e più esperti dovrebbero essere impiegati proprio in quel grado, perché è lì che va migliorata la risposta della giurisdizione.
[1] Riporto di seguito le massime: «a) la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5), disposta con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, secondo cui è deducibile esclusivamente l’«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; b) il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5), introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia); c) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; d) la parte ricorrente dovrà indicare - nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), - il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso».
[2] L’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (così, tra le tante, Cass., Sez. VI – 5, Ord., 8 novembre 2018, n. 28623).
[3] Così Cass., Sez. II, Ord. 22 agosto 2019, n. 21572.
[4] SS.UU., Sent. 25 giugno 2019, n. 16983.
[5] Così, ad es., Cass., Sez. V, Ord. 15 dicembre 2020, n. 28588.
[6] Cass., Sez. VI - 5 Ord. 7 ottobre 2019, n. 25005. Ogni censura deve peraltro rispondere a propri canoni di specificità: non certo a caso questo requisito, nella più recente giurisprudenza di legittimità, va sovrastando quello, più discusso anche all’interno della Corte, dell’autosufficienza: così, ad es., l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all'art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (così, Cass., Sez. Unite, Sent. 28/10/2020, n. 23745). Qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte medesima di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della questione. Difatti, il giudizio di cassazione ha, per sua natura, la funzione di controllare la difformità della decisione del giudice di merito dalle norme e dai principi di diritto, sicché sono precluse non soltanto le domande nuove, ma anche nuove questioni di diritto, qualora queste postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito che, come tali, sono esorbitanti dal giudizio di legittimità (Cass., Sez. VI – 3, Ord. 7/01/2021, n. 54). Altro esempio: l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, di talché il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass., Sez. VI – 5, Ord. 4/06/2019, n. 15233, ove l’utilizzo ripetuto del termine “specifico” risulta addirittura ossessivo).
[7] Cfr., ad es., Cass. 18 ottobre 2018, n. 26305.
[8] In ragione della funzione del giudizio di legittimità di garantire l’osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonché per omologia con quanto prevede la norma di cui al secondo comma dell'art. 384 c.p.c., deve ritenersi che, nell’esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione può ritenere fondata la questione, sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella specificamente indicata dalla parte e individuata d’ufficio, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa sentenza impugnata, senza cioè che sia necessario l’esperimento di ulteriori indagini di fatto, fermo restando, peraltro, che l’esercizio del potere di qualificazione non deve inoltre confliggere con il principio del monopolio della parte nell’esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stretto, con la conseguenza che resta escluso che la Corte possa rilevare l’efficacia giuridica di un fatto se ciò comporta la modifica della domanda per come definita nelle fasi di merito o l’integrazione di una eccezione in senso stretto: così Cass., Sez. VI - 3, Sent. 14 febbraio 2014, n. 3437; Cass., Sez. I, Ord. 3 dicembre 2020, n. 27704.
[9] Vedi SS.UU. 24 luglio 2013, n. 17931.
[10] Secondo Cass., Sez. I, 11 agosto 2004, n. 15499, «il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa …; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Lo scrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa».
[11] Cass., Sez. I, 5 luglio 2019, n. 18182.
[12] Così da ultimo Cass., Sez. VI - 3, Ord. 24 giugno 2020, n. 12387.
[13] V., ad es., Cass., Sez. III, 5 luglio 2017, n. 16502.
[14] Cass., Sez. I, 20 gennaio 2021, n. 976.
[15] Cass., Sez. Unite, 12 novembre 2020, n. 25574.
[16] Cass., Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5133.
[17] Cass., Sez. lav., Ord. 23 ottobre 2020, n. 23365.
[18] Si consideri, ad es., la seguente massima: è viziata da omesso esame di un fatto decisivo la sentenza di merito che, in caso di evizione totale, reputi il danno risarcibile dal notaio sempre esistente e commisurabile al valore del bene oggetto di evizione a prescindere dalla circostanza, pur indicata in sentenza, che un prezzo di acquisto non sia stato mai corrisposto: così Cass., Sez. I, Ord. 3 luglio 2019, n. 17810.
[19] Cass. civ. Sez. VI - 3 Ord., 24 giugno 2020, n. 12387.
[20] Cass. civ. Sez. lavoro Ord., 3 gennaio 2020, n. 29.
[21] Principio del tutto pacifico: da ultimo, Cass., Sez. V, Ord. 27 ottobre 2020, n. 23534.
[22] V. però retro, nota n. 9.
[23] La Corte motiva: «Nonostante la manifesta erroneità del riferimento degli ultimi tre motivi ad una norma processuale non più applicabile, cioè il testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5), anteriore alla riforma arrecata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con modif. dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (e tanto in forza della disciplina transitoria, di cui al comma 3 del medesimo art. 54 cit., per essere stata la sentenza pubblicata in data successiva al giorno 11/09/2012), è convinta opinione del Collegio che le doglianze dei ricorrenti, complessivamente considerate per la loro intima connessione siccome rivolte avverso l’intrinseca consequenzialità e coerenza logica del giudizio sulla collocazione temporale dell’exordium praescriptionis, devono qualificarsi fondate: in particolare a tal fine rilevando i fatti resi oggetto dei motivi dal terzo al quinto compresi ai fini della dedotta illegittimità della conclusione sull’applicazione concreta dell’art. 2935 c.c., come operata appunto dalla corte territoriale, resa a sua volta oggetto della prima parte del primo motivo di ricorso». I motivi dal terzo al quinto erano, appunto, fondati sul n. 5).
[24] Ma nella giurisprudenza di legittimità si trova un po’ di tutto: ad es., Cass., Sez. II, Sent. 12 giugno 2018, n. 15321, ha deciso che «la genericità del rinvio alle argomentazioni del c.t.u. ed il ricorso a mere clausole di stile per esprimere la condivisione delle conclusioni peritali (anche con riferimento soprattutto al “quantum” del credito risarcitorio, soprattutto quando sia possibile enucleare diversi titoli di responsabilità, non tutti dedotti in giudizio, ed emerga una corresponsabilità tra più soggetti da percentualizzare, come nel caso di specie) e il dissenso dalle critiche mosse dalle parti, non è compatibile con l’obbligo di adeguata motivazione incombente sul giudice di merito qualora siano espresse, a fronte di dette conclusioni, specifiche censure», e tale difetto di “adeguata motivazione” ha comportato l’accoglimento di un motivo fondato sul n. 5) (ma senza una specifica motivazione sul possibile contenuto delle censure in tesi relative a questo motivo).
[25] Questo il testo dell’art. 118 disp. att. c.p.c., recato dal D.L. e non approvato in sede di conversione: La motivazione della sentenza di cui all’articolo 132, secondo comma, numero 4), consiste nella concisa esposizione dei fatti decisivi e dei principi di diritto su cui la decisione è fondata, anche mediante rinvio a contenuti specifici degli scritti difensivi o di altri atti di causa. Nel caso previsto nell’articolo 114 debbono essere esposte le ragioni di equità sulle quali è fondata la decisione.
[26] Un caso davvero paradigmatico è dato dalla Cass., Sez. III, Sent. 5 giugno 2020, n. 10816, che nei primi 3 punti della motivazione spiega perché il ricorso è improcedibile, e dal 4 in poi («Sebbene il rilievo che precede sia assorbente, ritiene questa Corte di mettere in evidenza che, ove del ricorso si fosse potuto esaminare il merito, esso sarebbe stato comunque infondato») per altri 4 punti spiega perché il ricorso sarebbe stato anche infondato nel merito.
Sulla tutela cautelare monocratica richiesta con «flaggatura» (note critiche a T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. I, decr. 31 dicembre 2020, n. 503)
di Angelo Giuseppe Orofino e Andrea Panzarola
Sommario: 1. La questione - 2. Sul generale potere di qualificazione della domanda giudiziale da parte del giudice amministrativo - 3. Segue: l’individuazione per relationem delle domande formulate - 4. Alcune conclusioni.
1. La questione
Queste brevi osservazioni traggono origine dalla lettura di un decreto cautelare[1] con il quale il Tar bolognese ha ritenuto che la semplice spuntatura di una casella del modulo adoperato per il deposito telematico del ricorso e dei suoi allegati, sarebbe idonea a manifestare la volontà del ricorrente di chiedere tutela cautelare monocratica, mai domandata nell’atto processuale notificato alle controparti, né con altro atto versato in giudizio anche in tempo successivo alla notifica.
Le argomentazioni addotte dal Tribunale per supportare la conclusione accolta possono essere così sintetizzate: a) la «flaggatura» della casella per mezzo della quale, con il modulo di deposito, si indica di aver chiesto tutela cautelare monocratica, sarebbe equivalente ad una domanda cautelare ex art. 56 c.p.a.[2] e sarebbe chiara, ancorché non espressa, manifestazione dell’intenzione della parte di richiedere misure urgenti anticipate; b) in tal senso si pone la normativa, comunitaria e nazionale, che consente la adozione, anche senza contraddittorio, di strumenti cautelari di urgenza per la tutela delle situazioni giuridiche dei soggetti che si confrontino con una pubblica amministrazione.
Alla luce di queste argomentazioni, il Tar ha ritenuto ammissibile la richiesta monocratica formulata con la sola spunta della casella del modulo di deposito a ciò dedicata, salvo poi reputarla infondata per mancanza dell’urgenza qualificata che deve sussistere ai fini della concessione di un provvedimento presidenziale ex art. 56 c.p.a.
Qui non interessa tanto stabilire se sia, o meno, condivisibile l’affermazione secondo cui è possibile concedere misure cautelari non precedute dalle forme conoscitive richieste dall’art. 56, commi 2[3] e 5[4], c.p.a.
Come tutti sanno, l’art. 61 c.p.a. consente adesso, a somiglianza della soluzione da tempo accolta nel processo civile, la pronunzia di misure cautelari anteriori alla causa[5], vale a dire prima della notificazione del ricorso introduttivo. La norma pone condizioni stringenti[6] per questa forma di tutela cautelare ante causam, incentrate sulla comprovata sussistenza di una ipotesi di eccezionale gravità ed urgenza che non permetta neppure la previa notificazione del ricorso[7].
Nel caso di specie non si è a fronte di una richiesta formulata ante causam, ai sensi dell’art. 61 c.p.a., visto che l’istanza è stata rinvenuta dal Tar all’interno del modulo di deposito di un ricorso previamente notificato.
Il che lascia intendere che la regola iuris alla luce della quale avrebbe dovuto essere esaminata la vicenda è (non già quella deducibile dall’art. 61 c.p.a., ma) quella recata dall’art. 56 c.p.a., il quale richiede la previa notifica della «domanda cautelare».
Si badi bene, non di una istanza purchessia, ma di una istanza che possegga i requisiti di forma-contenuto di una vera e propria «domanda cautelare», con la quale, per ripetere il testo dell’art. 56 comma 1, c.p.a., il ricorrente esteriorizzi gli estremi tanto oggettivi quanto soggettivi di una «domanda» per una tutela urgente, giustificandola con la circostanza che la «”estrema gravità” che contraddistingue la controversia non consente “neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio”».
2. Sul generale potere di qualificazione della domanda giudiziale da parte del giudice amministrativo
In questo contesto la parte del decreto che suscita fatalmente maggiore interesse è quella in cui il Tribunale afferma che la semplice spunta di una casella di testo del modulo predisposto per il deposito degli atti nel processo telematico sarebbe di per sé idonea a manifestare la volontà del ricorrente di chiedere una domanda di tutela monocratica, non espressamente formulata nell’atto processuale notificato alle controparti.
Il TAR ha, dunque, ritenuto che le indicazioni espresse con il deposito del modulo fossero idonee ad integrare la domanda svolta dal ricorrente che – secondo quanto è dato comprendere dalla lettura del provvedimento in esame – non conteneva nessuna esplicita richiesta di tutela cautelare monocratica.
Si può immaginare che, provvedendo nel modo descritto, il Tar abbia inteso far prevalere la sostanza sulla forma[8], magari nella auspicata prospettiva di garantire una più ampia effettività della tutela del ricorrente[9], così equiparando la mera spuntatura della casella di un modulo predefinito ad una «domanda cautelare» (quella «domanda cautelare» prescritta dall’art. 56 cit.).
Il tema specifico merita di essere collocato in un quadro più ampio.
In termini generali è risaputo che, perseguendo un approccio sostanzialistico e volto all’ampliamento delle forme di tutela, si è fatta spazio nella giurisprudenza amministrativa l’idea secondo la quale il compito del giudice è anche quello di procedere ad interpretare il gravame ed i motivi con esso proposti[10] in base all’effettiva volontà del ricorrente, quale è desumibile dal tenore complessivo dell’impugnativa e dal contenuto delle censure ivi dedotte[11], sicché il giudice può individuare dal contesto del ricorso il significato delle doglianze e la tipologia di domande formulate dalla parte[12].
Tale potestà del giudice è stata espressamente ricondotta alla necessità di garantire la pienezza della tutela giurisdizionale[13]: costituisce – si dice – una articolazione del principio di effettività la circostanza che il giudicante possa (e debba) procedere ad una interpretazione del petitum e della causa petendi facendo perno, non solo sulle argomentazioni chiaramente esplicitate nel testo dell’atto processuale, ma anche su quelle che emergono dall’intero contesto del gravame[14].
Connesso con il potere di interpretazione della domanda è quello di conversione ex art. 32 c.p.a.[15]: l’organo giurisdizionale potrà disporre la conversione dell’azione solo dopo aver proceduto ad una qualificazione della domanda[16], basandosi sulle ragioni esposte dal ricorrente e sulle richieste da egli formulate, se del caso convertendola in quella che ritiene appropriata, ove ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma: ciò al fine di soddisfare immanenti esigenze di economia processuale e di dar seguito al principio di effettività della tutela giurisdizionale[17].
E, però, la potestà di qualificazione offerta al giudice incontra un evidente limite recato dal necessario rispetto del principio dispositivo che, pur non espressamente richiamato tra i principi enunciati nel capo I del titolo I del libro I del Codice del processo amministrativo, dedicato ai «principi generali», trova un riconoscimento nell’art. 34, comma 1, c.p.a. dove si stabilisce l’obbligo del giudice di pronunciarsi «nei limiti della domanda» e, comunque, negli artt. 99 e 112 c.p.c., espressamente applicabili al processo amministrativo[18] anche in ragione del rinvio esterno operato dall’art. 39 c.p.a.[19]
Tale principio è evidentemente violato quante volte il giudice alteri petitum e causa petendi pronunciandosi in merito ad un bene diverso da quello richiesto, che non sia nemmeno implicitamente compreso nella domanda, o qualora ponga a fondamento della decisione fatti o situazioni estranei alla materia del contendere[20].
L’interpretazione e la qualificazione della azione è, dunque, consentita con una certa elasticità, ma con la preclusione di esaminare questioni non espressamente formulate dalle parti.
Ovviamente, è compito del giudice quello di interpretare la domanda (o le domande) proposte, tenendo presente il loro contenuto sostanziale quale desumibile dagli atti del giudizio e dalle allegazioni delle parti, ma sempre nel rispetto del divieto di ultra o extra petita.
3. Segue: l’individuazione per relationem delle domande formulate
Nello svolgere i compiti qualificatori e interpretativi delle azioni proposte dalle parti, il giudice dovrà attenersi agli atti prodotti in giudizio, non essendo possibile trarre dagli allegati indicazioni utili per la precisazione della domanda ma, al più, per la dimostrazione degli elementi fattuali che la sottendono.
Appare, quella appena illustrata, una esplicitazione della regola espressa dall’art. 40 c.p.a., comma 1, lett. f), secondo cui il ricorso deve contenere distintamente l’indicazione dei provvedimenti (evidentemente, anche cautelari) richiesti al giudice.
Analoga regola è contenuta, per il giudizio di appello, dall’art. 101 c.p.a.[21].
Non sono, dunque, ammissibili censure svolte per relationem, né in primo grado[22], né in seconde cure[23], né, a maggior ragione, in sede di revocazione[24].
È, quella appena esposta, una articolazione amministrativistica del principio di autosufficienza, impiegato (con interpretazione altrettanto pacifica, quanto discutibile) dalla Cassazione che lo ha dedotto dall’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c.[25].
Un principio, questo, che viene ritenuto applicabile anche nel giudizio innanzi al g.a.[26], seppur nella forma attenuata innanzi richiamata e, cioè, facente perno sull’onere della parte di specificare negli atti processuali le censure e le domande.
Tale onere è espressamente riaffermato anche con specifico riferimento agli atti con cui si chiedano misure interinali, come chiaramente evincibile vuoi dall’art. 55, comma 3, vuoi dall’art. 56, comma 1, c.p.a., che presuppongono che la domanda di misure cautelari debba essere contenuta in apposito atto notificato alle controparti.
Anche l’art. 61 (come detto inconferente nel caso di specie), con riferimento alla cautela ante causam, prescrive che sia presentata una domanda apposita nella quale vengano esplicitate le ragioni di eccezionale gravità ed urgenza che fondano la richiesta.
La mancata indicazione di tali ragioni nel testo del gravame con il quale la istanza è veicolata ha portato a ritenere inammissibile la richiesta di misure cautelari monocratiche[27].
4. Alcune conclusioni
È giunto il momento di verificare in che modo l’insegnamento giurisprudenziale sul generale potere di qualificazione della domanda spettante al giudice amministrativo si rifletta nel caso di specie.
Non pare dubbio che da tale generale potere di qualificazione – dai suoi limiti quali forgiati in giurisprudenza – non si possono trarre elementi che giustifichino la soluzione assunta con il decreto annotato. Il quale, anzi, si pone in contrasto con quei medesimi limiti.
Non convince, in altri termini, la tesi volta a conferire alla semplice spunta di un modulo per il deposito degli atti nel processo telematico, il ruolo di strumento idoneo a manifestare la volontà delle parti processuali e di mezzo utile per chiarire quali siano le domande da essi proposte.
Vi ostano le regole ed i principi innanzi richiamati.
Lo impedisce altresì il dato testuale ricavabile dall’art. 56 c.p.a. il quale, come evidenziato, vuole che la richiesta di tutela cautelare urgente non sia rinvenibile in una attività materiale purchessia (la spunta di una casella di un modulo, per l’appunto), ma sia esteriorizzata in una vera e propria «domanda cautelare», espressione di una attività intellettiva declinata in un discorso giustificativo che manifesti univocamente così l’oggetto della richiesta, come i presupposti che ex lege debbono accompagnarla.
Insomma, per nessuna ragione è permesso omologare quoad effectum una mera attività materiale ad una «domanda cautelare» con quei requisiti di forma-contenuto.
Se i concetti tramandati da una lunga tradizione hanno ancora un senso (se le parole hanno un senso, verrebbe da aggiungere), altro è la spunta di una casella, altro il contenuto dichiarativo di una «domanda» giudiziale[28] (quale che sia, senza dubbio anche «cautelare»).
Va da sé, poi, che non sempre l’opzione sostanzialistica è quella che garantisce maggiore tutela[29], ed anzi in taluni casi si può ritorcere in danno della parte e presentare persino dei gravi rischi, quando dall’adozione del provvedimento derivino precise conseguenze, come accade in materia di appalti pubblici dove, al riscontro negativo della richiesta di cautela accidentalmente proposta, consegue il venir meno del periodo di stand still[30].
La vocazione creativa della giurisprudenza ha certamente giovato alla evoluzione del diritto amministrativo[31], anche di quello processuale. E tuttavia è auspicabile ponderatezza e senso del limite nel giudicare, e anche nel giudicare del senso e della portata delle norme processuali, tanto più quando esse siano di adamantina chiarezza.
[1] T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. I, decr. 31 dicembre 2020, n. 503.
[2] La prima parte dell’art. 56, comma 1, stabilisce, come noto, che «prima della trattazione della domanda cautelare da parte del collegio, in caso di estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio, il ricorrente può, con la domanda cautelare o con distinto ricorso notificato alle controparti, chiedere al presidente del tribunale amministrativo regionale, o della sezione cui il ricorso è assegnato, di disporre misure cautelari provvisorie».
[3] Tra l’altro, il comma 2 esige che il giudice adito verifichi, prima di provvedere con decreto motivato, «che la notificazione del ricorso si sia perfezionata nei confronti dei destinatari o almeno della parte pubblica e di uno dei controinteressati».
[4] Il comma 5 dispone che – se la parte si avvale della facoltà di cui al secondo periodo del comma 2 – «le misure cautelari perdono efficacia se il ricorso non viene notificato per via ordinaria entro cinque giorni dalla richiesta delle misure cautelari provvisorie».
[5] R. LEONARDI, La tutela cautelare nel processo amministrativo. Dalla L. 205/2000 al Codice del processo amministrativo, Milano, 2011, 249. Circa l’influenza della giurisprudenza comunitaria sull’evoluzione della tutela ante causam, cfr. M.V. LUMETTI, Processo amministrativo e tutela cautelare, Padova, 2012, 30.
[6] Sul punto v. M.A. SANDULLI, La fase cautelare, in Dir. proc. amm., 2010, 1130 e spec. 1150, dove viene fatto notare che le limitazioni al principio del contraddittorio attentano alla realizzazione di un processo giusto anche in fase cautelare.
[7] A. PANZAROLA, Il giudizio cautelare, in B. SASSANI, R. VILLATA (a cura di), Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, vol. I, Torino, 2012, 813 e spec. 826.
[8] R. TISCINI, Prevalenza della sostanza sulla forma e sue recenti applicazioni, in Riv. dir. proc., 2018, 465.
[9] M.A. SANDULLI, Giurisprudenza creativa e digitalizzazione: una pericolosa interazione che accresce i rischi di incertezza sulle regole processuali, in Federalismi, n. 1, 2021.
[10] Cfr. V. DOMENICHELLI, Il principio della domanda nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2020, 27 e spec. 30: «Sebbene il rispetto dei motivi di ricorso venisse considerato la massima espressione del principio dispositivo nel giudizio di impugnazione e di annullamento, il giudice non si è sentito mai troppo vincolato ad essi, non perché ritenesse addirittura di poter individuare motivi che non erano stati fatti valere dal ricorrente, quanto perché poteva, si perdoni l’espressione, “manipolarli”, individuando motivi se non inespressi, espressi per implicito, in quanto contenuti in altri più ampi, o sviluppandone altri non adeguatamente sviluppati o esplicitati in termini solo embrionali».
[11] Cons. Stato, sez. IV, 20 ottobre 1992, n. 910; Id., sez. V, 9 ottobre 2003, n. 6070; Id., sez. IV, 10 dicembre 2003, n. 8117 ; Id., sez. V, 21 giugno 2007 n. 3474; Id., sez. V, 7 maggio 2013 n. 2464.
[12] Cons. Stato, sez. II, 30 novembre 2016, n. 2669/2016.
[13] Sul punto v. le osservazioni di M. NIGRO, Processo amministrativo e motivi di ricorso (1975), ora in ID., Scritti giuridici, tomo II, Milano, 1996, 1113 e spec. 1115: «Sono convinto che l’impianto e il corso del processo amministrativo debbano essere guidati da tecniche più elastiche, tecniche che consentano la maggiore possibile aderenza del processo alle situazioni concrete, la cui realizzazione o protezione è il fine reale di esso».
[14] Cons. Stato, sez. IV, 18 novembre 2014, n. 5662.
[15] F. FOLLIERI, Qualificazione e conversione dell’azione alla prova del principio della domanda, in Dir. proc. amm., 2013, 177.
[16] La conversione presuppone la necessaria qualificazione della azione intrapresa: G. CORSO, Art. 32, in A. QUARANTA, V. LOPILATO (a cura di), Il processo amministrativo, Milano, 2011, 326.
[17] Cons. Stato, sez. V, 22 ottobre 2015, n. 4844; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 25 gennaio 2021, n. 982.
[18] M. NIGRO, Domanda (principio della). Diritto processuale amministrativo (1989), ora in ID., Scritti giuridici, tomo III, Milano, 1996, 2005.
[19] Cons. Stato, Ad. Plen, 13 aprile 2015, n. 4. In argomento v. A. TRAVI, Recenti sviluppi sul principio della domanda nel processo amministrativo, in Foro it., 2015, III, 286; M. TRIMARCHI, Principio della domanda e natura del processo secondo l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in Dir. proc. amm., 2015, 1101; G. GALLONE, Processo dispositivo e processo dirigistico, in E. FOLLIERI, A. BARONE (a cura di), I principi vincolanti dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato sul codice del processo amministrativo (2010-2015), Padova, 2015, 747.
[20] Cons. Stato, sez. V, 11 aprile 2016, n. 1419.
[21] Sull’attenzione dedicata dal c.p.a. ai requisiti formali degli atti processuali v., in generale, F. FRANCARIO, Principio di sinteticità e processo amministrativo. Il superamento dei limiti dimensionali dell’atto di parte, in Dir. proc. amm., 2018, 129.
[22] T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, 21 febbraio 2019, n. 305: «L’atto introduttivo, nonché gli eventuali motivi aggiunti, devono contenere l’esposizione dei motivi su cui il gravame si fonda, per cui sono inammissibili i motivi di impugnazione dedotti per relationem, e cioè mediante il semplice richiamo alle censure dedotte in altro e diverso atto».
[23] Cons. giust. amm., 1 luglio 2019, n. 609: «Il rinvio per relationem ai motivi di primo grado non ha alcuna valenza, atteso che l’atto di appello deve contenere in sé l’elencazione dei motivi di censura».
[24] Cons. Stato, sez. II, 24 settembre 2020, n. 5607.
[25] La letteratura sul punto è assai vasta. Si v., per tutti, F. SANTANGELI, Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in Riv. dir. proc., 2012, 607. È risaputo che, a seguito della adozione dei noti protocolli, il principio di autosufficienza dovrebbe essere interpretato nella sua versione c.d. «mite» (onerando il ricorrente del compito di indicare puntualmente atti e documenti richiamati nel ricorso). Si sa, però, che, a dispetto del protocollo, non mancano tuttora pronunzie della Suprema Corte che intendono il principio di autosufficienza in «senso forte», ponendo a carico del ricorrente l’ulteriore onere di trascrizione, nel corpo del testo, del contenuto degli atti e documenti richiamati.
[26] Cons. Stato, sez. IV, 18 luglio 2018, n. 4375; T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. III, 17 febbraio 2020, n. 386. Di diverso avviso Cons. Stato, sez. III, 18 luglio 2018, n. 4378: «Contrariamente a quanto afferma la parte ricorrente, il Codice del processo amministrativo più volte riprende il principio di sinteticità degli atti. In particolare al riguardo si ricorda che: - l’articolo 3, comma 2, del c.p.a. prevede il cardine fondamentale per cui “il giudice e le parti redigono gli atti in materia chiara e sintetica”; - l’articolo 74 consente in linea di principio, secondo i casi, “un sintetico riferimento al punto di fatto e di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme”; - l’art. 88, comma 1, che disciplina specificamente la motivazione della sentenza, tra l’altro, prevede alla lett. d) “la concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione, anche con rinvio a precedenti cui intende conformarsi”. Dunque non si rinviene nell’ordinamento processuale amministrativo alcun “principio di autosufficienza”».
[27] Cons. Stato, sez. III, decr. 5 luglio 2013, n. 2536, dove si legge: «- che al momento del deposito del ricorso in appello, l’Ufficio Ricevimento Ricorsi del Consiglio di Stato, presumibilmente in conformità ad una segnalazione verbale del depositante, ha rubricato il ricorso stesso come contenente, fra l’altro, una istanza di “misure cautelari provvisorie”, intendendosi per tali il decreto monocratico di cui agli artt. 56 e 98 c.p.a.; - che peraltro può apparire dubbio che la richiesta di decreto cautelare monocratico sia effettivamente contenuta nell’appello: ed invero, nelle conclusioni del ricorso si legge soltanto che la parte chiede “l’accoglimento dell’appello ... previa sospensione, anche con provvedimento anteudienza, dell’efficacia della sentenza”, espressione di per sé equivoca, in quanto propriamente parlando anche l’ordinanza collegiale cautelare è pronunciata “anteudienza”, ossia in camera di consiglio; inoltre manca ogni riferimento al carattere monocratico (e non collegiale) del provvedimento richiesto, laddove l’art. 56 c.p.a. vuole che il provvedimento cautelare urgente sia espressamente richiesto “al presidente... della sezione cui il ricorso è assegnato”; - che a maggior ragione appare dubbio che in concreto vi sia l’intenzione della parte di ottenere il provvedimento urgente di cui all’art. 56 c.p.a., dato che secondo la medesima norma sarebbe un elemento essenziale della relativa istanza la prospettazione delle specifiche ragioni di una urgenza “tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio”, mentre nella fattispecie le supposte ragioni di urgenza non sono neppure accennate; - che tuttavia, volendo tutto concedere alla tutela giurisdizionale, anche cautelare, della parte, si può accedere ad interpretare il ricorso come rivolto appunto ad ottenere, fra l’altro, anche un decreto monocratico (presidenziale) cautelare; - che però anche in tale ipotesi la relativa istanza appare inammissibile, siccome sfornita di qualsivoglia motivazione riguardo alle esigenze cautelari, d’urgenza o meno».
[28] Sul punto si rinvia alla esemplare voce di C. CONSOLO, Domanda giudiziale, in Dig. disc. priv., Sez. civ., vol. VII, Torino, 1991, 44.
[29] R. TISCINI, Prevalenza della sostanza sulla forma, cit., 465.
[30] Come autorevolmente osservato da M.A. SANDULLI, Giurisprudenza creativa e digitalizzazione, cit.: «La regula iuris teoricamente affermata con il decreto in oggetto può essere estremamente pericolosa nel contenzioso in materia di aggiudicazione dei contratti pubblici. È noto, infatti, che il rigetto della domanda cautelare – collegiale o monocratica – determina la cessazione dell’effetto sospensivo automatico prodotto dalla sua proposizione, il che rende, all’evidenza, inopportuna la formulazione di istanze monocratiche. Quid iuris se, per errore materiale, la segretaria “flagga” la relativa casella?»
[31] A. SANDULLI, il giudice amministrativo e la sua giurisprudenza, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 1363.
Bruno Capponi intervista Bruno Sassani
Lo scorso novembre il prof. Bruno Sassani ha cessato, per raggiunti limiti di età, l’insegnamento di ruolo del diritto processuale civile presso l’Università degli Studi di Roma 2 - Tor Vergata. Studente a Perugia, era stato indirizzato verso la non facile materia da due grandi giuristi: Alessandro Giuliani e Nicola Picardi.
È autore di un manuale adottato in molte Università ed è stato tra i primi a capire le potenzialità del web fondando Judicium. Il processo civile in Italia e in Europa, in assoluto una delle nostre prime riviste elettroniche e di certo oggi una delle più diffuse.
Bruno Sassani non ama le chiacchiere e non fa chiacchiere, come dimostrano le risposte che leggiamo di seguito, ognuna delle quali è un distillato del suo pensiero.
Oralità, concentrazione, immediatezza: cosa ti sembra sia rimasto della forza di tali principi, che continuiamo a trasmettere agli studenti come fossero le stigmate del processo civile “moderno”?
Praticamente nulla. Tutto si regge su una bugia mantenuta per la fascinazione di un mito fondativo che ci lusinga e nobilita. Si salva solo il procedimento cautelare. Fino a poco tempo fa funzionavano discretamente i procedimenti in camera di consiglio che oggi però sono diventati più lenti e improduttivi. Il rito ordinario è un’agonia, tanto in primo grado che in appello. E anche l’incremento dell’uso della procedura dell’art. 281-sexies esprime sempre più spesso la volontà di trattare cause complesse banalizzandole in modo da proteggersi dal gravoso lavoro di sciogliere i nodi. Nodi che così vengono tagliati, quando non evitati: la cultura della motivazione “per precedenti” aiuta moltissimo.
Cosa pensi degli ultimi pronunciamenti della Cassazione sulla giurisdizione, che hanno aperto una nuova linea di conflitto con il Consiglio di Stato coinvolgendo la Corte di giustizia UE?
Mi viene in mente la mossa dei signori rinascimentali che, in guerra tra loro, chiamavano in proprio aiuto il re di Francia o di Spagna. Certamente la decisione del Consiglio di Stato che ha originato la vicenda è una bestemmia, ma le SU avrebbero avuto tutti i mezzi per cassarla senza tante storie, al più spiegando come i limiti di principio posti dalla sentenza della Corte costituzionale ne giustificavano una disapplicazione nel caso di specie. Non solo invece hanno voluto regolare i conti con il Consiglio di Stato, ma hanno chiesto alla Corte di Giustizia di dare una lezione alla stessa Corte costituzionale, cioè all’ordinamento costituzionale italiano che viene presentato come non compliant con l’ordinamento comunitario.
Non vorrei essere nelle vesti del povero Avvocato dello Stato alle prese con il conflitto interno a Lussemburgo.
Più in generale, cosa pensi dell’attuale funzionamento della Corte di Cassazione quale “organo della nomofilachia”?
Posso appellarmi al V emendamento? Se non posso, come mi pare, mi limito a dichiarare che non sono convinto che si tratti di una esperienza positiva. Per molte ragioni che ho cercato di spiegare più volte nei luoghi opportuni (a partire dal grande equivoco sull’idea di “precedente”). Ormai però il treno è partito e – motus magis velocior – non si vede chi lo possa fermare. Non linee di pensiero dissenzienti nella magistratura (non ne vedo); non la nobile dottrina del processo civile che, salvo poche eccezioni, pensa ad altro; non la classe forense, divisa, disinteressata e inconcludente (si è fatta espellere dalla partecipazione alla Camera di consiglio senza fiatare, anzi collaborando alla sua eliminazione con appositi Protocolli).
Cosa pensi dell’attuale orientamento sul “pregiudizio effettivo”, allorché si faccia questione di violazione delle norme processuali?
Discorso delicato. Senza mediazioni culturali, il tradizionale vizio formalistico della nostra giurisprudenza è stato doppiato (doppiato, non soppiantato, intendiamoci) dall’inebriamento per un vago antiformalismo. Nelle sue espressioni generalizzanti, proprie delle massime correnti, l’orientamento è pericoloso, laddove il rimedio all’abuso sta piuttosto nell’art. 156 c. 3 del codice di rito e nella consapevole degradazione di molte pretese nullità a vizi non invalidanti.
Quale pensi sia stato il contributo degli studiosi della tua generazione allo studio del processo civile?
Anche questa è una domanda scivolosa, anche essa da V emendamento. Ma in definitiva mi consolo immaginando che non ci sia stata una “mia generazione”. Sono portato a porre idealmente fuori nella generazione precedente quei giuristi come (exempla nominis) Francesco Luiso o Nicolò Trocker che – loro sì – hanno segnato un progresso rispetto alle generazioni precedenti, ancora impregnate di costruttivismo sistematico senza ripudiarne il cospicuo lascito (per il primo, penso alla liberazione del contraddittorio dalle pastoie dell’efficacia riflessa in cui giurava il suo stesso mondo culturale; per il secondo penso alla forza che dato alla dimensione costituzionale ed europea della tutela giurisdizionale). Altri della stessa fascia temporale non hanno “fatto generazione” (se mi si consente) nel senso che potrebbero ben brillare accanto agli esponenti delle generazioni a cui debbono la cattedra.
Dopodiché la dottrina del “diritto processuale” oggi si accontenta di recitare il ruolo di “formante secondario” (si passi l’orrido termine di Sacco), dal momento che “formante primario” è diventata (più che la giurisprudenza) la c.d. “dottrina delle corti”. E questo malgrado il grande dispendio di cultura, passione e intelligenza di moltissimi dei più giovani.
Che valutazione dai dell’attuale normativa emergenziale sul COVID-19 e dei provvedimenti “normativi” che sono stati adottati da vari Uffici giudiziari? Cosa pensi dell’udienza da remoto sulle piattaforme informatiche?
Normativa, appunto, emergenziale: tutti abbiamo trovato buchi da rammendare ma sarebbe ingeneroso guardarla al microscopio. Questo vale anche per la legiferazione fiorita negli uffici giudiziari, talora unilaterale ma spesso frutto di protocolli concordati con gli Ordini forensi. L’importante è che la applichi senza fanatismi e rigorismi, del tutto inappropriati.
Non vedo di malocchio né l’udienza scritta, né quella da remoto che, paradossalmente, permette a mio avviso una migliore partecipazione dell’avvocato.
Restando sull’uso delle piattaforme, cosa pensi dei corsi universitari impartiti da remoto?
Meglio che niente: ancora dieci anni fa avremmo chiuso e basta. Distinguerei, comunque. Molti studenti giudicano positivamente l’esperienza: la lezione può essere seguita in una situazione comoda e la registrazione dà la possibilità di riprendere il filo e di calarsi nel flusso della lezione. Per il docente è una posizione innaturale: la mancanza di una platea viva rende tutto più difficile. Abituato a parlare a braccio, aiutato da un pubblico reattivo, ho sentito ben presto il bisogno di un testo completo da seguire (e quindi da preparare ad hoc), pena la perdita della concentrazione. È stancante, comunque.
Che idea hai della sinteticità degli atti processuali e degli strumenti idonei a perseguirla?
Dell’atto sintetico, tutto il bene possibile; in genere la lunghezza non è approfondimento e il suo miglior destino è far da barriera a chi sa di aver torto. Naturalmente il problema non può essere affrontato con il sistema metrico decimale, e la ragionevolezza del caso concreto dovrebbe regnare sovrana.
Quanto alla sinteticità della decisione, si tratta spesso di una comoda scappatoia, in un contesto che mira a premiare la motivazione pigra, più che la motivazione puntuale. E una motivazione pigra è sovente il sintomo di scelte mal difendibili. Ma la crisi oggi investe lo stesso concetto di motivazione.
Quali dovrebbero essere le caratteristiche di chi, oggi, si appresta a studiare il processo civile?
La pazienza e l’umiltà. Quelli che hanno cominciato quando io ho cominciato, erano stati attratti tanto dalla bellezza della costruzione, che sembrava mettere alla prova l’ingegno di chi vi si avvicinava, quanto dalla forza morale delle parole d’ordine ricordate nella prima domanda, quanto ancora dalle nuove sfide sociali che si affacciavano (erano gli anni del “nuovo processo del lavoro”). Dunque, orgoglio e prospettiva di ricompensa intellettuale.
Qualità, queste, che deve certo possedere il neofita, ma con l’avvertenza che, per esercitarle e trarne una gratificazione, deve avere anche la consapevolezza che il diritto del processo è ormai altrove, non tanto – e mi ripeto – nella giurisprudenza (che sarebbe cosa buona e giusta) ma nella c.d. dottrina delle corti, che è altra cosa (meno buona e meno giusta).
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